Manifesto Politico iRS

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 3








Pro
s’Indipendentzia
e
sa
Repùbrica
de
Sardigna

Manifesto
politico
di
iRS

















4

 






























 5


INDICE









 INTRODUZIONE
 
 


 
 Dae
s’incumintzu
de
sa
Carta
de
Logu
 
 7


 
 
 
 

I
 iRS
–
INDIPENDÈNTZIA
REPÙBRICA
DE
SARDIGNA
 
 


 ­
 Capitolo
I
 
 9


 ­
 Capitolo
II
 
 11


 ­
 Capitolo
III
 
 13


 ­
 Capitolo
IV
 
 17


 ­
 Capitolo
V
 
 21


 ­
 Capitolo
VI
 
 25


 ­
 Capitolo
VII
 
 27


 ­
 Capitolo
VIII
 
 29


 ­
 Capitolo
IX
 
 31


 ­
 Capitolo
X
 
 33


 ­
 Capitolo
XI
 
 37


 ­
 Capitolo
XII
 
 39


 
 
 
 


 
 
 
 



6
 


II
 PRO
S’INDIPENDÈNTZIA
DE
SA
SARDIGNA
 
 


 ‐
 La
scelta
“autonomista”
come
sacrificio
dell’indipendenza
 
 41


 ‐
 Il
tradimento
di
Lussu
 
 43


 ‐
 Il
fondamento
dell’Autonomia:
la
vergogna
di
essere
sardi
 
 51


 ‐
 L’elaborazione
della
diversità
 
 53


 ‐
 Le
contraddizioni
di
chi
non
ha
coraggio
 
 57


 ‐
 Il
federalismo
è
impossibile
 
 61


 ‐
 Anni
80:
il
sardismo
infligge
un’altra
umiliazione
 
 63

all’indipendentismo


 ‐
 Il
fondo
della
questione
 
 67


 ‐
 Classi
dirigenti
sarde:
mancanza
di
coscienza
e
di
 
 69

sentimento
d’appartenenza


 ‐
 Inizia
il
cammino
verso
la
Repubblica
Sarda
Indipendente
 
 71


 ‐
 Rimozione
e
conflitto
 
 73


 ‐
 Note
provocatorie
sull’esperienza
culturale
quotidiana
 
 75


 ‐
 Stigmatizzazione
culturale:
la
complicità
dell’autonomismo
 
 79


 ‐
 La
costruzione
del
sentire
collettivo
 
 81


 ‐
 Noi
siamo
qui,
oggi
 
 85


 ‐
 Indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna
(iRS)
 
 87


 
 
 
 

III
 APPENDICE
DOCUMENTARIA
 
 


 ‐
 I
falsi
padri
della
Sardegna
 
 91


 ‐
 Lussu:
Autonomia
non
separatismo
 
 97


 ‐
 Bellieni:
Per
sfatare
una
stupida
leggenda.
Noi
e
l’unità
 
 105

d’Italia


 ‐
 Bellieni:
Il
pericolo
separatista
 
 113




 7


Introduzione


Dae
s’incumintzu
de
sa
Carta
de
Logu








Dae
s’incumintzu
de
sa
Carta
de
Logu,
«libru
dessas
constitucionis
ed

ordinacionis
 sardiscas»,
 ispaghinada
 dae
 sa
 juyghissa
 Elianora
 de

Arbarèe
prus
o
mancu
in
su
1392:


«…Sa
 Carta
 de
 Logu,
 sa
 quali
 cun
 grandissimu
 
 provvidimentu
 fudi

fatta
 per
 issa
 bòna
 memoria
 de
 Juyghi
 Marjani
 Padri
 nostru,
 in
 qua

directu
 Juyghi
 de
 Arbarèe,
 nòn
 essendo
 corretta
 per
 ispaciu
 de
 seighi

annos
passados,
como
per
multas
variedadis
de
tèmpus
bisognando
de

necessitadi
 corrigerela
 et
 mèndari,
 considerando
 sa
 veridadi
 et

mutaciòne
 dessos
 tèmpos,
 qui
 suntu
 istadus
 seghidus
 poscha,
 et
 issa

conditione
 dessos
 homìnis,
 qui
 est
 istada
 dae
 tandu
 inoghi
 multu

permutada:
 et
 plus
 per
 qui
 ciaschuno
 est
 plus
 inchinevili
 assu
 malu

fagheri,
 qui
 nòn
 assu
 beni
 dessa
 Republica
 Sardisca,
 cum
 delliberadu

consigiu
illa
corrigemus,
et
faghimus
et
mutamus
dae
beni
in
megius,
et

cumandamus
qui
si
deppint
osservari

integramènti
dae
sa
Sancta
Die

innantis
per
issu
modu
infrascriptu;

ciò
est…».



8
 


Dal
proemio
della
Carta
de
Logu,
«libro
delle
costituzioni
e
ordinanze

sarde»,
 promulgata
 dalla
 giudicessa‐regina
 Elianora
 de
 Arbarèe
 nel

1392
circa:

«…La
 Carta
 de
 Logu,
 che
 fu
 fatta
 con
 grandissimo
 provvedimento

dalla
 buona
 memoria
 del
 Juyghi
 [giudice‐re]
 Marjani
 nostro
 Padre,
 in

quanto
 legittimo
 sovrano
 d’Arbarèe,
 non
 essendo
 stata
 rettificata
 da

oltre
 sedici
 anni,
 e
 perciò
 necessitando
 di
 correggerla
 ed
 emendarla,

tenendo
 conto
 della
 varietà
 e
 del
 mutare
 dei
 tempi
 seguiti
 alla
 sua

prima
 promulgazione
 e
 considerando
 il
 grande
 mutamento
 da
 allora

avvenuto
 nella
 condizione
 degli
 uomini,
 tanto
 più
 che
 ciascuno
 oggi
 è

maggiormente
 incline
 a
 operare
 il
 male
 piuttosto
 che
 il
 bene
 della

Repubblica
 Sarda,
 viene
 con
 deliberato
 consiglio
 da
 noi
 corretta
 e

mutata
 di
 bene
 in
 meglio,
 ed
 ordiniamo
 che
 la
 si
 debba
 osservare

integralmente
 nel
 modo
 suddetto
 a
 partire
 dal
 giorno
 di
 Pasqua,

cioè…».














 9


iRS
–
indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna


Capitolo
I








Noi
 vogliamo
 creare,
 noi
 stiamo
 creando,
 noi
 siamo,
 un
 movimento

indipendentista,
 ovvero
 un
 movimento
 fatto
 di
 donne
 e
 uomini

“indipendentisti”.


È
finito,
deve
finire,
il
tempo
in
cui
gli
indipendentisti
e
il
loro
ideale

venivano
 dispersi
 e
 confusi
 in
 movimenti
 autonomisti
 e,
 più
 o
 meno

apertamente,
unionisti.


Finisce
il
gioco
(e
il
giogo)
in
cui
l’energia
e
la
vita
di
tante
persone

pronte
 a
 battersi
 per
 questa
 terra,
 per
 la
 sua
 libertà,
 veniva
 inibita

(nella
 sua
 potenzialità
 produttrice
 di
 cambiamento,
 inibita
 perché

imbrigliata
 dalle
 pastoie
 delle
 beghe
 e
 delle
 questioni
 proprie
 dei

partiti
 e
 della
 cultura
 autonomista),
 sviata
 (perché
 indirizzata
 verso

conflitti
interni
a
questi
movimenti
autonomisti
o
asservita
a
progetti
e

strategie
politiche
che
ben
poco
avevano
a
che
fare
con
l’Indipendenza

della
 Sardegna),
 umiliata
 (dagli
 stessi
 risultati
 di
 quelle
 politiche
 che

tanti
di
noi,
in
buona
fede
o
per
disperazione
finivano
per
appoggiare,

nella
 convinzione
 di
 realizzare
 politiche
 “indipendentiste”
 che
 invece

portavano
i
sardi
sempre
più
lontani
dall’indipendenza):
il
tutto
fino
a

convincere
 questi
 uomini
 e
 queste
 donne
 mossi
 da
 un
 qualche
 animo



10
 


indipendentista
 che
 la
 causa
 del
 fallimento
 fosse
 nell’ideale
 da
 loro

scelto
 e
 non
 piuttosto
 nei
 mezzi
 e
 nei
 modi
 utilizzati
 per
 conseguirlo,

ovvero
 che
 tale
 ideale
 non
 si
 realizzava
 proprio
 perché
 non
 avevano

mai
 partecipato
 ad
 un
 movimento
 autenticamente
 indipendentista
 o,

detto
 ancor
 più
 crudamente,
 nel
 fatto
 che
 nel
 loro
 agire
 politico
 e

sociale,
 nel
 loro
 agire
 collettivo,
 non
 erano
 mai
 stati,
 non
 erano
 mai

potuti
essere,
realmente
indipendentisti.


Ora
 questi
 uomini
 e
 queste
 donne
 hanno
 un
 movimento,

indipendèntzia
 Repùbrica
 de
 Sardigna,
 in
 cui
 possono
 essere

indipendentisti.



















 
 11


Capitolo
II








Noi
 nasciamo
 perché
 vogliamo
 davvero
 unire
 gli
 indipendentisti;

vogliamo
 dar
 loro
 un
 luogo
 in
 cui
 poter
 essere
 ciò
 che
 sentono
 di

essere,
senza
ambiguità,
senza
tentennamenti,
senza
“vergogna”.


Ma
 con
 l’aprirsi
 di
 tale
 possibilità
 finisce
 anche,
 per
 tutti
 noi

indipendentisti,
 la
 possibilità
 di
 confonderci
 e
 confondere
 la
 nostra

stessa
 causa,
di
smarrirci
nelle
nebbie
di
un
gioco
 politico
 puramente

“istituzionale”
in
cui
l’indipendentismo
è
un
eco
di
un
discorso
fatto
da

altri,
di
rifugiarci
in
blande
recriminazioni
contro
la
Storia
e
il
Fato,
di

incedere
 in
 sterili
 vittimismi
 nel
 confronto
 di
 poteri
 considerati

soverchianti
 e
 invincibili,
 di
 abbandonarci
 a
 pigre
 affermazioni
 di

indipendentismo
 senza
 una
 sostanza,
 un
 senso
 e
 un
 agire
 che
 sia

“conseguente”,
ovvero
coerente
con
quanto
si
è
affermato.


Le
parole
trovano
il
loro
senso
nelle
azioni
che
le
seguono.


Le
 parole
 sono
 inizi
 e
 promesse
 di
 azioni:
 è
 per
 questo
 che
 vanno

spese
con
consapevolezza,
è
per
questo
che
sono
importanti
e
decisive

nella
 definizione
 di
 ciò
 che
 si
 è
 e
 per
 il
 raggiungimento
 di
 ciò
 che
 si

vuole.


È
 dunque
 ora
 di
 chiarirsi
 le
 idee
 e
 di
 raccogliere
 il
 coraggio…
 e
 dar

inizio
all’Indipendentismo.




12
 


Per
tutti
gli
altri
finisce
qui,
quando
l’indipendentismo
inizia
a
fare
il

suo
 corso,
 a
 scandire
 il
 suo
 ritmo,
 a
 tracciare
 con
 coraggio,
 a
 costo
 di

molta
solitudine
ma
senza
paura,
la
sua
strada,
finisce
–
dicevamo
–
la

possibilità
per
chi
si
sente
indipendentista
di
tergiversare
sostenendo

che
non
esiste
un
“vero”
indipendentismo;
finisce
la
possibilità
di
dirsi

indipendentisti
 senza
 esserlo,
 senza
 doverne
 dare
 prova;
 finisce
 la

possibilità,
anche
per
chi
non
vanta
alcun
indipendentismo,
di
far
finta

di
“battersi
per
la
Sardegna
e
per
i
sardi”;
finisce
per
tutti,
in
definitiva,

la
possibilità
di
dire
che
in
Sardegna
“non
c’è
indipendentismo”.




















 
 13


Capitolo
III








L’abbiamo
 verificato
 in
 passato
 che
 l’azione
 di
 un
 singolo

indipendentista
all’interno
di
un
movimento
autonomista
è
pressoché

inutile,
 al
 pari
 dell’azione
 dell’indipendentista
 rassegnato
 che

preferisce
 rimanere
 a
 casa
 e
 coltivare
 l’orto
 e
 quasi
 quanto
 l’azione

dell’indipendentista
che
non
avendo
un
movimento
alle
spalle
si
dedica

alla
“pura
cultura”
o
al
“puro
sociale”,
rifiutando
di
immergere
le
mani

nella
 “sporca”
 politica,
 come
 se
 egli
 stesso
 non
 sapesse
 che
 tutte
 si

tengono
insieme.


Ma
 in
 passato
 abbiamo
 potuto
 verificare
 anche
 di
 più
 e
 di
 peggio:

abbiamo
 persino
 assistito
 alla
 riduzione
 all’inutilità
 di
 una
 spinta

popolare
tendenzialmente
indipendentista
nel
momento
in
cui,
mentre

pareva
 destinata
 a
 successi
 sempre
 più
 clamorosi
 e
 decisivi,
 veniva

guidata
 da
 dirigenze
 autonomiste
 nuovamente
 su
 lidi
 unionisti.
 Un

approdo
 e
 un
 percorso,
 quello
 di
 queste
 classi
 dirigenti
 sardiste,
 che

mentre
 si
 nutriva
 del
 sentire
 popolare
 indipendentista
 lo
 marchiava

con
il
segno
dell’inutilità:
la
speranza
di
liberazione
dei
sardi
diveniva

umiliazione
del
fallimento.


Questa
 dinamica,
 quella
 che
 vede
 delle
 classi
 dirigenti
 che
 si

proclamano
 indipendentiste
 senza
 esserlo
 e
 che
 finiscono
 così
 per



14
 


spaventarsi
 dell’indipendentismo
 dei
 loro
 militanti
 fino
 al
 punto
 di



barattarlo,
 tradirlo,
 mortificarlo,
 l’abbiamo
 già
 vista
 ripetersi
 anche

fuori
dal
sardismo
istituzionale
ed
è
destinata
a
ripetersi
ulteriormente

se
 noi
 non
 ne
 prendiamo
 coscienza
 e
 iniziamo
 a
 cambiare
 il
 modo
 di

pensare
e
fare
l’indipendentismo,
se
noi
non
ci
decidiamo
a
creare
una

classe
dirigente
indipendentista
che
agisca
secondo
una
nuova
prassi,

adeguata
 al
 nostro
 obbiettivo
 e
 ai
 tempi
 odierni.
 Ciò
 che
 ci
 serve

all’inizio
del
nostro
cammino
è
una
“minoranza
attiva”,
fatta
di
persone

“vivaci,
colte,
intelligenti,
decise,
coraggiose”
che,
per
continuare
con
le

parole
di
Simon
Mossa,
riescano
“a
poco
a
poco
a
creare
una
opinione

pubblica
 favorevole”:
 ma
 oltre
 a
 queste
 persone,
 ricordava
 il
 teorico

dell’indipendentismo,
 c’è
 bisogno
 di
 uscire
 dalle
 “posizioni

sentimentalistiche
e
dal
«rivendicazionismo
parziale»”,
bisogna
uscire

dalle
secche
dei
compromessi,
bisogna
impadronirsi
dei
nuovi
mezzi
e

dei
 linguaggi
 del
 nostro
 tempo
 e
 contemporaneamente
 bisogna

ricominciare
a
parlare
nuovamente
con
i
sardi,
ad
uno
ad
uno,
 cara
a

cara
 quando
 è
 possibile,
 per
 risvegliarne
 la
 speranza
 e
 lo
 spirito
 di

libertà.


È
tempo
dunque
di
creare
il
proprio
discorso.
Non
si
può
pensare
e

sperare
 che
 a
 rappresentare
 l’indipendentismo
 ci
 pensino
 degli

unionisti,
né
ci
si
può
ancora
illudere
che
la
via
da
percorrere
riposi
in

qualche
 cambiamento
 interno,
 sotterraneo,
 “politicante”,
 di

organizzazioni
 e
 strutture
 che,
 non
 credendo
 all’Indipendenza
 della

Sardegna,
alla
sua
fattibilità
e/o
alla
sua
giustezza,
non
solo
non
sono

mai
 riusciti
 né
 mai
 riusciranno
 a
 produrla
 ma
 l’hanno,
 più
 o
 meno

volutamente,
 continuamente
 ostacolata,
 inibendo
 sia
 l’agire
 degli




 15


indipendentisti
 sia
la
 formazione
di
un
reale
indipendentismo
e
di
un



pensiero
ad
esso
conforme.


Serve
 un
 indipendentismo
 che
 sia
 tale:
 non
 un
 indipendentismo

come
 declinazione
 accessoria
 di
 qualcos’altro,
 tipo
 il
 “sardismo

indipendentista”,
 il
 “nazionalismo
 indipendentista”,
 il
 “comunismo

indipendentista”
 e
 chi
 più
 ne
 ha
 più
 ne
 metta,
 di
 cui
 si
 legge
 in

documenti
 ufficiali,
 comunicati
 stampa,
 forum
 su
 internet
 o
 di
 cui
 si

sente
parlare
nei
discorsi
“nazionalitari”.


Serve
 un
 Soggetto,
 collettivo
 ma
 fatto
 di
 individualità,
 che
 sia

riconoscibile
chiaramente
e
pubblicamente
in
quanto
indipendentista;

che
faccia
sentire
questa
voce,
che
propaghi
queste
parole,
che
susciti

questa
immaginazione:
Repubblica
di
Sardegna.















16


 
























 
 17


Capitolo
IV








Molti
diranno
che
esprimere
le
cose
“così
chiaramente”
sia
un
danno

per
l’indipendentismo
stesso,
perché
in
fondo
“la
gente
non
è
pronta”,

“si
spaventa”.


Ma
 possiamo
 forse
 aspettare
 che
 tutto
 un
 popolo
 divenga
 “pronto”

all’Indipendenza
senza
che
nessuno
ne
favorisca
la
presa
di
coscienza?

È
 realistico
 porre
 la
 questione
 in
 tali
 termini?
 E
 poi,
 come
 sapere

quando
questo
popolo
è
pronto
se
non
verificandolo
attraverso
la
sua

risposta
ad
una
proposta
indipendentista?
E
se
anche
questa
proposta

ricevesse
una
risposta
negativa
dovremmo
forse
spaventarci
di
iniziare

inascoltati?


Non
è
perverso
il
ragionamento
per
cui
si
può
dire
e
fare
solo
ciò
che

c’è
già?
Eppure
il
mondo
cambia.


Ma
soprattutto,
come
sarebbe
finita
(e
come
potranno
finire
in
futuro

laddove
ci
sono
ancora)
l’apartheid,
la
schiavitù,
il
razzismo,
il
dominio

di
 tanti
 popoli
 se
 qualcuno
 non
 avesse
 iniziato
 a
 parlarne
 quando

quelle
stesse
questioni
non
si
ponevano
e
non
si
potevano
porre?


Ci
 faremo
 allora
 prendere
 da
 questa
 logica
 per
 cui
 non
 inizieremo

mai
a
dire
ciò
che
veramente
vogliamo,
aspettando
che
l’indipendenza

cresca
 sugli
 alberi
 o
 sottoterra?
 E
 se
 anche
 ci
 convincessimo
 che
 un



18
 


qualche
 indipendentismo
 possa
 crescere
 e
 arrivare
 al
 successo
 in



modo
sotterraneo,
senza
mai
parlare
direttamente
e
pubblicamente
ai

sardi
 di
 ciò
 che
 si
 propone,
 dunque
 senza
 mai
 prendersi
 la

responsabilità
 del
 suo
 dire
 e
 del
 suo
 fare;
 se
 anche
 pensassimo
 che
 è

solo
 nella
 tattica
 dissimulatoria
 della
 “Politica
 di
 Palazzo”
 che
 sta
 una

possibilità
 indipendentista,
 non
 dovremmo
 comunque
 constatare
 che

questo
 modo
 di
 costruire
 l’indipendenza
 non
 potrebbe
 far
 altro
 che

maturare
 su
 manovre
 politiche
 di
 sottobanco
 che
 poco
 o
 nulla

avrebbero
 a
 che
 fare
 con
 la
 costruzione
 e
 l’elaborazione
 di
 una

coscienza
 nazionale
 umanamente
 seria,
 e
 più
 in
 generale,
 con
 un

aumento
di
democraticità
in
tutta
la
società
sarda?


C’è,
 nell’idea
 che
 l’indipendentismo
 non
 vada
 esposto
 (quando
 ciò

non
 sia
 dettato
 dalla
 pura
 paura
 di
 affermare
 una
 idea
 diversa
 da

quelle
 sancite
 come
 valide)
 o
 una
 sfiducia
 nel
 proprio
 ideale,
 e
 nei

mezzi
 per
 conseguirlo,
 o
 una
 sopravvalutazione
 dello
 stesso,
 vale
 a

dire,
 un
 eccesso
 di
 attesa
 nei
 suoi
 confronti,
 nei
 confronti
 del
 futuro,

senza
 una
 adeguata
 controparte
 nella
 qualità
 e
 nella
 quantità
 del

proprio
agire
in
direzione
di
quel
futuro.
Una
spasmodica
richiesta
del

“nuovo”
 che
 non
 tiene
 conto
 della
 realtà,
 forse
 proprio
 perché
 da

questa
 realtà
 si
 sente
 schiacciata.
 E
 così
 fugge
 da
 essa,
 dalla

quotidianità
 del
 vivere,
 rifugiandosi
 in
 attese
 tanto
 grandi
 quanto

umorali,
contemporaneamente
(e
disastrosamente)
convinte
che
si
dia

la
 possibilità
 di
 qualcosa
 di
 totalmente
 nuovo
 (compresa
 l’idea
 di

ritornare
 ad
 un
 qualche
 “passato
 perfetto”)
 così
 come

(disastrosamente)
soggette
a
scoramenti
e
abbandoni
indicibili.


Un’aspettativa
 illusoria
 di
 un
 cambiamento
 tanto
 radicale
 quanto

casuale,
 che
 finisce
 per
 trasformare
 l’attesa
 in
 disperazione
 e
 non
 fa




 19


cogliere
 nella
 realtà
 i
 punti
 in
 cui
 l’indipendentismo
 già
 cresce
 e



matura,
 in
 cui
 la
 realtà
 già
 cambia,
 o
 quelli
 in
 cui
 una
 parola
 o
 una

azione
indipendentista
non
solo
sarebbe
necessaria
ma
addirittura
ben

accetta,
se
non
richiesta;
un’aspettativa,
insomma,
che
non
vede
i
tratti

della
realtà
già
disposti
alla
trasformazione.


Un
 atteggiamento,
 quello
 di
 cui
 si
 parlava
 sopra,
 che
 in
 definitiva

vorrebbe
evitare
la
fatica
di
fare
ciò
che
si
deve
fare,
atteggiamento
di

chi
non
vuole
mettersi
alla
prova
e
mettere
alla
prova
i
sardi,
non
vuole

rischiare,
 forse
 perché
 è
 soddisfatto
 di
 come
 stanno
 le
 cose,
 o

addirittura
 partecipa
 pienamente
 al
 modo
 in
 cui
 il
 potere
 attuale
 le

struttura.
 O
 forse,
 ritornando
 ai
 “pigri”
 dell’indipendentismo,
 si

dovrebbe
 pensare
 che
 essi
 non
 vogliono
 esporsi
 ed
 esporre

l’indipendentismo
 proprio
 perché
 ciò
 significherebbe
 dover
 produrre

un
pensiero
e
un
agire
indipendentista
tali
che
questa
parola
guadagni

un
 senso:
 che
 siano
 la
 sua
 prova
 ed
 il
 suo
 esempio
 reale
 davanti
 agli

altri,
 per
 gli
 altri,
 per
 coloro
 che
 non
 sanno
 e
 forse
 neanche
 credono

che
l’indipendentismo
esista:
ma
soprattutto
per
coloro
che
fino
ad
ora

hanno
 potuto
 credere,
 perché
 in
 fondo
 gli
 si
 è
 concesso
 di
 farlo,
 che

l’indipendentismo
 fosse
 ciò
 che
 è
 stato,
 quasi
 sempre,
 fino
 ad
 oggi.

Qualcosa
di
ambiguo,
poco
convinto
di
sé
e
della
sua
causa
e,
in
fondo,

neanche
molto
“serio”.


