The Forgotten Theatre PDF

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Il carro di Tespi

Testi e strumenti del teatro greco‑latino

Collana diretta da Francesco Carpanelli


7
International Advisory Board

Emily Allen‑Hornblower, Angela Andrisano, Tommaso Braccini,


Lowell Edmunds, Giulio Guidorizzi, Enrico V. Maltese, Silvia
Milanezi, Xavier Riu, Silvia Romani, Robert W. Wallace

I volumi pubblicati in questa collana sono sottoposti a un processo di peer


review che ne attesta la validità scientifica
Ἄνθρωπε, […] τί οὖν δεινόν, εἰ τῆς πόλεως ἀποπέμπει σε οὐ τύραννος
οὐδὲ δικαστὴς ἄδικος, ἀλλ̓ ἡ φύσις ἡ εἰσαγαγοῦσα, οἷον εἰ κωμῳδὸν
ἀπολύοι τῆς σκηνῆς ὁ παραλαβὼν στρατηγός;—ἀλλ̓ οὐκ εἶπον τὰ
πέντε μέρη, ἀλλὰ τὰ τρία.—καλῶς εἶπας: ἐν μέντοι τῷ βίῳ τὰ τρία
ὅλον τὸ δρᾶμά ἐστι. τὸ γὰρ τέλειον ἐκεῖνος ὁρίζει ὁ τότε μὲν τῆς
συγκρίσεως. νῦν δὲ τῆς διαλύσεως αἴτιος: σὺ δὲ ἀναίτιος ἀμφοτέρων.
ἄπιθι οὖν ἵλεως: καὶ γὰρ ὁ ἀπολύων ἵλεως.

Uomo, […] cosa c’è di terribile se dalla Città ti espelle non un tiranno o
un giudice ingiusto ma la natura stessa? È come se il pretore allontanasse
dalla scena un attore che che aveva assunto. «Ma io non ho recitato tutti e
cinque gli atti, solo tre!» È giusto, ma nella vita tre atti sono un dramma
intero. Colui che vi pone fine è lo stesso che vi pose principio un tempo.
Tu non hai responsabilità in nessuno dei due eventi.
Parti dunque sereno. Colui che ti congeda lo è.

Marco Aurelio, Pensieri 12, 36


The Forgotten Theatre

Mythology, Dramaturgy and Tradition


of Greco‑Roman Fragmentary Drama

Proceedings of the First International Conference


The Forgotten Theatre
University of Turin
29th of November – 1st of December 2017

edited by
Luca Austa

Edizioni dell’Orso
Alessandria
The Forgotten Theatre

Mitologia, drammaturgia e tradizione


del teatro frammentario greco‑latino

Atti del I convegno internazionale


The Forgotten Theatre
Università degli Studi di Torino
29 novembre – 1 dicembre 2017

a cura di
Luca Austa

Edizioni dell’Orso
Alessandria
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Torino.

© 2018
Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l.
15121 Alessandria, via Rattazzi 47
Tel. 0131.252349 ‑ Fax 0131.257567
E‑mail: [email protected]
http: //www.ediorso.it

Redazione informatica e impaginazione: ARUN MALTESE (www.bibliobear.com)


Grafica della copertina a cura di PAOLO FERRERO ([email protected])

È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la
fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22.04.1941

ISSN 2611‑3570
ISBN 978‑88‑6274‑869‑8
Tabula gratulatoria

Milena Anfosso
Sebastiano Bertolini
Francesco Paolo Bianchi
Francesco Carpanelli
Laura Carrara
Maria Elvira Consoli
Lucia Degiovanni
Mattia De Poli
Marco Filippi
Sonia Francisetti Brolin
Maria Teresa Galli
Edoardo Giglio
Eleni Kornarou
Enrico V. Maltese
Dimitrios Mantzilas
Daniela Milo
Marcella Petrucci
Valentina Zanusso
Prolegomena
ENRICO V. MALTESE (DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO
STUDIUM, UNIVERSITÀ DI TORINO)

