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Noi, i ragazzi dalla pazienza 0
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E-book226 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Anita insegue i suoi diciassette anni protesa a conquistare autonomia e libertà, e a scoprire chi è e soprattutto chi vuole essere: selfie, social e amiche, le parole chiavi di un mondo che viene bruscamente interrotto dall’emergenza Sars-Cov 2. Vive nella prima zona rossa d’Italia e assiste alla chiusura repentina del suo Paese, mentre l’epidemia si fa pandemia mondiale. E nel suo di mondo cosa accade? Catapultata come tutti, da un giorno all’altro, in una nuova realtà, dentro l’inatteso dono del tempo e del silenzio, osserva la vita dalla finestra e dentro di sé, cercando di allearsi con il proprio respiro e non avere paura. L’attesa e la speranza di giorni nuovi non le impediranno di fare nuove conoscenze, attraverso cui riconoscersi. Mattia e Edoardo, due fratelli diversi per tanti aspetti, ma parti di un’unicità che la attraversa, faranno un pezzo di strada con lei, lungo il cammino che la porterà a diventare grande. La scoperta della musica come antidoto alla paura, come lente sul mondo e come fonte di emozioni con cui colorare la vita e darle significato. La sfida è in atto per recidere ciò che ostruisce la via del futuro, che l’incombere del virus scompagina e rende tortuosa, ma che lastrica il suo presente di oggetti magici, come avviene nelle fiabe, e di uno sguardo nuovo con cui guardare e affrontare con coraggio prima di tutto se stessi.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2021
ISBN9788893472074
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    Anteprima del libro

    Noi, i ragazzi dalla pazienza 0 - Sabrina Leonelli

    cover.jpg

    Sabrina Leonelli

    NOI I RAGAZZI DALLA PAZIENZA 0

    Prima Edizione Ebook 2022 © R come Romance

    ISBN: 9788893472074

    Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione

    img1.png

    www.storieromantiche.it

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave 60

    41121 Modena – Italy

    [email protected]

    http://www.storieromantiche.it    e-mail: [email protected]

    img2.jpg

    La trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.

    Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.

    Sabrina Leonelli

    NOI, I RAGAZZI DALLA PAZIENZA ZERO

    Romanzo

    INDICE

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    L’autrice

    A Davide, cugino speciale

    «Eppure, c’era ancora una ragionevole speranza,

    quella che, essendole stato impossibile arrivare per lo spettacolo

    per i motivi che avrebbe poi spiegato,

    lo stesse aspettando fuori, alla porta degli artisti.

    Non c’era.

    E siccome le speranze hanno quel certo destino da compiere,

    nascere l’una dall’altra, ed è per questo che,

     malgrado le tante delusioni,

    non sono ancora finite a questo mondo,

    forse poteva darsi che lei lo stesse attendendo

    all’entrata del palazzo

    con un sorriso sulle labbra

    e la lettera in mano…».

    Josè Saramago, Le intermittenze della morte

    «Mi è sempre piaciuto il deserto.

    Ci si siede su una duna di sabbia.

    Non si vede nulla. Non si sente nulla.

    E tuttavia qualcosa risplende nel silenzio».

    Antoine de Saint Exupéry

    «Le paure e l’egoismo che

    Ci ha imprigionati e ci tiene schiavi

    Schiavi

    Sta per scattare il coprifuoco

    Io sono in giro come un ladro a cercarti

    Dietro un camion dell’esercito

    Che mi ha seguito fin qua davanti

    Cosa ti immagini ci capiterà

    Di così orrendo ora

    Dobbiamo andarcene stanno scendendo già

    I titoli di coda»

    Samuele Bersani, Distopici (Ti sto vicino).

    CAPITOLO 1

    "Oh! Certo che sprofondare con i miei diciassette anni

    in questo pantano pandemico è una bella sfiga!".

    Cit. Anita Ferrari

    Scene spettrali, da apocalisse, passano in TV quella mattina.

    Nulla di nuovo da qualche giorno.

    Ma non sono i frame distopici di Netflix, il nutrimento preferito di Anita, piuttosto acquerelli sfumati di una realtà che il passare delle ore rende sempre più confusa e smarrita.

    Abituata a quell’immaginario che dilata i confini della sua esistenza, Anita, non aveva però mai messo in discussione le sue certezze, che ora vacillano dentro quell’inedita quotidianità.

    Così è costretta a spegnere la tv, perché torni a essere un rassicurante buco nero nella parete e negare quella nuova realtà asservita alla paura. Voci, facce, sgomento, terrore sono codici da interpretare, ma manca il manuale d’uso.