Certo
 è
 che
 se
 noi
 non
 iniziamo,
 se
 noi
 non
 ci
 decidiamo
 a
 dar
 vita

all’indipendentismo
 e
 alla
 coscienza
 indipendentista
 dei
 sardi,
 non

potremo
poi
lamentarci
se
le
cose
continueranno
a
stare
come
stanno
o

a
 cambiare
 in
 una
 direzione
 e
 in
 un
 modo
 diverso
 da
 quello
 che
 noi

vorremmo.




20
 


Del
resto,
se
non
saremo
noi
a
prenderci
cura
di
questa
terra
chi
altro

speriamo
che
lo
faccia?



























 
 21


Capitolo
V








Cosa
vuol
dire
allora
essere
indipendentista?


Vuol
 dire
 lottare
 e
 credere
 nella
 Repubblica
 di
 Sardegna,
 nella

possibilità
di
costruire
la
nostra
repubblica
indipendente.


Dunque
 lo
 scopo
 principale
 del
 nostro
 movimento
 e
 di
 chi
 vi

partecipa
 è
 portare
 la
 Nazione
 Sarda
 ed
 il
 suo
 Popolo
 alla
 conquista

dell’Indipendenza
Nazionale
e
conseguentemente
alla
sua
costituzione

in
 Repubblica
 indipendente
 nel
 più
 ampio
 consesso
 dei
 popoli
 che

compongono
l’umanità.


In
 tal
 senso
 la
 lotta
 indipendentista
 punta
 ad
 utilizzare
 il
 mezzo

dell’autoproclamazione
 nazionale
 del
 popolo
 sardo,
 da
 ottenere

tramite
la
mobilitazione
e
la
partecipazione
collettiva,
in
vista
del
vero

e
 proprio
 referendum
 istituzionale
 per
 l’autodeterminazione

nazionale.


Inutile
far
finta
di
non
aver
capito:
l’autodeterminazione
nazionale
e

l’indipendenza
non
sono
per
noi
termini
paravento
che
nascondono
il

progetto
di
ricontrattare
il
rapporto
“Stato‐Regione”,
né
il
viatico
a
una

qualche
 federazione
 Sardegna‐Italia
 su
 nuove
 basi
 come
 è
 stato
 fatto

credere
per
anni
dal
sardismo.




22
 


Per
 molti
 versi,
 se
 non
 fossimo
 convinti
 e
 non
 sentissimo
 che
 il

termine
 giusto
 per
 noi,
 quello
 con
 cui
 vogliamo
 chiamarci
 e
 farci

chiamare,
 sia
 “indipendentisti”,
 potremmo
 tranquillamente
 definirci

“separatisti”.
 Sappiamo
 bene
 infatti
 che
 per
 chi
 non
 condivide
 l’idea

che
 la
 Sardegna
 sia
 una
 nazione
 a
 sé
 stante
 con
 il
 suo
 diritto

all’indipendenza
questo
è
il
termine
che
appare
più
appropriato.


Già
 nel
 1967
 Antoni
 Simon
 Mossa,
 padre
 della
 Nazione
 e

dell’indipendentismo
 radicale
 e
 libertario,
 diceva
 con
 decisione:
 «Ci

chiamano
 separatisti.
 Con
 disprezzo
 e
 malcelata
 ironia.
 Ebbene,
 se

separatisti
 ci
 chiamano,
 noi
 possiamo
 fare
 di
 questo
 termine
 una

bandiera,
 e
 non
 soltanto
 uno
 spaventa‐passeri
 per
 i
 nostri
 avversari

politici».


Dunque:
 sì,
 noi
 indipendentisti
 di
 indipendèntzia
 Repùbrica
 de

Sardigna
siamo
quelli
che
loro
(voi
che
non
credete
nella
nostra
causa)

chiamano
“i
separatisti”.


Ad
 ogni
 modo
 noi
 ci
 chiamiamo
 indipendentisti
 sia
 perché
 non

riteniamo
di
separarci
da
alcunché
(noi
semplicemente
“ci
liberiamo”),

sia
 perché
 non
 usiamo
 l’idea
 di
 indipendenza
 in
 modo
 finto,
 per

spaventare
 lo
 Stato
 o
 chi
 altro
 (noi
 all’indipendenza
 ci
 crediamo
 e
 ci

vogliamo
arrivare
davvero)
sia,
infine,
perché
non
vogliamo
distruggere

altre
nazioni
o
smantellare
altri
Stati,
men
che
meno
quello
che
ci
tiene

oppressi:
l’Italia
per
noi
può
tranquillamente
continuare
ad
esistere
e

sarà
 un
 buon
 Stato
 vicino
 con
 cui
 vivere
 e
 rapportarci
 in
 pace
 ed

amicizia
così
come
l’Italia
vive
oggi
con
la
Francia,
la
Germania
e
così

via.
Chi
ha
spirito
vendicativo,
chi
crede
che
l’indipendentismo
sia
una

vendetta
 o
 un
 farsi
 rendere
 il
 maltolto
 economico,
 è
 ben
 lontano

dall’avere
una
coscienza
indipendentista.





 23


Forse,
 si
 dirà,
 questo
 atteggiamento
 lo
 si
 può
 comprendere:
 chi
 si

sente
oppresso,
dice
lo
stereotipo,
reagisce
così.
Ma
la
verità
è
che
oggi

questo
 modo
 di
 fare
 è
 semplicemente
 dannoso,
 e
 sotto
 la
 superficie

apparentemente
 agitata
 e
 ribellistica,
 nasconde
 un
 atteggiamento

difensivo
e
senza
prospettiva.
È
un
atteggiamento
che
distrugge
senza

creare.
 Se
 ci
 serve
 una
 ribellione
 dei
 corpi
 e
 delle
 coscienze
 è
 perché

vogliamo
 produrre
 qualcosa.
 È
 come
 se
 sentissimo
 una
 musica
 e

volessimo
metterci
a
ballare:
il
punto
non
è
fare
del
male
a
chi
ci
tiene

immobilizzati
(a
rischio
di
rimanere
per
sempre
avvinghiati
con
lui
in

una
 lotta
 improduttiva)
 ma
 sfuggirgli
 così
 sapientemente
 da
 lasciarlo

di
stucco
davanti
a
noi
che
diamo
vita
al
nostro
ballo.


Le
 nostre
 azioni,
 anche
 quando,
 per
 vincoli
 che
 le
 situazioni

impongono,
 dovessero
 sembrare
 “contro”
 qualcosa
 saranno
 invece

sempre
“per”
qualcosa.
Vale
a
dire:
noi
non
abbiamo
alcuna
intenzione

di
agire
per
danneggiare
qualcun
altro,
noi
vogliamo
agire
per
la
nostra

libertà.


Questa
 scelta,
 difficile
 e
 contro
 corrente
 in
 una
 terra
 come
 la

Sardegna
in
cui
ci
si
è
sempre
compiaciuti
di
alzati
i
toni,
a
parole
e
a

volte
 nei
 fatti,
 per
 spaventare
 lo
 Stato
 (ma
 senza
 volere
 cambiare

veramente
le
cose
in
senso
indipendentista),
non
implica
però
nessun

quietismo,
 nessuna
 forma
 di
 passività,
 nessuna
 arrendevolezza,

nessuna
intenzione
di
“porgere
la
guancia”,
né
allo
Stato
italiano,
né
ai

sardi
che
governano
in
suo
nome
o
a
quelli
che
ci
dicono
che
“non
è
più

ora”,
 né
 a
 chiunque
 altro.
 Anzi,
 forti
 della
 nostra
 scelta
 non‐violenta,

consci
di
questo
coraggio,
la
nostra
lotta
si
fa
ancora
più
tesa,
decisa
e,

se
volete,
“dura”.
La
nostra
deve
essere
una
lotta
intelligente,
“astuta”:

l’unica
davvero
vincente.



24


 






























 
 25


Capitolo
VI








Si
domandava,
e
domandava
agli
altri,
Antoni
Simon
Mossa
cercando

di
definire
la
nostra
scelta
politica:
«Perché
siamo
in
questa
posizione

di
indipendentismo?».


E
la
risposta,
da
cui
noi
ora
dobbiamo
ripartire,
è
questa:


«Primo:
perché
noi
sardi
siamo
diversi
dagli
altri
popoli,
per
ragioni

etniche,
di
cultura,
di
civiltà,
di
mentalità
e
sempre
abbiamo
conservato

questa
differenza
che
non
ci
consente
una
qualunque
integrazione
con

altri
 popoli,
 come
 quello
 italiano,
 o
 francese,
 o
 spagnolo.
 Ma
 questa

differenza,
unita
alla
comune
origine
della
nostra
civiltà
nel
grembo
del

Mediterraneo,
 ci
 consente
 di
 vivere
 in
 piena
 armonia
 con
 tutti
 quei

popoli,
l’italiano,
il
francese,
il
catalano,
lo
spagnolo,
il
maghrebino,
in

una
“unione”
spirituale
che
è
però
il
contrario
di
una
unione
politica
di

sottomissione.
 Perché
 siamo
 un
 popolo
 così
 piccolo
 che
 la

subordinazione
diventa
inevitabile».


È
 un
 punto
 di
 partenza
 semplice
 e
 diretto
 che,
 con
 le
 debite

specificazioni,
 fa
 parte
 di
 quella
 definizione
 di
 noi
 stessi
 e
 del
 nostro


 indipendentismo
che
stiamo
elaborando
per
convincere
i
sardi

della
possibilità
e
della
necessità
della
Repubblica
di
Sardegna.




 26
 
























 
 27


Capitolo
VII








Ci
sono
ora
due
questioni
a
cui
abbiamo
accennato
e
su
cui
dobbiamo

tornare
perché
ad
esse
dobbiamo
prestare
attenzione
e
far
fronte.


La
prima
è
che
vogliamo
unire
gli
indipendentisti.


Ciò,
tuttavia,
può
sembrare
un
po’
strano
se
non
ci
si
pone
la
seconda

questione:
 vale
 a
 dire
 vogliamo
 (abbiamo
 voluto)
 definire
 chi
 sono
 gli

“indipendentisti”,
 che
 cos’è
 “indipendentismo”
 (soprattutto
 nel

momento
in
cui
in
tanti
ricominciano
a
riempirsene
la
bocca).


Tale
necessità
di
capire
che
cosa
è
effettivamente
l’indipendentismo

e
chi
sono
effettivamente
gli
indipendentisti
non
nasce
da
una
smania

di
 unicità
 ma
 serve
 per
 evitare
 che
 la
 confusione
 eventualmente

sopportabile
oggi
diventi
un
danno
per
l’indipendenza
della
Sardegna

domani,
vale
a
dire
quando
la
lotta
indipendentista
si
farà
più
delicata

e
 la
 presenza
 nei
 luoghi
 e
 nei
 momenti
 decisivi
 di
 pseudo‐
indipendentisti
 potrà
 rivelarsi
 estremamente
 dannosa.
 Se
 non
 si

separa
 la
 pula
 dal
 chicco
 adesso
 non
 ci
 si
 potrà
 poi
 lamentare
 della

qualità
 del
 grano
 una
 volta
 macinato
 o
 peggio,
 se
 non
 si
 cura
 fin
 dal

principio
il
maturare
della
spiga
non
ci
si
potrà
lamentare
se
si
dovrà

buttare
 via
 tutto
 il
 raccolto
 quando
 si
 scoprirà
 che,
 nella
 bramosia
 di



28
 


farla
 crescere
 più
 in
 fretta,
 è
 stata
 trattata
 con
 qualche
 sostanza

velenosa.



























 
 29


Capitolo
VIII








Prima
 di
 unire
 i
 sardi
 bisogna
 dunque
 unire
 gli
 indipendentisti

perché
 noi
 vogliamo
 unire
 i
 sardi
 su
 di
 un
 progetto
 indipendentista
 e

non
 così,
 su
 quello
 che
 capita
 o
 su
 di
 una
 unione
 fine
 a
 se
 stessa,
 che

poi
 è
 in
 realtà
 sempre
 una
 finta
 unione
 utile
 solo
 per
 chi
 pensa
 di

gestirla.
 Un
 progetto
 di
 mera
 unione
 dei
 sardi,
 oltre
 a
 presupporre

l’esistenza
 proto‐fondamentalistica
 di
 una
 sardità
 essenziale,

indiscussa
e
indiscutibile,
che
costituisce
il
dato
di
fondo
che
sostiene
e

motiva
 l’unione,
 rischia
 di
 essere
 utile
 solamente
 a
 fornire
 al
 potere

che
 attorno
 ad
 esso
 si
 crea
 un
 consenso
 da
 gestire;
 una
 gestione

ovviamente
 a
 fini
 di
 potere,
 dunque
 una
 “politica”
 assolutamente

identica
 a
 quella
 che
 già
 oggi
 le
 classi
 dirigenti
 “sarde”
 praticano,

dunque
una
politica
inutile
e
dannosa
per
i
sardi
stessi.


È
evidente
allora
che
siamo
assolutamente
distanti
da
tutti
i
progetti

di
 “case
 comuni”,
 anche
 laddove
 si
 definiscano
 “nazionalitarie”,
 che

uniscono
i
sardi
giusto
per
unirli,
case
comuni
autonomiste
e
unioniste

che
 dietro
 l’appello
 all’unità
 dei
 sardi
 nascondono
 la
 volontà
 di

mantenere
 le
 cose
 come
 sono
 o
 comunque
 prospettano
 cambiamenti

che
 sono
 tutt’altro
 che
 indipendentisti.
 Progetti
 senza
 direzione
 e

senso
 che
 generalmente
 chiedono
 a
 chi
 vi
 entra
 un
 unico
 impegno:



30
 


quello
 di
 rinunciare,
 in
 nome
 del
 “buon
 senso”
 del
 servo,
 a
 qualsiasi

idea
 indipendentista.
 Come
 sperare
 infatti
 che
 queste
 case
 comuni

costruite
con
il
benestare
del
potere
e
ispirate
alla
logica
dello
status‐
quo
 possano
 ottenere
 un
 “buon
 compromesso”
 se
 al
 loro
 interno

aleggia
qualche
fantasma
indipendentista?
Non
è
un
caso
che,
una
volta

che
si
formano
a
prescindere
da
chiunque
vi
partecipi,
dal
loro
interno

si
 leva
 sempre,
 anche
 se
 non
 richiesta,
 la
 dichiarazione
 che

l’indipendentismo
è
“velleitario
e
astorico”.


Inutile
 dire
 che
 chi
 partecipa
 a
 queste
 “case
 comuni”
 può
 solo

stranamente
 o
 per
 fraintendimento
 definirsi
 indipendentista.
 O
 forse

persegue
 in
 un
 altro
 modo,
 dissimulato
 e
 difficilmente
 riconoscibile,

l’indipendenza.
Se
così
fosse,
se
veramente
quella
è
una
alternativa
che

porta
 all’indipendenza
 e
 ad
 una
 indipendenza
 dignitosa,
 allora

“auguri!”,
non
ci
può
che
essere
la
speranza
che
una
delle
vie
si
compia.

Certo
però
è
una
strategia
che
ci
lascia
perplessi
ed
è
sicuramente
un

modo
di
procedere
molto
diverso
dal
nostro.













 
 31


Capitolo
IX








L’indipendentismo,
 per
 certi
 versi,
 è
 come
 un
 bambino
 che
 può

restare
 pigramente
 nella
 sua
 carrozzella
 spinta,
 forse,
 da
 braccia


apparentemente
possenti
‐
correndo
però
il
rischio
di
essere
lasciato
in

mezzo
alla
strada
(o
in
un
qualsiasi
altro
posto
da
lui
non
scelto
e
per

lui
 inutile
 e
 pericoloso)
 o
 semplicemente
 condotto
 in
 una
 direzione

sbagliata
 e
 dannosa
 ‐,
 oppure
 può
 sforzarsi
 di
 compiere,
 a
 costo
 di

ripetute
 cadute
 e
 di
 tanta
 fatica,
 un
 primo,
 piccolissimo
 ma
 decisivo

passo.


Del
 resto
 perché
 ci
 emozioniamo
 tanto
 davanti
 ad
 un
 bambino
 che

compie
il
suo
primo
passo?


Perché
sentiamo
che
in
quel
momento
si
apre
per
lui
la
possibilità
di

arrivare
ovunque.


Credo
 che
 come
 il
 bambino
 noi
 necessariamente
 inizieremo
 a

mettere
 un
 piede
 davanti
 all’altro,
 anche
 se,
 diversamente
 dal

bambino,
 questa
 potenzialità
 vada
 scelta
 più
 di
 quanto
 non
 basti

semplicemente
 accoglierla
 e
 assecondarla
 come
 se
 fosse
 qualcosa
 di

“naturale”.



32
 
























 
 33


Capitolo
X








Non
 aspetteremo
 dunque
 che
 siano
 gli
 altri
 a
 cambiare
 le
 cose
 per

noi;
quale
indipendentismo
c’è
in
un
agire
politico
che
segue
le
cose
del

mondo,
 che
 aspetta
 che
 siano
 gli
 avvenimenti
 del
 mondo
 e
 gli
 altri
 a

produrre
 le
 condizioni
 della
 nostra
 indipendenza?
 Quale

indipendentismo
c’è
in
una
impostazione
politica
che
si
affida
agli
altri

per
cambiare
le
cose,
o
che,
nascondendosi
dietro
un
falso
“realismo”,

sostanzialmente
 non
 crede
 che
 i
 sardi
 possano
 farcela
 a
 ottenere

l’indipendenza
 con
 le
 proprie
 forze,
 ma
 già
 la
 vincola,
 nella
 sua

impostazione
pratica
e
concettuale,
a
fattori
totalmente
esterni?
Certo,

noi
sappiamo
che
non
basta
la
nostra
volontà
a
determinare
la
storia,

ma
 perché
 dovremmo
 smettere
 di
 avere
 fiducia
 nel
 fatto
 che
 noi

possiamo
farcela?


Ma
 la
 cosa
 ancora
 più
 importante
 è
 che
 questa
 mancanza
 di
 fiducia

nasconde
un
meccanismo
ancora
più
perverso,
doppiamente
perverso.


In
primo
luogo
infatti
mina
qualsiasi
sentimento
di
fiducia
in
se
stessi

dei
sardi,
continua
a
parlar
loro
di
ciò
che
non
si
può
fare,
continua
a

raccontargli
la
storia
sarda
come
se
fosse
fatta
solo
di
dominazioni,
gli

parla
ancora
del
loro
essere
“poco,
locos
e
male
unidos”,
insinua
in
loro

un
 discorso
 e
 un
 sentimento
 fatalista,
 o
 al
 più,
 risentito.
 Questa



34
 


impostazione
 non
 ha
 il
 coraggio
 di
 inventare
 nulla,
 di
 cambiare

stereotipie,
 di
 proporre
 ai
 sardi
 di
 guardare
 a
 se
 stessi
 in
 modo

diverso,
 e
 ciò
 forse
 perché
 non
 sa,
 non
 può
 o
 non
 ha
 il
 coraggio
 di

raccontare
la
storia
della
libertà
dei
sardi,
delle
lotte
e
dei
desideri
che

per
 millenni
 hanno
 attraversato
 questa
 terra
 e
 sospinto
 il
 nostro

popolo
nei
momenti
migliori.


In
 secondo
 luogo
 questa
 impostazione
 implica
 che
 ci
 si
 possa

comodamente
 mettere
 ad
 aspettare
 che
 si
 aprano
 le
 possibilità

dell’indipendenza:
 ma
 la
 verità
 è
 che
 se
 queste
 condizioni
 non
 le

creiamo
 noi,
 anche
 se
 per
 un
 movimento
 rocambolesco
 della
 storia

queste
 si
 creassero,
 noi
 non
 saremmo
 pronti
 a
 sfruttarle.
 Se
 noi
 non

creiamo
 la
 coscienza
 indipendentista,
 dunque
 se
 noi
 non
 abbiamo

fiducia
 nel
 fatto
 che
 noi
 possiamo
 costruire
 la
 nostra
 indipendenza,

indipendentemente
 dagli
 eventi
 esterni
 che
 potrebbero
 frapporsi
 al

nostro
obbiettivo,
noi
ci
troveremmo,
nel
momento
in
cui
il
“caso”
o
la

“Storia”
 ci
 concedesse
 la
 nostra
 opportunità
 di
 libertà
 con
 un
 popolo

talmente
 convinto
 di
 essere
 italiano
 tale
 che
 esso
 finirebbe
 per

rifiutare
la
possibilità
di
diventare
indipendente.


Immaginate
che
lo
Stato
italiano
si
disgreghi
a
causa
di
una
qualche

causa
ad
esso
interna
o
esterna:
provate
ad
immaginare
adesso
che
in

quel
 momento
 per
 i
 sardi
 si
 apra
 la
 possibilità
 di
 scegliere
 ciò
 che

vogliono
 fare
 di
 loro
 stessi.
 Ma
 immaginate
 anche
 che
 in
 tutti
 quegli

anni
precedenti
i
sardi
abbiano
vissuto
convinti
di
essere
italiani,
senza

nessuno
 stimolo
 seriamente
 indipendentista.
 Cosa
 credete
 che

farebbero?
 Diventerebbero
 probabilmente
 i
 più
 strenui
 difensori

dell’Italia
e
della
sua
unità:
la
Sardegna
rimarrebbe
forse
l’unico
“pezzo

d’Italia”,
 l’ultimo
 baluardo,
 anche
 quando
 tutto
 il
 resto
 si
 fosse




 35


costituito
 in
 chissà
 quali
 incredibili
 repubbliche.
 Assurdo?
 No,
 è
 già



successo
e
in
parte
succede
tuttora.



























 36
 
























 
 37


Capitolo
XI








Certo
 costruire
 l’indipendentismo
 e
 la
 Repubblica
 Sarda,
 richiede

tempo,
 fiducia,
 pazienza.
 Non
 si
 può
 credere
 che
 cambiare
 le
 cose
 sia

facile.


Come
diceva
Antoni
Simon
Mossa:
«La
via
dell’indipendenza
è
lunga,

difficile,
 costellata
 di
 trabocchetti,
 di
 sofferenze,
 di
 rinunce,
 di
 amare

delusioni,
 e
 –
 soprattutto
 –
 di
 sconfitte.
 Ma
 noi
 crediamo,
 dobbiamo

credere,

dobbiamo
far
credere
anche
gli
altri
nostri
fratelli.
Illuminarli

e
 cancellare
 le
 loro
 illusioni
 integrazioniste,
 spazzare
 il
 servilismo
 di

sempre.
 [Soltanto
 così]
 serviremo
 il
 popolo
 sardo,
 questo
 piccolo

grande
popolo
che
ha
paura
di
essere
salvato
da
un
avvenire
pieno
di

caligine
e
di
miseria.
Questo
popolo
che
vuole
essere
distrutto».

Del
resto
come
una
vecchia,
grossa
e
ingombrante
nave
che
reagisce

al
 cambiamento
 di
 rotta
 sempre
 in
 ritardo
 rispetto
 al
 comando,

rispetto
a
quel
timone
già
girato,
così
potrebbe
essere
per
noi
la
storia.


Forse
abbiamo
già
compiuto
la
manovra
decisiva,
la
manovra
giusta,

e
 forse
 la
 storia
 ha
 già
 iniziato
 a
 virare
 nel
 nostro
 verso
 ma
 il

cambiamento
 della
 direzione
 ha
 bisogno
 del
 suo
 tempo
 e
 anche

quando
inizia
realmente
è
difficile
percepirlo:
il
mare
è
così
grande
e
se

la
terra
non
si
vede
ancora
e
avete
perso
l’abitudine
a
guardare
le
stelle



38
 


quell’immensità
 sarà
 talmente
 vuota
 da
 sembrarvi
 senza
 punti
 di



riferimento
 e
 dunque
 renderà
 impossibile
 capire
 se
 veramente
 si
 è

virato
verso
altrove.


L’importante
nel
mentre
è
non
distrarsi,
tenere
il
timone
ben
saldo,

continuare
a
manovrare
affinché
il
cambio
di
rotta
avvenga
davvero
e

avvenga
nel
miglior
modo
possibile,
dato
che,
come
succede
in
mare,
le

onde
–
del
tempo
e
del
mondo
–
non
vi
permetteranno
mai
di
ottenere

esattamente
ciò
che
volevate,
come
lo
volevate.


Ma
 và
 detto:
 tenendo
 o
 girando
 timoni
 in
 mezzo
 alla
 tempesta
 o

all’immenso
 mare
 calmo,
 non
 possiamo
 dire
 fin
 da
 principio
 dove

arriveremo.
Davanti
a
queste
forze
ben
poco
appare
dipendere
da
noi.