The Forgotten Theatre… Per la verità non è affatto un mondo dimentica‑


to, quello del teatro greco‑latino: non nella tradizione culturale moderna,
che da secoli vi fa assiduo riferimento come a un momento di fondazio‑
ne; non certo nelle cerchie accademiche, che vi dedicano energie continue
e studi rigogliosi; e nemmeno nella consuetudine del recupero spettacola‑
re, delle rivisitazioni e delle riprese, che oggi assicurano alla fruizione di
quel mondo un’attenzione non episodica, e tutt’altro che effimera.
Nemmeno può dirsi dimenticato, affatto, il teatro perduto nel naufra‑
gio delle letterature antiche, in primo luogo di quella greca: l’attenzione
per i segmenti che nei secoli si sono conservati, sono stati recuperati e
ancora riaffiorano supera quella che gli studiosi riservano ad altri generi
frammentari. È infatti proprio la consapevolezza dell’eccezionalità di
quell’esperienza, e del legame che con essa va riannodato e rafforzato, a
non conoscere fasi di remissione: e i frammenti superstiti concorrono a
mantenere forte il contatto, a esplorarne aspetti e situazioni, consolidan‑
do le conoscenze che derivano dalla lettura dei testi integri, ma spesso
anche dilatandone e arricchendone i contorni.
Lo sanno molto bene gli addetti ai lavori, meno esposti alla romantica
suggestione del reperto, immuni alla mistica del frammento, e invece
attrezzati di strumenti che li guidano alla ricognizione di un mondo –
come dire? – saldamente non perduto.

Se il titolo del volume (anzi, del primo volume di una serie) ammicca
garbatamente a un pubblico che apprezza le etichette brillanti, gli ingre‑
dienti restano però di sostanza chiara e genuina, e si inseriscono in una
solida tradizione scientifica. Quella che attraverso i frammenti cerca la
ricostruzione delle pièces e la loro collocazione (Carpanelli, Bianchi,
Carrara, Fiorentini…), indaga il rapporto del frammento da citazione con
il testo vettore (Milo…), ricostruisce e presenta la facies testuale del fram‑
mento (Bertolini...), verifica nei frammenti meccanismi e dinamiche di
generi e autori (Kornarou, De Poli…), recupera temi tipici (Francisetti
Brolin, Filippi…), estrae materiali per dirimere questioni filologiche
(Anfosso) o riproporre dimensioni performative (Zanusso…), segue la
feconda influenza dei “nuovi” testi frammentari sulla scena moderna
(Beta…), compie altre operazioni di scavo, ridiscutendo prospettive tradi‑
zionali e impostandone di nuove (Petrucci, Galli, Mantzilas…).
X Prolegomena

Grande attenzione al dato testuale e sensibilità per i risvolti della rap‑


presentazione sono ben presenti nel volume. Filologia e sguardo alla
scena, appunto, renderanno questi contributi utili agli studi sul teatro
antico.

Torino, settembre 2018


Prefazione
FRANCESCO CARPANELLI (DIRETTORE DEL CENTRO STUDI
SUL TEATRO CLASSICO, UNIVERSITÀ DI TORINO)

Quando un sogno si avvera è sempre un bel momento della tua vita, un


attimo di autentica felicità.
Da molti anni avevo in mente di realizzare un Centro che si occupasse
di teatro classico frammentario perché fin dagli anni del Liceo mi era
sembrato insufficiente giudicare uno dei fenomeni letterari più importanti
dell’Occidente con le poche opere che ci sono rimaste.
Grazie all’aiuto del Direttore del Dipartimento Studium, Prof. Enrico
Maltese, impareggiabile amico, collega e sostenitore di questo progetto, dei
miei allievi Luca Austa e Giorgia Giaccardi e di tutti gli studiosi che hanno
partecipato al primo Convegno The Forgotten Theatre (Torino, 29‑30 no‑
vembre, 1 dicembre 2017), il Centro Studi sul Teatro Classico ha iniziato il
suo percorso cui sono seguiti, nel 2018, i Seminari intitolati non a caso:
Frammenti sulla scena e il primo volume della serie omonima (a cura di L.
Austa, Alessandria 2017).
L’idea prosegue e molti progetti prenderanno vita nel prossimo a.a., con
il secondo Convegno e i Seminari sulla commedia antica, sul rapporto tra
il teatro greco‑romano e su Euripide, tre giornate dedicate ai diversi aspetti
del dramma classico frammentario, dal punto di vista filologico, letterario
e teatrale.
Questo volume è una prima sintesi di quanto abbiamo già fatto, a fine
novembre del 2017, quando per tre giorni a Torino si sono incontrati gio‑
vani e meno giovani studiosi, con un entusiasmo incredibile e sempre in
spirito di amicizia, che hanno discusso sugli argomenti che leggerete in
questo volume. L’aspetto più bello è rappresentato dal fatto che il Centro
Studi sul Teatro Classico è nato, per mia volontà, con lo scopo di far dia‑
logare chi rappresenta l’avvenire di ogni settore disciplinare, cioè ragazze
e ragazzi, con colleghi di tutte le università europee, anche di diversa
formazione; solo lo scambio delle idee fa nascere nuovi interessi.
Ricordo infine che questo lavoro ha come finalità anche quella di creare
copioni o testi tratti dalla produzione frammentaria adatti per lo studio
accademico, per quello liceale o per la messa in scena; sarà questo un modo
per cambiare, mi auguro, alcuni profili delle storie letterarie, generalmente
poco attenti ad inserire queste opere nel quadro generale degli autori trat‑
tati, con un’inversione di tendenza definitiva. Tutti insieme ce la possiamo
fare.
XII Prefazione

