Io che ho visto i delfini rosa
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E poi rimane da parlare di tutto il libro. E per farlo finiremmo domani mattina, perché le cose da dire sono tante, ma veramente tante. Mi limito a dire che è un romanzo di gente di passaggio, gente triste come i vagoni di un treno che finiscono in un deposito. Ci sono vite spezzate di vecchi e di giovani, di persone che non riescono a far quadrare i conti con la vita, che a volte si diverte troppo e non si fa addomesticare. C'è un racconto che sta in equilibrio sulla corda sottile della finzione, un racconto che ha l'enorme merito di apparire inconsapevole di quel che succede, soccombendo alle storie e alle false verità degli interpreti del romanzo.
Un racconto dove lo scrittore stesso si lascia guidare dalla storia, dove l'autore è tanto grande da lasciarsi sopravanzare dagli eventi che prendono consistenza, dai personaggi che rivendicano la loro autonomia e vivono da soli, senza farsi guidare. Con splendide descrizioni di una Roma crepuscolare, spogliata per una volta di tutte le stelle più brillarelle. Per una volta priva di mille e un'étoile.
E scene d'azione, di lotta e dei colpi di karate che sono da manuale descritte e che rendono questo romanzo un piccolo capolavoro.
MARIO GEROSA
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Anteprima del libro
Io che ho visto i delfini rosa - Biagio Proietti
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2021 Oltre S.r.l.
Marchio editoriale Oltre edizioni
ISBN 9791280075369
Titolo originale dell’opera:
Io che ho visto i delfini rosa
di Biagio Proietti
Marchio editoriale OLTRE
Collana *I Gialli Oltre*
diretta da Diego Zandel
prima edizione cartacea: giugno 2021 con ISBN 9791280075215
Sommario
(note bio-bibliografiche)
Personaggi
Capitolo 1 - Un uomo chiamato Socrate
Capitolo 2 - Rosso Malindi
Capitolo 3 - Un amore mai dimenticato
Capitolo 4 - Il ritorno di una stella
Capitolo 5 - Riflessi in uno specchio
Capitolo 6 - Bello come un dio
Capitolo 7 - è sempre per colpa di qualcuno se non si è felici
Capitolo 8 - Una giornata di sole qualunque
Capitolo 9 - profumo di famiglia
Capitolo 10 - che la festa cominci
Capitolo 11 - morte a San Pietro in vincoli
Capitolo 12 - parte l’indagine
Capitolo 13 - serata d’onore
Capitolo 14 - caccia all’uomo
Capitolo 15 - la fuga
Capitolo 16 - è sempre colpa di qualcuno se non si è felici
Capitolo 17 - Alice nel paese delle meraviglie
Capitolo 18 - Caritas
Capitolo 19 - Il principe
Capitolo 20 - L’amante inglese
Capitolo 21 - È la stampa, bellezza!
Capitolo 22 - Il desiderato oblio
Capitolo 23 - Fuori ci sono i lupi
Capitolo 24 - La notte della barbona
Capitolo 25 - Trastevere
Capitolo 26 - L’agguato
Capitolo 27 - Notte senza fine
Capitolo 28 - Ritorno a Itaca
Capitolo 29 - Il Sostituto Procuratore, nell’esercizio delle sue funzioni
Capitolo 30 - Il risveglio
Capitolo 31 - Un conto misterioso
Capitolo 32 - Pollicino
Capitolo 33 - Famiglie – non è mai tardi per iniziare
Capitolo 34 - Famiglie – Le affinità elettive
Capitolo 35 - Famiglie – Le bambine sembrano felici
Capitolo 36 - Famiglie – Arriva la sera, finalmente
Capitolo 37 - Famiglie – Una rampa di scale
Capitolo 38 - Camerieri
Capitolo 39 - Un incidente, venti anni prima
Capitolo 40 - Le ragazze sono ingenue
Capitolo 41 - Amore di padre
Capitolo 42 - Galeotta fu la doccia
Capitolo 43 - Una notte drammatica
Capitolo 44 - Socrate ha un nome
Capitolo 45 - Il passato ritorna
Capitolo 46 - La stagione della caccia
Capitolo 47 - Come un palloncino che si buca e si sgonfia
Capitolo 48 - Un ragazzo chiamato Nick
Capitolo 49 - Figlio
Capitolo 50 - Follie ci vogliono
Capitolo 51 - DNA per una madre
Capitolo 52 - Mamma!
