Manifesto Politico iRS
Manifesto Politico iRS
Manifesto Politico iRS
3
Pro
s’Indipendentzia
e
sa
Repùbrica
de
Sardigna
Manifesto
politico
di
iRS
4
5
INDICE
INTRODUZIONE
Dae
s’incumintzu
de
sa
Carta
de
Logu
7
I
iRS
–
INDIPENDÈNTZIA
REPÙBRICA
DE
SARDIGNA
Capitolo
I
9
Capitolo
II
11
Capitolo
III
13
Capitolo
IV
17
Capitolo
V
21
Capitolo
VI
25
Capitolo
VII
27
Capitolo
VIII
29
Capitolo
IX
31
Capitolo
X
33
Capitolo
XI
37
Capitolo
XII
39
6
II
PRO
S’INDIPENDÈNTZIA
DE
SA
SARDIGNA
‐
La
scelta
“autonomista”
come
sacrificio
dell’indipendenza
41
‐
Il
tradimento
di
Lussu
43
‐
Il
fondamento
dell’Autonomia:
la
vergogna
di
essere
sardi
51
‐
L’elaborazione
della
diversità
53
‐
Le
contraddizioni
di
chi
non
ha
coraggio
57
‐
Il
federalismo
è
impossibile
61
‐
Anni
80:
il
sardismo
infligge
un’altra
umiliazione
63
all’indipendentismo
‐
Il
fondo
della
questione
67
‐
Classi
dirigenti
sarde:
mancanza
di
coscienza
e
di
69
sentimento
d’appartenenza
‐
Inizia
il
cammino
verso
la
Repubblica
Sarda
Indipendente
71
‐
Rimozione
e
conflitto
73
‐
Note
provocatorie
sull’esperienza
culturale
quotidiana
75
‐
Stigmatizzazione
culturale:
la
complicità
dell’autonomismo
79
‐
La
costruzione
del
sentire
collettivo
81
‐
Noi
siamo
qui,
oggi
85
‐
Indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna
(iRS)
87
III
APPENDICE
DOCUMENTARIA
‐
I
falsi
padri
della
Sardegna
91
‐
Lussu:
Autonomia
non
separatismo
97
‐
Bellieni:
Per
sfatare
una
stupida
leggenda.
Noi
e
l’unità
105
d’Italia
‐
Bellieni:
Il
pericolo
separatista
113
7
Introduzione
Dae
s’incumintzu
de
sa
Carta
de
Logu
Dae
s’incumintzu
de
sa
Carta
de
Logu,
«libru
dessas
constitucionis
ed
ordinacionis
sardiscas»,
ispaghinada
dae
sa
juyghissa
Elianora
de
Arbarèe
prus
o
mancu
in
su
1392:
«…Sa
Carta
de
Logu,
sa
quali
cun
grandissimu
provvidimentu
fudi
fatta
per
issa
bòna
memoria
de
Juyghi
Marjani
Padri
nostru,
in
qua
directu
Juyghi
de
Arbarèe,
nòn
essendo
corretta
per
ispaciu
de
seighi
annos
passados,
como
per
multas
variedadis
de
tèmpus
bisognando
de
necessitadi
corrigerela
et
mèndari,
considerando
sa
veridadi
et
mutaciòne
dessos
tèmpos,
qui
suntu
istadus
seghidus
poscha,
et
issa
conditione
dessos
homìnis,
qui
est
istada
dae
tandu
inoghi
multu
permutada:
et
plus
per
qui
ciaschuno
est
plus
inchinevili
assu
malu
fagheri,
qui
nòn
assu
beni
dessa
Republica
Sardisca,
cum
delliberadu
consigiu
illa
corrigemus,
et
faghimus
et
mutamus
dae
beni
in
megius,
et
cumandamus
qui
si
deppint
osservari
integramènti
dae
sa
Sancta
Die
innantis
per
issu
modu
infrascriptu;
ciò
est…».
8
Dal
proemio
della
Carta
de
Logu,
«libro
delle
costituzioni
e
ordinanze
sarde»,
promulgata
dalla
giudicessa‐regina
Elianora
de
Arbarèe
nel
1392
circa:
«…La
Carta
de
Logu,
che
fu
fatta
con
grandissimo
provvedimento
dalla
buona
memoria
del
Juyghi
[giudice‐re]
Marjani
nostro
Padre,
in
quanto
legittimo
sovrano
d’Arbarèe,
non
essendo
stata
rettificata
da
oltre
sedici
anni,
e
perciò
necessitando
di
correggerla
ed
emendarla,
tenendo
conto
della
varietà
e
del
mutare
dei
tempi
seguiti
alla
sua
prima
promulgazione
e
considerando
il
grande
mutamento
da
allora
avvenuto
nella
condizione
degli
uomini,
tanto
più
che
ciascuno
oggi
è
maggiormente
incline
a
operare
il
male
piuttosto
che
il
bene
della
Repubblica
Sarda,
viene
con
deliberato
consiglio
da
noi
corretta
e
mutata
di
bene
in
meglio,
ed
ordiniamo
che
la
si
debba
osservare
integralmente
nel
modo
suddetto
a
partire
dal
giorno
di
Pasqua,
cioè…».
9
iRS – indipendèntzia Repùbrica de Sardigna
Capitolo
I
Noi
vogliamo
creare,
noi
stiamo
creando,
noi
siamo,
un
movimento
indipendentista,
ovvero
un
movimento
fatto
di
donne
e
uomini
“indipendentisti”.
È
finito,
deve
finire,
il
tempo
in
cui
gli
indipendentisti
e
il
loro
ideale
venivano
dispersi
e
confusi
in
movimenti
autonomisti
e,
più
o
meno
apertamente,
unionisti.
Finisce
il
gioco
(e
il
giogo)
in
cui
l’energia
e
la
vita
di
tante
persone
pronte
a
battersi
per
questa
terra,
per
la
sua
libertà,
veniva
inibita
(nella
sua
potenzialità
produttrice
di
cambiamento,
inibita
perché
imbrigliata
dalle
pastoie
delle
beghe
e
delle
questioni
proprie
dei
partiti
e
della
cultura
autonomista),
sviata
(perché
indirizzata
verso
conflitti
interni
a
questi
movimenti
autonomisti
o
asservita
a
progetti
e
strategie
politiche
che
ben
poco
avevano
a
che
fare
con
l’Indipendenza
della
Sardegna),
umiliata
(dagli
stessi
risultati
di
quelle
politiche
che
tanti
di
noi,
in
buona
fede
o
per
disperazione
finivano
per
appoggiare,
nella
convinzione
di
realizzare
politiche
“indipendentiste”
che
invece
portavano
i
sardi
sempre
più
lontani
dall’indipendenza):
il
tutto
fino
a
convincere
questi
uomini
e
queste
donne
mossi
da
un
qualche
animo
10
indipendentista
che
la
causa
del
fallimento
fosse
nell’ideale
da
loro
scelto
e
non
piuttosto
nei
mezzi
e
nei
modi
utilizzati
per
conseguirlo,
ovvero
che
tale
ideale
non
si
realizzava
proprio
perché
non
avevano
mai
partecipato
ad
un
movimento
autenticamente
indipendentista
o,
detto
ancor
più
crudamente,
nel
fatto
che
nel
loro
agire
politico
e
sociale,
nel
loro
agire
collettivo,
non
erano
mai
stati,
non
erano
mai
potuti
essere,
realmente
indipendentisti.
Ora
questi
uomini
e
queste
donne
hanno
un
movimento,
indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna,
in
cui
possono
essere
indipendentisti.
11
Capitolo
II
Noi
nasciamo
perché
vogliamo
davvero
unire
gli
indipendentisti;
vogliamo
dar
loro
un
luogo
in
cui
poter
essere
ciò
che
sentono
di
essere,
senza
ambiguità,
senza
tentennamenti,
senza
“vergogna”.
Ma
con
l’aprirsi
di
tale
possibilità
finisce
anche,
per
tutti
noi
indipendentisti,
la
possibilità
di
confonderci
e
confondere
la
nostra
stessa
causa,
di
smarrirci
nelle
nebbie
di
un
gioco
politico
puramente
“istituzionale”
in
cui
l’indipendentismo
è
un
eco
di
un
discorso
fatto
da
altri,
di
rifugiarci
in
blande
recriminazioni
contro
la
Storia
e
il
Fato,
di
incedere
in
sterili
vittimismi
nel
confronto
di
poteri
considerati
soverchianti
e
invincibili,
di
abbandonarci
a
pigre
affermazioni
di
indipendentismo
senza
una
sostanza,
un
senso
e
un
agire
che
sia
“conseguente”,
ovvero
coerente
con
quanto
si
è
affermato.
Le
parole
trovano
il
loro
senso
nelle
azioni
che
le
seguono.
Le
parole
sono
inizi
e
promesse
di
azioni:
è
per
questo
che
vanno
spese
con
consapevolezza,
è
per
questo
che
sono
importanti
e
decisive
nella
definizione
di
ciò
che
si
è
e
per
il
raggiungimento
di
ciò
che
si
vuole.
È
dunque
ora
di
chiarirsi
le
idee
e
di
raccogliere
il
coraggio…
e
dar
inizio
all’Indipendentismo.
12
Per
tutti
gli
altri
finisce
qui,
quando
l’indipendentismo
inizia
a
fare
il
suo
corso,
a
scandire
il
suo
ritmo,
a
tracciare
con
coraggio,
a
costo
di
molta
solitudine
ma
senza
paura,
la
sua
strada,
finisce
–
dicevamo
–
la
possibilità
per
chi
si
sente
indipendentista
di
tergiversare
sostenendo
che
non
esiste
un
“vero”
indipendentismo;
finisce
la
possibilità
di
dirsi
indipendentisti
senza
esserlo,
senza
doverne
dare
prova;
finisce
la
possibilità,
anche
per
chi
non
vanta
alcun
indipendentismo,
di
far
finta
di
“battersi
per
la
Sardegna
e
per
i
sardi”;
finisce
per
tutti,
in
definitiva,
la
possibilità
di
dire
che
in
Sardegna
“non
c’è
indipendentismo”.
13
Capitolo
III
L’abbiamo
verificato
in
passato
che
l’azione
di
un
singolo
indipendentista
all’interno
di
un
movimento
autonomista
è
pressoché
inutile,
al
pari
dell’azione
dell’indipendentista
rassegnato
che
preferisce
rimanere
a
casa
e
coltivare
l’orto
e
quasi
quanto
l’azione
dell’indipendentista
che
non
avendo
un
movimento
alle
spalle
si
dedica
alla
“pura
cultura”
o
al
“puro
sociale”,
rifiutando
di
immergere
le
mani
nella
“sporca”
politica,
come
se
egli
stesso
non
sapesse
che
tutte
si
tengono
insieme.
Ma
in
passato
abbiamo
potuto
verificare
anche
di
più
e
di
peggio:
abbiamo
persino
assistito
alla
riduzione
all’inutilità
di
una
spinta
popolare
tendenzialmente
indipendentista
nel
momento
in
cui,
mentre
pareva
destinata
a
successi
sempre
più
clamorosi
e
decisivi,
veniva
guidata
da
dirigenze
autonomiste
nuovamente
su
lidi
unionisti.
Un
approdo
e
un
percorso,
quello
di
queste
classi
dirigenti
sardiste,
che
mentre
si
nutriva
del
sentire
popolare
indipendentista
lo
marchiava
con
il
segno
dell’inutilità:
la
speranza
di
liberazione
dei
sardi
diveniva
umiliazione
del
fallimento.
Questa
dinamica,
quella
che
vede
delle
classi
dirigenti
che
si
proclamano
indipendentiste
senza
esserlo
e
che
finiscono
così
per
14
15
16
17
Capitolo
IV
Molti
diranno
che
esprimere
le
cose
“così
chiaramente”
sia
un
danno
per
l’indipendentismo
stesso,
perché
in
fondo
“la
gente
non
è
pronta”,
“si
spaventa”.
Ma
possiamo
forse
aspettare
che
tutto
un
popolo
divenga
“pronto”
all’Indipendenza
senza
che
nessuno
ne
favorisca
la
presa
di
coscienza?
È
realistico
porre
la
questione
in
tali
termini?
E
poi,
come
sapere
quando
questo
popolo
è
pronto
se
non
verificandolo
attraverso
la
sua
risposta
ad
una
proposta
indipendentista?
E
se
anche
questa
proposta
ricevesse
una
risposta
negativa
dovremmo
forse
spaventarci
di
iniziare
inascoltati?
Non
è
perverso
il
ragionamento
per
cui
si
può
dire
e
fare
solo
ciò
che
c’è
già?
Eppure
il
mondo
cambia.
Ma
soprattutto,
come
sarebbe
finita
(e
come
potranno
finire
in
futuro
laddove
ci
sono
ancora)
l’apartheid,
la
schiavitù,
il
razzismo,
il
dominio
di
tanti
popoli
se
qualcuno
non
avesse
iniziato
a
parlarne
quando
quelle
stesse
questioni
non
si
ponevano
e
non
si
potevano
porre?
Ci
faremo
allora
prendere
da
questa
logica
per
cui
non
inizieremo
mai
a
dire
ciò
che
veramente
vogliamo,
aspettando
che
l’indipendenza
cresca
sugli
alberi
o
sottoterra?
E
se
anche
ci
convincessimo
che
un
18
19
20
Del
resto,
se
non
saremo
noi
a
prenderci
cura
di
questa
terra
chi
altro
speriamo
che
lo
faccia?
21
Capitolo
V
Cosa
vuol
dire
allora
essere
indipendentista?
Vuol
dire
lottare
e
credere
nella
Repubblica
di
Sardegna,
nella
possibilità
di
costruire
la
nostra
repubblica
indipendente.
Dunque
lo
scopo
principale
del
nostro
movimento
e
di
chi
vi
partecipa
è
portare
la
Nazione
Sarda
ed
il
suo
Popolo
alla
conquista
dell’Indipendenza
Nazionale
e
conseguentemente
alla
sua
costituzione
in
Repubblica
indipendente
nel
più
ampio
consesso
dei
popoli
che
compongono
l’umanità.
In
tal
senso
la
lotta
indipendentista
punta
ad
utilizzare
il
mezzo
dell’autoproclamazione
nazionale
del
popolo
sardo,
da
ottenere
tramite
la
mobilitazione
e
la
partecipazione
collettiva,
in
vista
del
vero
e
proprio
referendum
istituzionale
per
l’autodeterminazione
nazionale.
Inutile
far
finta
di
non
aver
capito:
l’autodeterminazione
nazionale
e
l’indipendenza
non
sono
per
noi
termini
paravento
che
nascondono
il
progetto
di
ricontrattare
il
rapporto
“Stato‐Regione”,
né
il
viatico
a
una
qualche
federazione
Sardegna‐Italia
su
nuove
basi
come
è
stato
fatto
credere
per
anni
dal
sardismo.
22
Per
molti
versi,
se
non
fossimo
convinti
e
non
sentissimo
che
il
termine
giusto
per
noi,
quello
con
cui
vogliamo
chiamarci
e
farci
chiamare,
sia
“indipendentisti”,
potremmo
tranquillamente
definirci
“separatisti”.
Sappiamo
bene
infatti
che
per
chi
non
condivide
l’idea
che
la
Sardegna
sia
una
nazione
a
sé
stante
con
il
suo
diritto
all’indipendenza
questo
è
il
termine
che
appare
più
appropriato.
Già
nel
1967
Antoni
Simon
Mossa,
padre
della
Nazione
e
dell’indipendentismo
radicale
e
libertario,
diceva
con
decisione:
«Ci
chiamano
separatisti.
Con
disprezzo
e
malcelata
ironia.
Ebbene,
se
separatisti
ci
chiamano,
noi
possiamo
fare
di
questo
termine
una
bandiera,
e
non
soltanto
uno
spaventa‐passeri
per
i
nostri
avversari
politici».
Dunque:
sì,
noi
indipendentisti
di
indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna
siamo
quelli
che
loro
(voi
che
non
credete
nella
nostra
causa)
chiamano
“i
separatisti”.
Ad
ogni
modo
noi
ci
chiamiamo
indipendentisti
sia
perché
non
riteniamo
di
separarci
da
alcunché
(noi
semplicemente
“ci
liberiamo”),
sia
perché
non
usiamo
l’idea
di
indipendenza
in
modo
finto,
per
spaventare
lo
Stato
o
chi
altro
(noi
all’indipendenza
ci
crediamo
e
ci
vogliamo
arrivare
davvero)
sia,
infine,
perché
non
vogliamo
distruggere
altre
nazioni
o
smantellare
altri
Stati,
men
che
meno
quello
che
ci
tiene
oppressi:
l’Italia
per
noi
può
tranquillamente
continuare
ad
esistere
e
sarà
un
buon
Stato
vicino
con
cui
vivere
e
rapportarci
in
pace
ed
amicizia
così
come
l’Italia
vive
oggi
con
la
Francia,
la
Germania
e
così
via.
Chi
ha
spirito
vendicativo,
chi
crede
che
l’indipendentismo
sia
una
vendetta
o
un
farsi
rendere
il
maltolto
economico,
è
ben
lontano
dall’avere
una
coscienza
indipendentista.
23
Forse,
si
dirà,
questo
atteggiamento
lo
si
può
comprendere:
chi
si
sente
oppresso,
dice
lo
stereotipo,
reagisce
così.
Ma
la
verità
è
che
oggi
questo
modo
di
fare
è
semplicemente
dannoso,
e
sotto
la
superficie
apparentemente
agitata
e
ribellistica,
nasconde
un
atteggiamento
difensivo
e
senza
prospettiva.
È
un
atteggiamento
che
distrugge
senza
creare.
Se
ci
serve
una
ribellione
dei
corpi
e
delle
coscienze
è
perché
vogliamo
produrre
qualcosa.
È
come
se
sentissimo
una
musica
e
volessimo
metterci
a
ballare:
il
punto
non
è
fare
del
male
a
chi
ci
tiene
immobilizzati
(a
rischio
di
rimanere
per
sempre
avvinghiati
con
lui
in
una
lotta
improduttiva)
ma
sfuggirgli
così
sapientemente
da
lasciarlo
di
stucco
davanti
a
noi
che
diamo
vita
al
nostro
ballo.
Le
nostre
azioni,
anche
quando,
per
vincoli
che
le
situazioni
impongono,
dovessero
sembrare
“contro”
qualcosa
saranno
invece
sempre
“per”
qualcosa.
Vale
a
dire:
noi
non
abbiamo
alcuna
intenzione
di
agire
per
danneggiare
qualcun
altro,
noi
vogliamo
agire
per
la
nostra
libertà.
Questa
scelta,
difficile
e
contro
corrente
in
una
terra
come
la
Sardegna
in
cui
ci
si
è
sempre
compiaciuti
di
alzati
i
toni,
a
parole
e
a
volte
nei
fatti,
per
spaventare
lo
Stato
(ma
senza
volere
cambiare
veramente
le
cose
in
senso
indipendentista),
non
implica
però
nessun
quietismo,
nessuna
forma
di
passività,
nessuna
arrendevolezza,
nessuna
intenzione
di
“porgere
la
guancia”,
né
allo
Stato
italiano,
né
ai
sardi
che
governano
in
suo
nome
o
a
quelli
che
ci
dicono
che
“non
è
più
ora”,
né
a
chiunque
altro.
Anzi,
forti
della
nostra
scelta
non‐violenta,
consci
di
questo
coraggio,
la
nostra
lotta
si
fa
ancora
più
tesa,
decisa
e,
se
volete,
“dura”.
La
nostra
deve
essere
una
lotta
intelligente,
“astuta”:
l’unica
davvero
vincente.
24
25
Capitolo
VI
Si
domandava,
e
domandava
agli
altri,
Antoni
Simon
Mossa
cercando
di
definire
la
nostra
scelta
politica:
«Perché
siamo
in
questa
posizione
di
indipendentismo?».
E
la
risposta,
da
cui
noi
ora
dobbiamo
ripartire,
è
questa:
«Primo:
perché
noi
sardi
siamo
diversi
dagli
altri
popoli,
per
ragioni
etniche,
di
cultura,
di
civiltà,
di
mentalità
e
sempre
abbiamo
conservato
questa
differenza
che
non
ci
consente
una
qualunque
integrazione
con
altri
popoli,
come
quello
italiano,
o
francese,
o
spagnolo.
Ma
questa
differenza,
unita
alla
comune
origine
della
nostra
civiltà
nel
grembo
del
Mediterraneo,
ci
consente
di
vivere
in
piena
armonia
con
tutti
quei
popoli,
l’italiano,
il
francese,
il
catalano,
lo
spagnolo,
il
maghrebino,
in
una
“unione”
spirituale
che
è
però
il
contrario
di
una
unione
politica
di
sottomissione.
Perché
siamo
un
popolo
così
piccolo
che
la
subordinazione
diventa
inevitabile».
È
un
punto
di
partenza
semplice
e
diretto
che,
con
le
debite
specificazioni,
fa
parte
di
quella
definizione
di
noi
stessi
e
del
nostro
indipendentismo
che
stiamo
elaborando
per
convincere
i
sardi
della
possibilità
e
della
necessità
della
Repubblica
di
Sardegna.
26
27
Capitolo
VII
Ci
sono
ora
due
questioni
a
cui
abbiamo
accennato
e
su
cui
dobbiamo
tornare
perché
ad
esse
dobbiamo
prestare
attenzione
e
far
fronte.
La
prima
è
che
vogliamo
unire
gli
indipendentisti.
Ciò,
tuttavia,
può
sembrare
un
po’
strano
se
non
ci
si
pone
la
seconda
questione:
vale
a
dire
vogliamo
(abbiamo
voluto)
definire
chi
sono
gli
“indipendentisti”,
che
cos’è
“indipendentismo”
(soprattutto
nel
momento
in
cui
in
tanti
ricominciano
a
riempirsene
la
bocca).
Tale
necessità
di
capire
che
cosa
è
effettivamente
l’indipendentismo
e
chi
sono
effettivamente
gli
indipendentisti
non
nasce
da
una
smania
di
unicità
ma
serve
per
evitare
che
la
confusione
eventualmente
sopportabile
oggi
diventi
un
danno
per
l’indipendenza
della
Sardegna
domani,
vale
a
dire
quando
la
lotta
indipendentista
si
farà
più
delicata
e
la
presenza
nei
luoghi
e
nei
momenti
decisivi
di
pseudo‐
indipendentisti
potrà
rivelarsi
estremamente
dannosa.
Se
non
si
separa
la
pula
dal
chicco
adesso
non
ci
si
potrà
poi
lamentare
della
qualità
del
grano
una
volta
macinato
o
peggio,
se
non
si
cura
fin
dal
principio
il
maturare
della
spiga
non
ci
si
potrà
lamentare
se
si
dovrà
buttare
via
tutto
il
raccolto
quando
si
scoprirà
che,
nella
bramosia
di
28
farla
crescere
più
in
fretta,
è
stata
trattata
con
qualche
sostanza
velenosa.
29
Capitolo
VIII
Prima
di
unire
i
sardi
bisogna
dunque
unire
gli
indipendentisti
perché
noi
vogliamo
unire
i
sardi
su
di
un
progetto
indipendentista
e
non
così,
su
quello
che
capita
o
su
di
una
unione
fine
a
se
stessa,
che
poi
è
in
realtà
sempre
una
finta
unione
utile
solo
per
chi
pensa
di
gestirla.
Un
progetto
di
mera
unione
dei
sardi,
oltre
a
presupporre
l’esistenza
proto‐fondamentalistica
di
una
sardità
essenziale,
indiscussa
e
indiscutibile,
che
costituisce
il
dato
di
fondo
che
sostiene
e
motiva
l’unione,
rischia
di
essere
utile
solamente
a
fornire
al
potere
che
attorno
ad
esso
si
crea
un
consenso
da
gestire;
una
gestione
ovviamente
a
fini
di
potere,
dunque
una
“politica”
assolutamente
identica
a
quella
che
già
oggi
le
classi
dirigenti
“sarde”
praticano,
dunque
una
politica
inutile
e
dannosa
per
i
sardi
stessi.
È
evidente
allora
che
siamo
assolutamente
distanti
da
tutti
i
progetti
di
“case
comuni”,
anche
laddove
si
definiscano
“nazionalitarie”,
che
uniscono
i
sardi
giusto
per
unirli,
case
comuni
autonomiste
e
unioniste
che
dietro
l’appello
all’unità
dei
sardi
nascondono
la
volontà
di
mantenere
le
cose
come
sono
o
comunque
prospettano
cambiamenti
che
sono
tutt’altro
che
indipendentisti.
Progetti
senza
direzione
e
senso
che
generalmente
chiedono
a
chi
vi
entra
un
unico
impegno:
30
quello
di
rinunciare,
in
nome
del
“buon
senso”
del
servo,
a
qualsiasi
idea
indipendentista.
Come
sperare
infatti
che
queste
case
comuni
costruite
con
il
benestare
del
potere
e
ispirate
alla
logica
dello
status‐
quo
possano
ottenere
un
“buon
compromesso”
se
al
loro
interno
aleggia
qualche
fantasma
indipendentista?
Non
è
un
caso
che,
una
volta
che
si
formano
a
prescindere
da
chiunque
vi
partecipi,
dal
loro
interno
si
leva
sempre,
anche
se
non
richiesta,
la
dichiarazione
che
l’indipendentismo
è
“velleitario
e
astorico”.
Inutile
dire
che
chi
partecipa
a
queste
“case
comuni”
può
solo
stranamente
o
per
fraintendimento
definirsi
indipendentista.
O
forse
persegue
in
un
altro
modo,
dissimulato
e
difficilmente
riconoscibile,
l’indipendenza.
Se
così
fosse,
se
veramente
quella
è
una
alternativa
che
porta
all’indipendenza
e
ad
una
indipendenza
dignitosa,
allora
“auguri!”,
non
ci
può
che
essere
la
speranza
che
una
delle
vie
si
compia.
Certo
però
è
una
strategia
che
ci
lascia
perplessi
ed
è
sicuramente
un
modo
di
procedere
molto
diverso
dal
nostro.
31
Capitolo
IX
L’indipendentismo,
per
certi
versi,
è
come
un
bambino
che
può
restare
pigramente
nella
sua
carrozzella
spinta,
forse,
da
braccia
apparentemente
possenti
‐
correndo
però
il
rischio
di
essere
lasciato
in
mezzo
alla
strada
(o
in
un
qualsiasi
altro
posto
da
lui
non
scelto
e
per
lui
inutile
e
pericoloso)
o
semplicemente
condotto
in
una
direzione
sbagliata
e
dannosa
‐,
oppure
può
sforzarsi
di
compiere,
a
costo
di
ripetute
cadute
e
di
tanta
fatica,
un
primo,
piccolissimo
ma
decisivo
passo.
Del
resto
perché
ci
emozioniamo
tanto
davanti
ad
un
bambino
che
compie
il
suo
primo
passo?
Perché
sentiamo
che
in
quel
momento
si
apre
per
lui
la
possibilità
di
arrivare
ovunque.
Credo
che
come
il
bambino
noi
necessariamente
inizieremo
a
mettere
un
piede
davanti
all’altro,
anche
se,
diversamente
dal
bambino,
questa
potenzialità
vada
scelta
più
di
quanto
non
basti
semplicemente
accoglierla
e
assecondarla
come
se
fosse
qualcosa
di
“naturale”.
32
33
Capitolo
X
Non
aspetteremo
dunque
che
siano
gli
altri
a
cambiare
le
cose
per
noi;
quale
indipendentismo
c’è
in
un
agire
politico
che
segue
le
cose
del
mondo,
che
aspetta
che
siano
gli
avvenimenti
del
mondo
e
gli
altri
a
produrre
le
condizioni
della
nostra
indipendenza?
Quale
indipendentismo
c’è
in
una
impostazione
politica
che
si
affida
agli
altri
per
cambiare
le
cose,
o
che,
nascondendosi
dietro
un
falso
“realismo”,
sostanzialmente
non
crede
che
i
sardi
possano
farcela
a
ottenere
l’indipendenza
con
le
proprie
forze,
ma
già
la
vincola,
nella
sua
impostazione
pratica
e
concettuale,
a
fattori
totalmente
esterni?
Certo,
noi
sappiamo
che
non
basta
la
nostra
volontà
a
determinare
la
storia,
ma
perché
dovremmo
smettere
di
avere
fiducia
nel
fatto
che
noi
possiamo
farcela?
Ma
la
cosa
ancora
più
importante
è
che
questa
mancanza
di
fiducia
nasconde
un
meccanismo
ancora
più
perverso,
doppiamente
perverso.
In
primo
luogo
infatti
mina
qualsiasi
sentimento
di
fiducia
in
se
stessi
dei
sardi,
continua
a
parlar
loro
di
ciò
che
non
si
può
fare,
continua
a
raccontargli
la
storia
sarda
come
se
fosse
fatta
solo
di
dominazioni,
gli
parla
ancora
del
loro
essere
“poco,
locos
e
male
unidos”,
insinua
in
loro
un
discorso
e
un
sentimento
fatalista,
o
al
più,
risentito.
Questa
34
impostazione
non
ha
il
coraggio
di
inventare
nulla,
di
cambiare
stereotipie,
di
proporre
ai
sardi
di
guardare
a
se
stessi
in
modo
diverso,
e
ciò
forse
perché
non
sa,
non
può
o
non
ha
il
coraggio
di
raccontare
la
storia
della
libertà
dei
sardi,
delle
lotte
e
dei
desideri
che
per
millenni
hanno
attraversato
questa
terra
e
sospinto
il
nostro
popolo
nei
momenti
migliori.
In
secondo
luogo
questa
impostazione
implica
che
ci
si
possa
comodamente
mettere
ad
aspettare
che
si
aprano
le
possibilità
dell’indipendenza:
ma
la
verità
è
che
se
queste
condizioni
non
le
creiamo
noi,
anche
se
per
un
movimento
rocambolesco
della
storia
queste
si
creassero,
noi
non
saremmo
pronti
a
sfruttarle.
Se
noi
non
creiamo
la
coscienza
indipendentista,
dunque
se
noi
non
abbiamo
fiducia
nel
fatto
che
noi
possiamo
costruire
la
nostra
indipendenza,
indipendentemente
dagli
eventi
esterni
che
potrebbero
frapporsi
al
nostro
obbiettivo,
noi
ci
troveremmo,
nel
momento
in
cui
il
“caso”
o
la
“Storia”
ci
concedesse
la
nostra
opportunità
di
libertà
con
un
popolo
talmente
convinto
di
essere
italiano
tale
che
esso
finirebbe
per
rifiutare
la
possibilità
di
diventare
indipendente.
Immaginate
che
lo
Stato
italiano
si
disgreghi
a
causa
di
una
qualche
causa
ad
esso
interna
o
esterna:
provate
ad
immaginare
adesso
che
in
quel
momento
per
i
sardi
si
apra
la
possibilità
di
scegliere
ciò
che
vogliono
fare
di
loro
stessi.
Ma
immaginate
anche
che
in
tutti
quegli
anni
precedenti
i
sardi
abbiano
vissuto
convinti
di
essere
italiani,
senza
nessuno
stimolo
seriamente
indipendentista.
Cosa
credete
che
farebbero?
Diventerebbero
probabilmente
i
più
strenui
difensori
dell’Italia
e
della
sua
unità:
la
Sardegna
rimarrebbe
forse
l’unico
“pezzo
d’Italia”,
l’ultimo
baluardo,
anche
quando
tutto
il
resto
si
fosse
35
36
37
Capitolo
XI
Certo
costruire
l’indipendentismo
e
la
Repubblica
Sarda,
richiede
tempo,
fiducia,
pazienza.
Non
si
può
credere
che
cambiare
le
cose
sia
facile.
Come
diceva
Antoni
Simon
Mossa:
«La
via
dell’indipendenza
è
lunga,
difficile,
costellata
di
trabocchetti,
di
sofferenze,
di
rinunce,
di
amare
delusioni,
e
–
soprattutto
–
di
sconfitte.
Ma
noi
crediamo,
dobbiamo
credere,
dobbiamo
far
credere
anche
gli
altri
nostri
fratelli.
Illuminarli
e
cancellare
le
loro
illusioni
integrazioniste,
spazzare
il
servilismo
di
sempre.
[Soltanto
così]
serviremo
il
popolo
sardo,
questo
piccolo
grande
popolo
che
ha
paura
di
essere
salvato
da
un
avvenire
pieno
di
caligine
e
di
miseria.
Questo
popolo
che
vuole
essere
distrutto».
Del
resto
come
una
vecchia,
grossa
e
ingombrante
nave
che
reagisce
al
cambiamento
di
rotta
sempre
in
ritardo
rispetto
al
comando,
rispetto
a
quel
timone
già
girato,
così
potrebbe
essere
per
noi
la
storia.
Forse
abbiamo
già
compiuto
la
manovra
decisiva,
la
manovra
giusta,
e
forse
la
storia
ha
già
iniziato
a
virare
nel
nostro
verso
ma
il
cambiamento
della
direzione
ha
bisogno
del
suo
tempo
e
anche
quando
inizia
realmente
è
difficile
percepirlo:
il
mare
è
così
grande
e
se
la
terra
non
si
vede
ancora
e
avete
perso
l’abitudine
a
guardare
le
stelle
38
39
Capitolo
XII
«Noi
vogliamo
dire
ai
sardi,
a
tutti
quei
sardi
che
ancora
non
si
sono
venduti
all’oppressore,
che
soffrono
in
patria
o
all’estero
per
non
rinunciare
alla
loro
dignità
e
alla
loro
condizione
di
uomini
liberi,
vogliamo
dire
a
tutti
costoro
che
abbiamo
il
coraggio
di
batterci
per
la
liberazione
della
Sardegna,
per
l’indipendenza
politica
ed
economica
del
popolo
sardo,
per
l’abolizione
dell’ultimo
e
più
brutale
regime
coloniale
d’Europa»
(A.
Simon
Mossa).
Oggi
come
ieri
siamo
qui
a
dire
che
abbiamo
il
coraggio
di
portare
i
sardi
e
la
Sardegna
all’Indipendenza,
a
promettere
che
costruiremo
la
Repubblica
Sarda.
Ma
a
differenza
di
ieri
la
colonizzazione,
l’assoggettamento,
passa
attraverso
di
noi
più
di
quanto
non
ci
venga
imposto
dall’esterno.
Ciascuno
allora
è
chiamato
a
fare
la
sua
parte:
di
fronte
e
insieme
alla
nostra
promessa
deve
stare
l’impegno
di
tutti,
l’impegno
che
ogni
donna
e
ogni
uomo
di
Sardegna
saprà
prendersi
nei
confronti
della
sua
terra
e
del
mondo.
La
nostra
libertà,
ora,
dipende
solo
da
noi,
dal
nostro
sapere
e
voler
essere
indipendentisti.
40
41
Pro s’Indipendentzia de sa Sardigna
42
43
Il
tradimento
di
Lussu
L’emblema
di
questo
processo
fu
Emilio
Lussu:
padre
del
“sardismo”
e
contemporaneamente
eroe
della
patria
italiana.
Non
a
caso
davanti
alle
vampate
indipendentiste
del
primo
e
del
secondo
dopoguerra
fu
lui
a
parlare
della
nazione
sarda
come
“fallita”
e
del
“nazionalismo
sardo”
come
perversione
irrazionale
e
reazionaria:
«
Io,
infatti,
considero
il
separatismo
una
forma
di
corruzione
e
decadenza
politica,
alla
stessa
stregua
del
fascismo.
Il
separatismo
è
una
malattia
politica,
che
si
ha
certamente
il
dovere
di
spiegare,
ma
anche
di
combattere.
Se
è
una
malattia,
bisogna
pure
guarirla»,
scriveva
nel
maggio
del
1945.
Quando
nel
secondo
dopoguerra,
come
racconta
Michelangelo
Pira,
la
Sardegna
si
infiammava
di
indipendentismo
ed
aspettava
il
ritorno
di
Lussu
convinta
che
sarebbe
stato
lui
a
guidarla
verso
quel
traguardo,
la
classe
dirigente
sarda
sapeva
già
che
sarebbe
stato
lo
stesso
Lussu
a
distruggere
tutto.
Come
disse
il
comunista
italiano
Velio
Spano:
“Lasciate
che
torni
Lussu
e
vedrete…”.
Ed
infatti
l’italiano
Lussu
venne
e,
come
racconta
ancora
Pira
(in
una
sua
lettera
a
Titino
Melis),
gettò
“secchiate
di
acqua
fredda”
sui
Sardi
che
erano
accorsi
in
Piazza
Italia
(ironia
dei
nomi
e
del
dominio)
aspettando
di
sentire
le
parole
magiche:
Repubblica
Sarda
Indipendente.
44
Ma
forse
non
c’era
da
stupirsene
o
da
aspettarsi
qualcosa
di
diverso
da
uno
che
in
una
seduta
del
parlamento
italiano
del
dicembre
del
1921,
davanti
alle
ipotesi
di
alcuni
parlamentari
italiani,
secondo
i
quali
vi
erano
delle
affinità
fra
la
situazione
irlandese
(che
di
lì
a
poco
sarebbe
sfociata
nell’indipendenza)
e
quella
sarda,
rispose
prontamente:
«[…]
io
non
ho
mai
affermato
che
vi
potesse
essere
qualche
affinità
fra
l’Irlanda
e
la
Sardegna
(Bravo!
Bene!)
[la
trascrizione
riporta
ovviamente
anche
i
commenti
del
parlamento
italiano].
O
meglio,
perché
intendo
essere
preciso,
vi
possono
essere
ipotetiche
affinità
storiche,
etnografiche,
geografiche,
ma
non
vi
sono
assolutamente
affinità
di
aspirazioni
[…].
I
sardi
non
intendono
rinunziare
alla
loro
italianità
spirituale;
dico
spirituale
perché
ci
sentiamo
italiani
solo
per
il
pensiero
italiano
di
cui
è
fatta
la
nostra
cultura;
ci
sentiamo
italiani
più
per
l’immenso
contributo
di
sangue
che
abbiamo
offerto,
in
ogni
appello,
alla
pericolante
patria,
che
per
la
comunanza
di
vita,
di
interessi
di
costumi
e
di
storia.
Non
dimenticate
che
nell’800
in
Sardegna
si
parlava
ancora
spagnuolo».
Notiamo
bene
diverse
cose
molto
importanti:
1) che
in
Sardegna
si
è
sempre
parlato
sardo
a
Lussu
non
interessa
affatto;
2) alla
fine
si
ammette
che
“oggettivamente”
la
Sardegna
è
diversa
dall’Italia;
45
3) l’italianità
è
spirituale:
il
“pensiero
italiano
di
cui
è
fatta
la
nostra
cultura
[sarda]”;
4) ma
soprattutto
sentimentale;
il
legame
instaurato
con
il
sacrificio.
L’aver
sofferto
come
gli
altri
per
la
“patria”.
5) la
Sardegna
è
quasi
come
l’Irlanda
solo
che
i
Sardi,
secondo
Lussu
ovviamente,
non
vogliono
essere
indipendenti.
Ora
che
il
punto
5
fosse
falso
lo
dimostra
sia
il
fatto
che
alla
fine
della
seconda
guerra
mondiale
i
sardi
si
aspettavano
l’indipendenza,
sia
che
pochi
anni
prima
dello
stesso
discorso
di
Lussu,
vi
era
chi,
come
“Montanaru”
(Antiocu
Casula),
parlava
della
Sardegna
in
tono
decisamente
e
spiritualmente
sardo.
Anche
per
smentire
il
terzo
punto
delle
argomentazioni
di
Lussu,
sia
per
ricordargli
che
in
Sardegna
si
parla
anche
il
sardo,
ma
soprattutto
per
ricordare
da
dove
veniamo,
leggiamoci
la
commovente
“A
tie,
Sardigna!”:
Sallude
Sardigna
cara!
O
terra
mia,
Mamma
d’òmines
fortes,
berrittados,
De
pianos
e
montes
desolados,
De
bellas
fèmminas
e
de
poesia.
Una
die
che
perla
ses
cumparta
Subra
sos
mares
ricca
d’onzi
incantu
E
curreit
de
te
su
dulche
vantu
46
De
sa
fama,
che
vela
in
mar’isparta.
sos
òmines
e
sas
terras
Fruttos
daian
caros
che
i
s’oro,
E
in
su
mundu
non
b’aiat
coro
Chi
no
esset
branadu
cuddas
serras
De
Gennargentu
mannu
e
de
Limbara
O
sas
baddes
de
su
Tirsu
e
Flumendosa.
E
tue
che
una
dea
gloriosa
Subras
sas
abas
risplendias
giara.
Dae
tando
passein
longos
annos
E
tue
rutta
in
bassu
tantu
sese
Tue
lizu
de
prìncipes
e
rese,
Rutta
che
Cristos
sutta
sos
affannos.
Ma
non
t’avviles!
Pes’alta
sa
testa
Sardigna
mia!
E
mira
in
altu
mira
Pustis
de
tantu
dolu
e
de
tant’ira
Est
tempus
chi
pro
te
puru
siet
festa.
Sos
buscos
tuos
ti
lo
s’han
distruttos
Cun
piccones
cun
serras
e
istrales,
Han’ingrassadu
sos
continentales
E
tue
ses
restada
senza
fruttos.
47
A
tie
sempre
sos
impiegados
Chi
tentu
han
fama
‘e
falsos
e
ladrones
Ca
sempre
han
giutu
custos
berrittones
Che
unu
tazzu
de
boes
domados.
E
has
pagadu
a
sa
muda
donzi
tassa
Pòpulu
sardu
avvessu
a
obbedire
Cun
su
coro
siccadu
in
su
patire,
Cun
su
coro
siccadu
che
pabassa!
Ma
coraggiu,
coraggiu!
Àtteros
coros
Oe
Sardigna
t’àniman
sas
biddas
Commo
su
mortu
fogu
ettet
chinchiddas
Chi
altas
lughen’in
tottu
sos
oros
De
custu
mare
ch’ispettat
serenu
Sa
tua
fortuna;
e
sied’issa
accanta
Pro
te
patria
mia
o
terra
santa
Tenta
sempre
in
penuria
e
in
frenu.
Sos
fizzos
tuos
giòvanos
e
bellos
Ardimentosos,
giaman
libertade
E
giustizia
e
donzi
bontade
Subra
d’antigos
òdios
rebellos.
E
issos
Patria
a
tie
ti
den
dare
Donz’umana
potenzia
e
fortuna
48
Gloriosa,
comente
dat
sa
luna
Sa
lughe
a
su
serenu
tuo
mare.
Inizia
a
venirci
il
sospetto
che
a
pensare
in
italiano
e
a
non
sentirsi
sardo
fosse
proprio
Lussu
e
non
i
Sardi,
visto
che
alla
loro
cultura
e
al
loro
sentimento
erano
certamente
più
vicini
i
poeti
(che
peraltro
parlavano
la
loro
lingua)
che
i
politici
(che
andavano
a
cercare
gloria
dagli
italiani
in
Parlamento)…
Ma
non
basta.
E’
evidente
che
c’è
un
fatto
concreto,
storicamente
situato,
che
agisce
in
profondità
su
Lussu
e
di
cui
si
pagano
le
conseguenze
ancor
oggi:
è
l’esperienza
della
“Grande
Guerra”.
E’
a
partire
da
essa
che
il
circolo
vizioso
fra
Sardegna
e
Italia
si
stringe
ancora
di
più,
fino
a
divenire
una
sorta
di
cappio
stretto
intorno
al
collo
della
Natzione
Sarda.
Ci
sono
da
fare
alcune
considerazioni:
per
Lussu
quella
guerra
fu
la
scoperta
dell’essere
i
sardi
“politicamente
arretrati”,
cosa
che
egli
ribadirà
in
un
suo
importante
articolo
del
1951
apparso
sulla
rivista
“Il
Ponte”.
Ora,
che
Lussu
non
avesse
molta
stima
dei
sardi
non
vi
è
dubbio:
non
riporteremo
il
passo
di
una
lettera
mandata
ad
uno
dei
dirigenti
PSd’Az
(riportata
nel
libro
Sardisti,
di
Cubeddu)
in
cui
li
definisce
con
un
termine
che
qui
tradurremo
con
“prostitute”.
E’
facile
spiegarsi
a
questo
punto
perché
l’unica
cosa
buona
che
i
sardi
avessero
fatto
secondo
Lussu
fosse
stato
sacrificarsi
per
l’Italia:
un
popolo
così
“arretrato”
non
poteva
certo
produrre
qualcosa
di
buono
da
sé
e
per
sé.
Immaginatevi
poi
che
vergogna
appartenere,
o
peggio,
essere
il
capo,
di
una
massa
di
prostitute.
49
Ed
infatti
Lussu
non
ci
pensò
due
volte:
i
sardi
gli
servivano
per
divenire
un
grande
capo
italiano
(quanti
ne
abbiamo
visto
e
ne
vediamo
di
questi
personaggi…).
Siccome
i
sardi
rimanevano
brutti,
cattivi
e
potenzialmente
traditori
(in
quanto
ostinatamente
diversi),
ed
essendo
comunque
pochi,
Lussu
aspettò
una
seconda
guerra
per
divenire
un
vero
eroe
patriota1:
dalla
Francia
scrisse
dunque
“Per
l’Italia
dall’esilio”.
1
N.B.:
diffidiamo
dei
sardi
che
ci
vengono
a
dire
“beati
i
popoli
che
non
hanno
bisogno
di
eroi”,
perché
molte
volte
sono
proprio
gli
esaltatori
di
Lussu
e
quindi
vogliono
semplicemente
dire
“speriamo
che
non
nasca
in
Sardegna
qualcuno
che
voglia
fare
l’eroe
per
i
sardi”;
ovviamente
a
loro
sta
bene
che
gli
eroi
nascano
per
l’Italia…
50
51
52
partecipare
era
perché
si
era
italiani
e
si
era
italiani
perché
si
era
stati
“partecipanti”.
Noi
siamo
chiamati,
grazie
anche
alla
distanza
temporale
che
si
è
frapposta
e
alla
coscienza
di
noi
stessi
che
abbiamo
maturato,
a
dar
senso
a
tutto
ciò
comprendendo
che
coloro
che
si
ritrovarono
nel
paradosso
furono
coloro
che
più
forte
subirono
l’acculturazione:
la
classe
dirigente
del
PSd’Az,
da
tale
punto
di
vista
non
rese
molto
onore
a
quelle
morti,
o
perlomeno
lo
rese
a
suo
modo,
in
definitiva
lasciando
intendere
che
quei
Sardi
combatterono
giustamente
(non
a
caso
quelle
morti
vennero
usate
come
se
si
potesse
metterle
su
una
bilancia
in
cui
misurare
ciò
che
ci
spettava
dallo
Stato
come
in
un
mero
scambio
mercantilistico:
poco
spazio
per
una
domanda
più
inquietante:
“perché
andare
a
trattare
con
i
propri
aguzzini?”).
Ma
è
ciò
che
noi
sappiamo
oggi
che
conta:
non
c’era
per
i
Sardi
nulla
di
giusto
in
quelle
guerre,
nemmeno
l’idea
di
difendere
la
loro
libertà,
visto
che
non
combattevano
per
loro
e
non
combattevano
come
popolo.
Ma
è
evidente
che
a
tale
considerazione
possiamo
arrivare
noi
che
abbiamo
un
sentimento
di
appartenenza
che
ci
lega
nel
tempo
e
nella
memoria
a
coloro
che
ci
hanno
preceduti
su
questa
terra
e
che,
coscienti
o
meno
lo
fossero,
hanno
sofferto
e
non
hanno
mai
trovato
giustizia
proprio
perché
erano
diversi.
Cosa
troppo
difficile
da
capire
per
quei
sardi
unionisti
ed
italianizzati
che
avevano
indissolubilmente
legato
il
loro
prestigio
personale
alle
sorti
di
un’altra
cultura
che
probabilmente
ritenevano
migliore.
53
L’elaborazione
della
diversità
Se
guardiamo
alla
genesi
di
altre
“nazioni
nate
tardi”
vediamo
come
l’emergere
di
una
coscienza
nazionale
passi
tramite
una
elaborazione
della
propria
diversità:
una
dinamica
che
ponendo
in
essere
un
processo
di
“differenziazione
culturale”,
riattiva
e/o
rinforza
il
piacere
ed
il
sentimento
di
appartenenza
ad
una
cultura
e
che
sfocia
poi
in
una
dimensione
pienamente
politica.
Questa
dinamica,
che
gli
studiosi
attestano
in
particolar
modo
nei
casi
di
risveglio/creazione
di
coscienze
nazionali
del
secolo
scorso
e
dell’inizio
di
questo
secolo
può
forse
in
parte
aiutarci
a
portare
avanti
il
nostro
discorso.
Come
abbiamo
visto
infatti,
è
Lussu
stesso
a
testimoniare
di
una
diversità
culturale
radicale
fra
Sardegna
ed
Italia;
del
resto
“Montanaru”
sembra
farsi
interprete/traduttore
di
un
sentimento
forte
di
appartenenza
nazionale
sarda.
Ora
però
va
detto
che
il
processo
di
elaborazione
culturale
di
cui
“Montanaru”
potrebbe
essere
testimone,
è
in
realtà
–
negli
altri
casi
europei
–
ben
più
profondo,
o
comunque
di
diversa
qualità.
Esso
fa
capo
ad
una
elaborazione
intellettuale
che
fondamentalmente
accosta
al
sentimento
di
appartenenza
una
reinterpretazione,
una
rilettura,
della
propria
vicenda
storica,
che
in
qualche
modo
incanala
e
sancisce
la
qualità
di
quel
sentimento
e
di
54
55
regioni
d’Italia”,
altro
è
sentirsi
diversi
dagli
italiani
presi
come
un
tutto
(del
resto
ci
sono
sardi
che
si
sentono
più
differenti
dai
sardi
dell’altro
capo
dell’isola
che
dai
“continentali”,
visto
che
con
questi
ultimi
oggigiorno,
molte
volte,
condividono
molto
di
più).
E
allo
stesso
modo:
una
cosa
è
sentirsi
diversi
in
senso
“reattivo”,
per
puro
e
semplice
orgoglio,
ed
altro
è
sentirsi
diversi
per
una
serena
e
cosciente
presa
in
carico
della
propria
diversità
–
vale
a
dire
una
diversità
vissuta
positivamente,
come
ricchezza,
come
qualcosa
di
produttivo
e
allo
stesso
tempo
con
la
coscienza
che
essa
ha
e
traccia
dei
limiti,
che
essa
ha
i
suoi
vizi
e
le
sue
imperfezioni.
E
ancora:
una
cosa
è
sentirsi
diversi
in
quanto
“comunque
noi
saremmo
potuti
essere
una
nazione”
un’altra
è
invece
sentirsi
diversi
in
quanto
“noi
saremo
(un
giorno
molto
vicino)
una
nazione
libera
e
indipendente”…
56
57
Le
contraddizioni
di
chi
non
ha
coraggio
Del
resto
oggigiorno
si
pongono
davanti
a
noi,
sebbene
in
maniera
diversa,
altri
due
problemi
evidenziati
da
Bellieni,
due
problemi
che
sono
inscindibilmente
legati,
presi
in
un
circolo
in
cui
uno
richiama
l’altro
ed
è
inutile
cercare
quello
che
viene
prima
dato
che
i
due
si
danno
insieme.
Uno
è
appunto
il
problema
del
sentimento
d’appartenenza
e
l’altro
è
quello
della
“forza
morale”
necessaria
per
divenire
Natzione.
Và
detto
subito
che
ai
tempi
di
Bellieni,
e
per
Bellieni
stesso,
il
paradosso
è
più
chiaro
e
forse
sarebbe
stato
anche
più
semplicemente
risolvibile.
Ponimus
s’istèrrida.
Il
primo
punto
da
considerare
è
che,
secondo
Bellieni
i
sardi
non
avrebbero
resistito
al
trauma
causato
dall’ammainare
la
bandiera
italiana.
Il
secondo
è
che:
«[…]
esiste
la
materia
nel
nostro
paese
[sa
Sardigna]
per
costruire
una
nazione,
ma
questa
materia
per
il
passato
non
divenne
mai
coscienza,
ed
ora
che
lo
è,
è
pensata
da
noi
con
intelletto
di
italiani
[…]».
Como
sa
torrada.
58
Che
le
due
cose
vadano
insieme
è
chiaro:
tanto
che
la
prima
sembra
più
che
altro
un
riflesso
delle
convinzioni
personali
e
delle
conclusioni
a
cui
Bellieni
arriva
nel
secondo
punto.
Detto
in
parole
povere:
“io,
Camillo
Bellieni
fondatore
del
Partito
Sardo
d’Azione,
mi
sento
italiano
(anche
se
so
che
non
sarebbe
sbagliato
costruirmi
un
futuro
da
sardo)
quindi,
per
teorizzare
e
dar
peso
all’idea
che
siamo
una
“nazione
abortiva”
[questo
è
il
termine
che
lo
stesso
Bellieni
utilizzerà]
mi
conviene
e
mi
è
necessario
convincermi
–
e
soprattutto
convincere
i
sardi
stessi
–
che
il
nostro
sentimento
di
appartenenza
è
così
pervicacemente
e
fortemente
italiano
che
non
ce
ne
possiamo
sbarazzare”.
Qualcuno
dirà
che
al
punto
due
Bellieni
non
parla
di
sentimento
d’appartenenza.
Se
lo
leggiamo
letteralmente
è
vero,
ma
se
lo
leggiamo
letteralmente
dobbiamo
anche
ammettere
che
la
frase
è
semplicemente
contraddittoria.
Può
bastare
infatti
una
affermazione
apparentemente
razionale
come
“è
pensata
da
noi
[la
coscienza
nazionale]
con
intelletto
da
italiani”,
a
negare
la
forza
dell’affermazione
secondo
cui
la
materia
che
in
passato
non
era
divenuta
coscienza
–
leggi,
“non
era
stata
elaborata”
–
“ora
[…]
lo
è”?
Ma
se
è
coscienza
nazionale
non
c’è
altro
che
tenga:
se
lo
è
lo
è
e
basta.
Vuol
forse
dire
che
la
si
pensava
in
lingua
italiana?
Ma
a
parte
il
fatto
che
a
pensare
in
italiano
allora
come
sino
ancora
a
pochi
anni
fa
era
solo
la
classe
dirigente,
c’è
da
considerare
poi,
ad
esempio,
che
la
classe
dirigente
irlandese
e
gli
irlandesi
tutti
–
con
i
quali
ai
tempi
ci
si
confrontava
–
stavano
facendo
un’indipendenza
parlandola
in
inglese,
a
dimostrazione
che
non
era
vincolante
il
rapporto
fra
coscienza
nazionale
e
lingua
parlata,
utilizzata.
59
A
questo
livello
del
discorso
ciò
che
contava
era
riconoscersi
nel
dire
“io
sono
sardo
(faccio
parte
–
ora
–
della
nazione
sarda,
ho
una
mia
storia
da
raccontare
e
un
futuro
da
costruire,
sono
indipendentista)”
lo
si
dicesse
in
sardo,
in
italiano,
in
inglese
o
in
qualunque
altra
lingua
del
mondo.
Accorgersi
di
dirlo
in
italiano,
tutt’al
più,
poteva
essere
un
altro
motivo
per
cui
la
propria
appartenenza
nazionale
sarda
andava
detta
e
fatta:
era
infatti
un’ulteriore
prova,
un
modo
per
ricordarsi
e
capire,
che
la
cultura
di
un
intero
popolo
–
con
la
sua
lingua
in
testa
–
era
stata
portata,
dallo
stato
di
sudditanza,
a
cancellarsi
e
a
divenire
qualcosa
di
estraneo
ai
sardi
stessi.
A
questo
punto
è
molto
più
plausibile
pensare
che
quel
“è
pensata
da
noi
con
intelletto
da
italiani”,
sia
una
bellissima
quanto
perversa
formula
che
il
politico‐intellettuale
Bellieni
–
che
deve
giustificare
ogni
sua
azione
“razionalmente”
–
usa
per
non
dire
(non
vuole,
non
può
dirlo)
che
sta
parlando
del
suo
sentimento
di
appartenenza.
Non
a
caso
questa
verità
viene
addossata
ai
sardi
come
totalità,
a
quella
massa
di
cui
Bellieni
fa
parte
ma
in
cui
si
può
perdere
e
confondere:
parlando
di
loro
si
può
dire
che
il
problema
sta
nel
sentimento
di
appartenenza.
La
cosa
triste
è
che
Bellieni
lo
dice
ben
sapendo
che
probabilmente
quell’affermazione
per
i
sardi
non
vale,
o
che
comunque
in
buona
parte
dipende
dalla
stessa
capacità
sua
e
di
tutta
la
classe
dirigente
sardista
di
tirar
fuori
questa
benedetta
“forza
morale”,
di
canalizzare
e
dare
forma
alla
spinta
indipendentista
della
base.
Il
maggior
storico
del
sardismo,
Cubeddu,
commentando
il
passo
visto
in
precedenza
scrive:
«Forza
morale
sta
per
azione
coraggiosa,
ànimu
in
sardo.
Indica,
cioè,
quella
soggettività
capace
di
fare,
di
un
popolo
sconfitto,
una
nazione
consapevole».
60
Siamo
nel
pieno
del
paradosso.
Per
diventare
natzione
serve
s’ànimu,
ma
s’ànimu
nasce
se
si
crede
in
quello
che
si
vuole
realizzare,
se
lo
si
vuole:
in
definitiva,
se
lo
si
sente.
Ma
come
aspettarsi
il
coraggio
di
costruire
la
nazione
sarda
da
parte
di
chi
si
sentiva
ormai
italiano?
E
la
questione
è
proprio
qui
perché
se
qualcuno
replicasse
che
il
problema
è
che
quelle
persone
“valevano
poco”
nel
complesso,
gli
si
potrebbe
facilmente
dimostrare
che
la
loro
vita
fu
segnata
interamente
da
grandi
gesti
di
coraggio:
ma
per
l’Italia.
Si
tratta
di
renderci
conto
che
ieri
come
oggi
il
problema
non
è:
«b’hat
o
no
b’hat
“hòmine”
(hòmine
o
fèmina
chi
siat)»
bensì:
«Cust’“hòmine”
s’ànimu
pro
cale
pòpulu
e
pro
cale
natzione
du
tènede?».
In
cosa
crede?
cosa
vuole?
La
storia
della
Sardegna
e
dei
sardi
ha
dimostrato
che
le
cose
si
escludono:
se
ci
si
sente
sardi
realmente
si
elabora
la
propria
cultura,
la
propria
storia
e
il
proprio
sentimento
di
appartenenza
per
arrivare
a
costruire
una
Repubblica
Sarda
Indipendente,
altrimenti
si
passa
la
vita,
da
un
lato
a
giustificare
il
fallimento
e
l’abortività
della
nazione
sarda
–
così
come
la
bruttezza,
l’arcaicità
e
la
“chiusura”
della
cultura
sarda
–,
e
contemporaneamente
dall’altra
a
sentirsi
e
vivere
da
italiani
e
per
l’Italia2:
in
pratica
si
giustifica
il
proprio
sentimento
di
appartenenza
italiana
cercando
di
convincere
i
sardi
che
non
potranno
mai
essere
una
nazione
a
tutti
gli
effetti.
2
Ma
se
il
dominatore
fosse
stato
un
altro
sarebbe
andato
bene
lo
stesso…
61
Il
federalismo
è
impossibile
Andando
avanti
notiamo
che,
sempre
in
quel
periodo,
fu
Bellieni
ad
intuire
lucidamente
che
in
uno
Stato
come
quello
italiano
ogni
richiesta
federalista
sarebbe
stata
letta
come
un
tentativo
di
disgregare
il
tutto,
“la
Patria”,
e
che
dunque
ogni
richiesta
federalista
andava
controbilanciata
con
un
rilancio
della
propria
fedeltà
alla
“Nazione”
(italiana).
Ancora
una
volta
si
instaurava
quella
logica
per
cui
i
Sardi,
per
poter
avere
qualche
concessione
federalistico‐autonomista,
dovevano
rinunciare
a
dichiararsi,
essere,
agire
come
Popolo
diverso,
come
Nazione
libera.
Il
cuore
e
le
menti
dei
Sardi
dovevano
essere
rivolte
alla
loro
nuova
nazione:
si
poteva
anche
essere
Autonomi,
ma
per
esserlo
si
doveva
“appartenere”
all’Italia,
essere
fino
in
fondo
italiani.
Ciò
che
rimaneva
ai
Sardi,
secondo
la
“loro”
classe
dirigente,
era
la
possibilità
di
rivendicare
“benessere”
dallo
Stato.
Ciò
equivaleva
inoltre
ad
abolire
ogni
possibilità
di
trovare
proprie
soluzioni
alle
questioni
economiche,
significava
non
poter
usare
il
proprio
sapere
per
ricercare
condizioni
di
vita
migliore,
significava
non
poter
essere
loro
a
decidere
come
rapportarsi
all’ambiente,
al
mondo
della
produzione,
alla
gestione
delle
risorse
economiche
ed
umane.
62
63
64
il
fascismo,
i
sardisti
hanno
difeso
e
concorso
a
salvaguardare
i
valori
della
civiltà
democratica
italiana?
Debbo
ricordare
la
partecipazione
sardista
alla
resistenza?
I
suoi
martiri![…]
Siamo
noi
gli
anti‐italiani?
Non
hanno
lezioni
da
darci!
Nessuna.
Perché
con
dignità
e
forza,
noi
ricordiamo
che
gli
uomini
nostri
hanno
fatto
la
resistenza
e
ne
hanno
esaltato
i
valori.
Non
si
chiamavano
solo
Emilio
Lussu
i
resistenti
sardisti.
Sono
una
moltitudine:
figure
note
ed
oscure,
personaggi
che
sono
andati
con
il
cuore
gonfio
di
Sardegna
a
testimoniare
una
vocazione
di
libertà,
di
civiltà,
che
ci
onora
tutti
e
che
ha
onorato
la
Sardegna
ed
anche
quanti
oggi
ci
rimproverano
di
scarso
patriottismo.
Del
loro
patriottismo
di
maniera!».
Si
noti
en
passant
che
dietro
le
varie
vocazioni
e
i
vari
cuori
gonfi
di
Sardegna
rimane
comunque
l’idea
di
essere
morti
per
l’Italia
(qualcuno
nella
storia
è
morto
anche
per
la
Sardegna?
Era
un
bieco
e
cattivo
“separatista”)
e
del
resto
l’onore
i
sardi
se
lo
possono
guadagnare
solo
quando
fanno
qualcosa
per
gli
altri
e
devono
sempre
essere
questi
altri
a
riconoscerglielo
(cosa
che
dimostra
dunque,
implicitamente,
che
solo
questi
ultimi
hanno
il
potere).
A
tale
proposito
si
legga
la
struggente
(o
farsesca,
a
seconda
dei
punti
di
vista)
conclusione:
«Stamani,
in
apertura
dei
lavori,
vi
ho
rivolto
il
mio
primo
saluto
attraverso
le
parole
affettuose
e
vibranti
del
Presidente
della
Repubblica
[Cossiga];
un
sardo
che
ci
conosce,
Lui,
che
salutiamo
ed
onoriamo,
ci
saluta
e
ci
rende
onore.
E
con
questo
onore,
consapevoli
del
nostro
ruolo,
andiamo
a
contrastare
quelle
subalternità
che
il
Paese
[l’Italia],
al
di
là
della
volontà
dei
singoli,
ci
ha
imposto
e
continua
a
imporci.
65
Il
Presidente
della
Repubblica
sarà
il
primo
garante
della
legittimità
della
nostra
lotta,
volta
a
realizzare
uno
Stato
più
civile
e
più
giusto[…]».
Ci
sarebbe
da
scrivere
un
trattato,
ma
la
cosa
importante
è
cogliere
e
leggere
queste
affermazioni
del
1986
nello
stridere,
comprimere,
distruggere,
mortificare
chi
era
andato
lì
per
sentire
parlare
di
Natzione
Sarda,
di
Indipendenza,
chi
era
arrivato
con
una
energia
produttiva
da
usare
per
il
proprio
popolo
e
l’aveva
dovuta
ricacciare
dentro
o
trasformare
in
rassegnazione,
fino
al
punto
probabilmente
di
vergognarsene,
davanti
a
prosopopee
sul
patriottismo
italiano
degli
indipendentisti
sardi.
Tagliamo
corto
e
mettiamola
ora
sul
pragmatico.
Se
uno
non
trova
s’ànimu
quando
parlando
di
Indipendenza
e
Repubblica
Sarda
passa
nel
giro
di
cinque
anni
da
17.000
voti
a
160.000
allora
o
è
scemo
oppure
è
semplicemente
(ancora)
italiano…
La
risposta
è
semplice
e
quel
discorso,
in
quel
contesto,
è
pazzesco:
soltanto
chi
si
sente
e
crede
ancora
italiano
può
riuscire
a
concepirlo
senza
vergognarsene.
E
del
resto
in
cosa
concretamente
tutto
ciò
sfoci
per
il
popolo
sardo
e
la
cultura
sarda
è
scritto
nella
storia:
la
giunta
Melis
passerà
alla
storia
per
essere
arrivata
a
combinare
uno
dei
più
vergognosi
obbrobri
politici,
presentando
la
legge
sulla
lingua
sarda
–
quello
che
doveva
essere
un
pilastro
del
sardismo
–
solo
l’ultimo
giorno
di
legislatura
(dopo
5
anni!)
per
farla
fallire
ad
arte.
E’
inutile:
non
c’è
amore
e
rispetto
reale
per
i
sardi
e
la
loro
cultura
dove
c’è
autonomismo‐federalismo‐unionismo.
66
67
Il
fondo
della
questione
E
infatti:
oggigiorno
tutti
inneggiano
al
federalismo
e
tutti
si
richiamano
a
Lussu.
Questa
totale
condivisione
di
base
fa
quantomeno
sorgere
il
sospetto
che
il
parlare
di
Natzione
Sarda
non
intacchi
il
fondo
della
questione:
vale
a
dire
non
provochi
assolutamente
la
rottura
della
fedeltà
e
dell’appartenenza
al
Popolo
e
alla
Nazione
Italiana,
unico
modo
per
poter
prendere
veramente
in
carico
la
propria
diversità
culturale,
la
propria
singolarità,
il
proprio
essere
e
vivere
da
Natzione.
Tale
traguardo,
che
ovviamente
per
noi
è
non
solo
desiderabile
ma
anche
necessario,
può
essere
raggiunto
solo
ed
esclusivamente
tramite
un
progetto
indipendentista,
vale
a
dire
la
costruzione
di
una
Repubblica
Sarda
Indipendente.
Per
intenderci
chiaramente:
un’entità
che
si
ponga
rispetto
all’Italia
nello
stesso
rapporto
che
l’Italia
intrattiene
con
la
Francia,
la
Germania,
l’Australia
ecc.
68
69
70
ad
uso
interno
(e
dunque
strumentale)
che
non
realmente
sentite
e
pensate:
perché
non
dire
altrimenti
al
capo
dello
Stato
Italiano
in
visita
in
Sardegna
che
si
trova
sul
suolo
si
una
Natzione
differente
dalla
italiana?
Perché
partecipare
senza
colpo
ferire
alle
feste
della
Repubblica
(italiana)?
Perché
indire
e
partecipare
senza
trasporto
a
feste
natzionali
come
Sa
Die
de
sa
Sardigna,
quasi
sperando
che
di
questa
non
si
accorga
nessuno,
sardi
o
italiani
che
siano?
La
storia
dunque
si
ripete.
Non
c’è
reale
cambiamento
di
fondo
rispetto
alle
dinamiche
storiche
che
prima
abbiamo
ricordato.
71
72
della
storia
del
nostro
Popolo.
Non
si
mette
in
questione
l’onestà
delle
persone,
ma
la
qualità
delle
loro
scelte
politiche
nell’ottica
della
lotta
di
liberazione
della
Natzione
Sarda.
Quando
usiamo
dunque
la
parola
“Indipendenza”
vogliamo
rompere
con
qualsiasi
fraintendimento
autonomistico‐federalista,
anche
quando
questo
sia
ammantato
di
“nazionalismo
sardo”.
73
Rimozione
e
conflitto
La
rimozione
della
cultura
sarda
è
avvenuta
ed
avviene
ad
opera
di
quella
italiana:
il
contatto
con
le
altre
culture
avviene
sulla
scorta
di
quest’ultima
e
con
la
sua
mediazione,
non
solo
linguistica.
(e
questo
sarebbe
già
abbastanza
per
dire
che
diventando
italiani
ci
siamo
chiusi
alla
possibilità
di
aprirci
agli
altri
a
modo
nostro).
Del
resto
(e
in
questo
senso
le
vicende
di
tanti
popoli
colonizzati
da
potenze
a
loro
lontane
geograficamente
e
culturalmente
lo
dimostra)
la
cultura
anglo‐
americana
rimane
comunque
“distante”
e
il
suo
accoglimento
è
generalmente
riletto
nelle
griglie
culturali
d’appartenenza
(statal‐
nazionale).
Il
desiderio
di
acculturazione
e
di
identificazione
che
una
cultura
crea
e
porta
con
sé
non
è
avvenuto
nel
nostro
caso,
ad
esempio,
nei
confronti
dell’inglese
(che
rimane
una
“lingua
straniera”),
bensì
dell’italiano.
E’
stato
per
l’italiano
che
le
madri
hanno
smesso
di
parlare
in
sardo
ai
loro
figli;
e,
lo
si
noti,
che
si
dia
un
conflitto
molto
profondo
lo
dimostra
il
fatto
che
non
solo
era
un
bene
imparare
l’italiano,
ma
era
anche
utile
scordarsi
il
sardo
che
in
quanto
tale
inficiava
la
bontà
degli
sforzi
fatti
per
diventare
dei
perfetti
italiani.
74
Forse
tanti
di
quegli
intellettuali
sardi
che
con
cattiveria
e
livore
–
per
non
dire
razzismo
–
si
scagliano
contro
l’indipendentismo
e
contro
la
cultura
sarda
–
additandoli
come
freno
e
limite
della
nostra
esistenza
–
sono
cresciuti,
come
tanti
altri
in
passato,
prendendo
bacchettate
e
schiaffi
per
tutte
le
parole
in
sardo
che
gli
“scappavano”
a
scuola:
ed
invece
di
prendersela
con
gli
insegnanti
e
lo
Stato
che
questi
rappresentavano
hanno
iniziato
ad
odiare
e
maledire
la
terra
e
la
cultura
in
cui
sono
nati
e
cresciuti.
Poveri
loro
e
i
loro
complessi:
e
pensare
che
sono
quelli
che
forse
meritano
la
nostra
maggiore
compassione,
quelli
che
hanno
trascorso
un’infanzia
triste
e
dolorosa
di
cui
danno
le
responsabilità
alla
“sardità”…forse
sono
coloro
per
cui
questa
lotta
va
fatta
maggiormente,
benché
siano
quelli
che
meno
se
lo
meritino,
sono
infatti
coloro
che
più
hanno
subito
i
danni
delle
dominazioni
della
nostra
terra:
probabilmente
non
ci
ringrazieranno
di
questo
(e
del
resto
noi
non
lo
facciamo
solo
per
loro)
ma
di
certo
noi
andremo
avanti
nel
cammino
di
liberazione
del
nostro
popolo.
75
Note
provocatorie
sull’esperienza
culturale
quotidiana
Del
resto
tutta
l’esperienza
della
maggior
parte
dei
sardi
è
letta
e
situata
dentro
un
contesto
culturale
che
è
italiano:
se
escono
a
vedere
un
film
americano
lo
fanno
già
da
italiani,
vale
a
dire
da
persone
che
quotidianamente
vivono
in
un
ambiente
–
per
la
maggior
parte
creato
dai
mass‐media
–
che
li
fa
partecipare
alle
vicende
della
nazione‐stato
Italia.
L’appartenenza
a
questo
contesto
di
vita
per
molti
nostri
connazionali
(che
ovviamente
nel
termine
“connazionali”,
in
quanto
sardi,
non
si
riconoscono)
è
scontato:
come
un
francese
passa
le
sue
giornate
commentando
le
partite
di
calcio
del
campionato
francese,
parlando
del
disastro
che
è
avvenuto
in
tale
paesino
della
provincia
(francese),
degli
ultimi
sviluppi
politici
(principalmente
francesi
o
comunque
in
ottica
francese),
del
gruppo
musicale
del
momento
(probabilmente
straniero,
ma
probabilmente
perché
sta
avendo
successo
anche
in
Francia,
oppure
notando
che
ha
successo
in
tutto
il
mondo
tranne
che
lì),
dell’ultimo
film
americano
(ma
ricollegandolo
al
dibattito
e
alle
opinioni
datene
nel
contesto
francese)
così
fa
un
sardo
che
si
crede
e
si
sente
italiano.
Tutto
ciò
che
gli
capita,
sia
esso
di
matrice
culturale
sarda,
americana
o
quant’altro
si
inserisce
in
quel
contesto
e
in
quei
ritmi
che
sono
scanditi
dalla
comunità
(Stato)
76
italiana.
In
Italia
si
mangia
a
una
certa
ora,
il
TG
è
a
una
certa
ora,
la
colazione
si
fa
in
un
certo
modo,
si
esce
a
certi
orari,
si
rientra
ad
altri,
le
tariffe
dei
telefoni
sono
quelle
per
tutti
gli
“italiani”,
le
poste
sono
dei
casermoni
uguali
per
tutti,
gli
incroci
sono
a
“x”
(in
Francia
sono
tutti
delle
“rotatorie”),
i
maschi
italiani
lo
fanno
meglio,
ogni
“star”
che
passa
in
Italia
deve
dire
cosa
ne
pensa
delle
donne/uomini
italiani
(possibilmente
dicendo
che
sono
i
più
simpatici
e
dei
grandi
amatori,
nonché
bellissimi:
figuratevi
quali
perversi
meccanismi
di
consolazione
esaltazione
frustrazione
scattino
nei
bassi&grezzi‐ma(forse)prestanti
sardi),
in
tutta
Italia
in
un
dato
momento
vanno
determinate
canzoni,
a
certe
ore
ci
sono
determinate
trasmissioni
radio
(di
culto
o
di
nicchia
che
siano),
in
certi
periodi
scoppia
una
determinata
mania
(che
forse
è
giapponese
o
americana,
ma
scoppia
e
si
sviluppa
in
Italia
in
un
tempo
e
in
un
modo
che
è
diverso
–
o
interpretato
diversamente
–
da
tutti
gli
altri),
in
Italia
si
va
a
scuola
fino
ad
una
certa
età
(e
non
si
studia
certo
la
cultura
sarda),
l’istruzione
è
organizzata
in
un
certo
modo,
i
dibattiti
girano
e
rigirano
(vanno
e
ritornano)
su
certi
temi
e
certi
personaggi,
ci
sono
dei
miti
nazionali
(che
siano
del
mondo
dello
spettacolo,
della
cultura,
dello
sport,
della
politica,
personaggi
storici
o
quant’altro
non
importa),
le
elezioni
in
Italia
hanno
una
certa
cadenza
e
non
combaciano
con
quelle
degli
altri
se
non
per
caso,
le
crisi
di
governo
che
diventano
dei
drammi
dentro
lo
Stato
italiano
sono
totalmente
indifferenti
a
chi
ne
sta
fuori,
quello
che
succede
fuori
dall’Italia
è
interpretato
partendo
dalla
situazione
italiana,
il
prodotto
tipico
degli
italiani
(dunque
anche
dei
sardi?)
è
la
pizza,
l’Italia
si
caratterizza
inoltre
per
la
poca
serietà
delle
sue
classi
dirigenti
(e
qui
quella
sarda
è
proprio
assimilata),
per
il
fatto
che
tutti
i
servizi
funzionano
male
(e
77
dunque,
se
siamo
italiani,
devono
funzionare
male
anche
in
Sardegna
e
dunque
faremo
meglio
a
non
lamentarci),
per
il
fatto
che
ci
si
sente
italiani
solo
davanti
alla
nazionale
di
calcio
(e
non
si
capisce
perché
gli
intellettuali
si
scandalizzino:
umanamente
parlando
sempre
meglio
un’identificazione
nazionale
basata
sulle
banali
nazionali
di
calcio
che
su
qualche
orgoglio
guerresco),
e
–
magnifico
paradosso
–
per
il
fatto
che
“noi
italiani
ci
sentiamo
poco
italiani”:
dal
che
se
ne
deduce
che
gli
italiani
esistono,
sono
italiani,
proprio
perché
si
“sentono
(tutti
e
ugualmente)
poco
italiani”,
il
che
comunque
è
già
abbastanza
per
dire
“Noi
italiani”
(che
poi
questo
sentimento
sia
davvero
basso
è
cosa
tutta
da
dimostrare,
visto
che
se
gli
parlate
di
indipendenza
della
Sardegna
non
è
che
vi
dicono
che
fate
bene,
ma
che
volete
“spaccare
il
Paese”,
anche
se
vi
è
da
dire
che
molti
italiani
hanno
una
maggiore
sensibilità
per
la
questione
indipendentista
sarda
di
quanto
non
ne
abbiano
molti
sardi).
Detto
questo:
non
si
può
sperare
che
i
sardi,
che
dentro
a
queste
maglie
di
riti
quotidiani,
pratiche
di
vita,
stereotipi
assodati,
interpretazioni
della
storia
e
del
presente
in
cui
loro
non
esistono
o
sono
dei
falliti,
ci
vivono
quotidianamente
siano
già
pronti
a
ricevere
il
nostro
messaggio,
che
siano
“consci
della
loro
diversità”.
Certo
che
si
sentono
“differenti”,
ma
non
dagli
italiani,
bensì
dai
lombardi,
dai
campani,
dai
toscani
e
da
tutti
gli
altri.
Tutti
insieme
però,
quando
mettono
da
parte
le
loro
“chiusure
localistiche”
sono
italiani
che
si
differenziano
dai
“cugini
francesi”,
dai
“flemmatici
inglesi”
ecc.
Non
a
caso
molti
sardi
che
hanno
evitato
di
“chiudersi”
nell’essere
sardi,
sono
diventati
degli
“aperti”
italiani
che
odiano
francesi,
tedeschi
78
ecc,
rimanderebbero
a
casa
gli
immigrati,
pensano
che
loro
sono
degli
italiani
migliori
degli
italiani
“terroni”,
si
divertono
a
dare
dell’“albanese”
a
tutti
coloro
che
non
hanno
uno
status
sociale
pari
al
loro,
non
gliene
importa
nulla
di
quello
che
succede
fuori
dall’Italia
(sempre
che
non
si
apprestino
a
fare
un
viaggio),
così
come
gliene
frega
molto
poco
di
quello
che
succede
in
Sardegna
(visto
che
la
Sardegna
non
esprime
eventi
“nazionali”
ma
solo
“regionali”),
quando
si
imbattono
in
qualcosa
successo
non
in
Italia
(dunque
anche
qualcosa
di
realmente
sardo)
stentano
a
capirlo
e
comunque
difficilmente
provano
a
sforzarsi
(tanto
loro
vivono
in
Italia).
Se
gli
parlate
dell’essere
sardi
ovviamente
vi
dicono
che
loro
hanno
scelto
di
“aprirsi”,
di
essere
“cittadini
del
mondo”,
come
se
in
Sardegna
e
per
i
sardi,
finché
si
dicono
e
vivono
come
sardi,
l’umanità
non
ci
sia
e
non
ci
possa
essere:
la
verità
è
che
ai
vincitori
è
concesso
tutto,
anzi,
i
vincitori
si
concedono
tutto
(e
forse
anche
qualcosa
in
più).
Figuratevi
poi
quanto
peggio
riescano
a
fare
i
vinti
che
passano
dall’altra
e
si
convincono
di
aver
sempre
fatto
parte
dei
vincitori:
la
loro
boria
diventa
davvero
inenarrabile.
Loro
possono
dirsi
aperti
e
cittadini
del
mondo
quand’anche
avessero
un
orizzonte
che
dire
“italiano”
è
già
troppo,
anche
se
non
gliene
frega
nulla
dei
problemi
del
mondo,
anche
se
alla
parola
“diverso”
abbinano
“sbagliato”
o
“inferiore”.
Loro
possono
dirsi
aperti
e
cittadini
del
mondo
sempre
e
comunque:
anche
quando
sono
razzisti
e
guerrafondai.
79
80
e
da
più
voci
–
non
si
può
far
finta
che
siano
dei
processi
nati
dal
nulla
o
imposti
da
chissà
quale
lontana
ed
invisibile
potenza.
Si
tratta
invece
di
un
conflitto
storico
e
determinato,
che
è
nato
dall’incontro/scontro
fra
due
culture
e
si
è
evoluto
come
si
è
evoluto
principalmente
a
causa
delle
posizioni
prese
dai
sardi,
e
dunque
internamente
alla
Sardegna.
Ciò
non
sta
certo
a
significare
che
non
vi
siano
trame
e
relazioni
che
legano
questo
conflitto
ad
altri
a
livello
planetario,
ma
solo
che
certe
dinamiche
vanno
viste
a
partire
da
questo
luogo
determinato
che
è
la
Sardegna,
che
ne
è
il
vero
centro
(più
che
in
tanti
altri
conflitti
indipendentisti
dove
la
situazione
interna
è
più
compatta
e
il
conflitto
è
quasi
tutto
con
lo
Stato).
Per
rendercene
ulteriormente
conto
e
per
tenere
la
memoria
in
tensione
seguiamo
questo
passo:
«La
madre,
la
Gran
Madre,
non
è
soltanto
di
là
dal
mare,
dalle
Alpi
all’Etna
come
declama
l’obliosa
retorica:
la
Gran
Madre
è
di
qua
dal
mare,
come
di
là:
qui
ha
una
sua
sede
essenziale
e
il
suo
cuore
palpita
nel
Gennargentu
come
in
centro
vitale,
non
come
in
umile
arto
lontano.
Italia
è
qui
dove
è
intatta
sanità
e
vigore
di
sangue,
profondo
sentimento
di
razza,
incontaminata
verginità
della
stirpe.
Italia
è
qui,
immune
da
ogni
commistione
di
interessi
o
stirpi
ostili:
dove
nessun
linguaggio
suona
che
non
sia
latino:
dove
l’internazionalismo
–
della
banca,
dell’industria,
delle
sette
–
non
inquina
i
centri
nervosi
della
vita
nazionale…
Qui
veramente
è
sola
e
pura
e
tutta
Italia!»
Questo
scritto
di
Umberto
Cao
del
1918
ha
un
titolo
abbastanza
significativo:
Per
l’Autonomia.
81
La
costruzione
del
sentire
collettivo
Il
sentimento
è
qualcosa
di
“artificiale”
(costruito,
determinato
da
oggetti)
che
solo
a
volte
è
anche
“artificioso”
(e
peraltro
l’artificioso
può
convincere
e
diventare
un
vero
sentimento
per
chi
ci
vuol
credere).
La
frase
con
cui
abbiamo
concluso
in
precedenza
ovviamente
per
noi
è
non
solo
“artificiosa”
ma
assolutamente
falsa:
eppure,
sebbene
con
toni
diversi,
tutto
l’autonomismo
ha
costruito
e
fatto
passare
un
determinato
sentimento
di
identità
e
fedeltà
alla
“patria
italiana”.
L’ha
“inventato”.
Il
discorso
di
Lussu
su
Sardegna‐Irlanda,
da
tale
punto
di
vista
non
è
diverso.
Ma
ancor
di
più,
sulla
scorta
del
sardismo
delle
origini
ha
fatto
il
discorso
storico
che,
non
pago
di
asservirsi
al
potere
dominante
ha
deciso
di
inventare
una
tradizione
di
“italianità”
alla
Sardegna
facendola
addirittura
diventare
la
culla
d’Italia.
Questa
rilettura
del
passato
che
deve
necessariamente
eliminare
ogni
traccia
di
diversità
e
di
spirito
di
libertà
dal
passato
della
Sardegna
non
può
far
altro
che
far
emergere
e
valorizzare
i
momenti
di
servilismo
del
popolo
sardo
e
così
facendo
non
può
che
aiutare
ad
istillare
tale
sentimento
nei
sardi
e
a
rendere
il
mondo
peggiore
di
quello
che
è.
Il
sapere
che
si
è
sviluppato
a
partire
da
affermazioni
come
quelle
di
Lussu
e
Bellieni
con
il
loro
continuo
82
affermare
la
mancanza
di
storia
e
civiltà
in
Sardegna
ma
anche
la
contemporanea
grandezza
dei
sardi
in
quanto
italiani,
in
quanto
capaci
di
sacrificarsi
in
ogni
tempo
per
l’Italia,
tale
sapere,
dicevamo,
che
oggi
è
patrimonio
di
gran
parte
della
storiografia
sarda
(pensiamo
ad
es.
alle
strepitose
teorie
di
F.
C.
Casula
o
all’impostazione,
tracciata
da
L.
Berlinguer
e
A.
Mattone,
nel
volume
Einaudi
sulla
Sardegna,
all’interno
della
collana
della
“Storia
d’Italia”)
si
fonda
e
contemporaneamente
costruisce,
riafferma,
questo
sentire
distruttivo
nei
confronti
di
se
stessi
in
quanto
sardi.
Dobbiamo
essere
noi
i
primi
a
riconoscere
tale
carattere
di
artificialità
nel
sentire,
sia
per
non
cadere
in
fondamentalismi,
sia
per
non
rischiare
di
fallire
nel
nostro
intento.
E’
ovvio
che
per
noi
un
sentimento
di
appartenenza
alla
Sardegna
è
qualcosa
di
molto
più
“naturale”
(e
più
“giusto”)
di
qualsiasi
altro
creato
o
imposto
in
secoli
di
sudditanza,
dominazioni,
rimozione
e
cancellazione
della
nostra
cultura:
e
tuttavia
rimane
qualcosa
che
va
continuamente
creato
e
ricreato.
Così
come
bisogna
“decidersi
ad
essere
sardi”
(non
lo
si
nasce),
così
ci
sono
cose
che
ci
rendono
più
facile
sentirci
sardi,
perché
creano
un
“sentimento
comune”.
Si
riprenda
questo
passaggio
scritto
da
uno
storico
unionista
sopra
citato
a
proposito
della
storia
giudicale:
«Se
si
analizzano
con
attenzione
le
fonti
indigene
[sarde,
ndr]
di
quegli
anni,
come
la
famosa
pace
dell'88,
ci
si
accorge
che
almeno
dal
1364
facevano
parte
integrante
del
giudicato
tutti
quei
territori
e
quei
popolo
liberati
i
quali,
per
loro
volontà,
con
giuramento
di
"corona
de
curadorìa"
formavano
insieme
all'Arborea
la
nuova
«Nazione
Sarda»;
e
precisamente:
le
curatorìe
ultragiudicali
di
Nuràminis
e
Cixerri
nel
83
84
85
Noi
siamo
qui,
oggi
E
comunque,
alla
fine,
il
miglior
segno
del
persistere
della
questioni
indipendentista
è
che
noi
siamo
qui.
Dopo
cinquant’anni
di
autonomismo,
dopo
tutti
i
fiumi
di
parole
spese
per
sradicare
dai
sardi
e
dalla
Sardegna
gli
ultimi
aneliti
di
libertà;
nonostante
lo
spiegamento
di
mezzi
e
forze,
nonostante
la
cultura
sarda
abbia
vissuto
alcuni
dei
suoi
più
terribili
anni
di
crisi
ed
i
sardi
abbiano
avuto
più
di
un’occasione
e
continuamente
siano
stati
tentati
ad
abbandonarla
del
tutto;
nonostante
tutto
ciò
e
tanto
altro
sembra
che
più
che
mai
cresca
e
covi
sotto
un’energia
indipendentista
dirompente
ed
incontenibile.
Commo
su
mortu
fogu
ettet
chinchiddas…
Forse
aveva
una
certa
ragione
Carta
Raspi
quando
diceva
che
la
storia
dei
sardi
era
fatta
di
un
susseguirsi
di
cicli
di
eroismo
e
di
servilismo:
quello
che
forse
non
aveva
calcolato
era
che
con
la
velocizzazione
dei
nostri
tempi
i
cicli
si
susseguono
sempre
più
velocemente
fino
a
generare
una
situazione
costante
in
cui
non
vi
è
più
l’alternarsi
di
eroismo
e
servilismo
ma
un
confronto
faccia
a
faccia
fra
indipendentismo
e
unionismo.
O
forse,
addirittura
la
dinamica
che
si
sviluppa
con
il
velocizzarsi
del
tempo
odierno
–
nel
riproporsi
frenetico
ed
incessante
dei
momenti
di
slancio
–
è
quella
che
produce
86
87
Indipendèntzia
Repùbrica
de
Sardigna
(iRS)
E’
dalla
coscienza
delle
nostre
motivazioni,
dalla
consapevolezza
del
nostro
credere
nella
nostra
causa,
del
nostro
sentirla
fino
in
fondo;
e
dunque
dal
piacere
di
farsene
portatori,
dal
viverla
come
una
potenzialità,
come
un’energia
che
ci
trascina
e
che
continuamente
ricarichiamo
nel
fare,
come
un
entusiasmo
che
ci
aiuta
a
trasformare
il
mondo,
a
renderlo
un
po’
più
libero
rendendo
libera
la
nostra
terra;
è
da
tutto
ciò
che
ripartiamo.
Indipendetzia
Repùbrica
de
Sardigna
si
pone
lungo
questo
cammino,
o
meglio,
gli
dà
inizio
e
seguito.
Noi
dobbiamo
marcare
con
chiarezza,
verso
i
sardi,
il
nostro
essere
un
luogo
di
aggregazione
degli
indipendentisti,
di
confronto
fra
essi,
un
confronto
che
avviene
al
livello
più
alto,
quello
dell’idealità,
e
non
con
fini
politico‐strumentali:
ma
ancora
di
più
dobbiamo
mostrare
che
siamo
un
movimento
produttore
di
un
sommovimento
generale
delle
coscienze
e
della
società
sarda,
un
movimento
che
non
è
un
progetto
a
tempo,
con
scadenze
e
fini
elettoralistici,
ma
è
l’inizio
o
la
prosecuzione
di
un
percorso
sulla
via
della
libertà,
una
via
che
il
nostro
popolo
in
realtà
non
ha
mai
smesso
di
battere.
88
Ma
se
noi
ci
nutriamo
di
una
idealità
va
anche
detto
che
tramite
il
nostro
movimento
e
il
suo
organizzarsi
questa
idealità
si
fa
concreta
ed
è
già
in
tensione,
protesa
verso
le
cose
da
fare,
le
strategie
da
elaborare,
le
coscienze
e
i
cuori
da
risvegliare.
Lo
stesso
esistere
e
il
conseguente
agire
di
I–
RS
è
una
ulteriore
dimostrazione,
perché
bisogna
continuamente
rendere
conto
ai
propri
connatzionali
di
se
stessi,
della
forza
del
nostro
amore
per
questo
popolo
e
questa
terra;
è
un
gesto
che
vuole
essere
stimolo
per
gli
altri,
vuole
essere
esemplare.
Vuole
fare
in
modo
che
con
esso
e
a
partire
da
esso
nessuno
possa
più
dire
“io
non
sapevo”,
o
come
dicono
le
classi
dirigenti
ed
intellettuali
“unioniste”:
“la
questione
indipendentista
in
Sardegna
non
esiste
e
non
è
mai
esistita”.
Avete
mai
fatto
caso
ai
titoli
di
libri,
convegni
ecc.?
Sono
sempre
del
tipo
“La
Sardegna
del
‘700
fra
Autonomia
e
Federalismo”,
“Autonomia
e
federalismo
nella
Sardegna
Contemporanea”,
“Il
pensiero
di
tizio
e
caio
fra
autonomia
e
federalismo”
ecc.
Questi
sono
modi
con
cui
si
cerca
di
far
capire
che
non
c’è
altra
possibilità
oltre
queste:
i
nazionalitari
generalmente
impostano
il
discorso
in
questo
senso.
A
differenza
di
quello
che
succede
in
altre
nazioni
oppresse,
i
moderati
sardi
non
vedono
nel
federalismo
un
eventuale
passo
verso
l’indipendenza,
ma
una
scelta
contro
di
essa,
che
esclude,
che
è
un
rimedio
all’indipendenza.
Detta
in
parole
molto
grezze
il
loro
pensiero
potrebbe
riassumersi
così:
«Ci
serve
qualcosa
per
bloccare
l’indipendentismo:
facciamo
il
federalismo».
iRS
si
pone
allora
come
stimolo
nei
confronti
degli
scettici,
come
traino
e
spinta
a
coloro
che
continuano
a
pensare
“vorrei
ma
non
posso”:
chi
ha
un
sentimento
di
appartenenza
natzionale
sarda
per
89
davvero,
chi
ha
coscienza
del
proprio
essere
sardo
non
dovrà
più
avere
la
scusa
del
“sarebbe
un
sogno
e
sarebbe
giusto
ma
non
si
può
fare”.
iRS
oltre
che
essere
uno
stimolo
per
tutti
è,
nel
suo
esistere,
una
realizzazione
di
questo
sogno:
si
dà
forma,
si
pone
in
assèttiu,
per
l’indipendentismo,
per
proporsi
come
luogo
in
cui
tutti
gli
indipendentisti
si
possano
incontrare
e
lavorare
insieme
come
indipendentisti,
dunque
come
spazio
liberato
e
già
indipendente
pronto
a
contagiare
tutta
la
Sardegna.
iRS
vince
le
paure
o
le
titubanze
di
chi
si
crede
solo
a
combattere
impossibili
battaglie
contro
i
mulini
a
vento,
vince
la
mancanza
di
coraggio
o
lo
scoramento
di
chi
per
troppo
tempo
è
stato
deriso,
offeso,
umiliato
per
aver
detto
di
appartenere
alla
Natzione
Sarda
e
non
ad
altre.
Insinua
il
dubbio
in
chi
ha
completamente
venduto
o
perduto
la
coscienza.
iRS
rilancia
il
conflitto
(“polemos”)
e
cerca
di
farlo
a
livello
più
alto:
niente
scuse
per
chi
vuole
restare
nell’ambiguità,
perché
l’indipendentismo
c’è
e
agisce
di
concerto;
niente
scuse
per
chi
pensa
di
trattare
con
gli
indipendentisti
facendo
finta
che
questi
siano
degli
autonomisti
un
po’
più
arrabbiati.
E
se
continueranno
a
far
finta
che
non
esistiamo?
Se
continueranno
a
cercare
di
farci
passare
come
una
parte
della
loro
stessa
famiglia
(autonomistico‐federalista
=
unionista)?
Se
continueranno
a
dipingerci
come
dei
simpatici
folli,
degli
inguaribili
sognatori,
degli
“autonomisti
che
sbagliano”,
degli
arrabbiati
che
comunque
amano
ancora
il
“loro
Paese”
(l’Italia)?
Facciano
pure,
ma
il
gioco
si
farà
sempre
più
difficile
perché
non
gli
daremo
tregua:
la
coerenza
del
nostro
fare
e
delle
nostre
parole,
la
90
forza
del
nostro
desiderio
di
libertà,
la
qualità
delle
nostre
elaborazioni
e
della
loro
messa
in
pratica
parleranno
per
noi
e
lo
faranno
rivolgendosi
direttamente
ai
Sardi.
E
se
noi
convinceremo
i
nostri
connatzionali,
se
faremo
capire
loro
che
è
tempo
che
si
riprendano
il
cuore
e
la
mente
che
hanno
dato
ad
un’altra
terra,
che
è
tempo
che
lo
usino
per
la
loro,
bèh
allora,
avranno
tempo
le
“care”
classi
dirigenti
a
mistificare:
non
sarà
un
“vento”,
sarà
molto
molto
di
più,
anzi,
sarà
tutt’altro…sarà
una
bardana:
l’ultima,
quella
pacifica,
fatta
non
per
levarsi
la
soddisfazione
di
un
giorno,
né
per
guadagnarsi
la
sopravvivenza
per
qualche
mese,
e
nemmeno
fatta
per
ritornare
subito
dopo
a
nascondersi
e
resistere,
no!
Sarà
una
bardana
fatta
da
tutti
e
in
ogni
luogo,
una
bardana
interiore
dei
singoli,
una
bardana
collettiva
di
un
popolo
che
decide
di
essere
natzione.
Una
bardana
che
rimane
dove
viene
fatta
perché
non
vuole
nascondersi,
non
vuole
tornare
a
covare
nel
privato,
ma
è
fatta
per
uscire
all’aperto,
per
farsi
presente,
dovunque,
in
totta
sa
Sardigna.
Una
bardana
che
inaugura
una
vita.
Vita
da
liberi,
da
Repubblica
Indipendente,
quella
che
ci
renderà
esistenti
e
responsabili
di
noi
stessi
davanti
al
mondo,
responsabili
del
nostro
entrare
in
relazioni
con
gli
altri
(senza
che
per
noi
parli
e
agisca
qualcun
altro).
L’entusiasmo
e
il
piacere
di
essere
e
divenire
sardi
tramite
il
fare
qualcosa
insieme:
fare
la
propria
Indipendèntzia,
fare
sa
Repùbrica
de
Sardigna.
91
Appendice documentaria
I
falsi
padri
della
Sardegna
«…se
una
verità
fondamentale
non
trova
oppositori
è
indispensabile
inventarli…il
soggetto
deve
conoscerli
[questi
oppositori]
nella
loro
formulazione
plausibile
e
persuasiva,
e
sentire
l’intero
peso
della
difficoltà
che
l’opinione
vera
deve
affrontare
e
demolire;
altrimenti
non
si
impadronirà
mai
di
quella
parte
della
verità
che
viene
incontro
all’obiezione
e
la
elimina…
La
loro
conclusione
[la
conclusione
di
chi
professa
un
credo
senza
conoscere
le
posizioni
dei
propri
oppositori]
può
essere
vera,
ma
per
quel
che
ne
sanno
potrebbe
anche
essere
falsa:
non
si
sono
mai
messi
al
posto
di
chi
pensa
diversamente
da
loro,
considerandone
le
possibili
argomentazioni;
e
di
conseguenza
non
conoscono,
in
nessuna
accezione
corretta
del
termine,
la
dottrina
che
essi
stessi
professano»,
John
Stuart
Mill,
Saggio
sulla
libertà,
1859.
Non
è
detto
che
queste
parole
di
Mill
siano
del
tutto
vere,
di
certo
nel
nostro
caso,
come
si
potrà
leggere,
non
c’è
bisogno
di
inventare
degli
oppositori.
Sono
gli
stessi
Lussu
e
Bellieni,
oggigiorno
considerati
“padri”
della
Sardegna
moderna,
a
dire
“a
chi”
e
“a
che
cosa”
la
loro
idea
di
Sardegna
92
si
oppone:
e
da
tale
punto
di
vista
non
c’è
dubbio
che
il
miglior
modo
per
capire
se
stessi
e
il
proprio
ideale
indipendentista
sia
leggere
gli
attacchi
che
all’indipendenza,
all’indipendentismo
e
agli
indipendentisti
vengono
portati
dagli
scritti
di
questi
due
intellettuali
e
uomini
politici.
Diciamo
ciò
non
perché
vi
sia
dietro
tale
volontà
di
mostrarli
come
oppositori
un
che
di
personale
o
un
gioco
e
una
necessità
puramente
politica,
e
neanche
l’idea
che
il
nostro
indipendentismo
si
definisca
semplicemente
per
opposizione
a
loro,
ma
proprio
perché,
viste
le
vicissitudini
della
Sardegna
e
della
cultura
sarda,
è
solo
dallo
scarto
con
ciò
che
nella
sua
ambiguità
e
confusione
è
apparso
per
lungo
tempo
vicino
all’indipendentismo,
o
tendente
ad
esso,
che
si
può
cogliere
la
differenza
che
ci
caratterizza,
la
differenza
che
deve
risaltare
e
divenire
il
punto
di
partenza
verso
una
coscienza
diversa
di
noi
stessi
e
della
nostra
Nazione.
E
poi,
va
detto,
c’è
la
necessità
di
dare
la
possibilità
‐
a
chi
si
voglia
e
si
sappia
mettere
in
questione
e
all’ascolto
‐
di
fare
i
conti
con
alcune
delle
idee
maggiormente
diffuse
e
maggiormente
svianti
che
circolano
nel
discorso
quotidiano
odierno:
vale
a
dire
l’idea
che
Lussu
e
Bellieni
rappresentino
il
massimo
o
l’optimum
della
così
detta
“sardità”,
che
di
questa
terra
siano
stati
i
massimi
paladini
e
che
ad
essa,
all’identificazione
con
essa
e
con
il
suo
popolo,
abbiamo
votato
tutta
la
loro
vita
e
le
loro
energie.
Posto
che
ognuno
si
può
fare
l’idea
che
vuole
di
cosa
sia
il
“massimo
della
sardità”
resta
il
fatto
che
l’unica
cosa
che
traspare
in
questi
scritti
è
la
volontà
di
integrarsi
e
divenire
italiani:
forse
per
qualcuno
leggere
profusioni
di
affetto
per
la
“patria
italiana”
e
dichiarazioni
di
sentimento
di
“italianità”
è
il
massimo
di
sardità,
93
ovviamente
per
noi
indipendentisti
è
l’esatto
contrario,
o
perlomeno,
è
l’esatto
contrario
del
sentire
indipendentista.
Certo,
qualcuno
dirà
che
Bellieni
con
il
tempo
cambiò
leggermente
le
sue
posizioni
e
divenne
più
possibilista
nei
confronti
dell’indipendentismo
(cosa
che
invece,
sicuramente,
Lussu
non
fece),
ma
il
punto
è
proprio
qui,
che
questi
testi
li
presentiamo
non
per
rendere
conto
delle
idee
personali
di
due
individui,
ma
come
documenti
rappresentativi
di
una
impostazione
politica
e
culturale
(e
forse
anche
psichica
e
psicanalitica)
che
ha
caratterizzato
e
caratterizza
da
almeno
una
novantina
di
anni
a
questa
parte
l’immagine
che
i
sardi
hanno
di
sé,
una
impostazione
che
ha
agito
oltre
le
vicende
personali
e
le
prese
di
posizione
successive
di
Lussu
e
Bellieni:
insomma,
questi
sono
veri
e
propri
testi
iniziatori
di
una
tradizione
“identitaria”
che
agisce,
anche
se
in
modo
inconscio,
tutt’oggi.
Basta
leggere
questi
scritti
per
cogliervi
molti
delle
stereotipi
più
in
uso
nei
discorsi
di
tutti
i
giorni,
quelli
dei
politici
e
quelli
dei
semplici
cittadini
che,
in
molti
casi
senza
saperlo,
non
fanno
altro
che
ripetere
quanto
Lussu
e
Bellieni
hanno
detto
anni
fa:
ma
non
è
solo
questione
di
parole,
si
tratta
anche
di
comportamenti,
atteggiamenti,
schemi
di
pensiero
e
di
azione
che,
benché
a
volte
leggermente
aggiornati,
sono
rimasti
praticamente
identici.
Basta
pensare
al
rivendicazionismo
economico,
al
separatismo
usato
come
minaccia
allo
Stato
“ingrato”
ma
sempre
accompagnato
dalle
profusioni
di
italianità,
o
ancora,
l’inutile
orgoglio
“regionale”
unito
all’aspirazione
di
accedere
e
integrasi
al
“livello
nazionale”,
il
continuo
richiamo
al
sangue
versato
in
guerra,
al
presente
immutabile,
alla
poca
forza
e
unità
dei
sardi…tutto
fin
troppo
94
sentito
e
vissuto.
Certo
tutto
molto
ambiguo,
ma
non
inganniamoci,
le
posizioni
dei
nostri
autori
sono
chiare:
se
la
loro
“grandezza”
è
stata
quella
di
essere
stati
ascoltati
e
seguiti
allora
sono
loro
che,
in
questo
gioco
di
costruzione
dell’identità
tramite
i
testi,
hanno
sulle
spalle
la
grossa
responsabilità
di
aver
minato
alla
base,
cioè
nel
sentire,
la
coscienza
nazionale
e
indipendentista
dei
sardi.
Perché
è
ben
evidente
‐
“leggere
per
credere”
‐
che
per
loro
c’è
un
solo
avversario
e
questo
è
il
“separatismo”:
è
del
proprio
sentimento
indipendentista,
presente
un
po’
ovunque
come
ammette
Bellieni
e
come
lo
stesso
Lussu
sa
(è
proprio
da
Lussu
che
i
sardi
aspettano
l’Indipendenza
al
suo
ritorno
dalla
guerra…),
che
bisogna
vergognarsi
(è
per
ciò
che
Lussu
lo
assocerà
al
fascismo
proprio
quando
quel
sentimento
nasceva
dal
degrado
e
dall’umiliazione
che
il
fascismo
aveva
inferto
alla
cultura
sarda);
è
dei
vigliacchi
e
inconcludenti
indipendentisti
(dunque
di
se
stessi)
che
bisogna
diffidare;
è
l’indipendentismo
che
va
sacrificato
per
ottenere
il
benessere,
per
ottenere
il
federalismo,
per
ottenere
l’autogoverno
ma
soprattutto
per
ottenere
il
riconoscimento
di
essere
italiani
come
tutti
gli
altri.
Ecco
allora
che
questi
elementi
entrano
in
un
sistema,
in
una
costellazione,
in
cui
si
reggono
e
si
giustificano
uno
con
l’altro,
tanto
che
Bellieni
ammetterà
implicitamente,
in
uno
scritto
che
qui
non
riportiamo,
che
per
fare
il
federalismo
bisognerà
garantire
sempre
di
più
la
fedeltà
alla
“Nazione”
(l’Italia,
ovviamente)
e
dunque
sacrificare
il
proprio
essere
sardi
(a
quel
punto
si
inventerà
che
essere
più
sardi
voleva
dire
diventare
più
italiani…,
in
una
specie
di
turbinio
in
cui
il
cappio
dell’assimilazione
si
stringe
sempre
più
forte
al
collo
della
diversità).
95
96
97
Emilio
Lussu:
“Autonomia
non
separatismo”.
Da
"Il
Solco",
20
maggio
1945
Poiché
esistono
in
Sardegna
certe
correnti
separatistiche,
è
meglio
parlarne
che
fingere
di
ignorarle.
In
questo
difficile
periodo
della
ricostruzione
del
nostro
Paese
[l’Italia,
ndr],
dopo
vent'anni
di
antidemocrazia
frenetica,
i
dirigenti
politici
scendono
a
livello
di
cavadenti
da
fiera
e
si
fanno
responsabili
del
disorientamento
che
è
già
grande,
se
non
prendono
posizione:
con
assoluta
lealtà,
di
fronte
ai
problemi
politici
che
siamo
chiamati
a
risolvere.
Conscio
di
questo
dovere,
fin
dal
mio
ritorno
in
Sardegna
dopo
tanti
anni
di
assenza,
ho
preso
posizione
contro
il
cosiddetto
«separatismo».
Questo
mio
atteggiamento
ha
deluso
ed
inasprito
più
d'uno,
e,
per
reazione,
ne
è
derivata
tutta
una
campagna
più
o
meno
clandestina,
diffamatoria
e
demagogica.
Debbo
dirlo
con
un
certo
senso
di
orgoglio:
tutto
questo
mi
onora,
come
mi
onora
la
avversione
di
cui
mi
ha
voluto
investire
il
fascismo,
fin
dal
suo
sorgere.
Io,
infatti,
considero
il
separatismo
una
forma
di
corruzione
e
decadenza
politica,
alla
stessa
stregua
del
fascismo.
Il
98
separatismo
è
una
malattia
politica,
che
si
ha
certamente
il
dovere
di
spiegare,
ma
anche
di
combattere.
Se
è
una
malattia,
bisogna
pure
guarirla.
Il
separatismo
non
è
mai
esistito
in
Sardegna
prima
della
presente
guerra.
Il
Partito
Sardo
d'Azione
non
è
mai
stato
separatista
e
non
ha
mai
avuto
nel
suo
seno
nessuna
corrente
separatista.
Noi
tutti,
i
fondatori
del
Partito,
abbiamo
considerato
l'autonomia
come
una
rivolta
verso
la
costituzione
centralizzata
dello
Stato
italiano.
Un'avversione
al
potere
burocratico
e
incompetente
e
assolutistico
di
Roma,
un'avversione
a
una
sistematica
forma
di
sfruttamento
plutocratico,
non
un'avversione
all'Italia.
Il
Partito
Sardo
d'Azione
è
stato
creato
dai
combattenti
sardi
dell'altra
guerra.
I
combattenti
sardi
non
sono
mai
venuti
meno
alla
solidarietà
che
li
stringeva
agli
altri
combattenti
d'Italia
né
alla
causa
della
democrazia
nazionale
ed
europea
per
cui
essi
avevano
combattuto.
Per
noi
tutti
autonomia
significava
maggiore
libertà
e
maggiore
giustizia,
trasformazione
e
conquista
dello
Stato.
Noi
intendiamo
essere
partecipi
e
non
vittima
della
organizzazione
dello
Stato
nazionale.
Ognuno
sa
come
la
Sardegna
entrò
a
far
parte
del
Regno
d'Italia.
Crollata
la
Spagna
come
grande
potenza,
la
Sardegna
passò
all'Austria,
e,
per
un
successivo
baratto
diplomatico,
alla
Casa
Savoia.
In
tutto
questo
affare,
la
Sardegna
era
passata
dalle
mani
di
un
re
a
quelle
di
un
altro,
così
come,
fra
mercanti
si
può
far
circolare
una
tonnellata
di
formaggio
o
di
lana.
La
volontà
dei
nostri
padri
non
vi
aveva
niente
a
che
vedere:
i
Sardi
erano
stati
venduti
ancora
una
volta.
Il
nostro
autonomismo,
dopo
la
passata
guerra,
volle
significare
questo:
i
Sardi,
da
vassalli
intendono
diventare
cittadini;
nello
Stato
99
100
amico
Bua
di
Sassari
che
si
è
conquistata
la
reputazione
di
Leader
dei
separatisti.
Questa
corrente
separatista,
battuta
ufficialmente
in
tutti
i
dibattiti
politici,
risorge
e
serpeggia,
furtiva.
Qualcosa
come
una
tribù
armata,
che
eviti
le
battaglie
campali
e
gli
scontri
in
grande
stile,
che
scompaia
appena
vede
il
grosso
del
nemico,
ma
che
poi
riappaia
celere
e
sparpagliata
per
molestare
i
fianchi
o
le
retrovie
o
i
carreggi.
Questo
separatismo
fa
anche
pensare
a
una
specie
di
serpente
marino
la
cui
esistenza
non
è
dimostrata
dal
controllo
scientifico,
ma
che
ciononostante
tutti
i
marinai
hanno
visto
e
continuano
a
vedere
affiorare
in
alto
mare
nelle
navigazioni
oceaniche.
Tale
separatismo
può
avere
più
spiegazioni.
A
mio
parere,
sono
queste.
1)
Durante
la
guerra
fra
il
'42
ed
il
'43,
quando
la
guerra
appariva
già
vinta
dagli
Alleati
e
si
attendeva
uno
sbarco
nelle
isole
da
un
momento
all'altro,
parecchi
sardi
prevedevano
un'occupazione
a
carattere
duramente
punitivo
e
vendicativo
di
tutta
l'Italia.
Perché
la
Sardegna,
che
nella
sua
maggioranza
aveva
odiato
il
fascismo
ed
avversato
la
guerra
avrebbe
dovuto
subire
sanzioni
punitive?
Meglio
far
causa
comune
cogli
Alleati
e
separarsi
dall'Italia.
Questa
forma
di
separatismo
aveva
certamente
un
contenuto
logico:
si
poteva
non
condividerlo,
ma
era
sostenibile.
Gli
avvenimenti
successivi
hanno
chiarito
le
intenzioni
degli
Alleati,
e
conseguentemente
questa
forma
di
separatismo
è
scomparsa
quasi
interamente.
Parecchi
dei
separatisti
di
quel
periodo
hanno
parlato
a
lungo
con
me:
oggi,
essi
sono
autonomisti
nell'ambito
dello
Stato
Italiano.
Credo
che
essi
sono
stati
degli
uomini
politici
che
hanno
seguito
la
realtà
della
situazione
politica.
101
102
riusciamo
ad
avere
l'autonomia
dichiariamo
fin
d'ora
che
diventeremo
separatisti».
Neppure
questo
è
un
modo
logico
di
porre
un
problema
politico.
Io
ho
già
detto
altre
volte
pubblicamente
dove
condurrebbe
il
separatismo
e
dove
andrebbe
a
finire
la
Sardegna
in
una
soluzione
separatista,
né
starò
qui
a
ripetermi.
Autonomia
per
tutti
noi
è,
in
prima
e
in
ultima
istanza,
conquista
di
libertà
in
ogni
campo.
Il
popolo
sardo
non
si
vende
sul
mercato
internazionale
al
miglior
offerente.
Nell'ambito
della
unità
italiana,
la
Sardegna
aspira
a
conquistarsi,
sovranamente
per
i
suoi
problemi
specifici
l'autogoverno.
Io
desidero
richiamare
l'attenzione
di
tutti
sulle
forze
politiche
che
sono
necessarie
per
vincere
una
battaglia
politica
come
la
nostra.
Per
conquistare
l'autonomia
sono
necessari
la
solidarietà
e
il
sostegno
di
tutti
i
partiti
della
democrazia
sarda.
Nessuno
ignora
che
il
partito
liberale,
il
partito
socialista,
il
partito
comunista
e
il
partito
della
democrazia
cristiana
non
sono
in
Sardegna
partiti
autonomi:
la
direzione
centrale
di
questi
partiti
non
è
in
Sardegna,
ma
a
Roma.
Essi
sono
partiti
a
organizzazione
nazionale.
Noi
li
possiamo
avere
tutti
concordi
per
l'autonomia;
li
avremo
tutti
ostili
per
il
separatismo.
La
più
grande
lezione
viene
dal
Separatismo
Siciliano.
Il
movimento
separatista
siciliano
ha
contro
di
sé
tutti
gli
altri
partiti
in
Sicilia.
Contro
il
separatismo
hanno
preso
decisa
posizione
in
Sicilia
il
Partito
Socialista,
il
Partito
Comunista,
il
Partito
Liberale,
la
Democrazia
Cristiana
del
Lavoro
e,
in
più,
la
Confederazione
Generale
del
Lavoro
e
tutto
il
movimento
dei
combattenti
che
ha
organizzazione
e
forze
notevoli.
E
contro,
si
sono
clamorosamente
dichiarati
tutti
i
Siciliani
della
Tunisia
e
d'America.
I
separatisti
Siciliani
hanno
perduto
la
loro
103
strana
battaglia
fin
dall'inizio.
E’
che
l'Italia
non
è
una
figura
geografica
come
affermava
Metternich
un
secolo
fa,
ma
una
realtà
politica.
Questa
realtà
politica
non
la
può
barattare
né
infrangere
più
nessuno.
L'Italia
deve
essere
trasformata,
deve
sopprimere
il
regime
interno
dello
sfruttamento
e
del
privilegio,
deve
darsi
una
democrazia
politica
e
sociale
moderna,
deve
far
sorgere
a
nuova
vita
il
mezzogiorno
e
le
isole,
deve
radicalmente
ricostruire
l'organizzazione
del
suo
stato,
ma
non
può
più
sparire
come
unità
nazionale.
I
separatisti
siciliani,
in
questi
giorni,
si
sono
rivolti
ai
Governi
Alleati
per
reclamare
il
loro
intervento
alla
Conferenza
di
S.
Francisco.
La
risposta
è
nota.
Il
separatismo
siciliano
si
è
infilato
in
un
vicolo
cieco
e
non
ha
via
d'uscita.
Io
rivolgo
queste
mie
considerazioni
ai
Sardi,
in
un
momento
storico
della
civiltà
italiana
ed
europea,
mentre
i
nostri
eroici
partigiani
del
Nord
hanno
battuto
i
fascisti
e
i
tedeschi
in
una
battaglia
gloriosa
che
annunzia
l'avvento
di
una
nuova
democrazia,
e
mentre
i
grandi
eserciti
alleati
in
ogni
settore
dell'immenso
fronte,
hanno
afferrato
alla
gola
i
responsabili
della
guerra.
E’
partecipando
con
gioia
a
questi
straordinari
avvenimenti
che
noi
Sardi
ci
sentiamo
italiani
ed
europei.
104
105
3
Seduta
dell’8
dicembre
1921
106
107
Il
concetto
dell'unità
nazionale
per
noi
‐
piaccia
questo
o
non
piaccia
ai
grandi
organi
che
si
danno
l'aria
di
rappresentare
la
pubblica
opinione
‐
non
può
essere
accompagnato
da
una
severa
ma
equa
valutazione
dei
particolari
interessi,
dei
bisogni,
delle
tradizioni,
dei
costumi,
delle
condizioni,
delle
aspirazioni
delle
regioni
che
compongono
la
nazione.
Noi
intendiamo,
in
sostanza,
la
nazione
come
un'associazione
grandiosa
di
libere
volontà
regionali
che
s'incontrino
sul
terreno
di
alti
interessi
comuni
e
non
già
come
asservimento
e
subiezione
passiva
dei
destini
delle
singole
regioni
ad
una
idea,
o
per
meglio
dire,
ad
una
formula
ciecamente
unificatrice.
Noi
aspiriamo,
vale
a
dire,
ad
una
federazione
libera
di
regioni
insieme
collegate
da
un
alto
spirito
di
solidarietà
fraterna
per
produrre
una
tutela
efficace
dei
comuni
interessi
e
del
comune
patrimonio
ideale:
famiglia
immensa
di
popoli
nella
quale
la
più
perfetta
armonia,
l'accordo
più
durevole,
sia
garantito
e
cementato
dal
rispetto
sincero
del
diritto
dei
singoli,
da
un'equa
ripartizione
degli
oneri,
dalla
comprensione
pronta
ed
affettuosa
del
bisogno
dei
suoi
componenti
che
permetta
di
sopperirvi,
all'occorrenza,
con
ugual
senso
di
giustizia.
In
questo
modo
e
soltanto
in
questo
modo
noi
possiamo
intendere
ed
intendiamo
l'unità
della
patria.
Non
come
costruzione
di
collettività
regionali
al
riconoscimento
di
sincere
formazioni
ideologiche
mascheratrici
di
interessi
illegittimi;
non
come
asservimento
delle
energie
e
delle
ricchezze
della
regione
a
profitto
di
oligarchie
plutocratiche;
non
come
formula
espressiva
di
un
predominio
brutale
ed
assurdo
dei
più
forti
sui
più
deboli,
di
classi
più
108
progredite
su
classi
misere
ed
incolte,
della
città
sulla
campagna,
del
centro
sulla
periferia.
Tanto
meno
siamo
disposti,
pur
liberi
come
siamo
da
ogni
pregiudiziale,
ad
accettare
una
sua
concezione
dell'unità
italiana
che
identifichi
la
nazione
con
la
monarchia
o
con
tutto
quel
complesso
di
istituzioni
che
caratterizzano
l'attuale
regime
accentratore.
Se
coloro
i
quali
ci
accusano
di
velleità
separatiste
pensano
che
noi,
per
allontanare
il
nostro
movimento
una
simile
traccia,
dobbiamo
prosternarci
all'istituto
monarchico,
dobbiamo
incatenarci
per
sempre
al
carro
delle
istituzioni
attuali,
lasciare
immutato
quel
regime
d'accentramento
che
inceppa
la
esplicazione
delle
produttive
attività,
lo
sviluppo
delle
migliori
energie
del
paese
sottoponendole
ai
vincoli
dei
pesi
ingiusti
e
di
formalismi
ingombranti,
oh,
allora
amiamo
si
continui
a
chiamarci
separatisti.
Ma,
in
questo
caso,
si
decidano
quei
signori
a
dare
finalmente
un
frego
alla
storia
della
nazione
e
a
cancellare
dal
novero
degli
italiani
tutti
coloro
che
l'hanno
pensata
come
noi
e
che
diedero
alla
causa
del
risorgimento
d'Italia
qualche
cosa
di
più
che
non
la
vuota
fraseologia
del
giornalismo
attuale,
a
cominciare
da
Mazzini
che
apertamente
dichiarava
di
non
potere
con
tranquillità
di
coscienza
giurare
fedeltà
alla
monarchia
ritenendola
incapace
di
fondare
l'unità
morale
dell'Italia.
C'è
poi
qualcuno,
Il
Giornale
d'Italia,
ad
esempio,
il
quale
cerca
di
ridurre
la
questione
sarda
e
la
portata
del
nostro
movimento
ad
una
semplice
questione
di
riforma
di
organismi
burocratici
e
di
più
largo
intervento
governativo
nelle
opere
pubbliche
necessarie
nell'Isola.
109
La
questione
è
ben
più
vasta
e
di
maggiore
portata.
Noi
sardi,
e
specialmente
noi
del
Partito
Sardo
d'Azione
non
venderemo,
come
Esaù,
la
nostra
primogenitura
per
un
piatto
di
lenticchie,
così
come
vorrebbe
Il
Giornale
d'Italia.
Di
fronte
al
problema
sardo,
quale
noi
lo
prospettiamo
nel
nostro
programma
e
nella
nostra
propaganda
quotidiana,
le
riforme
e
le
concezioni
governative,
sono
nient'altro
che
pannicelli
caldi
sopra
un
membro
in
cancrena.
Noi
vogliamo
rompere
una
volta
per
sempre
e
decisamente
il
cerchio
di
ferro
dell'attuale
ordinamento
politico
che
ha
messo
l'Isola
da
troppo
lungo
tempo
e
mantiene
in
condizioni
di
assoluta
inferiorità
rispetto
a
tutte
le
altre
regioni
d'Italia.
C'è
ancora
chi
ci
vuol
tenere
in
considerazione
di
pupilli
abbisognosi
di
tutela.
Noi
non
lo
crediamo
ed
è
su
questa
convinzione
che
fondiamo
il
nostro
desiderio
e
le
nostre
aspirazioni
ad
una
larga
autonomia
amministrativa.
Lasciata
a
sé
stessa,
la
Sardegna
sarà
capace
non
solo
di
governarsi
e
di
crearsi
ordinamenti
più
consoni
alle
proprie
condizioni
e
alle
proprie
necessità
più
che
oggi
non
accada,
ma
anche
dì
crearsi
quella
prosperità
economica
che
ora
le
manca
ed
è
ostacolata
in
tutti
i
modi
ed
alla
quale
le
sue
risorse
naturali
e
l'energia
dei
suoi
figli
le
danno
diritto
di
aspirare.
La
esiguità
dei
tributi,
la
scarsità
della
produzione
attuale
non
sono
elementi
tali
che
possano
dare
soverchie
preoccupazioni
per
l'avvenire
di
una
regione
come
la
nostra,
che
non
ha
ancora
avuto
la
possibilità
di
sviluppare
tutto
il
suo
rendimento
economico.
110
111
In
queste
condizioni,
esaminando
quello
che
l'Italia
ha
fatto
finora
verso
la
Sardegna,
togliendole,
assai
più
spesso,
di
quanto
non
le
abbia
dato
qualche
Gladstone
italiano,
avrebbe
forse
ragione
di
sentirsi
umiliato
pensando
che
la
Sardegna
‐
per
colpa
soprattutto
dei
governi
che
si
sono
succeduti
‐
è
ancora
citata
all'estero
a
dimostrazione
della
miseria,
dell'analfabetismo
e
dello
stato
di
regresso
in
cui
l'Italia
si
trova.
Tuttavia
torniamo
ad
affermare
ancora
una
volta
la
nostra
italianità,
consacrata
anche
di
recente
dal
sangue
che
innumerevoli
sardi
hanno
sparso
gloriosamente
sui
campi
di
battaglia.
Ma
non
è
questa
una
ragione
perché
si
continui
a
protrarre
la
nostra
condizione
d'inferiorità
di
fronte
alle
regioni
sorelle,
non
è
una
ragione
perché
si
pretenda
da
noi
la
subiezione
ad
un
regime
di
accentramento
governato
da
organismi
parassitari,
l'asservimento
ad
istituzioni
non
sentite
che
paralizzano
le
nostre
energie
e
soffocano
il
nostro
sviluppo
economico.
Non
vogliamo
che
la
nostra
italianità
sia
di
pretesto
per
negarci
più
oltre
quello
che
è
un
nostro
sacrosanto
diritto:
quello
di
regolare
direttamente
da
noi
stessi,
per
mezzo
di
un
governo
e
di
un'organizzazione
amministrativa
scelta
da
noi,
tutti
i
nostri
interessi,
di
provvedere
con
leggi
nostre,
rispettose
dei
nostri
costumi
e
delle
nostre
tradizioni
e
con
organi
esecutivi
nostri
particolari
bisogni,
nell'interesse
particolare
della
Sardegna
e
nell'interesse
generale
della
nazione.
Questo
è
il
nostro
pensiero.
112
113
Camillo
Bellieni:
“Il
pericolo
separatista”
Da
"Il
Solco",
19
maggio
1922
Nel
discorso
pronunciato
l'altro
giorno
alla
Camera
sul
bilancio
dei
lavori
pubblici,
l'on.
Cao
ha
tenuto
a
respingere
ancora
una
volta
l'accusa
di
separatismo
fatta
al
gruppo
parlamentare
autonomista
e
al
Partito
Sardo
d'Azione.
Nell'esprimere
un
suo
personale
convincimento
egli
ha
insieme
tradotto
con
esattezza
ed
efficacia
il
pensiero
del
nostro
partito.
Ma
crediamo
che
l'on.
Cao
sia
andato
troppo
oltre
escludendo
addirittura
ogni
minaccia
separatista
in
Sardegna.
A
noi
sembra
invece
che
il
pericolo
che
egli
dà
quasi
per
completamente
scontato,
sia
più
reale
ed
imminente
di
quanto
le
autorevoli
assicurazioni
del
nostro
deputato
nelle
quali
è
più,
forse,
un
augurio,
che
non
una
esatta
riproduzione
della
realtà
delle
cose
tendano
a
lasciar
credere.
Infatti,
l'opinione
delle
nostre
masse
rurali,
forse
senza
che
i
nostri
maggiori
esponenti
se
ne
avvedano,
o
per
lo
meno,
senza
che
se
ne
rendano
conto
preciso,
si
va
orientando,
ad
opera
specialmente
dei
giovani
sardi
che
spiegano
una
lenta
ma
infaticabile
propaganda
a
114
favore
delle
loro
idee,
verso
una
concezione
di
autonomia
assai
più
accentuata
di
quella
che
noi
del
partito
sardo
d'azione
andiamo
sostenendo
e
che
si
risolve
in
un
vero
e
proprio
separatismo
politico.
Sarebbe
vano
dissimularselo:
la
tendenza
al
separatismo,
nei
paesi
dell'interno,
in
mezzo
ai
nostri
contadini
va
guadagnando
ogni
giorno
più
terreno.
Chi
volesse
dare
ragione
dello
strano
fenomeno,
troverebbe
forse
più
d'una
ragione
plausibile.
Una
di
queste
è
nel
fatto
che
la
concezione
separatista,
quella
che
la
massa
comprende
ed
assimila
con
maggiore
prontezza,
e
che
pur
essendo
e
rimanendo
utopistica,
risponde
ad
una
logica
ferrea
ed
assoluta
e
colpisce
più
vivamente
ed
impressiona
l'animo
delle
folle.
La
formula
dell'autonomia
amministrativa,
qual'è
prospettata
nei
programmi
e
nella
propaganda
quotidiana
del
partito
sardo
d'azione
è
certamente
di
più
prossima
realizzazione
e
risponde
ai
più
pratici
criteri,
ma
è
nello
stesso
tempo
troppo
complessa
per
essere
facilmente
accessibile
alla
comprensione
di
un
popolo
come
il
nostro.
Il
popolo
ama
ed
afferra
più
rapidamente
(e
le
ama
forse
per
questa
ragione)
le
formule
semplici
e
chiare
mentre
non
accetta
quelle
più
complesse
se
non
in
seguito
ad
una
instancabile
e
lenta
opera
di
persuasione.
Ora
la
formula
separatista
è
senza
alcun
dubbio,
rispetto
a
quella
autonomistica,
la
più
semplice
e
la
più
diritta
e
la
sua
comprensione
non
richiede
il
più
piccolo
sforzo
alla
mente
del
nostro
contadino.
Essa
si
offre
con
la
forza
persuasiva
d'un
ragionamento
che
si
dirige
allo
scopo
con
una
logica
inesorabile:
«sotto
il
dominio
italiano,
la
Sardegna
sta
male.
Perché
dunque
restiamo
sotto
questo
dominio?».
115
Gli
organi
del
governo
in
Sardegna,
d'altra
parte,
fanno
il
tutto
per
aumentare
la
diffusione
di
una
idea
separatista.
Essi
si
sforzano,
come
è
evidente,
di
soffocare
la
propaganda
delle
idee
del
partito
sardo
d'azione,
Ma,
così
facendo,
non
raggiungono
altro
risultato
che
quello
di
lasciare
pervenire
alle
masse
idee
sviate
e
confuse
che
contribuiscono
alla
creazione
di
uno
stato
sentimentale
che
è
il
più
prossimo
ad
una
mentalità
nettamente
separatista.
Bisogna
infine
convenire
che
mai
terreno
fu
più
della
Sardegna,
propizio
alla
diffusione
di
idealità
separatistiche.
Il
popolo
sardo
è
forse
quello
che
meno
di
tutti
gli
altri
ha
dimenticato
i
suoi
vecchi
costumi
e
le
sue
antiche
tradizioni,
quello
che
ha
meglio
conservato
un
istintivo
spirito
di
indipendenza.
Esso
oppone
tenacemente
a
tutte
le
influenze
estranee
una
resistenza
ostile
ed
accanita;
considera
stranieri
ed
intrusi
coloro
che
non
sono
nati
nel
suolo
dell'Isola
e
mantiene
rispetto
ad
essi
la
stessa
diffidenza
ed
ostilità
che
ha
dimostrato
in
tutti
i
tempi
a
tutti
gli
invasori.
Per
quanto
si
sforzino
gli
accesi
tentativi
d'un
patriottismo
facilone
e
parolaio
di
credere
e
di
far
credere
il
contrario,
le
nostre
popolazioni,
le
masse
rurali
dell'interno,
non
hanno
mai
sentito
o
compreso
l'unità
nazionale.
La
patria
è
assai
meno
d'una
figura
retorica,
per
i
nostri
contadini
non
esiste,
l'Italia
non
si
richiama
alla
memoria
del
nostro
popolo
se
non
attraverso
le
sembianze
dell'esattore
o
del
carabiniere,
che
sono
gli
unici
e
visibili
rappresentanti
del
suo
governo.
116
Chi
pretende,
in
questo
condizioni,
ch'
esso
ami
la
patria
italiana,
pretende
l'assurdo.
Piuttosto
è
facile
che
il
popolo
si
adatti
(ad)
identificare
l'Italia
col
suo
Governo,
che
l'accomuni
nel
disprezzo
e
nell'odio
che
essa
va
continuamente
alimentando
con
le
sue
vessazioni
e
non
nutra
altra
aspirazione
che
quella
di
liberarsene.
Il
giorno
che
qualcuno
faccia
comprendere
al
contadino
sardo
che
questa
aspirazione
può
tradursi
in
realtà,
vedremo
facilmente
prodursi
funesti
avvenimenti
per
tutti.
Il
pericolo
è
dunque
meno
da
trascurarsi
di
quello
che
a
prima
vista
non
appaia.
Coltivare
ancora
delle
illusioni
al
riguardo
ci
pare
imperdonabile
errore.
Errore
ancora
più
grave
è
per
noi
non
cercare
in
tempo
utile,
con
tutti
i
mezzi
opportuni,
di
arginare
un
pericolo
di
tal
genere.
Vero
è
che,
a
tal'
uopo,
poco
può
giovare
un
discorso
in
parlamento.
Il
governo
italiano,
accecato
dalle
ottimistiche
relazioni
dei
funzionari
servili,
non
è
attualmente
in
grado
di
ascoltare
e
di
apprezzare
al
suo
giusto
valore
un
simile
ammonimento.
Non
è
lecito
quindi
aspettarsi
dal
potere
centrale
che,
tornando
su
tutta
la
politica
finora
seguita,
cessi,
con
atto
di
opportuna
e
saggia
resipiscenza,
dal
rappresentare
in
Sardegna
la
parte
del
più
attivo
collaboratore
di
una
tendenza
separatista.
Ma
è
dovere
nostro
intensificare
fra
le
masse
la
propaganda
delle
finalità
del
nostro
partito
e
illuminare
onestamente
sul
pericolo
di
simili
illusioni
che
finirebbero,
forse,
per
diventare
gravemente
dannose
e
per
compromettere
i
futuri
destini
dell'Isola.
117
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