Concludo con un ringraziamento particolare ai colleghi di molte facoltà,


non solo italiane, che con grande simpatia e competenza mi hanno soste‑
nuto in questa impresa: la loro presenza, le loro relazioni e la loro
attenzione ha permesso che questo sogno si realizzasse.

Torino, luglio 2018


Introduction
LUCA AUSTA (SECRETARY OF CENTRO STUDI SUL TEATRO
CLASSICO, UNIVERSITÀ DI TORINO)

One of the most arduous challenges in academic life is how to find a


new way to explore and express the contents of each field of study.
In classical philology this is a major problem: our discipline does not
allow technological or spectacular research methods that enable it to reach
the general public, as scientific studies do. Thus, from a public perspective,
scholars of philology are old, bearded and boring men sealed in libraries,
possessive of their intellectual ideas and terribly wary of their colleagues;
cowardly enemies ready to rob them of their most important ideas. And
we must sadly admit that they are often not completely wrong.
It was with this image in mind that, in April 2017, the Centro Studi sul
Teatro Classico of the University of Turin began to organise the conference
The Forgotten Theatre. Mythology, Dramaturgy and Tradition of the Greek‑Latin
Fragmentary Drama. To the outside eye, it was no more than another
academic conference. But now, a few months since the conference was held,
we can assess whether our attempts to overcome prejudices against classics
and academics have been successful.
First of all, all of the speakers – except a few keynotes – were selected
with a Call for Papers open to researchers and scholars worldwide. The
result of this selection process was a three‑day conference animated by 27
speakers (13 men, 14 women) from different countries, with various
educational backgrounds, ages, and fields of study, including: philology,
dramaturgy, anthropology, papyrology and history. We hosted a vast
audience of young scholars, including university and high‑school students
alike, who were active in discussing each paper, creating a productive and
cooperative atmosphere. Many convivial moments (much enhanced by the
Italian food) helped us to build working relationships – the Giacomo
Leopardi’s “social chain” – and developed a dialogue among scholars.
We can now affirm that all the efforts made by the organisers of this
conference have enlivened a scientific meeting that was not exclusive, but
inclusive, open to both renowned professors and young researchers, in the
belief that the old elitist way to host conferences has finally come at the end
of its rope. The following proceedings are a testament to the scientific value
of the speakers’ research.
XIV Introduction

Publishing this volume, I am grateful to those who have given their


fundamental contribution to this gargantuan effort. First of all, thank you
to Professor Francesco Carpanelli, teacher of Greco‑Roman Theatre and
coordinator of the Centro Studi sul Teatro Classico at the University of Turin:
he is the reason the conference took place. Thank you to Professor Enrico
V. Maltese, Head of the Department of Classics for inspiring generations
of students and researchers. I am also grateful to Professors Angela M.
Andrisano and Giulio Guidorizzi who agreed to be part of the conference’s
Scientific Committee.
My warmest thanks go to the staff of the Centro Studi sul Teatro Classico
who assisted me at all times, with all tasks: Giorgia Giaccardi, our Deputy
Secretary and beloved colleague, Beatrice Bersani, our personal English
teacher, Pietro Boagno, the future of the Centro Studi, Marta Fusaro, Linda
Moschin, Paola Scarzella, irreplaceable helpers, and Stefania Zuccaro,
aspiring philosopher lent to the Classics.

