Alessandro Dal Lago - La Produzione Della Devianza. Teoria Sociale e Meccanismi Di Controllo (2001)

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"Credo che oggi, esattamente come ventanni fa, il lavoro teorico ed

empirico sulle devianze vecchie e nuove debba sfuggire alle pretese della
terminologia positivistica delle scienze sociali e soprattutto dei meccanismi
politico-morali che esse innescano. Cos, un lavoro sulle scienze
dellimmigrazione potrebbe mostrare, allo stesso modo in cui Foucault ha
decostruito le idee di razza e di nazione, come il linguaggio "tecnico" della
demografia, della sociologia, delle relazioni internazionali, ecc. travesta spesso
la preoccupazione profonda di inferiorizzare i migranti, di tenerli a distanza,
di farne dei non-cittadini. In questa prospettiva, il saggio che viene riproposto
non che una prima lettura, inevitabilmente parziale delle procedure con cui le
moderne scienze hanno contribuito a spoliticizzare lesperienza".

Alessandro dal Lago

LA PRODUZIONE DELLA DEVIANZA


Teoria sociale e meccanismi di controllo

Copyright ombre corte, Verona.

Prima edizione: novembre 2000.


Prima ristampa: novembre 2001.

Indice
NOTA BIOGRAFICA
Prefazione alla seconda edizione
NOTE
Introduzione
NOTE
1. La nascita della patologia sociale
1. Il paradigma sociale.
2. La normalit introvabile.
3. La necessit della devianza.
NOTE
2. Devianze e conflitti
1. L'introiezione della devianza.
2. La crisi del modello sociologico classico.
3. L'emergere dei conflitti.
NOTE
3. Le trasformazioni dell'ordine

1. Crisi di legittimazione e devianza.


2. Conclusioni: la teoria sociale e il mito della devianza.
NOTE

NOTA BIOGRAFICA
ALESSANDRO DAL LAGO insegna Sociologia dei processi culturali
all'Universit di Genova. Ha pubblicato libri e saggi di argomento sociologico e
filosofico, e curato, tra l'altro, l'edizione italiana di opere di Hannah Arendt e
Michel Foucault. Da qualche anno si occupa di esclusione, fenomeni migratori e
conflitti globali. Tra i suoi ultimi lavori, "Nonpersone. L'esclusione dei migranti
in una societ globale" (Feltrinelli 1999), "Giovani, stranieri & criminali"
(Manifestolibri 2001) e la cura dei volumi collettivi "Lo straniero e il nemico.
Materiali per l'etnografia contemporanea" (Costa & Nolan 1997), "La politica
senza luoghi" ("aut aut", 298, luglio-agosto 2000, con Luca Guzzetti), "Un certo
sguardo. Introduzione all'etnografia sociale" (Laterza 2002, con Rocco De Biasi)
e per i nostri tipi "Giovani senza tempo. Il mito della giovinezza nella societ
globale" (2001, con Augusta Molinari). Attualmente lavora, con Emilio
Quadrelli, a una ricerca sui micro-conflitti urbani.

Prefazione alla seconda edizione


1. Il saggio qui presentato stato scritto vent'anni fa. I due decenni trascorsi
dalla pubblicazione ne mettono facilmente in evidenza i difetti, tra cui le lacune
bibliografiche, uno stile spesso faticoso e, come vedremo, qualche
semplificazione di troppo. Perch allora ripubblicarlo, accogliendo la gentile
proposta dell'editore? Perch non ho cambiato sostanzialmente idea sul tema
trattato, mi riconosco nell'intenzione metateorica (politica, se vogliamo) da cui
questo testo nato e quindi ne ritengo ancora valido l'impianto. In altre parole,
sono convinto, oggi come ieri, che i discorsi sociologici (e criminologici) sulla
devianza non debbano essere trattati tanto come ipotesi scientifiche su certi
aspetti della realt sociale, quanto e soprattutto come dispositivi che
"costituiscono" il proprio oggetto in base a strategie che hanno a che fare con il
potere (1). Un'idea tipicamente foucaultiana, che rivendico proprio in un
momento in cui ben pochi parlano di potere e soprattutto tentano di riprendere
le analisi storico-politiche di Foucault (2).
Torniamo brevemente all'epoca in cui questo saggio stato pubblicato,
vent'anni fa. Il tema del potere era centrale nei dibattiti filosofici e politici. A
partire dalla met degli anni '60, in Italia come nel resto del mondo sviluppato,
una conflittualit diffusa aveva investito sia le forme tradizionali e consolidate di
potere politico ed economico sia diverse articolazioni degli apparati di
produzione e riproduzione della societ (la scuola, la medicina, la psichiatria, i
sistemi repressivi, l'organizzazione della cultura). Sulla scia dei movimenti di
opposizione degli anni '60 e 70, non c'era aspetto della vita sociale che non fosse
sottoposto a interrogazioni radicali. Bench i tentativi allora prevalenti di
ricondurre la pluralit dei conflitti a una matrice unitaria risultino oggi
discutibili, indubbio che fossero all'opera forme ed espressioni originali di
"soggettivit" (come si diceva allora). Il loro tratto comune era sia la
riappropriazione (del reddito, del tempo, della vita), sia il rifiuto diffuso del
controllo istituzionale, nelle fabbriche, nelle scuole, nella produzione culturale.
Di fronte a questa effervescenza, le teorie politico-sociali disponibili erano
palesemente inadeguate. Le versioni prevalenti del marxismo (che a quell'epoca
costituiva ancora il quadro di riferimento principale del dibattito teorico (3))
non riuscivano a dare conto di una evoluzione dei conflitti che sfuggiva alla
tradizionale determinazione di classe. Ma lo stesso si poteva dire delle teorie
accademiche, soprattutto sociologiche, del conflitto. Debitrici anch'esse, in
qualche misura, di una versione semplificata del marxismo, applicavano ai
nuovi conflitti categorie tipiche di una societ industriale che cominciava gi a
deperire. Se si rileggono oggi le opere di Dahrendorf, Gouldner, Touraine,
Adorno o Habermas dedicate al conflitto si pu avvertirne sia il conservatorismo

di fondo sia la riluttanza a prendere sul serio conflitti i cui protagonisti non
erano pi (o soltanto) i lavoratori dell'industria, ma personaggi sfuggenti e poco
raccomandabili come studenti, femministe, giovani immigrati, militanti di base,
carcerati o devianti (4).
Non questo il luogo per stabilire se tali conflitti (e in particolare, almeno in
Italia, il movimento del 77) siano stati l'apice di un sommovimento profondo
(che si sarebbe comunque concluso, con un generale arretramento, nella palude
degli anni '80), oppure una forma marginale di resistenza contro l'evoluzione in
senso neocapitalistico e postindustriale della societ. Resta il fatto che essi, con il
loro retroterra sociale, quotidiano, di forme di vita in qualche modo estranee
all'indirizzo prevalente della societ e della politica, costringevano il potere o i
poteri a rivedere strategie, tattiche e forme di legittimazione. Mentre lo spazio
politico si chiudeva (penso alla sostanziale liquidazione della sinistra non
istituzionale gi alla fine degli anni 70) (5), quello sociale tentava di rimodellarsi
secondo linee di moderato riformismo pi vicino all'evoluzione delle societ
europee avanzate. Ancora all'inizio degli anni 70 le istituzioni della societ
italiana mostravano zone di arretratezza o di pre-modernit impressionanti. Un
paese in cui aborto e divorzio erano proibiti, in cui i tentativi di sovvertimento
autoritario erano all'ordine del giorno, in cui fabbriche, scuole, universit,
ospedali, carceri, manicomi erano gestiti spesso in modo ottocentesco non
poteva accogliere la sfida di uno sviluppo economico a cui gli apparati sociali e
istituzionali del dopoguerra stavano gi stretti. Cos, se lo spazio di una vera
opposizione politica diventava pressoch nullo, si avviavano limitate strategie di
modernizzazione e di prevenzione della conflittualit. Nella fase in cui il
capitalismo italiano si trasformava, lo stato sociale celebrava il suo trionfo
apparente ed effimero. Mentre l'innovazione cominciava a mettere in crisi i
modelli di gestione del conflitto nella grande industria (avviando la decadenza
delle rappresentanze sindacali che avevano cogestito i momenti di crisi sociale
pi acuta), la societ italiana sembrava avviata a un futuro scandinavo, come si
diceva allora, a forme di partecipazione politica pi avanzata e di estensione
delle garanzie sociali.
Nulla di tutto questo si avverato. Il "welfare state" entrava in crisi nello
stesso momento in cui la sinistra moderata, che in realt aveva sempre
partecipato in modo pi o meno occulto alla gestione del potere (6), si illudeva di
avere vinto. A una limitata modernizzazione delle istituzioni corrispondeva, gi
all'inizio degli anni '80, una tendenza diffusa al liberismo in economia e
all'autoritarismo democratico in politica. Con il crollo del muro di Berlino e
l'apparente liquidazione della prima repubblica, questo processo, che d'altra
parte si allineava alle tendenze prevalenti in tutto il mondo sviluppato, diveniva
travolgente. La societ italiana contemporanea sicuramente pi ricca e al

tempo stesso pi autoritaria di quella di vent'anni fa. Alla produzione normativa


(pi che altro innocua) nel campo dei "diritti", delle "pari opportunit", della
"sicurezza", eccetera corrispondono un disinteresse generalizzato per lo statuto
reale del lavoro, soprattutto atipico e nella piccola impresa, una vera e propria
restaurazione in campo penale (7), l'abbandono di qualsiasi vero programma di
umanizzazione delle prigioni e una politica migratoria sostanzialmente punitiva
e repressiva (8). Ma, su tutto ci, avremo modo di tornare alla fine di queste
pagine.
2. In breve, l'inizio degli anni '80 aveva alla spalle una sconfitta radicale della
sinistra (le cui conseguenze si avvertono ancora oggi) in un contesto pi che altro
apparente di modernizzazione. in questo quadro che si colloca esattamente il
saggio qui ripubblicato. Dal mio punto di vista, si trattava di comprendere quali
strategie fossero all'opera nella definizione delle nuove forme di controllo
sociale, di gestione non meramente repressiva dell'ordine, con lo sguardo rivolto
soprattutto alle democrazie pi avanzate e moderne. Perch occuparsi di questo
problema dal punto di vista tutto sommato marginale della "devianza"? Per
almeno due ragioni, che ancora oggi mi sembrano buone. La prima era la
spinta, innescata dai lavori teorici e storici di Michel Foucault, a studiare il
funzionamento del potere in termini di "microfisica" (9), cio al livello del
funzionamento concreto delle pratiche istituzionali. La seconda era costituita
dall'interesse per il ruolo dei "sistemi di pensiero" (anche quelli apparentemente
pi specializzati e secondari) nella costituzione del mondo sociale e nella
gestione dei suoi conflitti (10). Verso la fine degli anni 70, circolava, nelle scienze
umane e sociali, una salutare aria anti-positivistica, che si alimentava a diverse
correnti di pensiero: dal metodo genealogico di Foucault alla svolta
interpretativa in antropologia e alla nuova sociologia della scienza, dalla
sociologia fenomenologica alla riscoperta del Wittgenstein delle "Ricerche
filosofiche", con il suo interesse per le pratiche linguistiche e cognitive naturali e
quotidiane n. In breve, mi sembrava interessante rileggere, alla luce di queste
tendenze di ricerca e nel quadro di una trasformazione evidente della societ
italiana (e non solo), il capitolo apparentemente secondario delle scienze sociali
dedicato alla devianza, alla sua prevenzione e alla sua repressione.
In realt, lavorando su questo capitolo, balzava subito agli occhi come la sua
rilevanza fosse ben pi ampia dello spazio che gli era riservato dalla
manualistica sociologica. Come la ricerca storica aveva messo in luce, tutto il
Diciannovesimo secolo ossessionato dal crimine, dal disordine urbano e dal
contenimento delle "classi pericolose" (12). D'altra parte, difficile credere che
il programma scientifico della sociologia si sarebbe affermato, in modo pi o
meno effimero, tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, senza l'ossessione per
l'ordine microfisico, per il controllo dei conflitti, per la prevenzione di quello che

Victor Hugo ha chiamato un "colpo di stato dal basso", la perenne minaccia


dell'ordine sociale da parte del mondo del crimine. Ora, spostando la
prospettiva dall'interno all'esterno delle scienze sociali - assumendo cio uno
sguardo neutrale o indifferente rispetto alle loro preoccupazioni fondative (ci
che in fondo Foucault realizzava con le sue proposte epistemologiche pi
innovative, l'archeologia e la genealogia) - veniva alla luce la sostanza
"mitologica" sia della metodologia delle nuove sciente sociali, sia e soprattutto
delle loro ossessioni per l'ordine. Con mitologia non si deve intendere qualcosa
di simile all'ideologia o alla "falsa coscienza" (come se potesse esistere una
coscienza "vera" degli stessi problemi), quanto una costruzione normativa, in
modo analogo al ruolo che le narrazioni mitologiche svolgono nelle grandi
religioni.
Siamo naturalmente in una dimensione infinitamente meno suggestiva dei
miti religiosi millenari. In ogni modo, un'analisi dello sviluppo dei sistemi
classici di pensiero sociale (e non parlo degli "ideologues" o di Saint-Simon, ma
di Comte, Le Play, Spencer e in fondo di Durkheim) poteva mostrare come
l'ordine e il disordine che essi dicevano o pensavano di descrivere era in realt
qualcosa che costruivano, utilizzando certamente materiali empirici (o che
ritenevano tali) ma rimodellandoli in narrazioni la cui metafora principale era
politico-morale e non scientifica (13). Ci risulta evidentissimo nella teoria
sociale francese, influenzata dal socialismo utopistico, ma non estraneo ad
altre tradizioni di pensiero (baster citare, anche se su un versante diverso,
Lorenz von Stein) (14). Tutto questo in fondo noto. Lavorando per sulle teorie
microfisiche dell'ordine appariva come la sociologia vera e propria, quella che si
pretendeva scientifica, trascinasse con s lo stesso bagaglio mitologico dei
fondatori. Che cos' se non mitologia il "sistema di valori condivisi" di Parsons e,
in generale dei funzionalisti (le "mete culturali" di R.K. Merton), oppure
l'autoregolazione dei sistemi sociali" o anche la "comunicazione ideale" con cui
Habermas ha cercato, senza grande successo, a dire il vero, di chiudere una
volta per tutte il discorso sociologico? C' sempre qualcosa di religioso, anche se
secolarizzato e travestito con le terminologia del momento (organicista,
cognitivista, comunicativa) in tutti questi tentativi di dotare di un centro morale
o di un cuore quella strana e sfuggente realt chiamata societ (15). Lavorando
sullo sviluppo delle teorie della devianza nel nostro secolo, si pu scoprire come
l'ossessione sociologica per una sorta di religione sociale abbia avuto, tra gli altri
scopi, la traduzione delle "deviazioni" da un comportamento standard - ovvero le
forme empiriche di disordine - in "problemi" della personalit, della
socializzazione o dell'educazione. In altri termini, la sociologia, alla pari di
qualsiasi altro sistema di credenze secolarizzato, una sorta di narrazione
morale che tuttavia, a differenza dei sistemi di pensiero ottocenteschi, si spinge
fino a precisare nei minimi dettagli il proprio catechismo (16).

Nel mio saggio ho cercato di documentare, dai primordi nel Diciannovesimo


secolo fino a oggi, questa vocazione morale (o moralistica) della teoria sociale.
Al di sotto del gergo scientifico si scopre facilmente la preoccupazione, politicomorale pi che scientifica, di fissare il confine tra ci che socialmente lecito e
ci che non lo . Ma, a differenza della morale dei filosofi, che dopotutto hanno
tentato di definire significati come "giustizia", "equit", eccetera, quella
sociologica non mai riuscita a definire gli standard del normale o del lecito (se
si prescinde da teorie che oggi suonano abbastanza bizzarre come l'"uomo
medio" di Quetelet). La normalit qualcosa che la teoria sociale ha sempre
presupposto senza per chiarirne i contenuti e gli ambiti. Al suo posto, ha
perseguito piuttosto la "conoscenza" dell'anormalit, nelle sue varie forme
empiriche (anomia, devianza, disorganizzazione, crimine, conflitti).
Ovviamente, il socialmente lecito non poteva essere fatto coincidere con la
"legalit", se non altro perch le scienze sociali sapevano bene che legale e
illegale sono concetti strettamente dipendenti dalle definizioni dei sistemi
normativi concreti (quelli giuridici), che a loro volta sono il prodotto di
deliberazioni, negoziazioni e processi tipicamente sociali. Con l'eccezione di
Durkheim (17), la sociologia classica ha eluso perci il problema, o meglio l'ha
dislocato, concentrandosi sulla spiegazione delle trasgressioni, delle deviazioni
dall'ordine. Non difficile accorgersi che c' qualcosa di tautologico in questo
modo di procedere. Se la normalit non definita "esplicitamente" - e non
potrebbe esserlo, perch allora il senso ideologico o apologetico dell'operazione
sarebbe scoperto, poco scientifico - con che diritto si qualificano come devianti
un gran numero di comportamenti empirici? Con nessuno, a meno di non
riconoscere che in questo caso non si fa scienza, non si scopre qualcosa, ma lo si
costruisce, lo si inventa. Ecco, in poche parole, la produzione della devianza.
Scorrendo la letteratura sociologica che va, grosso modo, dagli anni '30 alla
fine del secolo Ventesimo, si trova che, volta per volta, sono stati (e sono)
considerati casi empirici di devianza (al di fuori dei crimini pi gravi come
rapina, omicidio, stupro, spaccio di droga, eccetera): la prostituzione, ma anche
il lavoro delle "entraneuses" nelle "taxi-dance halls" o, pi recentemente, in
locali notturni o discoteche, il vagabondaggio e un gran numero di stili di vita
marginali, i vari gradi di alcolismo e il consumo di droghe leggere,
l'appartenenza a culture o sottoculture giovanili, l'accattonaggio, l'evasione
dell'obbligo scolastico, innumerevoli forme di protesta urbana, le cosiddette
malattie mentali e in generale i "disturbi del comportamento". Alcuni teorici
fanno rientrare nella devianza anche la non conformit alla cultura aziendale sul
luogo di lavoro, dal "ritualismo" al rifiuto del lavoro o al sabotaggio passivo. Pi
recentemente viene fatta rientrare nella devianza anche quella che i francesi
chiamano l'"incivilit", che potremmo tradurre come "comportamento
socialmente molesto" (dagli schiamazzi all'ubriachezza o all'urinare in

pubblico). In pratica non c' comportamento per cos dire non conforme (o non
conformista) che non possa essere arruolato nella devianza e quindi "spiegato"
con qualche modello eziologico (in termini sociali, beninteso).
Si comprende pertanto che il modello implicito e mai dichiarato di
"conformit", (nella teoria struttural-funzionalista, che ha dominato la scena
sociologica per gran parte del Ventesimo secolo) ad altro non rimanda che
all'"uomo in grigio", l'abitante dei "suburbs". Costui infatti definito
precisamente dal non cadere nella tentazione o nella pratica dei comportamenti
devianti citati sopra. Non credo che sia necessario grande acume sociologico per
scoprire che il cittadino conforme quello che non partecipa ad alcun tipo di
conflitto, non si mescola a culture marginali, alternative o antagoniste, non
soffre di problemi personali, mentali o di comportamento, insomma definito in
tutto e per tutto da quello stile di vita che un certo cinema americano ha diffuso
con successo fino all'avvento del fatale '68 (di qua e di l dall'Oceano Atlantico).
Un personaggio altrettanto irreale del protagonista di "Truman Show". Con la
differenza che questo, insieme al suo spensierato mondo di favola, l'esplicito
risultato di una "fabrication" televisiva mentre l'attore conforme di Parsons (e in
generale delle teorie della devianza e del controllo sociale) un pallido profilo o
tutt'al pi l'immagine idealizzata che le mamme americane, prima della guerra
del VietNam, potevano accarezzare per i loro figli.
Tutto ci stato spazzato via, in America come in Europa, dai conflitti dagli
anni '60. La stessa sociologia americana (in un clima di radicalismo teorico di
cui oggi sono rimaste poche tracce) ha decostruito l'immagine del controllo
sociale e della devianza che la teoria sociale aveva elaborato scolasticamente.
Senza essere esplicitamente politicizzati, un gran numero di teorici e ricercatori
sovvertivano gli stessi presupposti della teoria sociale conservatrice. In poche
parole, cercavano di rimettere con i piedi per terra la sociologia, ripartendo,
anche loro, dalle pratiche quotidiane, lavorando come etnografi delle istituzioni
giudiziarie e del controllo sociale, mostrando l'inconsistenza di quei valori o
"orientamenti normativi" che la sociologia aveva fin l messo alla base di
qualsiasi analisi dell'ordine e del disordine. Da un gran numero di ricerche
risultava, in breve, che era un certo ordine a produrre il disordine, il controllo
sociale (come gi aveva compreso Durkheim, nonostante tutto) a produrre la
devianza. Non che questa nuova sociologia negasse l'esistenza o l'esigenza di un
ordine sociale (come appare per esempio da recenti interpretazioni di alcuni
sociologi divenuti classici come Goffman) (18). Ma i meccanismi di gestione
dell'ordine erano smontati fino a mostrare come, in ultima analisi, fosse
l'etichettamento ("labelling") di certi comportamenti a creare la devianza. Non
necessariamente intenzionale, ma effetto del funzionamento quotidiano,
normale, degli apparati amministrativi e di controllo (scuole, tribunali, ospedali,

prigioni) e dell'azione degli "esperti" (psichiatri, avvocati, giudici, assistenti


sociali, eccetera), l'etichettamento veniva definito come un processo circolare in
cui alla fine il "deviante", indipendentemente dalle sue reazioni, o adattamenti,
personali (l'acquiescenza, la ribellione, il rifiuto, eccetera) era in tutto e per tutto
il prodotto finale di un sistema di fabbricazione della realt. Gli studi pi
importanti di questa tradizione di ricerca (19) e di altre affini (di Sudnow sulla
difesa d'ufficio, di Goffman sugli ospedali psichiatrici, di Becher sulla
stigmatizzazione delle sottoculture, di Cicourel sulla giustizia minorile, di Schur
sulle pratiche giudiziarie, di Scheff sulla carriera dei malati mentali, di J.D.
Douglas sulla moralit quotidiana, e cos via) mettevano in scena in altri termini
una vera e propria microfisica del potere alternativa alle vacue manipolazioni
concettuali della sociologia accademica.
Il lettore noter che nel presente saggio gli autori in questione (esponenti di
una sociologia che un critico come Gouldner (20) riteneva espressione di una
moda pi o meno "hippy") sono trattati con simpatia ma con una certa
sufficienza. Anch'io pensavo che il loro contributo, per quanto innovativo e
salutare, si arrestasse alla soglia della spiegazione dei conflitti politici,
costituisse insomma una versione "liberal" (sia nella metodologia sia nei
contenuti) di una teoria che restava comunque ancorata ai presupposti della
sociologia accademica. In particolare, mi sembrava che facendo in un certo
senso del deviante una vittima, questa corrente sociologica svalutasse il
contenuto implicito o esplicito di protesta della sua azione (come, per esempio,
nei "riots" che, dagli anni '60 ad oggi, sconvolgono periodicamente, i ghetti
neri). Riconosco che il mio giudizio di allora era riduttivo. In realt,
indipendentemente dal loro (relativo) disinteresse per la dimensione politica
della marginalit e della devianza, i "labelling theorists" e in generale i sociologi
"costruttivisti" della devianza e del controllo sociale rappresentano ancora oggi
un momento insuperato di rinnovamento della ricerca sociale. Infatti, adottando
metodologie soprattutto qualitative, non positivistiche (osservazione diretta e sul
terreno, tecniche etnografiche, eccetera), e cercando di documentare il "punto di
vista" degli attori e le loro esperienze, questi ricercatori dimostravano la
possibilit di dar vita non tanto a una sociologia alternativa, quanto a modi
diversi, indipendenti e soprattutto non ideologici di studiare i diversi stili di vita
non conformi che ricadono sotto l'etichetta generica di devianza. Quanto queste
esperienze di ricerca fossero innovative mostrato, oltretutto, dalla successiva
restaurazione (che dura a tutt'oggi) di una scienza sociale conformista.
3. La restaurazione in questione non estranea alla spettacolare conversione
liberista del mondo sviluppato (21). Dopo l'avvento e il successo politico delle
amministrazioni Thatcher e Reagan, e soprattutto dopo la scomparsa del
nemico storico, il socialismo reale, le societ occidentali hanno riscoperto

progressivamente il mercato come unico modello economico e culturale. Il


"Welfare State" che, in misura diversissima nelle diverse societ occidentali, era
stato conquistato nel corso del Ventesimo secolo veniva progressivamente
smontato a favore della progressiva ingerenza del settore privato in tutto il
territorio "sociale". Si tratta naturalmente di una tendenza discontinua e
differenziata, ma in qualche misura fatale da quando anche la sinistra moderata
l'ha sottoscritta.
Nel presente saggio, questa trasformazione neoliberista era appena avvertita.
Nessuno poteva prevedere allora il trionfo dei mercati globali che costituiscono
la condizione principale della "deregulation" (soprattutto dei rapporti di lavoro)
in tutto il mondo. All'epoca della prima edizione di questo saggio, la mia
preoccupazione era piuttosto mostrare come il controllo sociale stesse
assumendo forme di autoritarismo morbido, coinvolgente, orientato pi sul
disinnesco preventivo dei conflitti che sulla loro repressione violenta.
Qui il discorso esige delle precisazioni. Da una patte, credo che la diagnosi
sia stata confermata dall'evoluzione delle istituzioni giudiziarie e di polizia.
Parlando solo del caso italiano, fuori discussione che il vecchio apparato
repressivo, quello che per intendersi aveva contenuto aspramente i movimenti
sociali degli anni '60 e 70, ha conosciuto delle profonde trasformazioni
organizzative e ideologiche. Chiusa la partita con la lotta armata (grazie anche a
provvedimenti eccezionali di cui uno storico come Ginsborg ha riconosciuto la
dubbia compatibilit con un ordinamento democratico (22)), marginalizzati i
movimenti alternativi, esauritisi i tentativi di sovversione autoritaria (23), da
una parte gli apparati di controllo si sono "democratizzati" e, dall'altra, hanno
impostato la loro azione quotidiana sull'interazione produttiva con la societ
locale piuttosto che sul suo controllo centrato e verticistico (24). In realt, come
si intuiva qui pi o meno sommariamente, il controllo dispotico e minuzioso,
quel "quadrillage" del territorio sociale che gli stati moderni (e in realt anche le
scienze sociali) avevano perseguito tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo,
viene definitivamente abbandonato a favore della "societ dei controlli"
(Deleuze), in cui tutti controllano tutti o, meglio, un gran numero di agenzie
private e pubbliche controllano in modo pluralistico e decentrato attivit,
consumi, comportamenti e spostamenti dei cittadini. Lo sviluppo
dell'informatica, che vent'anni fa conosceva solo le primissime e rudimentali
applicazioni, ha fatto del controllo sociale (anche in Italia) una delle imprese pi
complesse, pervasive e incontrollabili della nostra societ postmoderna (25).
Dire che gli apparati di controllo interagiscono con la societ locale non
significa che siano divenuti "pi buoni" o al servizio dei cittadini, ma
semplicemente che rispondono attivamente alla domanda d'ordine che, oggi pi