Ma
 che
 senso
 avrebbe
 abbandonarsi
 alla
 deriva,
 mollare
 la
 presa,

lasciare
 la
 nostra
 nave
 (forse
 una
 piccola
 barca
 a
 vela
 o
 forse
 una

zattera,
o
magari
un
agile
surf)
totalmente
in
balia
delle
correnti
e
dei

venti?
 Noi
 proviamo
 a
 fare
 la
 nostra
 parte:
 così,
 quando
 saremo

costretti
 ad
 abbandonarla,
 questa
 nave
 che
 è
 la
 vita,
 sentiremo
 e

sapremo,
 che
 almeno
 da
 qualche
 parte
 siamo
 andati,
 almeno
 ci

abbiamo
provato,
non
siamo
restati
fermi
o
inerti.











 
 39


Capitolo
XII








«Noi
vogliamo
dire
ai
sardi,
a
tutti
quei
sardi
che
ancora
non
si
sono

venduti
 all’oppressore,
 che
 soffrono
 in
 patria
 o
 all’estero
 per
 non

rinunciare
 alla
 loro
 dignità
 e
 alla
 loro
 condizione
 di
 uomini
 liberi,

vogliamo
dire
a
tutti
costoro
che
abbiamo
il
coraggio
di
batterci
per
la

liberazione
 della
 Sardegna,
 per
 l’indipendenza
 politica
 ed
 economica

del
 popolo
 sardo,
 per
 l’abolizione
 dell’ultimo
 e
 più
 brutale
 regime

coloniale
d’Europa»
(A.
Simon
Mossa).


Oggi
come
ieri
siamo
qui
a
dire
che
abbiamo
il
coraggio
di
portare
i

sardi
e
la
Sardegna
all’Indipendenza,
a
promettere
che
costruiremo
la

Repubblica
 Sarda.
 Ma
 a
 differenza
 di
 ieri
 la
 colonizzazione,

l’assoggettamento,
 passa
 attraverso
 di
 noi
 più
 di
 quanto
 non
 ci
 venga

imposto
dall’esterno.


Ciascuno
allora
è
chiamato
a
fare
la
sua
parte:
di
fronte
e
insieme
alla

nostra
 promessa
 deve
 stare
 l’impegno
 di
 tutti,
 l’impegno
 che
 ogni

donna
e
ogni
uomo
di
Sardegna
saprà
prendersi
nei
confronti
della
sua

terra
e
del
mondo.


La
nostra
libertà,
ora,
dipende
solo
da
noi,
dal
nostro
sapere
e
voler

essere
indipendentisti.




 40
 






























 
 41


Pro
s’Indipendentzia
de
sa
Sardigna


La
 scelta
 “autonomista”
 come
 sacrificio



dell’indipendenza








Quando
 nel
 secondo
 dopoguerra
 la
 classe
 dirigente
 sarda
 trattò
 la

concessione
dell’Autonomia
lo
fece
a
spese
della
Natzione
Sarda.

Per
 poter
 avere
 quel
 poco
 che
 poi
 ottenne,
 la
 Sardegna
 dovette

rinunciare
alla
sua
possibilità
di
far
vivere
e
sviluppare
la
sua
diversità:

la
 bozza
 di
 Statuto
 in
 cui
 si
 richiedeva
 l’Autonomia
 iniziava
 con
 un

preambolo
 in
 cui
 si
 affermava
 che
 l’Autonomia
 stessa
 nasceva
 ed
 era

legittima
sulla
base
di
una
comunanza
di
lingua,
tradizioni,
cultura
fra

Sardegna
 e
 Italia
 (cosa,
 non
 ci
 sarebbe
 neanche
 bisogno
 di
 dirlo,

totalmente
 falsa).
 In
 poche
 parole:
 per
 avere
 l’Autonomia
 si
 doveva

dare
via
in
cambio
la
propria
diversa
nazionalità,
per
poter
rivendicare

un
 diverso
 trattamento
 economico
 da
 parte
 dello
 Stato
 si
 doveva

negare
la
propria
identità.

In
 definitiva:
 si
 trattava
 di
 dimostrare
 la
 propria
 fedeltà
 all’Italia

cercando
 di
 distruggere
 qualsiasi
 sentimento
 di
 appartenenza
 alla

Natzione
 Sarda.
 Il
 tutto
 per
 riuscire
 a
 divenire
 “italiani
 come
 tutti
 gli

altri”.



42


 
























 
 43


Il
tradimento
di
Lussu







L’emblema
di
questo
processo
fu
Emilio
Lussu:
padre
del
“sardismo”

e
 contemporaneamente
 eroe
 della
 patria
 italiana.
 Non
 a
 caso
 davanti

alle
 vampate
 indipendentiste
 del
 primo
 e
 del
 secondo
 dopoguerra
 fu

lui
 a
 parlare
 della
 nazione
 sarda
 come
 “fallita”
 e
 del
 “nazionalismo

sardo”
 come
 perversione
 irrazionale
 e
 reazionaria:
 «
 Io,
 infatti,

considero
il
separatismo
una
forma
di
corruzione
e
decadenza
politica,

alla
stessa
stregua
del
fascismo.
Il
separatismo
è
una
malattia
politica,

che
si
ha
certamente
il
dovere
di
spiegare,
ma
anche
di
combattere.
Se

è
una
malattia,
bisogna
pure
guarirla»,
scriveva
nel
maggio
del
1945.


Quando
 nel
 secondo
 dopoguerra,
 come
 racconta
 Michelangelo
 Pira,

la
 Sardegna
 si
 infiammava
 di
 indipendentismo
 ed
 aspettava
 il
 ritorno

di
Lussu
convinta
che
sarebbe
stato
lui
a
guidarla
verso
quel
traguardo,

la
classe
dirigente
sarda
sapeva
già
che
sarebbe
stato
lo
stesso
Lussu
a

distruggere
 tutto.
 Come
 disse
 il
 comunista
 italiano
 Velio
 Spano:

“Lasciate
che
torni
Lussu
e
vedrete…”.
Ed
infatti
l’italiano
Lussu
venne

e,
come
racconta
ancora
Pira
(in
una
sua
lettera
a
Titino
Melis),
gettò

“secchiate
di
acqua
fredda”
sui
Sardi
che
erano
accorsi
in
Piazza
Italia

(ironia
 dei
 nomi
 e
 del
 dominio)
 aspettando
 di
 sentire
 le
 parole

magiche:
Repubblica
Sarda
Indipendente.




44
 


Ma
forse
non
c’era
da
stupirsene
o
da
aspettarsi
qualcosa
di
diverso

da
 uno
 che
 in
 una
 seduta
 del
 parlamento
 italiano
 del
 dicembre
 del

1921,
 davanti
 alle
 ipotesi
 di
 alcuni
 parlamentari
 italiani,
 secondo
 i

quali
vi
erano
delle
affinità
fra
la
situazione
irlandese
(che
di
lì
a
poco

sarebbe
 sfociata
 nell’indipendenza)
 e
 quella
 sarda,
 rispose

prontamente:


«[…]
 io
 non
 ho
 mai
 affermato
 che
 vi
 potesse
 essere
 qualche
 affinità

fra
 l’Irlanda
 e
 la
 Sardegna
 (Bravo!
 Bene!)
 [la
 trascrizione
 riporta

ovviamente
 anche
 i
 commenti
 del
 parlamento
 italiano].
 O
 meglio,

perché
 intendo
 essere
 preciso,
 vi
 possono
 essere
 ipotetiche
 affinità

storiche,
 etnografiche,
 geografiche,
 ma
 non
 vi
 sono
 assolutamente

affinità
 di
 aspirazioni
 […].
 I
 sardi
 non
 intendono
 rinunziare
 alla
 loro

italianità
spirituale;
dico
spirituale
perché
ci
sentiamo
italiani
solo
per

il
pensiero
italiano
di
cui
è
fatta
la
nostra
cultura;
ci
sentiamo
italiani

più
 per
 l’immenso
 contributo
 di
 sangue
 che
 abbiamo
 offerto,
 in
 ogni

appello,
 alla
 pericolante
 patria,
 che
 per
 la
 comunanza
 di
 vita,
 di

interessi
 di
 costumi
 e
 di
 storia.
 Non
 dimenticate
 che
 nell’800
 in

Sardegna
si
parlava
ancora
spagnuolo».


Notiamo
bene
diverse
cose
molto
importanti:


1) che
in
Sardegna
si
è
sempre
parlato
sardo
a
Lussu
non
interessa

affatto;



2) alla
fine
si
ammette
che
“oggettivamente”
la
Sardegna
è
diversa

dall’Italia;




 45


3) l’italianità
è
spirituale:
il
“pensiero
italiano
di
cui
è
fatta
la
nostra

cultura
[sarda]”;


4) ma
 soprattutto
 sentimentale;
 il
 legame
 instaurato
 con
 il

sacrificio.
L’aver
sofferto
come
gli
altri
per
la
“patria”.


5) la
 Sardegna
 è
 quasi
 come
 l’Irlanda
 solo
 che
 i
 Sardi,
 secondo

Lussu
ovviamente,
non
vogliono
essere
indipendenti.




Ora
che
il
punto
5
fosse
falso
lo
dimostra
sia
il
fatto
che
alla
fine
della

seconda
guerra
mondiale
i
sardi
si
aspettavano
l’indipendenza,
sia
che

pochi
 anni
 prima
 dello
 stesso
 discorso
 di
 Lussu,
 vi
 era
 chi,
 come

“Montanaru”
 (Antiocu
 Casula),
 parlava
 della
 Sardegna
 in
 tono

decisamente
e

spiritualmente
sardo.
Anche
per
smentire
il
terzo
punto

delle
 argomentazioni
 di
 Lussu,
 sia
 per
 ricordargli
 che
 in
 Sardegna
 si

parla
 anche
 il
 sardo,
 ma
 soprattutto
 per
 ricordare
 da
 dove
 veniamo,


leggiamoci
la
commovente
“A
tie,
Sardigna!”:


Sallude
Sardigna
cara!
O
terra
mia,

Mamma
d’òmines
fortes,
berrittados,

De
pianos
e
montes
desolados,

De
bellas
fèmminas
e
de
poesia.


Una
die
che
perla
ses
cumparta

Subra
sos
mares
ricca
d’onzi
incantu

E
curreit
de
te
su
dulche
vantu



46
 


De
sa
fama,
che
vela
in
mar’isparta.


sos
òmines
e
sas
terras

Fruttos
daian
caros
che
i
s’oro,

E
in
su
mundu
non
b’aiat
coro

Chi
no
esset
branadu
cuddas
serras


De
Gennargentu
mannu
e
de
Limbara

O
sas
baddes
de
su
Tirsu
e
Flumendosa.

E
tue
che
una
dea
gloriosa

Subras
sas
abas
risplendias
giara.


Dae
tando
passein
longos
annos

E
tue
rutta
in
bassu
tantu
sese

Tue
lizu
de
prìncipes
e
rese,

Rutta
che
Cristos
sutta
sos
affannos.


Ma
non
t’avviles!
Pes’alta
sa
testa

Sardigna
mia!
E
mira
in
altu
mira

Pustis
de
tantu
dolu
e
de
tant’ira

Est
tempus
chi
pro
te
puru
siet
festa.


Sos
buscos
tuos
ti
lo
s’han
distruttos

Cun
piccones
cun
serras
e
istrales,

Han’ingrassadu
sos
continentales

E
tue
ses
restada
senza
fruttos.




 47


A
tie
sempre
sos
impiegados

Chi
tentu
han
fama
‘e
falsos
e
ladrones

Ca
sempre
han
giutu
custos
berrittones

Che
unu
tazzu
de
boes
domados.


E
has
pagadu
a
sa
muda
donzi
tassa

Pòpulu
sardu
avvessu
a
obbedire

Cun
su
coro
siccadu
in
su
patire,

Cun
su
coro
siccadu
che
pabassa!


Ma
coraggiu,
coraggiu!
Àtteros
coros

Oe
Sardigna
t’àniman
sas
biddas

Commo
su
mortu
fogu
ettet
chinchiddas

Chi
altas
lughen’in
tottu
sos
oros


De
custu
mare
ch’ispettat
serenu

Sa
tua
fortuna;
e
sied’issa
accanta

Pro
te
patria
mia
o
terra
santa

Tenta
sempre
in
penuria
e
in
frenu.


Sos
fizzos
tuos
giòvanos
e
bellos

Ardimentosos,
giaman
libertade

E
giustizia
e
donzi
bontade

Subra
d’antigos
òdios
rebellos.


E
issos
Patria
a
tie
ti
den
dare

Donz’umana
potenzia
e
fortuna



48
 


Gloriosa,
comente
dat
sa
luna

Sa
lughe
a
su
serenu
tuo
mare.



Inizia
 a
 venirci
 il
 sospetto
 che
 a
 pensare
 in
 italiano
 e
 a
 non
 sentirsi

sardo
fosse
proprio
Lussu
e
non
i
Sardi,
visto
che
alla
loro
cultura
e
al

loro
 sentimento
 erano
 certamente
 più
 vicini
 i
 poeti
 (che
 peraltro

parlavano
 la
 loro
 lingua)
 che
 i
 politici
 (che
 andavano
 a
 cercare
 gloria

dagli
italiani
in
Parlamento)…

Ma
 non
 basta.
 E’
 evidente
 che
 c’è
 un
 fatto
 concreto,
 storicamente

situato,
 che
 agisce
 in
 profondità
 su
 Lussu
 e
 di
 cui
 si
 pagano
 le

conseguenze
 ancor
 oggi:
 è
 l’esperienza
 della
 “Grande
 Guerra”.
 E’
 a

partire
 da
 essa
 che
 il
 circolo
 vizioso
 fra
 Sardegna
 e
 Italia
 si
 stringe

ancora
di
più,
fino
a
divenire
una
sorta
di
cappio
stretto
intorno
al
collo

della
Natzione
Sarda.


Ci
 sono
 da
 fare
 alcune
 considerazioni:
 per
 Lussu
 quella
 guerra
 fu
 la

scoperta
 dell’essere
 i
 sardi
 “politicamente
 arretrati”,
 cosa
 che
 egli

ribadirà
in
un
suo
importante
articolo
del
1951
apparso
sulla
rivista
“Il

Ponte”.
 Ora,
 che
 Lussu
 non
 avesse
 molta
 stima
 dei
 sardi
 non
 vi
 è

dubbio:
 non
 riporteremo
 il
 passo
 di
 una
 lettera
 mandata
 ad
 uno
 dei

dirigenti
 PSd’Az
 (riportata
 nel
 libro
 Sardisti,
 di
 Cubeddu)
 in
 cui
 li

definisce
con
un
termine
che
qui
tradurremo
con
“prostitute”.
E’
facile

spiegarsi
a
questo
punto
perché
l’unica
cosa
buona
che
i
sardi
avessero

fatto
secondo
Lussu
fosse
stato
sacrificarsi
per
l’Italia:
un
popolo
così

“arretrato”
non
poteva
certo
produrre
qualcosa
di
buono
da
sé
e
per
sé.

Immaginatevi
poi
che
vergogna
appartenere,
o
peggio,
essere
il
capo,
di

una
massa
di
prostitute.





 49


Ed
 infatti
 Lussu
 non
 ci
 pensò
 due
 volte:
 i
 sardi
 gli
 servivano
 per

divenire
 un
 grande
 capo
 italiano
 (quanti
 ne
 abbiamo
 visto
 e
 ne

vediamo
 di
 questi
 personaggi…).
 Siccome
 i
 sardi
 rimanevano
 brutti,

cattivi
e
potenzialmente
traditori
(in
quanto
ostinatamente
diversi),
ed

essendo
 comunque
 pochi,
 Lussu
 aspettò
 una
 seconda
 guerra
 per

divenire
 un
 vero
 eroe
 patriota1:
 dalla
 Francia
 scrisse
 dunque
 “Per

l’Italia
dall’esilio”.












































































1
N.B.:
diffidiamo
dei
sardi
che
ci
vengono
a
dire
“beati
i
popoli
che
non
hanno


bisogno
di
eroi”,
perché
molte
volte
sono
proprio
gli
esaltatori
di
Lussu
e
quindi

vogliono
semplicemente
dire
“speriamo
che
non
nasca
in
Sardegna
qualcuno
che

voglia
fare
l’eroe
per
i
sardi”;
ovviamente
a
loro
sta
bene
che
gli
eroi
nascano
per

l’Italia…



50


 
























 
 51


Il
 fondamento
 dell’Autonomia:
 la
 vergogna
 di



essere
sardi








Iniziano
 ad
 accumularsi
 qui
 i
 segni
 sempre
 più
 evidenti
 di
 come

l’Autonomia
 e
 la
 sua
 cultura,
 di
 cui
 Lussu
 è
 semplicemente
 la
 figura

esemplare,
 nascano
 sulla
 base
 di
 un
 distacco
 dalla
 cultura
 del
 Popolo

Sardo,
 e
 peggio
 ancora,
 sulla
 base
 di
 una
 vergogna
 nei
 confronti
 di

quella
stessa
cultura
che
sfocia
nel
desiderio
di
agire
e
soffrire
(fino
ad

arrivare
a
rischiare
la
vita)
per
un
altro
popolo.


Non
a
caso
fu
quella
stessa
cultura
autonomista
a
scordarsi
il
debito

profondo
che
aveva
con
le
morti
della
Prima
Guerra
mondiale.


Al
 fondo
 di
 quel
 sacrificio
 vi
 era
 infatti
 tutta
 la
 violenza
 di
 una

negazione
di
identità
e
libertà
giocata
contro
un
intero
popolo;
vi
era
la

radicale
 e
 disperata
 umanità
 di
 una
 vicenda
 che
 ci
 accomuna
 a
 tutti

quegli
 altri
 popoli
 (che
 difficilmente
 hanno
 volontariamente
 offeso

qualcuno
nella
loro
storia)
che
come
noi
sono
arrivati
a
quel
massimo

di
 perversione
 in
 cui
 hanno
 negato
 gli
 altri
 contro
 cui
 non
 avrebbero

dovuto
aver
nulla
–
uccidendoli
materialmente
–,
mentre
negavano
se

stessi,
 abdicando
 alla
 loro
 diversità,
 incapaci
 di
 chiamarsi
 fuori,

lasciandosi
prendere
dal
meccanismo
per
cui
se
si
era
stati
“chiamati”
a



52
 


partecipare
era
perché
si
era
italiani
e
si
era
italiani
perché
si
era
stati

“partecipanti”.


Noi
 siamo
 chiamati,
 grazie
 anche
 alla
 distanza
 temporale
 che
 si
 è

frapposta
 e
 alla
 coscienza
 di
 noi
 stessi
 che
 abbiamo
 maturato,
 a
 dar

senso
 a
 tutto
 ciò
 comprendendo
 che
 coloro
 che
 si
 ritrovarono
 nel

paradosso
 furono
 coloro
 che
 più
 forte
 subirono
 l’acculturazione:
 la

classe
dirigente
del
PSd’Az,
da
tale
punto
di
vista
non
rese
molto
onore

a
quelle
morti,
o
perlomeno
lo
rese
a
suo
modo,
in
definitiva
lasciando

intendere
che
quei
Sardi
combatterono
giustamente
(non
a
caso
quelle

morti
vennero
usate
come
se
si
potesse
metterle
su
una
bilancia
in
cui

misurare
 ciò
 che
 ci
 spettava
 dallo
 Stato
 come
 in
 un
 mero
 scambio

mercantilistico:
poco
spazio
per
una
domanda
più
inquietante:
“perché

andare
a
trattare
con
i
propri
aguzzini?”).


Ma
è
ciò
che
noi
sappiamo
oggi
che
conta:
non
c’era
per
i
Sardi
nulla

di
giusto
in
quelle
guerre,
nemmeno
l’idea
di
difendere
la
loro
libertà,

visto
 che
 non
 combattevano
 per
 loro
 e
 non
 combattevano
 come

popolo.
Ma
è
evidente
che
a
tale
considerazione
possiamo
arrivare
noi

che
 abbiamo
 un
 sentimento
 di
 appartenenza
 che
 ci
 lega
 nel
 tempo
 e

nella
 memoria
 a
 coloro
 che
 ci
 hanno
 preceduti
 su
 questa
 terra
 e
 che,

coscienti
 o
 meno
 lo
 fossero,
 hanno
 sofferto
 e
 non
 hanno
 mai
 trovato

giustizia
proprio
perché
erano
diversi.


Cosa
troppo
difficile
da
capire
per
quei
sardi
unionisti
ed
italianizzati

che
 avevano
 indissolubilmente
 legato
 il
 loro
 prestigio
 personale
 alle

sorti
di
un’altra
cultura
che
probabilmente
ritenevano
migliore.





 
 53


L’elaborazione
della
diversità








Se
guardiamo
alla
genesi
di
altre
“nazioni
nate
tardi”
vediamo
come

l’emergere
 di
 una
 coscienza
 nazionale
 passi
 tramite
 una
 elaborazione

della
 propria
 diversità:
 una
 dinamica
 che
 ponendo
 in
 essere
 un

processo
di
“differenziazione
culturale”,
riattiva
e/o
rinforza
il
piacere

ed
il
sentimento
di
appartenenza
ad
una
cultura
e
che
sfocia
poi
in
una

dimensione
 pienamente
 politica.
 Questa
 dinamica,
 che
 gli
 studiosi

attestano
 in
 particolar
 modo
 nei
 casi
 di
 risveglio/creazione
 di

coscienze
nazionali
del
secolo
scorso
e
dell’inizio
di
questo
secolo
può

forse
in
parte
aiutarci
a
portare
avanti
il
nostro
discorso.


Come
 abbiamo
 visto
 infatti,
 è
 Lussu
 stesso
 a
 testimoniare
 di
 una

diversità
 culturale
 radicale
 fra
 Sardegna
 ed
 Italia;
 del
 resto

“Montanaru”
sembra
farsi
interprete/traduttore
di
un
sentimento
forte

di
appartenenza
nazionale
sarda.
Ora
però
va
detto
che
il
processo
di

elaborazione
culturale
di
cui
“Montanaru”
potrebbe
essere
testimone,
è

in
 realtà
 –
 negli
 altri
 casi
 europei
 –
 ben
 più
 profondo,
 o
 comunque
 di

diversa
 qualità.
 Esso
 fa
 capo
 ad
 una
 elaborazione
 intellettuale
 che

fondamentalmente
 accosta
 al
 sentimento
 di
 appartenenza
 una

reinterpretazione,
 una
 rilettura,
 della
 propria
 vicenda
 storica,
 che
 in

qualche
 modo
 incanala
 e
 sancisce
 la
 qualità
 di
 quel
 sentimento
 e
 di



54
 


quella
 appartenenza.
 In
 definitiva,
 svolgendo
 un
 ruolo
 che
 è
 già



politico,
 elabora
 la
 differenza
 dicendo
 e
 mostrando
 come
 questa
 sia

una
differenza
“nazionale”,
di
un
popolo
diverso
da
tutti
gli
altri,
che
in

quanto
tale
ha
diritto
all’indipendenza.


A
 testimonianza
 di
 come
 tale
 modello
 possa
 aiutarci
 a
 capire
 le

vicende
 sarde
 rileggiamo
 ora
 uno
 dei
 passi
 di
 un
 articolo
 di
 Bellieni,

praticamente
contemporaneo
alle
affermazioni
di
Lussu
sul
confronto

Sardegna‐Irlanda,
 significativamente
 intitolato
 “I
 Sardi
 di
 fronte

all’Italia”
(1920):


«Ma
 qui
 è
 il
 nodo
 centrale
 della
 questione.
 Abbiamo
 noi
 la
 forza

morale
di
creare
nel
nostro
organismo,
di
fare
balzare
fuori
dell’oscura

matrice
 della
 storia,
 una
 nazione
 sarda,
 concreta
 individualità
 che

abbia
un
suo
compito
e
una
sua
funzione
nella
vita
europea?
Problema

morale
che
è
fondamento
di
tutti
gli
altri».


Innanzitutto:
 è
 altamente
 significativa
 la
 frase
 “far
 balzare
 fuori

dall’oscura
 matrice
 della
 storia,
 una
 nazione
 sarda”.
 E’
 come
 se
 per

Bellieni,
che
era
anche
uno
storico,
la
storia
di
dominazioni
subita
dai

sardi
renda
difficile
“elaborare
la
differenza”,
vale
a
dire
tirar
fuori
da

una
 differenza
 “evidente”
 una
 differenza
 “sensata”,
 vale
 a
 dire
 una

differenza
in
senso
nazionale.
Questo
è
un
problema
molto
importante

che
 ci
 riporta
 da
 un
 lato
 al
 punto
 2
 di
 Lussu
 e
 dall’altro
 alle
 vicende

vissute
dalla
Sardegna
da
allora
fino
ad
oggi:
vale
a
dire,
anche
da
parte

indipendentista,
 il
 considerare
 la
 diversità
 dei
 sardi
 come
 qualcosa
 di

evidente,
di
scontato
e
di
non
problematico.
Qualcosa
di
acquisito.