Thanks, finally, to the professors, scholars and students who shared with
us the joyful experience of conducting collaborative classical research.

Oὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.

Turin, August 2018


Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo
FRANCESCO CARPANELLI (UNIVERSITÀ DI TORINO)

1. Eschilo e il mito

Del dio dedito a magie e trasformazioni, Dioniso, il bambino mai cre‑


sciuto perché privato, fin dalla nascita, dei genitori1, si ipotizzano due cicli
eschilei, entrambi basati sul mancato riconoscimento della sua divinità: il
primo legato alle vicende tebane, il secondo alla figura di Licurgo, il re trace
che aveva tentato di perseguitarlo. Questi gli ipotetici raggruppamenti:

1) La tetralogia tebana2: Σεμέλη ἢ ῾Υδροφόροι (Semele o Le portatrici di


acqua) (n. 67), Ξάντριαι (Le Cardatrici) (n. 50), Βάκχαι (Le Baccanti) (n. 11),
Πενθεύς (Penteo) (n. 55), Τροφοί (= Διονύσου Τροφοί3) (Le Nutrici = Le
Nutrici di Dioniso) (n. 73).

Appare evidente che cinque titoli non possono essere riferiti ad una
tetralogia e la prima osservazione che possiamo fare, in base al soggetto
che lega i drammi, è che Le Baccanti e Penteo siano due titoli alternativi per
la stessa tragedia.

2) la Lykurgheia: ᾿Ηδωνοί (Gli Edoni), Βασσαρίδες (o Βασσάραι) (Le


Bassaridi), Νεανίσκοι (i Giovinetti), e il dramma satiresco Λυκοῦργος
(Licurgo)4.

1
I lineamenti del mito legato a Dioniso sono in GANTZ 1993, I, 112‑119. Per un
inquadramento generale del teatro tragico classico legato alla figura del dio e ai suoi
rapporti con la sua famiglia umana cf. BIERL 1991 e CARPANELLI 2015, 11‑47.
2
I titoli si trovano nel Catalogo Mediceo. Cf. JOUAN 1992, 76‑79.
3
Cf. hyp. E. Med.
4
Per i titoli cf. schol. Ar. Thesm. 134 = TrGF III, T 68, in cui si parla esplicitamente di
una tetralogia intitolata Lycurgheia. Cf. SÉCHAN 1926, 63‑79; AÉLION 1983, 1, 254‑258;
JOUAN 1992, 72‑76; GANTZ 2007, 47.
2 Francesco Carpanelli

Se Omero si limita a citare il nome di Semele5, il racconto di Apollodoro6


riassume le vicende legate a due cicli dionisiaci in modo simile a quanto
ricostruiamo dai titoli eschilei7:

Σεμέλης δὲ Ζεὺς ἐρασθεὶς Ἥρας κρύφα συνευνάζεται. ἡ δὲ ἐξαπατη‑


θεῖσα ὑπὸ Ἥρας, κατανεύσαντος αὐτῇ Διὸς πᾶν τὸ αἰτηθὲν ποιήσειν,
αἰτεῖται τοιοῦτον αὐτὸν ἐλθεῖν οἷος ἦλθε μνηστευόμενος Ἥραν. Ζεὺς
δὲ μὴ δυνάμενος ἀνανεῦσαι παραγίνεται εἰς τὸν θάλαμον αὐτῆς ἐφ’
ἅρματος ἀστραπαῖς ὁμοῦ καὶ βρονταῖς, καὶ κεραυνὸν ἵησιν. Σεμέλης δὲ
διὰ τὸν φόβον ἐκλιπούσης, ἑξαμηνιαῖον τὸ βρέφος ἐξαμβλωθὲν ἐκ τοῦ
πυρὸς ἁρπάσας ἐνέρραψε τῷ μηρῷ. ἀποθανούσης δὲ Σεμέλης, αἱ λοι‑
παὶ Κάδμου θυγατέρες διήνεγκαν λόγον, συνηυνῆσθαι θνητῷ τινι
Σεμέλην καὶ καταψεύσασθαι Διός, καὶ ‹ὅτι› διὰ τοῦτο ἐκεραυνώθη.
κατὰ δὲ τὸν χρόνον τὸν καθήκοντα Διόνυσον γεννᾷ Ζεὺς λύσας τὰ
ῥάμματα, καὶ δίδωσιν Ἑρμῇ.