di ieri, viene espressa da alcuni settori della societ locale o dai loro esponenti o
imprenditori politici. Venti o venticinque anni fa, bench la conflittualit fosse
molto pi diffusa di oggi, la domanda di ordine era soprattutto politica,
coincideva quasi esclusivamente con la volont dell'opinione pubblica moderata
(la cosiddetta "maggioranza silenziosa" degli anni 70) di reprimere o
emarginare la protesta. Oggi, la domanda riguarda soprattutto la "sicurezza",
cio la protezione dei "cittadini" dalla microcriminalit. In questo senso, l'azione
della polizia e delle altre agenzie pubbliche si identifica con i bisogni di una
maggioranza che si esprime nella societ locale, e che ha trovato espressione
politica sia in forme di aggregazione urbane, "dal basso" (i comitati "sicuritari"
sorti soprattutto nel nord del paese), sia in movimenti localisti o regionalisti
come la Lega Nord (26). Ci troviamo di fronte, in questo caso, a un'evoluzione
non limitata al solo caso italiano. Per comprenderla necessario ripartire da un
dato elementare, cio la fine della protesta politica e sociale negli ultimi due
decenni. I problemi di "ordine pubblico", centrali nell'agenda politica fino a tutti
gli anni 70, sono letteralmente svaniti, dopo la scomparsa dei movimenti
studenteschi e la fine dei conflitti sui luoghi di lavoro (gli interventi delle forze di
polizia in questi campi tradizionali si contano sulle dita di una mano negli anni
'80 e '90). Contemporaneamente, il codice dell'ordine pubblico si riorientato
in senso esclusivamente criminale, realizzando cos una paradossale regressione
a una cultura "ottocentesca" (27). Infatti, pressoch tutto l'occidente
ossessionato, pi o meno come centocinquant'anni fa, dal problema della
sicurezza nelle strade, del contenimento della delinquenza, in breve dall'ordine
microfisico (28).
In realt, nessun dato giustifica questa ossessione. Come le statistiche penali
confermano periodicamente, gli anni '90 hanno visto una diminuzione costante
dei reati (e in particolare dei pi gravi, omicidi, rapine, eccetera) e un lieve
aumento di quelli minori (scippi, furti negli appartamenti). Il vero
cambiamento, rispetto al passato, riguarda l'allarme sociale e soprattutto
l'attribuzione agli immigrati dell'apparente crescita dell'"insicurezza". Le
ragioni di questa spettacolare criminalizzazione dei nuovi marginali o esclusi
(che ripropone su scala pi ampia sia la teoria durkheimiana del delitto come
innovazione sia quella pi recente dell'etichettamento) sono meno complesse di
quanto si creda. Da una parte rimandano agli effetti sociali del liberismo e del
deperimento dello stato sociale (alla situazione di incertezza generalizzata della
maggioranza dei cittadini, anche in una situazione di benessere (29)). Dall'altra
allo sfruttamento della paura dei migranti come risorsa politico-mediale (30).
Oggi, sono i migranti provenienti dai paesi poveri a rivestire quel ruolo di
"classi pericolose" che centocinquant'anni fa era riservato alla classe operaia. La
loro natura sociale di esclusi per definizione (di persone prive di status giuridico

certo, anche se ammesse, formalmente o no, a risiedere per qualche anno nelle
societ di immigrazione) fa s che su essi convergano le paure irrazionali delle
societ locali, i pregiudizi amplificati dai media, il cinismo di gran parte del
sistema politico (che ha trovato i suoi capri espiatori a buon mercato). Non si
tratta soltanto di procedure pi o meno ritualizzate di stigmatizzazione, ma di un
processo complesso a cui non estraneo l'impiego di una forza-lavoro
sottopagata e soprattutto subordinata. L'esclusione anche violenta degli stranieri
del tutto complementare allo sfruttamento della loro marginalit
nell'economia informale. In nome della loro potenziale "pericolosit", gli
stranieri (migranti o profughi che siano) costituiscono oggi una fascia sociale
priva di riconoscimento, di garanzie reali, dei veri e propri "meteci", che le
societ di immigrazione sfruttano a loro piacimento, salvo poi darli in pasto alle
paure pi irrazionali delle cittadinanze locali o dei loro supposti rappresentanti
politici (31).
Vent'anni fa, quando l'Italia non era ancora un paese di immigrazione,
notavo come la paura dei devianti fosse una formidabile risorsa politico-morale
per stati la cui legittimazione era sempre pi problematica. E suggerivo anche
come fosse indispensabile contrapporre a questa immagine (oltre che ai vari tipi
di gestione morbida e consensuale del controllo sociale) quella del diritto a
comportamenti non conformi. La cosiddetta devianza, come era stato
ampiamente documentato dalla sociologia "liberal", molto spesso non
esprimeva che l'aspirazione a forme diverse, anche se oscure e talvolta
irrazionali, di socialit: da quelle sottoculturali (come l'uso delle droghe leggere)
a quelle pi o meno inconsciamente politiche (la protesta sociale). Questa
posizione mi sembrava inoltre rientrare nella tendenza a uno sviluppo della
democrazia sostanziale.
Il fatto che oggi le devianze vengano fatte coincidere sostanzialmente con la
condizione "tout-court" di straniero (e non solo in Italia) mi spingono a
confermare la posizione di vent'anni fa. Con la differenza che qui non pi in
gioco (soltanto) l'innovazione sociale, il riconoscimento di forme di agire che
non rientrano nel senso comune, compreso quello delle scienze sociali, ma una
nuova declinazione della libert. Infatti, la stessa condizione di migrante e di
profugo, qualcuno che cerca di evadere per qualsiasi motivo dal "proprio"
ordine sociale, economico e politico, viene fatta coincidere con quella di
deviante, anche se il suo comportamento non minaccia nessuno e, in realt, egli
paga pi di chiunque altro questa pretesa (32). L'attuale equazione
"immigrazione uguale criminalit", agitata nelle nostre societ opulente, cerca
dunque di falsificare la pretesa politica (in poche parole, una nuova idea di
cittadinanza globale, anche se "in nuce" o inconsapevole) contenuta nella stessa
esistenza dei migranti (33).

Credo che oggi, esattamente come vent'anni fa, il lavoro teorico ed empirico
sulle devianze vecchie e nuove debba sfuggire alle pretese della terminologia
positivistica delle scienze sociali e soprattutto dei meccanismi politico-morali
che esse innescano. Cos, un lavoro sulle scienze dell'immigrazione potrebbe
mostrare, allo stesso modo in cui Foucault ha decostruito le idee di razza e di
nazione (34), come il linguaggio "tecnico" della demografia, della sociologia,
delle relazioni internazionali, ecc. travesta spesso la preoccupazione profonda di
inferiorizzare i migranti, di tenerli a distanza, di farne dei non-cittadini. In
questa prospettiva, il saggio che viene riproposto non che una prima lettura,
inevitabilmente parziale (anche se, forse, non del tutto superata) delle procedure
con cui le moderne scienze hanno contribuito a spoliticizzare l'esperienza.
Genova, luglio 2000.

NOTE
Nota 1. Diciamo che si tratta "anche" di ipotesi scientifiche. Sul concetto
foucaultiano di dispositivo vedi ora G. DELEUZE, "Che cos' un dispositivo", in
"Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori", Verona 1999,
pp. 67 sgg.
Nota 2. Tra questi pochi vorrei ricordare S. CATUCCI, "Introduzione a
Foucault", Roma-Bari 2000.
Nota 3. Nei primi anni '80 si assister a uno spettacolare abbandono, da
parte di un gran numero di intellettuali di spicco, della terminologia marxista a
favore di quella liberale (e, in una minoranza, teologico-politica). Solo un lavoro
storico specifico potrebbe documentare le ragioni profonde (non sempre nobili e
disinteressate) di questo cambiamento. Mi limito solo a notare che il
dogmatismo con cui molti ripetevano la lezione marxiana venti o venticinque
anni fa si ritrova facilmente nella nuova doxa liberale.
Nota 4. C' naturalmente qualche eccezione, anche in Italia, bench
l'interesse sociologico si sia rivolto soprattutto alle espressioni culturali e
artistiche dei nuovi movimenti pi che a quelle politiche. All'atteggiamento di
sufficienza con cui la sociologia accademica ha trattato i movimenti non
istituzionali e i loro protagonisti si pu contrapporre l'opera di un ricercatore
atipico come Danilo Montaldi. Oltre ai suoi classici "Autobiografie della
leggera", Torino 1972 (seconda ed.), e "Militanti politici di base", Torino 1971, si
veda ora "Bisogna sognare. Scritti 1952-1974", Milano 1994.
Nota 5. Su questo passaggio si vedano ora le osservazioni di P. GINSBORG,
"Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi", Torino 1998.
Nota 6. Si vedano, su questo punto, le riflessioni di A. Pizzorno in "La politica
assoluta e altri saggi", Milano 1994.
Nota 7. Nel momento in cui termino queste note (luglio 2000), la stampa ha
diffuso due sentenze esemplari comminate a Bologna ad alcuni immigrati. Due
sono stati condannati a 15 anni di prigione per aver spacciato 1 grammo di
eroina e altri due a 14 mesi per rissa.
Nota 8. Per chi considerasse eccessivi questi giudizi conviene ricordare che
gli osservatori internazionali sul rispetto dei diritti umani (che ricorrono a
indicatori come la durata dei processi penali, i processi per reati d'opinione,

situazione delle carceri, eccetera) pongono l'Italia all'ultimo posto nella


classifica dei paesi Ocse, cio sviluppati. E questo dopo un decennio circa di
governi di centrosinistra, con la breve parentesi del governo Berlusconi. Sulle
politiche migratone nell'Italia dell'ultimo decennio, e soprattutto sulla
stigmatizzazione dei migranti, cfr. A. DAL LAGO, "Non-persone. L'esclusione
dei migranti in una societ globale", Milano 2000.
Nota 9. M. FOUCAULT, "Microfisica del potere", a cura di A. Fontana e P.
Pasquino, Torino 1977. Cfr. anche Io., "Dits et crits", Gallimard 1994, 4 voli. Gli
scritti di Foucault degli anni '70, cruciali per la comprensione della
"microfisica", sono ora tradotti, a mia cura, in "Archivio Foucault, Vol. II:
Poteri, saperi, strategie", Milano 1996.
Nota 10. Anche in questo caso, l'insegnamento di Michel Foucault era
fondamentale. Cfr. il suo "Le parole e le cose", Milano 1966.
Nota 11. Si potrebbero unificare queste scuole o correnti di pensiero con
l'etichetta, un po riduttiva ma non falsificante, di "costruttivismo". Alle pratiche
di costruzione della realt tipiche del mondo sociale corrisponde l'attivit teorica
ed empirica nelle scienze sociali come svelamento di tali pratiche e non come
conoscenza "oggettiva". Cfr. M. SPUCTOR e J. KITSUSE, "Constructing social
Problems", Chicago 1987. In sociologia, la corrente pi radicale del
costruzionismo sicuramente l'etnometodologia (cfr. il classico H.
GARFINKEL, "Studies in Ethnomethodology", Englewood Cliffs (N.J.) 1967.
Nota 12. Baster citare un classico della storiografia come L. CHEVALIER,
"Classi laboriose e classi pericolose", Bari 1976. Un'ossessione letteraria e
giornalistica prima che "scientifica", cio sociologica e criminologica. W.
LUPENIES, "Le tre culture. Sociologia tra letteratura e scienza", Bologna 1987,
ha messo in luce lo scambio reciproco tra immaginario letterario e immaginario
sociologico nel Diciannovesimo secolo.
Nota 13. Credo che gli sviluppi contemporanei delle scienze sociali abbiano
ampiamente confermato questa tendenza fondativa. Certamente, le scienze
sociali hanno sviluppato raffinati metodi empirici, qualitativi e quantitativi, e
possono vantare oggi un patrimonio di conoscenze tecniche e "neutrali"
imponente. Quando per tentano di formulare ipotesi teoriche generali, non
rinunciano alla loro vocazione politico-morale. Si pensi al ruolo di teorici come
Giddens, Habermas, eccetera.
Nota 14. Per ragioni che qui sarebbe troppo lungo discutere, il solo Weber,

tra i cosiddetti padri fondatori delle scienze sociali non rientra in questo
modello. Ma cfr. il mio "L'ordine infranto. Max Weber e i limiti del
razionalismo", Milano 1983.
Nota 15. C' quasi sempre un movimento tautologico nella pretesa della
teoria sociale di stabilire un sistema normativo capace di regolare, ai vari livelli,
l'organizzazione sociale. Prima si presuppone l'esistenza di un sistema ideale,
traendolo o dall'evoluzione della societ cos come si espressa nella storia delle
idee (Parsons) o dall'"evidenza" (Habermas), e poi gli si attribuisce la capacit
effettiva, concreta, di regolazione. Da questo punto di vista, il passaggio a una
teoria sistemica basata sul funzionamento delle procedure sociali e
amministrative, come in Luhmann, senz'altro un tentativo di uscire da questa
storica impasse della sociologia.
Nota 16. E quasi superfluo aggiungere che questo vale anche per altri saperi,
come la psicologia, la psicanalisi, la pedagogia e, in fondo, anche l'economia. Il
gergo scientifico e il metodo pi o meno formalizzato riescono a nascondere
raramente la retorica morale che li sottende. Se non altro, la filosofia morale,
che oggi sopravvive rigogliosamente nella produzione di lingua inglese, ha il
merito di chiamare le cose con il loro nome.
Nota 17. Come vedremo pi avanti, Durkheim il solo sociologo classico ad
aver compreso - grazie alla sua sensibilit antropologica, probabilmente - le
funzioni rituali del reato e della sua punizione, della devianza e della sua
stigmatizzazione. Per alcune considerazioni sull'attualit delle sue posizioni, cfr.
il mio "La tautologia della paura", in "Rassegna italiana di sociologia", 1, 1999.
Nota 18. Cfr. P.P. GIGLIOLI, "Presentazione" a E. GOFFMAN, "L'ordine
dell'interazione", Roma 1997.
Nota 19. Per un'utile presentazione di queste tendenze, limitata comunque
alla sociologia criminale, cfr. S. HESTER e P. ENGLIN, "Sociologia del
crimine", Lecce 1999. Per avere un'idea del significato metodologico delle
ricerche in questione, dei loro antecedenti e delle correnti affini ancora utile M.
CIACCI (a cura di), "Interazionismo simbolico", Bologna 1983: cfr. anche A.
DAL LAGO e P.P. GIGLIOLI (a cura di), "Etnometodologia", Bologna 1983. La
migliore introduzione ai metodi "naturalistici" in questo campo di ricerca resta
D. MATZA, "Come si diventa devianti", Bologna 1969. Molto meno incisivo A.
GIDDENS, "Le nuove regole del metodo sociologico", Bologna 1976.
Nota 20. A.W. GOULDNER, "La crisi della sociologia", Bologna 1973 e ID.,

"For Sociology", Harmondsworth 1973.


Nota 21. Non saranno necessari qui riferimenti specifici. Sarebbe tedioso per
il lettore documentare come la diffusione indiscussa dei metodi quantitativi,
insieme all'adozione implicita del punto di vista delle agenzie governative e del
controllo sociale, abbia nuovamente imposto una concezione standardizzata
della devianza.
Nota 22. P. GINSBORG, "Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi", cit.
Nota 23. G. de Lutiis, in "Il lato oscuro del potere", Roma 1998, offre
un'analisi accurata della sovversione di estrema destra e soprattutto dei suoi
rapporti organici con gli apparti pi nascosti dello stato e i servizi segreti dei
paesi stranieri.
Nota 24. Si veda S. PALIDDA, "Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo
controllo sociale", Milano 2000, che costituisce sicuramente la sola opera di
rilievo dedicata alle polizie e alle loro trasformazioni nel nostro paese.
Nota 25. D. LYON, "L'occhio elettronico. Privacy e filosofia della
sorveglianza", Milano 1997.
Nota 26. R. BIORCIO, "La Padania promessa, ha storia, le idee e la logica
d'azione della Lega nord", Milano 1997.
Nota 27. Per questo paragone, cfr. la mia postfazione a Z. BAUMAN, "La
solitudine del cittadino globale", Milano 2000.
Nota 28. La letteratura internazionale sulla questione dell'insicurezza urbana
oggi enorme. Per una rassegna cfr., oltre che S. PALIDDA, "Polizia
postmoderna", cit., E CARRER, "Sicurezza in citt e qualit della vita", Roma
2000.
Nota 29. Dei sociologi contemporanei, Z. Bauman sicuramente quello che
ha compreso meglio questi effetti perversi. Oltre che "La solitudine del cittadino
globale", cit., si veda il suo "La societ dell'incertezza", Bologna 1999. La
matrice teorica di questa "sociologia dell'incertezza" comprende inoltre U.
BECK, "Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne", Frankfurt a.
M. 1986.

Nota 30. Il migliore studio in questione resta M. MANIERI, "Stampa


quotidiana e senso comune nella costruzione sociale dell'immigrato", Tesi di
Dottorato in Sociologia, Universit di Trento 1995. Cfr. inoltre "Etnografia
dell'immigrazione", numero speciale, "Rassegna italiana di sociologia", 1, 1999.
Sulla paura degli immigrati come risorsa politica, cfr. il mio "Non-persone", cit.
Nota 31. In questo quadro abbastanza sconfortante rientra anche la
sostanziale incomprensione, per non dire di peggio, di parte della sinistra del
ruolo economico degli stranieri. Ancora in questa estate del 2000 si possono
leggere interventi, sui quotidiani di sinistra, sull'immigrazione come fattore di
peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia nazionale.
Nota 32. Su questo punto sono fondamentali le riflessioni di A. SAYAD, "La
doppia pena del migrante. Riflessioni sul 'pensiero di stato", "aut aut", 275, 1996
e ID., "La double absence. Des illusions de l'migr aux souffrances de
l'immigr", Paris 1999.
Nota 33. Per un'analisi approfondita delle questioni politiche implicate dal
diritto di movimento e attraversamento delle frontiere, cfr. S. MEZZADRA,
"Cittadini della frontiera e confini della cittadinanza", in A. DAL LAGO e L.
GUZZETTI (a cura di), "Politica senza luoghi", numero speciale di "aut aut",
298,2000. Si veda, inoltre, S. MEZZADRA e A. PETRILLO, "I confini della
globalizzazione. Culture, lavoro, cittadinanza", Roma 2000.
Nota 34. M. FOUCAULT, "Bisogna difendere la societ", Milano 1998.
Nota. - Ho lasciato pressoch inalterato il testo della prima edizione di questo
saggio, limitandomi alla correzione dei refusi e di pochi termini ed espressioni
che oggi mi sembrano inaccettabili da un punto di vista stilistico. Per rendere la
lettura meno faticosa ho introdotto dei capoversi, e ho cambiato la
punteggiatura quando mi sembrato necessario. Ho inserito inoltre tra
parentesi quadra alcune note esplicative. Sempre tra parentesi quadra ho
riportato i titoli italiani delle opere citate in lingua straniera tradotte e
pubblicate dopo la prima edizione di questo saggio.

Introduzione
Siamo ormai inseparabili dal nostro essere sociale. Pi di un secolo di
discorsi scientifici sulla societ ha contribuito a trasformare l'autocoscienza
degli abitanti dell'occidente in autocoscienza sociale. Ci significa che le
articolazioni del potere, soprattutto quando si tratta di suscitare delle decisioni
prevedibili e di progettare degli spazi di libert controllata, sono
automaticamente legittimate dalla propria funzione sociale. L'assistenza, la
sicurezza, la scuola, la psichiatria - in breve, le varie forme di "management"
sociale - sono imprese che senza dubbio non sgorgano dalla collettivit e che non
hanno nulla a che fare con la volont generale, ma che hanno acquistato
legittimit come risposte a bisogni reali, che sono divenute dei veri e propri
bisogni collettivi. Pensare che sia possibile disporre di se stessi in ogni senso, e
soprattutto sviluppare forme di socialit a partire da questa regola del gioco,
viene valutato oggi come una pericolosa ingenuit. Questo giudizio trova
d'accordo le correnti di pensiero politico pi disparate, dal liberalismo al
socialismo. Sembrerebbe in altri termini che la cittadinanza sociale sia divenuta
la nostra natura. Una cittadinanza che non solo esprime l'appartenenza a un
mondo comune chiamato societ, ma che si instaura come matrice di ogni
determinazione, come dispositivo produttore di ogni possibile senso. La
sociologia (o almeno la sua tradizione centrale, quella che da Durkheim giunge
fino al funzionalismo) ha cercato di ancorare questa appartenenza a ogni tipo di
determinismo. Ma l'essere sociale trabocca dal discorso scientifico, diviene oggi
produttore di verit quotidiane. Bisogna ricordarsi a questo proposito
dell'intervista a un famoso pericolo pubblico, al momento del suo arresto:
"Crede di essere divenuto un rapinatore a causa della societ?" Questa domanda
non rivela soltanto dell'acume professionale - ci dice fino a che punto le nozioni
derivate dal discorso sociale siano divenute moneta corrente.
Il grande fascino e il successo delle scienze sociali consistono allora, come
mostrano anche questi aneddoti, nell'aver fornito il materiale, le attrezzature
e lo sfondo per la costituzione della scena primaria dell'esperienza
contemporanea, la scena sociale. Ci che la filosofia politica borghese aveva
postulato, con l'edificio teorico della societ civile, la sociologia ha
materializzato, trasformando un'esigenza storica in una realt inevitabile. Non si
tratta soltanto della scoperta di un nuovo continente, quel mondo sociale che
pressoch tutto il pensiero economico e politico della prima met del
Diciannovesimo secolo - dall'economia sociale all'utopia, dal liberalismo al
socialismo - finisce per assumere come oggetto privilegiato, quanto
dell'invenzione di un meccanismo autonomo e legittimato come produttore di
realt, fenomeni e comportamenti, la "societ". Questa diviene, prima nella

filosofia sociale e poi nella teoria sociologica, un sistema meta-teorico che


disciplina le immagini, sia scientifiche sia di senso comune, dei rapporti tra
classi, individui e sistemi di potere nella societ industriale. Il paradigma sociale
ha l'indubbio vantaggio, rispetto ai paradigmi economico e giuridico, che si
contendono il dominio dell'immaginario collettivo nell'illuminismo e nel periodo
rivoluzionario, di ricorrere in misura minima a legittimazioni teoriche arbitrarie
o mitiche. Diversamente dal modello del mercato o da quello del contratto
primordiale, il modello sociale produce configurazioni di realt (la famiglia, il
lavoro, la divisione delle funzioni collettive), descrive la loro evoluzione (il
passaggio alla modernit e alla complessit), fa l'inventario delle loro
disfunzioni (la patologia sociale, la povert, il crimine, i conflitti). Esso non ha
quindi bisogno di ricorrere a miti costitutivi per sancire la preminenza del
proprio metodo e dei propri oggetti. Con il paradigma sociale della realt si
ottiene cos un dispositivo autorevole e complesso per modellare, almeno da un
punto di vista teorico, conflitti e contraddizioni che le altre scienze enunciavano
ma non potevano risolvere (1).
Si comprende bene come una scienza interessata al funzionamento normale
dell'organismo sociale abbia lavorato fin dall'inizio sulla definizione delle
patologie e delle anomalie. Ci aveva in primo luogo la funzione dichiarata di
trasformare i problemi al centro dello scontro politico in questioni di igiene
collettiva, come dichiara Saint-Simon (2). Fin da principio l'oggetto sociale
concepito come un oggetto patologico, intendendo con patologia i conflitti di
ogni genere e il ritorno degli effetti delle crisi rivoluzionarie. In quasi tutte le
correnti del pensiero sociale della prima met del Diciannovesimo secolo (nel
pensiero riformatore e socialista, nella teoria politica conservatrice come in
quella liberale, nelle utopie come nei progetti di ricostruzione della societ),
l'ossessione da cui liberarsi costituita dal Terrore, e quindi non solo dalla
violenza in quanto tale, ma dalla pretesa delle masse urbane di irrompere sulla
scena politica, dalla pretesa degli sradicati di ogni classe di partecipare alla festa
politica (3).
L'interpretazione della realt nei termini di un organismo sociale e
complessivo permette di trasformare i conflitti in questioni patologiche, quindi
oggettive, non riconducibili a volont parziali. Con l'instaurarsi del discorso
sociale, la sfera dell'azione politica, che i modelli economico e giuridico
ancoravano a motivazioni arbitrarie e contestabili come l'interesse e la volont,
comincia ad essere riassorbita nel determinismo di un organismo naturale, e
ristretta ai compiti specializzati di un organo particolare, l'amministrazione e la
tutela del popolo. Progressivamente, nelle teorie sociali della prima met del
Diciannovesimo secolo, politica diviene sinonimo di corretta amministrazione,
collegamento dei vari organi della societ, igiene del corpo sociale. Al tempo

stesso, da strumento dell'arbitrio dei poteri tradizionali o da espressione diretta


del "consentement" popolare, lo stato si trasforma, sia per i progressisti che per i
conservatori, in uno strumento neutro di regolazione, che si tratter nei vari casi
di conquistare, migliorare o volgere al proprio interesse. Nella fase di
costituzione del mondo sociale contemporaneo, la sfera politica, che le grandi
rivoluzioni avevano mostrato connessa all'esistenza di volont autonome, viene
riassorbita nella macchina sociale complessiva, nella quale potr svolgere la
funzione di elemento di regolazione, di omeostato. Diventa cos decisiva, nella
prima fase della teoria sociologica, l'individuazione delle falle che possono
compromettere l'organizzazione complessiva, delle malattie del corpo sociale su
cui lo stato dovr intervenire con un'azione terapeutica. La teoria della patologia
sociale si innesta fin da principio nella costituzione della macchina sociale
progettata come un motore indipendente dalle volont parziali. Essa svolge il
ruolo di un sapere secondario, eppure strettamente intrecciato alle pratiche
teoriche pi nobili e rivelatore degli adattamenti e dei conflitti che l'immaginario
sociale deve affrontare. Ripercorrere quindi le vicissitudini dei discorsi sul male
sociale (il delitto, l'anomia, la disorganizzazione, la devianza) permette di
ricostruire le motivazioni meno ufficiali, prosaiche, concrete, che sottostanno
alla fondazione dell'oggetto societ.
L'identificazione delle scienze sociali con la teoria e la pratica della salute
collettiva, che all'inizio ha la funzione di risolvere il problema del conflitto
politico e della legittimazione del potere nella societ industriale, crea
comunque una situazione paradossale. Il focalizzarsi sugli scarti pi o meno
irriducibili che compromettono l'assetto naturale della societ finisce infatti per
squilibrare e compromettere la stessa funzione normalizzatrice della sociologia.
Cos Durkheim, partito dall'ipotesi di una solidariet crescente nelle societ
complesse per spiegare la divisione sociale del lavoro, si visto frantumare
l'ipotesi tra le mani, di fronte alla rilevazione empirica dell'anomia e dei
conflitti, finendo per cercare le condizioni di un'improbabile solidariet
nell'educazione pubblica, nelle corporazioni professionali e in ultimo, con una
gigantesca regressione teorica, nella religione primitiva (4). Non c' dubbio che
nella prospettiva attuale il progetto centrale della sociologia durkheimiana, la
fondazione di una cultura unificata con la funzione di collante per una societ
fondata sull'utilitarismo e sulla competizione, sia complessivamente fallito. Ma,
nonostante l'inconsistenza del progetto complessivo, il sottoprodotto di questa
tradizione di ricerca, un sistema di regole sociologiche per canalizzare le
differenze nell'identit complessiva, per riportare le irrazionalit individuali e
collettive nella macchina sociale, rimane sorprendentemente vitale. I paradigmi
centrali della sociologia classica sono crollati, dando luogo a una pluralit di
indirizzi di ricerca, legati a presupposti spesso incompatibili - lo strutturalismo,
la teoria dei sistemi, il neoutilitarismo, il neomarxismo, perfino l'etologia - ma le

nozioni pratiche ereditate dalla tradizione sociologica, come normalit e


patologia, devianza e controllo sociale, anomia e marginalit, hanno ormai
assunto uno statuto di ovviet che le rende pressoch indiscutibili. Ci
confermato non solo dal fatto che il loro impiego dilaga ormai nei settori del
lavoro sociale dove la sociologia trova le sue applicazioni pi proficue (assistenza
sociale e pratica delle amministrazioni locali, psichiatria pi o meno avanzata,
scuola), ma anche dal fenomeno curioso per cui tali nozioni vengono ormai
assorbite senza traumi da tradizioni culturali che si vorrebbero autonome e
antagonistiche, come il marxismo (5).
Oggi si pu affermare che la differenza principale tra il discorso sociologico a
cui si fa riferimento in queste pagine e alcune tendenze del marxismo
contemporaneo (almeno per quanto riguarda il problema della devianza e del
controllo sociale), consiste nell'eziologia e nelle eventuali terapie, non nella
malattia che stata identificata come bisognosa di cure. Nella sociologia
tradizionale si stabilisce un rapporto tra i "fenomeni" della devianza e
l'organizzazione della societ, privilegiando i piani di analisi sistemici e
simbolici. Nel marxismo si fa derivare la produzione di devianze da squilibri
strutturali, dalla disuguaglianza o dal conflitto di classe, dall'arretratezza dei
sistemi di potere o dalla crisi della rappresentanza e della democrazia (6). Ma in
entrambe le tendenze sembra sussistere un implicito accordo sull'identificazione
della devianza come problema sociale strategico (oggi insieme al terrorismo e
alla violenza politica) per la sorte della democrazia contemporanea (7). Questo
presupposto sembra assai discutibile, come si cercher di mostrare nelle pagine
seguenti. Ma ci che in gioco non stabilire se possa esistere una teoria
democratica, progressista o rivoluzionaria della devianza, quanto discutere che
senso abbia oggi, per prospettive che si pretendono radicali, impiegare un
sistema di nozioni ereditato da una tradizione di pensiero che ha cercato di
progettare, senza troppo successo, il controllo sociale per le societ industriali
avanzate. Si potrebbe mostrare come discorsi sulla devianza che si pretendono
radicali siano tuttora subalterni all'universo teorico preparato dalle scienze
sociali del Diciannovesimo secolo. Uno dei risultati di queste pratiche
scientifiche stato appunto l'attribuzione di un'oggettivit naturale e necessaria
a fenomeni "irrazionali" come il delitto, la marginalit o semplicemente
l'indifferenza o l'opposizione al lavoro e alla cultura della societ industriale.
Nella fase di costituzione delle scienze sociali questa oggettivit era fatta
scaturire da meccanismi naturali, trasponendo i concetti biologici nel nascente
discorso sociale, assumendo cio le scienze della vita come cornice
epistemologica. Nel discorso marxista sulla patologia sociale non si fa che
aggiungere alle tradizionali motivazioni di oggettivit delle categorie
sociologiche le determinazioni economiche e strutturali.

La prospettiva impiegata in questo lavoro, al contrario, non cerca


nell'arsenale storico dei nuovi dati per stabilire, ad esempio, in che misura i tassi
di criminalit sono correlati agli indici dello sviluppo economico, oppure se la
produzione di devianze possa dipendere dall'arretratezza del sistema giudiziario
o dall'inefficienza dell'assistenza sociale. Non sarebbe difficile mostrare come
correlazioni che oggi sembrano particolarmente rivelatrici fossero pensate
almeno un secolo fa dalla teoria sociale, e come gi allora l'invocazione delle
radici sociali ed economiche del crimine o del disordine avesse l'effetto di
ridefinire in termini di fisiologia o di patologia i conflitti microsociali. La
prospettiva qui adottata consiste invece nel sospendere la validit di un sistema
concettuale che diventato talmente discreto e onnipresente da dissimularsi
come un'ovvia rappresentazione di realt fattuali. Si tratta insomma di stabilire,
attraverso un esame delle pratiche teoriche imperniate sulla patologia sociale
(dagli inizi problematici fino alle contemporanee utilizzazioni normali e
necessarie) se e in che modo le categorie impiegate per raffigurare e spiegare le
patologie abbiano riprodotto, o amplificato, le caratteristiche di quel mondo che
pretendevano di indagare. Cos, solo per fare un esempio, la statistica morale
della prima met del Diciannovesimo secolo non produce solo i primi tentativi di
correlare il crimine agli indici di urbanizzazione e di sviluppo economico, ma
contribuisce ad orientare decisamente l'immaginario sociologico in senso
deterministico, a "socializzare" l'irrazionalit individuale, legittimando strategie
di intervento non pi limitate all'ambito repressivo e giudiziario, ma
differenziate e rivolte anche alla prevenzione e alla riparazione sociale.
Il metodo qui adottato, che si richiama alle linee principali della ricerca
genealogica (8), si differenzia da quelli comunemente impiegati per alcuni
motivi di fondo. In primo luogo non si disconosce, ovviamente, l'esistenza di fatti
e fenomeni definiti come "devianza", "criminalit", "controllo sociale" e cos di
seguito, ma si mette in discussione la legittimit epistemologica di tali
definizioni, e quindi sia la loro pretesa di essere gli unici accessi a quei fatti o
fenomeni, sia il loro significato scientifico, il loro mandato di definizioni
autorizzate e rigorose della realt. Si vedr nelle pagine seguenti come il
concetto di devianza non esprima altro che l'opposizione formale tra una
presunta integrazione della societ e una presunta differenziazione. Ma i confini
tra integrazione e devianza non sono quasi mai stabiliti, cos che le aree dei
comportamenti devianti vengono volta per volta allargate ai confini dell'intera
societ (come avviene nelle teorie dei conflitti, ad esempio), oppure ristrette a
disfunzioni locali o individuali (come nelle teorie funzionaliste). Si tratta allora
di discutere le incongruenze, e in fondo l'inconsistenza, dei discorsi sociologici
sulla devianza non come accidenti della teoria, ma come crisi e riaggiustamenti
di una strategia politica che tenta, attraverso l'individuazione delle differenze, di
stabilire la morfologia di una normalit sociale sempre sfuggente.

Una prospettiva di questo tipo permette cos di andare a ritrovare tra i


fondatori delle scienze della devianza le operazioni primitive che hanno
permesso la costituzione di questa opposizione, le motivazioni e le scelte
strategiche che l'hanno resa necessaria. Insieme alla sospensione di un sistema
concettuale, questa prospettiva mette tra parentesi la metafisica storiografica
che fa del mutamento dei paradigmi un progresso positivo e comunque
inevitabile - nel caso della teoria della patologia sociale, il progresso dai
pregiudizi repressivi prescientifici alla conoscenza illuminata e organica della
societ e delle sue disfunzioni. Cos, un paradigma non viene benevolmente
considerato come una tappa nella conquista inevitabile della conoscenza (si
pensi soltanto all'ideologia e alla pratica della riforma penale alla fine del
Diciottesimo secolo), ma preso letteralmente sul serio, messo in luce per quello
che dice o pretende di dire, non per quello che significherebbe all'interno di una
certa tradizione teorica e storica. Ci significa interessarsi alle "pratiche" (9),
piuttosto che al significato riposto di una formazione di pensiero. Esempi di
ricerche centrate sulle pratiche sono le analisi di Foucault sul ruolo
dell'utilitarismo giuridico nella trasformazione delle "strategie disciplinari" (10)
e gli studi di Castel sul ruolo della psicologia nella spoliticizzazione
dell'esperienza collettiva (11). Nel caso di Foucault, lo scandalo prodotto da tali
ricerche derivato probabilmente dal fatto che le strategie di riforma penale
sono state analizzate indipendentemente dal pregiudizio storicistico (legato alle
idee di progresso, tolleranza, razionalit e riforma) con cui l'opera dei
"philosophes", di Beccaria o di Bentham viene comunemente interpretata. La
nozione di pratiche permette di identificare gli effetti prodotti dalle strategie di
investimento, produzione e definizione di realt. Ad esempio, una ricerca sul
ruolo della psicanalisi nella trasformazione delle pratiche di controllo non
dovrebbe limitarsi alla prospettiva epistemologica, ma dovrebbe affrontare la
psicanalisi come un campo di realt terapeutica in diretta relazione con l'attivit
di poteri, con la produzione di definizioni, con l'esistenza e la manipolazione di
risorse (12). Lo scopo di analisi di questo tipo precisamente quello di
decostruire, scomporre e ridistribuire in una prospettiva temporale gli elementi,
le tattiche e le poste di una formazione scientifica, senza privilegiarne
necessariamente le intenzioni pi nobili. Cos un'analisi delle trasformazioni
della patologia sociale - tentata in queste pagine - non ha lo scopo di individuare
finalmente un metodo sicuro o corretto per stabilire i rapporti tra devianza e
controllo, ma quello di mostrare le intenzioni implicite, le preoccupazioni
pratiche o politiche, le contraddizioni rimosse e le sicurezze presunte che sono
normalmente occultate dalla pretesa ricerca di una verit scientifica.
Una prospettiva di questo tipo, pur decentrandosi radicalmente dalla
tradizionale cultura politica e dalle sue metafisiche (nel senso che non si
interessa dei rapporti tra le devianze attuali e il comunismo futuro, n si chiede

se possa esistere una teoria rivoluzionaria della devianza (13)), affronta


direttamente il problema del ruolo della patologia sociale nella definizione
politica della realt. Le pratiche teoriche che da pi di un secolo tentano di
definire l'interazione tra centro e periferia della societ non hanno mai avuto di
mira la semplice repressione dei comportamenti devianti e delle differenze, ma
la "degradazione" di tali comportamenti, o pi precisamente la traduzione di
certi comportamenti dal paradigma giuridico-politico nel paradigma
patologico-sociale. E questa traduzione non ha mai mirato tanto alla
soppressione diretta delle differenze e delle devianze, quanto alla definizione di
devianze compatibili con il funzionamento normale della societ.
Non si vuole affermare qui che il discorso sociologico ha soppiantato quello
giuridico, n che il controllo sociale diffuso ha assunto il ruolo svolto
tradizionalmente dalla repressione penale. Si vuole affermare piuttosto che a
partire dalla scoperta scientifica della societ, dei suoi determinismi e delle sue
contraddizioni, la gestione dei conflitti ha mutato complessivamente metodi e
obiettivi. Non si tratta semplicemente di reprimere, quindi di svolgere un'attivit
negativa e limitativa, ma di produrre relazioni, forme e legami sociali in cui
l'esistenza stessa della devianza diviene problematica, fluttuante - in breve,
camera di compensazione e di assorbimento di conflitti che non possono essere
affrontati soltanto con gli strumenti della repressione. certo comunque che
questa tendenza non univoca, e al tempo stesso non riguarda solo la sociologia
in senso stretto ma anche altri saperi (come la criminologia, la psichiatria o altre
scienze del comportamento, psicanalisi inclusa), che si sono aperti all'influenza
del paradigma sociale (14).
Pur coesistendo fruttuosamente con altre tradizioni di ricerca e di intervento,
la strategia di definizione sociale della realt ha prodotto i dispositivi teorici pi
articolati e differenziati. L'effetto pi rilevante di questa estensione e
penetrazione del paradigma sociale consiste probabilmente nella saturazione
dell'universo di discorso relativo alle esperienze collettive. In altri termini, se
oggi divenuto pressoch impossibile parlare di azione politica
(indipendentemente dalla mediazione di organismi "sociali" come partiti e
sindacati), se insomma la soggettivit politica non che una categoria vuota, ci
anche connesso alla trasformazione in senso deterministico dell'immaginario e
dell'esperienza collettiva. In questa trasformazione la teoria e la pratica della
patologia sociale giocano un ruolo decisivo. Scoprendo volta per volta delle
"sostanze" potenzialmente patogene (in grado cio di minacciare la salute
complessiva dell'organismo sociale, come la sostanza criminale, la sostanza
deviante, nonch quella dei rapporti interpersonali, della vita psichica e cos
via), la scienza della patologia sociale ha contribuito a svalutare ogni aspetto
autonomo dell'azione umana, in breve a trasformare l'azione in comportamento.

interessante notare come questa dialettica della definizione patologica e


deterministica della realt sia stata accettata dai movimenti politici e sociali che
rivendicavano una funzione autonoma o rivoluzionaria. Non penso solo al
successo che la criminologia positiva ha ottenuto nel movimento socialista alla
fine del Diciannovesimo secolo; penso soprattutto all'accettazione, da parte dei
movimenti anti-istituzionali contemporanei, di un ruolo deviante, marginale, in
ultima analisi speculare alla definizione patologica prodotta dalle istituzioni. La
sanzione di differenza che la scienza sociale impone ai movimenti collettivi viene
accettata sostanzialmente anche dalla sinistra, anche se apparentemente
capovolta in una rivendicazione di estraneit alla societ istituzionalizzata. In
altri termini non pi esprimibile la pretesa che l'azione collettiva autonoma
possa conquistare e attribuirsi una legittimit politica (15).
Una ricerca sulle metamorfosi delle strategie di definizione della patologia
sociale pu dunque mostrare come il dominio politico non passi
necessariamente attraverso la repressione, ma anche attraverso la costituzione
di un mondo in cui le esperienze collettive possono trovare una collocazione - ma
snaturate, degradate, collocate all'interno di meccanismi che riescono
comunque a realizzare equilibri e stabilit. L'esplorazione del mondo sociale in
cui si innestano le pratiche terapeutiche (non quello presunto e naturalizzato
della sociologia, ma il mondo assai pi concreto e differenziato dei sistemi di
microintervento, e quindi la psicologia applicata all'industria e alla famiglia,
l'assistenza sociale e la psicanalisi, oltre che le forme pi sofisticate, alternative e
critiche di terapia sociale e individuale) mi sembra oggi decisiva, soprattutto dal
punto di vista di una definizione del politico che tenga conto delle realt originali
delle democrazie sociali contemporanee. Si tratta allora di considerare gli
apparati teorici che legittimano i diversi sistemi di terapia sociale non come
manifestazioni o sistemi di esplicitazione della verit, ma come espressioni di
una lunga e contraddittoria impresa di disciplinamento della realt. La crisi dei
discorsi teorici che legittimavano tradizionalmente l'azione di sinistra,
soprattutto di fronte alle caratteristiche ambigue del dominio nelle societ
contemporanee, non pu certamente essere superata con la cooptazione delle
scienze sociali, anche se avanzate e progressiste, come oggi si propone da pi
parti. Se la cultura politica di sinistra ha sempre avuto poco da dire su questioni
come la criminalit, la devianza o il controllo sociale, questo non
necessariamente un ritardo teorico. Pu anche essere che i movimenti politici di
sinistra abbiano sempre mostrato una comprensibile ripugnanza a occuparsi di
problemi che li riguardavano direttamente, ma per i quali d'altra parte non
erano disponibili che paradigmi teorici estranei, derivati dalle scienze del
controllo e da pratiche disciplinari.
Il testo che segue non vuoi dunque essere una critica della scienza borghese

della patologia sociale, come se potesse esisterne una rivoluzionaria o


progressista, ma una prima indagine, limitata al discorso sociologico, sulle
strategie di disciplinamento del mondo mediante la produzione della realt. Se
qui non si assume una prospettiva positiva, ma si opera soprattutto lo
smontaggio di una tradizione concettuale - le teorie centrate sull'opposizione tra
controllo sociale e devianza - perch gli oggetti che questa tradizione ha
costruito non costituiscono delle realt, ma forse dei mascheramenti di
esperienze, conflitti, modi di vita che bisognerebbe finalmente riconoscere.

NOTE
Nota 1. Sull'ascesa del paradigma sociologico nella prima met del
Diciannovesimo secolo sarebbe necessario naturalmente un lavoro specifico.
Questo problema, normalmente sottovalutato nelle storie della teoria politica e
sociale del secolo scorso, stato messo in luce da alcune opere di grande
interesse. Per quanto riguarda la scoperta della societ da parte dell'economia
politica si veda K. POLANYI, "La grande trasformazione", Torino 1974. Sulla
spoliticizzazione dei movimenti collettivi in Europa e sulla crisi della tradizione
rivoluzionaria resta fondamentale H. ARENDT, "Sulla rivoluzione", Milano
1983; si veda anche F. NEUMANN, "Lo stato democratico e lo stato autoritario",
Bologna 1973. Con paradigma sociologico mi riferisco, sia in questa
introduzione sia nel testo seguente, alla tradizione di sociologia strutturalistica
che ha il suo iniziatore e maggior esponente in Durkheim. Diversamente
dall'opera di Weber o Simmel, questa scuola ha dato luogo alla sociologia
accademica e all'ideologia che ne derivata. Su questo aspetto si veda A.
GOULDNER, "La crisi della sociologia", cit.
Nota 2. C.H. DE SAINT-SIMON, "memoire sur la science de l'homme", in
"Oeuvres", Paris 1813, vol. XI, p. 29.
Nota 3. I rapporti tra crisi rivoluzionaria e progetti di fondazione delle
scienze sociali (si pensi solo a Comte) sono ben noti. Ancora da esplorare per
il ruolo di importanti correnti del pensiero socialista nella critica della politica,
nella polemica contro il giacobinismo, nella fondazione di una teoria scientifica
dell'organizzazione sociale. lo stesso Durkheim che attribuisce a pensatori
come Sismondi e Saint-Simon il merito di avere aperto la strada a una critica
"positiva" della societ industriale. Si veda . DURKHEIM, "Il socialismo",
Milano 1973. Sul carattere positivista delle pi importanti utopie socialiste della
prima met del xix secolo (in particolare Owen e Saint-Simon) cfr. G.
LAPOUGE, "Utopie et civilisation", Paris 1978. Sulla scoperta della patologia
sociale, cfr., i testi raccolti in G. DALMASSO (a cura di), "La societ medicopolitica", Milano 1980.
Nota 4. Su questo aspetto dell'opera di Durkheim, cfr. P. MARANINI, "La
societ e le cose", Milano 1971.
Nota 5. Mi riferisco qui ai tentativi di costituire sociologie critiche della
devianza, nuove criminologie, e cos di seguito. Il manifesto pi caratteristico di
queste posizioni costituito da I. TAYLOR, P. WALTON, J. YOUNG,
"Criminologia sotto accusa", Firenze 1975 (il titolo originale dell'opera, molto

pi significativo, era "The New Criminology", London 1973). Anche se ricco di


informazioni sulle tendenze pi disparate e secondarie della criminologia
contemporanea e della sociologia della devianza, questo lavoro non va pi in l
della rivendicazione tradizionale della matrice sociale della devianza, della
necessit di una teoria globale, di generici richiami alla libert, ecc. Nonostante
continui rinvi al problema del potere, questo discorso resta imprigionato
all'interno di uno schema concettuale che considera la devianza come un
fenomeno reale, e che non arriva a concepire la stessa definizione sociologica di
comportamenti devianti come effetto di una degradazione della realt. Un
programma di fusione del marxismo tradizionale con le acquisizioni della
sociologia per esempio alla base della rivista "La questione criminale". Per una
discussione dell'insufficienza del paradigma marxiano nell'analisi di questi
problemi e per una critica del "correzionalismo" contenuto nelle teorie di alcuni
esponenti della filosofia marxista del diritto (diritto sovietico, Gramsci, eccetera)
cfr. L. FERRAJOLI e D. ZOLO, "Democrazia autoritaria e capitalismo maturo",
Milano 1978. Nota 6. L. FERRAIOLI e D. ZOLO, op. cit., p. 102 sgg.
Nota 7. Cfr. gli interventi contenuti in "La questione criminale", n. 2, 1977,
dibattito su "ordine pubblico e democrazia".
Nota 8. Mi riferisco qui in generale agli interventi di M. Foucault sul metodo
genealogico contenuti in "Microfisica del potere", cit. 1977 (in particolare il
saggio "Nietzsche, la genealogia, la storia"), e a M. FOUCAULT, "Archeologia
del sapere", Milano 1972. Si veda anche il numero dedicato a Foucault e alla
ricerca genealogica da "aut aut", 167-168, 1978, e F. EWALD, "Anatomia e corpi
politici", Milano 1979.
Nota 9. Su questo concetto cfr. P. VLYNE, "Come si scrive la storia", RomaBari 1971.
Nota 10. M. FOUCAULT, "Sorvegliare e punire", Torino 1977.
Nota 11. R. CASTEL et AL., "La societ psychiatrique avance", Paris 1979.
Nota 12. Una delle poche analisi del discorso psicanalitico da questo punto di
vista costituita da R. CASTEL, "Lo psicanalismo", Torino 1975.
Nota 13. La continua riproposizione di questo problema mi sembra il limite
principale delle teorie che si richiamano al marxismo ortodosso. Cfr. L.
FERRAIOLI e D.ZOLO, op. cit., per una critica di queste posizioni.

Nota 14. J. DONZELOT, "La police des familles", Paris 1977. Questo lavoro
analizza l'ascesa del paradigma sociale nelle pratiche di assistenza e di controllo
tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo.
Nota 15. H. ARENDT, "Sulla rivoluzione", cit. Per un'analisi delle strategie di
disinnesco del conflitto politico nel Diciannovesimo secolo si veda soprattutto il
capitolo "La tradizione rivoluzionaria e i suoi tesori perduti".

1. La nascita della patologia sociale

1. Il paradigma sociale.
La teoria scientifica della patologia sociale legata al processo di
razionalizzazione e di sviluppo delle istituzioni di segregazione e di controllo,
iniziato nella seconda met del Diciottesimo secolo. Nel corso di questo processo
la teoria e la pratica della giustizia penale subiscono un cambiamento
fondamentale, che si pu definire come passaggio da un modello spettacolare
della punizione a un modello razionale. Il ruolo svolto dai riformatori liberali
come Beccaria e Romilly, dai "philosophes" (primo fra tutti Voltaire) e dai
teorici dell'utilitarismo, Bentham in particolare, appare oggi come una spinta
alla razionalizzazione dell'intervento dello stato sul terreno del disordine sociale,
una critica della legittimit tradizionale della punizione e al tempo stesso una
strategia di codificazione dell'ordine adeguato ai bisogni della societ borghese.
Beccaria, in particolare, distrugge la pretesa che la pena sia una risposta morale
al delitto: la giustificazione della pena non deve essere cercata nella lesione di
autorit e valori metasociali (lo stato, il sovrano, la religione) ma nel danno
infetto ai singoli e, attraverso di loro, alla collettivit. La pena retributiva e
deterrente. Ognuno subir una pena che colpisca i suoi diritti nella stessa
misura in cui il reato ha colpito i diritti altrui. La possibilit di una pena che
svolga un'autentica funzione sociale connessa all'esistenza di un sistema
giuridico razionale, e quindi di un codice penale definito, conosciuto ed esatto in
ogni sua parte. Perch l'intervento penale sia efficace i diritti individuali devono
essere garantiti; vi deve quindi essere certezza del diritto e non pu esistere
legislazione retroattiva. Il funzionamento della giustizia dovr ricalcare quello di
una macchina precisa, regolata e implacabile, e non dipendere dagli interventi
arbitrari, discontinui e controproducenti di poteri incontrollabili (1). Gi alla
fine del secolo Diciottesimo nascono teorie che concepiscono l'organizzazione del
sistema penale dal punto di vista di un controllo razionale e non soltanto della
repressione indiscriminata. questo il caso di Bentham e dei filantropi
quaccheri che promuovono sistemi penitenziari riformati con le carceri modello
di Boston, Auburn e Sing-Sing (2). Il progetto di Bentham, il Panopticon, unifica
le funzioni del carcere e della fabbrica in un modello che insieme pedagogico
ed economico. Nel Panopticon non dovevano essere ospitati soltanto i criminali,
ma tutti i membri delle classi subalterne che sfuggivano ad una precisa
collocazione nel mercato del lavoro: libertini, orfani, mendicanti, anziani e folli.
L'idea fondamentale era quella di riunire tutti questi marginali in un solo
edificio facilmente controllabile, dove potessero essere isolati e sottoposti a una
dura ed educativa disciplina del lavoro. Le affermazioni di Bentham sui vantaggi
morali del suo progetto non ne nascondevano la natura squisitamente
economica. Uno storico spiega cos le origini del Panopticon: "Bentham si era
unito al fratello e insieme erano alla ricerca di una macchina a vapore. Venne
ora loro in mente di usare i carcerati invece del vapore" (3.) Riconosciuto che il

sistema industriale produceva inevitabilmente disgregazione sociale, si tentava


di riutilizzare la forza-lavoro dispersa in un sistema al confine tra la manifattura
e la prigione tradizionale (4). Foucault ha mostrato come il Panopticon avesse il
carattere di "macchina meravigliosa", di un dispositivo che riassumeva al tempo
stesso le utopie economiche e la grande immaginazione disciplinare del tempo,
articolata intorno al controllo, al filtro e alla discriminazione degli individui
socialmente inutili, alla pedagogia nei luoghi chiusi e al raddrizzamento.
Un'utopia, appunto. Un'utopia che non isolata e marginale ma esprime
l'immaginario organizzativo del tempo, un'utopia che pu essere rintracciata in
una pluralit di discorsi sulla riorganizzazione della societ all'apice della
rivoluzione industriale e dopo il periodo rivoluzionario, nei discorsi pedagogici,
nell'architettura, negli stessi progetti di riforma sociale e politica. interessante,
per esempio, confrontare i progetti di riforma penale con i progetti architettonici
e urbanistici dell'et rivoluzionaria. Si consideri ad esempio questo testo del
1804, in cui contenuto un progetto di ospizio che ha soprattutto la funzione di
selezionare, mediante il lavoro, i disonesti e di correggerli:
La filantropia gli ha approntato [al viaggiatore, N.d.A.] un riparo contro le
intemperie, gli animali minacciosi e i pericoli immaginari. Qui buoni e cattivi
sono egualmente ricevuti per una notte; ma gi il giorno seguente i buoni
possono continuare tranquillamente il loro viaggio, mentre gli altri, interrogati e
scoperti, sono condannati ad assecondare il nostro lavoro. Il loro volere
disonesto imbrigliato ed essi rendono alla societ ci che le hanno sottratto.
[...] Lo scopo di questa istituzione di epurare l'ordine sociale [...], di modificare
l'inclinazione al vizio con l'esempio del lavoro e di assoggettare la licenza alle
leggi della subordinazione (5).
Il modello di Bentham, indipendentemente dallo sfruttamento dei carcerati,
poteva in realt essere usato soltanto per la detenzione dei criminali comuni.
Nella prima met del secolo Diciannovesimo altre istituzioni, altri saperi e
discipline rivendicano il compito di investire le molteplici forme di patologia
sociale. Si pensi soltanto alla battaglia, combattuta dagli psichiatri a colpi di
perizie e con importanti interventi nei dibattimenti penali, per sottrarre gli
irresponsabili dalle mani della giustizia comune e per affidarli ai manicomi,
istituzioni a cui sono riconosciuti compiti speciali nel corso della rivoluzione
francese (6). Le istituzioni di intervento nel campo sociale si differenziano e si
specializzano. La psichiatria scientifica si separa dalla medicina e reclama i suoi
oggetti. Al tempo stesso la teoria sociale cerca un suo status, distaccandosi dalla
filosofia e dalle discipline giuridiche: la fisica sociale, la statistica morale,
l'economia sociale e la demografia preparano la fondazione della sociologia (7).
Ma parallelamente alla differenziazione dei saperi e delle istituzioni che hanno
come oggetto le anomalie della vita sociale (da quelle straordinarie come le

epidemie a quelle ordinarie come il crimine) si generalizza un modello di


interpretazione del mondo sociale che corregge, integra o modifica radicalmente
il modello utilitaristico, su cui si fondavano le teorie e le pratiche di riforma e di
razionalizzazione del sistema penale. Da una parte, gli stessi principi
dell'interesse e del mercato non sono pi ritenuti in grado di determinare da soli
l'ordine sociale e l'equilibrio politico. Diversi pensatori sociali che potremmo
definire antesignani della grande teoria sociale, da Ferguson a Tocqueville,
mettono in luce gli squilibri strutturali che accompagnano inevitabilmente lo
sviluppo delle societ acquisitive (8). D'altra parte la stessa psicologia
dell'interesse, che Bentham utilizzava come matrice di ogni azione umana (9),
che non pu spiegare i residui di irrazionalit, gratuit, in breve di patologia, che
sopravvivono nella societ di mercato. Non esiste naturalmente soluzione di
continuit tra il paradigma utilitaristico e quello sociale-terapeutico. Ma
indubbio che il problema della patologia sociale, che al centro di svariati saperi
specifici nella prima met del secolo Diciannovesimo, emerge nella crisi del
modello utilitaristico (10).
Alle concezioni classiche della giustizia (in cui si erano riconosciuti i
riformatori del sistema carcerario nel Diciottesimo secolo), che non attribuivano
molta importanza alle cause e alle condizioni materiali e ambientali del crimine,
subentra una concezione deterministica, che trova nelle condizioni non
controllabili dagli individui (l'influenza della societ, l'ambiente materiale della
vita, perfino i caratteri biologici) le radici del comportamento patologico o
illegale. Sia Beccaria sia Bentham, che pure uno dei primi ad auspicare
l'istituzione di una statistica criminale, non si occupano sistematicamente delle
cause del crimine e non credono alla limitazione del disordine sociale. Leggendo
i libelli settecenteschi sul crimine e gli appelli alle autorit di Fielding e Defoe si
avvertono il tono apocalittico con cui si sottolinea la situazione dell'ordine
pubblico e la mancanza di proposte che non siano immediatamente repressive
(11).
Con l'affermarsi del paradigma sociale invece un nuovo modello causale
che entra in gioco. Mentre la metafisica dell'interesse (e quindi la libert e la
razionalit del calcolo economico) rester il presupposto dominante delle teorie
economiche e sociali che si applicano a una societ concepita come effetto del
mercato, le pratiche teoriche che fioriscono nella prima met dell'Ottocento
intorno alla patologia sociale ricostruiscono modelli di comportamento innescati
da fattori necessari, riconducibili a meccanismi collettivi e non pi individuali. Il
processo di differenziazione e specializzazione scientifica che permette questo
mutamento di modelli intrecciato al processo di razionalizzazione e di
diffusione delle istituzioni di controllo. Insieme allo sviluppo delle istituzioni
disciplinari e alla crescita di nuove corporazioni (ad esempio quella degli

psichiatri) si instaura l'analizzabilit della follia, il dominio scientifico della


psiche e delle passioni considerate come potenziali ostacoli alle pretese razionali
della societ. La stessa nozione di comportamento, contrapposta a quelle
tradizionali di volont, interesse, arbitrio o azione, rimanda a meccanismi
collettivi e a strutture che permettono di ricostruire, ed eventualmente
modificare, l'agire umano (12). cos possibile impostare strategie di controllo e
di investimento delle patologie che il modello utilitaristico non poteva
legittimare. Il problema della prevenzione diviene, con l'affermazione del
paradigma sociale, dominante nelle teorie moderne della patologia, dalla
criminologia alla psichiatria, presupponendo la capacit di prevedere
scientificamente i comportamenti patologici. Al tempo stesso, a partire da
questa modificazione in senso deterministico dei modelli di spiegazione
scientifica, la questione della patologia viene sottoposta a una sorta di
disincantamento. Nella teoria sociologica, in particolare in Durkheim,
l'esistenza del crimine verr considerata come un prezzo normale da pagare per
l'integrazione di una societ complessa.
Il cambiamento dell'atteggiamento verso la patologia (sia nell'intervento
delle istituzioni sia nell'opinione borghese) prodotto da una nuova
consapevolezza dei problemi di governo innescati dalla rivoluzione industriale e
dalle crisi rivoluzionarie. Nel periodo rivoluzionario e postrivoluzionario la
povert e la degradazione sociale e urbana emergono come i problemi per
eccellenza, stimolando un'attivit di ricerca, soprattutto statistica, inquieta e
invadente. In Francia, paese che diversamente dall'Inghilterra non conosceva
nel Diciottesimo secolo l'importante tradizione dell'inchiesta sulla povert e il
disordine sociale, questioni come la situazione igienica della popolazione, la
prostituzione e il delitto, la mortalit considerata in relazione alle varie cause
patologiche e l'indigenza diventano argomento di una produzione sociologica e
statistica singolarmente importante (13). D'altronde gli sviluppi della
matematica, e in particolare del calcolo delle probabilit, avevano gi persuaso
gli illuministi che fosse possibile prevedere l'andamento dei fenomeni sociali.
Buffon scrive un "Essai de mathmatique morale". Convinto che "le verit delle
scienze politiche e sociali siano suscettibili della stessa certezza di quelle che
costituiscono il sistema delle scienze fisiche" (14), Condorcet propone di fondare
la matematica sociale. Lo sviluppo della statistica diviene massiccio durante la
rivoluzione e l'impero, soprattutto in relazione al potenziamento e alla
razionalizzazione della burocrazia: sono spesso i prefetti che promuovono, o
svolgono direttamente, ricerche demografiche o statistiche. Mentre nel periodo
rivoluzionario la statistica si occupa soprattutto dei fenomeni eccezionali (come
le carestie), nel periodo di riorganizzazione e di consolidamento dello stato le
statistiche demografiche diventano uno strumento normale fondato
sull'esattezza e la continuit delle informazioni.

Se lo sviluppo delle scienze sociali rientra nella crescente attenzione per la


dimensione quantitativa e amministrativa dei fenomeni patologici, l'emergere
della sociologia criminale, che ha i suoi precursori in Quetelet e Guerry, si
inserisce nello sviluppo delle scienze della vita che offrono alle scienze sociali
una base teorica, e spesso la terminologia, per una valutazione sistematica della
patologia sociale. Come stabilisce Broussais, tra i fenomeni fisiologici e quelli
patologici non pu darsi soluzione di continuit: il fenomeno fisiologico diviene
patologico quando l'osservazione sistematica in grado di rilevarvi determinate
alterazioni misurabili quantitativamente (15). Questo principio viene ribadito da
Comte:
Ogni modificazione, artificiale o naturale, dell'ordine reale riguarda soltanto
l'intensit dei fenomeni corrispondenti... Malgrado le variazioni di grado, i
fenomeni conservano sempre la stessa composizione (16).
Dai rapporti tra fisiologia e patologia Comte trae ulteriori insegnamenti. Se
infatti l'esame dei casi patologici deve basarsi sulla conoscenza delle
caratteristiche normali, a sua volta la conoscenza dei casi patologici necessaria
per la ricerca sugli stati normali. La teratologia non pi una disciplina
esoterica ma quel settore della scienza che decifra, attraverso le alterazioni, la
struttura dell'ordine e della normalit (17). Questa concezione fondamentale
nell'opera di Claude Bernard, fondatore della fisiologia moderna: le stesse leggi
chimiche e fisiche regolano il funzionamento degli esseri viventi e della materia
inorganica. Non c' discontinuit ma solo sfumature di gradi tra vita e morte,
tra salute e malattia, tra anormalit e normalit. Diversamente da Comte e da
Broussais, Bernard non lavora sui casi generali, ma formula una teoria a partire
da osservazioni sperimentali e dati statistici: cos, nel caso del diabete, il
passaggio dalla condizione normale a quella patologica dovuto a un'alterazione
quantitativa, rigorosamente osservabile, del tasso di zucchero normalmente
prodotto dall'organismo umano. Con l'assunzione dello schema medicobiologico il discorso scientifico sulla societ pu cos ricondurre a un'unit
organica dei fatti sociali che in linea di principio venivano comunemente legati a
differenze etiche, politiche e giuridiche, e che quindi permettevano conflitti e
invalidazioni. In ultima analisi, far discendere la differenziazione sociale dal
funzionamento di un organismo sostanzialmente omogeneo permetteva di
sottrarre ogni legittimit a pratiche e comportamenti separati dalle leggi di
conservazione dell'organismo sociale.
Con la trascrizione dei problemi relativi all'anomalia e al disordine sociale in
una cornice biologica si ottiene dunque qualcosa di pi di una razionalizzazione
scientifica. L'asprezza e l'irriducibilit di "fenomeni" come il delitto e la follia e,
in modo diverso, la miseria vengono ridotte e omogeneizzate, mediante il

livellamento di una realt fenomenica frammentaria. Non sono pi opzioni


individuali, ma movimenti di grandi masse e di grandi numeri, combinazioni di
simboli e di astrazioni che producono e spiegano i fenomeni. Ma al tempo stesso
proprio la nozione di societ che risulta profondamente mutata attraverso il
filtraggio dei modelli biologici. La grande metafora su cui la scienza sociale
fonda la sua autorevolezza quella di organismo (18). Mentre i paradigmi
economico e utilitaristico, derivati dopotutto da immagini meccanicistiche della
realt, erano costretti a rinviare ad armonie invisibili e improbabili - per
impostare ad esempio il problema dell'equilibrio sociale - la nuova scienza
sociale trova nei concetti di origine biologica il riferimento rigoroso ad
organizzazioni dotate di capacit interne di equilibrio e di controllo. I modelli
meccanicistici della realt sociale avevano bisogno, come gli automi di
Descartes, di un comando o di un soffio di vita esterno per poter funzionare. I
modelli ancorati a metafore biologiche hanno al proprio interno in determinati
principi di funzionamento e rapporti tra le singole parti le condizioni di
sopravvivenza. Omogeneizzazione e autocontrollo diventano cos le
caratteristiche principali di un organismo, la societ, che era stato pensato in
precedenza solo come un espediente giuridico, un mito costitutivo, o una
categoria filosofica. La societ diviene inoltre l'organismo unificante, in cui
possono essere riassorbiti teoricamente i conflitti, globali o locali, che i
paradigmi precedenti assegnavano a scontri tra interessi incompatibili. Cos
Saint-Simon, uno dei primi a pensare la societ come organismo e il conflitto
politico come scontro tra gli organi di uno stesso corpo, concepisce la politica
come un settore della fisiologia generale:
La politica diverr una scienza positiva quando coloro che coltivano questa
branca importante della conoscenza umana avranno appreso la fisiologia nel
corso della loro educazione, non considerando pi i problemi da risolvere che
come questioni di igiene (19).
Si pu notare qui come gli sviluppi pi significativi della tradizione
sociologica (almeno quella che da Saint-Simon e Comte porta, con tutte le
divagazioni e le differenziazioni di prospettiva e di metodo, al positivismo di fine
secolo, a Durkheim, a Parsons, al funzionalismo e quindi alla moderna teoria dei
sistemi) siano in qualche modo paralleli allo sviluppo delle scienze della vita. a
Claude Bernard e agli interessi biologici di Comte che si devono i primi tentativi
rigorosi di definizione della regolazione di un sistema vivente - concetto che resta
fondamentale, insieme alla relazione normale/patologico, nella sociologia di
Durkheim, nonostante il suo distacco dal biologismo (20). a Cannon e ai
biologi predecessori o fondatori della cibernetica che si deve l'idea
dell'omeostasi, centrale nella teoria sociologica funzionalista e nella teoria dei
sistemi (21). Rispetto al ricalco immediato dello schema biologico, tipico del

pensiero sociale dell'Ottocento, l'avanzamento prodotto dalla sociologia


consistito soprattutto nella trasformazione della materia biologica in materia
simbolica. Ma da Durkheim in poi l'ossessione per "ci che tiene insieme la
societ" (22), per il sistema di valori e di cultura produttore e organizzatore di
coscienze, non nasconde l'interesse ben pi pragmatico per l'autoregolazione,
l'autocontrollo e l'autodisciplina dei sistemi sociali. Appoggiandosi a un sistema
concettuale centrato sull'idea di organizzazione naturale e autonoma della
societ, questa sociologia ha cercato di pensare concretamente una normativit
sociale legittima e non dispotica, che altre scienze sociali (si pensi soltanto alla
dottrina dello stato all'inizio del Ventesimo secolo) hanno elaborato con
difficolt sempre crescenti (23).

2. La normalit introvabile.
Nella prospettiva della riduzione dei fatti morali a un universo di dati
omogenei, si sviluppa anche la criminologia come scienza dei rapporti tra
normalit e anormalit del comportamento sociale. nell'opera di Quetelet che
la criminologia manifesta una profonda affinit con la statistica medica.
Quetelet anche un padre fondatore della biometria: studiando
sistematicamente le variazioni della statura e delle altre caratteristiche fisiche
dell'uomo, egli aveva stabilito, per una determinata caratteristica misurata sui
membri di una popolazione omogenea e rappresentata graficamente, l'esistenza
di un poligono di frequenza, con un apice corrispondente all'ordinata massima e
una simmetria corrispondente all'asse delle ordinate. Quetelet dimostr che il
poligono tendeva verso una curva a campana, nota come curva di Gauss. Questa
rappresentazione delle variazioni dei caratteri biologici sembrava a Quetelet
della massima importanza, poich egli riteneva che le variazioni rispetto alla
frequenza media, misurata per ogni caratteristica dalla distribuzione dei dati
sulla curva, avessero un carattere accidentale. Cos un artificio matematico era
in grado di fissare le caratteristiche normali dell'uomo (per Quetelet infatti la
media coincideva con la norma) (24) Quetelet chiam l'uomo con tali
caratteristiche "uomo medio", il tipo umano definito da caratteristiche a partire
dalle quali lo scarto sulla curva tanto pi raro quanto pi grande. Questa
teoria offriva a Quetelet non solo la base per una definizione scientifica
dell'uomo normale, ma anche un metodo e delle conclusioni che potevano essere
trapiantati nella nascente scienza del crimine. Allo stesso modo in cui l'uomo
medio poteva essere ricostruito mediante leggi statistiche, l'osservazione
scientifica permetteva di stabilire le costanti del delitto e dei comportamenti
patologici, e quindi di prevederne in anticipo incidenza e pericolosit. La teoria
della prevedibilit dei fenomeni patologici si basava su risultati che potevano
apparire sorprendenti a questi primi ricercatori: per periodi di tempo
abbastanza lunghi, i totali annu dei delitti denunciati e dei tipi principali di
reato rimanevano fondamentalmente costanti. Una regolarit analoga era
riscontrata nelle quote fornite ai totali dai vari gruppi o classi della popolazione,
che vivevano in diverse condizioni sociali, ambientali o geografiche. Ovviamente
queste ultime influivano sulla tendenza al delitto (la probabilit maggiore di
commettere reati tra le varie classi). Avevano cos una certa influenza l'et, il
sesso e condizioni patologiche come l'alcoolismo, ma non la mancanza di
istruzione o la povert. Ed erano soprattutto riconosciute come cause rilevanti
dei comportamenti criminali la disuguaglianza e la rapida mobilit sociale.
Veniva cos superato il pregiudizio per cui povert e mancanza di istruzione
erano causa di disordine sociale (nell'opinione del tempo infatti povert, mondo
del lavoro e pericolo sociale erano pressoch sinonimi) (25). Risultavano invece
determinanti tra le motivazioni del crimine, in base ai calcoli di Quetelet, fattori

morali come l'esempio delle classi oziose - tema dominante anche nella
pubblicistica radicale o riformista (26) - e soprattutto i cambiamenti di vita
dovuti all'urbanizzazione e alle crisi economiche. In definitiva erano i
meccanismi sociali e morali inerenti alla societ nel suo complesso, e non pi a
singole parti e organi, che cominciavano ad essere invocati come spiegazioni di
una patologia che veniva considerata come una realt marginale eppure
costante. Quetelet credeva, insieme a Guerry e altri ricercatori, che queste cause
combinate producessero una tendenza al delitto pressoch invariata nel tempo:
il reato diventava cos un fatto normale e inevitabile nella societ industriale.
Quetelet giungeva a conclusioni che rovesciavano le opinioni correnti sulla
criminalit. Il libero arbitrio si annullava nei grandi numeri. La societ
preparava il delitto, di cui i criminali erano soltanto gli strumenti esecutori. I
colpevoli riconosciuti erano le vittime espiatorie della societ, alla stessa stregua
delle loro occasionali vittime. Infine la pena, ancorch utile per limitare i guasti
prodotti dallo sviluppo sociale, doveva essere sostituita dalla prevenzione e da
altre forme di controllo sociale ed eventualmente di assistenza (27). Come
riformatore moderato, Quetelet proponeva dunque che la mera repressione
fosse sostituita da un'azione sociale centrata sull'educazione, l'assistenza ai
poveri, il miglioramento delle condizioni di vita. Ma al tempo stesso riteneva che
lo stato considerasse, senza alcuna illusione, le spese relative
all'amministrazione della giustizia penale come un prezzo inevitabile da pagare
per il progresso economico e sociale. Non questo il luogo per confrontare
questi sviluppi della statistica morale con le altre correnti deterministiche, come
il darwinismo sociale o l'antropologia fisica, che hanno influenzato le teorie della
patologia sociale o la stessa criminologia scientifica nel corso del
Diciannovesimo secolo. Si pu notare comunque che il paradigma sociale, che si
afferma nella prima met dell'Ottocento intorno alla definizione di correnti
collettive e morali come meccanismi di produzione delle patologie, abbia avuto
un'influenza meno effimera delle tradizioni legate all'evoluzionismo. Spencer e
Lombroso non negavano l'influenza di particolari condizioni sociali sulla
produzione di criminalit, ma traevano dalle loro teorie biologistiche delle
conclusioni che non potevano acquistare un valore strategico durevole. Spencer
riteneva che i folli, i criminali e in generale i marginali fossero un prodotto di
una selezione sociale ineliminabile, si opponeva a ogni tipo di assistenza
pubblica e approvava la carit privata perch contribuiva all'elevazione morale
dei donatori (28). Lombroso, che nel secondo tempo della sua ricerca avrebbe
modificato la drastica antropometria criminale con il condizionamento sociale
del crimine, proponeva la castrazione dei maniaci sessuali e pene altrettanto
draconiane per delinquenti abituali (29). Ma indipendentemente dalla diversa
lungimiranza dei vari determinismi, queste correnti convergevano nel
considerare la patologia come una manifestazione pratica di meccanismi
indipendenti dall'agire individuale o volontario, e quindi come un effetto da

trattare senza alcun riferimento a considerazioni di tipo etico. Cos, ad esempio,


la scuola positiva italiana di criminologia si sbarazzava sia dell'antico problema
della responsabilit penale, non considerando il crimine che come sintomo, sia
dei problemi etici che la giustificazione della pena comporta inevitabilmente:
l'intervento dello stato in materia criminale o comunque patologica doveva
sempre di pi assomigliare a una "profilassi" e badare soprattutto a limitare i
danni sociali provocati dal reato (30). Da un punto di vista teorico, i primi
sociologi del delitto erano caduti comunque in evidenti difficolt. Da una parte
ammettevano la costanza e quindi l'inevitabilit del crimine e della patologia;
dall'altra continuavano a giustificare la repressione penale tradizionale. E
soprattutto non riuscivano a dare un'interpretazione complessiva - che non fosse
cio meramente quantitativa - della costante presenza dell'illegalit in una
societ che riconoscevano sempre pi organizzata e razionale. Richiamarsi alle
cause sociali per spiegare le cause del delitto significa chiamare con nuovi nomi
ci che un tempo era considerato prodotto del peccato o di tendenze naturali a
delinquere. In altri termini, non disponevano di un modello di societ in cui
giustificare i risultati delle loro ricerche empiriche. Soltanto quando
accennavano al ruolo del delinquente come vittima espiatoria, gli statistici
sfioravano una definizione pi realistica e meno formale della funzione sociale
del reato. Questa definizione era comunque isolata ed estranea a
un'interpretazione complessiva dei conflitti e delle tensioni della societ
industriale. Gli statistici morali non si avvedevano della misura in cui essi
contribuivano ad amplificare, e in qualche modo a materializzare, i fenomeni
studiati. Nella tradizione della statistica sviluppata durante la rivoluzione, questi
scienziati basavano i loro calcoli sulle fonti ufficiali e sui dati forniti dai ministeri
degli interni e della giustizia. I dati utilizzati si riferivano quindi all'output del
sistema penale, piuttosto che alle dimensioni, alle motivazioni e alle
caratteristiche interne del presunto fenomeno criminale. I ricercatori
accettavano la definizione, evidentemente determinata da altri interessi pratici,
delle istituzioni penali ed etichettavano come reati dei comportamenti
socialmente differenziati. Cos nella rubrica "reati contro la propriet" erano
mescolati in un solo totale i furti di ogni entit, le rapine, le bancarotte (cio i
reati commerciali emersi) o le truffe. La voce "reati contro le persone"
comprendeva le risse, i ferimenti, gli omicidi. Bench fosse passato il tempo in
cui i furti delle cameriere, il vagabondaggio e il bracconaggio erano puniti con la
morte, la legge puniva con eguale spietatezza i reati pi diversi. Accettando i dati
della giustizia penale, i ricercatori ne accettavano anche la pratica unificante e
quindi finivano per riprodurre nei loro calcoli l'immagine pratica del delitto cos
come si formava nella routine giudiziaria (31).
Ma pi ancora che da errori tecnici di ricerca e di metodo, le difficolt di
queste prime indagini erano legate all'inconsistenza dei modelli di descrizione

della societ. L'impostazione organicistica e scientistica delle prime teorie


sociologiche faceva fraintendere la natura dei rapporti, non soltanto quantitativi,
tra societ e delimitazione della patologia. Comte in sociologia e Quetelet nei
suoi studi di criminologia e di antropometria identificavano arbitrariamente la
norma con la media. Il concetto di normalit non era considerato come un
criterio relativo alla capacit degli organismi di adattarsi ai vincoli ambientali,
ma era un principio metasociale, derivato da rapporti matematici, da cui si
facevano discendere deduttivamente le caratteristiche umane. Durkheim
avrebbe chiarito come, da un punto di vista sociologico, il criterio di normalit
dipenda dall'esistenza di criteri "normativi", risultanti in ultima analisi
dall'esistenza di certe forme sociali e soprattutto dalla necessit dell'integrazione
sociale. La regolarit degli indici di reato non veniva considerata dagli statistici
morali come il prodotto di un sistema penale, e quindi di uno strumento della
"contrainte sociale", ma diventava espressione di una verit contenuta nelle leggi
statistiche. In definitiva questi precursori della scienza sociale non disponevano
ancora di un modello di societ che permettesse di legittimare autonomamente
la normalit sociale e la costituzione di un campo autonomo della patologia
(32).

3. La necessit della devianza.


La debolezza delle prime teorie sociologiche che cercavano di descrivere il
rapporto tra ordine e disorganizzazione sociale (come nel caso della statistica
morale) e delle teorie criminologiche, antropologiche o positiviste derivava
dall'incapacit di produrre un modello complessivo di societ. In entrambi i casi
non si riusciva ad attribuire al rapporto tra normalit e anormalit una funzione
positiva e legittima. Al contrario, Durkheim, che cerca all'interno stesso dei
fattori sociali i principi analitici (non derivandoli quindi da formalizzazioni
quantitative n da costanti biologiche o antropologiche) riesce a costruire una
prima interpretazione sociologica dei fenomeni di devianza nella societ
industriale. Con Durkheim si torna cio al cuore del problema, la divisione del
lavoro e il conflitto. Il fenomeno su cui egli fonda la sua teoria della societ la
divisione del lavoro sociale, cio la differenziazione dei compiti nelle societ
complesse. Per Durkheim la funzione della divisione del lavoro non la
realizzazione della felicit individuale, come nella tradizione utilitaristica, ma la
creazione di una forma complessa di solidariet, che permetta agli individui di
trovare un appagamento non egoistico nelle loro particolari attivit. Durkheim
distingue due tipi di solidariet: quella "meccanica", quando i compiti sono
fondamentalmente simili e la "coscienza collettiva" cementa una societ in cui
non esiste, o rudimentale, la divisione del lavoro; e quella "organica", tipica
delle societ sviluppate, in cui i compiti sono divisi e specializzati, e gli individui
sono collegati da complessi sistemi di relazioni e di regole. Ai due tipi di
solidariet corrispondono due diversi sistemi normativi, rappresentati dai
sistemi giuridici. Alla coscienza collettiva corrisponde il diritto penale,
caratterizzato da sanzioni di tipo repressivo; alla solidariet organica
corrisponde il diritto privato, civile e amministrativo, in cui la sanzione di tipo
restitutivo (33). Durkheim era convinto che una costante nello sviluppo delle
societ fosse la progressiva diminuzione della durezza delle pene. Infatti, con la
prevalenza del diritto restitutivo su quello repressivo, ci che presuppone
differenziazione e specializzazione delle istituzioni giuridiche, si sviluppano
regole e relazioni sociali sempre pi elaborate. L'individuo non pi una
frazione indifferenziata della coscienza collettiva, ma una personalit legata alla
societ da vincoli complessi. La societ ha sempre meno bisogno della pena
come sanzione immediata per riaffermare la solidariet sociale in tutti i casi in
cui non leso un valore fondamentale (34).
Durkheim aveva scritto la sua prima opera, "La divisione del lavoro sociale",
per dimostrare come nella societ moderna fosse all'opera un tipo complesso e
integrato di solidariet. Quando per egli passa ad esaminare le forme anormali
di divisione del lavoro, si imbatte nelle contraddizioni che distinguono le societ
in cui la specializzazione dei compiti e la differenziazione sono pi progredite, la

societ capitalistica. Tra le forme anormali egli riconosce infatti le


caratteristiche costanti del capitalismo, cio le crisi economiche e l'antagonismo
tra capitale e lavoro. Per Durkheim ad esempio anormale, in quanto non
implica solidariet ma conflitto istituzionalizzato, la divisione tecnica del lavoro,
cio la fabbrica capitalistica. Altre forme che minacciano la solidariet sociale
sono la divisione coercitiva del lavoro (la disuguaglianza) e la dispersione (cio
la cattiva divisione dei compiti). Dopo aver affermato che lo sviluppo della
divisione del lavoro sociale non pregiudica la solidariet, Durkheim scopre che
la societ capitalistica, nel suo stesso motore, fonte di conflitti, di tensioni (che
complicano l'interazione sociale) e quindi di anomia (35). Questa appunto la
mancanza di regole per cui l'individuo si distacca dal tessuto delle relazioni
sociali, dal sistema comunicativo che assicura la coesione nelle
s o c i e t differenziate. Durkheim credeva che la ragione fondamentale
dell'esistenza di tali fenomeni fosse proprio l'assenza di una regolamentazione
adeguata. Cos l'anomia aumenta in tutti quei casi in cui lo sviluppo economico
produce aumenti eccessivi di ricchezza o drastiche modificazioni dei sistemi di
vita, che scompaginano l'ordine tradizionale dell'esistenza, come Durkheim
mostra nella sua ricerca sul suicidio (36). Mentre per egli riesce a vedere nella
stessa logica dello sviluppo capitalistico una fonte inesauribile di
disorganizzazione sociale, la sua proposta di una maggiore regolamentazione
per diminuire l'anomia si rivela illusoria. proprio in fabbrica, come nel lavoro
burocratizzato e impersonale delle organizzazioni, che la regolamentazione,
assumendo le forme di una pressione intollerabile, diventa motivo di conflitti e
di ulteriori tensioni. Mentre Durkheim capace di individuare le cause
economiche del conflitto, egli non ne vede, proprio per l'impostazione della sua
ricerca (il postulato della solidariet), la necessit strutturale.
Con la sociologia di Durkheim si ha il primo tentativo completo (al di fuori
del marxismo) di inserire l'antagonismo sociale all'interno di un modello
dinamico di societ. E al tempo stesso questo tentativo si trasforma in un
progetto di consolidamento delle strutture politiche della societ industriale,
cio della democrazia sociale. L'organismo che Durkheim propone per limitare
le conseguenze dell'anomia e del conflitto, la corporazione professionale,
qualcosa di pi di un espediente per impedire la disorganizzazione produttiva. Il
vero problema di Durkheim quello di reperire degli organismi sociali
autonomi che sappiano assicurare dal basso, ma non a partire dagli interessi
individuali, la coesione e il consenso. Nella complessa costruzione di Durkheim
lo stato ha una funzione limitata alla regolazione dei vari input sociali. In altri
termini Durkheim, immaginando una struttura della societ che da una parte
sfugga alla statalizzazione e alla burocratizzazione e dall'altra alla democrazia
diretta, tenta la liquidazione della centralit della sfera politica:

Ora nel caso specifico, sembra inevitabile che questa forma deviata della
democrazia si sostituisca alla forma normale ogni volta che lo stato e la massa
degli individui sono direttamente in rapporto, senza che fra di loro si inserisca
alcun intermediario. Infatti, come conseguenza di questa vicinanza,
automaticamente necessario che la forza collettiva pi debole, cio quella dello
stato, non sia assorbita dalla pi forte, quella della nazione. Quando lo stato
troppo vicino agli individui, cade sotto il loro dominio e contemporaneamente li
disturba. La sua vicinanza li disturba perch, malgrado tutto, esso cerca di
governarli direttamente, mentre, come sappiamo, incapace di svolgere questo
ruolo. Ma questa stessa vicinanza fa s che esso "dipenda strettamente da loro,
perch, dato il numero, gli individui possono modificare lo stato a loro
piacimento" (37).
Il problema consiste allora nell'individuazione di gruppi intermedi che
funzionino da intercarpedine tra lo stato e gli individui, ma che al tempo stesso
siano espressione diretta di una socialit "normale e naturale" (38). Questi non
possono essere che degli organi rappresentativi su base professionale, cio delle
corporazioni che assicurino il governo molecolare della societ. Sarebbe troppo
semplice mostrare qui l'inconsistenza di un progetto di edificazione della societ
che cerca i suoi punti di appoggio in organismi cos improbabili come le
corporazioni e in luoghi cos tradizionalmente conflittuali come l'organizzazione
del lavoro e l'attivit professionale. La portata del progetto di Durkheim va
infatti al di l dei suoi strumenti contingenti. Limitando la funzione dello stato a
quella di un collettore e di un organizzatore del "pensiero sociale" (39); facendo
germinare la democrazia a partire dal lavoro e dalla comunit di interessi,
risolvendo quindi la funzione della democrazia nell'autogestione del conflitto
sociale, Durkheim riesce a pensare una societ in cui la stabilit non in alcun
modo legata all'eccesso di autorit di un organismo centrale, ma prodotta
autonomamente nei corpi sociali, in cui cio lo scambio e la comunicazione tra
gli organismi sociali si sostituiscono alla rigidit e alla fragilit delle
gerarchie tradizionali. L'autonomia di funzionamento del corpo sociale, che i
teorici della prima met del Diciannovesimo secolo avevano gi pensato come
indipendente dallo stato e dalle volont individuali, quindi individuata da
Durkheim nella complessit dell'interazione (40). Ma la scoperta da parte di
Durkheim dell'"autonomia sociale" come condizione di equilibrio e di coesione
della societ nel suo complesso non esaurisce il problema della legittimit.
L'opera di Durkheim un tentativo di mostrare come l'evoluzione sociale
implichi un trasferimento degli istituti di coesione morale dalle istituzioni
accentrate (stato, diritto repressivo, contratto solenne) alle forme decentrate e
autonome di socialit (democrazia sociale, diritto restitutivo, contratto reale).
Ma come potr essere assicurata la legittimazione, e quindi l'intangibilit, di
queste istituzioni moderne? E al tempo stesso come potr essere assicurata

l'innovazione, cio il cambiamento sociale? La soluzione di Durkheim chiarisce


una volta per tutte quale sia il ruolo della patologia sociale all'interno
dell'immaginario sociologico.
Fin dalle prime opere il problema del reato connesso a quello della
divisione del lavoro sociale. Se in un primo tempo Durkheim considera la
professione criminale come una forma di divisione sociale parassitaria, finisce
poi per attribuire al reato una funzione positiva nella divisione del lavoro,
superando l'impasse in cui erano caduti i primi ricercatori. Egli rovescia le
conclusioni di Quetelet, che identificava la normalit di un fenomeno con la sua
frequenza media. Se fosse cos, obietta Durkheim, fenomeni eccezionali come il
suicidio e l'omicidio sarebbero sporadici: l'uomo medio non uccide n si uccide.
Quetelet, osserva Durkheim, basava la sua teoria su un'osservazione sbagliata:
Egli considerava come un fatto stabilito che la costanza fosse osservabile solo
nelle manifestazioni pi generali dell'attivit umana; invece la ritroviamo, e allo
stesso grado, anche nelle manifestazioni sporadiche che si verificano su punti
isolati e rari del campo sociale (41).
La spiegazione della regolarit di certi fenomeni non va quindi cercata nel
presunto dominio di un tipo medio ma nell'esistenza di correnti collettive che
determinano l'esistenza di ci che viene dichiarato illecito e illegale (42). La
professione criminale una forma normale di divisione del lavoro perch svolge
una funzione positiva per il mantenimento della solidariet sociale. Durkheim
offre una giustificazione esauriente di questa funzione quando discute le regole
di una corretta distinzione tra fenomeni normali e patologici. Il reato non solo
inevitabile, come gi avevano affermato gli statistici morali, ma necessario
perch "un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni societ
sana" (43). Esso normale perch qualunque societ che ne fosse privata non
potrebbe sopravvivere. Infatti il reato non che la misura e la conferma di una
moralit collettiva; perch il reato si estingua, dice Durkheim, sarebbe
necessaria una totale omogeneit delle coscienze e delle personalit, mentre
invece lo sviluppo della divisione del lavoro conduce proprio a una tendenza
opposta. Il reato misura la disomogeneit delle societ complesse e inoltre
rafforza la funzione coesiva della morale e del diritto. Il reato in definitiva un
fattore di mutamento e di evoluzione della morale: "Quante volte infatti, il reato
non altro che una anticipazione della morale futura, il primo passo verso ci
che sar!" (44) Inoltre, se il reato non un fenomeno patologico, la pena non
pu essere considerata come un rimedio. Tuttavia, essa necessaria perch
sancisce l'esistenza del reato come limite della moralit pubblica. Nel delitto la
societ si specchia e riconosce se stessa. Nella pena, mediante la sanzione della
differenza, essa conferma la propria identit. Il criminale quindi deve essere

punito, non perch la pena sia giusta in s o utile, "ma per riaffermare la
legittimit della societ e del potere che punisce" (45).
In questo modo, Durkheim stabilisce alcuni principi fondamentali
dell'analisi sociologica della criminalit. Se la pena non un rimedio pratico ma
un mezzo con cui la societ afferma la solidariet, allora la funzione delle
istituzioni giudiziarie (e quindi degli apparati, delle procedure e delle professioni
legate all'esistenza di reati) soprattutto quella di celebrare, in riti in cui i
delinquenti esercitano il ruolo di vittime sacrificali, la santit sociale del
giudizio, e quindi il diritto di punire (46). Evidentemente per Durkheim non ha
importanza stabilire una priorit logica o causale tra la produzione di reati e le
attivit delle istituzioni punitive. Non diversamente da Marx, che aveva
sottolineato la funzione economica della criminalit, e che parlava del delitto
come fattore di innovazione e di rafforzamento delle istituzioni e delle
professioni giudiziarie, delitto e punizione sono complementari: la societ ha
bisogno del delitto e incessantemente lo riproduce per le sue necessit.
Il discorso di Durkheim si arresta a questi livelli molto generali e alle
definizioni di principio. Se per non ci si ferma di fronte al candore o alla
brutalit di alcune dichiarazioni, la teoria rivela importanti implicazioni.
Durkheim rende superfluo, o per lo meno di scarso interesse, ogni discorso
sull'eziologia individuale o collettiva dei fenomeni criminali o devianti. Il
problema non sar pi discutere le ragioni economiche o sociali del reato (per
non parlare di quelle biologiche, di cui Durkheim si sbarazza definitivamente),
ma esaminare sia il ruolo della criminalit nel mantenimento della solidariet e
della legittimazione, sia le tattiche con cui nella societ mantenuta costante
questa importante funzione sociale. Da una parte, l'accento viene spostato sulla
funzione produttiva del diritto nella definizione dei comportamenti criminali e
devianti. Dall'altra, se si pu parlare di controllo sociale, questo non
appannaggio di un potere centrale, ma diventa una caratteristica intrinseca
nello stesso funzionamento normale della societ. In altri termini, per Durkheim
il controllo non attributo di uno stato onnipresente, ma la frontiera mobile di
organi sociali che si autogestiscono. Se si completa l'analisi di Durkheim della
funzione legittimante del sistema reato-punizione con la funzione pedagogica
che egli assegna ai gruppi intermedi, si ha un'idea della complessit dell'ordine
che egli immagina in una societ industriale avanzata. Nella teoria di Durkheim
l'ordine sociale doveva risultare dall'equilibrio tra i gruppi intermedi e la
funzione educatrice dello stato. Lo stato doveva favorire la costituzione dei
gruppi intermedi ma anche intervenire contro il particolarismo e il
corporativismo delle varie associazioni. Lo stato come educatore collettivo
prefigura quindi lo stato sociale del Ventesimo secolo, almeno nelle sue versioni
pi estreme:

E lo stato che ha liberato il fanciullo dall'autorit patriarcale e dalla tirannia


famigliare, lo stato che ha liberato il cittadino dai gruppi feudali e pi tardi dai
gruppi municipali; [...] lo stato deve permeare persino tutti quei gruppi
secondari come la famiglia, il mestiere, l'associazione professionale, la chiesa, le
aree regionali, e tutto ci che tende ad assorbire la personalit dei suoi membri.
Deve farlo per prevenire questo assorbimento [...] e in tal modo
contemporaneamente ricordare a queste societ parziali che esse non sono sole e
che vi un diritto superiore al loro diritto (47).
La coesione sociale non pi ottenibile mediante la mera esistenza di
apparati repressivi, di sistemi espliciti di imposizione e di comando, ma come
risultato di una dialettica tra democrazia, pedagogia sociale (non autoritaria,
ma centrata sull'inibizione spontanea di sentimenti egoistici e individualistici),
definizione dinamica dell'illecito e dei confini dell'azione sociale, disciplina
autoprodotta nei luoghi di scontro sociale, ricchezza e complessit
dell'interazione. Contrariamente alla tradizione critica anche radicale, che vi ha
visto soprattutto una tendenza al moralismo e alla staticit, ritengo che la
sociologia di Durkheim (pur con un linguaggio che risente dei problemi e
dell'atmosfera del positivismo) riesce ad immaginare una societ in cui l'ordine
possibile solo sulla base di una microdinamica. E questo precisamente il
quadro delle democrazie del Ventesimo secolo, in cui si collocheranno tutte le
sociologie successive. L'ordine che i primi teorici sociali non sapevano
immaginare che mediante l'uso di metafore biologiche dedotto per la prima
volta dalla specificit dell'interazione e dalla complessit della societ
contemporanea.
Tutta la riflessione di Durkheim sulla solidariet si fondava sul presupposto
dell'esistenza di una morale collettiva nelle societ complesse. Ma quando quelle
che Durkheim considerava come forme anormali della divisione del lavoro (crisi
economiche e conflitti di classe) si rivelano normali in una societ capitalistica,
anche l'esistenza della morale collettiva diviene assai problematica. Da una
parte l'anomia diventa una caratteristica costante della societ industriale.
Dall'altra, la regolamentazione, che Durkheim faceva scaturire dagli organi
professionali, non tanto un mezzo con cui si assicura la solidariet, quanto
l'imposizione della disciplina nei luoghi dove per definizione gli interessi
materiali sono incompatibili (48). Rimanendo irrisolta questa contraddizione,
anche la teoria del reato acquista una nuova luce. Invece di essere un fattore
naturale di equilibrio e di innovazione, il sistema reato-punizione diventa, molto
pi realisticamente, uno strumento con cui si rafforza il sistema di interessi e di
mete di chi domina gli apparati di controllo e di definizione dei conflitti. Se
l'anomia diffusa e la divisione tra le classi sono conseguenza di insanabili
conflitti di interessi (che Durkheim tenta di esorcizzare in tutta la sua opera), il

sistema reato-punizione diventa un fattore di sostegno e di legittimazione non


gi della morale collettiva ma degli interessi dei gruppi di potere. Nonostante
queste contraddizioni (che giustificheranno la critica della sociologia marxista e
conflittuale), il contributo di Durkheim resta determinante per tutta la teoria
sociologica. La societ industriale produce strutturalmente situazioni di anomia
(conflitti, ma anche lacerazioni delle relazioni interpersonali e microsociali) in
cui l'unica regolamentazione possibile l'intervento manipolatorio delle
istituzioni. Criminalit e devianza non sono quindi fenomeni patologici, di cui sia
possibile valutare scientificamente le dimensioni e analizzare le cause, ma
sistemi complessi in cui determinati atti e comportamenti vengono definiti,
amplificati, riprodotti e utilizzati per difendere interessi e sistemi di
mantenimento del controllo.

NOTE
Nota 1. C. BECCARIA, "Dei delitti e delle pene", Torino 1973; si veda anche
M. MAESTRO, "Cesare Beccarla e le origini della riforma penale", Milano 1976;
per un'analisi delle politiche penali dell'epoca illuministica, cfr. G. RUSCHE e O.
KIRCHEIMER, "Pena e struttura sociale", Bologna 1976, cap. V, pp. 237 sgg.
Nota 2. G. A. DE BLAUMONT e A. DE TOCQUEVILLE, "Due esempi di
sistemi penitenziari classici", in M. CIACCI e V. GUALANDI (a cura di), "La
costruzione sociale della devianza", Bologna 1977, pp. 271 sgg.
Nota 3. K. POLANYI, "La grande trasformazione", Torino 1974, p. 135.
Nota 4. Sulle caratteristiche del Panopticon, cfr. J. BENTHAM, "Panopticon,
or the inspection House", in "Works" (ed. Bowring), Edimburgo 1838-1843, vol.
IV, pp. 37 sgg. [trad. it. "Panopticon, ovvero la casa d'ispezione", a cura di M.
Foucault e M. Perrot, Venezia 1983]; per l'analisi del "panottismo", M.
FOUCAULT, "Sorvegliare e punire", cit.
Nota 5. C.N. LEDOUX, "L'architecture considere sous le rapport de l'art,
des moeurs et de la legislation", Paris 1804, p. 64. Si possono rintracciare temi
analoghi nelle analisi della patologia sociale e urbana di Owen, Saint-Simon,
Considerant, eccetera: cfr. F. CHOAY, "La citt, utopie e realt", Torino 1972.
Nota 6. M. FOUCAULT (a cura di), "Io Pierre Riviere, avendo sgozzato mia
madre, mia sorella e mio fratello", Torino 1976; cfr. anche R. CASTEL,
"L'ordine psichiatrico", Milano 1979.
Nota 7. Sull'ascesa delle scienze dell'uomo e della societ all'inizio del
Diciannovesimo secolo cfr. G. GUSDORF, "La conscience revolutionnaire - Les
ideologues", Paris 1978, pp. 384 sgg.
Nota 8. A. O. HIRSCMMAN, "Le passioni e gli interessi", Milano 1979, pp. 87
sgg. Nota 9. J. BENTHAM, "Introduzione ai principi della morale e della
legislazione", Milano 1947.
Nota 10. Sul passaggio dal modello utilitaristico classico a una maggiore
attenzione per le contraddizioni della societ di mercato cfr. C. B.
MACPHERSON, "La vita e i tempi della democrazia liberale", Milano 1980.

Nota 11. Ad esempio: D. DEFOE, "An effcctual scheme for the Immediate
Prevention of Street Robberies and Suppressing of all other Disorders of the
Night", London 1730. Per l'analisi dell'immagine del crimine nel Diciottesimo
secolo cfr. A. SILVER, "The Demand for Order in Civil Society: a Review of
Some Themes in the History of Urban Crime, Police and Riot", in D. J.
BORDUA (a cura di), "The Police. Six Sociological Essays", New York 1967.
Nota 12. Sulla sostituzione del paradigma del comportamento a quello
dell'azione cfr. H. ARENDT, "Vita activa", Milano 1988 (seconda ed.).
Nota 13. L. CHEVALIER, "Classi lavoratrici e classi pericolose", Bari 1976.
Sulla differenza tra la tradizione di ricerca statistica in Inghilterra e in Francia
cfr. R. FOSTER e F. FOSTER, "European Society in the Eighteenth Century",
London 1969, soprattutto il capitolo "The Poor", pp. 238 sgg.
Nota 14. Cit. in L. CHEVALIER, op. cit., p. 49. Sulle discussioni che
accompagnano la fondazione della statistica sociale cfr. G. GUSDORF, op. cit.,
pp. 406 sgg.
Nota 15. G. CANGUILHEM, "Il normale e il patologico", Firenze 1975, pp. 20
sgg.
Nota 16. Citato in G. CANGUILHEM, op. cit., p. 21.
Nota 17. G. CANGUILHEM, "La mostruosit e il portentoso", in "La
conoscenza della vita", Bologna 1976, pp. 239 sgg.
Nota 18. Per un'analisi delle metafore organicistiche nella fondazione della
statica sociale cfr. J. C. GREENE, "Biologia e teoria sociale: Auguste Comte e
Herbert Spencer", in G. PANCALDI (a cura di), "Evoluzione, biologia e scienze
umane", Bologna 1976, pp. 231 sgg.
Nota 19. C.H. DE SAINT-SIMON, op. cit., p. 29.
Nota 20. Sulle relazioni e le differenze tra la concezione di Claude Bernard e
quella di Comte ha lavorato soprattutto Canguilhem. Cfr. in generale G.
CANGUILHEM, "Il normale e il patologico", cit.; ID., "Etudes d'histoire et de
philosophie des sciences", Paris 1975; e soprattutto il saggio "La formazione del
concetto di regolazione nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo", in "Ideologia
e razionalit nella storia delle scienze della vita", Firenze 1992, pp. 77 sgg.; sui

rapporti tra la sociologia, in particolare quella di Durkheim, e le scienze del


Diciannovesimo secolo, cfr. T. PARSONS, "Teoria sociologica e societ
moderna", Milano 1971.
Nota 21. W. B. CANNON, "La saggezza del corpo", Milano 1956; e per una
ricapitolazione dei rapporti tra sociologia e teoria dei sistemi W. J. BUCKLEY,
"Sociologia e teoria dei sistemi", Torino 1977.
Nota 22. T. PARSONS, op. cit., p. 9.
Nota 23. II grande tentativo di Durkheim, ripreso in modo sempre pi
formalistico da Parsons, consisteva nel far scaturire la legittimit
dell'ordinamento sociale proprio dalla specifica organizzazione della societ
moderna, cio dai gruppi intermedi che si creano in base alla divisione sociale
del lavoro. Questa pretesa di eticit intrinseca alla societ viene a cadere nella
grande teoria borghese del diritto e dello stato; cos, da posizioni ovviamente
diverse, Kelsen e Schmitt cercano di elaborare concezioni meramente operative
del potere; per la teoria del diritto come "tecnica sociale", cfr. H. KELSEN,
"Teoria generale del diritto e dello stato", Milano 1974.
Nota 24. A. queTELET, "Fisica sociale ossia svolgimento delle facolt
dell'uomo", in "Biblioteca dell'economista", Serie terza, vol. II, Torino 1878, pp.
1127 sgg. Nota 25. Sull'opinione borghese e il problema del delitto cfr. L.
CHEVALIER, op. cit., Libro primo, pp. 31 sgg.
Nota 26. Per esempio, le polemiche di Saint-Simon contro l'ozio e il lavoro
improduttivo. Cfr. C. H. DE SAINT-SIMON, "L'organizzatore", in "Opere",
Torino 1975.
Nota 27. A. queTELET, op. cit., p. 822.
Nota 28. Su Spencer e il darwinismo sociale, cfr. R. HOFSTADTER, "Social
Darwinism in American Thought", Boston 1965.
Nota 29. L. RADZINOWICZ, "Ideologia e criminalit", Milano 1968, pp. 40
sgg.; per un'analisi del ruolo della scuola positiva di criminologia e della sua
influenza sulla sociologia D. MATZA, "Delinquency and Drift", New York 1964,
pp. 8 sgg.
Nota 30. Per la politica penale della scuola positiva cfr. H. MANNHEIM,

"Trattato di criminologia comparata", Torino 1975, voi. I, pp. 281 sgg.


Nota 31. Un'eccellente critica della dipendenza dell'analisi sociologica dalle
statistiche ufficiali A. V. CICOUREL, "Method and Measurement in Sociology",
New York 1964.
Nota 32. G. CANGUILHEM, "Il normale e il patologico", cit., pp. 120 sgg.
Nota 33. . DURKHEIM, "La divisione del lavoro sociale", Milano 1962.
Nota 34. . DURKHEIM, "Due leggi dell'evoluzione penale", in M. CIACCI e
V. GUALANDI (a cura di), "La costruzione sociale della devianza", cit., pp. 178205. Nota 35. . DURKHEIM, "La divisione del lavoro sociale", cit., pp. 347
sgg.; sul rapporto tra anomia e conflitti di classe in Durkheim cfr. A.
PIZZORNO, "Lecture actuelle de Durkheim", in "Archives Europennes de
sociologie", 1963, I, pp. 1-63. Nota 36. . DURKHEIM, "Il suicidio L'educazione morale", Torino 1969.
Nota 37. . DURKHEIM, "Lezioni di sociologia", Milano 1978, p. 98.
Nota 38. Ibid., pp. 101 sgg.
Nota 39. Ibid., p. 96.
Nota 40. Sulla complessit progressiva dell'interazione nella societ
industriale avanzata e sulla conseguente evoluzione delle forme giuridiche, .
DURKHEIM, "Due leggi dell'evoluzione penale", cit., e "Lezioni di sociologia",
cit., pp. 158 sgg. Nota 41. . DURKHEIM, "Il suicidio - L'educazione morale",
cit., p. 363.
Nota 42. Ibid., pp. 389 sgg.
Nota 43. . DURKHEIM, "Le regole del metodo sociologico - Sociologia e
filosofia", Milano 1963, p. 73.
Nota 44. Ibid., p. 76.
Nota 45. Ibid., p. 77 sgg.
Nota 46. La formulazione di questo argomento stata ripresa da G.H.

MEAU, "The Psychology of Punitive Justice", "American Journal of Sociology",


vol. 23, 1918, pp. 577-602.
Nota 47. Citato in R.B. BENDIX, "Stato nazionale e integrazione di classe",
Bari 1969, p. 66.
Nota 48. Si veda A. PIZZORNO, op. cit., passim, e P. MARANINI, op. cit.,
pp. 20 sgg.

2. Devianze e conflitti

1. L'introiezione della devianza.


La scuola sociologica che si richiama esplicitamente alla sociologia di
Durkheim, lo struttural-funzionalismo, ha complessivamente rimosso difficolt
e contraddizioni delle teorie precedenti. necessario soffermarsi brevemente
sulle assunzioni generali e di principio di questa teoria perch essa fornisce
ancora oggi, nonostante abbia perduto credito negli ultimi anni, il retroterra
ideologico ai discorsi di senso comune sulla devianza (si pensi all'uso di
espressioni come "sistema di valori", "interiorizzazione", eccetera).
La coscienza collettiva di Durkheim divenuta nella teoria di Parsons il
sistema di valori societario, cio l'insieme di mete culturali che orienta il
comportamento degli attori sociali e da cui discendono le norme dell'azione
sociale. Mentre in Durkheim l'esistenza di una morale collettiva diventava
sempre pi dubbia, in Parsons e nei suoi seguaci il sistema di valori il postulato
che regge l'intera descrizione (non empirica, ma analitica) (1 ) della struttura
sociale. Questa costituita da modelli di cultura normativi (cio validi per tutti i
membri della societ), istituzionalizzati nel sistema sociale e interiorizzati nelle
personalit degli attori. Il sistema di valori l'insieme dei giudizi condivisi dagli
attori sociali, che hanno un'opinione comune e positiva della loro societ. Per
Parsons l'insieme dei valori, qualora siano condivisi, sufficiente per descrivere
le societ empiriche, cio il loro elemento caratteristico e decisivo (2). La
tendenza naturale delle societ l'ordine, che si fonda su un bisogno psichico,
comune a tutti i membri, di conformit, cio di adeguamento al sistema di mete
dominante nella societ. Il sistema di valori si pone al livello pi generale, in
quanto rappresenta un'astrazione di elementi presenti nel sistema sociale e nella
personalit (3): da esso discendono le norme sociali, che regolano e permettono
l'attuazione degli scopi generali dei gruppi sociali. Nella concreta vita sociale, il
sistema poggia sui ruoli, cio sui compiti istituzionalizzati a cui gli attori ;sono
destinati. Mentre la condivisione dei valori per Parsons un requisito
indiscutibile, il reclutamento e la distribuzione nei ruoli sono conseguenze di un
meccanismo di addestramento, la socializzazione. Nel corso della socializzazione
primaria, nella personalit del bambino si "depongono" i principali
orientamenti di valore e di apprendimento dei ruoli, che poi influenzeranno
definitivamente le scelte della vita adulta. Nella socializzazione secondaria il
membro della societ cos preparato impara ad applicare i criteri di valore alle
concrete situazioni di scelta.
L'anima del processo sociale quindi costituita dai meccanismi psichici,
affettivi e cognitivi, che permettono ali individuo di scegliere tra le possibilit
istituzionalizzate. In questo quadro non stupisce il fatto che la devianza sia "un
processo di azione motivata" di un soggetto che, pur avendo avuto la piena

possibilit di apprendere gli orientamenti richiesti, tende a deviare dalle


aspettative che gli altri si sono fatti rispetto al suo ruolo. Queste tendenze, d'altra
parte, mettono il sistema sociale di fronte a "problemi" di controllo, "dato che la
deviazione, se tollerata al di l di certi limiti tender a mutare o a disgregare il
sistema" (4). In altri termini la definizione di devianza copre tutti quei casi (dal
barbone al ribelle, dal criminale al membro di una comunit non integrata, fino
al caso estremo dello schizofrenico) in cui l'individuo non ha appreso, rifiuta o
delude valori e aspettative connessi al suo ruolo. Il controllo sociale poi non
riguarda la repressione ma il riequilibrio delle tendenze deviate: per Parsons
infatti il luogo per eccellenza in cui il controllo sociale funziona lo studio dello
psicanalista.
Gi in base a questi cenni si pu notare che il rapporto struttura socialedevianza rovesciato rispetto a Durkheim e, aggiungiamo, rispetto al buon
senso sociologico. In Durkheim (ma anche in Weber o in Marx,
indipendentemente dalle diverse formulazioni) la societ capitalistica produce
anomia (egoismo, assenza di solidariet, conflitti), che in Parsons invece
ridotta a prodotto di una cattiva socializzazione. Al determinismo di Durkheim
subentra una specie di volontarismo per cui l'attore, che ha avuto a disposizione
un soddisfacente schema di valori e la piena possibilit di interiorizzarlo, "devia"
dalle aspettative di ruolo per poi esservi ricondotto da un meccanismo di
raddrizzamento. Nella teoria di Parsons, che pur essendo astratta e
generalizzante costituisce una evidente sublimazione del sogno americano, non
esistono altri fattori decisivi di produzione della devianza: non la stratificazione
sociale, cio la disuguaglianza, dato che negli Stati Uniti le classi non esistono, la
mobilit verticale sviluppata e il successo a portata di tutti (5); e non
certamente le tensioni familiari o i condizionamenti ambientali. Nella teoria di
Parsons l'ottimismo sulle caratteristiche della societ americana una versione
sofisticata e dottrinaria dello spirito delle storie edificanti (che un tempo
"Selezione dal Reader's Digest" elargiva agli abbonati) in cui lustrascarpe
italiani e venditori di noccioline sfruttavano le risorse di una societ aperta a
tutti ("Come sono diventato un dirigente della General Motors").
Se insomma qualcuno diventa un drogato, un disoccupato o un rapinatore di
banche, non certamente per motivi che hanno a che fare con il quartiere in cui
nato, con il reddito del padre o con le attivit dei tribunali minorili. In che cosa
consiste allora per Parsons, il meccanismo d'innesco della deviazione?
Esso consiste fondamentalmente nell'incapacit dell'attore di integrarsi nel
processo di socializzazione. Ecco, nelle linee generali, come funziona tale
meccanismo. Nella socializzazione l'ego, cio l'infante, deve integrarsi in un
ruolo complementare a quello di alter (la madre soprattutto) in modo tale che i

valori comuni (quelli della societ di cui la madre si fa interprete e agente) siano
interiorizzati, e i comportamenti si integrino in un sistema di aspettative
reciproche. Il meccanismo decisivo che permette tale integrazione
l'apprendimento del compenso e della punizione, mediante il quale la madre
motiva il comportamento conforme del figlio e lo dissuade dalla deviazione.
Parsons utilizza qui la teoria psicanalitica, ma ovviamente depurata da qualsiasi
riferimento alla prepotenza dell'es, al desiderio e ai bisogni. Madre e figlio
diventano "alter" e "ego", i rappresentanti di una simbolica disparit di potere
che modella i futuri rapporti dell'individuo con i ruoli, il sistema sociale e i suoi
simili. Mediante meccanismi di apprendimento (rafforzamento, inibizione,
sostituzione, imitazione, identificazione) "alter" manipola i bisogni di "ego", lo
frustra e lo gratifica, lo compensa e lo punisce. Qui la sfera erotica vale solo
come ponte per l'attaccamento e questo come mezzo per l'apprendimento dei
ruoli. Infatti la valutazione dei reciproci atteggiamenti affettivi funziona come
mezzo di condivisione di un comune modello di valori. L'allattamento o la
tenerezza materna non sono qui fonti di piacere o manifestazioni di una
predisposizione naturale, ma modelli attraverso i quali la societ indica
all'individuo le tappe della sua vicenda di onesto cittadino, padre e lavoratore. In
seguito, il bambino imparer i modelli che non comportano attaccamento o che
lo guideranno nelle scelte della vita pratica (6).
Nel sistema di Parsons la motivazione del comportamento deviante si
inserisce in modo del tutto semplice e lineare in questo modello. Supponiamo,
dice Parsons, che per un motivo qualsiasi nel sistema interpersonale entri un
elemento di disturbo tale che l'azione di "alter" produca una frustrazione nelle
aspettative di "ego".
Di fronte alla tensione che insorge, "ego" ha varie possibilit di adattamento:
pu sopprimere il suo bisogno, pu ristrutturare la sua relazione con "alter".
Qualora per si verifichi una situazione di ambivalenza, in cui "ego" prova
ostilit per la frustrazione ricevuta da "alter" e insieme persiste il bisogno di
attaccamento, scaturiscono varie complicazioni. "Ego" cercher di ristabilire la
situazione ricorrendo alla conformit o al distacco o a entrambi, ma comunque
il suo rapporto con alter si risolver in nuove frustrazioni e complicazioni. Tale
per Parsons "la struttura essenziale del processo di formazione di una
motivazione cumulativa alla deviazione", in cui sono decisive le ambivalenze
complementari nei sistemi motivazionali di "ego" e di "alter" (7). Le direzioni del
comportamento deviante dipendono dalla combinazione di varie possibilit, ma
in ogni caso danno luogo a forme di non adattamento ai ruoli; cos a seconda del
predominio della conformit o del distacco, dell'attivit o della passivit, avremo
le forme empiriche di deviazione, dal ritualista al ribelle, dal rinunciatario al
criminale e al folle. Questi cenni mostrano come i meccanismi fondamentali

della deviazione siano, nella teoria parsonsiana, psichici e tutt'al pi confinati


nella relazione madre-bambino; la genesi del comportamento deviante
individuale; la deviazione si attua indipendentemente dal contenuto dei valori e
delle norme, bench Parsons ci avverta di sfuggita, rammentandosi che le
societ umane sono in fondo differenziate, che la nozione di devianza relativa
al tipo di norme sociali istituzionalizzate. Tuttavia, ed un esempio significativo,
il "motivo del profitto" costituisce uno scopo generalizzato, che si apprende nella
socializzazione. Bench non si tratti "di un motivo generale agli esseri umani", e
non sia legato per fortuna a qualche tipo di personalit fondamentale, esso
pure un possibile orientamento comune per l'azione, "derivante da una diversit
di radici motivazionali 'psicologiche e dalle loro combinazioni" (8). Quindi
anche il rifiuto, la rinuncia o la ribellione al motivo del profitto costituiscono
tendenze devianti, originate nella socializzazione, che saranno convenientemente
neutralizzate dallo psichiatra o dal gruppo sociale in cui il soggetto agisce.
I cardini della teoria di Parsons sono costituiti dal postulato di un sistema di
valori condiviso e dall'interiorizzazione di tali valori nella socializzazione.
Entrambi questi cardini sono in realt inconsistenti. Un sistema di valori e di
mete pu essere dominante, ma difficile che sia pacificamente condiviso. Non
facile spiegare, ad esempio, la scarsa integrazione dei neri nel sistema
professionale americano con la cattiva socializzazione. L'ostilit che i poveri e i
membri dei gruppi etnici emarginati nutrono nei confronti dei sistemi
giudiziario, assistenziale e scolastico negli Stati Uniti sfida qualunque teorico a
dimostrare, come fa Shils, un seguace di Parsons, che "la gran massa della
popolazione sta in una pi stretta affinit morale e in una pi frequente
interazione con il centro della societ" (9). D'altro canto, la teoria
dell'appropriazione individuale dei valori non in Parsons che una caricatura
della teoria psicanalitica, in cui erotismo e affettivit sono ridotti a strumenti per
l'assegnazione degli attori ai ruoli sociali. Con questi presupposti, Parsons
banalizza e minimizza il problema dei conflitti: ogni forma di devianza ridotta
all'insorgere di tensioni psicologiche nell'infanzia. Dato che in questo modo
l'infrazione ridiventa patologica essa pu essere concepita come una tendenza
marginale che il sistema in grado di correggere con i meccanismi del controllo
sociale. L'insistenza di Parsons sul sistema di valori e sulla socializzazione come
condizioni per il mantenimento dell'ordine non giustificata dalle descrizioni
empiriche della societ attuale, soprattutto americana; essa trascura che ogni
societ complessa ha stabili gruppi di norme e di valori alternativi, diversi,
devianti cos come vaste aree di ambiguit e di comportamento collettivo non
istituzionalizzato (10).
Nella versione pi elaborata e problematica del funzionalismo, quella di R.K.
Merton, il rapporto tra valori, stratificazione sociale e comportamenti alternativi

pi specificato, ma il problema della disuguaglianza in ultima analisi


irrisolto (11). Le varie forme di non-conformit al sistema sociale si innescano
quando la societ non in grado di offrire ai membri meno favoriti i mezzi per
conseguire le mete culturali istituzionalizzate. Pur riproponendo la
diseguaglianza come condizione determinante dell'anomia, la teoria di Merton
cade in un circolo vizioso. Da una parte, giudica insostenibili le richieste che la
societ presenta agli individui svantaggiati nella gerarchia sociale, e descrive
efficacemente la classe media americana ossessionata dal produttivismo e dal
successo, e dall'altra spiega l'anomia con l'inadeguatezza dei mezzi disponibili
agli individui per conseguire le mete prescritte. Che cosa avverrebbe se tutti
fossero in grado di conseguirle? Qualunque gara ha come condizione che ci
siano dei vincitori e dei vinti, e che alcuni restino in coda. Una societ in cui al
perseguimento del profitto si accompagnasse l'uguaglianza di risorse iniziali
sarebbe irreale, e comunque si avvicinerebbe al modello hobbesiano di lotta
sociale totale, piuttosto che a quello di una societ egualitaria. La critica dei
mezzi (l'ingiusta distribuzione delle risorse) non che un modo per mistificare la
struttura squilibrata della societ americana (12).
Trascurando la conformit, a cui dedica poche note, Merton individua
quattro modi di adattamento individuale alla contraddittoria pressione sociale:
l'innovazione, il ritualismo, la rinuncia e la ribellione. Di essi Merton analizza
soprattutto l'innovazione, ovvero la tendenza ad usare metodi sleali per
conseguire ad ogni costo le mete prescritte, cio il successo (13). L'innovazione si
manifesta a due livelli. Negli alti gradi della struttura sociale essa produce il
"crimine dei colletti bianchi", cio le infrazioni della legge tipiche del mondo
degli affari. Merton non spiega per come la violazione delle norme sulla
concorrenza commerciale, ad esempio, possa risultare dalla violazione
individuale delle regole. Questo poteva valere nel secolo scorso per i primi
fondatori delle grandi imprese, i cosiddetti "robber barons", ma non per le
grandi organizzazioni industriali e finanziarie moderne. Merton riconosce poi,
con T. Veblen, che non facile distinguere, nella prassi commerciale, tra attivit
lecite e illecite, e non ci dice molto sui criteri sociologici di distinzione tra
pratiche correnti, legittime e devianti. Si ha il sospetto che la distinzione sia
ardua. La storia delle leggi "anti-trust" negli Stati Uniti mostra che le pratiche
cosiddette devianti nel mondo economico possono essere istituzionalizzate senza
che la stabilit del sistema sia minacciata (14). Viene allora il dubbio che la
deviazione dell'agire dalle norme sia anche un problema di definizione "sociale"
del comportamento; nel caso delle pratiche commerciali e industriali illegali la
difficolt di definizione (15) non esprime altro che la normalit dei metodi
"sleali".
Negli strati inferiori della struttura sociale la tendenza all'innovazione non

per Merton che la reazione normale alle contraddittorie richieste del sistema. Da
una parte si chiede agli individui posti ai bassi livelli della struttura sociale che
essi "orientino la loro condotta verso la prospettiva di un largo benessere".
Dall'altra si nega loro la possibilit di raggiungere tale obiettivo (16). Merton
riconosce dunque che la struttura sociale americana non affatto aperta come
sostiene Parsons. Ma la sua analisi della devianza, che si basa in buona misura
sul senso comune, si contraddice subito quando la genesi del comportamento
deviante, che pure strettamente correlato alla stratificazione sociale,
ricondotta al fatto che "gli individui sono stati socializzati in modo imperfetto,
cos che essi abbandonino i mezzi istituzionalizzati pur di mantenere
l'aspirazione al successo" n. La tesi di Merton in fondo che i poveri, gli
immigranti, i neri, ecc. affascinati dall'esempio dei pescecani della finanza, o
educati da genitori troppo severi o troppo permissivi, decidono di partecipare
alla gara prendendo delle scorciatoie. In realt se c' un esempio che conta nelle
carriere devianti degli abitanti degli "slums", quello di un membro della loro
comunit che riuscito a sopravvivere partendo da una situazione di
emarginazione. Ricerche su comunit di immigrati hanno mostrato che
l'organizzazione mafiosa, l'"entourage" del piccolo boss e le iniziative dei
gangster rionali costituiscono spesso le sole risorse di sussistenza di ambienti
circondati da una societ ostile o chiusa (18). chiaro che l'influenza dei modelli
culturali prevalenti in una societ non pu essere sottovalutata. Ma il fascino che
in ogni epoca emana non solo dal bandito sociale o dal vendicatore, ma anche
dal bandito "tout-court" fa pensare che i valori degli emarginati non coincidano
necessariamente con quelli degli uomini d'affari (19).
La teoria di Merton, che cerca di conciliare il riconoscimento della
disuguaglianza sociale con l'esistenza di un sistema di valori condivisi, non
dunque in grado di spiegare quelle situazioni in cui il "crimine" non ha delle
caratteristiche immediate di innovazione sociale. La delinquenza delle bande, la
violenza giovanile e l'"irrazionalit" degli emarginati sono al centro delle teorie
sulle sottoculture, che cercano di integrare e di completare lo schema di Merton.
Cohen, ad esempio, basa la sua teoria delle bande giovanili sul fatto che lo
spirito della cultura di banda "maligno, distruttivo ed edonistico" (20) e non
immediatamente interessato, sia pure con l'uso di mezzi illeciti, al
conseguimento del successo monetario ecc. Pertanto la teoria di Merton non lo
soddisfa, perch essa in grado di spiegare la delinquenza organizzata e
professionale, ma non il comportamento apparentemente immotivato delle
bande. Il punto di partenza di Cohen che il fenomeno della sottocultura
delinquente riguarda soprattutto la giovent operaia, che si trova esposta nella
societ americana a pressioni contrastanti; da una parte ci sono i valori
razionalistici, contrattualistici e acquisitivi della "middle class", che
costituiscono il modello di valore dominante della societ americana; dall'altra

ci sono i valori della classe di appartenenza, la "lower class", fondati sulla


reciprocit e sullo spirito comunitario. Questo scontro di tendenze culturali, pi
forte evidentemente per le comunit di immigrati, da luogo alla nota situazione
di ambivalenza. Quando il ragazzo riesce a venire a patti con la cultura
dominante avremo il comportamento del "corner boy", descritto da Whyte (21),
che cerca di organizzare la propria sopravvivenza nell'ambito delle possibilit
offerte dalla comunit. Quando invece il ragazzo non riesce ad integrarsi in un
comportamento sociale utilitaristico, avr luogo una "formazione reattiva",
caratterizzata da una risposta esagerata e apparentemente immotivata la cui
funzione quella di difendere il soggetto da una minaccia interna. In questo
modo Cohen spiega la devianza fine a se stessa, la violenza gratuita, il furto non
motivato dal guadagno tipici delle bande giovanili.
Anche Cohen, che parte da considerazioni relative alla stratificazione sociale,
approda a una spiegazione psicologica della motivazione deviante. Egli guarda
con paternalismo e comprensione al problema sociale della delinquenza
giovanile, senza essere sfiorato dal sospetto che nel rifiuto "irrazionale" dei
modelli prevalenti nella societ americana ci sia qualcosa di diverso da un
problema di adattamento individuale e di socializzazione ( significativo che
Cohen fissi l'inizio dell'atteggiamento deviante nel rifiuto della scuola, di cui egli
ammette la tendenza ad emarginare i giovani proletari). Anche l'altra
importante teoria delle bande, quella di Cloward e Ohlin (che respinge le
interpretazioni psicologiche, riconosce che le sottoculture delinquenti sono
prodotto inevitabile di ogni sistema sociale e tiene conto di un maggior numero
di fattori) non esce in definitiva dallo schema conflittuale tracciato da Merton.
Per questi autori la pressione sociale non sufficiente a spiegare la delinquenza.
invece determinante il tipo di organizzazione sociale presente nello "slum", e
quindi la diversa disponibilit di mezzi illegittimi con cui il giovane delinquente
pu conquistarsi uno status.
Avremo allora una cultura criminale (quando lo "slum" disorganizzato e
quindi la violenza non finalizzata) e infine la cultura astensionistica (tipica
degli "hipsters", dei drogati e dei giovani che non potendo integrarsi in nessuna
cultura scelgono la ritirata come ultima risorsa (22)).
Le teorie a cui abbiamo accennato convergono almeno in un punto: il
comportamento deviante di ogni tipo sintomo di contraddizioni sociali e
culturali, che si riflettono nei comportamenti individuali. Queste teorie offrono
tutta una gamma di interpretazioni che si basano su un elemento comune, come
al solito determinato dall'accettazione arbitraria di criteri morali, cio la
definizione socialmente accettata e tacitamente convenuta di alterit di un gran
numero di comportamenti. Qual l'elemento unificante comune alle bande

giovanili (che spesso sono soltanto una forma transitoria di organizzazione),


l'uso di alcool e di stupefacenti, le "deviazioni sessuali", la prostituzione, il
suicidio, le malattie mentali e tutti gli altri comportamenti puniti dalla legge o
stigmatizzati dalla societ, se non la definizione negativa delle istituzioni e delle
pratiche di controllo sociale? Su questo punto le teorie citate non hanno prodotto
molto. In Parsons, Merton, Cohen, ecc. la stratificazione sociale viene
minimizzata oppure usata per convalidare uno schema di mete che, per quanto
contraddittorio, ipotetico o estraneo a molti gruppi sociali, resta il punto fermo
di ogni interpretazione. In queste teorie l'esistenza dei vari apparati di
repressione o di controllo sempre vaga. Il deviante sempre considerato dal
punto di vista del pericolo potenziale, e quindi della sua funzione, non della sua
realt. Che i gruppi o gli individui cos definiti abbiano degli interessi, delle
esperienze, degli scopi e dei valori autonomi un fatto che provoca stupore.
Costruendo un concetto generalizzato di devianza, che si applica a qualunque
tipo di comportamento diverso, questi autori non hanno che convalidato quei
valori e quelle norme, di cui pure riconoscono la contraddittoriet.
Accettando la definizione istituzionale della diversit, essi ne hanno
perpetuato la condanna sociale. Infine, ponendosi nella prospettiva della terapia
(logico sbocco di interpretazioni psicologiche) essi hanno riconosciuto
esplicitamente o implicitamente la funzione di quelle istituzioni che appaiono
sempre pi come le fonti della differenza e della stigmatizzazione.

2. La crisi del modello sociologico classico.


Prima che il funzionalismo divenisse il paradigma sociologico dominante, nei
primi decenni del secolo si era sviluppata a Chicago una delle scuole pi
importanti della sociologia americana. Influenzata da Dewey, da G. H. Mead e
dalle tendenze riformiste affermatesi durante la fase dello sviluppo capitalistico
selvaggio dei primi anni del secolo, la scuola di Chicago era soprattutto
interessata ai problemi connessi all'industrializzazione, allo sviluppo e
all'organizzazione delle citt, all'immigrazione e alla mobilit geografica della
forza-lavoro. Chicago, tradizionale focolaio di insurrezioni operaie, punto di
raccolta e di smistamento di lavoratori vaganti e stagionali, agglomerato in cui
le enormi fortune capitalistiche coesistevano con gli "slums", era considerata la
citt in cui si riassumevano le contraddizioni del capitalismo americano, e
quindi il tipo urbano per eccellenza (23).
Tra i problemi studiati dalla scuola di Chicago, le varie forme di marginalit,
la delinquenza giovanile e la disintegrazione sociale avevano un posto di rilievo.
Pi ancora che lo schema teorico (basato su una concezione ecologica e ancora
organicistica della societ, sulle aree naturali come unit sociali fondamentali e
sul concetto di disorganizzazione sociale) la scuola di Chicago ha influenzato la
sociologia americana per il suo caratteristico metodo di lavoro, basato
sull'osservazione diretta dei fenomeni, e interessato all'organizzazione di
ricerche empiriche piuttosto che alla formulazione di teorie. La scuola di
Chicago avrebbe lasciato in eredit ai sociologi non conformisti degli anni '60
una grande quantit di materiale empirico e la curiosit per gli aspetti
apparentemente marginali della vita sociale, per il funzionamento dei
meccanismi e delle norme sociali nella vita di ogni giorno, per i problemi
dell'interazione e della comunicazione (24).
La scuola di Chicago si era sviluppata in un'epoca in cui il capitalismo
americano aveva imboccato la strada della razionalizzazione della produzione e
dell'organizzazione scientifica del lavoro. Sensibile ai problemi della nuova vita
industriale essa aveva trovato nel concetto di "disorganizzazione sociale" la
formula che spiegava la crisi delle istituzioni tradizionali (famiglia, comunit)
nel processo di formazione di un nuovo tipo di forza-lavoro e nel dissolvimento
delle relazioni sociali tradizionali. La scuola di Chicago era interessata alle
riforme e mostrava un atteggiamento moralistico verso gli aspetti pi vistosi
della nuova civilt capitalistica (si vedano, per esempio, le pagine di Park sui
rapporti tra automobile e vizio nella metropoli (25)) L'interesse dei
"Chicagoans" era attratto dallo stile di vita urbano e da tutti i fenomeni che
indicavano uno stravolgimento delle abitudini e dell'esperienza nella societ
industriale. La vita negli alberghi, la solitudine delle camere ammobiliate, la

malinconia urbana e l'emarginazione nei ghetti (descritte con efficacia da pittori


come Hopper o Ben Shan) erano gli obiettivi di ricerche contrassegnate dal
gusto del patetico e del pittoresco (come lo studio di Zorbaugh sui quartieri
emarginati di Chicago e la ricerca di Paul Cressey sulle sale da ballo) (26).
Lo studio delle sottoculture e delle comunit marginali riguardava
soprattutto la localizzazione e la genesi della delinquenza nelle citt. Nelle
ricerche sui ghetti neri, sulla cultura dei vagabondi (gli "hoboes"), sulle bande e
sulla malattia mentale, la nozione di patologia, che aveva perso influenza con il
tramonto del positivismo e sarebbe ricomparsa in forma sofisticata con il
funzionalismo, era sostituita dall'apprezzamento e dalla simpatia per la
diversit, ma anche dalla tendenza a vedere nelle forme di emarginazione
sociale soprattutto il folklore. Questa miscela di sensibilit sociologica, di
moralismo e di vago riformismo l'aspetto caratteristico della scuola di
Chicago. Gli studi di Anderson sugli "hoboes" e di Thrasher sulle bande ne sono
buoni esempi (27). Anderson partiva dalla constatazione che gli "hoboes" si
concentravano in particolari aree alla periferia della citt e in determinati
quartieri. Egli studiava i vari aspetti della cultura "hobo", i mezzi di sussistenza,
lo stile di vita, le personalit tipiche e infine le idee politiche. Anderson
sottolineava il fatto che le comunit hobo disponevano di un'organizzazione
sociale particolare, ben differenziata dalla societ circostante. Questa idea della
devianza come "organizzazione differenziale", che possiede quindi le sue regole e
i suoi codici di comportamento e di comunicazione, sarebbe stata sviluppata
successivamente da Sutherland ed in fondo un punto di partenza anche per la
sociologia della devianza degli anni '60. Anderson abbandonava quindi
qualunque riferimento alla patologia e riconosceva l'esistenza di una forma di
diversit organizzata e autonoma. Il vagabondaggio risultava quindi da una serie
di fattori, dalla disoccupazione alle crisi industriali, dalla discriminazione etnica
e razziale fino al "Wanderlust" (il piacere del vagabondaggio). Al tempo stesso,
lo studio di Anderson riservava solo un piccolo posto all'I.W.W., l'organizzazione
sindacale e politica dei lavoratori vaganti, stagionali e non qualificati, che aveva
condotto dure lotte per il salario e per la libert sindacale, e costituiva una delle
organizzazioni pi combattive del movimento operaio americano (28).
La trasformazione del problema operaio in problema "sociale" un'altra
caratteristica della scuola di Chicago. Alcune delle ricerche pi note (quelle di
Thrasher, Shaw e McKay, eccetera) riguardavano la diffusione urbana delle
subculture delinquenti. Pur mancando di precise ipotesi di ricerca, questi studi
abbondavano di informazioni sulla cultura, l'organizzazione e lo stile di vita delle
bande. Sottocultura e "gangs" erano considerati fenomeni coincidenti. Lo studio
di Thrasher era soprattutto una classificazione di gruppi giovanili operai e
immigrati, diversi tra loro, che comprendevano la piccola banda di adolescenti

come la grande organizzazione criminale. Con questa impostazione l'intera


popolazione giovanile operaia e marginale diventava l'espressione vivente della
disorganizzazione sociale nell'epoca della Depressione.
Queste ricerche erano sostenute e finanziate dalle autorit locali e da
organizzazioni di assistenza e di beneficenza pubbliche e private. Nonostante il
loro carattere empirico e il loro tono impressionistico, queste ricerche avevano
un indiscutibile vantaggio sulle teorie funzionaliste. Esse facevano ampiamente
"parlare" i membri delle culture subalterne. L'esperienza della vita quotidiana,
la comunicazione, i gerghi, le relazioni nei piccoli gruppi avevano il sopravvento
sulle teorie sociologiche formali e sullo stesso materiale statistico. In questi studi
emergeva cos una realt sociale vivente e dinamica vista con gli occhi
dell'esperto che, alla fine della ricerca, suggerisce le misure pi opportune per
risolvere i "problemi". La societ, che in tutta la teoria sociologica e soprattutto
in quella funzionalista aveva sempre l'aspetto di un meccanismo dato per
scontato, diventava cos una realt materializzata e intersoggettiva. L'attenzione
per gli aspetti minuti della vita quotidiana, per gli incontri e le "situazioni",
ereditata da Simmel, dalla pragmatica di Morris e dall'interazionismo di Mead,
la caratteristica che la scuola di Chicago ha trasmesso alle tendenze radicali
degli anni '60 e 70, con tutte le sue ambiguit (29). Rinunciando al deduttivismo
della grande Teoria, la scuola di Chicago ha permesso di ovviare alla rigidit e al
formalismo della scuola funzionalista, eliminando il carattere dogmatico della
ricerca ed elaborando delle teorie pi adattabili alla natura dei microconflitti
contemporanei. La scuola di Chicago rappresenta dunque l'inizio di quella
sociologia "democratica" e dinamica che riconosce l'esistenza dei conflitti (cos
come il funzionalismo tende a disconoscerla e vanificarla), il dato di fatto della
disomogeneit culturale, il carattere problematico del controllo (30). La
naturalit della societ (che le teorie precedenti fissavano volta per volta
nell'organismo complessivo, nella solidariet e nella coscienza collettiva, e infine
nella vita psichica) viene fatta scaturire dalle differenze, dalle diversit culturali,
dallo stesso gioco sociale. Questa naturalit problematica descrive lo spazio di
ambiguit delle teorie sociologiche pi recenti: eliminando la pretesa dei valori,
della morale e della coscienza collettiva, questa sociologia tenta una descrizione
realistica del pluralismo sociale e dei conflitti; rinunciando a qualunque
categoria globale, essa non pu che rinunciare a qualunque discorso politico sul
significato, la portata e l'avvenire di questi conflitti.
Le teorie pi recenti della devianza (elaborate in America a partire dagli anni
'60) si ricollegano a questa tradizione di ricerca sul campo e di attenzione
all'aspetto quotidiano e interattivo della vita sociale. Cos la corrente pi nota, la
"labelling theory", si colloca senz'altro nella corrente dell'interazionismo
simbolico, in cui sono centrali i concetti di "self" (l'identit come risultante

dall'interazione tra l'Io e gli altri), di processo, di apparenza, di gioco (31). Gli
esponenti di questa scuola sottolineano che il comportamento deviante pu
essere compreso solo nei termini di un continuo cambiamento dell'identit
dell'attore sociale, che riflette lo sviluppo dei processi di interazione. Essi si
occupano quindi della storia sociale e degli effetti ramificati del comportamento
deviante, piuttosto che della situazione iniziale dell'attore. Questi autori operano
una scissione tra l'individuo e la deviazione, atto che imputato all'individuo
dagli altri e a cui l'individuo reagir in vari modi. Il soggetto deviante allora il
segmento di un sistema che coopera alla produzione dell'evento, di cui soltanto il
deviante sar reso responsabile. In questo sistema ha grande importanza il
valore simbolico dell'evento e quindi la "drammatizzazione del male",
meccanismo che pu operare sia al livello dei piccoli gruppi ( il caso della
denuncia con cui qualcuno evidenzia la trasgressione) sia al livello politico e dei
sistemi di informazione (ad esempio le campagne di stampa sulla criminalit).
Questi presupposti sono chiariti da Lemert in uno dei suoi primi saggi
sull'argomento e da Becher in un'opera divenuta ormai classica:
Noi partiamo dall'idea che le persone e i gruppi siano differenziati in vari
modi, alcuni dei quali producono sanzioni sociali, rifiuto e segregazione. Queste
sanzioni e reazioni di esclusione da parte della societ o della comunit sono
fattori dinamici che aumentano, diminuiscono e condizionano la forma assunta
dall'iniziale differenziazione e deviazione (32).
I gruppi sociali producono la devianza creando le regole la cui infrazione
costituisce la devianza, applicando quelle regole a particolari persone ed
etichettandole come "outsiders" [...]. La devianza non una qualit dell'atto
commesso dalla persona, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione, da
parte degli altri, di regole e sanzioni al trasgressore (33).
Partendo da questi presupposti gli autori citati costruiscono un modello in
cui entrano molte variabili, ma i cui elementi decisivi sono la reazione degli altri
ad un determinato comportamento e la trasformazione dell'identit del soggetto
(34). Esempi drammatici di trasformazione dell'identit sono l'esperienza di chi
stato pubblicamente etichettato come deviante e i rituali di degradazione dello
status.
In questi rituali l'identit dell'individuo percepito come deviante diventa
trascurabile, mentre decisiva quella costituita in base all'etichetta assegnata
dagli altri. Il soggetto diventa in questi processi un'altra persona e quindi il suo
comportamento dipender in larga misura da questa nuova ed esterna
definizione del s. Esempi di queste trasformazioni si trovano nei casi

dell'omosessualit e dell'uso di stupefacenti (35). Le etichette vengono assegnate


nel corso di processi privati e pubblici. In questi ultimi determinante la
"carriera", cio la sequenza di interventi istituzionali e adattamenti individuali,
che porta il soggetto a diventare ci che la societ o la comunit vogliono che egli
sia (36).
I processi di reazione alla devianza possono essere anche descritti con il
linguaggio della teoria dei sistemi. Per motivi diversi, gli individui che poi
saranno etichettati come devianti cominciano a comportarsi in modi che violano
le norme correnti o il senso morale del gruppo o di alcuni membri (i cosiddetti
imprenditori morali). L'infrazione iniziale costituisce la cosiddetta deviazione
primaria ". In molti casi il contenuto offensivo della trasgressione non emerge
pubblicamente e viene assorbito nel gruppo e nella comunit. In altre situazioni,
dipendenti dall'evidenza della trasgressione, dallo status dell'individuo, dal
livello di tolleranza della comunit e dall'intervento delle istituzioni, la
trasgressione ha gravi effetti sull'ambiente dell'individuo, sulla famiglia e sui
compagni di lavoro, provocando una pubblica crisi, che pu risolversi con una
dichiarazione ufficiale di malattia mentale e con altri interventi istituzionali.
La risposta sociale della comunit funziona come retroazione sull'individuo,
rafforzando la sua definizione di s come deviante (38). Il semplice modello qui
sintetizzato pu valere sia per i "malati mentali" sia per i "delinquenti" e in
generale per tutti i casi in cui una limitata infrazione iniziale provoca il
risentimento del gruppo.
Questi meccanismi interpersonali di costituzione della devianza sono evidenti
nelle carriere psichiatriche. Nel "gioco" del malato mentale (come in quello
dell'alcolista, del tossicomane, ecc.) esistono ruoli precisi svolti da persone che
circondano il deviante e l'accompagnano nel cammino che va dalla trasgressione
iniziale al ricovero in una istituzione totale (39). Questi ruoli sono l'"accusatore"
(chi per primo richiama l'attenzione del gruppo o del pubblico sulla
trasgressione), la "persona di fiducia" (il parente stretto o l'amico che assistono
il deviante) e infine i "mediatori", che hanno il compito di riassumere in atti
pubblici o in decisioni formali la fase della carriera che precede l'internamento.
L'intervento cumulativo di queste figure rinforza nel soggetto la sensazione di
essere vittima di una cospirazione. I tentativi di ribellarsi alla cospirazione
giustificano ulteriori e definitivi interventi di esclusione o di segregazione.
In un saggio sul contesto interpersonale della paranoia (40), Lemert si
chiede se le insidie a cui il paranoico reagisce siano soltanto pseudorealt, o
piuttosto reazioni sproporzionate del gruppo alla trasgressione iniziale. Nei casi

studiati da Lemert, il processo di esclusione ha inizio quando un individuo


manifesta sintomi causati da tensioni o problemi della sua vita privata o dello
stesso ambiente di lavoro. In una organizzazione burocratica le tensioni e le
difficolt dei membri pi deboli aumentano quanto pi competitiva la
situazione professionale e quanto pi l'organizzazione richiede ai suoi membri
una forte solidariet. Se l'organizzazione si sente minacciata dalla presenza di un
membro "di cui non ci si pu fidare" inizia complesse manovre per escludere il
"nemico" dal normale flusso di informazioni. Quanto pi il disturbatore
escluso dalla comunicazione con i colleghi, tanto pi egli sentir che questi
incrementano le comunicazioni all'interno del loro gruppo fino a coalizzarsi in
una vera cospirazione ai suoi danni.
Uno degli aspetti pi importanti della situazione di reazione sociale a un
sintomo o a un'infrazione la tendenza delle organizzazioni a sviluppare forme
di controllo segrete (controlli dietro i controlli), per mezzo delle quali gruppi
particolari rafforzano la coesione interna e combattono i rivali o i marginali.
Mediante questi controlli il disturbatore escluso dai canali strategici di
comunicazione ed esposto a messaggi contraddittori che possono produrre
risposte confuse o deliranti (41). La produzione e l'esclusione dei devianti come
mezzo di adattamento e di rafforzamento della solidariet sono caratteristiche
anche di sistemi sociali pi complessi. Comunit per le quali diventa decisivo
verificare l'adesione dei membri alle norme collettive sviluppano particolari
forme di controllo che generano ondate di devianza e di persecuzione. Le
comunit puritane insediatesi nella Nuova Inghilterra nella seconda met del
Diciottesimo secolo organizzarono in pochi anni tre ondate di persecuzione degli
eretici. In mancanza di altri motivi di repressione, i quaccheri erano condannati
a pene sanguinose a causa dell'abbigliamento o del taglio dei capelli che
violavano le minuziose prescrizioni puritane. Il furore punitivo non era motivato
soltanto dalla rigida morale della comunit ma soprattutto dall'esigenza di
rafforzare la solidariet e il potere dei gruppi dirigenti. Ogni ondata di
repressione seguiva quasi meccanicamente una crisi di legittimit dei gruppi
dirigenti, sia nel caso di contestazioni interne dell'autorit politica sia nel caso di
pericoli esterni, come la concorrenza di comunit religiose rivali (42).
Nella societ contemporanea il rapporto tra potere, repressione e creazione
della devianza molto pi complesso e nascosto, ma la capacit di manovrare e
utilizzare la "drammatizzazione del male" infinitamente pi sviluppata. Oggi, il
mito delle ondate di criminalit, agitato dal potere politico mediante il controllo
della stampa e la manipolazione delle statistiche, uno dei mezzi pi idonei per
combattere l'opposizione politica e rafforzare l'autorit dei gruppi dirigenti. Ci
che cambiato, nella societ contemporanea, piuttosto il tipo di controllo
sociale, che tende ad assumere forme sempre pi capillari e mistificate sotto le

apparenze della terapia e della prevenzione (43). Uno degli aspetti pi


interessanti delle ricerche dei "labelling theorists" appunto l'individuazione
delle istituzioni del controllo sociale come meccanismi di produzione e di
amplificazione della devianza. Le ricerche di Skolnick sull'organizzazione della
polizia, di Cicourel sulla giustizia giovanile, di Schur sulla criminalizzazione dei
comportamenti socialmente inoffensivi, non mostrano soltanto l'arbitrariet e la
discrezionalit delle procedure giudiziarie, ma anche le varie forme di
complicit che si instaurano e si istituzionalizzano tra gli operatori giudiziari. Ad
esempio, Sudnow mostra che i difensori d'ufficio tendono ad accordarsi con
l'accusa sulla base di una normale presunzione di colpevolezza del loro cliente, e
che in generale i loro rapporti con gli accusatori e i giudici sono molto pi intimi
di quelli con gli accusati (44). Le ricerche sulle attivit quotidiane della polizia
hanno ampiamente documentato che la presunzione di colpevolezza che motiva
gran parte delle indagini (soprattutto nel campo della delinquenza giovanile,
dell'attivit di prevenzione e di informazione) non si basa su un'imputazione
precisa ma sulla definizione socialmente negativa di un comportamento
inoffensivo, e quindi su uno stereotipo. Il delinquente non un giovane a cui sia
capitato di commettere un atto illegale, ma piuttosto ogni giovane con un
determinato aspetto un delinquente occulto e potenziale che deve essere
smascherato. Questa presunzione generalizzata di colpevolezza ha due
importanti corollari. Da una parte la polizia detiene il potere indiscutibile di
vedere i delitti. Dall'altra, gli oggetti di tali attenzioni saranno immessi in una
carriera la cui irreversibilit altamente probabile. Date queste premesse, la
produzione di reati dipender soprattutto dalle caratteristiche organizzative
interne delle istituzioni repressive, piuttosto che dagli aspetti formalmente
illegali di un comportamento. In altri termini la produzione di reati dipender
dagli equilibri che si stabiliscono all'interno di un'organizzazione e tra le
organizzazioni. Cos la politica di efficienza e di produttivit di un ufficio diventa
il criterio decisivo nell'organizzazione della routine giudiziaria e poliziesca (45).

3. L'emergere dei conflitti.


Questi cenni dedicati alla "labelling theory" possono forse chiarire i limiti di
un discorso che porta alle estreme conseguenze la critica delle teorie sulla
devianza, ma sempre all'interno dell'universo sociologico. I "labelling theorists"
si occupano soprattutto dei processi mediante i quali i "devianti" sono
selezionati, etichettati, manipolati dalle istituzioni e socialmente degradati. Essi
hanno prodotto una grande quantit di materiale su questi processi e hanno
costruito modelli che possono essere applicati alla produzione in generale di
esclusione e di devianza. Ma ha ancora senso parlare allora di devianza? Queste
ricerche liquidano in fondo ogni pretesa teorica (ad esempio della criminologia o
della psichiatria) che le infrazioni siano prodotte da cause di tipo biologico o
psicologico. A queste si sostituiscono gli automatismi delle istituzioni che creano
le differenze e le devianze a partire da una ineliminabile microconflittualit
sociale. Questo risultato si espone per a diverse critiche. Fondando le loro
teorie sui processi di stigmatizzazione nei processi di interazione, i "labelling
theorists" tendono a limitare l'attenzione ai meccanismi periferici di controllo.
Le loro indagini non vanno al di l delle pratiche quotidiane delle istituzioni e
non riescono a diventare analisi dei meccanismi di potere. Senza pretendere che
esista alcun finalismo nelle pratiche repressive, innegabile che queste ricerche
si limitano agli esecutori (poliziotti, magistrati, psichiatri) piuttosto che alla
logica di produzione della devianza. In questo modo, esse restano nell'ambito di
una denuncia degli aspetti pi oppressivi, anche se occulti o scarsamente visibili,
del cosiddetto controllo sociale. Esse non sono in definitiva che una rilevazione,
sempre pi disincantata e pessimistica, delle sopraffazioni che le istituzioni
repressive esercitano sui gruppi o sugli individui economicamente o
culturalmente pi deboli, del disordine prodotto da chi avrebbe il compito di
mantenere l'ordine, della violenza endemica nella societ. Se questa rilevazione
spazza via le immagini rassicuranti che la sociologia, soprattutto americana, ha
diffuso negli ultimi decenni, essa non pu avere che una conseguenza pratica:
l'appello alla denuncia democratica degli abusi, in ultima analisi la riforma di
istituzioni irrazionali e patogene. Quando l'analisi passa ai conflitti collettivi o
politici (rivolte nei ghetti, repressione delle lotte studentesche alla fine degli anni
'60, congiure politiche), il discorso mostra tutta la sua portata ideologica: si
tratta infatti di colpire le repressioni indiscriminate, i pregiudizi collettivi, le
trame interne agli apparati di potere, perch le giuste rivendicazioni degli
emarginati possano esprimersi, perch insomma la vita democratica sia liberata
dalla sopraffazione (46).
In questa microsociologia della violenza quotidiana riemerge cos il tentativo,
tipico della sociologia liberale del dopoguerra, di produrre una teoria del
conflitto compatibile con la logica e la sopravvivenza della democrazia. Si tratta

cio di riportare la pluralit di conflitti che traversano una societ democratica


(in America i conflitti etnici o sindacali, l'emergere dei movimenti giovanili
eccetera in un quadro di critica della razionalit del sistema democratico. Cos,
in un primo tempo, la stessa categoria giuridica di reato viene dissolta in un
quadro di conflitto sociale. Ad esempio Vold, uno dei primi ricercatori che
proponevano di sostituire una teoria dei conflitti alla teoria criminologica,
notava che gran parte dei reati conosciuti avevano un'origine direttamente o
indirettamente politica (e quindi non solo i reati sindacali ma anche quelli
connessi alle proteste sociali di ogni tipo) (47). Vold considerava il reato come
un tipo di comportamento espresso da gruppi minoritari nella societ (ad
esempio le bande di giovani emarginati nelle periferie urbane), punito per
rafforzare l'identit dei gruppi al potere e la lealt dei loro sostenitori. Per Vold e
per Coser (48), che riprendevano le ipotesi di Durkheim sulla necessit del reato
e di Simmel sulla funzione coesiva del conflitto, gli antagonismi sociali venivano
amplificati e criminalizzati dal centro della societ per rafforzare la legittimit
dei gruppi dominanti. Le teorie pi recenti del conflitto, che si rifanno
largamente alle ricerche dei "labelling theorists" sulla stigmatizzazione,
costruiscono complicati modelli per dimostrare come la definizione legale dei
comportamenti sociali porti inevitabilmente alla criminalizzazione, e quindi a un
meccanismo perverso di repressione e di devianza (49). L'esempio forse pi
illuminante di questa tendenza a interpretare i conflitti a partire dall'eccesso di
repressione costituito dalle analisi delle sommosse che hanno investito i ghetti
negri di importanti citt americane negli anni '60. Polemizzando con i risultati
delle commissioni governative che parlavano (nei termini delle teorie
patologiche pi tradizionali) di "rabbia insensata", "violenza indiscriminata,
immotivata e patologica", i sociologi del conflitto hanno messo in luce le
motivazioni concrete e inevitabili delle rivolte. Non si trattava cio di violenza
immotivata, ma del bisogno di riappropriarsi dei beni che la societ opulenta
non concedeva, dell'impossibilit di soddisfare bisogni primari e di incidere
sulle scelte collettive. In altri termini le sommosse erano prodotte da un ingorgo
dei canali normali dell'espressione democratica, quindi dall'esclusione e
dall'emarginazione. Secondo le parole di Coser:
Ci che sembra essere successo a Watts lo sforzo di una minoranza attiva
nel ghetto nero, sostenuta da una massa di non partecipanti, di manifestare la
volont di non accettare, senza reagire, l'umiliazione e la frustrazione. In
particolare essi cercavano di comunicare la loro disperazione con atti violenti
poich non avevano accesso a nessuno altro canale di comunicazione (50).
Insomma, se l'oppressione e l'esclusione sono cause pi o meno remote di
questi conflitti, il motivo che innesca la protesta quasi sempre costituito da
provocazioni della polizia, dall'intervento dell'esercito nella repressione, in

definitiva dall'irrazionalit "contingente" dei sistemi di controllo sociale e


dall'irrazionalit strategica del sistema di governo (51). Con la "labelling theory"
e la sociologia "liberal" del conflitto il paradigma sociologico (prima fondato
sulla presunzione della solidariet e poi sulla condivisione di valori e scopi)
apparentemente rovesciato. L'insostenibilit progressiva di teorie sulla cultura
condivisa ha portato la teoria sociologica a rinunciare a ogni tentativo "dall'alto"
di spiegare il funzionamento sociale. Da macchina complessiva dell'ordine la
societ diviene l'interconnessione pluralistica di macchine da conflitto. Alla
teoria dei sistemi naturalmente equilibrati sostenuta dal funzionalismo si
sostituiscono teorie dei sistemi aperti che sopravvivono solo se sanno prevedere
il cambiamento, evitare la rigidit e accumuli irrazionali e antieconomici di
tensioni (52).
Indubbiamente la sociologia americana contemporanea ha tentato di
risolvere in modo pluralistico il problema della legittimazione dell'ordinamento
complessivo. L'individuazione della realt sociale dei conflitti, la critica dei
modelli e delle pratiche istituzionali di contenimento delle tensioni individuali e
collettive (come la repressione penale e la psichiatria) disegnano cos uno spazio
ambiguo: da una parte viene smascherato il funzionamento delle organizzazioni
di controllo e viene descritta efficacemente la repressione quotidiana; dall'altra
si legittimano nuove modalit di soluzione dei conflitti. Devianze e differenze,
liberate dai determinismi tradizionali sono assoggettate a meccanismi pi
elastici e disseminati nella variet sociale. Cos, se la criminalit giovanile
amplificata dagli interventi repressivi e dalla routine poliziesca, si tratta di
sostituire, o di integrare, le misure repressive con la prevenzione, l'assistenza, il
sostegno psicologico. La critica dell'istituzionalizzazione psichiatrica, della
prigione come luogo di produzione di carriere devianti, in generale del controllo
come produttore di conflitti, apre la strada a una tecnologia di riparazione delle
tensioni nei loro ambiti naturali, la famiglia, la scuola, la vita di comunit, il
luogo di lavoro (53).
Sarebbe semplicistico descrivere queste nuove tendenze come dominanti, o
ignorare i nuovi spazi di conflittualit che si aprono in questi territori dove in
corso la de-istituzionalizzazione. Ma in essi si avanza una realt della vita sociale
in cui i grandi conflitti sono smontati progressivamente in conflitti parziali, in
cui la critica spesso acuta delle istituzioni patogene si trasforma in
assoggettamento alla logica naturale delle unit sociali fondamentali. Le teorie
sociologiche della devianza e del conflitto arrivano dunque a distruggere
l'esistenza teorica della devianza, a restituire in una certa misura agli attori
sociali quella "libert" che i positivismi di ogni tipo hanno sempre cercato di
esorcizzare. Ma si tratta della libert di partecipare alla normalizzazione della
vita sociale, non della libert di produrre delle socialit autonome e di difenderle

contro le definizioni dell'ordine sociale. Interpretare devianze, proteste e lotte


come prodotto dell'irrazionalit del potere significa in ultima analisi svalutare i
conflitti come conseguenza del disordine istituzionalizzato, liquidare insomma la
possibilit che in ci che viene chiamato devianza si faccia avanti la capacit di
prefigurare nuovi rapporti sociali. Un breve esame del rapporto tra devianza e
legittimazione dei sistemi politici pu mostrare, a questo proposito, i limiti
strutturali di un discorso che non pu andare pi in l della critica dei propri
fondamenti.

NOTE
Nota 1. [Nel sistema di Parsons, "analitico" sta per "teorico" ed "empirico"
sta per "realmente esistente". Le analisi che la sociologia contemporanea
considera "empiriche" sono pressoch assenti nell'opera di Parsons. Il carattere
esclusivamente teorico e deduttivo delle analisi di Parsons ne fa qualcosa di
vagamente "tomista"].
Nota 2. T. PARSONS, "Teoria sociologica e societ moderna", cit., pp. 14 sgg.
Nota 3. T. PARSONS e E.A. SHILS, (a cura di), "Toward a General Theory of
Action", Cambridge (Mass.) 1951, pp. 47 sgg.
Nota 4. T. PARSONS, "Il sistema sociale", Milano 1965, pp. 259 sgg.
Nota 5. T. PARSONS, "The Distribution of Power in American Society", in
"World Politics", 10, 1957, pp. 123-143. Per un'analisi della teoria del potere in
Parsons, cfr. A. GOULDNER, "La crisi della sociologia", cit., pp. 421 sgg.
Nota 6. T. PARSONS, "Il sistema sociale", cit., pp. 211 sgg.; si veda inoltre,
per questa teoria della socializzazione, T. PARSONS e R.F. BALES, "Famiglia e
socializzazione", Milano 1973.
Nota 7. T. PARSONS, "Il sistema sociale", cit., p. 266.
Nota 8. Ibid., p. 242.
Nota 9. E.A. SHILS, "The Theory of Mass Society", in "Diogenes", 2, 1962, p.
54.
Nel corso degli anni '50 e '60 alcune importanti ricerche empiriche compiute
negli Stati Uniti hanno largamente contraddetto l'ipotesi della scuola
funzionalista intorno alla condivisione dei valori e delle mete della societ di
massa. Si pensi a D. RILSMAN e AL., "La folla solitaria", Bologna 1956, e alle
descrizioni dello stile di vita delle classi medie contenute ad esempio in W. H.
WHYTE JUNIOR, "L'uomo dell'organizzazione", Torino 1960, e in C. WRIGHT
MILLS, "Colletti bianchi", Torino 1965.
Nota 10. Una delle migliori critiche, da questo punto di vista, della sociologia
di Parsons contenuta in W.J. BUCKLEY, "Sociologia e teoria dei sistemi", cit.;

gli stessi sviluppi della sociologia americana contemporanea, largamente


interessata alle sottoculture, alle devianze, ai microconflitti e alla crisi di
motivazione indicano la crisi e l'insostenibilit del modello parsonsiano.
Nota 11. R.K. MERTON, "Teoria e struttura sociale", Bologna 1959.
Nota 12. In scritti successivi lo stesso Merton ha riconosciuto i limiti della sua
teoria originaria dell'anomia. Cfr. R.K. MERTON, "Social Problems and
Sociological Theory", in R.K. MERTON e R. NISBET (a cura di), "Contemporary
Social Problems", New York 1966.
Nota 13. R.K. MERTON, "Teoria e struttura sociale", cit., pp. 200 sgg.
Nota 14. L'analisi classica delle infrazioni compiute nel mondo degli affari
costituita da E.H. SUTHERLAND, "White Collar Crime", New York 1949; cfr.
anche, sulla "normalit" di queste infrazioni, F. PEARCE, "Crime. Corporation
and American Social Order", in I. TAYLOR e L. TAYLOR, "Politics and
Deviance", ed. Penguin, Harmondsworth 1973.
Nota 15. [E di sanzione, ovviamente].
Nota 16. R.K. MERTON, "Teoria e struttura sociale", cit., p. 206.
Nota 17. Ibid., p. 212.
Nota 18. W.F. WHITE, "Little ltaly: uno slum italoamericano", Bari 1968
[Questo saggio, risultato di un'inchiesta etnografica sulla vita in un quartiere di
immigrati italiani a Boston, un vero e proprio classico di sociologia qualitativa.
La bibliografia sulla situazione dei ghetti, soprattutto neri, divenuta in seguito
imponente].
Nota 19. Cfr. E.J. HOBSBAWM, "I ribelli", Torino 1966, e ID., "I banditi",
Torino 1969.
Nota 20. A.K. COHEN, "Ragazzi delinquenti", Milano 1963, pp. 22 sgg.
Nota 21. W.F. WHYTE, op. cit., cap. I, pp. 19 sgg. [il "corner boy" o "ragazzo
dell'angolo della strada" il giovane che bighellona nel quartiere alla ricerca di
occasioni, una figura divenuta canonica nella letteratura e nel cinema
americano degli anni '50 e '60].

Nota 22. R. CLOWARD e L. OHLIN, "Teoria delle bande delinquenti in


America", Bari 1968.
Nota 23. [Una recente e ottima descrizione di questi processi si trova in M.
D'ERAMO, "Il maiale e il grattacielo. Chicago, una storia del nostro
futuro", Milano 1997].
Nota 24. In generale, sulla scuola di Chicago cfr. J.E. SHORT (a cura di),
"The Social Fabric of the Metropolis", Chicago 1971, soprattutto l'introduzione.
Si veda anche R.E. PARK, E.W. BURGESS e R.D. McheNZIE, "La citt", Milano
1967 [Una delle migliori introduzioni alla scuola di Chicago, nel contesto pi
generale della sociologia e dell'antropologia urbane U. HANNERZ, "Esplorare
la citt", Bologna 1992].
Nota 25. R.E. PARK, E.W. BURGESS e R.D. McheNZIE, op. cit., pp. 89 sgg.
Nota 26. R.S. CAVAN, "Suicide", Chicago 1928; P.G. CRESSEY, "The TaxiDance Hall", Chicago 1932; H.W. ZORBAUGH, "The Gold Coast and the Slum",
Chicago 1929.
Nota 27. N. ANDERSON, "The Hobo. The Sociology of the Homeless Man",
Chicago 1923 [trad. it. "Il vagabondo", Roma 1996]; F.M. Thrasher, "The Gang",
Chicago, 1927. Si veda anche E.L. FARIS e H.V. DUNHAM, "Mental Disorders
in Urban Areas", Chicago 1939. Questi primi studi sulla devianza giovanile e
metropolitana sono stati poi seguiti da innumerevoli ricerche a partire dagli anni
'30. Ci limitiamo a ricordare C.R. SIIAW e H.D. MCKAY, "Delinquency Areas",
Chicago 1929; ID., "Social Factors in juvenile Delinquency. Report on the Causes
of Crime", U.S. Government Printing Office, Washington 1932 e infine "Juvenile
Delinquency and Urban Areas", Chicago 1942.
Nota 28. N. ANDERSON, op. cit., pp. 230 sgg. Sulla teoria della delinquenza
come organizzazione differenziale E.H. SUTHERLAND, "The Professional
Thief", Chicago 1937, e E.H. SUTHERLAND e D. CRESSEY, "Principles of
Criminology", Philadelphia 1954. Il libro di Anderson, che era stato un hobo in
giovent ed era stato convinto dai sociologi della scuola di Chicago a compiere
una ricerca sui suoi vecchi compagni, non contiene alcun riferimento alle lotte
dei lavoratori stagionali e alle loro organizzazioni. Sul ruolo della I.W.W.
all'inizio di questo secolo si veda G. BOCK, P. CARPIONANO e B. RAMIREZ,
"La formazione dell'operaio massa negli USA 1898/1922", Milano 1976.
Nota 29. [Un esempio dell'immagine che questo tipo di ricerca sul campo ha

lasciato nella cultura americana si trova in un vecchio film, credo il primo o il


secondo di Martin Scorsese, uscito in Italia con il titolo "1929. Sterminateli senza
piet". Dopo aver partecipato ad alcune rapine ai treni, una ragazza, inseguita
da un agente dell'agenzia Pinkerton, trova rifugio in un bordello. Un giorno, sale
in camera un tipo occhialuto che tira fuori un taccuino e comincia timidamente
a farle delle domande. La ragazza gli dice: "Perch non ti spogli? Sei un
poliziotto o che cosa" e l'altro risponde: "No, sono un sociologo". Cito a
memoria, perch il film introvabile, ma il senso questo].
Nota 30. Sulla scuola di Chicago e la sua influenza sulla sociologia americana
contemporanea cfr. D. MATZA, "Come si diventa devianti", Bologna 1976.
Nota 31. Il testo fondamentale dell'interazionismo simbolico A.M. ROSE (a
cura di), "Human Behavior and Social Processes", Boston 1962. Questa corrente
fa riferimento soprattutto all'opera di G.H. Mead e G. Simmel: G.H. MEAD,
"Mente, S e societ", Firenze 1967; K.H. WOLIT (a cura di), "The Sociology of
Georg Simmel", New York 1950 [si tratta di un'antologia delle opere
sociologiche di Simmel e soprattutto della "Soziologie", Berlin 1908, trad. it.,
"Sociologia", Milano 1994]. In generale sul rapporto tra interazionismo e
sociologia P. BERGER e T. LUCKMANN, "La realt come costruzione sociale",
Bologna 1969.
Nota 32. E. LEMERT, "Social Pathology", New York 1951, p. 5.
Nota 33. H. BEcheR, "Outsiders", New York 1963, p. 9 [trad. it., "Outsiders.
Saggi di sociologia della devianza", Torino 1987].
Nota 34. E.M. SCHUR, "Reactions to Deviance: a Critical Assessment",
"American Journal of Sociology", vol. 75, 1969, pp. 305-322; K.T. ERICKSON,
"Norme cultura e comportamento deviante", in M. CIACCI e V. GUALANDI (a
cura di), "La costruzione sociale della devianza", cit., pp. 219-230; H. BEcheR,
"Outsiders", cit.; ID. (a cura di), "The Other Side. Perspectives on Deviance",
New York 1964; sulle trasformazioni del s e dell'identit, E. GOFFMAN,
"Asylums", Torino 1968 e "Modelli d'interazione", Bologna 1971; G.M. SYKES e
D. MATZA, "Techniques of Neutralization: a Theory of Delinquency", "American
Sociological Review", voi. 22, 1957; A. STRAUSS, "Mirrors and Masks. The
Search for Identity", New York 1966.
Nota 35. Sulla trasformazione dell'identit si veda H. GARFINKEL,
"Conditions of Successfull Degradation Ceremonies", "American Journal of
Sociology", 2, 1956, pp. 420-424 [trad. it. in E. SANTORO (a cura di), "Carcere

e societ liberale", Pisa 1998]. In particolare sulla trasformazione pubblica e


convenzionale delle identit J. KITSUSE, "Societal Reaction to Deviant
Behavior: Problems of Theory and Method", in H. BEcheR (a cura di), "The
Other Side. Perspectives on Deviance", cit., pp. 87102.
Nota 36. Per il concetto di carriera si veda E. GOFFMAN, "Asylums", cit. e
soprattutto E.C. HUGHES, "The Sociological Eye. Selected Papers" Chicago
1971.
Nota 37. E. LEMERT, "Human Deviance, Social Problems and Social
Control", Englewood Cliffs (N.J.) 1967. Sul rapporto tra teoria dei sistemi e
"labelling theory", cfr. W. J. BUCKLEY, "Sociologia e teoria dei sistemi", cit.
Nota 38. Su questo punto T. SCHEFF, "Per infermit mentale", Milano 1974.
Nota 39. E. GOFFMAN, "Asylums", cit. e ID., "Relazioni in pubblico",
Milano 1980. Nota 40. E. LEMERT, "La paranoia e la dinamica dell'esclusione",
in F. BASAGLIA e F. BASAGLIA ONGARO (a cura di), "La maggioranza
deviante", Torino 1971, pp. 36 sgg. Nota 41. Ibid., pp. 54 sgg.
Nota 42. K.T. ERICKSON, "Wayward Puritans", New York 1966.
Nota 43. Sul mito delle ondate di criminalit cfr. D. BELL, "The End of
Ideology", New York 1960. Una parte di questo libro concernente il problema
qui discusso stata tradotta con il titolo "Violenza e politica", Milano 1964.
Nota 44. D. SUDNOW, "Normal Crimes", in "Social Problems", 12, 1965, pp.
255-272 [trad. it. "Reati normali", in A. DAL LAGO e P.P. GIGLIOLI (a cura di),
"Etnometodologia", Bologna 1983]; J.L. SKOLNICK, "Justice without Trial",
New York, 1966; DJ. BORDUA (cura di), "The Police. Six Sociological Essais",
cit.; E. BITTNER, "The Police on Skid-Row. A Study of Peace-Keeping",
"American Sociological Review", 5, 1967, pp. 699-715; A.V. CICOUREL, "The
Social Organisation of juvenile Justice", New York 1968; D. CHAPMAN, "Lo
stereotipo del criminale", Torino 1971; H. SACKS, "Notes on Police Assessment
of Moral Character", in D. SUDNOW (a cura di), "Studies in Social Interaction",
New York 1972 [trad. it. "Come la polizia valuta la moralit delle persone
basandosi sul loro aspetto", in A. DAL LAGO e P.P. GIGLIOLI (a cura di),
"Etnometodologia", cit.] Nota 45. J.L. SKOLNICK e J.R. WOODWORTH,
"Bureaucracy, Information and Social Control: a Study of Moral Details", in D.
BORDUA (a cura di), op. cit., pp. 99 sgg. Nota 46. Un esempio di questa
tendenza costituito da E. SCHUR, "The Politics of Protest", New York 1969.

Nota 47. G.B. VOLD, "Theoretical Criminology", New York 1958.


Nota 48. Di Coser, che uno degli esponenti pi importanti di questa
tendenza, cfr. "Le funzioni del conflitto sociale", Milano 1967; ID., "Some
Functions of Deviant Behavior and Normative Flexibility", in "American Journal
of Sociology", 68, 1972, pp. 172-181; ID., "Continuities in the Study of Social
Conflict", New York 1967.
Nota 49. R. QUINNEY, "The Social Reality of Crime", in J.D. DOUGLAS (a
cura di), "Crime and Justice in American Society", Indianapolis 1971. Sui
rapporti tra conflitto e devianza si vedano i testi contenuti in R. DENISOFF e
C.L. MCCAGHY (a cura di), "Deviance, Conflict and Criminality", Chicago 1973;
A.T. TURK, "Conflict and Criminality", in "American Sociological Review", 2,
1966, pp. 338-352.
Nota 50. L.A. COSER, "Continuities in the Study of Social Conflict", cit., p.
103 [nel 1964 a Watts, un ghetto nero di Los Angeles, avvenne una delle pi
violente sommosse (sedata solo dalla Guardia nazionale con decine di morti)
della recente storia americana].
Nota 51. E. SCHUR, "The Politics of Protest", cit.
Nota 52. R. DAHRENDORF, "Classi e conflitto di classe nella societ
industriale", Bari 1956. Per un aggiornamento in tal senso della sociologia del
conflitto e dei sistemi di controllo, N. LUHMANN, "Potere e complessit
sociale", Milano 1979 e ID., "Sociologia del diritto", Bari 1977.
Nota 53. Per un'analisi di queste tendenze e del ruolo che vi svolgono le
scienze sociali, cfr. R. CASTEL et AL., "La societ psychiatrique avance", Paris
1979.

3. Le trasformazioni dell'ordine

1. Crisi di legittimazione e devianza.


Le teorie della devianza e del conflitto esposte nelle pagine precedenti
mettono in luce l'irrazionalit dei sistemi centrati di mantenimento dell'ordine.
Esse corrispondono a un'indubbia trasformazione delle pratiche di controllo,
all'emergere di strategie pi elastiche di disciplinamento e soprattutto al
decadere della pretesa che il comportamento sociale debba uniformarsi a
modelli culturali dominanti. Queste trasformazioni, connesse all'evoluzione
dello stato e delle forme di governo nella societ capitalistica, sono state
analizzate da importanti correnti della sociologia contemporanea, soprattutto
neo-marxista, come indice di una crisi ormai dilagante della razionalit e della
legittimit dello stato contemporaneo. Queste analisi mettono in luce sia
l'incapacit crescente degli stati occidentali nell'attivit di contenimento di una
conflittualit generalizzata, sia il potenziale di trasformazione contenuto nelle
lotte dei soggetti che si oppongono alla gestione della crisi. La residualit dei
soggetti conflittuali chiama perci in causa il problema della devianza, che gi la
sociologia "liberal" americana impostava dal punto di vista di una critica della
razionalit dei sistemi di governo. Si visto in precedenza come il paradigma
sociologico di spiegazione dei microconflitti escluda progressivamente ipotesi di
tipo globale o culturale (la solidariet, il sistema di valori) per riconoscere nello
stesso funzionamento normale della societ una conflittualit latente. Nelle
pagine seguenti saranno prese sommariamente in esame le teorie sulla crisi di
razionalit dello stato per riconoscere se contribuiscano a risolvere le aporie e le
contraddizioni di una definizione della microconflittualit sociale (1).
Il punto di partenza di queste teorie, che le distingue da quelle
tradizionalmente marxiste, il riconoscimento di una crescente integrazione
dello stato nella societ capitalistica. Il fatto cio che lo stato contemporaneo
non possa pi essere definito come un comitato esecutivo, o una cassa di
risonanza, degli interessi capitalistici, ma sia parte integrante del mercato e
della produzione, ha portato alla trasformazione complessiva delle strategie di
gestione e di controllo della societ (2). L'intervento dello stato non ha soltanto
l'importante funzione economica di correggere le disfunzioni del mercato con la
pianificazione, la qualificazione e la riqualificazione della forza-lavoro e lo
sviluppo delle risorse materiali e immateriali. Esso ha anche quello di accollarsi
i costi secondari, materiali e sociali della produzione, ad esempio con
l'assistenza sociale e i sussidi di disoccupazione. Alla funzione direttamente
economica dello stato, e all'organizzazione del mercato e dello sviluppo tecnico e
scientifico, si aggiunge cos la regolazione complessiva della societ. Al controllo
semplicemente repressivo dei conflitti sociali, caratteristico di un'epoca in cui lo
stato interviene direttamente sul mercato, subentrano forme di controllo
complessivo e preventivo (3).

Nella fase del capitalismo concorrenziale, la "neutralit" dello stato rispetto


ai meccanismi di accumulazione garantiva un intervento immediatamente
repressivo con l'impiego degli strumenti tradizionali (polizia, esercito,
magistratura). Un intervento diretto nella sfera economica era contrastato da
istituti di tipo privatistico, come ad esempio la disciplina contrattuale o le norme
che difendevano la "libert" di impresa e di lavoro. Nello stato sociale
contemporaneo il problema da risolvere non pi, o non soltanto, la repressione
immediata dei conflitti che minacciano interessi privati, ma piuttosto il
contenimento dei bisogni che minacciano l'equilibrio del sistema. Le pratiche di
controllo assumono preferibilmente la caratteristica della prevenzione piuttosto
che della repressione. Lo stato assolve in generale una funzione di mediazione
sociale, in un sistema complessivo in cui sono necessariamente privilegiati i
gruppi sociali forti ed emarginati quelli che non possono offrire molto alla
stabilit sociale e politica del sistema. Il mutamento complessivo delle funzioni
dello stato comporta dunque un cambiamento dell'area sociale oggetto del
controllo. Nel secolo scorso l'intera classe operaia era considerata un fattore
costante di allarme sociale e ancora pi pericolosi erano ritenuti i settori
socialmente pi instabili per la loro posizione precaria, fluida o marginale
rispetto al sistema produttivo (4). Nel capitalismo contemporaneo, in
particolare nel settore monopolistico e nel settore pubblico, sono presenti forti
organizzazioni sindacali che garantiscono una certa protezione in cambio di un
sostegno della classe operaia al sistema di governo. Accanto ai conflitti
tradizionali, che si sviluppano nei settori "protetti" e che lo stato deve regolare
mediante un intervento nella contrattazione (perch altrimenti sarebbe
minacciata la legittimit dello stato come regolatore complessivo e neutrale),
nascono conflitti di nuovo tipo che riguardano il funzionamento complessivo
dell'ordine capitalistico. Lo stato affronta questi conflitti marginali in modo
differenziato, utilizzando, a seconda del ruolo strategico dei gruppi che vi sono
coinvolti, la criminalizzazione e la repressione diretta o la gestione sociale.
Ai conflitti sindacali si aggiungono cos conflitti generati dall'emarginazione,
dalla qualit problematica della vita nella metropoli, dalla delusione di
aspettative concernenti la promozione sociale, e in generale dalla marginalit
rispetto ai processi di valorizzazione. Soggetti dei nuovi conflitti sono i settori
della popolazione che subiscono le ristrutturazioni produttive e le scelte di
politica economica del sistema. Esempi di tali conflitti sono le lotte condotte, a
partire dagli anni '60, dagli studenti di alcuni paesi europei, le rivolte dei gruppi
etnici e degli emarginati urbani negli Stati Uniti, l'opposizione dei contribuenti
alle politiche di "welfare" e alla gestione economica della crisi. A questi soggetti
si aggiungono come fonti di tensioni gli strati marginali che sono esclusi per
definizione dai processi produttivi e dal mercato politico, quindi non solo i
devianti tradizionali, i vecchi e gli inabili, ma anche i giovani, le donne, la forza-

lavoro marginale o precaria. L'emergere di questi conflitti e la loro insolubilit


strutturale (nel senso che la pluralit dei soggetti di tali conflitti mette lo stato
nell'impossibilit di soddisfare complessivamente le loro richieste) crea dunque
una stabile situazione di crisi di razionalit dell'ordine sociale (5). Secondo
questi teorici della crisi, i problemi che sorgono nella gestione delle domande
sociali comportano inevitabilmente problemi di legittimazione dello stato.
I processi di delegittimazione si esprimerebbero in primo luogo
nell'impossibilit dello stato di riferirsi a criteri normativi nell'attivit di
gestione (consistente soprattutto nella regolazione degli interessi privati e nella
remunerazione, attraverso la distribuzione di reddito, dei gruppi sociali che
potrebbero minacciare la pace sociale). Il pragmatismo e l'opportunismo nella
soddisfazione materiale dei bisogni eroderebbe quindi il consenso dei gruppi
sociali e il sostegno al ruolo complessivo svolto dallo stato. In secondo luogo la
stessa repressione diretta dei conflitti, che si esercita soprattutto su gruppi
marginali o su quelli che pretendono di contestare direttamente la legittimit
dello stato, tende a perdere credibilit, diviene incomprensibile e arbitraria,
perch "presuppone ci che chiamata a sostituire, e cio la fiducia nella
validit e nell'autorit di norme fondamentali le quali... vanno tutelate anche
con mezzi repressivi" (6). Lo stato contemporaneo dunque posto dalla
complessit delle sue funzioni e dai suoi imperativi sistemici in una condizione
di stabile difficolt di legittimazione. Tuttavia, i processi di delegittimazione in
quanto tali non minacciano la stabilit dello stato e dei sistemi di governo
[... ] finch non "raggiungono" la soglia a partire dalla quale si manifesterebbero
effetti critici nel sistema, finch non viene contestato il monopolio formale degli
organi dell'apparato statale nel prendere decisioni vincolanti per tutta la societ,
cio non viene contestata la loro pretesa di rappresentanza esclusiva (7).
Il problema della soglia dunque decisivo perch definisce il punto in cui la
crisi strutturale di legittimit (che altri autori, ad esempio liberali, definiscono
come un normale adeguamento dei sistemi politici alla complessit sociale (8))
pu diventare contestazione del monopolio del potere esercitato dallo stato. La
soglia verrebbe raggiunta quando i gruppi sociali non si limitano a contestare la
validit di singole scelte del sistema, ma mettono in discussione la capacit dello
stesso sistema decisionale dello stato di prendere delle decisioni, in altri termini
quando i gruppi sociali cercano di risolvere i conflitti al di fuori dei canali
istituzionalizzati. In definitiva la destatalizzazione del conflitto, presente in una
pluralit di movimenti sociali non integrabili, sarebbe indice di una progressiva
perdita di legittimit da parte dello stato (9).
certo che queste teorie descrivono efficacemente la trasformazione del
problema della legittimazione (che, peraltro, gi la sociologia classica aveva

saputo individuare). Secondo Weber la stessa evoluzione del capitalismo tende a


dissolvere le basi tradizionali di legittimazione del potere. Se in origine il
capitalismo poteva giustificare la propria esistenza con il ricorso a criteri
universalistici, derivati da una visione religiosa del mondo (l'iniziativa, il dovere,
la responsabilit personale), la razionalizzazione degli apparati di governo e la
socializzazione della produzione rendono inutilizzabili e inutili tali criteri. La
cultura borghese tradizionale (o ci che ne resta) non ha alcun supporto da
offrire a un sistema basato sull'anonimit e sul carattere burocratico delle
scelte. La burocratizzazione dello stato, l'estensione della rappresentanza
politica e l'istituzionalizzazione delle opposizioni rendono ormai superflua una
giustificazione esplicita dell'ordine. Uno dei punti di partenza della sociologia
classica appunto la rilevazione della crisi dei sistemi etici tradizionali. Gi in
Durkheim il discorso sulla normalit e sulla necessit del reato testimonia
l'impraticabilit dei discorsi morali sul delitto. Ma questa demoralizzazione
degli apparati di governo un fatto caratteristico di tutta l'organizzazione del
potere moderno. Cos, il criterio della razionalit formale, enunciato da Weber
come fondamento dell'agire economico e amministrativo, esclude ogni
riferimento a criteri universalistici di valore come orientamento dell'azione
sociale (10). In particolare, nell'attivit burocratica e amministrativa la
separazione di competenze e persone, il fatto cio che la validit delle procedure
decisionali dipenda dalla competenza formale e non da criteri generali di
legittimit, esclude che alle scelte siano connessi criteri di responsabilit morale.
Ma se questa la condizione di validit dei moderni apparati di potere, lecito
parlare allora di una crisi dei sistemi di legittimazione? O piuttosto ci che oggi
si definisce come critica la condizione normale di funzionamento e di validit
dei sistemi sociali? Parlare di crisi presuppone infatti il dissolvimento di
determinati principi e valori, ma in una situazione in cui quei principi e valori
mantengono un'importanza strategica per il funzionamento dei sistemi. Si
potrebbe invece pensare che ci che si dissolto non la capacit dei sistemi di
governo di produrre consenso, ma il modo in cui tradizionalmente avveniva la
produzione di consenso. Un esempio di de-eticizzazione, che non implica
necessariamente una crisi, pu essere costituito dalla giustizia. Nella societ
contemporanea l'istituzione che pretenderebbe una validit intrinseca quella
della giustizia, ma anche in questo caso la possibilit di produrre consenso non
legata alla pretesa etica delle istituzioni giudiziarie, quanto all'attivit
procedurale normale, alla selezione quotidiana di attivit illecite e ai possibili usi
politici che possono esserne fatti. chiaro che il riferimento a criteri di valore
espliciti per giustificare le attivit punitive sarebbe oggi anacronistico e
solleverebbe quei problemi che ogni potere ha interesse a mantenere in uno
stato di opacit, e cio il diritto di punire, la giustizia sociale e la legittimit.
forse per questo motivo che la pena di morte, tradizionalmente connessa alla
lesione delle autorit supreme e dei principi fondamentali, tende a scomparire, o

almeno ad essere difesa esplicitamente sempre con maggiore imbarazzo nelle


societ industriali complesse. Le attivit repressive vengono ormai motivate con
i meri criteri della pericolosit sociale oppure integrate dalla prevenzione, dalla
terapia, dai programmi di recupero e di rieducazione.
In queste condizioni, l'uso della categoria di "crisi" forzatamente ambiguo.
Da una parte, si allude infatti, giustamente, alle difficolt crescenti, ormai
strutturali, incontrate dagli apparati di governo nella gestione della complessit
sociale. Dall'altra si sottintendono e si lasciano intravvedere delle tendenze
disgregatoci, soprattutto in relazione all'emergere di movimenti antagonistici,
che non sembrano giustificate dalla realt. la stessa natura della democrazia
contemporanea che protegge, come gi la sociologia classica aveva rilevato, la
complessit sociale, impedendo che i problemi di razionalit si trasformino in
disgregazione e in contestazione della legittimit generale dei sistemi. Nell'epoca
del capitalismo concorrenziale la possibilit di legittimazione era legata
all'esercizio dei diritti politici da parte di gruppi sociali ristretti. La separazione
dello stato dai processi di produzione e di accumulazione permetteva di regolare
da una parte l'espressione della volont politica dei gruppi dominanti e dall'altra
di reprimere direttamente l'opposizione politica delle classi subalterne, quando
questa minacciava direttamente gli interessi capitalistici o la legittimit dello
stato. In una societ fondata sullo scambio di merci, lo stato funzionava come
tutore dei diritti derivanti dal riconoscimento dell'autonomia della sfera privata
(famiglia ed esercizio dell'attivit economica). In questo senso la funzione dello
stato consisteva formalmente nel tutelare sia i diritti della sfera privata sia i
diritti concernenti la sfera pubblica (di associazione politica, di voto). Nella
societ del Diciannovesimo secolo l'esercizio dei diritti politici era un'estensione
e una sanzione dei diritti reali e materiali gi goduti nella societ. La volont
politica era espressa da cittadini che per la loro posizione economica godevano
naturalmente di influenza nella sfera pubblica (11). Nello stato contemporaneo
che amministra, distribuisce e assiste, il reperimento del consenso avviene
invece attraverso canali che pretendono di attingere alla volont politica di tutti i
cittadini e alle loro decisioni, mentre i canali istituzionali di formazione del
consenso si sono estesi all'intera societ e democratizzati. Ed precisamente la
democratizzazione formale, cui si accompagnano i noti processi di
burocratizzazione dei partiti di massa e di istituzionalizzazione delle opposizioni,
che costituisce la barriera elastica contro la contestazione esplicita e diretta della
legittimit dello stato e della "pretesa di rappresentanza esclusiva" (12). Come
effetto dell'istituzionalizzazione dell'attivit politica nelle organizzazioni di
massa partitiche e sindacali, la sfera pubblica, lungi dal generalizzarsi, si
trasforma in un complesso di ambiti formali e rituali di attivit procedurali. La
discussione politica, anche nei casi in cui dovrebbe contribuire alla formazione
delle decisioni, come nella base dei partiti o dei sindacati ritualizzata in uno

strumento di ratifica delle decisioni prese dai centri di potere. Essa


progressivamente riassorbita nella sfera privata, nell'ambito della famiglia,
delle conoscenze e delle relazioni interpersonali. I gruppi decisivi nelle
competizioni elettorali sono sempre pi costituiti da masse di elettori indecisi,
fluttuanti, che reagiscono a stereotipi politici, prodotti e manovrati dagli
apparati dei partiti. Gli elettori sono risucchiati in modelli di consumo politico,
non diversi dagli altri modelli di consumo della societ capitalistica. In questo
contesto di manipolazione politica delle scelte mediante l'impiego di sistemi di
comunicazione sempre pi complessi, che si estende dai centri di potere fino a
influenzare le relazioni sociali e interpersonali (13), rientra oggi la formazione
del consenso.
Il problema del consenso non riguarda tanto il contenuto delle decisioni
politiche e amministrative quanto il diritto di prendere decisioni sulla base di
una presunzione di legittimit sempre pi automatica e scontata. Il consenso
non si esercita sulla scelta tra determinate decisioni ma sul diritto di prendere
decisioni che comunque saranno prese per il bene dei cittadini. In questo modo
la manipolazione delle informazioni allena i cittadini a non reagire pi al
contenuto delle decisioni, ma agli appelli che caricano di valore le scelte. I
problemi dell'ordine pubblico, della criminalit, dell'ingovernabilit, del
disordine sono i pi facilmente manipolabili perch contengono i richiami pi
vistosi alle minacce che insidierebbero la residua sfera privata dei cittadini nelle
societ democratiche. In nome di una libert senza significato e delle
problematiche garanzie di sicurezza offerte dallo stato, il pubblico pu scaricare
sulle presunte minacce la frustrazione e la sensazione di ingiustizia e di
mancanza di senso nella societ e nella vita personale. Il rapinatore, il terrorista,
il delinquente sono oggi figure che soddisfano oscuri bisogni di giustizia, oltre
che bisogni degradati di spettacolo e di identificazione (14).
chiaro che in generale i problemi della giustizia mantengono un richiamo
etico su cui ogni sistema pu far produrre consenso. Ma, al tempo stesso, una
eccessiva eticizzazione si ritorcerebbe contro chi beneficia della manipolazione
dello spettacolo della criminalit. Cos, la giustizia penale tende a trasformarsi
in un operatore politico che interviene in riferimento sempre pi esplicito alla
delimitazione dei conflitti sociali. Si potrebbe parlare in queste condizioni di una
situazione di guerra, combattuta certamente sui territori marginali del sistema
sociale, una guerra nel senso che i richiami ai valori presunti dell'ordinamento
giuridico sono sempre pi rituali e usati come espedienti per operazioni di mera
repressione della protesta politica. L'entit dei fenomeni criminali viene
mistificata, spostando l'attenzione dai reati di tipo patrimoniale (che
costituiscono la grande maggioranza dei reati conosciuti) ai fatti che minacciano
di pi gli stereotipi del benessere individuale e della condizione personale (la

rapina a mano armata, il rapimento, il terrorismo). L'amplificazione della


pericolosit del delitto e le misure repressive sono sistemi e strategie di
intervento che si rinforzano a vicenda e che hanno la funzione di deviare
l'attenzione del pubblico dai conflitti reali. L'intervento dello stato in campo
penale ha oggi una funzione sostanzialmente politica. Esso non ha lo scopo di
eliminare la criminalit, ma quello di costituire costanti riserve di consenso e di
legittimazione in una situazione in cui il richiamo ai valori dell'ordinamento
giuridico e sociale divenuto impraticabile.
Ma lo stato di guerra limitata e costante combattuta sui territori marginali
del terrorismo e della criminalit solo uno degli aspetti del "controllo sociale".
Esso costituisce, come Durkheim aveva gi indicato, il limite che definisce la
normalit della societ "sana". Altre pratiche, connaturate all'evoluzione delle
democrazie sociali contemporanee, investono territori sociali pi comuni e meno
accidentati, in cui la gestione dell'ordine non emana in alcun modo dai
cosiddetti centri di potere ma tende a dissimularsi nella stessa base della societ.
Tali pratiche riguardano in generale la gestione socializzata della vita,
l'intervento delle strutture pubbliche (ma decentrate, democratiche, protese
verso il corpo della societ) sui problemi e sulle tensioni della comune vita
sociale. Pratiche che in nessun modo possono essere riassunte in un modello
"panottico" di controllo del vivente. Si tratta piuttosto del coinvolgimento degli
individui e dei gruppi nella gestione assistenziale dei loro problemi.
Un esempio significativo, almeno in alcuni paesi europei e negli Stati Uniti,
costituito dalla trasformazione delle strutture di assistenza psichiatrica (15). Alla
forma di assistenza asilare (che riproduceva in pratica il modello carcerario) si
sostituiscono progressivamente forme di assistenza decentrata, ambulatoriale,
familiare che, senza escludere le strutture tradizionali, tendono a riempire nuovi
ambiti di intervento. Allo stesso modo (si pensi solo al problema della
tossicomania), il modello repressivo classico viene integrato da nuove strategie
di cura e di sostegno che si appoggiano su strutture politiche diffuse nella
societ.
Il problema implicato da queste nuove tendenze (che investono ormai tutta la
vita sociale, dalla famiglia alla scuola, dal lavoro al tempo libero) che la
nozione classica di controllo sociale diventa ormai inadeguata. La nozione di
controllo, sia nella versione della sociologia funzionalista o sistemica sia nelle
teorie del conflitto, implicava una coscienza (da parte degli apparati di governo)
e un diretto intervento sui punti critici dell'organizzazione sociale. L'evoluzione
attuale delle forme di governo della societ implica invece un controllo
direttamente politico e repressivo soltanto dei gruppi e dei problemi che
minacciano esplicitamente (o dicono di minacciare) la legittimit dello stato. Ma

a questa condizione di guerra di confine si contrappone una situazione di pace


interna in cui sono ormai le forme dell'organizzazione sociale che gestiscono le
loro devianze e risolvono i loro conflitti. E questa condizione di pace costituisce il
campo in cui le devianze vengono riassorbite nei meccanismi sempre pi diffusi
della terapia, dell'assistenza sociale, delle tecniche "alternative" di cura e di
liberazione.
Sullo scorcio di queste trasformazioni, si pu notare come le teorie
sociologiche della devianza abbiano progressivamente svuotato il meccanismo di
opposizione controllo sociale/devianza, fino a giungere al riconoscimento della
variet dei comportamenti come normale condizione delle societ
contemporanee. Da questo punto di vista, il "problema della devianza" non che
un mito, una costruzione simbolica che riunifica in determinismi ipotetici una
complessit (che semplicemente quella dei conflitti tra gli uomini) sempre
sfuggente. Ma questo mito scientifico stato ormai assunto come una realt
anche da chi dichiara di parlare in nome delle libert o delle alternative. Far
poggiare discorsi critici o politici su una residualit deviante dei comportamenti
sociali non pu portare che a due conseguenze necessarie: da una parte la
razionalizzazione dei sistemi di governo (magari con la copertura di progetti
socialisti che sarebbero sempre pi razionali dell'anarchia capitalistica
produttrice di devianze e di conflitti); dall'altra la speranza della ricomposizione
(sempre pi immaginaria e consegnata a un futuro improbabile) delle devianze
in un progetto alternativo di societ. Il semplice rovesciamento della dialettica
tra potere e devianza non garantisce oggi alcun tipo di progetto politico. Il
problema sembra piuttosto consistere in uno smascheramento (indubbiamente
sempre pi arduo) della penetrazione delle definizioni "sociali" dei
comportamenti umani. In altri termini nell'individuare quali nuove forme di
identit sociale indotta e artificiale siano in gioco nella gestione apparentemente
neutra e necessaria delle devianze sociali. Se vero che nei comportamenti e
nelle esperienze di disgregazione (di cui si parla nei termini di criminalit, da un
punto di vista tradizionale o "scientifico", o di marginalit o nuovi
comportamenti residuali o alternativi, da un punto di vista romantico) non c'
alcunch in cui sia possibile riconoscersi, altrettanto vero che nelle pratiche di
controllo, di ascolto, di assistenza, in una parola di investimento, di questi
comportamenti in gioco una pratica di delimitazione e di distruzione delle
libert residuali.

2. Conclusioni: la teoria sociale e il mito della devianza.


Dalle pagine precedenti emersa, in modo necessariamente schematico, la
funzione che la teoria sociale svolge nella creazione di immagini stereotipate
delle devianze. Le prime teorie sociologiche della patologia cercavano di
rimpiazzare le teorie liberali e utilitaristiche con concezioni pi aderenti alla
realt delle societ industriali sviluppate. Le teorie sociologiche affermatesi negli
Stati Uniti nella prima met di questo secolo hanno tentato di inserire
l'interpretazione della criminalit in un modello pi adeguato alla nuova realt
della gestione sociale della conflittualit. In modi diversi queste teorie hanno
ridefinito l'opposizione politica o semplicemente il rifiuto della cultura
industriale come problemi "sociali", trasformando i conflitti in problemi di
adattamento culturale. Infine Parsons e il funzionalismo hanno integrato questi
problemi, che nelle altre teorie erano ancora genericamente connessi alla
disuguaglianza e alla conflittualit, in modelli basati sulla socializzazione e sulla
devianza individuale. Con ci non si vuole affermare che ogni problema che cade
sotto la rubrica di "devianza" sia in origine un conflitto sociale ridotto
astutamente dai teorici nei minimi termini. Si vuole sottolineare piuttosto che le
teorie sociali hanno provocato un vero e proprio slittamento di significato, per
cui ci che nell'agire individuale e collettivo ha un valore di rifiuto o
semplicemente di estraneit stato sistematicamente svalutato e ricondotto a
tensioni della personalit. Oggi nessuno userebbe le teorie di Lombroso per
discutere i microconflitti sociali e la realt del reato e della sua repressione.
Anche le spiegazioni meramente psicologiche della devianza godono di scarso
successo, oggi che la realt delle istituzioni di controllo, della criminalizzazione e
degli aspetti politici del cosiddetto controllo sociale comincia a delinearsi.
Tuttavia una distorsione concettuale presente anche nelle teorie pi aperte alla
realt dei conflitti e alla denuncia dell'oppressione. fuorviante continuare a
definire dei comportamenti sociali (comunque siano motivati) con le definizioni
fomite dalle istituzioni interessate. Ancora oggi le istituzioni giudiziarie, fonti
principali di queste definizioni, offrono la terminologia e il quadro di riferimento
al discorso criminologico o sociologico. Ecco allora delle "scienze" che
definiscono i propri concetti con concetti tratti da altri contesti.
Se il discorso sulla devianza come produzione di realt ha qualche valore,
una teoria che affronti il presunto fenomeno deviante indipendentemente dalle
definizioni e dalle pratiche che lo rendono tale, dalle istituzioni che lo rendono
oggettivo e dal significato politico di tale produzione di realt , nel migliore dei
casi, limitata. Ci non riguarda soltanto i discorsi sull'eziologia, che sembrano
ormai definitivamente abbandonati, ma anche le teorie sulla razionalizzazione
del sistema penale o assistenziale, sulle strategie di rieducazione, o sulle
politiche alternative. Il problema fondamentale in una ricerca su questi territori

problematici costituito dalle derive, dai bisogni reali, dalle autonomie e dai
comportamenti stigmatizzati, oltre che dai meccanismi sociali che producono o
autoproducono il controllo. In questo senso il compito, non solo teorico, consiste
sia nel demistificare la realt sociale della devianza sia nell'interrogare senza
sosta le presunte scienze che hanno contribuito in qualche modo a crearla.

NOTE
Nota 1. Mi riferisco qui ai seguenti autori: J. HABERMAS, "La crisi della
razionalit nel capitalismo maturo", Bari 1975; AA.VV., "La crisi dello
stato", Bari 1976; AA.VV., "Stato e crisi delle istituzioni", Milano 1978; AA.VV.,
"Le trasformazioni dello stato", Firenze 1980; C. OFFE, "Lo stato nel
capitalismo maturo", Milano 1977; J. O'CONNOR, "La crisi fiscale dello stato",
Torino 1976.
Nota 2. J. HABERMAS, op. cit., pp. 105 sgg.
Nota 3. J. HIRSCH, "Lo stato di sicurezza nazionale", in "Le trasformazioni
dello stato", cit., pp. 118 sgg.
Nota 4. Su questo punto cfr. in generale L. CHVALIER, op. cit.
Nota 5. C. OFFE, op. cit., pp. 97 sgg.
Nota 6. Ibid., p. 116.
Nota 7. Ibid., p. 117.
Nota 8. questo in particolare il caso di Luhmann. Il punto di vista
tecnocratico su questi problemi ben rappresentato da M. CROZIER et AL., "La
crisi della democrazia", Milano 1977.
Nota 9. J. HABERMAS, "Per la ricostruzione del materialismo storico",
Milano 1979. Nota 10. M. WEBER, "Il metodo delle scienze storico-sociali",
Torino 1964, pp. 301 sgg.
Nota 11. Su questi processi, a partire dal Diciannovesimo secolo, cfr. J.
HABERMAS, "Storia e critica dell'opinione pubblica", Bari 1971.
Nota 12. Sul processo di democratizzazione in relazione al conflitto cfr.
R. BENDIX, "Stato nazionale e integrazione di classe", cit.; F. NEUMANN, "Lo
stato democratico e lo stato autoritario", Bologna 1973.
Nota 13. K.W. DEUTSCH, "I nervi del potere", Milano 1971.
Nota 14. Per l'analisi di questi meccanismi resta fondamentale E.

GOFFMAN, "Where the Action is", in "Modelli di interazione", cit., pp. 167 sgg.
Nota 15. R. CASTEL et AL., op. cit., pp. 197 sgg.

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