In
realtà
una
differenza
di
questo
tipo
non
basta.
E’
fin
troppo
ovvio

dire
che
i
sardi
sanno
e
sentono
di
essere
diversi:
il
problema
è
diversi

da
 chi,
 e
 come,
 in
 quale
 senso.
 Una
 cosa
 è
 sentirsi
 diversi
 dalle
 “altre




 55


regioni
 d’Italia”,
 altro
 è
 sentirsi
 diversi
 dagli
 italiani
 presi
 come
 un

tutto
 (del
 resto
 ci
 sono
 sardi
 che
 si
 sentono
 più
 differenti
 dai
 sardi

dell’altro
 capo
 dell’isola
 che
 dai
 “continentali”,
 visto
 che
 con
 questi

ultimi
oggigiorno,
molte
volte,
condividono
molto
di
più).
E
allo
stesso

modo:
 una
 cosa
 è
 sentirsi
 diversi
 in
 senso
 “reattivo”,
 per
 puro
 e

semplice
orgoglio,
ed
altro
è
sentirsi
diversi
per
una
serena
e
cosciente

presa
 in
 carico
 della
 propria
 diversità
 –
 vale
 a
 dire
 una
 diversità

vissuta
 positivamente,
 come
 ricchezza,
 come
 qualcosa
 di
 produttivo
 e

allo
stesso
tempo
con
la
coscienza
che
essa
ha
e
traccia
dei
limiti,
che

essa
 ha
 i
 suoi
 vizi
 e
 le
 sue
 imperfezioni.
 E
 ancora:
 una
 cosa
 è
 sentirsi

diversi
in
quanto
“comunque
noi
saremmo
potuti
essere
una
nazione”

un’altra
 è
 invece
 sentirsi
 diversi
 in
 quanto
 “noi
 saremo
 (un
 giorno

molto
vicino)
una
nazione
libera
e
indipendente”…















56


 
























 
 57


Le
contraddizioni
di
chi
non
ha
coraggio








Del
 resto
 oggigiorno
 si
 pongono
 davanti
 a
 noi,
 sebbene
 in
 maniera

diversa,
 altri
 due
 problemi
 evidenziati
 da
 Bellieni,
 due
 problemi
 che

sono
 inscindibilmente
 legati,
 presi
 in
 un
 circolo
 in
 cui
 uno
 richiama

l’altro
 ed
 è
 inutile
 cercare
 quello
 che
 viene
 prima
 dato
 che
 i
 due
 si

danno
insieme.


Uno
è
appunto
il
problema
del
sentimento
d’appartenenza
e
l’altro
è

quello
della
“forza
morale”
necessaria
per
divenire
Natzione.
Và
detto

subito
che
ai
tempi
di
Bellieni,
e
per
Bellieni
stesso,
il
paradosso
è
più

chiaro
e
forse
sarebbe
stato
anche
più
semplicemente
risolvibile.


Ponimus
s’istèrrida.


Il
 primo
 punto
 da
 considerare
 è
 che,
 secondo
 Bellieni
 i
 sardi
 non

avrebbero
 resistito
 al
 trauma
 causato
 dall’ammainare
 la
 bandiera

italiana.


Il
secondo
è
che:
«[…]
esiste
la
materia
nel
nostro
paese
[sa
Sardigna]

per
 costruire
 una
 nazione,
 ma
 questa
 materia
 per
 il
 passato
 non

divenne
mai
coscienza,
ed
ora
che
lo
è,
è
pensata
da
noi
con
intelletto

di
italiani
[…]».


Como
sa
torrada.




58
 


Che
le
due
cose
vadano
insieme
è
chiaro:
tanto
che
la
prima
sembra

più
che
altro
un
riflesso
delle
convinzioni
personali
e
delle
conclusioni

a
 cui
 Bellieni
 arriva
 nel
 secondo
 punto.
 Detto
 in
 parole
 povere:
 “io,

Camillo
Bellieni
fondatore
del
Partito
Sardo
d’Azione,

mi
sento
italiano

(anche
se
so
che
non
sarebbe
sbagliato
costruirmi
un
futuro
da
sardo)

quindi,
 per
 teorizzare
 e
 dar
 peso
 all’idea
 che
 siamo
 una
 “nazione

abortiva”
 [questo
 è
 il
 termine
 che
 lo
 stesso
 Bellieni
 utilizzerà]
 mi

conviene
 e
 mi
 è
 necessario
 convincermi
 –
 e
 soprattutto
 convincere
 i

sardi
 stessi
 –
 che
 il
 nostro
 sentimento
 di
 appartenenza
 è
 così

pervicacemente
 e
 fortemente
 italiano
 che
 non
 ce
 ne
 possiamo

sbarazzare”.


Qualcuno
 dirà
 che
 al
 punto
 due
 Bellieni
 non
 parla
 di
 sentimento

d’appartenenza.
Se
lo
leggiamo
letteralmente
è
vero,
ma
se
lo
leggiamo

letteralmente
 dobbiamo
 anche
 ammettere
 che
 la
 frase
 è

semplicemente
 contraddittoria.
 Può
 bastare
 infatti
 una
 affermazione

apparentemente
 razionale
 come
 “è
 pensata
 da
 noi
 [la
 coscienza

nazionale]
con
intelletto
da
italiani”,
a
negare
la
forza
dell’affermazione

secondo
 cui
 la
 materia
 che
 in
 passato
 non
 era
 divenuta
 coscienza
 –

leggi,
“non
era
stata
elaborata”
–
“ora
[…]
lo
è”?


Ma
 se
 è
 coscienza
 nazionale
 non
 c’è
 altro
 che
 tenga:
 se
 lo
 è
 lo
 è
 e

basta.
Vuol
forse
dire
che
la
si
pensava
in
lingua
italiana?
Ma
a
parte
il

fatto
che
a
pensare
in
italiano
allora
come
sino
ancora
a
pochi
anni
fa

era
solo
la
classe
dirigente,
c’è
da
considerare

poi,
ad
esempio,
che
la

classe
dirigente
irlandese
e
gli
irlandesi
tutti
–
con
i
quali
ai
tempi
ci
si

confrontava
–
stavano
facendo
un’indipendenza
parlandola
in
inglese,

a
 dimostrazione
 che
 non
 era
 vincolante
 il
 rapporto
 fra
 coscienza

nazionale
e
lingua
parlata,
utilizzata.





 59


A
questo
livello
del
discorso
ciò
che
contava
era
riconoscersi
nel
dire

“io
 sono
 sardo
 (faccio
 parte
 –
 ora
 –
 della
 nazione
 sarda,
 ho
 una
 mia

storia
da
raccontare
e
un
futuro
da
costruire,
sono
indipendentista)”
lo

si
dicesse
in
sardo,
in
italiano,
in
inglese
o
in
qualunque
altra
lingua
del

mondo.
Accorgersi
di
dirlo
in
italiano,
tutt’al
più,
poteva
essere
un
altro

motivo
per
cui
la
propria
appartenenza
nazionale
sarda
andava
detta
e

fatta:
 era
 infatti
 un’ulteriore
 prova,
 un
 modo
 per
 ricordarsi
 e
 capire,

che
la
cultura
di
un
intero
popolo
–
con
la
sua
lingua
in
testa
–
era
stata

portata,
dallo
stato
di
sudditanza,
a
cancellarsi
e
a
divenire
qualcosa
di

estraneo
ai
sardi
stessi.


A
questo
punto
è
molto
più
plausibile
pensare
che
quel
“è
pensata
da

noi
 con
 intelletto
 da
 italiani”,
 sia
 una
 bellissima
 quanto
 perversa

formula
che
il
politico‐intellettuale
Bellieni
–
che
deve
giustificare
ogni

sua
 azione
 “razionalmente”
 –
 usa
 per
 non
 dire
 (non
 vuole,
 non
 può

dirlo)
che
sta
parlando
del
suo
sentimento
di
appartenenza.
Non
a
caso

questa
verità
viene
addossata
ai
sardi
come
totalità,
a
quella
massa
di

cui
Bellieni
fa
parte
ma
in
cui
si
può
perdere
e
confondere:
parlando
di

loro
si
può
dire
che
il
problema
sta
nel
sentimento
di
appartenenza.
La

cosa
 triste
 è
 che
 Bellieni
 lo
 dice
 ben
 sapendo
 che
 probabilmente

quell’affermazione
per
i
sardi
non
vale,
o
che
comunque
in
buona
parte

dipende
dalla
stessa
capacità
sua
e
di
tutta
la
classe
dirigente
sardista

di
 tirar
 fuori
 questa
 benedetta
 “forza
 morale”,
 di
 canalizzare
 e
 dare

forma
alla
spinta
indipendentista
della
base.


Il
 maggior
 storico
 del
 sardismo,
 Cubeddu,
 commentando
 il
 passo

visto
 in
 precedenza
 scrive:
 «Forza
 morale
 sta
 per
 azione
 coraggiosa,

ànimu
 in
 sardo.
 Indica,
 cioè,
 quella
 soggettività
 capace
 di
 fare,
 di
 un

popolo
sconfitto,
una
nazione
consapevole».




60
 


Siamo
nel
pieno
del
paradosso.
Per
diventare
natzione
serve
s’ànimu,

ma
 s’ànimu
 nasce
 se
 si
 crede
 in
 quello
 che
 si
 vuole
 realizzare,
 se
 lo
 si

vuole:
 in
 definitiva,
 se
 lo
 si
 sente.
 Ma
 come
 aspettarsi
 il
 coraggio
 di

costruire
la
nazione
sarda
da
parte
di
chi
si
sentiva
ormai
italiano?
E
la

questione
è
proprio
qui
perché
se
qualcuno
replicasse
che
il
problema

è
 che
 quelle
 persone
 “valevano
 poco”
 nel
 complesso,
 gli
 si
 potrebbe

facilmente
dimostrare
che
la
loro
vita
fu
segnata
interamente
da
grandi

gesti
di
coraggio:
ma
per
l’Italia.


Si
 tratta
 di
 renderci
 conto
 che
 ieri
 come
 oggi
 il
 problema
 non
 è:

«b’hat
 o
 no
 b’hat
 “hòmine”
 (hòmine
 o
 fèmina
 chi
 siat)»
 bensì:

«Cust’“hòmine”
 s’ànimu
 pro
 cale
 pòpulu
 e
 pro
 cale
 natzione
 du

tènede?».
In
cosa
crede?
cosa
vuole?


La
 storia
 della
 Sardegna
 e
 dei
 sardi
 ha
 dimostrato
 che
 le
 cose
 si

escludono:
se
ci
si
sente
sardi
realmente
si
elabora
la
propria
cultura,

la
propria
storia
e
il
proprio
sentimento
di
appartenenza
per
arrivare
a

costruire
 una
 Repubblica
 Sarda
 Indipendente,
 altrimenti
 si
 passa
 la

vita,
 da
 un
 lato
 a
 giustificare
 il
 fallimento
 e
 l’abortività
 della
 nazione

sarda
–
così
come
la
bruttezza,
l’arcaicità
e
la
“chiusura”
della
cultura

sarda
–,
e
contemporaneamente
dall’altra
a
sentirsi
e
vivere
da
italiani

e
 per
 l’Italia2:
 in
 pratica
 si
 giustifica
 il
 proprio
 sentimento
 di

appartenenza
italiana
cercando
di
convincere
i
sardi
che
non
potranno

mai
essere
una
nazione
a
tutti
gli
effetti.































































2
Ma
se
il
dominatore
fosse
stato
un
altro
sarebbe
andato
bene
lo
stesso…




 
 61


Il
federalismo
è
impossibile








Andando
avanti
notiamo
che,
sempre
in
quel
periodo,
fu
Bellieni
ad

intuire
lucidamente
che
in
uno
Stato
come
quello
italiano
ogni
richiesta

federalista
sarebbe
stata
letta
come
un
tentativo
di
disgregare
il
tutto,

“la
 Patria”,
 e
 che
 dunque
 ogni
 richiesta
 federalista
 andava

controbilanciata
 con
 un
 rilancio
 della
 propria
 fedeltà
 alla
 “Nazione”

(italiana).


Ancora
una
volta
si
instaurava
quella
logica
per
cui
i
Sardi,
per
poter

avere
 qualche
 concessione
 federalistico‐autonomista,
 dovevano

rinunciare
 a
 dichiararsi,
 essere,
 agire
 come
 Popolo
 diverso,
 come

Nazione
 libera.
 Il
 cuore
 e
 le
 menti
 dei
 Sardi
 dovevano
 essere
 rivolte

alla
 loro
 nuova
 nazione:
 si
 poteva
 anche
 essere
 Autonomi,
 ma
 per

esserlo
si
doveva
“appartenere”
all’Italia,
essere
fino
in
fondo
italiani.


Ciò
 che
 rimaneva
 ai
 Sardi,
 secondo
 la
 “loro”
 classe
 dirigente,
 era
 la

possibilità
 di
 rivendicare
 “benessere”
 dallo
 Stato.
 Ciò
 equivaleva

inoltre
 ad
 abolire
 ogni
 possibilità
 di
 trovare
 proprie
 soluzioni
 alle

questioni
 economiche,
 significava
 non
 poter
 usare
 il
 proprio
 sapere

per
 ricercare
 condizioni
 di
 vita
 migliore,
 significava
 non
 poter
 essere

loro
 a
 decidere
 come
 rapportarsi
 all’ambiente,
 al
 mondo
 della

produzione,
alla
gestione
delle
risorse
economiche
ed
umane.




62
 


I
 risultati
 di
 questa
 politica
 del
 “benessere”
 devoluta
 dallo
 Stato



Italiano
 diede
 i
 suoi
 “frutti”
 con
 l’attuazione
 del
 Piano
 di
 Rinascita:
 i

risultati
sono
sotto
gli
occhi
di
tutti.


























 
 63


Anni
 ‘80:
 il
 sardismo
 infligge
 un’altra
 umiliazione



all’indipendentismo










La
 ripresa
 dell’indipendentismo
 negli
 anni
 ’80
 si
 trovò
 ancora
 una

volta
ad
essere
guidata
da
una
classe
dirigente
anti‐indipendentista
e
si

scontrò
 con
 la
 mancata
 elaborazione
 e
 presa
 in
 carico
 della
 propria

diversità
culturale.


Dopo
 anni
 di
 dibattiti
 e
 proclami
 “l’indipendentista”
 Mario
 Melis
 si

trovò
 durante
 
 un
 congresso
 importantissimo
 a
 proclamare
 il
 suo

essere
indipendentista
giurando
fedeltà
alla
patria
italiana:
incredibile

paradosso
 di
 chi
 in
 realtà
 non
 aveva
 maturato
 un
 senso
 di

appartenenza
differente.
E
non
a
caso
l’indipendentismo
di
Mario
Melis

era
un
modo
per
annacquare
tutto,
era
un
ottenere
l’indipendenza
per

potersi
 federare
 “da
 pari”
 con
 l’Italia:
 ottenere
 la
 libertà
 per
 poterla

dare
subito
via!
Assurdo,
come
le
parole
di
Melis:


«Il
 nostro
 indipendentismo
 è
 funzionale,
 costituendone
 base

essenziale
 ed
 irrinunciabile,
 al
 federalismo:
 come
 possono
 [i
 nostri

avversari]
 mistificarlo
 con
 una
 forma
 larvata
 di
 separatismo
 che
 nel

Partito
 Sardo
 non
 ha
 mai
 avuto
 patria,[…]
 né
 mai
 si
 è
 riproposto
 [il

separatismo]
 negli
 anni
 avvelenati
 del
 fascismo,
 dominati
 dalle

persecuzioni
collettive
e
individuali.
[…]
Debbo
ricordare
che
durante



64
 


il
fascismo,
i
sardisti
hanno
difeso
e
concorso
a
salvaguardare
i
valori

della
 civiltà
 democratica
 italiana?
 Debbo
 ricordare
 la
 partecipazione

sardista
 alla
 resistenza?
 I
 suoi
 martiri![…]
 Siamo
 noi
 gli
 anti‐italiani?

Non
 hanno
 lezioni
 da
 darci!
 Nessuna.
 Perché
 con
 dignità
 e
 forza,
 noi

ricordiamo
che
gli
uomini
nostri
hanno
fatto
la
resistenza
e
ne
hanno

esaltato
 i
 valori.
 Non
 si
 chiamavano
 solo
 Emilio
 Lussu
 i
 resistenti

sardisti.
 Sono
 una
 moltitudine:
 figure
 note
 ed
 oscure,
 personaggi
 che

sono
 andati
 con
 il
 cuore
 gonfio
 di
 Sardegna
 a
 testimoniare
 una

vocazione
 di
 libertà,
 di
 civiltà,
 che
 ci
 onora
 tutti
 e
 che
 ha
 onorato
 la

Sardegna
ed
anche
quanti
oggi
ci
rimproverano
di
scarso
patriottismo.

Del
loro
patriottismo
di
maniera!».


Si
noti
en
passant
che
dietro
le
varie
vocazioni
e
i
vari
cuori
gonfi
di

Sardegna
rimane
comunque
l’idea
di
essere
morti
per
l’Italia
(qualcuno

nella
 storia
 è
 morto
 anche
 per
 la
 Sardegna?
 Era
 un
 bieco
 e
 cattivo

“separatista”)
e
del
resto
l’onore
i
sardi
se
lo
possono
guadagnare
solo

quando
fanno
qualcosa
per
gli
altri
e
devono
sempre
essere
questi
altri

a
riconoscerglielo
(cosa
che
dimostra
dunque,
implicitamente,
che
solo

questi
ultimi
hanno
il
potere).
A
tale
proposito
si
legga
la
struggente
(o

farsesca,
a
seconda
dei
punti
di
vista)
conclusione:


«Stamani,
 in
 apertura
 dei
 lavori,
 vi
 ho
 rivolto
 il
 mio
 primo
 saluto

attraverso
 le
 parole
 affettuose
 e
 vibranti
 del
 Presidente
 della

Repubblica
 [Cossiga];
 un
 sardo
 che
 ci
 conosce,
 Lui,
 che
 salutiamo
 ed

onoriamo,
ci
saluta
e
ci
rende
onore.
E
con
questo
onore,
consapevoli

del
nostro
ruolo,
andiamo
a
contrastare
quelle
subalternità
che
il
Paese

[l’Italia],
 al
 di
 là
 della
 volontà
 dei
 singoli,
 ci
 ha
 imposto
 e
 continua
 a

imporci.





 65


Il
Presidente
della
Repubblica
sarà
il
primo
garante
della
legittimità

della
 nostra
 lotta,
 volta
 a
 realizzare
 uno
 Stato
 più
 civile
 e
 più

giusto[…]».


Ci
sarebbe
da
scrivere
un
trattato,
ma
la
cosa
importante
è
cogliere
e

leggere
 queste
 affermazioni
 del
 1986
 nello
 stridere,
 comprimere,

distruggere,
 mortificare
 chi
 era
 andato
 lì
 per
 sentire
 parlare
 di

Natzione
 Sarda,
 di
 Indipendenza,
 chi
 era
 arrivato
 con
 una
 energia

produttiva
 da
 usare
 per
 il
 proprio
 popolo
 e
 l’aveva
 dovuta
 ricacciare

dentro
o
trasformare
in
rassegnazione,
fino
al
punto
probabilmente
di

vergognarsene,
 davanti
 a
 prosopopee
 sul
 patriottismo
 italiano
 degli

indipendentisti
sardi.


Tagliamo
corto
e
mettiamola
ora
sul
pragmatico.


Se
 uno
 non
 trova
 s’ànimu
 quando
 parlando
 di
 Indipendenza
 e

Repubblica
 Sarda
 passa
 nel
 giro
 di
 cinque
 anni
 da
 17.000
 voti
 a

160.000
allora
o
è
scemo
oppure
è
semplicemente
(ancora)
italiano…


La
risposta
è
semplice
e
quel
discorso,
in
quel
contesto,
è
pazzesco:

soltanto
 chi
 si
 sente
 e
 crede
 ancora
 italiano
 può
 riuscire
 a
 concepirlo

senza
vergognarsene.


E
del
resto
in
cosa
concretamente
tutto
ciò
sfoci
per
il
popolo
sardo
e

la
cultura
sarda
è
scritto
nella
storia:
la
giunta
Melis
passerà
alla
storia


per
 essere
 arrivata
 a
 combinare
 uno
 dei
 più
 vergognosi
 obbrobri

politici,
 presentando
 la
 legge
 sulla
 lingua
 sarda
 –
 quello
 che
 doveva

essere
 un
 pilastro
 del
 sardismo
 –
 solo
 l’ultimo
 giorno
 di
 legislatura

(dopo
5
anni!)
per
farla
fallire
ad
arte.


E’
inutile:
non
c’è
amore
e
rispetto
reale
per
i
sardi
e
la
loro
cultura

dove
c’è
autonomismo‐federalismo‐unionismo.



66


 
























 
 67


Il
fondo
della
questione








E
 infatti:
 oggigiorno
 tutti
 inneggiano
 al
 federalismo
 e
 tutti
 si

richiamano
a
Lussu.
Questa
totale
condivisione
di
base
fa
quantomeno

sorgere
 il
 sospetto
 che
 il
 parlare
 di
 Natzione
 Sarda
 non
 intacchi
 il

fondo
 della
 questione:
 vale
 a
 dire
 non
 provochi
 assolutamente
 la

rottura
 della
 fedeltà
 e
 dell’appartenenza
 al
 Popolo
 e
 alla
 Nazione

Italiana,
unico
modo
per
poter
prendere
veramente
in
carico
la
propria

diversità
culturale,
la
propria
singolarità,
il
proprio
essere
e
vivere
da

Natzione.
 Tale
 traguardo,
 che
 ovviamente
 per
 noi
 è
 non
 solo

desiderabile
 ma
 anche
 necessario,
 può
 essere
 raggiunto
 solo
 ed

esclusivamente
 tramite
 un
 progetto
 indipendentista,
 vale
 a
 dire
 la

costruzione
 di
 una
 Repubblica
 Sarda
 Indipendente.
 Per
 intenderci

chiaramente:
 un’entità
 che
 si
 ponga
 rispetto
 all’Italia
 nello
 stesso

rapporto
che
l’Italia
intrattiene
con
la
Francia,
la
Germania,
l’Australia

ecc.







 68
 



























 
 69


Classi
 dirigenti
 sarde:
 mancanza
 di
 coscienza
 e
 di



sentimento
di
appartenenza








Come
abbiamo
visto,
tutte
le
volte
che
i
Sardi
hanno
tentato
di
unirsi,

immancabilmente,
chi
si
è
trovato
a
dirigere
il
processo
di
liberatzione

natzionale
 ha
 arretrato,
 ha
 mancato
 di
 coraggio,
 o
 ha
 semplicemente

tradito.
 Ciò
 significa
 che
 mai
 il
 progetto
 politico
 proposto
 è
 stato

armonico
 alla
 volontà
 di
 unione
 e
 di
 liberazione
 dei
 Sardi.
 Mai
 la

dirigenza
 politica
 ha
 formulato
 un’ipotesi
 reale
 di
 indipendenza;

probabilmente
 perché
 mai
 vi
 è
 stata
 una
 classe
 dirigente
 che
 abbia

creduto
davvero
nell’indipendenza.


Allo
stesso
modo
all’uso
della
parola
“nazione
sarda”
da
parte
di
tanti

politici
 unionisti
 non
 corrisponde
 quasi
 mai
 un
 reale
 sentimento
 di

appartenenza
 a
 tale
 natzione;
 la
 mancanza
 di
 una
 reale
 coscienza

nazionale
della
classe
dirigente
si
concretizza
infatti
sia
nell’assenza
di

atti
pratici
e
politici
realmente
rifacentesi
alla
natzione
sarda
sia
nella

volontà
 di
 non
 dichiarare
 mai
 questa
 diversità
 nazionale
 davanti
 agli

altri,
italiani
in
primis,
sia,
infine,
nella
volontà,
anche
quando
si
parla

di
natzione
sarda,
di
negare
il
diritto
e
la
possibilità
dell’indipendenza,

prospettando
 ogni
 cambiamento
 nazionalitario
 sempre
 “all’interno

dello
 Stato”.
 Tali
 dichiarazioni
 di
 appartenenza
 sembrano
 dunque
 più



70
 


ad
 uso
 interno
 (e
 dunque
 strumentale)
 che
 non
 realmente
 sentite
 e

pensate:
perché
non
dire
altrimenti
al
capo
dello
Stato
Italiano
in
visita

in
 Sardegna
 che
 si
 trova
 sul
 suolo
 si
 una
 Natzione
 differente
 dalla

italiana?
 Perché
 partecipare
 senza
 colpo
 ferire
 alle
 feste
 della

Repubblica
 (italiana)?
 Perché
 indire
 e
 partecipare
 senza
 trasporto
 a

feste
 natzionali
 come
 Sa
 Die
 de
 sa
 Sardigna,
 quasi
 sperando
 che
 di

questa
non
si
accorga
nessuno,
sardi
o
italiani
che
siano?


La
 storia
 dunque
 si
 ripete.
 Non
 c’è
 reale
 cambiamento
 di
 fondo

rispetto
alle
dinamiche
storiche
che
prima
abbiamo
ricordato.





















 
 71


Inizia
 il
 cammino
 verso
 la
 Repubblica
 Sarda



Indipendente








E’
 dalla
 coscienza
 delle
 contraddizioni
 e
 dei
 limiti
 di
 questi
 nuovi

progetti
 che
 risalta
 ancor
 più
 chiaramente
 la
 necessità
 del
 progetto

indipendentista
 e
 la
 creazione
 del
 nostro
 movimento,
 indipendèntzia

Repùbrica
de
Sardigna.


Chi
 ha
 a
 cuore
 le
 sorti
 del
 nostro
 Popolo,
 chi
 vuole
 che
 realmente
 i

sardi
 possano
 vivere
 liberamente,
 elaborando
 a
 loro
 modo
 la
 loro

identità,
 senza
 vergogne
 o
 censure,
 in
 definitiva,
 chi
 vuole
 che
 i
 Sardi

esistano
 come
 Natzione
 davanti
 al
 mondo
 –
 come
 nazione
 realmente

cosciente
 di
 sé
 –
 non
 può
 non
 accettare,
 insieme
 a
 noi,
 come
 unica

soluzione
quella
che
porta
alla
Repubblica
Sarda
Indipendente.


Tale
 concetto
 sancisce
 nella
 forma
 e
 nella
 sostanza
 una
 diversità

radicale
 del
 nostro
 progetto
 rispetto
 a
 tutti
 gli
 altri.
 E’
 infatti
 da
 una

diversa
 analisi
 e
 da
 una
 differente
 impostazione
 concettuale
 della

questione
sarda

che
nasce
la
nostra
elaborazione.
Ciò
significa
che
se

anche
ritenessimo
questi
nuovi
progetti
“nazionalisti”
come
sinceri
(e

potrebbero
anche
esserlo),
li
riteniamo
tuttavia
incapaci
di
risolvere
la

questione:
 pensiamo
 che
 ricadano
 ancora
 una
 volta
 in
 un
 errore

storico,
 incapaci
 di
 trarre
 le
 conseguenze
 dell’analisi
 delle
 vicende



72
 


della
storia
del
nostro
Popolo.
Non
si
mette
in
questione
l’onestà
delle

persone,
ma
la
qualità
delle
loro
scelte
politiche
nell’ottica
della
lotta
di

liberazione
della
Natzione
Sarda.


Quando
usiamo
dunque
la
parola
“Indipendenza”
vogliamo
rompere

con
 qualsiasi
 fraintendimento
 autonomistico‐federalista,
 anche

quando
questo
sia
ammantato
di
“nazionalismo
sardo”.























 
 73


Rimozione
e
conflitto








La
 rimozione
 della
 cultura
 sarda
 è
 avvenuta
 ed
 avviene
 ad
 opera
 di

quella
 italiana:
 il
 contatto
 con
 le
 altre
 culture
 avviene
 sulla
 scorta
 di

quest’ultima
 e
 con
 la
 sua
 mediazione,
 non
 solo
 linguistica.
 (e
 questo

sarebbe
già
abbastanza
per
dire
che
diventando
italiani
ci
siamo
chiusi

alla
 possibilità
 di
 aprirci
 agli
 altri
 a
 modo
 nostro).
 Del
 resto
 (e
 in

questo
 senso
 le
 vicende
 di
 tanti
 popoli
 colonizzati
 da
 potenze
 a
 loro

lontane
geograficamente
e
culturalmente
lo
dimostra)
la
cultura
anglo‐
americana
 rimane
 comunque
 “distante”
 e
 il
 suo
 accoglimento
 è

generalmente
 riletto
 nelle
 griglie
 culturali
 d’appartenenza
 (statal‐
nazionale).


Il
 desiderio
 di
 acculturazione
 e
 di
 identificazione
 che
 una
 cultura

crea
 e
 porta
 con
 sé
 non
 è
 avvenuto
 nel
 nostro
 caso,
 ad
 esempio,
 nei

confronti
 dell’inglese
 (che
 rimane
 una
 “lingua
 straniera”),
 bensì

dell’italiano.
 E’
 stato
 per
 l’italiano
 che
 le
 madri
 hanno
 smesso
 di

parlare
in
sardo
ai
loro
figli;
e,
lo
si
noti,
che
si
dia
un
conflitto
molto

profondo
 lo
 dimostra
 il
 fatto
 che
 non
 solo
 era
 un
 bene
 imparare

l’italiano,
 ma
 era
 anche
 utile
 scordarsi
 il
 sardo
 che
 in
 quanto
 tale

inficiava
la
bontà
degli
sforzi
fatti
per
diventare
dei
perfetti
italiani.




74
 


Forse
 tanti
 di
 quegli
 intellettuali
 sardi
 che
 con
 cattiveria
 e
 livore
 –

per
non
dire
razzismo
–
si
scagliano
contro
l’indipendentismo
e
contro

la
 cultura
 sarda
 –
 additandoli
 come
 freno
 e
 limite
 della
 nostra

esistenza
 –
 sono
 cresciuti,
 come
 tanti
 altri
 in
 passato,
 prendendo

bacchettate
e
schiaffi
per
tutte
le
parole
in
sardo
che
gli
“scappavano”
a

scuola:
ed
invece
di
prendersela
con
gli
insegnanti
e
lo
Stato
che
questi

rappresentavano
 hanno
 iniziato
 ad
 odiare
 e
 maledire
 la
 terra
 e
 la

cultura
 in
 cui
 sono
 nati
 e
 cresciuti.
 Poveri
 loro
 e
 i
 loro
 complessi:
 e

pensare
 che
 sono
 quelli
 che
 forse
 meritano
 la
 nostra
 maggiore

compassione,
 quelli
 che
 hanno
 trascorso
 un’infanzia
 triste
 e
 dolorosa

di
cui
danno
le
responsabilità
alla
“sardità”…forse
sono
coloro
per
cui

questa
lotta
va
fatta
maggiormente,
benché
siano
quelli
che
meno
se
lo

meritino,
 sono
 infatti
 coloro
 che
 più
 hanno
 subito
 i
 danni
 delle

dominazioni
della
nostra
terra:
probabilmente
non
ci
ringrazieranno
di

questo
(e
del
resto
noi
non
lo
facciamo
solo
per
loro)
ma
di
certo
noi

andremo
avanti
nel
cammino
di
liberazione
del
nostro
popolo.













 
 75


Note
provocatorie
sull’esperienza
culturale
quotidiana








Del
 resto
 tutta
 l’esperienza
 della
 maggior
 parte
 dei
 sardi
 è
 letta
 e

situata
dentro
un
contesto
culturale
che
è
italiano:
se
escono
a
vedere

un
 film
 americano
 lo
 fanno
 già
 da
 italiani,
 vale
 a
 dire
 da
 persone
 che

quotidianamente
vivono
in
un
ambiente
–
per
la
maggior
parte
creato

dai
mass‐media
–
che
li
fa
partecipare
alle
vicende
della
nazione‐stato

Italia.
 L’appartenenza
 a
 questo
 contesto
 di
 vita
 per
 molti
 nostri

connazionali
 (che
 ovviamente
 nel
 termine
 “connazionali”,
 in
 quanto

sardi,
 non
 si
 riconoscono)
 è
 scontato:
 come
 un
 francese
 passa
 le
 sue

giornate
 commentando
 le
 partite
 di
 calcio
 del
 campionato
 francese,

parlando
 del
 disastro
 che
 è
 avvenuto
 in
 tale
 paesino
 della
 provincia

(francese),
 degli
 ultimi
 sviluppi
 politici
 (principalmente
 francesi
 o

comunque
 in
 ottica
 francese),
 del
 gruppo
 musicale
 del
 momento

(probabilmente
 straniero,
 ma
 probabilmente
 perché
 sta
 avendo

successo
anche
in
Francia,
oppure
notando
che
ha
successo
in
tutto
il

mondo
tranne
che
lì),
dell’ultimo
film
americano
(ma
ricollegandolo
al

dibattito
e
alle
opinioni
datene
nel
contesto
francese)
così
fa
un
sardo

che
 si
 crede
 e
 si
 sente
 italiano.
 Tutto
 ciò
 che
 gli
 capita,
 sia
 esso
 di

matrice
 culturale
 sarda,
 americana
 o
 quant’altro
 si
 inserisce
 in
 quel

contesto
 e
 in
 quei
 ritmi
 che
 sono
 scanditi
 dalla
 comunità
 (Stato)



76
 


italiana.
 In
 Italia
 si
 mangia
 a
 una
 certa
 ora,
 il
 TG
 è
 a
 una
 certa
 ora,
 la

colazione
si
fa
in
un
certo
modo,
si
esce
a
certi
orari,
si
rientra
ad
altri,

le
tariffe
dei
telefoni
sono
quelle
per
tutti
gli
“italiani”,
le
poste
sono
dei

casermoni
uguali
per
tutti,
gli
incroci
sono
a
“x”
(in
Francia
sono
tutti

delle
 “rotatorie”),
 i
 maschi
 italiani
 lo
 fanno
 meglio,
 ogni
 “star”
 che

passa
 in
 Italia
 deve
 dire
 cosa
 ne
 pensa
 delle
 donne/uomini
 italiani

(possibilmente
 dicendo
 che
 sono
 i
 più
 simpatici
 e
 dei
 grandi
 amatori,

nonché
bellissimi:
figuratevi
quali
perversi
meccanismi
di
consolazione

esaltazione
 frustrazione
 scattino
 nei
 bassi&grezzi‐ma(forse)prestanti

sardi),
in
tutta
Italia
in
un
dato
momento
vanno
determinate
canzoni,
a

certe
ore
ci
sono
determinate
trasmissioni
radio
(di
culto
o
di
nicchia

che
siano),
in
certi
periodi
scoppia
una
determinata
mania
(che
forse
è

giapponese
o
americana,
ma
scoppia
e
si
sviluppa
in
Italia
in
un
tempo

e
in
un
modo
che
è
diverso
–
o
interpretato
diversamente
–
da
tutti
gli

altri),
in
Italia
si
va
a
scuola
fino
ad
una
certa
età
(e
non
si
studia
certo

la
cultura
sarda),
l’istruzione
è
organizzata
in
un
certo
modo,
i
dibattiti

girano
e
rigirano
(vanno
e
ritornano)
su
certi
temi
e
certi
personaggi,
ci

sono
 dei
 miti
 nazionali
 (che
 siano
 del
 mondo
 dello
 spettacolo,
 della

cultura,
dello
sport,
della
politica,
personaggi
storici
o
quant’altro
non

importa),
 le
 elezioni
 in
 Italia
 hanno
 una
 certa
 cadenza
 e
 non

combaciano
 con
 quelle
 degli
 altri
 se
 non
 per
 caso,
 le
 crisi
 di
 governo

che
 diventano
 dei
 drammi
 dentro
 lo
 Stato
 italiano
 sono
 totalmente

indifferenti
 a
 chi
 ne
 sta
 fuori,
 quello
 che
 succede
 fuori
 dall’Italia
 è

interpretato
partendo
dalla
situazione
italiana,
il
prodotto
tipico
degli

italiani
 (dunque
 anche
 dei
 sardi?)
 è
 la
 pizza,
 l’Italia
 si
 caratterizza

inoltre
per
la
poca
serietà
delle
sue
classi
dirigenti
(e
qui
quella
sarda
è

proprio
 assimilata),
 per
 il
 fatto
 che
 tutti
 i
 servizi
 funzionano
 male
 (e




 77


dunque,
se
siamo
italiani,
devono
funzionare
male
anche
in
Sardegna
e

dunque
 faremo
 meglio
 a
 non
 lamentarci),
 per
 il
 fatto
 che
 ci
 si
 sente

italiani
solo
davanti
alla
nazionale
di
calcio
(e
non
si
capisce
perché
gli

intellettuali
 si
 scandalizzino:
 umanamente
 parlando
 sempre
 meglio

un’identificazione
nazionale
basata
sulle
banali
nazionali
di
calcio
che

su
 qualche
 orgoglio
 guerresco),
 e
 –
 magnifico
 paradosso
 –
 per
 il
 fatto

che
“noi
italiani
ci
sentiamo
poco
italiani”:
dal
che
se
ne
deduce
che
gli

italiani
 esistono,
 sono
 italiani,
 proprio
 perché
 si
 “sentono
 (tutti
 e

ugualmente)
poco
italiani”,
il
che
comunque
è
già
abbastanza
per
dire

“Noi
italiani”
(che
poi
questo
sentimento
sia
davvero
basso
è
cosa
tutta

da
dimostrare,
visto
che
se
gli
parlate
di
indipendenza
della
Sardegna

non
 è
 che
 vi
 dicono
 che
 fate
 bene,
 ma
 che
 volete
 “spaccare
 il
 Paese”,

anche
se
vi
è
da
dire
che
molti
italiani
hanno
una
maggiore
sensibilità

per
la
questione
indipendentista
sarda
di
quanto
non
ne
abbiano
molti

sardi).


Detto
 questo:
 non
 si
 può
 sperare
 che
 i
 sardi,
 che
 dentro
 a
 queste

maglie
 di
 riti
 quotidiani,
 pratiche
 di
 vita,
 stereotipi
 assodati,

interpretazioni
 della
 storia
 e
 del
 presente
 in
 cui
 loro
 non
 esistono
 o

sono
dei
falliti,
ci
vivono
quotidianamente
siano
già
pronti
a
ricevere

il

nostro
messaggio,
che
siano
“consci
della
loro
diversità”.


Certo
 che
 si
 sentono
 “differenti”,
 ma
 non
 dagli
 italiani,
 bensì
 dai

lombardi,
 dai
 campani,
 dai
 toscani
 e
 da
 tutti
 gli
 altri.
 Tutti
 insieme

però,
 quando
 mettono
 da
 parte
 le
 loro
 “chiusure
 localistiche”
 sono

italiani
 che
 si
 differenziano
 dai
 “cugini
 francesi”,
 dai
 “flemmatici

inglesi”
ecc.


Non
 a
 caso
 molti
 sardi
 che
 hanno
 evitato
 di
 “chiudersi”
 nell’essere

sardi,
sono
diventati
degli
“aperti”
italiani
che
odiano
francesi,
tedeschi



78
 


ecc,
rimanderebbero
a
casa
gli
immigrati,
pensano
che
loro
sono
degli

italiani
 migliori
 degli
 italiani
 “terroni”,
 si
 divertono
 a
 dare

dell’“albanese”
 a
 tutti
 coloro
 che
 non
 hanno
 uno
 status
 sociale
 pari
 al

loro,
 non
 gliene
 importa
 nulla
 di
 quello
 che
 succede
 fuori
 dall’Italia

(sempre
 che
 non
 si
 apprestino
 a
 fare
 un
 viaggio),
 così
 come
 gliene

frega
 molto
 poco
 di
 quello
 che
 succede
 in
 Sardegna
 (visto
 che
 la

Sardegna
non
esprime
eventi
“nazionali”
ma
solo
“regionali”),
quando

si
imbattono
in
qualcosa
successo
non
in
Italia
(dunque
anche
qualcosa

di
 realmente
 sardo)
 stentano
 a
 capirlo
 e
 comunque
 difficilmente

provano
a
sforzarsi
(tanto
loro
vivono
in
Italia).


Se
gli
parlate
dell’essere
sardi
ovviamente
vi
dicono
che
loro
hanno

scelto
di
“aprirsi”,
di
essere
“cittadini
del
mondo”,
come
se
in
Sardegna

e
per
i
sardi,
finché
si
dicono
e
vivono
come
sardi,
l’umanità
non
ci
sia
e

non
ci
possa
essere:
la
verità
è
che
ai
vincitori
è
concesso
tutto,
anzi,
i

vincitori
si
concedono
tutto
(e
forse
anche
qualcosa
in
più).


Figuratevi
 poi
 quanto
 peggio
 riescano
 a
 fare
 i
 vinti
 che
 passano

dall’altra
 e
 si
 convincono
 di
 aver
 sempre
 fatto
 parte
 dei
 vincitori:
 la

loro
 boria
 diventa
 davvero
 inenarrabile.
 Loro
 possono
 dirsi
 aperti
 e

cittadini
 del
 mondo
 quand’anche
 avessero
 un
 orizzonte
 che
 dire

“italiano”
è
già
troppo,
anche
se
non
gliene
frega
nulla
dei
problemi
del

mondo,
 anche
 se
 alla
 parola
 “diverso”
 abbinano
 “sbagliato”
 o

“inferiore”.
 Loro
 possono
 dirsi
 aperti
 e
 cittadini
 del
 mondo
 sempre
 e

comunque:
anche
quando
sono
razzisti
e
guerrafondai.







 
 79


Stigmatizzazione
 culturale:
 la
 complicità



dell’autonomismo








Ovviamente
 questa
 dinamica
 che
 abbiamo
 sommariamente,
 e

dunque
 provocatoriamente,
 tracciato
 è
 stata
 favorita,
 per
 non
 dire

promossa,
dalla
cultura
autonomista.


Essa
 non
 solo
 è
 nata,
 come
 abbiamo
 ampiamente
 dimostrato,
 sulla

negazione
 della
 cultura
 sarda,
 ma
 ha
 anche
 favorito
 la
 sua

“stigmatizzazione”,
 la
 sua
 banalizzazione,
 il
 suo
 divenire
 qualcosa
 di

distante
 e
 distaccato
 da
 tutti
 noi:
 qualcosa
 talmente
 vituperato
 e

screditato
 da
 non
 poter
 esercitare
 più
 il
 suo
 fascino,
 la
 sua
 forza
 di

identificazione
 (basti
 pensare
 alla
 riduzione
 della
 lingua
 sarda
 a

“dialetto”
o
al
modo
in
cui
viene
trattato
il
patrimonio
culturale
sardo:

ponti
 “giudicali”
 che
 diventano
 “romani”,
 nomi
 dei
 prodotti
 sardi

cambiati
 in
 italiano,
 campionati
 di
 morra
 e
 istrumpa
 che
 diventano

“regionali”
pur
essendo
praticati
solo
in
Sardegna
–
processo
uguale
e

inverso
 a
 quello
 degli
 USA
 dove
 chi
 vince
 il
 campionato
 di
 football

americano
 diventa
 “campione
 del
 
 mondo”,
 ma
 almeno
 lì
 è
 una

esaltazione
in
positivo…
‐
ecc.).


Quando
 si
 parla
 della
 “vergogna
 di
 sé”
 dei
 sardi,
 del
 loro
 “non

piacersi”,
dei
loro
“complessi
di
inferiorità”
–
cose
attestate
da
più
parti



80
 


e
da
più
voci
–
non
si
può
far
finta
che
siano
dei
processi
nati
dal
nulla

o
imposti
da
chissà
quale
lontana
ed
invisibile
potenza.
Si
tratta
invece

di
un
conflitto
storico
e
determinato,
che
è
nato
dall’incontro/scontro

fra
due
culture
e
si
è
evoluto
come
si
è
evoluto
principalmente
a
causa

delle
 posizioni
 prese
 dai
 sardi,
 e
 dunque
 internamente
 alla
 Sardegna.

Ciò
 non
 sta
 certo
 a
 significare
 che
 non
 vi
 siano
 trame
 e
 relazioni
 che

legano
 questo
 conflitto
 ad
 altri
 a
 livello
 planetario,
 ma
 solo
 che
 certe

dinamiche
vanno
viste
a
partire
da
questo
luogo
determinato
che
è
la

Sardegna,
 che
 ne
 è
 il
 vero
 centro
 (più
 che
 in
 tanti
 altri
 conflitti

indipendentisti
dove
la
situazione
interna
è
più
compatta
e
il
conflitto
è

quasi
tutto
con
lo
Stato).


Per
 rendercene
 ulteriormente
 conto
 e
 per
 tenere
 la
 memoria
 in

tensione
seguiamo
questo
passo:


«La
 madre,
 la
 Gran
 Madre,
 non
 è
 soltanto
 di
 là
 dal
 mare,
 dalle
 Alpi

all’Etna
 come
 declama
 l’obliosa
 retorica:
 la
 Gran
 Madre
 è
 di
 qua
 dal

mare,
come
di
là:
qui
ha
una
sua
sede
essenziale
e
il
suo
cuore
palpita

nel
Gennargentu
come
in
centro
vitale,
non
come
in
umile
arto
lontano.


Italia
 è
 qui
 dove
 è
 intatta
 sanità
 e
 vigore
 di
 sangue,
 profondo

sentimento
di
razza,
incontaminata
verginità
della
stirpe.


Italia
 è
 qui,
 immune
 da
 ogni
 commistione
 di
 interessi
 o
 stirpi
 ostili:

dove
 nessun
 linguaggio
 suona
 che
 non
 sia
 latino:
 dove

l’internazionalismo
 –
 della
 banca,
 dell’industria,
 delle
 sette
 –
 non

inquina
i
centri
nervosi
della
vita
nazionale…


Qui
veramente
è
sola
e
pura
e
tutta
Italia!»


Questo
 scritto
 di
 Umberto
 Cao
 del
 1918
 ha
 un
 titolo
 abbastanza

significativo:
Per
l’Autonomia.




 
 81


La
costruzione
del
sentire
collettivo








Il
 sentimento
 è
 qualcosa
 di
 “artificiale”
 (costruito,
 determinato
 da

oggetti)
 che
 solo
 a
 volte
 è
 anche
 “artificioso”
 (e
 peraltro
 l’artificioso

può
 convincere
 e
 diventare
 un
 vero
 sentimento
 per
 chi
 ci
 vuol

credere).
La
frase
con
cui
abbiamo
concluso
in
precedenza
ovviamente

per
 noi
 è
 non
 solo
 “artificiosa”
 ma
 assolutamente
 falsa:
 eppure,

sebbene
 con
 toni
 diversi,
 tutto
 l’autonomismo
 ha
 costruito
 e
 fatto

passare
 un
 determinato
 sentimento
 di
 identità
 e
 fedeltà
 alla
 “patria

italiana”.
L’ha
“inventato”.
Il
discorso
di
Lussu
su
Sardegna‐Irlanda,
da

tale
 punto
 di
 vista
 non
 è
 diverso.
 Ma
 ancor
 di
 più,
 sulla
 scorta
 del

sardismo
 delle
 origini
 ha
 fatto
 il
 discorso
 storico
 che,
 non
 pago
 di

asservirsi
al
potere
dominante
ha
deciso
di
inventare
una
tradizione
di

“italianità”
 alla
 Sardegna
 facendola
 addirittura
 diventare
 la
 culla

d’Italia.
 Questa
 rilettura
 del
 passato
 che
 deve
 necessariamente

eliminare
 ogni
 traccia
 di
 diversità
 e
 di
 spirito
 di
 libertà
 dal
 passato

della
 Sardegna
 non
 può
 far
 altro
 che
 far
 emergere
 e
 valorizzare
 i

momenti
 di
 servilismo
 del
 popolo
 sardo
 e
 così
 facendo
 non
 può
 che

aiutare
 ad
 istillare
 tale
 sentimento
 nei
 sardi
 e
 a
 rendere
 il
 mondo

peggiore
 di
 quello
 che
 è.
 Il
 sapere
 che
 si
 è
 sviluppato
 a
 partire
 da

affermazioni
 come
 quelle
 di
 Lussu
 e
 Bellieni
 con
 il
 loro
 continuo



82
 


affermare
 la
 mancanza
 di
 storia
 e
 civiltà
 in
 Sardegna
 ma
 anche
 la

contemporanea
grandezza
dei
sardi
in
quanto
italiani,
in
quanto
capaci

di
sacrificarsi
in
ogni
tempo
per
l’Italia,
tale
sapere,
dicevamo,
che
oggi

è
 patrimonio
 di
 gran
 parte
 della
 storiografia
 sarda
 (pensiamo
 ad
 es.

alle
 strepitose
 teorie
 di
 F.
 C.
 Casula
 o
 all’impostazione,
 tracciata
 da
 L.

Berlinguer
e
A.
Mattone,
nel
volume
Einaudi
sulla
Sardegna,
all’interno

della
 collana
 della
 “Storia
 d’Italia”)
 si
 fonda
 e
 contemporaneamente

costruisce,
 riafferma,
 questo
 sentire
 distruttivo
 nei
 confronti
 di
 se

stessi
in
quanto
sardi.


Dobbiamo
 essere
 noi
 i
 primi
 a
 riconoscere
 tale
 carattere
 di

artificialità
nel
sentire,
sia
per
non
cadere
in
fondamentalismi,
sia
per

non
 rischiare
 di
 fallire
 nel
 nostro
 intento.
 E’
 ovvio
 che
 per
 noi
 un

sentimento
 di
 appartenenza
 alla
 Sardegna
 è
 qualcosa
 di
 molto
 più

“naturale”
(e
più
“giusto”)
di
qualsiasi
altro
creato
o
imposto
in
secoli

di
 sudditanza,
 dominazioni,
 rimozione
 e
 cancellazione
 della
 nostra

cultura:
 e
 tuttavia
 rimane
 qualcosa
 che
 va
 continuamente
 creato
 e

ricreato.
 Così
 come
 bisogna
 “decidersi
 ad
 essere
 sardi”
 (non
 lo
 si

nasce),
così
ci
sono
cose
che
ci
rendono
più
facile
sentirci
sardi,
perché

creano
un
“sentimento
comune”.


Si
 riprenda
 questo
 passaggio
 scritto
 da
 uno
 storico
 unionista
 sopra

citato
a
proposito
della
storia
giudicale:


«Se
 si
 analizzano
 con
 attenzione
 le
 fonti
 indigene
 [sarde,
 ndr]
 di

quegli
anni,
come
la
famosa
pace
dell'88,
ci
si
accorge
che
almeno
dal

1364
facevano
parte
integrante
del
giudicato
tutti
quei
territori
e
quei

popolo
liberati
i
quali,
per
loro
volontà,
con
giuramento
di
"corona
de

curadorìa"
formavano
insieme
all'Arborea
la
nuova
«Nazione
Sarda»;
e

precisamente:
 le
 curatorìe
 ultragiudicali
 di
 Nuràminis
 e
 Cixerri
 nel




 83


cagliaritano;
 di
 Montifèrru,
 Planàrgia,
 Màrghine,
 Dore‐Orotèlli,



Gocèano,
 Montacùto,
 (Bitti?),
 Nughèdu,
 Meilògu,
 Caputàbbas,

Costavàlle,
Anglòna,
Romàngia
e
Figulìna,
nel
Logudoro.


Furono
 i
 Sardi
 di
 Oristano
 e
 di
 quelle
 contrade,
 avvicinati
 da

Eleonora
 durante
 le
 visite
 locali
 di
 governo
 (nel
 medioevo
 le
 corti

erano
 itineranti)
 o
 ricevuti
 nella
 curia
 della
 capitale,
 che
 indussero
 la

giudichessa
 ad
 abbandonare
 eventuali
 interessi
 personali
 o
 velleità

totalitarie
 (non
 assunse,
 come
 il
 fratello,
 attributi
 sospetti)
 e
 a

proseguire
nella
guerra
nazionalista
che,
si
ricordi,
doveva
concludersi

con
 la
 fine
 di
 una
 delle
 due
 entità
 politiche
 per
 giustificare
 la
 propria

ragion
d'essere.

Non
si
spiega
altrimenti
il
fatto
che
malgrado
Brancaleone
si
trovasse

nelle
mani
di
Pietro
il
Cerimonioso
ed
i
Catalano‐Aragonesi
stessero
da

tempo
 quieti
 nelle
 loro
 estreme
 roccaforti
 sarde,
 la
 «Nazione»

riprendesse
la
lotta
ad
oltranza
per
la
redenzione
dell'isola
intera.


Evidentemente
 si
 era
 formata,
 o
 si
 stava
 formando,
 fra
 i
 più,
 una

coscienza
 unitaria
 che
 impegnava
 fino
 al
 sacrificio
 supremo:
 gli

avvenimenti
 fino
 al
 1410/20
 ed
 oltre,
 almeno
 fino
 al
 1478,
 lo

dimostrano
[…]».


E’
chiaro
che
se
all’epoca
si
era
pronti
a
combattere
per
la
Sardegna

fino
 al
 “sacrificio
 supremo”
 evidentemente
 non
 c’era
 solamente
 una

coscienza
 unitaria
 ma
 anche
 un
 diverso
 sentire,
 di
 diversa
 qualità,

rispetto
a
quello
che
i
sardi
provano
oggi
verso
la
loro
terra.


Se
il
“sentire
qualcosa”
(o
“rispetto
a
qualcosa”)
non
fosse
costruito,

ma
avesse
carattere
innato,
probabilmente
oggi
i
sardi
sarebbero
tutti

come
i
sardi
giudicali:
vale
a
dire
già
tutti
impegnati
a
vivere
(adattato

ai
tempi
odierni)
“un
periodo
di
lotte
indipendentiste,
[…]
un'epoca
di



84
 


edificazione
 statuale
 e
 di
 ricupero
 d'identità
 nazionale”
 (riprendendo



la
descrizione
che
F.C.
Casula
dà
del
periodo
giudicale).


Ma
 come
 dimostrano
 gli
 stessi
 fatti
 dell’epoca
 anche
 in
 quel
 caso

l’acquisizione
di
“coscienza
natzionale”
(in
senso
pieno)
fu
un
processo

e
non
qualcosa
di
“naturale”.


Sta
 dunque
 a
 noi
 indipendentisti
 di
 indipendèntzia
 Repùbrica
 de

Sardigna
dibattere
ed
elaborare,
in
maniera
tale
da
trovare
i
modi
più

efficaci
e
validi
per
rimettere
in
moto
questo
processo
oggigiorno.


Il
tutto
ben
sapendo,
e
lo
diciamo
chiaramente,
che
la
possibilità
che

ci
 è
 stata
 negata
 e
 che
 rivogliamo
 prenderci
 non
 è
 quella
 di
 coltivare

una
 identità
 sempre
 uguale
 a
 se
 stessa,
 ma
 quella
 che
 ci
 darà
 la

possibilità
 di
 essere
 noi
 stessi
 cambiando:
 il
 che
 equivale
 a

trasformarci
 confrontandoci
 continuamente
 con
 gli
 altri
 ma
 anche
 ad

essere
parte
in
causa,
soggetto
attivo,
del
nostro
stesso
cambiamento,

del
nostro
divenire.














 
 85


Noi
siamo
qui,
oggi








E
comunque,
alla
fine,
il
miglior
segno
del
persistere
della
questioni

indipendentista
è
che
noi
siamo
qui.


Dopo
 cinquant’anni
 di
 autonomismo,
 dopo
 tutti
 i
 fiumi
 di
 parole

spese
 per
 sradicare
 dai
 sardi
 e
 dalla
 Sardegna
 gli
 ultimi
 aneliti
 di

libertà;
 nonostante
 lo
 spiegamento
 di
 mezzi
 e
 forze,
 nonostante
 la

cultura
sarda
abbia
vissuto
alcuni
dei
suoi
più
terribili
anni
di
crisi
ed
i

sardi
 abbiano
 avuto
 più
 di
 un’occasione
 e
 continuamente
 siano
 stati

tentati
 ad
 abbandonarla
 del
 tutto;
 nonostante
 tutto
 ciò
 e
 tanto
 altro

sembra
che
più
che
mai
cresca
e
covi
sotto
un’energia
indipendentista

dirompente
ed
incontenibile.
Commo
su
mortu
fogu
ettet
chinchiddas…


Forse
 aveva
 una
 certa
 ragione
 Carta
 Raspi
 quando
 diceva
 che
 la

storia
 dei
 sardi
 era
 fatta
 di
 un
 susseguirsi
 di
 cicli
 di
 eroismo
 e
 di

servilismo:
 quello
 che
 forse
 non
 aveva
 calcolato
 era
 che
 con
 la

velocizzazione
 dei
 nostri
 tempi
 i
 cicli
 si
 susseguono
 sempre
 più

velocemente
fino
a
generare
una
situazione
costante
in
cui
non
vi
è
più

l’alternarsi
di
eroismo
e
servilismo
ma
un
confronto
faccia
a
faccia
fra

indipendentismo
 e
 unionismo.
 O
 forse,
 addirittura
 la
 dinamica
 che
 si

sviluppa
 con
 il
 velocizzarsi
 del
 tempo
 odierno
 –
 nel
 riproporsi

frenetico
ed
incessante
dei
momenti
di
slancio
–
è
quella
che
produce



86
 


una
 apertura,
 un
 varco
 che
 consente
 tramite
 un
 “esplosione



indipendentista”
 il
 definitivo
 superamento
 della
 nostra
 condizione

attuale.


























 
 87


Indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna
(iRS)








E’
dalla
coscienza
delle
nostre
motivazioni,
dalla
consapevolezza
del

nostro
 credere
 nella
 nostra
 causa,
 del
 nostro
 sentirla
 fino
 in
 fondo;
 e

dunque
 dal
 piacere
 di
 farsene
 portatori,
 dal
 viverla
 come
 una

potenzialità,
 come
 un’energia
 che
 ci
 trascina
 e
 che
 continuamente

ricarichiamo
nel
fare,
come
un
entusiasmo
che
ci
aiuta
a
trasformare
il

mondo,
a
renderlo
un
po’
più
libero
rendendo
libera
la
nostra
terra;
è

da
tutto
ciò
che
ripartiamo.


Indipendetzia
Repùbrica
de
Sardigna
si
pone
lungo
questo
cammino,

o
meglio,
gli
dà
inizio
e
seguito.
Noi
dobbiamo
marcare
con
chiarezza,

verso
 i
 sardi,
 il
 nostro
 essere
 un
 luogo
 di
 aggregazione
 degli

indipendentisti,
 di
 confronto
 fra
 essi,
 un
 confronto
 che
 avviene
 al

livello
più
alto,
quello
dell’idealità,
e
non
con
fini
politico‐strumentali:

ma
 ancora
 di
 più
 dobbiamo
 mostrare
 che
 siamo
 un
 movimento

produttore
 di
 un
 sommovimento
 generale
 delle
 coscienze
 e
 della

società
 sarda,
 un
 movimento
 che
 non
 è
 un
 progetto
 a
 tempo,
 con

scadenze
 e
 fini
 elettoralistici,
 ma
 è
 l’inizio
 o
 la
 prosecuzione
 di
 un

percorso
 sulla
 via
 della
 libertà,
 una
 via
 che
 il
 nostro
 popolo
 in
 realtà

non
ha
mai
smesso
di
battere.




88
 


Ma
 se
 noi
 ci
 nutriamo
 di
 una
 idealità
 va
 anche
 detto
 che
 tramite
 il

nostro
movimento
e
il
suo
organizzarsi
questa
idealità
si
fa
concreta
ed

è
 già
 in
 tensione,
 protesa
 verso
 le
 cose
 da
 fare,
 le
 strategie
 da

elaborare,
 le
 coscienze
 e
 i
 cuori
 da
 risvegliare.
 Lo
 stesso
 esistere
 e
 il

conseguente
 agire
 di
 I–
 RS
 è
 una
 ulteriore
 dimostrazione,
 perché

bisogna
 continuamente
 rendere
 conto
 ai
 propri
 connatzionali
 di
 se

stessi,
della
forza
del
nostro
amore
per
questo
popolo
e
questa
terra;
è

un
gesto
che
vuole
essere
stimolo
per
gli
altri,
vuole
essere
esemplare.

Vuole
fare
in
modo
che
con
esso
e
a
partire
da
esso
nessuno
possa
più

dire
 “io
 non
 sapevo”,
 o
 come
 dicono
 le
 classi
 dirigenti
 ed
 intellettuali

“unioniste”:
“la
questione
indipendentista
in
Sardegna
non
esiste
e
non

è
mai
esistita”.


Avete
mai
fatto
caso
ai
titoli
di
libri,
convegni
ecc.?
Sono
sempre
del

tipo
“La
Sardegna
del
‘700
fra
Autonomia
e
Federalismo”,
“Autonomia

e
 federalismo
 nella
 Sardegna
 Contemporanea”,
 “Il
 pensiero
 di
 tizio
 e

caio
 fra
 autonomia
 e
 federalismo”
 ecc.
 Questi
 sono
 modi
 con
 cui
 si

cerca
 di
 far
 capire
 che
 non
 c’è
 altra
 possibilità
 oltre
 queste:
 i

nazionalitari
 generalmente
 impostano
 il
 discorso
 in
 questo
 senso.
 A

differenza
 di
 quello
 che
 succede
 in
 altre
 nazioni
 oppresse,
 i
 moderati

sardi
 non
 vedono
 nel
 federalismo
 un
 eventuale
 passo
 verso

l’indipendenza,
 ma
 una
 scelta
 contro
 di
 essa,
 che
 esclude,
 che
 è
 un

rimedio
all’indipendenza.
Detta
in
parole
molto
grezze
il
loro
pensiero

potrebbe
 riassumersi
 così:
 «Ci
 serve
 qualcosa
 per
 bloccare

l’indipendentismo:
facciamo
il
federalismo».


iRS
 si
 pone
 allora
 come
 stimolo
 nei
 confronti
 degli
 scettici,
 come

traino
 e
 spinta
 a
 coloro
 che
 continuano
 a
 pensare
 “vorrei
 ma
 non

posso”:
 chi
 ha
 un
 sentimento
 di
 appartenenza
 natzionale
 sarda
 per




 89


davvero,
chi
ha
coscienza
del
proprio
essere
sardo
non
dovrà
più
avere

la
scusa
del
“sarebbe
un
sogno
e
sarebbe
giusto
ma
non
si
può
fare”.


iRS
 oltre
 che
 essere
 uno
 stimolo
 per
 tutti
 è,
 nel
 suo
 esistere,
 una

realizzazione
 di
 questo
 sogno:
 si
 dà
 forma,
 si
 pone
 in
 assèttiu,
 per

l’indipendentismo,
 per
 proporsi
 come
 luogo
 in
 cui
 tutti
 gli

indipendentisti
 si
 possano
 incontrare
 e
 lavorare
 insieme
 come

indipendentisti,
dunque
come
spazio
liberato
e
già
indipendente
pronto

a
contagiare
tutta
la
Sardegna.


iRS
 vince
 le
 paure
 o
 le
 titubanze
 di
 chi
 si
 crede
 solo
 a
 combattere

impossibili
 battaglie
 contro
 i
 mulini
 a
 vento,
 vince
 la
 mancanza
 di

coraggio
o
lo
scoramento
di
chi
per
troppo
tempo
è
stato
deriso,
offeso,

umiliato
 per
 aver
 detto
 di
 appartenere
 alla
 Natzione
 Sarda
 e
 non
 ad

altre.
Insinua
il
dubbio
in
chi
ha
completamente
venduto
o
perduto
la

coscienza.


iRS
rilancia
il
conflitto
(“polemos”)
e
cerca
di
farlo
a
livello
più
alto:

niente
 scuse
 per
 chi
 vuole
 restare
 nell’ambiguità,
 perché

l’indipendentismo
 c’è
 e
 agisce
 di
 concerto;
 niente
 scuse
 per
 chi
 pensa

di
 trattare
 con
 gli
 indipendentisti
 facendo
 finta
 che
 questi
 siano
 degli

autonomisti
un
po’
più
arrabbiati.


E
se
continueranno
a
far
finta
che
non
esistiamo?
Se
continueranno
a

cercare
 di
 farci
 passare
 come
 una
 parte
 della
 loro
 stessa
 famiglia

(autonomistico‐federalista
=
unionista)?
Se
continueranno
a
dipingerci

come
 dei
 simpatici
 folli,
 degli
 inguaribili
 sognatori,
 degli
 “autonomisti

che
 sbagliano”,
 degli
 arrabbiati
 che
 comunque
 amano
 ancora
 il
 “loro

Paese”
(l’Italia)?


Facciano
pure,
ma
il
gioco
si
farà
sempre
più
difficile
perché
non
gli

daremo
 tregua:
 la
 coerenza
 del
 nostro
 fare
 e
 delle
 nostre
 parole,
 la



90
 


forza
del
nostro
desiderio
di
libertà,
la
qualità
delle
nostre
elaborazioni

e
 della
 loro
 messa
 in
 pratica
 parleranno
 per
 noi
 e
 lo
 faranno

rivolgendosi
 direttamente
 ai
 Sardi.
 E
 se
 noi
 convinceremo
 i
 nostri

connatzionali,
 se
 faremo
 capire
 loro
 che
 è
 tempo
 che
 si
 riprendano
 il

cuore
e
la
mente
che
hanno
dato
ad
un’altra
terra,

che
è
tempo
che
lo

usino
per
la
loro,
bèh
allora,
avranno
tempo
le
“care”
classi
dirigenti
a

mistificare:
 non
 sarà
 un
 “vento”,
 sarà
 molto
 molto
 di
 più,
 anzi,
 sarà

tutt’altro…sarà
 una
 bardana:
 l’ultima,
 quella
 pacifica,
 fatta
 non
 per

levarsi
 la
 soddisfazione
 di
 un
 giorno,
 né
 per
 guadagnarsi
 la

sopravvivenza
per
qualche
mese,
e
nemmeno
fatta
per
ritornare
subito

dopo
a
nascondersi
e
resistere,
no!
Sarà
una
bardana
fatta
da
tutti
e
in

ogni
luogo,
una
bardana
interiore
dei
singoli,
una
bardana
collettiva
di

un
popolo
che
decide
di
essere
natzione.
Una
bardana
che
rimane
dove

viene
 fatta
 perché
 non
 vuole
 nascondersi,
 non
 vuole
 tornare
 a
 covare

nel
 privato,
 ma
 è
 fatta
 per
 uscire
 all’aperto,
 per
 farsi
 presente,

dovunque,
 in
 totta
 sa
 Sardigna.
 Una
 bardana
 che
 inaugura
 una
 vita.

Vita
 da
 liberi,
 da
 Repubblica
 Indipendente,
 quella
 che
 ci
 renderà

esistenti
e
responsabili
di
noi
stessi
davanti
al
mondo,
responsabili
del

nostro
entrare
in
relazioni
con
gli
altri
(senza
che
per
noi
parli
e
agisca

qualcun
altro).


L’entusiasmo
 e
 il
 piacere
 di
 essere
 e
 divenire
 sardi
 tramite
 il
 fare

qualcosa
 insieme:
 fare
 la
 propria
 Indipendèntzia,
 fare
 sa
 Repùbrica
 de

Sardigna.






 
 91


Appendice
documentaria


I
falsi
padri
della
Sardegna








«…se
una
verità
fondamentale
non
trova
oppositori
è
indispensabile

inventarli…il
 soggetto
 deve
 conoscerli
 [questi
 oppositori]
 nella
 loro

formulazione
 plausibile
 e
 persuasiva,
 e
 sentire
 l’intero
 peso
 della

difficoltà
che
l’opinione
vera
deve
affrontare
e
demolire;
altrimenti
non

si
 impadronirà
 mai
 di
 quella
 parte
 della
 verità
 che
 viene
 incontro

all’obiezione
e
la
elimina…


La
 loro
 conclusione
 [la
 conclusione
 di
 chi
 professa
 un
 credo
 senza

conoscere
 le
 posizioni
 dei
 propri
 oppositori]
 può
 essere
 vera,
 ma
 per

quel
che
ne
sanno
potrebbe
anche
essere
falsa:
non
si
sono
mai
messi

al
posto
di
chi
pensa
diversamente
da
loro,
considerandone
le
possibili

argomentazioni;
 e
 di
 conseguenza
 non
 conoscono,
 in
 nessuna

accezione
corretta
del
termine,
la
dottrina
che
essi
stessi
professano»,

John
Stuart
Mill,
Saggio
sulla
libertà,
1859.


Non
è
detto
che
queste
parole
di
Mill
siano
del
tutto
vere,
di
certo
nel

nostro
 caso,
 come
 si
 potrà
 leggere,
 non
 c’è
 bisogno
 di
 inventare
 degli

oppositori.


Sono
 gli
 stessi
 Lussu
 e
 Bellieni,
 oggigiorno
 considerati
 “padri”
 della

Sardegna
moderna,
a
dire
“a
chi”
e
“a
che
cosa”
la
loro
idea
di
Sardegna



92
 


si
oppone:
e
da
tale
punto
di
vista
non
c’è
dubbio
che
il
miglior
modo

per
 capire
 se
 stessi
 e
 il
 proprio
 ideale
 indipendentista
 sia
 leggere
 gli

attacchi
 che
 all’indipendenza,
 all’indipendentismo
 e
 agli

indipendentisti
vengono
portati
dagli
scritti
di
questi
due
intellettuali
e

uomini
politici.


Diciamo
 ciò
 non
 perché
 vi
 sia
 dietro
 tale
 volontà
 di
 mostrarli
 come

oppositori
 un
 che
 di
 personale
 o
 un
 gioco
 e
 una
 necessità
 puramente

politica,
 e
 neanche
 l’idea
 che
 il
 nostro
 indipendentismo
 si
 definisca

semplicemente
 per
 opposizione
 a
 loro,
 ma
 proprio
 perché,
 viste
 le

vicissitudini
 della
 Sardegna
 e
 della
 cultura
 sarda,
 è
 solo
 dallo
 scarto

con
 ciò
 che
 nella
 sua
 ambiguità
 e
 confusione
 è
 apparso
 per
 lungo

tempo
 vicino
 all’indipendentismo,
 o
 tendente
 ad
 esso,
 che
 si
 può

cogliere
 la
 differenza
 che
 ci
 caratterizza,
 la
 differenza
 che
 deve

risaltare
e
divenire
il
punto
di
partenza
verso
una
coscienza
diversa
di

noi
stessi
e
della
nostra
Nazione.


E
poi,
va
detto,
c’è
la
necessità
di
dare
la
possibilità
‐
a
chi
si
voglia
e

si
sappia
mettere
in
questione
e
all’ascolto
‐
di
fare
i
conti
con
alcune

delle
idee
maggiormente
diffuse
e
maggiormente
svianti
che
circolano

nel
discorso
quotidiano
odierno:
vale
a
dire
l’idea
che
Lussu
e
Bellieni

rappresentino
il
massimo
o
l’optimum
della
così
detta
“sardità”,
che
di

questa
 terra
 siano
 stati
 i
 massimi
 paladini
 e
 che
 ad
 essa,

all’identificazione
con
essa
e
con
il
suo
popolo,
abbiamo
votato
tutta
la

loro
vita
e
le
loro
energie.
Posto
che
ognuno
si
può
fare
l’idea
che
vuole

di
cosa
sia
il
“massimo
della
sardità”
resta
il
fatto
che
l’unica
cosa
che

traspare
 in
 questi
 scritti
 è
 la
 volontà
 di
 integrarsi
 e
 divenire
 italiani:

forse
per
qualcuno
leggere
profusioni
di
affetto
per
la
“patria
italiana”

e
 dichiarazioni
 di
 sentimento
 di
 “italianità”
 è
 il
 massimo
 di
 sardità,




 93


ovviamente
per
noi
indipendentisti
è
l’esatto
contrario,
o
perlomeno,
è

l’esatto
contrario
del
sentire
indipendentista.


Certo,
qualcuno
dirà
che
Bellieni
con
il
tempo
cambiò
leggermente
le

sue
 posizioni
 e
 divenne
 più
 possibilista
 nei
 confronti

dell’indipendentismo
 (cosa
 che
 invece,
 sicuramente,
 Lussu
 non
 fece),

ma
 il
 punto
 è
 proprio
 qui,
 che
 questi
 testi
 li
 presentiamo
 non
 per

rendere
 conto
 delle
 idee
 personali
 di
 due
 individui,
 ma
 come

documenti
 rappresentativi
 di
 una
 impostazione
 politica
 e
 culturale
 (e

forse
 anche
 psichica
 e
 psicanalitica)
 che
 ha
 caratterizzato
 e

caratterizza
 da
 almeno
 una
 novantina
 di
 anni
 a
 questa
 parte

l’immagine
che
i
sardi
hanno
di
sé,
una
impostazione
che
ha
agito
oltre

le
 vicende
 personali
 e
 le
 prese
 di
 posizione
 successive
 di
 Lussu
 e

Bellieni:
 insomma,
 questi
 sono
 veri
 e
 propri
 testi
 iniziatori
 di
 una

tradizione
 “identitaria”
 che
 agisce,
 anche
 se
 in
 modo
 inconscio,

tutt’oggi.


Basta
leggere
questi
scritti
per
cogliervi
molti
delle
stereotipi
più
in

uso
nei
discorsi
di
tutti
i
giorni,
quelli
dei
politici
e
quelli
dei
semplici

cittadini
 che,
 in
 molti
 casi
 senza
 saperlo,
 non
 fanno
 altro
 che
 ripetere

quanto
Lussu
e
Bellieni
hanno
detto
anni
fa:
ma
non
è
solo
questione
di

parole,
 si
 tratta
 anche
 di
 comportamenti,
 atteggiamenti,
 schemi
 di

pensiero
e
di
azione
che,
benché
a
volte
leggermente
aggiornati,
sono

rimasti
 praticamente
 identici.
 Basta
 pensare
 al
 rivendicazionismo

economico,
al
separatismo
usato
come
minaccia
allo
Stato
“ingrato”
ma

sempre
 accompagnato
 dalle
 profusioni
 di
 italianità,
 o
 ancora,
 l’inutile

orgoglio
 “regionale”
 unito
 all’aspirazione
 di
 accedere
 e
 integrasi
 al

“livello
nazionale”,
il
continuo
richiamo
al
sangue
versato
in
guerra,
al

presente
immutabile,
alla
poca
forza
e
unità
dei
sardi…tutto
fin
troppo



94
 


sentito
e
vissuto.
Certo
tutto
molto
ambiguo,
ma
non
inganniamoci,
le

posizioni
 dei
 nostri
 autori
 sono
 chiare:
 se
 la
 loro
 “grandezza”
 è
 stata

quella
di
essere
stati
ascoltati
e
seguiti
allora
sono
loro
che,
in
questo

gioco
 di
 costruzione
 dell’identità
 tramite
 i
 testi,
 hanno
 sulle
 spalle
 la

grossa
 responsabilità
 di
 aver
 minato
 alla
 base,
 cioè
 nel
 sentire,
 la

coscienza
nazionale
e
indipendentista
dei
sardi.


Perché
 è
 ben
 evidente
 ‐
 “leggere
 per
 credere”
 ‐
 che
 per
 loro
 c’è
 un

solo
 avversario
 e
 questo
 è
 il
 “separatismo”:
 è
 del
 proprio
 sentimento

indipendentista,
 presente
 un
 po’
 ovunque
 come
 ammette
 Bellieni
 e

come
 lo
 stesso
 Lussu
 sa
 (è
 proprio
 da
 Lussu
 che
 i
 sardi
 aspettano

l’Indipendenza
al
suo
ritorno
dalla
guerra…),
che
bisogna
vergognarsi

(è
 per
 ciò
 che
 Lussu
 lo
 assocerà
 al
 fascismo
 proprio
 quando
 quel

sentimento
 nasceva
 dal
 degrado
 e
 dall’umiliazione
 che
 il
 fascismo

aveva
 inferto
 alla
 cultura
 sarda);
 è
 dei
 vigliacchi
 e
 inconcludenti

indipendentisti
 (dunque
 di
 se
 stessi)
 che
 bisogna
 diffidare;
 è

l’indipendentismo
 che
 va
 sacrificato
 per
 ottenere
 il
 benessere,
 per

ottenere
il
federalismo,
per
ottenere
l’autogoverno
ma
soprattutto
per

ottenere
il
riconoscimento
di
essere
italiani
come
tutti
gli
altri.


Ecco
 allora
 che
 questi
 elementi
 entrano
 in
 un
 sistema,
 in
 una

costellazione,
 in
 cui
 si
 reggono
 e
 si
 giustificano
 uno
 con
 l’altro,
 tanto

che
 Bellieni
 ammetterà
 implicitamente,
 in
 uno
 scritto
 che
 qui
 non

riportiamo,
 che
 per
 fare
 il
 federalismo
 bisognerà
 garantire
 sempre
 di

più
la
fedeltà
alla
“Nazione”
(l’Italia,
ovviamente)
e
dunque
sacrificare

il
proprio
essere
sardi
(a
quel
punto
si
inventerà
che
essere
più
sardi

voleva
 dire
 diventare
 più
 italiani…,
 in
 una
 specie
 di
 turbinio
 in
 cui
 il

cappio
 dell’assimilazione
 si
 stringe
 sempre
 più
 forte
 al
 collo
 della

diversità).





 95


La
 Sardegna
 diventa
 così
 una
 “Regione”,
 forse
 e
 apparentemente



amabile,
sicuramente
senza
un
futuro
suo:
diviene
infatti
una
parte
di

qualcos’altro
 –
 qualcosa
 di
 più
 grande
 e
 più
 importante
 ‐

un’accozzaglia
 di
 tradizioni,
 usi
 e
 costumi
 da
 conservare
 mentre
 si

diviene
prosperi
e
civili
grazie
a
nuovi
costumi
e
a
miracolosi
piani
di

rinascita
 e
 sviluppo
 monotematici
 e
 sradicanti.
 Unico
 risultato,
 come

diceva
Simon
Mossa,
snazionalizzazione,
diaspora,
rapina
delle
risorse.


Ma
tutto
ciò,
pensavano
questi
falsi
padri,
andava
fatto
perché
l’unica

alternativa
 era
 il
 vergognoso
 separatismo,
 una
 “malattia”:
 ancora
 una

volta,
 come
 già
 in
 passato
 per
 la
 Rivoluzione
 sarda
 di
 Angioy
 e
 dei

martiri
repubblicani
del
1802,
la
possibilità
dell’Indipendenza
diventa

il
 capro
 espiatorio
 che
 fonda
 la
 comunità
 autonoma
 e
 unionista
 di

Sardegna.
 Per
 costruire
 la
 “Regione
 Sarda”
 bisogna
 sacrificare
 la

Nazione
 sarda,
 la
 Repubblica
 di
 Sardegna:
 oggi
 lo
 sappiamo
 e
 a

rileggere
queste
pagine
ci
viene
al
massimo
da
sorridere…














 96
 
























 
 97


Emilio
Lussu:
“Autonomia
non
separatismo”.








Da
"Il
Solco",
20
maggio
1945


Poiché
 esistono
 in
 Sardegna
 certe
 correnti
 separatistiche,
 è
 meglio

parlarne
che
fingere
di
ignorarle.


In
 questo
 difficile
 periodo
 della
 ricostruzione
 del
 nostro
 Paese

[l’Italia,
 ndr],
 dopo
 vent'anni
 di
 antidemocrazia
 frenetica,
 i
 dirigenti

politici
scendono
a
livello
di
cavadenti
da
fiera
e
si
fanno
responsabili

del
disorientamento
che
è
già
grande,
se
non
prendono
posizione:
con

assoluta
 lealtà,
 di
 fronte
 ai
 problemi
 politici
 che
 siamo
 chiamati
 a

risolvere.


Conscio
di
questo
dovere,
fin
dal
mio
ritorno
in
Sardegna
dopo
tanti

anni
di
assenza,
ho
preso
posizione
contro
il
cosiddetto
«separatismo».

Questo
 mio
 atteggiamento
 ha
 deluso
 ed
 inasprito
 più
 d'uno,
 e,
 per

reazione,
 ne
 è
 derivata
 tutta
 una
 campagna
 più
 o
 meno
 clandestina,

diffamatoria
e
demagogica.


Debbo
 dirlo
 con
 un
 certo
 senso
 di
 orgoglio:
 tutto
 questo
 mi
 onora,

come
mi
onora
la
avversione
di
cui
mi
ha
voluto
investire
il
fascismo,

fin
 dal
 suo
 sorgere.
 Io,
 infatti,
 considero
 il
 separatismo
 una
 forma
 di

corruzione
 e
 decadenza
 politica,
 alla
 stessa
 stregua
 del
 fascismo.
 Il



98
 


separatismo
 è
 una
 malattia
 politica,
 che
 si
 ha
 certamente
 il
 dovere
 di

spiegare,
 ma
 anche
 di
 combattere.
 Se
 è
 una
 malattia,
 bisogna
 pure

guarirla.


Il
 separatismo
 non
 è
 mai
 esistito
 in
 Sardegna
 prima
 della
 presente

guerra.
Il
Partito
Sardo
d'Azione
non
è
mai
stato
separatista
e
non
ha

mai
 avuto
 nel
 suo
 seno
 nessuna
 corrente
 separatista.
 Noi
 tutti,
 i

fondatori
 del
 Partito,
 abbiamo
 considerato
 l'autonomia
 come
 una

rivolta
 verso
 la
 costituzione
 centralizzata
 dello
 Stato
 italiano.

Un'avversione
 al
 potere
 burocratico
 e
 incompetente
 e
 assolutistico
 di

Roma,
 un'avversione
 a
 una
 sistematica
 forma
 di
 sfruttamento

plutocratico,
 non
 un'avversione
 all'Italia.
 Il
 Partito
 Sardo
 d'Azione
 è

stato
creato
dai
combattenti
sardi
dell'altra
guerra.
I
combattenti
sardi

non
 sono
 mai
 venuti
 meno
 alla
 solidarietà
 che
 li
 stringeva
 agli
 altri

combattenti
 d'Italia
 né
 alla
 causa
 della
 democrazia
 nazionale
 ed

europea
 per
 cui
 essi
 avevano
 combattuto.
 Per
 noi
 tutti
 autonomia

significava
 maggiore
 libertà
 e
 maggiore
 giustizia,
 trasformazione
 e

conquista
 dello
 Stato.
 Noi
 intendiamo
 essere
 partecipi
 e
 non
 vittima

della
 organizzazione
 dello
 Stato
 nazionale.
 Ognuno
 sa
 come
 la

Sardegna
entrò
a
far
parte
del
Regno
d'Italia.
Crollata
la
Spagna
come

grande
 potenza,
 la
 Sardegna
 passò
 all'Austria,
 e,
 per
 un
 successivo

baratto
 diplomatico,
 alla
 Casa
 Savoia.
 In
 tutto
 questo
 affare,
 la

Sardegna
era
passata
dalle
mani
di
un
re
a
quelle
di
un
altro,
così
come,

fra
mercanti
si
può
far
circolare
una
tonnellata
di
formaggio
o
di
lana.

La
 volontà
 dei
 nostri
 padri
 non
 vi
 aveva
 niente
 a
 che
 vedere:
 i
 Sardi

erano
stati
venduti
ancora
una
volta.


Il
 nostro
 autonomismo,
 dopo
 la
 passata
 guerra,
 volle
 significare

questo:
 i
 Sardi,
 da
 vassalli
 intendono
 diventare
 cittadini;
 nello
 Stato




 99


italiano,
 essi
 intendono
 diventare
 liberi
 soggetti
 di
 diritto
 e
 non



rimanere
 sudditi
 asserviti.
 E
 volle
 significare
 anche
 questo:
 per
 i
 suoi

problemi,
la
Sardegna
aspira
ad
avere
un
autogoverno.


Ma
noi,
vecchi
fondatori
del
partito,
concepivamo
la
Sardegna
come

un
 settore
 particolare
 del
 generale
 fronte
 italiano.
 I
 vecchi
 ricordano

che
 noi
 ci
 sforzammo
 di
 far
 sorgere
 nel
 resto
 d'Italia
 movimenti

analoghi
 al
 nostro.
 Si
 organizzò
 così
 il
 Partito
 Molisano
 d'Azione,
 il

Partito
 Romano
 d'Azione,
 il
 Partito
 Lucano
 d'Azione
 con
 i
 quali
 ci

alleammo.
E
stava
per
formarsi
un
Partito
Siciliano
d'Azione,
un
Partito

Laziale
 d'Azione,
 un
 Partito
 Romagnolo
 d'Azione,
 un
 Partito
 Veneto

d'Azione,
 un
 Partito
 Lombardo
 d'Azione.
 Se
 il
 fascismo
 non
 avesse

conquistato
 il
 potere
 e
 stroncato
 ogni
 tentativo
 di
 rinnovamento

democratico
nel
paese,
non
v’è
ombra
di
dubbio
che
si
sarebbe
arrivati

a
 una
 Federazione
 Politica
 di
 questi
 Partiti
 regionali,
 tutti
 a
 carattere

autonomistico,
e
che,
nella
massima
organizzazione
centrale
e
federale,

si
sarebbe
assunta
la
denominazione
di
«
Partito
Italiano
d'Azione
».


Ma
 tutto
 fu
 sommerso
 in
 Italia.
 Io
 sono
 rimasto
 fedele
 a
 questi

principi
originari
del
Partito
Sardo
d'Azione.


Ma
 ora
 v'è
 del
 separatismo:
 una
 specie
 di
 «
 venticello
 »
 come
 la

calunnia
nel
Barbiere
di
Siviglia...


Ce
 n'è
 un
 po’
 dappertutto:
 nel
 Partito
 Sardo
 d'Azione,
 negli
 altri

Partiti
e
fuori
dei
Partiti.
Ma
io
debbo
dire
che
finora
non
ho
conosciuto

un
solo
Sardo
che
abbia
sostenuto
con
chiarezza
questa
sua
peregrina

aspirazione:
 dopo
 una
 conversazione
 serrata,
 ciascuno
 rinunzia
 al

separatismo
 e
 lo
 riconosce
 un
 anacronismo
 o
 un
 paradosso.
 Ripeto:

non
ho
conosciuto
finora
un
solo
separatista
convinto,
neppure
il
mio



100



amico
Bua
di
Sassari
che
si
è
conquistata
la
reputazione
di
Leader
dei

separatisti.


Questa
 corrente
 separatista,
 battuta
 ufficialmente
 in
 tutti
 i
 dibattiti

politici,
 risorge
 e
 serpeggia,
 furtiva.
 Qualcosa
 come
 una
 tribù
 armata,

che
eviti
le
battaglie
campali
e
gli
scontri
in
grande
stile,
che
scompaia

appena
 vede
 il
 grosso
 del
 nemico,
 ma
 che
 poi
 riappaia
 celere
 e

sparpagliata
 per
 molestare
 i
 fianchi
 o
 le
 retrovie
 o
 i
 carreggi.
 Questo

separatismo
 fa
 anche
 pensare
 a
 una
 specie
 di
 serpente
 marino
 la
 cui

esistenza
 non
 è
 dimostrata
 dal
 controllo
 scientifico,
 ma
 che

ciononostante
 tutti
 i
 marinai
 hanno
 visto
 e
 continuano
 a
 vedere

affiorare
in
alto
mare
nelle
navigazioni
oceaniche.


Tale
 separatismo
 può
 avere
 più
 spiegazioni.
 A
 mio
 parere,
 sono

queste.


1)
Durante
la
guerra
fra
il
'42
ed
il
'43,
quando
la
guerra
appariva
già

vinta
dagli
Alleati
e
si
attendeva
uno
sbarco
nelle
isole
da
un
momento

all'altro,
 parecchi
 sardi
 prevedevano
 un'occupazione
 a
 carattere

duramente
 punitivo
 e
 vendicativo
 di
 tutta
 l'Italia.
 Perché
 la
 Sardegna,

che
 nella
 sua
 maggioranza
 aveva
 odiato
 il
 fascismo
 ed
 avversato
 la

guerra
 avrebbe
 dovuto
 subire
 sanzioni
 punitive?
 Meglio
 far
 causa

comune
 cogli
 Alleati
 e
 separarsi
 dall'Italia.
 Questa
 forma
 di

separatismo
 aveva
 certamente
 un
 contenuto
 logico:
 si
 poteva
 non

condividerlo,
 ma
 era
 sostenibile.
 Gli
 avvenimenti
 successivi
 hanno

chiarito
le
intenzioni
degli
Alleati,
e
conseguentemente
questa
forma
di

separatismo
è
scomparsa
quasi
interamente.
Parecchi
dei
separatisti
di

quel
periodo
hanno
parlato
a
lungo
con
me:
oggi,
essi
sono
autonomisti

nell'ambito
dello
Stato
Italiano.
Credo
che
essi
sono
stati
degli
uomini

politici
che
hanno
seguito
la
realtà
della
situazione
politica.





 101


2)
 Parecchi
 sono
 diventati
 separatisti
 per
 impulso
 improvviso,



passando
 da
 un
 estremo
 all'altro.
 Subito
 dopo
 la
 liberazione,
 ho

partecipato
a
Roma
a
una
riunione
intima
di
Sardi.
Eravamo
in
20.
La

maggioranza
 era
 composta
 di
 separatisti
 convinti.
 Ma,
 fino
 a
 poco

prima,
 erano
 stati
 dei
 fascisti
 altrettanto
 convinti.
 A
 me
 sembrò
 che

quel
 passaggio
 fulmineo,
 dal
 fascismo
 al
 separatismo,
 fosse
 una

continuazione
 più
 o
 meno
 consapevole
 dello
 stesso
 fascismo.
 Gli

argomenti
a
sostegno
del
separatismo
sardo
erano
della
stessa
natura

di
quelli
del
fascismo
italiano.
La
stessa
avversione
alla
monarchia
mi

sembrò
 di
 stile
 fascista.
 Essa
 appariva,
 infatti,
 determinata
 più
 dalla

complicità
 della
 dinastia
 al
 colpo
 di
 stato
 del
 25
 luglio
 contro

Mussolini,
 che
 dal
 suo
 sostegno
 dato
 a
 Mussolini
 fino
 a
 quel
 giorno.

Questi
 separatisti
 sono
 obbligati
 a
 fare
 un
 profondo
 esame
 di

coscienza.


3)
In
alcuni,
specie
fra
ì
giovani
che
sono
stati
fascisti
fin
dall'infanzia,

si
 è
 sostituito,
 in
 buona
 fede
 antifascista,
 al
 nazionalismo
 italiano
 un

nazionalismo
sardo:
l'essenza
dei
due
nazionalismi
è
la
stessa.
A
questi

giovani
 io
 darei
 il
 consiglio
 della
 moderazione
 nelle
 concezioni

politiche.
 In
 qualunque
 partito
 essi
 militino,
 si
 facciano
 guidare
 dai

vecchi
 compagni
 antifascisti
 e
 non
 pretendano
 fare
 i
 professori

laddove
non
possono
essere
che
allievi.


4)
 Altri,
 ma
 sono
 pochi,
 pure
 essendo
 stati
 sempre
 antifascisti

irremovibili,
 sono
 diventati
 separatisti
 per
 una
 esasperazione
 contro

tutto
 quello
 che
 è
 venuto
 da
 Roma.
 Io
 concordo
 con
 loro
 nella

esasperazione.
 Ma
 i
 problemi
 politici
 non
 si
 risolvono
 con
 stati

d'animo.
I
due
problemi
politici
esigono
soluzioni
politiche.

5)
Altri,
e
sono
i
più,
dicono:
«Sta
bene:
siamo
autonomisti.
Ma
se
non



102



riusciamo
ad
avere
l'autonomia
dichiariamo
fin
d'ora
che
diventeremo

separatisti».
 Neppure
 questo
 è
 un
 modo
 logico
 di
 porre
 un
 problema

politico.

Io
 ho
 già
 detto
 altre
 volte
 pubblicamente
 dove
 condurrebbe
 il

separatismo
 e
 dove
 andrebbe
 a
 finire
 la
 Sardegna
 in
 una
 soluzione

separatista,
 né
 starò
 qui
 a
 ripetermi.
 Autonomia
 per
 tutti
 noi
 è,
 in

prima
e
in
ultima
istanza,
conquista
di
libertà
in
ogni
campo.
Il
popolo

sardo
 non
 si
 vende
 sul
 mercato
 internazionale
 al
 miglior
 offerente.

Nell'ambito
 della
 unità
 italiana,
 la
 Sardegna
 aspira
 a
 conquistarsi,

sovranamente
per
i
suoi
problemi
specifici
l'autogoverno.


Io
 desidero
 richiamare
 l'attenzione
 di
 tutti
 sulle
 forze
 politiche
 che

sono
necessarie
per
vincere
una
battaglia
politica
come
la
nostra.
Per

conquistare
 l'autonomia
 sono
 necessari
 la
 solidarietà
 e
 il
 sostegno
 di

tutti
 i
 partiti
 della
 democrazia
 sarda.
 Nessuno
 ignora
 che
 il
 partito

liberale,
 il
 partito
 socialista,
 il
 partito
 comunista
 e
 il
 partito
 della

democrazia
 cristiana
 non
 sono
 in
 Sardegna
 partiti
 autonomi:
 la

direzione
centrale
di
questi
partiti
non
è
in
Sardegna,
ma
a
Roma.
Essi

sono
 partiti
 a
 organizzazione
 nazionale.
 Noi
 li
 possiamo
 avere
 tutti

concordi
per
l'autonomia;
li
avremo
tutti
ostili
per
il
separatismo.


La
più
grande
lezione
viene
dal
Separatismo
Siciliano.
Il
movimento

separatista
 siciliano
 ha
 contro
 di
 sé
 tutti
 gli
 altri
 partiti
 in
 Sicilia.

Contro
il
separatismo
hanno
preso
decisa
posizione
in
Sicilia
il
Partito

Socialista,
 il
 Partito
 Comunista,
 il
 Partito
 Liberale,
 la
 Democrazia

Cristiana
del
Lavoro
e,
in
più,
la
Confederazione
Generale
del
Lavoro
e

tutto
 il
 movimento
 dei
 combattenti
 che
 ha
 organizzazione
 e
 forze

notevoli.
 E
 contro,
 si
 sono
 clamorosamente
 dichiarati
 tutti
 i
 Siciliani

della
 Tunisia
 e
 d'America.
 I
 separatisti
 Siciliani
 hanno
 perduto
 la
 loro




 103


strana
battaglia
fin
dall'inizio.
E’
che
l'Italia
non
è
una
figura
geografica

come
affermava
Metternich
un
secolo
fa,
ma
una
realtà
politica.
Questa

realtà
politica
non
la
può
barattare
né
infrangere
più
nessuno.
L'Italia

deve
 essere
 trasformata,
 deve
 sopprimere
 il
 regime
 interno
 dello

sfruttamento
 e
 del
 privilegio,
 deve
 darsi
 una
 democrazia
 politica
 e

sociale
 moderna,
 deve
 far
 sorgere
 a
 nuova
 vita
 il
 mezzogiorno
 e
 le

isole,
deve
radicalmente
ricostruire
l'organizzazione
del
suo
stato,
ma

non
può
più
sparire
come
unità
nazionale.


I
separatisti
siciliani,
in
questi
giorni,
si
sono
rivolti
ai
Governi
Alleati

per
 reclamare
 il
 loro
 intervento
 alla
 Conferenza
 di
 S.
 Francisco.
 La

risposta
è
nota.
Il
separatismo
siciliano
si
è
infilato
in
un
vicolo
cieco
e

non
ha
via
d'uscita.


Io
rivolgo
queste
mie
considerazioni
ai
Sardi,
in
un
momento
storico

della
 civiltà
 italiana
 ed
 europea,
 mentre
 i
 nostri
 eroici
 partigiani
 del

Nord
hanno
battuto
i
fascisti
e
i
tedeschi
in
una
battaglia
gloriosa
che

annunzia
l'avvento
di
una
nuova
democrazia,
e
mentre
i
grandi
eserciti

alleati
 in
 ogni
 settore
 dell'immenso
 fronte,
 hanno
 afferrato
 alla
 gola
 i

responsabili
 della
 guerra.
 E’
 partecipando
 con
 gioia
 a
 questi

straordinari
avvenimenti
che
noi
Sardi
ci
sentiamo
italiani
ed
europei.









104


 
























 
105


Camillo
 Bellieni:
 “Per
 sfatare
 un
 stupida
 leggenda.



Noi
e
l'unità
d'Italia”








Da
"Il
Solco",
18
dicembre
1921


Le
 vestali
 che
 si
 sono
 assunte,
 di
 propria
 iniziativa,
 l'incarico
 di

mantenere
 vivo
 il
 fuoco
 sacro
 dell'unità
 d'Italia,
 passano

manifestamente
 un
 quarto
 d'ora
 di
 incertezza
 e
 di
 indicibile

turbamento.


Infatti
 tutti
 i
 più
 autorevoli
 organi
 della
 pubblica
 opinione
 sono
 per

qualche
 giorno
 rimasti
 in
 forse
 tra
 il
 desiderio
 d'intonare
 salmi
 di

giubilo
 per
 le
 dichiarazioni
 d'Italianità
 fatte
 dinnanzi
 al
 Parlamento

dell'on.
 Lussu3
 o
 far
 prorompere
 il
 loro
 sdegno
 perché
 il
 nome
 di

Sardegna
 è
 stato
 occasionalmente
 pronunciato
 alla
 Camera
 italiana

insieme
a
quello
d'Irlanda.


E’
chiaro
dunque
che
tutti
gli
scribi
dell'unitarismo
ad
ogni
costo
non

hanno
 ancora
 capito
 o
 mostrano
 di
 non
 aver
 capito
 nulla
 del
 nostro

movimento.




























































3
Seduta
dell’8
dicembre
1921



106



Per
 mettere
 definitivamente
 un
 termine
 alle
 loro
 sconsolate



cerimonie,
 non
 è
 inopportuno
 quindi
 che
 precisiamo
 per
 la
 ennesima

volta
il
nostro
pensiero
intorno
a
questo
argomento.


Sì,
 o
 egregi
 signori,
 noi
 sardi
 siamo
 e
 ci
 sentiamo
 profondamente

italiani.


Lo
ha
detto
l'on.
Lussu
e
noi
abbiamo
l'orgoglio
di
ripeterlo,
orgoglio

sinceramente
frammisto
ad
un
certo
rossore
che
ci
sale
alla
faccia
ogni

volta
 che
 ci
 troviamo
 messi
 di
 fronte
 alla
 necessità
 di
 una
 simile

dichiarazione
da
certi
messeri
che
in
cuor
loro
sono
certamente
meno

italiani
di
noi.


La
nostra
italianità
nasce
riportiamo
ancora
una
volta
la
frase
dell'on.

Cao
 [recte:
 Lussu],
 tanto
 più
 volentieri
 in
 quanto
 riproduce

interamente
 ed
 esattamente
 il
 nostro
 pensiero
 ancora
 più
 che
 dalla

costruzione
naturale
dei
comuni
natali,
da
un
valore
e
da
una
coscienza

storica
consacrata
da
un
lungo
sanguinante
sacrificio.


«Noi
ci
siamo
serbati
italiani
anche
quando
fummo
abbandonati
a
noi

stessi
‐
scrisse
già
il
Tuveri
nel
suo
Il
governo
e
i
comuni
­
anche
quando

il
 resto
 d'Italia
 serviva
 e
 non
 sempre
 malvolentieri,
 a
 Tedeschi,

Francesi
ed
Inglesi
e
noi
ci
vogliamo
serbare
italiani»4.


Siamo
 dunque
 italiani
 e
 professiamo
 il
 nostro
 amor
 di
 patria
 con

schiettezza
e
profondità
di
sentimento.
Ma,
così
come
non
sentiamo
il

patriottismo
 allo
 stesso
 modo
 in
 cui
 lo
 sentono,
 per
 esempio,
 i

nazional‐fascisti,
 così
 come
 ci
 fanno
 sorridere
 gli
 sdegni
 patriottici

l'animo
 dell'ex
 neutralista
 Giolitti
 e
 dei
 coccodrilli
 della
 siderurgia

nazionale,
così
non
siamo
bigotti
del
dogma
dell'unità
della
patria
fino

al
punto
di
sacrificare
la
nostra
concezione
della
libertà
regionale.



























































4
G.B.
Tuveri,
Il
governo
e
i
comuni,

Cagliari
1860,
pp.
48.




 107


Il
concetto
dell'unità
nazionale
per
noi
‐
piaccia
questo
o
non
piaccia

ai
 grandi
 organi
 che
 si
 danno
 l'aria
 di
 rappresentare
 la
 pubblica

opinione
 ‐
 non
 può
 essere
 accompagnato
 da
 una
 severa
 ma
 equa

valutazione
 dei
 particolari
 interessi,
 dei
 bisogni,
 delle
 tradizioni,
 dei

costumi,
 delle
 condizioni,
 delle
 aspirazioni
 delle
 regioni
 che

compongono
la
nazione.


Noi
 intendiamo,
 in
 sostanza,
 la
 nazione
 come
 un'associazione

grandiosa
di
libere
volontà
regionali
che
s'incontrino
sul
terreno
di
alti

interessi
comuni
e
non
già
come
asservimento
e
subiezione
passiva
dei

destini
 delle
 singole
 regioni
 ad
 una
 idea,
 o
 per
 meglio
 dire,
 ad
 una

formula
ciecamente
unificatrice.


Noi
 aspiriamo,
 vale
 a
 dire,
 ad
 una
 federazione
 libera
 di
 regioni

insieme
collegate
da
un
alto
spirito
di
solidarietà
fraterna
per
produrre

una
 tutela
 efficace
 dei
 comuni
 interessi
 e
 del
 comune
 patrimonio

ideale:
famiglia
immensa
di
popoli
nella
quale
la
più
perfetta
armonia,

l'accordo
 più
 durevole,
 sia
 garantito
 e
 cementato
 dal
 rispetto
 sincero

del
 diritto
 dei
 singoli,
 da
 un'equa
 ripartizione
 degli
 oneri,
 dalla

comprensione
 pronta
 ed
 affettuosa
 del
 bisogno
 dei
 suoi
 componenti

che
permetta
di
sopperirvi,
all'occorrenza,
con
ugual
senso
di
giustizia.

In
questo
modo
e
soltanto
in
questo
modo
noi
possiamo
intendere
ed

intendiamo
l'unità
della
patria.


Non
 come
 costruzione
 di
 collettività
 regionali
 al
 riconoscimento
 di

sincere
 formazioni
 ideologiche
 mascheratrici
 di
 interessi
 illegittimi;

non
come
asservimento
delle
energie
e
delle
ricchezze
della
regione
a

profitto
di
oligarchie
plutocratiche;
non
come
formula
espressiva
di
un

predominio
brutale
ed
assurdo
dei
più
forti
sui
più
deboli,
di
classi
più



108



progredite
 su
 classi
 misere
 ed
 incolte,
 della
 città
 sulla
 campagna,
 del

centro
sulla
periferia.


Tanto
 meno
 siamo
 disposti,
 pur
 liberi
 come
 siamo
 da
 ogni

pregiudiziale,
 ad
 accettare
 una
 sua
 concezione
 dell'unità
 italiana
 che

identifichi
 la
 nazione
 con
 la
 monarchia
 o
 con
 tutto
 quel
 complesso
 di

istituzioni
che
caratterizzano
l'attuale
regime
accentratore.


Se
coloro
i
quali
ci
accusano
di
velleità
separatiste
pensano
che
noi,

per
 allontanare
 il
 nostro
 movimento
 una
 simile
 traccia,
 dobbiamo

prosternarci
all'istituto
monarchico,
dobbiamo
incatenarci
per
sempre

al
 carro
 delle
 istituzioni
 attuali,
 lasciare
 immutato
 quel
 regime

d'accentramento
 che
 inceppa
 la
 esplicazione
 delle
 produttive
 attività,

lo
 sviluppo
 delle
 migliori
 energie
 del
 paese
 sottoponendole
 ai
 vincoli

dei
 pesi
 ingiusti
 e
 di
 formalismi
 ingombranti,
 oh,
 allora
 amiamo
 si

continui
a
chiamarci
separatisti.


Ma,
 in
 questo
 caso,
 si
 decidano
 quei
 signori
 a
 dare
 finalmente
 un

frego
 alla
 storia
 della
 nazione
 e
 a
 cancellare
 dal
 novero
 degli
 italiani

tutti
coloro
che
l'hanno
pensata
come
noi
e
che
diedero
alla
causa
del

risorgimento
 d'Italia
 qualche
 cosa
 di
 più
 che
 non
 la
 vuota
 fraseologia

del
 giornalismo
 attuale,
 a
 cominciare
 da
 Mazzini
 che
 apertamente

dichiarava
 di
 non
 potere
 con
 tranquillità
 di
 coscienza
 giurare
 fedeltà

alla
 monarchia
 ritenendola
 incapace
 di
 fondare
 l'unità
 morale

dell'Italia.


C'è
 poi
 qualcuno,
 Il
 Giornale
 d'Italia,
 ad
 esempio,
 il
 quale
 cerca
 di

ridurre
 la
 questione
 sarda
 e
 la
 portata
 del
 nostro
 movimento
 ad
 una

semplice
 questione
 di
 riforma
 di
 organismi
 burocratici
 e
 di
 più
 largo

intervento
governativo
nelle
opere
pubbliche
necessarie
nell'Isola.





 109


La
 questione
 è
 ben
 più
 vasta
 e
 di
 maggiore
 portata.
 Noi
 sardi,
 e

specialmente
 noi
 del
 Partito
 Sardo
 d'Azione
 non
 venderemo,
 come

Esaù,
 la
 nostra
 primogenitura
 per
 un
 piatto
 di
 lenticchie,
 così
 come

vorrebbe
Il
Giornale
d'Italia.


Di
 fronte
 al
 problema
 sardo,
 quale
 noi
 lo
 prospettiamo
 nel
 nostro

programma
 e
 nella
 nostra
 propaganda
 quotidiana,
 le
 riforme
 e
 le

concezioni
 governative,
 sono
 nient'altro
 che
 pannicelli
 caldi
 sopra
 un

membro
in
cancrena.


Noi
vogliamo
rompere
una
volta
per
sempre
e
decisamente
il
cerchio

di
 ferro
 dell'attuale
 ordinamento
 politico
 che
 ha
 messo
 l'Isola
 da

troppo
 lungo
 tempo
 e
 mantiene
 in
 condizioni
 di
 assoluta
 inferiorità

rispetto
a
tutte
le
altre
regioni
d'Italia.


C'è
ancora
chi
ci
vuol
tenere
in
considerazione
di
pupilli
abbisognosi

di
tutela.
Noi
non
lo
crediamo
ed
è
su
questa
convinzione
che
fondiamo

il
 nostro
 desiderio
 e
 le
 nostre
 aspirazioni
 ad
 una
 larga
 autonomia

amministrativa.


Lasciata
a
sé
stessa,
la
Sardegna
sarà
capace
non
solo
di
governarsi
e

di
 crearsi
 ordinamenti
 più
 consoni
 alle
 proprie
 condizioni
 e
 alle

proprie
 necessità
 più
 che
 oggi
 non
 accada,
 ma
 anche
 dì
 crearsi
 quella

prosperità
economica
che
ora
le
manca
ed
è
ostacolata
in
tutti
i
modi

ed
 alla
 quale
 le
 sue
 risorse
 naturali
 e
 l'energia
 dei
 suoi
 figli
 le
 danno

diritto
di
aspirare.


La
 esiguità
dei
 tributi,
la
scarsità
della
produzione
 attuale
non
sono

elementi
tali
che
possano
dare
soverchie
preoccupazioni
per
l'avvenire

di
una
regione
come
la
nostra,
che
non
ha
ancora
avuto
la
possibilità
di

sviluppare
tutto
il
suo
rendimento
economico.




110



Lo
 sfruttamento
 razionale
 delle
 ricchezze
 isolane,
 agevolato
 da



opportuni
 provvedimenti
 legislativi
 adatti
 all'ambiente,
 la
 liberazione

dai
 vincoli
 di
 un
 esoso
 protezionismo
 doganale,
 e
 dall'asservimento

delle
 industrie
 e
 dei
 commerci
 locali
 al
 commercio
 ed
 all'industria
 di

regioni
 più
 favorite,
 consentiranno
 senza
 alcun
 dubbio
 all'Isola
 di

collocarsi
 rapidamente
 in
 uno
 dei
 primi
 posti
 dell'assestamento

economico
delle
regioni
italiane.
Questo
gioverà
senza
alcun
dubbio
a

noi
sardi;
e
gioverà
immensamente
anche
al
resto
d'Italia,
che
non
sarà

costretta
 a
 considerare
 l'Isola
 ‐
 come
 spesso
 la
 considera
 oggi
 ‐
 come

una
palla
di
piombo
che
ritardi
il
suo
rapido
procedere
verso
migliori

destini.


Noi
siamo
dunque
autonomisti:
autonomisti
nella
concezione
di
una

unità
italiana
ragionevolmente
intesa.
Non
separatisti.


Tra
 l'Irlanda
 e
 la
 Sardegna
 passa
 certamente
 un
 divario
 ‐
 possiamo

consentirlo
 agli
 scrittori
 dell'Unione
 [Sarda]
 che
 analizzano
 così

accuratamente
il
nostro
movimento
‐
che
l'accoppiamento
occasionale

dei
due
nomi
non
può
sopprimere.
Ma
non
si
illude
nessuno
quando
si

cerca
 di
 nascondere
 che
 il
 prolungamento
 di
 una
 situazione

intollerabile
potrebbe
suscitare
sentimenti
che
ancora
non
esistono.


Perché
 si
 dice
 forse
 una
 verità,
 quando
 si
 sostiene
 che
 l'Italia
 ha

trattato
 meglio
 la
 Sardegna
 di
 quanto
 l'Inghilterra
 non
 abbia
 trattato

l'Irlanda.


Ma
i
vincoli
che
uniscono
l'Irlanda
all'Inghilterra
non
sono
gli
stessi
e

non
 possono
 essere
 valutati
 alla
 stessa
 stregua
 di
 quelli
 che
 legano

l'Italia
 alla
 Sardegna.
 Si
 dimentica
 facilmente
 che
 è
 stata
 la
 Sardegna

che
 ha
 promosso
 e
 che
 ha
 largamente
 contributo
 a
 sollevare
 l'Italia
 a

dignità
di
nazione.





 111


In
 queste
 condizioni,
 esaminando
 quello
 che
 l'Italia
 ha
 fatto
 finora

verso
la
Sardegna,
togliendole,
assai
più
spesso,
di
quanto
non
le
abbia

dato
 qualche
 Gladstone
 italiano,
 avrebbe
 forse
 ragione
 di
 sentirsi

umiliato
pensando
che
la
Sardegna
‐
per
colpa
soprattutto
dei
governi

che
si
sono
succeduti
‐
è
ancora
citata
all'estero
a
dimostrazione
della

miseria,
 dell'analfabetismo
 e
 dello
 stato
 di
 regresso
 in
 cui
 l'Italia
 si

trova.


Tuttavia
torniamo
ad
affermare
ancora
una
volta
la
nostra
italianità,

consacrata
anche
di
recente
dal
sangue
che
innumerevoli
sardi
hanno

sparso
gloriosamente
sui
campi
di
battaglia.


Ma
non
è
questa
una
ragione
perché
si
continui
a
protrarre
la
nostra

condizione
d'inferiorità
di
fronte
alle
regioni
sorelle,
non
è
una
ragione

perché
si
pretenda
da
noi
la
subiezione
ad
un
regime
di
accentramento

governato
 da
 organismi
 parassitari,
 l'asservimento
 ad
 istituzioni
 non

sentite
che
paralizzano
le
nostre
energie
e
soffocano
il
nostro
sviluppo

economico.


Non
vogliamo
che
la
nostra
italianità
sia
di
pretesto
per
negarci
più

oltre
 quello
 che
 è
 un
 nostro
 sacrosanto
 diritto:
 quello
 di
 regolare

direttamente
 da
 noi
 stessi,
 per
 mezzo
 di
 un
 governo
 e
 di

un'organizzazione
amministrativa
scelta
da
noi,
tutti
i
nostri
interessi,

di
 provvedere
 con
 leggi
 nostre,
 rispettose
 dei
 nostri
 costumi
 e
 delle

nostre
 tradizioni
 e
 con
 organi
 esecutivi
 nostri
 particolari
 bisogni,

nell'interesse
particolare
della
Sardegna
e
nell'interesse
generale
della

nazione.
Questo
è
il
nostro
pensiero.





112


 
























 
113


Camillo
Bellieni:
“Il
pericolo
separatista”








Da
"Il
Solco",
19
maggio
1922


Nel
 discorso
 pronunciato
 l'altro
 giorno
 alla
 Camera
 sul
 bilancio
 dei

lavori
 pubblici,
 l'on.
 Cao
 ha
 tenuto
 a
 respingere
 ancora
 una
 volta

l'accusa
di
separatismo
fatta
al
gruppo
parlamentare
autonomista
e
al

Partito
Sardo
d'Azione.


Nell'esprimere
 un
 suo
 personale
 convincimento
 egli
 ha
 insieme

tradotto
con
esattezza
ed
efficacia
il
pensiero
del
nostro
partito.


Ma
 crediamo
 che
 l'on.
 Cao
 sia
 andato
 troppo
 oltre
 escludendo

addirittura
ogni
minaccia
separatista
in
Sardegna.


A
 noi
 sembra
 invece
 che
 il
 pericolo
 che
 egli
 dà
 quasi
 per

completamente
 scontato,
 sia
 più
 reale
 ed
 imminente
 di
 quanto
 le

autorevoli
assicurazioni
del
nostro
deputato
nelle
quali
è
più,
forse,
un

augurio,
 che
 non
 una
 esatta
 riproduzione
 della
 realtà
 delle
 cose

tendano
a
lasciar
credere.


Infatti,
 l'opinione
 delle
 nostre
 masse
 rurali,
 forse
 senza
 che
 i
 nostri

maggiori
 esponenti
 se
 ne
 avvedano,
 o
 per
 lo
 meno,
 senza
 che
 se
 ne

rendano
 conto
 preciso,
 si
 va
 orientando,
 ad
 opera
 specialmente
 dei

giovani
 sardi
 che
 spiegano
 una
 lenta
 ma
 infaticabile
 propaganda
 a



114



favore
 delle
 loro
 idee,
 verso
 una
 concezione
 di
 autonomia
 assai
 più

accentuata
 di
 quella
 che
 noi
 del
 partito
 sardo
 d'azione
 andiamo

sostenendo
e
che
si
risolve
in
un
vero
e
proprio
separatismo
politico.


Sarebbe
 vano
 dissimularselo:
 la
 tendenza
 al
 separatismo,
 nei
 paesi

dell'interno,
in
mezzo
ai
nostri
contadini
va
guadagnando
ogni
giorno

più
terreno.


Chi
volesse
dare
ragione
dello
strano
fenomeno,
troverebbe
forse
più

d'una
ragione
plausibile.


Una
di
queste
è
nel
fatto
che
la
concezione
separatista,
quella
che
la

massa
 comprende
 ed
 assimila
 con
 maggiore
 prontezza,
 e
 che
 pur

essendo
 e
 rimanendo
 utopistica,
 risponde
 ad
 una
 logica
 ferrea
 ed

assoluta
e
colpisce
più
vivamente
ed
impressiona
l'animo
delle
folle.


La
 formula
 dell'autonomia
 amministrativa,
 qual'è
 prospettata
 nei

programmi
e
nella
propaganda
quotidiana
del
partito
sardo
d'azione
è

certamente
 di
 più
 prossima
 realizzazione
 e
 risponde
 ai
 più
 pratici

criteri,
 ma
 è
 nello
 stesso
 tempo
 troppo
 complessa
 per
 essere

facilmente
accessibile
alla
comprensione
di
un
popolo
come
il
nostro.


Il
popolo
ama
ed
afferra
più
rapidamente
(e
le
ama
forse
per
questa

ragione)
 le
 formule
 semplici
 e
 chiare
 mentre
 non
 accetta
 quelle
 più

complesse
 se
 non
 in
 seguito
 ad
 una
 instancabile
 e
 lenta
 opera
 di

persuasione.


Ora
 la
 formula
 separatista
 è
 senza
 alcun
 dubbio,
 rispetto
 a
 quella

autonomistica,
 la
 più
 semplice
 e
 la
 più
 diritta
 e
 la
 sua
 comprensione

non
richiede
il
più
piccolo
sforzo
alla
mente
del
nostro
contadino.


Essa
si
offre
con
la
forza
persuasiva
d'un
ragionamento
che
si
dirige

allo
 scopo
 con
 una
 logica
 inesorabile:
 «sotto
 il
 dominio
 italiano,
 la

Sardegna
sta
male.
Perché
dunque
restiamo
sotto
questo
dominio?».





 115


Gli
 organi
 del
 governo
 in
 Sardegna,
 d'altra
 parte,
 fanno
 il
 tutto
 per

aumentare
la
diffusione
di
una
idea
separatista.


Essi
 si
 sforzano,
 come
 è
 evidente,
 di
 soffocare
 la
 propaganda
 delle

idee
del
partito
sardo
d'azione,


Ma,
 così
 facendo,
 non
 raggiungono
 altro
 risultato
 che
 quello
 di

lasciare
pervenire
alle
masse
idee
sviate
e
confuse
che
contribuiscono

alla
 creazione
 di
 uno
 stato
 sentimentale
 che
 è
 il
 più
 prossimo
 ad
 una

mentalità
nettamente
separatista.


Bisogna
 infine
 convenire
 che
 mai
 terreno
 fu
 più
 della
 Sardegna,

propizio
alla
diffusione
di
idealità
separatistiche.


Il
 popolo
 sardo
 è
 forse
 quello
 che
 meno
 di
 tutti
 gli
 altri
 ha

dimenticato
i
suoi
vecchi
costumi
e
le
sue
antiche
tradizioni,
quello
che

ha
meglio
conservato
un
istintivo
spirito
di
indipendenza.


Esso
 oppone
 tenacemente
 a
 tutte
 le
 influenze
 estranee
 una

resistenza
ostile
ed
 accanita;
considera
stranieri
ed
intrusi
 coloro
che

non
sono
nati
nel
suolo
dell'Isola
e
mantiene
rispetto
ad
essi
la
stessa

diffidenza
 ed
 ostilità
 che
 ha
 dimostrato
 in
 tutti
 i
 tempi
 a
 tutti
 gli

invasori.


Per
quanto
si
sforzino
gli
accesi
tentativi
d'un
patriottismo
facilone
e

parolaio
di
credere
e
di
far
credere
il
contrario,
le
nostre
popolazioni,

le
masse
rurali
dell'interno,
non
hanno
mai
sentito
o
compreso
l'unità

nazionale.


La
 patria
 è
 assai
 meno
 d'una
 figura
 retorica,
 per
 i
 nostri
 contadini

non
 esiste,
 l'Italia
 non
 si
 richiama
 alla
 memoria
 del
 nostro
 popolo
 se

non
 attraverso
 le
 sembianze
 dell'esattore
 o
 del
 carabiniere,
 che
 sono

gli
unici
e
visibili
rappresentanti
del
suo
governo.




116



Chi
 pretende,
 in
 questo
 condizioni,
 ch'
 esso
 ami
 la
 patria
 italiana,

pretende
l'assurdo.


Piuttosto
 è
 facile
 che
 il
 popolo
 si
 adatti
 (ad)
 identificare
 l'Italia
 col

suo
 Governo,
 che
 l'accomuni
 nel
 disprezzo
 e
 nell'odio
 che
 essa
 va

continuamente
 alimentando
 con
 le
 sue
 vessazioni
 e
 non
 nutra
 altra

aspirazione
che
quella
di
liberarsene.


Il
 giorno
 che
 qualcuno
 faccia
 comprendere
 al
 contadino
 sardo
 che

questa
aspirazione
può
tradursi
in
realtà,
vedremo
facilmente
prodursi

funesti
avvenimenti
per
tutti.


Il
pericolo
è
dunque
meno
da
trascurarsi
di
quello
che
a
prima
vista

non
appaia.


Coltivare
 ancora
 delle
 illusioni
 al
 riguardo
 ci
 pare
 imperdonabile

errore.


Errore
 ancora
 più
 grave
 è
 per
 noi
 non
 cercare
 in
 tempo
 utile,
 con

tutti
i
mezzi
opportuni,
di
arginare
un
pericolo
di
tal
genere.


Vero
è
che,
a
tal'
uopo,
poco
può
giovare
un
discorso
in
parlamento.


Il
 governo
 italiano,
 accecato
 dalle
 ottimistiche
 relazioni
 dei

funzionari
 servili,
 non
 è
 attualmente
 in
 grado
 di
 ascoltare
 e
 di

apprezzare
al
suo
giusto
valore
un
simile
ammonimento.


Non
 è
 lecito
 quindi
 aspettarsi
 dal
 potere
 centrale
 che,
 tornando
 su

tutta
 la
 politica
 finora
 seguita,
 cessi,
 con
 atto
 di
 opportuna
 e
 saggia

resipiscenza,
 dal
 rappresentare
 in
 Sardegna
 la
 parte
 del
 più
 attivo

collaboratore
di
una
tendenza
separatista.


Ma
 è
 dovere
 nostro
 intensificare
 fra
 le
 masse
 la
 propaganda
 delle

finalità
 del
 nostro
 partito
 e
 illuminare
 onestamente
 sul
 pericolo
 di

simili
 illusioni
 che
 finirebbero,
 forse,
 per
 diventare
 gravemente

dannose
e
per
compromettere
i
futuri
destini
dell'Isola.





 
117





























118


 




















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