Zeus si innamora di Semele e si unisce a lei di nascosto da Era. Ma Semele,


tratta in inganno da Era, poiché Zeus le aveva promesso di esaudire tutto
quello che avesse chiesto, domanda al dio di recarsi da lei come era andato
a unirsi con Era. Zeus non può rifiutare e giunge alla stanza di Semele sopra
il carro, con i tuoni e i fulmini, e scaglia la folgore. Semele morì di terrore;
allora Zeus sottrasse alle fiamme il figlio di sei mesi che lei aveva abortito e
lo cucì nella sua coscia. Morta Semele, le altre figlie di Cadmo sparsero la

5
Cf. Hom. Il. 14, 325; cf. anche h. Bacch. 7, 1 ss.
6
Cf. anche Hyg. Fab. 167: Liber Iovis et Proserpinae filius a Titanis est distractus, cuius
cor contritum Iovis Semele dedit in potionem. Ex eo praegnans cum esset facta, Iuno in Beroen
nutricem Semeles se commutavit et ait: «Alumna, pete a Iove ut sic ad te veniat quemadmodum
ad Iunonem, ut scias quae voluptas est cum deo concumbere». Illa autem instigata petit ab
Iove, et fulmine est icta; ex cuius utero Liberum exuit et Nyso dedit nutriendum, unde
Dionysus est appellatus et bimater est dictus. («Libero, figlio di Giove e Proserpina, fu
dilaniato dai Titani. Giove macinò il suo cuore e lo dide da bere a Semele. Dopo che
essa rimase incinta in conseguenza di questo, Giunone prese le sembianze di Beroe, la
nutrice di Semele, e le disse: “Figlia mia, chiedi a Giove di presentarsi a te come si
presenta a Giunone, per renderti conto di quale piacere si provi a giacere con un dio”.
E quella, così indotta, lo chiese a Giove e fu colpita dal fulmine; dal suo utero fece
uscire Libero e lo diede da allevare a Niso, e per questo è stato chiamato Dioniso e si
dice che è bimadre. » (trad. di GASTI 2017).
Si tratta di una versione orfica della nascita di Dioniso‑Zagreo, dio sotterraneo e
misterico, in cui viene citato l’inganno di Era che, assunte le forme di Beroe, nutrice di
Semele, le consiglia di dire a Zeus di presentarsi, ai loro incontri d’amore, con lo stesso
aspetto con cui si presenta alla moglie.
7
CARPENTER 1997, 37, sostiene che il racconto di Apollodoro dipende sia da Eschilo
che da Euripide.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 3

voce che la sorella si era unita a un uomo mortale e aveva mentito accusando
Zeus, e per questo era stata fulminata. A tempo debito Zeus scioglie le
cuciture, fa nascere Dioniso e lo affida a Ermes8. (Apollod. Bibl. 3, 4, 3)

Il racconto si presenta come il riassunto di un plot che può adattarsi ad


un andamento drammatico9: Zeus innamorato di Semele va a letto con lei
di nascosto a Era che si vendica ingannando la fanciulla (ἐξαπατηθεῖσα
ὑπὸ Ἥρας); Apollodoro non precisa il modo in cui questo avviene ma fa
capire quale doveva essere stato il cattivo consiglio della dea quando dice
che Zeus aveva promesso alla ragazza che avrebbe potuto chiedergli tutto
ciò che voleva: Semele infatti gli domanda di presentarsi nello stesso modo
in cui si univa alla moglie. Zeus la esaudisce e arriva nella camera della
poveretta (παραγίνεται εἰς τὸν θάλαμον αὐτῆς), un’informazione questa
da non dimenticare10, con un carro munito di tuoni e fulmini11; al culmine
della sua potenza scaglia una folgore. Semele muore dalla paura e il dio
riesce a salvare dalle fiamme il figlio, di sei mesi, cucendolo nella sua coscia.
Le sorelle, intanto, diffondono la voce che si era unita con un uomo mortale
e che per coprire il suo misfatto aveva incolpato Zeus; per questo motivo il
dio si sarebbe vendicato uccidendola12. Il neonato viene affidato a Ermes13.
La narrazione della vita di Dioniso riprende:

Διόνυσος δὲ εὑρετὴς ἀμπέλου γενόμενος, Ἥρας μανίαν αὐτῷ ἐμβα‑


λούσης περιπλανᾶται Αἴγυπτόν τε καὶ Συρίαν. καὶ τὸ μὲν πρῶτον
Πρωτεὺς αὐτὸν ὑποδέχεται βασιλεὺς Αἰγυπτίων, αὖθις δὲ εἰς Κύβελα
τῆς Φρυγίας ἀφικνεῖται, κἀκεῖ καθαρθεὶς ὑπὸ Ῥέας καὶ τὰς τελετὰς
ἐκμαθών, καὶ λαβὼν παρ’ ἐκείνης τὴν στολήν, ἐπὶ Ἰνδοὺς διὰ τῆς

8
Le traduzioni di Apollodoro sono di M. G. Ciani in SCARPI 1996.
9
Cf. HERMAN 1834, 5 e 21 e MARBACH 1927, 2434, s.v. Lykurgos.
10
Impossibile, nel teatro antico, raccontare la morte di Semele. Questo particolare
in cui si dice che Zeus entra nella camera della ragazza sembra quasi un cenno al
racconto di un Messaggero. Non dimentichiamo anche che all’inizio delle Baccanti di
Euripide si dovevano vedere, sulla scena, le rovine fumanti della casa dove era stata
incenerita. Un particolare strano pensando all’abitazione di una donna non sposata,
fatto inusuale per una società in cui una donna non poteva vivere da sola.
11
Un’immagine in un certo modo più adatta al teatro ellenistico o a quello latino
repubblicano; si tratta infatti di un carro che Zeus si porterebbe dietro, quasi come un
mago, non impossibile in una rappresentazione tarda.
12
La causa della vendetta di Dioniso sulla sua famiglia, alla base delle Baccanti
euripidee.
13
Segue il racconto dell’infanzia di Dioniso bambino, adottato prima dalla zia Ino
e poi dalle ninfe.
4 Francesco Carpanelli

Θρᾴκης ἠπείγετο. Λυκοῦργος δὲ παῖς Δρύαντος, Ἠδωνῶν βασιλεύων,


οἳ Στρυμόνα ποταμὸν παροικοῦσι, πρῶτος ὑβρίσας ἐξέβαλεν αὐτόν.
καὶ Διόνυσος μὲν εἰς θάλασσαν πρὸς Θέτιν τὴν Νηρέως κατέφυγε,
Βάκχαι δὲ ἐγένοντο αἰχμάλωτοι καὶ τὸ συνεπόμενον Σατύρων πλῆθος
αὐτῷ. αὖθις δὲ αἱ Βάκχαι ἐλύθησαν ἐξαίφνης, Λυκούργῳ δὲ μανίαν
ἐνεποίησε Διόνυσος. ὁ δὲ μεμηνὼς Δρύαντα τὸν παῖδα, ἀμπέλου
νομίζων κλῆμα κόπτειν, πελέκει πλήξας ἀπέκτεινε, καὶ ἀκρωτηριάσας
αὐτὸν ἐσωφρόνησε. τῆς δὲ γῆς ἀκάρπου μενούσης, ἔχρησεν ὁ θεὸς
καρποφορήσειν αὐτήν, ἂν θανατωθῇ Λυκοῦργος. Ἠδωνοὶ δὲ ἀκούσα‑
ντες εἰς τὸ Παγγαῖον αὐτὸν ἀπαγαγόντες ὄρος ἔδησαν, κἀκεῖ κατὰ
Διονύσου βούλησιν ὑπὸ ἵππων διαφθαρεὶς ἀπέθανε. διελθὼν δὲ
Θρᾴκην [καὶ τὴν Ἰνδικὴν ἅπασαν, στήλας ἐκεῖ στήσας] ἧκεν εἰς Θήβας,
καὶ τὰς γυναῖκας ἠνάγκασε καταλιπούσας τὰς οἰκίας βακχεύειν ἐν τῷ
Κιθαιρῶνι. Πενθεὺς δὲ γεννηθεὶς ἐξ Ἀγαυῆς Ἐχίονι, παρὰ Κάδμου
εἰληφὼς τὴν βασιλείαν, διεκώλυε ταῦτα γίνεσθαι, καὶ παραγενόμενος
εἰς Κιθαιρῶνα τῶν Βακχῶν κατάσκοπος ὑπὸ τῆς μητρὸς Ἀγαυῆς κατὰ
μανίαν ἐμελίσθη· ἐνόμισε γὰρ αὐτὸν θηρίον εἶναι.