    Premi il tasto off, Anita, le dice, infatti, a un certo punto una voce sottile; sembra quella che le usciva da piccola, quando la sera entrava timorosa nella sua camera avvolta nel buio e immaginava grandi occhi gialli e denti affilati, a corredo di qualche muso cattivo, di quelli pronti ad aggredire le bambine indifese. È la voce con cui cercava di scendere a patti con la paura.

    Lo schermo, vuoto di contenuti minacciosi, obnubila la sua mente, stemperando ciò che ora dopo ora, si sta facendo pericolo. Se vira lo sguardo di pochi centimetri, sprofonda nei colori di una natura arcadica, racchiusi nell’unica foto appesa al muro, che è stata scattata l’estate precedente e la ritrae con la sua famiglia durante una gita in montagna.

    Scarponi, zaini colorati e sorrisi accesi dal sole, di mamma Agnese, del fratellino Nico, avvinghiato come un koala alle spalle di papà Paolo, e di lei, come al solito imbronciata e più che mai in quell’occasione per la giornata in piscina organizzata dalle amiche proprio quando stava per partire. Le avrebbe appese per il collo se avesse dato spazio ai suoi desideri.

    No, non preoccupatevi, andate pure senza di me, ci rifaremo al mio rientro….

    Non poteva abbassarsi e piantare il muso come una bambina.

    Poi mi racconterete….

    Ma che rabbia saperle a sguazzare nell’acqua, ridendo e scherzando con i due bagnini superfighi, assunti l’anno precedente dalla società sportiva del suo paese. Mentre lei si faceva quelle terrificanti passeggiate lungo sentieri che manco ci stavano due piedi affiancati da gran che erano stretti e tortuosi.

    «Nico non ce la fa!», aveva provato a dire ai suoi genitori per essere risparmiata da quella tristezza che le mettevano i boschi così desolati.

    «Neanche per sogno! Ci riesco benissimo!»

    «Non hai capito Nico, si tratta di…»

    «Io ce la faccio! E meglio di te!» aveva replicato con la sua spiccata proprietà di linguaggio, che fin da piccolo rendeva difficile fregarlo.

    I genitori si erano ben guardati dal dire qualcosa, approvando la tenacia con cui teneva testa a quella sfaticata adolescente, sempre più riluttante a farsi andare bene qualunque cosa, specie se proposta da loro.

    «Dai, Anita, ti rifarai quando torniamo a casa» aveva cercato di ammansirla Paolo, di solito più paziente della madre su certe questioni.

    E ora il rimando a quegli sprazzi di libertà le si accartoccia addosso, scaldata dalla luce che filtra tra le fronde e rende quella natura più che mai accogliente.

    Mai avrebbe pensato di poterla rimpiangere; magari da vecchia, con le gambe rattrappite e il fiato mozzo ne avrebbe evocato la libertà di movimento, ma che a nemmeno un anno di distanza la sua mente si fosse ripiegata sulla nostalgia di quei boschi era inaudito.

    E invece mai dire mai…, come le dice mamma Agnese quando scalpita per conquistare spiragli di libertà sempre maggiori: che tanto non mi succede niente se rientro più tardi la sera!, cerca di convincerla.

    Anita avverte la percezione di un tempo immobile che la attanaglia. Chi me li ridarà questi momenti che sto perdendo?.

    Allora, sì, sprecate, inermi, interminabili e tutte uguali, quelle ore tra ruscelli, paciose mucche scampanellanti, rifugi sospirati e tanta puzza di letame, per il resto il nulla.

    Ma avrebbe fatto cambio con quelle che stava vivendo adesso?

    Sì! perché intrise di una serenità scontata che non prevedeva l’incombenza della morte.

    Era tutto tra le mani quello che si poteva fare e l’hai disprezzato. Perché, a dirla tutta, non era la mancanza degli scenari così cari al padre, ma la prospettiva del rientro a casa, di giornate innumerevoli e gioiose da vivere con le amiche.

    Ma sii sincera Anita, prova a dirsi, mica ce l’avevi neanche allora quella felicità che ti sprizzava da tutti i pori…. Non l’aveva davanti ai tramonti mozzafiato che morivano al di là delle cime aguzze, dentro quell’immacolato silenzio che opprimeva la vitalità del suo mondo, ma nemmeno altrove, sempre un po’ insoddisfatta e affannata, alla perenne ricerca di qualcosa.

    Perché ora in quelle giornate prive di urgenza, l’avvicendarsi di divise e presidi in strada, gli ospedali e i tanti camici affaccendati e anonimi che si rincorrono, sono la coltre vischiosa della paura. E una TV minacciosa per compagna che deve spegnere per ridare una parvenza di lucentezza alle visioni più cupe.

    Ammansire l’ansia come un cucciolo selvatico cresciuto in cattività. Restare immobili e in silenzio per non alterare la sottile membrana protettiva che garantisce immunità, salute, salvezza.

    E di quella giornata in piscina, le sue amiche Giorgia e Selene le avevano raccontato fili, passi e battute. Che fastidio aveva provato. Sembravano farlo apposta per suscitarle invidia. Non poteva essere così, ma sembrava fosse così.

    E non avevano più parlato di tornarci con lei; il resto dell’estate era scivolato via con altri passatempi e la conoscenza di quei due fighi durante la sua assenza era stato un rospo amaro da mandare giù.

    Sapeva di essere la più carina tra loro, Giorgia con qualche chilo di troppo, Selene sempre un po’ eccessiva tra colori di capelli e mise che la rendevano spesso un arlecchino infagottato. Sapeva che nonostante la sua timidezza, che la teneva ai margini delle conversazioni, avrebbe potuto giocarsela. Anche se le sue due amiche riuscivano sempre in qualche modo a metterla all’angolo, forse per la spiccata parlantina di Giorgia, o per la fragorosa risata di Selene, immancabilmente frizzante e ironica. Fatto sta, che nelle chiacchierate o nei nuovi incontri finivano sempre per occupare la scena e toglierle quello spazio che lei non era capace di ritagliarsi. Forse giocava anche questo nel dispiacere per l’occasione perduta. E sapeva di non averle perdonate. Aveva fatto finta di niente, per non risultare ridicola, ma le pesava un bel po’ quell’esclusione e non avere ritenuto importante attenderla per trascorrere assieme quella giornata spensierata di fine scuola. D’altra parte, non poteva farci niente se i suoi la caricavano in macchina, assieme a una montagna di valige e al fratello da accudire, all’indomani dell’ultima campanella, senza nemmeno il tempo di festeggiare la conclusione dell’anno scolastico con una pizza tra compagni. Non c’era stato verso di farlo capire al padre: la smania di raggiungere le sue montagne gli faceva perdere di vista ogni ragionamento alternativo. Paolo cominciava a scalpitare due mesi prima; quando Anita trovava al suo rientro a casa mappe di sentieri e tracciati apparecchiati sulla tavola di cucina, capiva che era giunto il suo tormento: itinerari a ogni anno di crescita di Nico sempre più estremi e mozzafiato, sia per la fatica che per le ferrate che la obbligavano a fare - in quel caso escludendo solo il fratellino per ragioni di età - e che lei temeva come la peste, soffrendo di vertigini. Calcoli dei tempi e delle soste, equipaggiamento da testare e diario di viaggio, che nemmeno per una spedizione spaziale si sarebbe arrivati a tanto.

    Ci aveva pure pianto su quei cammini e quell’ultima notte al rifugio, dopo una estenuante giornata guardando le alte cime di fronte a lei, rocce, alberi e sparuti prati, aveva provato una malinconia infinita. Neppure una piccola marmotta che si era fermata a guardarla dritta negli occhi, quasi a convincerla del paradiso che la circondava, era riuscita a rasserenarla, perché in quella desolata cornice priva di presenze umane si sentiva terribilmente sola.

    Che beffa quei ricordi, ora, circondata da un mondo attanagliato in una morsa di vuoto che nessun anfratto boschivo, radura o stambecco avrebbe potuto lenire.

    Lei che viveva nella pianura padana, poteva contare giusto sulla collinetta al parco della teleferica: il gioco con la carrucola che da piccola l’aveva fatta sentire tanto la Jane di Tarzan. Dall’alto di quei pochi metri, su cui arrancava con lo slittino quando c’era la neve, aveva catturato la sua idea di prospettiva. Un respiro più ampio che svettava sui campi arati e aggirava gli edifici come un refolo di libertà dalle costrizioni.

    Lassù in montagna, giusto il figlio del titolare del rifugio, che dava una mano a servire ai tavoli, l’aveva riportata alla dimensione estensiva del suo spazio mentale, destandola dal torpore che tra quelle cime la pervadeva. Era carino, aveva senz’altro qualche anno più di lei, ma non spiccicava una parola di italiano, oltre a non mostrarle alcun interesse. Una distrazione durata il tempo di una pausa dal suo compiangersi per la sfortuna di avere genitori insensibili alle sue necessità.

    «Ti potresti fidanzare con lui!» l’aveva stuzzicata Nico, piantandole un gomito in pancia durante la cena, «così verresti a vivere qui, staresti dietro alle mucche al pascolo e saresti la cameriera di questo bel posto…»

    Anita lo aveva fulminato con uno sguardo: «Morirei piuttosto, e tu diventeresti figlio unico.»

    «Ora basta! Metti via quel muso Anita!» aveva protestato Paolo.

    «Questa è la mia faccia… non la posso cambiare» aveva risposto piccata.

    «È ancora per la storia della piscina?» aveva qualche reminiscenza di discorsi fatti con Agnese il giorno prima, a cui si era mantenuto a debita distanza per non venirne coinvolto, consapevole delle sue responsabilità.

    «Certo che Giò e Sele potevano anche aspettare ad andarci con te» aveva sobillato Agnese, deglutendo il suo canederlo allo speck.

    Anita l’aveva fulminata.

    «La piscina non la spostano, la ritroverai anche al tuo rientro» aveva rincarato la dose Paolo, mentre una saetta era fuoriuscita dagli occhi grigio-verdi, di quella giovane donna insofferente, che avrebbe buttato all’aria i piatti imbrattando visi e abiti di crauti e fonduta se solo avesse lasciato briglie sciolte ai suoi propositi.

    E infatti non c’era più stata occasione di tornarci.

    L’impianto sportivo con la piscina all’aperto non era facile da raggiungere perché in periferia, e i bus passavano a ore improponibili; ci voleva un genitore disposto ad accompagnarle, restando fuori per ore ad attenderle fino alla chiusura serale. Perché guai se un adulto, aggirandosi nei pressi, risultava avere legami di parentela con loro. Una triangolazione complicata che rivelava spesso dinieghi e indisponibilità. C’era sempre un impedimento che le faceva rinunciare. Ci stava che la prima occasione di una giornata di ferie della mamma di Selene, disposta a fare visita durante la loro permanenza in piscina a una amica che abitava nei paraggi, fosse divenuta l’occasione irrinunciabile, a prescindere da chi ci fosse.

    Anita aveva fatto buon viso a cattiva sorte, e pur legandosela al dito sia con i suoi che con le amiche, aveva cercato di non pensarci più.

    Bei tempi! sorrideva ora con amarezza. E così lontani. Uno strappo lacerante e incolmabile se pensava a quel prima, affossata in un presente fatto di TV come unica e autorevole finestra sul mondo e sul suo destino.

    E una volta spenta, non erano tante le cose che restavano da fare, nella veste di segregata in casa, almeno quelle che potevano farla stare bene.

    Chi lo avrebbe mai detto che sarebbe stato così difficile fare venire sera?

    Quando in un tempo recente, tra studio e impegni di varia natura, arrivava a fine giornata esausta.

    Adesso senza scuola, il tempo si era dilatato a dismisura.

    E quella parolina astrusa, Sars-Cov2, comunemente Covid-19, che in realtà era la malattia che il virus produceva - da quanto aveva appreso! - era diventata protagonista della vita sua e degli altri, che da questo momento andava decodificata con nuove forme di pensiero. Ma condividere un tale patema con il resto del paese - mai avrebbe pensato che presto sarebbe stato con tutto il mondo! - se da un lato la faceva sentire meno sola, dall’altro ne acuiva la gravità.

    Se non siamo isolati e gli unici ad affrontare il problema, restiamo uniti e combattiamo assieme con coraggio, ma se ne siamo tutti coinvolti, allora nessuno ci può salvare. Non abbiamo luoghi in cui fuggire e trovare riparo.

    Il vuoto delle strade, l’assenza di qualsiasi forma di vita, il nulla e il silenzio, il silenzio e il nulla, sovrani di un incubo da tenere sotto controllo.

    Covid-19: tutto stava in quella parola. Un termine per certi versi pure cool si era detta all’inizio, ridendoci su con le amiche alle prime notizie di una zona della Cina isolata e deserta.

    «Questi cinesi non sono normali…» si dicevano, dall’alto delle loro sicurezze. «Addirittura nelle strade bardati come astronauti a spruzzare roba disinfettante sotto le panchine e in tutti gli angoli della città.» E giù a riderci sopra.

    «Sono proprio fulminati» aveva detto Giorgia.

    Come se fosse il frutto di una realtà distorta, con logiche superstiziose di una cultura arcaica.

    «Là sono sempre in gabbia, ci sono abituati…» quasi sprezzante Selene, centrata in quel particolare momento sulle strategie geopolitiche del pianeta.

    Ma quando la parolina aveva preso a capeggiare ovunque, ad aprire i Tg, svettando a caratteri cubitali sulle maggiori testate giornalistiche, nelle locandine esposte all’alba fuori dalle edicole, o come esclusivo motto nelle bocche dei tanti, che in un soffio erano stati risucchiati dalle proprie case, avevano capito che la cosa si faceva seria. Che forse non c’era tanto da scherzare, anche se per loro era stato più un modo di esorcizzare la paura; e che quelle città desolate dall’altra parte del

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