Capitolo 53 - Confessione
Capitolo 54 - La verità
Capitolo 55 - Il tesoro di Socrate
Capitolo 56 - Compiti a casa
Capitolo 57 - Nodi
Capitolo 58 - Non è mai tardi per coronare un sogno
Capitolo 59 - Ada Che tutti chiamano Signora Ada
Capitolo 60 - Triste y final
PERSONAGGI
Daniela Brondi
Arturo Brondi, suo padre
Socrate
La Signora Ada
Marcello Gandolfi, Sostituto Procuratore
Giulia, sua figlia
Philip Nott
Ferri
Clara
Paola
Bonetti, Capo Scientifica
Claudia Savarese
Dimitri Petrov
Alice Faye
Laura Carli
Nicola detto Nick
Riccardo Menarini
Sara
Jerry
Il maestro Kutsenov
Radu
Maria Grazia Mancuso
Brigadiere Mancuso
Milos
Branko
Jan
Il padre di Jan
Il Principe Giustiniani
La novizia alla Caritas
Vecchio alla mensa
L’AUTORE
BIAGIO PROIETTI
Biagio Proietti è nato a Roma nel 1940. E’ stato attivo nel cinema e in televisione tra gli anni settanta e ottanta. Ha legato il suo nome al film horror Black Cat (Gatto nero) e ad alcune serie televisive, tra le quali spiccano due di grande successo Coralba e Dov’è Anna?. Sua anche la miniserie sull’investigatore Philo Vance interpretato da Giorgio Albertazzi. Nel 2014 è uscito il romanzo Dov’è Anna, per 21 Editore, tratto dalla sua omonima serie, firmandolo con Diana Crispo, sua compagna nella vita oltre che sul lavoro.
Ha scritto anche per il teatro e per la radio.
Lo scorso anno, è uscito un libro testimonianza sulla sua vita e le sue opere nel libro Biagio Proietti, un visionario felice, a cura di Mario Gerosa.
Attualmente fa parte del Consiglio di gestione della SIAE e del direttivo di Writers Directors Worldwide.
CAPITOLO 1
UN UOMO CHIAMATO SOCRATE
Io che ho visto i delfini rosa, dice con voce stentorea, lasciando la frase in sospeso, l’uomo che tutti chiamano Socrate.
Anche se sanno che non è il suo vero nome: nessuno conosce quello autentico. Nel mondo delle ombre, com’è definito, con poetica falsità, il mondo dei barboni, conta il nome con il quale sei conosciuto, il resto non esiste: la vera identità è un bene che appartiene al mondo altro.
A quelli che vivono in case riscaldate durante il gelido inverno, che mangiano tutti i giorni, seduti a tavole imbandite. Loro, i barboni, dormono dove capita, mangiano nelle mense della Caritas, quando riescono a entrare.
Socrate si considera fortunato perché si è creata una specie di casa, in un posto bellissimo, in una città come Roma. Appena si sveglia, la prima cosa che vede è il Colosseo. Socrate ha trovato rifugio su una scalinata di marmo, che una volta era l’ingresso di un grande Liceo. Poi è stata abbandonata e chiusa, per la scuola hanno preferito aprire una porta più ampia, senza scale, nella parte anteriore dell’edificio.
La scala di marmo bianco così è diventata un accessorio inutile, dimenticato: il portone della scuola è sempre chiuso, nella parte interna sono stati appoggiati pesanti armadi di metallo. Chissà che cosa ci sarà dentro, neanche quelli della scuola lo sanno. Nessuno ha curiosità di andare a guardare.
Un giorno, nel suo lungo e continuo girovagare, Socrate è passato da quelle parti, ha visto la polizia sgombrare il barbone che lassù si era fatto il nido. Ha aspettato una notte, quindi si è sistemato lui, con un materasso rimediato da qualche parte, la sua sacca piena di vestiti, un altro pacco che non è mai aperto davanti a qualcuno.
Leggende sono nate su quel pacco, definito il tesoro di Socrate, un paio di persone ha provato a rubarlo. Socrate è un uomo gentile, però in grado di farsi rispettare, anche perché è alto quasi due metri, pur se magro e allampanato: con qualche pugno ben assestato e alcuni calcioni tirati nei punti giusti, ha messo in fuga i suoi imprudenti aggressori; da allora nessuno ha provato più a rubargli qualcosa. Anche in quel mondo le voci girano e ti cuciono addosso una fama, più o meno giusta, che ti permette di essere rispettato. Lì se non hai il giusto rispetto, sei morto. In senso reale.
Da due mesi, Socrate ha eretto la bianca scala a sua dimora, nessuno ha provato a insidiarlo; lui sta bene lì, a due passi dal Colosseo, sopra di sé la chiesa e la piazza di S. Pietro in Vincoli, intorno, un quartiere che ancora conserva il sapore della vecchia Roma. A poca distanza, nel giardino del Colle Oppio, c’è la mensa della Caritas, in via delle Sette Sale. Un posto così è degno di essere abitato da un uomo eccezionale: Socrate lo è, anche se lui non lo pensa di se stesso.
In verità, nessuno sa che cosa veramente lui pensi. Non parla molto, ha una voce roca, al collo porta sempre un foulard di seta, quasi pulito, le mani sono protette da guanti bianchi di filo che a volte sembrano grigi, nessuno ha visto mai toglierseli, né il foulard né i guanti. Quando parla, Socrate lo fa con un linguaggio appropriato, senza essere forbito, parla a voce bassa, non dà in escandescenze, neanche quando è ubriaco.
Ubriaco lo è, tutte le sere.
CAPITOLO 2
ROSSO MALINDI
Daniela è accovacciata sulla sabbia, a pochi metri dalla risacca di un mare calmo, ha lo sguardo fisso su un sole che è una palla rossa, infuocata, mentre lentamente sta scendendo negli abissi. Prima, tinge di rosso tutto il cielo, in un modo che lei non ha mai visto in altre parti del mondo, neanche sul Rio delle Amazzoni, dove fece un viaggio memorabile per le emozioni vissute, triste per la conclusione di una storia d’amore. Sorride, pensando che in realtà quella è stata la sua unica storia d’amore, vera e abbastanza duratura.
Adesso, in questo tramonto che sa di sangue e di passione, lei prova l’ennesima sensazione che sta vivendo, da quando è arrivata a Malindi: è stupita ogni volta che fissa il cielo e il mare nel rendersi conto che è vero quando dicono che la terra è tonda, perché lì il cielo sembra tuffarsi nel mare e chiudere in modo totale la visuale, a conferma che la terra è tonda. Non a caso Malindi è sull’Equatore, per questo si ha la sensazione precisa di essere inseriti all’interno di un mappamondo, quelli con la luce che si accende nell’interno. Gira gira il mondo cantava la vecchia canzone di Jimmy Fontana.
– Uno spettacolo che non ti stanchi mai di ammirare – la voce del padre la sorprende, mentre viene a sedersi vicino a lei sulla spiaggia, che si trova davanti al lounge bar che lui ha aperto proprio al centro di Malindi, di fronte a un centro residenziale, che una volta era l’albergo storico, il primo, fatto nascere dagli inglesi.
– Non faccio fotografie perché tanto non ho nessuno cui farle vedere e a me non servono: queste immagini rimangono impresse nei miei occhi e nel mio cuore.
– Io vengo sempre sulla spiaggia a quest’ora, per noi il lavoro vero comincia più tardi, dopo cena.
– Anche di giorno avete un bel pubblico nel chiosco qui sulla spiaggia, fino all’aperitivo.
Il padre sorride: – Fino a quest’ora, dopo tutti rientrano in albergo o nelle case per prepararsi per la cena e per dopo…
–… quando affollano il tuo locale, mi piace il nome che gli hai dato
Baba B… potrei chiamarti baba anche io, mi piace più di papà – dice lei con un sorriso triste, ricordando che ha avuto poche volte modo di usare quella parola.
Il nostro è il posto giusto per avere incontri, da noi quello vengono a cercare, la possibilità di avere incontri… è la ricerca dell’amore, per non chiamarlo sesso, che li attira.
– Io sono venuta a cercare te, baba.
– Mi hai reso felice arrivando di sorpresa, finalmente abbiamo potuto passare qualche giorno insieme…
Qualche? Sono dieci giorni… purtroppo oggi è l’ultimo, partirò domani mattina.
L’uomo la guarda con tristezza: – Non me lo ricordavo o forse non me lo avevi detto.
No, non ti avevo detto niente, avevo fatto un biglietto aperto, non sapevo neanche io quando sarei partita.
– Da cosa dipendeva?
– Avevo bisogno di questo momento, avevo bisogno di stare con te, però, avevo anche una decisione importante da prendere.
– Lo avevo capito… se me ne avessi parlato, avrei potuto aiutarti.
– Lo hai fatto, più di quanto puoi immaginare, due giorni fa ho mandato un messaggio a Roma: ho accettato l’incarico che il mio capo, Cantini, mi ha offerto, sarò io a prendere il suo posto, a dirigere la Squadra Mobile di una città come Roma.
– Sono felice che hai accettato, è importante per la tua carriera. Inoltre Roma non è più dura di tutte le altre metropoli.
– Dopo essere stato il capo della Sezione Omicidi per qualche mese sono vaccinata… sono orgogliosa per questa proposta, che però mi riempie di paura, lo confesso.
– I tuoi superiori che hanno detto? Sono stati felici per la tua decisione?
– Sembra di sì, mi hanno ordinato di tornare subito, le mie ferie sono durate troppo.
– Ti accompagnerò io a Mombasa.
– No, mi sono già organizzata, ho chiesto aiuto al tuo socio, che ha deciso di accompagnarmi lui, anche se deve fare un’alzataccia… Piero è un caro ragazzo.
– Forse vorrà parlati male di me.
– Piero ti vuole bene e ti ammira per come sai lavorare. – Con un sorriso: – Io sto bene qui.
– Sembri ringiovanito, in grande forma.
– Il mio lavoro mi è sempre piaciuto, questo bar che ho aperto con Piero sta andando bene… con Baba B abbiamo dato vita a una cosa che piace alla gente.
– Perché si sente che a voi piace farlo.
– Per tutta la vita non ho fatto altro, ho dispensato alcol e illusioni, questo ho sempre fatto.
– Io voglio salutarti qui, a Malindi, dove ho passato giorni belli…non voglio piangere in aeroporto, una scena già vissuta a Fiumicino, quando sei partito tu.
– Sono felice che tu sia venuta… finalmente abbiamo avuto modo di stare insieme come non era mai successo… abbiamo anche parlato molto.
Lei non risponde, si perde a guardare il sole che ormai è sprofondato quasi del tutto nell’Oceano, continuando però a tingere di rosso il cielo.
Il padre sussurra: – Andiamo a fare il bagno, questo è il momento più bello, perché fra pochi attimi la notte scenderà di colpo.
Si alza di scatto, denotando un’agilità degna di nota per la sua età, si sfila la maglietta, le tende la mano per aiutarla a sollevarsi, la tiene per mano, senza dirle niente, entrano in acqua, lui in pantaloncini, lei con il pareo sopra il costume, felici di poterlo fare.
Nuotano per pochi metri, stando vicini, sempre fissando il sole: non vogliono perdere il momento finale, quando sparirà completamente. Avviene dopo pochi minuti, la notte li avvolge di colpo, la luce in Africa è sempre la cosa che ti sorprende di più, i colori sono netti, precisi, violenti, gli odori poi ti stordiscono, il buio della notte è profondo, privo del chiarore delle luci di qualsiasi grande città.
Loro due restano in acqua ancora nel buio, mentre lentamente si accendono le luci, lontane dalla spiaggia, sulla strada e nelle case. Lui la prende di nuovo per mano e la conduce fuori, sulla spiaggia, le fa indossare il suo accappatoio, lasciato su una sdraio, lentamente si avviano verso la casa, che si trova a fianco del lounge bar.
Daniela fissa il cielo: di notte hai sempre la sensazione che, se allunghi una mano, puoi toccare il cielo strapieno di stelle, tante e luminose che sembra ti debbano cadere addosso. Da un momento all’altro.
– Noi resteremo sempre giovani – dice all’uomo che le cammina accanto –abbiamo tanti giorni da recuperare.
– Io sono felice di aver avuto la forza di tornare da te con il cappello in mano, chiedendoti scusa, dovevo rivederti, dovevo conoscerti…
– Io tornerò presto papà... appena Roma mi lascerà libera.
– Quando ritornerai, mi troverai sempre qui… fin quando gli elefanti non mi porteranno via, prima o poi accadrà.
Lei non trova parole per replicare, un brivido di freddo le attraversa il corpo, nonostante che non si ci sia un alito di vento e il caldo sia sempre sui 40 gradi. Anche di notte sotto le stelle.
Per tetto un cielo di stelle, si chiamava un film che a lei da bambina era piaciuto molto, quando suo padre era lontano.
Allora non erano insieme, non per colpa degli elefanti che lo avevano portato via, ma di una donna che non era sua madre.
Una donna che lui aveva amato per tutta la vita.
E continua ad amare, anche adesso, che non c’è più.
CAPITOLO 3
UN AMORE MAI DIMENTICATO
Appena rientrato in ufficio, Gandolfi si slaccia la cravatta, la getta sulla poltrona riservata agli ospiti, di fronte alla sua scrivania, sempre piena di carte e di cialdoni, che nemmeno la computerizzazione riesce a far andare in meritata pensione negli scantinati degli archivi. Ancora si lavora così, carte e polvere, cancellieri e archivisti, tutti si lamentano che la giustizia sia lenta, per fortuna ancora qualche barlume resiste, pensa lui.
Si libera anche della giacca, questa però la ripone con ordine nell’armadio, da dove tira fuori la parte superiore di una tuta sbrindellata e logora, che lo fa sentire a suo agio. Finalmente si può vestire come preferisce, tanto non ha riunioni nel pomeriggio, ha già partecipato al rito dell’incontro – definito meeting, con l’uso sempre più terrificante e dilagante dei termini inglesi, alla faccia della bella lingua italiana – con il capo, il Procuratore Generale del Tribunale di Roma, insieme con gli altri sostituti, per fare il bilancio di tutte le inchieste che stanno seguendo e per distribuire i vari incarichi.
Una riunione durata due ore, insopportabili perché le ha dovute vivere abbigliato come un albero di Natale. Lui ama stare in jeans e felpa o nei comodi panni di una vecchia tuta che sulla schiena porta lo storico nome del Cus Roma, mitica squadra legata all’Università, di un rugby da poco lanciato verso traguardi internazionali, ancora irraggiungibili, anche se gli stadi si cominciano a riempire, con un tifo quasi calcistico.
A suoi tempi, solo gli amici e i parenti lo andavano a vedere, in campetti piccoli e fangosi, tranne quando si andava in trasferta nel mitico Veneto, dove, a turno, le varie città vincevano sempre gli scudetti; il rugby batteva anche il calcio da quelle parti, pensa Gandolfi, mentre si siede alla scrivania, pronto a riprendere l’esame delle carte di un processo che sta seguendo per una truffa colossale ai danni di poveri cristi, niente lo fa infuriare di più nello scoprire i danni che l’avidità umana fa, soprattutto alle persone più deboli, ai poveri della terra, il sale della terra, qualcuno li aveva definiti così, vecchie letture di quando era giovane e impegnato, adesso di tempo ne ha poco per questo tipo d’impegno, però l’etichetta di giudice rosso gli è rimasto addosso.
E non gli dispiace.
Persino il suo modo di vestire e di vivere ha rafforzato questa leggenda, un Robin Hood della magistratura, tutte stupidaggini, di vero c’è soltanto che ce la mette sempre tutta in ogni inchiesta, senza mai guardare in faccia nessuno, fregandosene delle raccomandazioni del suo capo di avere prudenza, sempre tanta prudenza, altrimenti qui si va tutti per aria.
Come se già non ci fossimo andati per aria, dice a voce alta, per la sua vecchia abitudine di parlare da solo, che aveva sin da giovane, diventata più forte, da tre anni a questa parte, da quando la sua giovane e bellissima moglie è morta, lasciandogli in eredità non solo un dolore difficile da superare ma, per fortuna, anche una bambina, diventata lo scopo assoluto della sua vita. Triste nonostante tutto: la mancanza di sua moglie è una ferita aperta, che non riesce a rimarginarsi.
Squilla il suono lontano del suo cellulare, rimasto nella tasca della giacca riposta nell’armadio, corre a prenderlo, vede sul display il nome di Philip, è felice di rispondere: – Come stai, vecchio rudere?
– Io sono sempre una colonna, forse vecchia ma sempre colonna – dice Philip con il suo italiano quasi perfetto, che a volte diventa comico per l’accento inglese, che ricorda la voce di Ollio, il grassone della mitica coppia Stanlio e Ollio, quando era doppiato da Alberto Sordi.
– Ti mantengono ancora all’Ambasciata?
– Mi stano facendo a pezzi per il lavoro, anche se sono felice di averne uno, di questi tempi.
– Che cosa stai preparando?
– Una festa – ci mette molta enfasi nel pronunciare la parola, quasi fosse un evento d’importanza mondiale.
– Perché te ne occupi tu che non sei del Cerimoniale?
– Sono sempre il responsabile delle Pubbliche Relazioni, saranno presenti televisioni, giornali, autorità.
Gandolfi ride: – Roba grossa, è un anniversario? È la festa in onore di una donna bellissima e famosa – dice con un tono di partecipazione che sorprende l’altro – Claudia Savarese. La più grande ballerina vivente.
– Accidenti, stai parlando di quella Claudia.
Philip non sorride nel rispondere: – Sì, è quella Claudia.
– Italiana dal nome direi.
– Italianissima, non è nata a Roma ma ci ha vissuto tanti anni, ora è cittadina inglese, fra qualche giorno arriverà il Royal Ballet of London, una nostra istituzione quasi sacra, si esibirà al teatro dell’Opera, con la Savarese come étoile, la sera prima daremo una grande festa in onore di lei e del balletto. Una cosa splendida, vedrai.
– Se mi stai chiamando, vuol dire che intendi invitarmi.
– Le botte che hai preso non ti hanno rincoglionito del tutto, l’invito ti è stato giù spedito, mi faceva piacere dirtelo a voce, anche per aiutarti a superare i tuoi dubbi, li hai, no?
– Certo che li ho, vale veramente la pena? Sai che una serata simile mi costerà molti soldi per la baby-sitter, che dovrò prendere per tutte quelle ore e di notte, giustamente hanno aumentato le tariffe.
La voce di Philip, restando buffa, diventa teneramente affettuosa: Devi uscire dalla tana, vecchio orso, non puoi fare solo ufficio e casa, lavoro e bambina.
– A casa ritrovo sempre Giulia, per me è una felicità.
– Per la sera della festa proverai quella gioia di notte, quando sarai di ritorno, non puoi dirmi di no, non te lo permetto.
– Se è così, non discuto, mi hai chiamato in tempo per impedirmi di trovare scuse.
– Ti conosco da troppi anni ormai, ti saresti inventato tutte le scuse, anche quelle impossibili, così non puoi, hai tutto il tempo per organizzarti, mi farà piacere rivederti.
– Con il casino che ci sarà? Tu speri che io incontri donne piacevoli, affascinanti, dalle quali farmi sedurre.
– Quello lo spero per me, non sono il tuo prosse… come si dice?
– Prosseneta si dice.
– Ok, prosseneta – detta da lui sembra un’altra parola – io voglio solo che tu esca dalla tana e torni alla vita.
– Fuori dalla tana, gli orsi, di solito, trovano neve e gelo, meglio restare al caldo.
– Avrai un salone caldo, bellissimo, sfavillante di luci con le donne più belle di Roma. – Gandolfi ha la tentazione di dire qualcosa, non lo fa, si arrende: – Va bene, ok, cedo, verrò.
– Non farai scherzi?
– Lo giuro, sul nostro passato di rugbisti.
– Il nostro glorioso passato è molto passato, adesso abbiamo anche la pancia.
– Tu hai la pancia, colpa della birra che bevi da bravo inglese.
– Anche per colpa del vostro cibo, io vado matto per la pasta e sono tre anni che vivo qui.
– Non esagerare con le nostre glorie, eravamo due schiappe.
– Però il nostro è un amore mai dimenticato.
– Stai parlando del rugby, ovviamente? –
Philip sorride nel dire: – Ovviamente. Ciao amico mio, ti aspetto.
– Verrò alla tua mitica festa. Ciao, a presto.
Riattacca, felice di aver parlato con un vecchio amico, gli ci voleva per togliersi di dosso la ruggine e la noia accumulate nel summit precedente. Si mette al lavoro, fino alle quattro, quando di corsa, come il solito, va a prendere la piccola all’asilo.
Giulia si butta contro di lui, lo abbraccia stringendolo alle gambe, quasi aggrappandosi; lui la prende, la tira su, la bacia una infinità di volte, mentre la bimba ride di gusto.
Felice di essere stretta fra le braccia del padre.
Al quale, quella notte stessa, basta un suono leggero per svegliarsi: il pianto di una bambina che dorme nella stanza accanto alla sua.
Gandolfi si alza con rapidità. Corre di là, la piccola si è messa a sedere nel lettino, piange piano, senza urla, un pianto di dolore, sicuramente un incubo. Lui accende la luce, le corre vicino, non la solleva, s’inginocchia a fianco del letto per poterle fare lievi carezze sulla testa, sul visino, le parla con dolcezza, cerca di farla riaddormentare.
In realtà la bambina sta piangendo nel sonno, spaventata da qualcosa che ha sognato; la voce di lui, la sua presenza la rassicurano, la inducono a ricadere in un sonno dolce e profondo.
Come dovrebbe essere sempre, quello dei bambini.
CAPITOLO 4
IL RITORNO DI UNA STELLA
L’addetto alla reception apre la porta dell’appartamento, accende le luci, la pilota fino al grande salotto, lo abbandona per un attimo, andando verso le persiane chiuse della porta finestra, le apre, il sole rende le luci inutili, le tiene la porta aperta aspettando che la oltrepassi, per mettere piede sulla terrazza, la leggendaria terrazza dell’Hotel de la Ville, quella della suite presidenziale, da dove si può ammirare il panorama di Roma.
Da lì ti lascia senza fiato quello che si vede dall’alto, Trinità dei monti, il Colosseo, la macchia bianca del Milite Ignoto, il rosso sconfinato dei tetti, fino alla cupola di San Pietro. Claudia per la prima volta vede Roma da quella terrazza, lei è cresciuta in città, ma quando era ragazza, non poteva permettersi un simile albergo, in