Dioniso scopre la pianta della vite, ma Era lo fa impazzire e egli va errando


per l’Egitto e per la Siria. Primo ad accoglierlo è Proteo, re d’Egitto, poi
giunge al monte Cibelo in Frigia e qui viene purificato da Rea e apprende i
riti iniziatici; da lei riceve la stola, e si affretta attraverso la Tracia alla volta
degli Indiani. Licurgo, figlio di Driante e re degli Edoni, che vivono presso
il fiume Strimone, fu il primo a recargli offesa e a scacciarlo. Dioniso cercò
rifugio in mare, da Teti figlia di Nereo; le Baccanti e lo stuolo dei Satiri che
lo seguivano furono fatti prigionieri. Ma poi le Baccanti vennero liberate
all’improvviso e Dioniso fece impazzire Licurgo. Nella sua follia il re,
credendo di tagliare un tralcio di vite, uccise il figlio Driante con un colpo
di scure: solo dopo averlo mutilato recuperò la ragione. La terra degli Edoni
continuava ad essere sterile e il dio vaticinò che avrebbe ripreso a dar frutti
se fosse stato messo a morte Licurgo. Gli Edoni, quando lo seppero,
condussero il re sul monte Pangeo, lo legarono e qui, per volontà di Dioniso,
egli morì sbranato14 dai cavalli. Dioniso attraversò la Tracia e tutta l’India,
dove innalzò delle colonne, e giunse a Tebe dove costrinse le donne ad
abbandonare le loro case per celebrare i riti bacchici sul Citerone. Penteo, il
figlio che Agave aveva generato a Echione e che da Cadmo aveva ereditato
il regno, cercava di impedire che ciò avvenisse si recò sul Citerone per spiare
le Baccanti e fu fatto a pezzi da sua madre Agave, che, in preda alla follia, lo
aveva scambiato per una belva feroce. (Apollod. Bibl. 3, 5, 1‑2.)

14
Meglio tradurre «dialaniato». Cf. GUIDORIZZI 1995, 295, n. 59.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 5

Dioniso trova un primo implacabile nemico in Licurgo re degli Edoni15;


lo scontro tra i due contiene elementi riferibili alla trilogia tragica cui
abbiamo accennato, a parte la fuga di Dioniso nel mare che dalle ipotesi
ricostruttive appare completamente estranea al plot. Il dio fa impazzire il
re che, credendo di tagliare un tralcio di vite, uccide il figlio Driante,
colpendolo con una scure; ritrovata la ragione sarà sacrificato per placare
l’origine di una terribile carestia: gli Edoni, seguendo una profezia di
Dioniso stesso, lo conducono sul monte Pangeo, lo legano e lo fanno
squartare da cavalli fatti andare in opposte direzioni. Segue poi un
brevissimo riassunto di ciò che leggiamo nelle Baccanti di Euripide: il dio
arriva a Tebe, la città di sua madre dove costringe le donne tebane ad

15
L’origine di questo racconto è in Omero, quando Diomede rievoca la vicenda
quale esempio di hybris contro gli dei (Il. 6, 130‑140): οὐδὲ γὰρ οὐδὲ Δρύαντος υἱὸς
κρατερὸς Λυκόοργος / δὴν ἦν, ὅς ῥα θεοῖσιν ἐπουρανίοισιν ἔριζεν· / ὅς ποτε
μαινομένοιο Διωνύσοιο τιθήνας / σεῦε κατ’ ἠγάθεον Νυσήϊον· αἳ δ’ ἅμα πᾶσαι /
θύσθλα χαμαὶ κατέχευαν ὑπ’ ἀνδροφόνοιο Λυκούργου / θεινόμεναι βουπλῆγι·
Διώνυσος δὲ φοβηθεὶς / δύσεθ’ ἁλὸς κατὰ κῦμα, Θέτις δ’ ὑπεδέξατο κόλπῳ /
δειδιότα· κρατερὸς γὰρ ἔχε τρόμος ἀνδρὸς ὁμοκλῇ. / τῷ μὲν ἔπειτ’ ὀδύσαντο θεοὶ
ῥεῖα ζώοντες, / καί μιν τυφλὸν ἔθηκε Κρόνου πάϊς· οὐδ’ ἄρ’ ἔτι δὴν / ἦν, ