Alessandro Dal Lago - La Produzione Della Devianza. Teoria Sociale e Meccanismi Di Controllo (2001)
Alessandro Dal Lago - La Produzione Della Devianza. Teoria Sociale e Meccanismi Di Controllo (2001)
Alessandro Dal Lago - La Produzione Della Devianza. Teoria Sociale e Meccanismi Di Controllo (2001)
empirico sulle devianze vecchie e nuove debba sfuggire alle pretese della
terminologia positivistica delle scienze sociali e soprattutto dei meccanismi
politico-morali che esse innescano. Cos, un lavoro sulle scienze
dellimmigrazione potrebbe mostrare, allo stesso modo in cui Foucault ha
decostruito le idee di razza e di nazione, come il linguaggio "tecnico" della
demografia, della sociologia, delle relazioni internazionali, ecc. travesta spesso
la preoccupazione profonda di inferiorizzare i migranti, di tenerli a distanza,
di farne dei non-cittadini. In questa prospettiva, il saggio che viene riproposto
non che una prima lettura, inevitabilmente parziale delle procedure con cui le
moderne scienze hanno contribuito a spoliticizzare lesperienza".
Indice
NOTA BIOGRAFICA
Prefazione alla seconda edizione
NOTE
Introduzione
NOTE
1. La nascita della patologia sociale
1. Il paradigma sociale.
2. La normalit introvabile.
3. La necessit della devianza.
NOTE
2. Devianze e conflitti
1. L'introiezione della devianza.
2. La crisi del modello sociologico classico.
3. L'emergere dei conflitti.
NOTE
3. Le trasformazioni dell'ordine
NOTA BIOGRAFICA
ALESSANDRO DAL LAGO insegna Sociologia dei processi culturali
all'Universit di Genova. Ha pubblicato libri e saggi di argomento sociologico e
filosofico, e curato, tra l'altro, l'edizione italiana di opere di Hannah Arendt e
Michel Foucault. Da qualche anno si occupa di esclusione, fenomeni migratori e
conflitti globali. Tra i suoi ultimi lavori, "Nonpersone. L'esclusione dei migranti
in una societ globale" (Feltrinelli 1999), "Giovani, stranieri & criminali"
(Manifestolibri 2001) e la cura dei volumi collettivi "Lo straniero e il nemico.
Materiali per l'etnografia contemporanea" (Costa & Nolan 1997), "La politica
senza luoghi" ("aut aut", 298, luglio-agosto 2000, con Luca Guzzetti), "Un certo
sguardo. Introduzione all'etnografia sociale" (Laterza 2002, con Rocco De Biasi)
e per i nostri tipi "Giovani senza tempo. Il mito della giovinezza nella societ
globale" (2001, con Augusta Molinari). Attualmente lavora, con Emilio
Quadrelli, a una ricerca sui micro-conflitti urbani.
di fondo sia la riluttanza a prendere sul serio conflitti i cui protagonisti non
erano pi (o soltanto) i lavoratori dell'industria, ma personaggi sfuggenti e poco
raccomandabili come studenti, femministe, giovani immigrati, militanti di base,
carcerati o devianti (4).
Non questo il luogo per stabilire se tali conflitti (e in particolare, almeno in
Italia, il movimento del 77) siano stati l'apice di un sommovimento profondo
(che si sarebbe comunque concluso, con un generale arretramento, nella palude
degli anni '80), oppure una forma marginale di resistenza contro l'evoluzione in
senso neocapitalistico e postindustriale della societ. Resta il fatto che essi, con il
loro retroterra sociale, quotidiano, di forme di vita in qualche modo estranee
all'indirizzo prevalente della societ e della politica, costringevano il potere o i
poteri a rivedere strategie, tattiche e forme di legittimazione. Mentre lo spazio
politico si chiudeva (penso alla sostanziale liquidazione della sinistra non
istituzionale gi alla fine degli anni 70) (5), quello sociale tentava di rimodellarsi
secondo linee di moderato riformismo pi vicino all'evoluzione delle societ
europee avanzate. Ancora all'inizio degli anni 70 le istituzioni della societ
italiana mostravano zone di arretratezza o di pre-modernit impressionanti. Un
paese in cui aborto e divorzio erano proibiti, in cui i tentativi di sovvertimento
autoritario erano all'ordine del giorno, in cui fabbriche, scuole, universit,
ospedali, carceri, manicomi erano gestiti spesso in modo ottocentesco non
poteva accogliere la sfida di uno sviluppo economico a cui gli apparati sociali e
istituzionali del dopoguerra stavano gi stretti. Cos, se lo spazio di una vera
opposizione politica diventava pressoch nullo, si avviavano limitate strategie di
modernizzazione e di prevenzione della conflittualit. Nella fase in cui il
capitalismo italiano si trasformava, lo stato sociale celebrava il suo trionfo
apparente ed effimero. Mentre l'innovazione cominciava a mettere in crisi i
modelli di gestione del conflitto nella grande industria (avviando la decadenza
delle rappresentanze sindacali che avevano cogestito i momenti di crisi sociale
pi acuta), la societ italiana sembrava avviata a un futuro scandinavo, come si
diceva allora, a forme di partecipazione politica pi avanzata e di estensione
delle garanzie sociali.
Nulla di tutto questo si avverato. Il "welfare state" entrava in crisi nello
stesso momento in cui la sinistra moderata, che in realt aveva sempre
partecipato in modo pi o meno occulto alla gestione del potere (6), si illudeva di
avere vinto. A una limitata modernizzazione delle istituzioni corrispondeva, gi
all'inizio degli anni '80, una tendenza diffusa al liberismo in economia e
all'autoritarismo democratico in politica. Con il crollo del muro di Berlino e
l'apparente liquidazione della prima repubblica, questo processo, che d'altra
parte si allineava alle tendenze prevalenti in tutto il mondo sviluppato, diveniva
travolgente. La societ italiana contemporanea sicuramente pi ricca e al
pubblico). In pratica non c' comportamento per cos dire non conforme (o non
conformista) che non possa essere arruolato nella devianza e quindi "spiegato"
con qualche modello eziologico (in termini sociali, beninteso).
Si comprende pertanto che il modello implicito e mai dichiarato di
"conformit", (nella teoria struttural-funzionalista, che ha dominato la scena
sociologica per gran parte del Ventesimo secolo) ad altro non rimanda che
all'"uomo in grigio", l'abitante dei "suburbs". Costui infatti definito
precisamente dal non cadere nella tentazione o nella pratica dei comportamenti
devianti citati sopra. Non credo che sia necessario grande acume sociologico per
scoprire che il cittadino conforme quello che non partecipa ad alcun tipo di
conflitto, non si mescola a culture marginali, alternative o antagoniste, non
soffre di problemi personali, mentali o di comportamento, insomma definito in
tutto e per tutto da quello stile di vita che un certo cinema americano ha diffuso
con successo fino all'avvento del fatale '68 (di qua e di l dall'Oceano Atlantico).
Un personaggio altrettanto irreale del protagonista di "Truman Show". Con la
differenza che questo, insieme al suo spensierato mondo di favola, l'esplicito
risultato di una "fabrication" televisiva mentre l'attore conforme di Parsons (e in
generale delle teorie della devianza e del controllo sociale) un pallido profilo o
tutt'al pi l'immagine idealizzata che le mamme americane, prima della guerra
del VietNam, potevano accarezzare per i loro figli.
Tutto ci stato spazzato via, in America come in Europa, dai conflitti dagli
anni '60. La stessa sociologia americana (in un clima di radicalismo teorico di
cui oggi sono rimaste poche tracce) ha decostruito l'immagine del controllo
sociale e della devianza che la teoria sociale aveva elaborato scolasticamente.
Senza essere esplicitamente politicizzati, un gran numero di teorici e ricercatori
sovvertivano gli stessi presupposti della teoria sociale conservatrice. In poche
parole, cercavano di rimettere con i piedi per terra la sociologia, ripartendo,
anche loro, dalle pratiche quotidiane, lavorando come etnografi delle istituzioni
giudiziarie e del controllo sociale, mostrando l'inconsistenza di quei valori o
"orientamenti normativi" che la sociologia aveva fin l messo alla base di
qualsiasi analisi dell'ordine e del disordine. Da un gran numero di ricerche
risultava, in breve, che era un certo ordine a produrre il disordine, il controllo
sociale (come gi aveva compreso Durkheim, nonostante tutto) a produrre la
devianza. Non che questa nuova sociologia negasse l'esistenza o l'esigenza di un
ordine sociale (come appare per esempio da recenti interpretazioni di alcuni
sociologi divenuti classici come Goffman) (18). Ma i meccanismi di gestione
dell'ordine erano smontati fino a mostrare come, in ultima analisi, fosse
l'etichettamento ("labelling") di certi comportamenti a creare la devianza. Non
necessariamente intenzionale, ma effetto del funzionamento quotidiano,
normale, degli apparati amministrativi e di controllo (scuole, tribunali, ospedali,
di ieri, viene espressa da alcuni settori della societ locale o dai loro esponenti o
imprenditori politici. Venti o venticinque anni fa, bench la conflittualit fosse
molto pi diffusa di oggi, la domanda di ordine era soprattutto politica,
coincideva quasi esclusivamente con la volont dell'opinione pubblica moderata
(la cosiddetta "maggioranza silenziosa" degli anni 70) di reprimere o
emarginare la protesta. Oggi, la domanda riguarda soprattutto la "sicurezza",
cio la protezione dei "cittadini" dalla microcriminalit. In questo senso, l'azione
della polizia e delle altre agenzie pubbliche si identifica con i bisogni di una
maggioranza che si esprime nella societ locale, e che ha trovato espressione
politica sia in forme di aggregazione urbane, "dal basso" (i comitati "sicuritari"
sorti soprattutto nel nord del paese), sia in movimenti localisti o regionalisti
come la Lega Nord (26). Ci troviamo di fronte, in questo caso, a un'evoluzione
non limitata al solo caso italiano. Per comprenderla necessario ripartire da un
dato elementare, cio la fine della protesta politica e sociale negli ultimi due
decenni. I problemi di "ordine pubblico", centrali nell'agenda politica fino a tutti
gli anni 70, sono letteralmente svaniti, dopo la scomparsa dei movimenti
studenteschi e la fine dei conflitti sui luoghi di lavoro (gli interventi delle forze di
polizia in questi campi tradizionali si contano sulle dita di una mano negli anni
'80 e '90). Contemporaneamente, il codice dell'ordine pubblico si riorientato
in senso esclusivamente criminale, realizzando cos una paradossale regressione
a una cultura "ottocentesca" (27). Infatti, pressoch tutto l'occidente
ossessionato, pi o meno come centocinquant'anni fa, dal problema della
sicurezza nelle strade, del contenimento della delinquenza, in breve dall'ordine
microfisico (28).
In realt, nessun dato giustifica questa ossessione. Come le statistiche penali
confermano periodicamente, gli anni '90 hanno visto una diminuzione costante
dei reati (e in particolare dei pi gravi, omicidi, rapine, eccetera) e un lieve
aumento di quelli minori (scippi, furti negli appartamenti). Il vero
cambiamento, rispetto al passato, riguarda l'allarme sociale e soprattutto
l'attribuzione agli immigrati dell'apparente crescita dell'"insicurezza". Le
ragioni di questa spettacolare criminalizzazione dei nuovi marginali o esclusi
(che ripropone su scala pi ampia sia la teoria durkheimiana del delitto come
innovazione sia quella pi recente dell'etichettamento) sono meno complesse di
quanto si creda. Da una parte rimandano agli effetti sociali del liberismo e del
deperimento dello stato sociale (alla situazione di incertezza generalizzata della
maggioranza dei cittadini, anche in una situazione di benessere (29)). Dall'altra
allo sfruttamento della paura dei migranti come risorsa politico-mediale (30).
Oggi, sono i migranti provenienti dai paesi poveri a rivestire quel ruolo di
"classi pericolose" che centocinquant'anni fa era riservato alla classe operaia. La
loro natura sociale di esclusi per definizione (di persone prive di status giuridico
certo, anche se ammesse, formalmente o no, a risiedere per qualche anno nelle
societ di immigrazione) fa s che su essi convergano le paure irrazionali delle
societ locali, i pregiudizi amplificati dai media, il cinismo di gran parte del
sistema politico (che ha trovato i suoi capri espiatori a buon mercato). Non si
tratta soltanto di procedure pi o meno ritualizzate di stigmatizzazione, ma di un
processo complesso a cui non estraneo l'impiego di una forza-lavoro
sottopagata e soprattutto subordinata. L'esclusione anche violenta degli stranieri
del tutto complementare allo sfruttamento della loro marginalit
nell'economia informale. In nome della loro potenziale "pericolosit", gli
stranieri (migranti o profughi che siano) costituiscono oggi una fascia sociale
priva di riconoscimento, di garanzie reali, dei veri e propri "meteci", che le
societ di immigrazione sfruttano a loro piacimento, salvo poi darli in pasto alle
paure pi irrazionali delle cittadinanze locali o dei loro supposti rappresentanti
politici (31).
Vent'anni fa, quando l'Italia non era ancora un paese di immigrazione,
notavo come la paura dei devianti fosse una formidabile risorsa politico-morale
per stati la cui legittimazione era sempre pi problematica. E suggerivo anche
come fosse indispensabile contrapporre a questa immagine (oltre che ai vari tipi
di gestione morbida e consensuale del controllo sociale) quella del diritto a
comportamenti non conformi. La cosiddetta devianza, come era stato
ampiamente documentato dalla sociologia "liberal", molto spesso non
esprimeva che l'aspirazione a forme diverse, anche se oscure e talvolta
irrazionali, di socialit: da quelle sottoculturali (come l'uso delle droghe leggere)
a quelle pi o meno inconsciamente politiche (la protesta sociale). Questa
posizione mi sembrava inoltre rientrare nella tendenza a uno sviluppo della
democrazia sostanziale.
Il fatto che oggi le devianze vengano fatte coincidere sostanzialmente con la
condizione "tout-court" di straniero (e non solo in Italia) mi spingono a
confermare la posizione di vent'anni fa. Con la differenza che qui non pi in
gioco (soltanto) l'innovazione sociale, il riconoscimento di forme di agire che
non rientrano nel senso comune, compreso quello delle scienze sociali, ma una
nuova declinazione della libert. Infatti, la stessa condizione di migrante e di
profugo, qualcuno che cerca di evadere per qualsiasi motivo dal "proprio"
ordine sociale, economico e politico, viene fatta coincidere con quella di
deviante, anche se il suo comportamento non minaccia nessuno e, in realt, egli
paga pi di chiunque altro questa pretesa (32). L'attuale equazione
"immigrazione uguale criminalit", agitata nelle nostre societ opulente, cerca
dunque di falsificare la pretesa politica (in poche parole, una nuova idea di
cittadinanza globale, anche se "in nuce" o inconsapevole) contenuta nella stessa
esistenza dei migranti (33).
Credo che oggi, esattamente come vent'anni fa, il lavoro teorico ed empirico
sulle devianze vecchie e nuove debba sfuggire alle pretese della terminologia
positivistica delle scienze sociali e soprattutto dei meccanismi politico-morali
che esse innescano. Cos, un lavoro sulle scienze dell'immigrazione potrebbe
mostrare, allo stesso modo in cui Foucault ha decostruito le idee di razza e di
nazione (34), come il linguaggio "tecnico" della demografia, della sociologia,
delle relazioni internazionali, ecc. travesta spesso la preoccupazione profonda di
inferiorizzare i migranti, di tenerli a distanza, di farne dei non-cittadini. In
questa prospettiva, il saggio che viene riproposto non che una prima lettura,
inevitabilmente parziale (anche se, forse, non del tutto superata) delle procedure
con cui le moderne scienze hanno contribuito a spoliticizzare l'esperienza.
Genova, luglio 2000.
NOTE
Nota 1. Diciamo che si tratta "anche" di ipotesi scientifiche. Sul concetto
foucaultiano di dispositivo vedi ora G. DELEUZE, "Che cos' un dispositivo", in
"Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori", Verona 1999,
pp. 67 sgg.
Nota 2. Tra questi pochi vorrei ricordare S. CATUCCI, "Introduzione a
Foucault", Roma-Bari 2000.
Nota 3. Nei primi anni '80 si assister a uno spettacolare abbandono, da
parte di un gran numero di intellettuali di spicco, della terminologia marxista a
favore di quella liberale (e, in una minoranza, teologico-politica). Solo un lavoro
storico specifico potrebbe documentare le ragioni profonde (non sempre nobili e
disinteressate) di questo cambiamento. Mi limito solo a notare che il
dogmatismo con cui molti ripetevano la lezione marxiana venti o venticinque
anni fa si ritrova facilmente nella nuova doxa liberale.
Nota 4. C' naturalmente qualche eccezione, anche in Italia, bench
l'interesse sociologico si sia rivolto soprattutto alle espressioni culturali e
artistiche dei nuovi movimenti pi che a quelle politiche. All'atteggiamento di
sufficienza con cui la sociologia accademica ha trattato i movimenti non
istituzionali e i loro protagonisti si pu contrapporre l'opera di un ricercatore
atipico come Danilo Montaldi. Oltre ai suoi classici "Autobiografie della
leggera", Torino 1972 (seconda ed.), e "Militanti politici di base", Torino 1971, si
veda ora "Bisogna sognare. Scritti 1952-1974", Milano 1994.
Nota 5. Su questo passaggio si vedano ora le osservazioni di P. GINSBORG,
"Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi", Torino 1998.
Nota 6. Si vedano, su questo punto, le riflessioni di A. Pizzorno in "La politica
assoluta e altri saggi", Milano 1994.
Nota 7. Nel momento in cui termino queste note (luglio 2000), la stampa ha
diffuso due sentenze esemplari comminate a Bologna ad alcuni immigrati. Due
sono stati condannati a 15 anni di prigione per aver spacciato 1 grammo di
eroina e altri due a 14 mesi per rissa.
Nota 8. Per chi considerasse eccessivi questi giudizi conviene ricordare che
gli osservatori internazionali sul rispetto dei diritti umani (che ricorrono a
indicatori come la durata dei processi penali, i processi per reati d'opinione,
tra i cosiddetti padri fondatori delle scienze sociali non rientra in questo
modello. Ma cfr. il mio "L'ordine infranto. Max Weber e i limiti del
razionalismo", Milano 1983.
Nota 15. C' quasi sempre un movimento tautologico nella pretesa della
teoria sociale di stabilire un sistema normativo capace di regolare, ai vari livelli,
l'organizzazione sociale. Prima si presuppone l'esistenza di un sistema ideale,
traendolo o dall'evoluzione della societ cos come si espressa nella storia delle
idee (Parsons) o dall'"evidenza" (Habermas), e poi gli si attribuisce la capacit
effettiva, concreta, di regolazione. Da questo punto di vista, il passaggio a una
teoria sistemica basata sul funzionamento delle procedure sociali e
amministrative, come in Luhmann, senz'altro un tentativo di uscire da questa
storica impasse della sociologia.
Nota 16. E quasi superfluo aggiungere che questo vale anche per altri saperi,
come la psicologia, la psicanalisi, la pedagogia e, in fondo, anche l'economia. Il
gergo scientifico e il metodo pi o meno formalizzato riescono a nascondere
raramente la retorica morale che li sottende. Se non altro, la filosofia morale,
che oggi sopravvive rigogliosamente nella produzione di lingua inglese, ha il
merito di chiamare le cose con il loro nome.
Nota 17. Come vedremo pi avanti, Durkheim il solo sociologo classico ad
aver compreso - grazie alla sua sensibilit antropologica, probabilmente - le
funzioni rituali del reato e della sua punizione, della devianza e della sua
stigmatizzazione. Per alcune considerazioni sull'attualit delle sue posizioni, cfr.
il mio "La tautologia della paura", in "Rassegna italiana di sociologia", 1, 1999.
Nota 18. Cfr. P.P. GIGLIOLI, "Presentazione" a E. GOFFMAN, "L'ordine
dell'interazione", Roma 1997.
Nota 19. Per un'utile presentazione di queste tendenze, limitata comunque
alla sociologia criminale, cfr. S. HESTER e P. ENGLIN, "Sociologia del
crimine", Lecce 1999. Per avere un'idea del significato metodologico delle
ricerche in questione, dei loro antecedenti e delle correnti affini ancora utile M.
CIACCI (a cura di), "Interazionismo simbolico", Bologna 1983: cfr. anche A.
DAL LAGO e P.P. GIGLIOLI (a cura di), "Etnometodologia", Bologna 1983. La
migliore introduzione ai metodi "naturalistici" in questo campo di ricerca resta
D. MATZA, "Come si diventa devianti", Bologna 1969. Molto meno incisivo A.
GIDDENS, "Le nuove regole del metodo sociologico", Bologna 1976.
Nota 20. A.W. GOULDNER, "La crisi della sociologia", Bologna 1973 e ID.,
Introduzione
Siamo ormai inseparabili dal nostro essere sociale. Pi di un secolo di
discorsi scientifici sulla societ ha contribuito a trasformare l'autocoscienza
degli abitanti dell'occidente in autocoscienza sociale. Ci significa che le
articolazioni del potere, soprattutto quando si tratta di suscitare delle decisioni
prevedibili e di progettare degli spazi di libert controllata, sono
automaticamente legittimate dalla propria funzione sociale. L'assistenza, la
sicurezza, la scuola, la psichiatria - in breve, le varie forme di "management"
sociale - sono imprese che senza dubbio non sgorgano dalla collettivit e che non
hanno nulla a che fare con la volont generale, ma che hanno acquistato
legittimit come risposte a bisogni reali, che sono divenute dei veri e propri
bisogni collettivi. Pensare che sia possibile disporre di se stessi in ogni senso, e
soprattutto sviluppare forme di socialit a partire da questa regola del gioco,
viene valutato oggi come una pericolosa ingenuit. Questo giudizio trova
d'accordo le correnti di pensiero politico pi disparate, dal liberalismo al
socialismo. Sembrerebbe in altri termini che la cittadinanza sociale sia divenuta
la nostra natura. Una cittadinanza che non solo esprime l'appartenenza a un
mondo comune chiamato societ, ma che si instaura come matrice di ogni
determinazione, come dispositivo produttore di ogni possibile senso. La
sociologia (o almeno la sua tradizione centrale, quella che da Durkheim giunge
fino al funzionalismo) ha cercato di ancorare questa appartenenza a ogni tipo di
determinismo. Ma l'essere sociale trabocca dal discorso scientifico, diviene oggi
produttore di verit quotidiane. Bisogna ricordarsi a questo proposito
dell'intervista a un famoso pericolo pubblico, al momento del suo arresto:
"Crede di essere divenuto un rapinatore a causa della societ?" Questa domanda
non rivela soltanto dell'acume professionale - ci dice fino a che punto le nozioni
derivate dal discorso sociale siano divenute moneta corrente.
Il grande fascino e il successo delle scienze sociali consistono allora, come
mostrano anche questi aneddoti, nell'aver fornito il materiale, le attrezzature
e lo sfondo per la costituzione della scena primaria dell'esperienza
contemporanea, la scena sociale. Ci che la filosofia politica borghese aveva
postulato, con l'edificio teorico della societ civile, la sociologia ha
materializzato, trasformando un'esigenza storica in una realt inevitabile. Non si
tratta soltanto della scoperta di un nuovo continente, quel mondo sociale che
pressoch tutto il pensiero economico e politico della prima met del
Diciannovesimo secolo - dall'economia sociale all'utopia, dal liberalismo al
socialismo - finisce per assumere come oggetto privilegiato, quanto
dell'invenzione di un meccanismo autonomo e legittimato come produttore di
realt, fenomeni e comportamenti, la "societ". Questa diviene, prima nella
NOTE
Nota 1. Sull'ascesa del paradigma sociologico nella prima met del
Diciannovesimo secolo sarebbe necessario naturalmente un lavoro specifico.
Questo problema, normalmente sottovalutato nelle storie della teoria politica e
sociale del secolo scorso, stato messo in luce da alcune opere di grande
interesse. Per quanto riguarda la scoperta della societ da parte dell'economia
politica si veda K. POLANYI, "La grande trasformazione", Torino 1974. Sulla
spoliticizzazione dei movimenti collettivi in Europa e sulla crisi della tradizione
rivoluzionaria resta fondamentale H. ARENDT, "Sulla rivoluzione", Milano
1983; si veda anche F. NEUMANN, "Lo stato democratico e lo stato autoritario",
Bologna 1973. Con paradigma sociologico mi riferisco, sia in questa
introduzione sia nel testo seguente, alla tradizione di sociologia strutturalistica
che ha il suo iniziatore e maggior esponente in Durkheim. Diversamente
dall'opera di Weber o Simmel, questa scuola ha dato luogo alla sociologia
accademica e all'ideologia che ne derivata. Su questo aspetto si veda A.
GOULDNER, "La crisi della sociologia", cit.
Nota 2. C.H. DE SAINT-SIMON, "memoire sur la science de l'homme", in
"Oeuvres", Paris 1813, vol. XI, p. 29.
Nota 3. I rapporti tra crisi rivoluzionaria e progetti di fondazione delle
scienze sociali (si pensi solo a Comte) sono ben noti. Ancora da esplorare per
il ruolo di importanti correnti del pensiero socialista nella critica della politica,
nella polemica contro il giacobinismo, nella fondazione di una teoria scientifica
dell'organizzazione sociale. lo stesso Durkheim che attribuisce a pensatori
come Sismondi e Saint-Simon il merito di avere aperto la strada a una critica
"positiva" della societ industriale. Si veda . DURKHEIM, "Il socialismo",
Milano 1973. Sul carattere positivista delle pi importanti utopie socialiste della
prima met del xix secolo (in particolare Owen e Saint-Simon) cfr. G.
LAPOUGE, "Utopie et civilisation", Paris 1978. Sulla scoperta della patologia
sociale, cfr., i testi raccolti in G. DALMASSO (a cura di), "La societ medicopolitica", Milano 1980.
Nota 4. Su questo aspetto dell'opera di Durkheim, cfr. P. MARANINI, "La
societ e le cose", Milano 1971.
Nota 5. Mi riferisco qui ai tentativi di costituire sociologie critiche della
devianza, nuove criminologie, e cos di seguito. Il manifesto pi caratteristico di
queste posizioni costituito da I. TAYLOR, P. WALTON, J. YOUNG,
"Criminologia sotto accusa", Firenze 1975 (il titolo originale dell'opera, molto
Nota 14. J. DONZELOT, "La police des familles", Paris 1977. Questo lavoro
analizza l'ascesa del paradigma sociale nelle pratiche di assistenza e di controllo
tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo.
Nota 15. H. ARENDT, "Sulla rivoluzione", cit. Per un'analisi delle strategie di
disinnesco del conflitto politico nel Diciannovesimo secolo si veda soprattutto il
capitolo "La tradizione rivoluzionaria e i suoi tesori perduti".
1. Il paradigma sociale.
La teoria scientifica della patologia sociale legata al processo di
razionalizzazione e di sviluppo delle istituzioni di segregazione e di controllo,
iniziato nella seconda met del Diciottesimo secolo. Nel corso di questo processo
la teoria e la pratica della giustizia penale subiscono un cambiamento
fondamentale, che si pu definire come passaggio da un modello spettacolare
della punizione a un modello razionale. Il ruolo svolto dai riformatori liberali
come Beccaria e Romilly, dai "philosophes" (primo fra tutti Voltaire) e dai
teorici dell'utilitarismo, Bentham in particolare, appare oggi come una spinta
alla razionalizzazione dell'intervento dello stato sul terreno del disordine sociale,
una critica della legittimit tradizionale della punizione e al tempo stesso una
strategia di codificazione dell'ordine adeguato ai bisogni della societ borghese.
Beccaria, in particolare, distrugge la pretesa che la pena sia una risposta morale
al delitto: la giustificazione della pena non deve essere cercata nella lesione di
autorit e valori metasociali (lo stato, il sovrano, la religione) ma nel danno
infetto ai singoli e, attraverso di loro, alla collettivit. La pena retributiva e
deterrente. Ognuno subir una pena che colpisca i suoi diritti nella stessa
misura in cui il reato ha colpito i diritti altrui. La possibilit di una pena che
svolga un'autentica funzione sociale connessa all'esistenza di un sistema
giuridico razionale, e quindi di un codice penale definito, conosciuto ed esatto in
ogni sua parte. Perch l'intervento penale sia efficace i diritti individuali devono
essere garantiti; vi deve quindi essere certezza del diritto e non pu esistere
legislazione retroattiva. Il funzionamento della giustizia dovr ricalcare quello di
una macchina precisa, regolata e implacabile, e non dipendere dagli interventi
arbitrari, discontinui e controproducenti di poteri incontrollabili (1). Gi alla
fine del secolo Diciottesimo nascono teorie che concepiscono l'organizzazione del
sistema penale dal punto di vista di un controllo razionale e non soltanto della
repressione indiscriminata. questo il caso di Bentham e dei filantropi
quaccheri che promuovono sistemi penitenziari riformati con le carceri modello
di Boston, Auburn e Sing-Sing (2). Il progetto di Bentham, il Panopticon, unifica
le funzioni del carcere e della fabbrica in un modello che insieme pedagogico
ed economico. Nel Panopticon non dovevano essere ospitati soltanto i criminali,
ma tutti i membri delle classi subalterne che sfuggivano ad una precisa
collocazione nel mercato del lavoro: libertini, orfani, mendicanti, anziani e folli.
L'idea fondamentale era quella di riunire tutti questi marginali in un solo
edificio facilmente controllabile, dove potessero essere isolati e sottoposti a una
dura ed educativa disciplina del lavoro. Le affermazioni di Bentham sui vantaggi
morali del suo progetto non ne nascondevano la natura squisitamente
economica. Uno storico spiega cos le origini del Panopticon: "Bentham si era
unito al fratello e insieme erano alla ricerca di una macchina a vapore. Venne
ora loro in mente di usare i carcerati invece del vapore" (3.) Riconosciuto che il
2. La normalit introvabile.
Nella prospettiva della riduzione dei fatti morali a un universo di dati
omogenei, si sviluppa anche la criminologia come scienza dei rapporti tra
normalit e anormalit del comportamento sociale. nell'opera di Quetelet che
la criminologia manifesta una profonda affinit con la statistica medica.
Quetelet anche un padre fondatore della biometria: studiando
sistematicamente le variazioni della statura e delle altre caratteristiche fisiche
dell'uomo, egli aveva stabilito, per una determinata caratteristica misurata sui
membri di una popolazione omogenea e rappresentata graficamente, l'esistenza
di un poligono di frequenza, con un apice corrispondente all'ordinata massima e
una simmetria corrispondente all'asse delle ordinate. Quetelet dimostr che il
poligono tendeva verso una curva a campana, nota come curva di Gauss. Questa
rappresentazione delle variazioni dei caratteri biologici sembrava a Quetelet
della massima importanza, poich egli riteneva che le variazioni rispetto alla
frequenza media, misurata per ogni caratteristica dalla distribuzione dei dati
sulla curva, avessero un carattere accidentale. Cos un artificio matematico era
in grado di fissare le caratteristiche normali dell'uomo (per Quetelet infatti la
media coincideva con la norma) (24) Quetelet chiam l'uomo con tali
caratteristiche "uomo medio", il tipo umano definito da caratteristiche a partire
dalle quali lo scarto sulla curva tanto pi raro quanto pi grande. Questa
teoria offriva a Quetelet non solo la base per una definizione scientifica
dell'uomo normale, ma anche un metodo e delle conclusioni che potevano essere
trapiantati nella nascente scienza del crimine. Allo stesso modo in cui l'uomo
medio poteva essere ricostruito mediante leggi statistiche, l'osservazione
scientifica permetteva di stabilire le costanti del delitto e dei comportamenti
patologici, e quindi di prevederne in anticipo incidenza e pericolosit. La teoria
della prevedibilit dei fenomeni patologici si basava su risultati che potevano
apparire sorprendenti a questi primi ricercatori: per periodi di tempo
abbastanza lunghi, i totali annu dei delitti denunciati e dei tipi principali di
reato rimanevano fondamentalmente costanti. Una regolarit analoga era
riscontrata nelle quote fornite ai totali dai vari gruppi o classi della popolazione,
che vivevano in diverse condizioni sociali, ambientali o geografiche. Ovviamente
queste ultime influivano sulla tendenza al delitto (la probabilit maggiore di
commettere reati tra le varie classi). Avevano cos una certa influenza l'et, il
sesso e condizioni patologiche come l'alcoolismo, ma non la mancanza di
istruzione o la povert. Ed erano soprattutto riconosciute come cause rilevanti
dei comportamenti criminali la disuguaglianza e la rapida mobilit sociale.
Veniva cos superato il pregiudizio per cui povert e mancanza di istruzione
erano causa di disordine sociale (nell'opinione del tempo infatti povert, mondo
del lavoro e pericolo sociale erano pressoch sinonimi) (25). Risultavano invece
determinanti tra le motivazioni del crimine, in base ai calcoli di Quetelet, fattori
morali come l'esempio delle classi oziose - tema dominante anche nella
pubblicistica radicale o riformista (26) - e soprattutto i cambiamenti di vita
dovuti all'urbanizzazione e alle crisi economiche. In definitiva erano i
meccanismi sociali e morali inerenti alla societ nel suo complesso, e non pi a
singole parti e organi, che cominciavano ad essere invocati come spiegazioni di
una patologia che veniva considerata come una realt marginale eppure
costante. Quetelet credeva, insieme a Guerry e altri ricercatori, che queste cause
combinate producessero una tendenza al delitto pressoch invariata nel tempo:
il reato diventava cos un fatto normale e inevitabile nella societ industriale.
Quetelet giungeva a conclusioni che rovesciavano le opinioni correnti sulla
criminalit. Il libero arbitrio si annullava nei grandi numeri. La societ
preparava il delitto, di cui i criminali erano soltanto gli strumenti esecutori. I
colpevoli riconosciuti erano le vittime espiatorie della societ, alla stessa stregua
delle loro occasionali vittime. Infine la pena, ancorch utile per limitare i guasti
prodotti dallo sviluppo sociale, doveva essere sostituita dalla prevenzione e da
altre forme di controllo sociale ed eventualmente di assistenza (27). Come
riformatore moderato, Quetelet proponeva dunque che la mera repressione
fosse sostituita da un'azione sociale centrata sull'educazione, l'assistenza ai
poveri, il miglioramento delle condizioni di vita. Ma al tempo stesso riteneva che
lo stato considerasse, senza alcuna illusione, le spese relative
all'amministrazione della giustizia penale come un prezzo inevitabile da pagare
per il progresso economico e sociale. Non questo il luogo per confrontare
questi sviluppi della statistica morale con le altre correnti deterministiche, come
il darwinismo sociale o l'antropologia fisica, che hanno influenzato le teorie della
patologia sociale o la stessa criminologia scientifica nel corso del
Diciannovesimo secolo. Si pu notare comunque che il paradigma sociale, che si
afferma nella prima met dell'Ottocento intorno alla definizione di correnti
collettive e morali come meccanismi di produzione delle patologie, abbia avuto
un'influenza meno effimera delle tradizioni legate all'evoluzionismo. Spencer e
Lombroso non negavano l'influenza di particolari condizioni sociali sulla
produzione di criminalit, ma traevano dalle loro teorie biologistiche delle
conclusioni che non potevano acquistare un valore strategico durevole. Spencer
riteneva che i folli, i criminali e in generale i marginali fossero un prodotto di
una selezione sociale ineliminabile, si opponeva a ogni tipo di assistenza
pubblica e approvava la carit privata perch contribuiva all'elevazione morale
dei donatori (28). Lombroso, che nel secondo tempo della sua ricerca avrebbe
modificato la drastica antropometria criminale con il condizionamento sociale
del crimine, proponeva la castrazione dei maniaci sessuali e pene altrettanto
draconiane per delinquenti abituali (29). Ma indipendentemente dalla diversa
lungimiranza dei vari determinismi, queste correnti convergevano nel
considerare la patologia come una manifestazione pratica di meccanismi
indipendenti dall'agire individuale o volontario, e quindi come un effetto da
Ora nel caso specifico, sembra inevitabile che questa forma deviata della
democrazia si sostituisca alla forma normale ogni volta che lo stato e la massa
degli individui sono direttamente in rapporto, senza che fra di loro si inserisca
alcun intermediario. Infatti, come conseguenza di questa vicinanza,
automaticamente necessario che la forza collettiva pi debole, cio quella dello
stato, non sia assorbita dalla pi forte, quella della nazione. Quando lo stato
troppo vicino agli individui, cade sotto il loro dominio e contemporaneamente li
disturba. La sua vicinanza li disturba perch, malgrado tutto, esso cerca di
governarli direttamente, mentre, come sappiamo, incapace di svolgere questo
ruolo. Ma questa stessa vicinanza fa s che esso "dipenda strettamente da loro,
perch, dato il numero, gli individui possono modificare lo stato a loro
piacimento" (37).
Il problema consiste allora nell'individuazione di gruppi intermedi che
funzionino da intercarpedine tra lo stato e gli individui, ma che al tempo stesso
siano espressione diretta di una socialit "normale e naturale" (38). Questi non
possono essere che degli organi rappresentativi su base professionale, cio delle
corporazioni che assicurino il governo molecolare della societ. Sarebbe troppo
semplice mostrare qui l'inconsistenza di un progetto di edificazione della societ
che cerca i suoi punti di appoggio in organismi cos improbabili come le
corporazioni e in luoghi cos tradizionalmente conflittuali come l'organizzazione
del lavoro e l'attivit professionale. La portata del progetto di Durkheim va
infatti al di l dei suoi strumenti contingenti. Limitando la funzione dello stato a
quella di un collettore e di un organizzatore del "pensiero sociale" (39); facendo
germinare la democrazia a partire dal lavoro e dalla comunit di interessi,
risolvendo quindi la funzione della democrazia nell'autogestione del conflitto
sociale, Durkheim riesce a pensare una societ in cui la stabilit non in alcun
modo legata all'eccesso di autorit di un organismo centrale, ma prodotta
autonomamente nei corpi sociali, in cui cio lo scambio e la comunicazione tra
gli organismi sociali si sostituiscono alla rigidit e alla fragilit delle
gerarchie tradizionali. L'autonomia di funzionamento del corpo sociale, che i
teorici della prima met del Diciannovesimo secolo avevano gi pensato come
indipendente dallo stato e dalle volont individuali, quindi individuata da
Durkheim nella complessit dell'interazione (40). Ma la scoperta da parte di
Durkheim dell'"autonomia sociale" come condizione di equilibrio e di coesione
della societ nel suo complesso non esaurisce il problema della legittimit.
L'opera di Durkheim un tentativo di mostrare come l'evoluzione sociale
implichi un trasferimento degli istituti di coesione morale dalle istituzioni
accentrate (stato, diritto repressivo, contratto solenne) alle forme decentrate e
autonome di socialit (democrazia sociale, diritto restitutivo, contratto reale).
Ma come potr essere assicurata la legittimazione, e quindi l'intangibilit, di
queste istituzioni moderne? E al tempo stesso come potr essere assicurata
punito, non perch la pena sia giusta in s o utile, "ma per riaffermare la
legittimit della societ e del potere che punisce" (45).
In questo modo, Durkheim stabilisce alcuni principi fondamentali
dell'analisi sociologica della criminalit. Se la pena non un rimedio pratico ma
un mezzo con cui la societ afferma la solidariet, allora la funzione delle
istituzioni giudiziarie (e quindi degli apparati, delle procedure e delle professioni
legate all'esistenza di reati) soprattutto quella di celebrare, in riti in cui i
delinquenti esercitano il ruolo di vittime sacrificali, la santit sociale del
giudizio, e quindi il diritto di punire (46). Evidentemente per Durkheim non ha
importanza stabilire una priorit logica o causale tra la produzione di reati e le
attivit delle istituzioni punitive. Non diversamente da Marx, che aveva
sottolineato la funzione economica della criminalit, e che parlava del delitto
come fattore di innovazione e di rafforzamento delle istituzioni e delle
professioni giudiziarie, delitto e punizione sono complementari: la societ ha
bisogno del delitto e incessantemente lo riproduce per le sue necessit.
Il discorso di Durkheim si arresta a questi livelli molto generali e alle
definizioni di principio. Se per non ci si ferma di fronte al candore o alla
brutalit di alcune dichiarazioni, la teoria rivela importanti implicazioni.
Durkheim rende superfluo, o per lo meno di scarso interesse, ogni discorso
sull'eziologia individuale o collettiva dei fenomeni criminali o devianti. Il
problema non sar pi discutere le ragioni economiche o sociali del reato (per
non parlare di quelle biologiche, di cui Durkheim si sbarazza definitivamente),
ma esaminare sia il ruolo della criminalit nel mantenimento della solidariet e
della legittimazione, sia le tattiche con cui nella societ mantenuta costante
questa importante funzione sociale. Da una parte, l'accento viene spostato sulla
funzione produttiva del diritto nella definizione dei comportamenti criminali e
devianti. Dall'altra, se si pu parlare di controllo sociale, questo non
appannaggio di un potere centrale, ma diventa una caratteristica intrinseca
nello stesso funzionamento normale della societ. In altri termini, per Durkheim
il controllo non attributo di uno stato onnipresente, ma la frontiera mobile di
organi sociali che si autogestiscono. Se si completa l'analisi di Durkheim della
funzione legittimante del sistema reato-punizione con la funzione pedagogica
che egli assegna ai gruppi intermedi, si ha un'idea della complessit dell'ordine
che egli immagina in una societ industriale avanzata. Nella teoria di Durkheim
l'ordine sociale doveva risultare dall'equilibrio tra i gruppi intermedi e la
funzione educatrice dello stato. Lo stato doveva favorire la costituzione dei
gruppi intermedi ma anche intervenire contro il particolarismo e il
corporativismo delle varie associazioni. Lo stato come educatore collettivo
prefigura quindi lo stato sociale del Ventesimo secolo, almeno nelle sue versioni
pi estreme:
NOTE
Nota 1. C. BECCARIA, "Dei delitti e delle pene", Torino 1973; si veda anche
M. MAESTRO, "Cesare Beccarla e le origini della riforma penale", Milano 1976;
per un'analisi delle politiche penali dell'epoca illuministica, cfr. G. RUSCHE e O.
KIRCHEIMER, "Pena e struttura sociale", Bologna 1976, cap. V, pp. 237 sgg.
Nota 2. G. A. DE BLAUMONT e A. DE TOCQUEVILLE, "Due esempi di
sistemi penitenziari classici", in M. CIACCI e V. GUALANDI (a cura di), "La
costruzione sociale della devianza", Bologna 1977, pp. 271 sgg.
Nota 3. K. POLANYI, "La grande trasformazione", Torino 1974, p. 135.
Nota 4. Sulle caratteristiche del Panopticon, cfr. J. BENTHAM, "Panopticon,
or the inspection House", in "Works" (ed. Bowring), Edimburgo 1838-1843, vol.
IV, pp. 37 sgg. [trad. it. "Panopticon, ovvero la casa d'ispezione", a cura di M.
Foucault e M. Perrot, Venezia 1983]; per l'analisi del "panottismo", M.
FOUCAULT, "Sorvegliare e punire", cit.
Nota 5. C.N. LEDOUX, "L'architecture considere sous le rapport de l'art,
des moeurs et de la legislation", Paris 1804, p. 64. Si possono rintracciare temi
analoghi nelle analisi della patologia sociale e urbana di Owen, Saint-Simon,
Considerant, eccetera: cfr. F. CHOAY, "La citt, utopie e realt", Torino 1972.
Nota 6. M. FOUCAULT (a cura di), "Io Pierre Riviere, avendo sgozzato mia
madre, mia sorella e mio fratello", Torino 1976; cfr. anche R. CASTEL,
"L'ordine psichiatrico", Milano 1979.
Nota 7. Sull'ascesa delle scienze dell'uomo e della societ all'inizio del
Diciannovesimo secolo cfr. G. GUSDORF, "La conscience revolutionnaire - Les
ideologues", Paris 1978, pp. 384 sgg.
Nota 8. A. O. HIRSCMMAN, "Le passioni e gli interessi", Milano 1979, pp. 87
sgg. Nota 9. J. BENTHAM, "Introduzione ai principi della morale e della
legislazione", Milano 1947.
Nota 10. Sul passaggio dal modello utilitaristico classico a una maggiore
attenzione per le contraddizioni della societ di mercato cfr. C. B.
MACPHERSON, "La vita e i tempi della democrazia liberale", Milano 1980.
Nota 11. Ad esempio: D. DEFOE, "An effcctual scheme for the Immediate
Prevention of Street Robberies and Suppressing of all other Disorders of the
Night", London 1730. Per l'analisi dell'immagine del crimine nel Diciottesimo
secolo cfr. A. SILVER, "The Demand for Order in Civil Society: a Review of
Some Themes in the History of Urban Crime, Police and Riot", in D. J.
BORDUA (a cura di), "The Police. Six Sociological Essays", New York 1967.
Nota 12. Sulla sostituzione del paradigma del comportamento a quello
dell'azione cfr. H. ARENDT, "Vita activa", Milano 1988 (seconda ed.).
Nota 13. L. CHEVALIER, "Classi lavoratrici e classi pericolose", Bari 1976.
Sulla differenza tra la tradizione di ricerca statistica in Inghilterra e in Francia
cfr. R. FOSTER e F. FOSTER, "European Society in the Eighteenth Century",
London 1969, soprattutto il capitolo "The Poor", pp. 238 sgg.
Nota 14. Cit. in L. CHEVALIER, op. cit., p. 49. Sulle discussioni che
accompagnano la fondazione della statistica sociale cfr. G. GUSDORF, op. cit.,
pp. 406 sgg.
Nota 15. G. CANGUILHEM, "Il normale e il patologico", Firenze 1975, pp. 20
sgg.
Nota 16. Citato in G. CANGUILHEM, op. cit., p. 21.
Nota 17. G. CANGUILHEM, "La mostruosit e il portentoso", in "La
conoscenza della vita", Bologna 1976, pp. 239 sgg.
Nota 18. Per un'analisi delle metafore organicistiche nella fondazione della
statica sociale cfr. J. C. GREENE, "Biologia e teoria sociale: Auguste Comte e
Herbert Spencer", in G. PANCALDI (a cura di), "Evoluzione, biologia e scienze
umane", Bologna 1976, pp. 231 sgg.
Nota 19. C.H. DE SAINT-SIMON, op. cit., p. 29.
Nota 20. Sulle relazioni e le differenze tra la concezione di Claude Bernard e
quella di Comte ha lavorato soprattutto Canguilhem. Cfr. in generale G.
CANGUILHEM, "Il normale e il patologico", cit.; ID., "Etudes d'histoire et de
philosophie des sciences", Paris 1975; e soprattutto il saggio "La formazione del
concetto di regolazione nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo", in "Ideologia
e razionalit nella storia delle scienze della vita", Firenze 1992, pp. 77 sgg.; sui
2. Devianze e conflitti
valori comuni (quelli della societ di cui la madre si fa interprete e agente) siano
interiorizzati, e i comportamenti si integrino in un sistema di aspettative
reciproche. Il meccanismo decisivo che permette tale integrazione
l'apprendimento del compenso e della punizione, mediante il quale la madre
motiva il comportamento conforme del figlio e lo dissuade dalla deviazione.
Parsons utilizza qui la teoria psicanalitica, ma ovviamente depurata da qualsiasi
riferimento alla prepotenza dell'es, al desiderio e ai bisogni. Madre e figlio
diventano "alter" e "ego", i rappresentanti di una simbolica disparit di potere
che modella i futuri rapporti dell'individuo con i ruoli, il sistema sociale e i suoi
simili. Mediante meccanismi di apprendimento (rafforzamento, inibizione,
sostituzione, imitazione, identificazione) "alter" manipola i bisogni di "ego", lo
frustra e lo gratifica, lo compensa e lo punisce. Qui la sfera erotica vale solo
come ponte per l'attaccamento e questo come mezzo per l'apprendimento dei
ruoli. Infatti la valutazione dei reciproci atteggiamenti affettivi funziona come
mezzo di condivisione di un comune modello di valori. L'allattamento o la
tenerezza materna non sono qui fonti di piacere o manifestazioni di una
predisposizione naturale, ma modelli attraverso i quali la societ indica
all'individuo le tappe della sua vicenda di onesto cittadino, padre e lavoratore. In
seguito, il bambino imparer i modelli che non comportano attaccamento o che
lo guideranno nelle scelte della vita pratica (6).
Nel sistema di Parsons la motivazione del comportamento deviante si
inserisce in modo del tutto semplice e lineare in questo modello. Supponiamo,
dice Parsons, che per un motivo qualsiasi nel sistema interpersonale entri un
elemento di disturbo tale che l'azione di "alter" produca una frustrazione nelle
aspettative di "ego".
Di fronte alla tensione che insorge, "ego" ha varie possibilit di adattamento:
pu sopprimere il suo bisogno, pu ristrutturare la sua relazione con "alter".
Qualora per si verifichi una situazione di ambivalenza, in cui "ego" prova
ostilit per la frustrazione ricevuta da "alter" e insieme persiste il bisogno di
attaccamento, scaturiscono varie complicazioni. "Ego" cercher di ristabilire la
situazione ricorrendo alla conformit o al distacco o a entrambi, ma comunque
il suo rapporto con alter si risolver in nuove frustrazioni e complicazioni. Tale
per Parsons "la struttura essenziale del processo di formazione di una
motivazione cumulativa alla deviazione", in cui sono decisive le ambivalenze
complementari nei sistemi motivazionali di "ego" e di "alter" (7). Le direzioni del
comportamento deviante dipendono dalla combinazione di varie possibilit, ma
in ogni caso danno luogo a forme di non adattamento ai ruoli; cos a seconda del
predominio della conformit o del distacco, dell'attivit o della passivit, avremo
le forme empiriche di deviazione, dal ritualista al ribelle, dal rinunciatario al
criminale e al folle. Questi cenni mostrano come i meccanismi fondamentali
per Merton che la reazione normale alle contraddittorie richieste del sistema. Da
una parte si chiede agli individui posti ai bassi livelli della struttura sociale che
essi "orientino la loro condotta verso la prospettiva di un largo benessere".
Dall'altra si nega loro la possibilit di raggiungere tale obiettivo (16). Merton
riconosce dunque che la struttura sociale americana non affatto aperta come
sostiene Parsons. Ma la sua analisi della devianza, che si basa in buona misura
sul senso comune, si contraddice subito quando la genesi del comportamento
deviante, che pure strettamente correlato alla stratificazione sociale,
ricondotta al fatto che "gli individui sono stati socializzati in modo imperfetto,
cos che essi abbandonino i mezzi istituzionalizzati pur di mantenere
l'aspirazione al successo" n. La tesi di Merton in fondo che i poveri, gli
immigranti, i neri, ecc. affascinati dall'esempio dei pescecani della finanza, o
educati da genitori troppo severi o troppo permissivi, decidono di partecipare
alla gara prendendo delle scorciatoie. In realt se c' un esempio che conta nelle
carriere devianti degli abitanti degli "slums", quello di un membro della loro
comunit che riuscito a sopravvivere partendo da una situazione di
emarginazione. Ricerche su comunit di immigrati hanno mostrato che
l'organizzazione mafiosa, l'"entourage" del piccolo boss e le iniziative dei
gangster rionali costituiscono spesso le sole risorse di sussistenza di ambienti
circondati da una societ ostile o chiusa (18). chiaro che l'influenza dei modelli
culturali prevalenti in una societ non pu essere sottovalutata. Ma il fascino che
in ogni epoca emana non solo dal bandito sociale o dal vendicatore, ma anche
dal bandito "tout-court" fa pensare che i valori degli emarginati non coincidano
necessariamente con quelli degli uomini d'affari (19).
La teoria di Merton, che cerca di conciliare il riconoscimento della
disuguaglianza sociale con l'esistenza di un sistema di valori condivisi, non
dunque in grado di spiegare quelle situazioni in cui il "crimine" non ha delle
caratteristiche immediate di innovazione sociale. La delinquenza delle bande, la
violenza giovanile e l'"irrazionalit" degli emarginati sono al centro delle teorie
sulle sottoculture, che cercano di integrare e di completare lo schema di Merton.
Cohen, ad esempio, basa la sua teoria delle bande giovanili sul fatto che lo
spirito della cultura di banda "maligno, distruttivo ed edonistico" (20) e non
immediatamente interessato, sia pure con l'uso di mezzi illeciti, al
conseguimento del successo monetario ecc. Pertanto la teoria di Merton non lo
soddisfa, perch essa in grado di spiegare la delinquenza organizzata e
professionale, ma non il comportamento apparentemente immotivato delle
bande. Il punto di partenza di Cohen che il fenomeno della sottocultura
delinquente riguarda soprattutto la giovent operaia, che si trova esposta nella
societ americana a pressioni contrastanti; da una parte ci sono i valori
razionalistici, contrattualistici e acquisitivi della "middle class", che
costituiscono il modello di valore dominante della societ americana; dall'altra
dall'interazione tra l'Io e gli altri), di processo, di apparenza, di gioco (31). Gli
esponenti di questa scuola sottolineano che il comportamento deviante pu
essere compreso solo nei termini di un continuo cambiamento dell'identit
dell'attore sociale, che riflette lo sviluppo dei processi di interazione. Essi si
occupano quindi della storia sociale e degli effetti ramificati del comportamento
deviante, piuttosto che della situazione iniziale dell'attore. Questi autori operano
una scissione tra l'individuo e la deviazione, atto che imputato all'individuo
dagli altri e a cui l'individuo reagir in vari modi. Il soggetto deviante allora il
segmento di un sistema che coopera alla produzione dell'evento, di cui soltanto il
deviante sar reso responsabile. In questo sistema ha grande importanza il
valore simbolico dell'evento e quindi la "drammatizzazione del male",
meccanismo che pu operare sia al livello dei piccoli gruppi ( il caso della
denuncia con cui qualcuno evidenzia la trasgressione) sia al livello politico e dei
sistemi di informazione (ad esempio le campagne di stampa sulla criminalit).
Questi presupposti sono chiariti da Lemert in uno dei suoi primi saggi
sull'argomento e da Becher in un'opera divenuta ormai classica:
Noi partiamo dall'idea che le persone e i gruppi siano differenziati in vari
modi, alcuni dei quali producono sanzioni sociali, rifiuto e segregazione. Queste
sanzioni e reazioni di esclusione da parte della societ o della comunit sono
fattori dinamici che aumentano, diminuiscono e condizionano la forma assunta
dall'iniziale differenziazione e deviazione (32).
I gruppi sociali producono la devianza creando le regole la cui infrazione
costituisce la devianza, applicando quelle regole a particolari persone ed
etichettandole come "outsiders" [...]. La devianza non una qualit dell'atto
commesso dalla persona, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione, da
parte degli altri, di regole e sanzioni al trasgressore (33).
Partendo da questi presupposti gli autori citati costruiscono un modello in
cui entrano molte variabili, ma i cui elementi decisivi sono la reazione degli altri
ad un determinato comportamento e la trasformazione dell'identit del soggetto
(34). Esempi drammatici di trasformazione dell'identit sono l'esperienza di chi
stato pubblicamente etichettato come deviante e i rituali di degradazione dello
status.
In questi rituali l'identit dell'individuo percepito come deviante diventa
trascurabile, mentre decisiva quella costituita in base all'etichetta assegnata
dagli altri. Il soggetto diventa in questi processi un'altra persona e quindi il suo
comportamento dipender in larga misura da questa nuova ed esterna
definizione del s. Esempi di queste trasformazioni si trovano nei casi
NOTE
Nota 1. [Nel sistema di Parsons, "analitico" sta per "teorico" ed "empirico"
sta per "realmente esistente". Le analisi che la sociologia contemporanea
considera "empiriche" sono pressoch assenti nell'opera di Parsons. Il carattere
esclusivamente teorico e deduttivo delle analisi di Parsons ne fa qualcosa di
vagamente "tomista"].
Nota 2. T. PARSONS, "Teoria sociologica e societ moderna", cit., pp. 14 sgg.
Nota 3. T. PARSONS e E.A. SHILS, (a cura di), "Toward a General Theory of
Action", Cambridge (Mass.) 1951, pp. 47 sgg.
Nota 4. T. PARSONS, "Il sistema sociale", Milano 1965, pp. 259 sgg.
Nota 5. T. PARSONS, "The Distribution of Power in American Society", in
"World Politics", 10, 1957, pp. 123-143. Per un'analisi della teoria del potere in
Parsons, cfr. A. GOULDNER, "La crisi della sociologia", cit., pp. 421 sgg.
Nota 6. T. PARSONS, "Il sistema sociale", cit., pp. 211 sgg.; si veda inoltre,
per questa teoria della socializzazione, T. PARSONS e R.F. BALES, "Famiglia e
socializzazione", Milano 1973.
Nota 7. T. PARSONS, "Il sistema sociale", cit., p. 266.
Nota 8. Ibid., p. 242.
Nota 9. E.A. SHILS, "The Theory of Mass Society", in "Diogenes", 2, 1962, p.
54.
Nel corso degli anni '50 e '60 alcune importanti ricerche empiriche compiute
negli Stati Uniti hanno largamente contraddetto l'ipotesi della scuola
funzionalista intorno alla condivisione dei valori e delle mete della societ di
massa. Si pensi a D. RILSMAN e AL., "La folla solitaria", Bologna 1956, e alle
descrizioni dello stile di vita delle classi medie contenute ad esempio in W. H.
WHYTE JUNIOR, "L'uomo dell'organizzazione", Torino 1960, e in C. WRIGHT
MILLS, "Colletti bianchi", Torino 1965.
Nota 10. Una delle migliori critiche, da questo punto di vista, della sociologia
di Parsons contenuta in W.J. BUCKLEY, "Sociologia e teoria dei sistemi", cit.;
3. Le trasformazioni dell'ordine
problematici costituito dalle derive, dai bisogni reali, dalle autonomie e dai
comportamenti stigmatizzati, oltre che dai meccanismi sociali che producono o
autoproducono il controllo. In questo senso il compito, non solo teorico, consiste
sia nel demistificare la realt sociale della devianza sia nell'interrogare senza
sosta le presunte scienze che hanno contribuito in qualche modo a crearla.
NOTE
Nota 1. Mi riferisco qui ai seguenti autori: J. HABERMAS, "La crisi della
razionalit nel capitalismo maturo", Bari 1975; AA.VV., "La crisi dello
stato", Bari 1976; AA.VV., "Stato e crisi delle istituzioni", Milano 1978; AA.VV.,
"Le trasformazioni dello stato", Firenze 1980; C. OFFE, "Lo stato nel
capitalismo maturo", Milano 1977; J. O'CONNOR, "La crisi fiscale dello stato",
Torino 1976.
Nota 2. J. HABERMAS, op. cit., pp. 105 sgg.
Nota 3. J. HIRSCH, "Lo stato di sicurezza nazionale", in "Le trasformazioni
dello stato", cit., pp. 118 sgg.
Nota 4. Su questo punto cfr. in generale L. CHVALIER, op. cit.
Nota 5. C. OFFE, op. cit., pp. 97 sgg.
Nota 6. Ibid., p. 116.
Nota 7. Ibid., p. 117.
Nota 8. questo in particolare il caso di Luhmann. Il punto di vista
tecnocratico su questi problemi ben rappresentato da M. CROZIER et AL., "La
crisi della democrazia", Milano 1977.
Nota 9. J. HABERMAS, "Per la ricostruzione del materialismo storico",
Milano 1979. Nota 10. M. WEBER, "Il metodo delle scienze storico-sociali",
Torino 1964, pp. 301 sgg.
Nota 11. Su questi processi, a partire dal Diciannovesimo secolo, cfr. J.
HABERMAS, "Storia e critica dell'opinione pubblica", Bari 1971.
Nota 12. Sul processo di democratizzazione in relazione al conflitto cfr.
R. BENDIX, "Stato nazionale e integrazione di classe", cit.; F. NEUMANN, "Lo
stato democratico e lo stato autoritario", Bologna 1973.
Nota 13. K.W. DEUTSCH, "I nervi del potere", Milano 1971.
Nota 14. Per l'analisi di questi meccanismi resta fondamentale E.
GOFFMAN, "Where the Action is", in "Modelli di interazione", cit., pp. 167 sgg.
Nota 15. R. CASTEL et AL., op. cit., pp. 197 sgg.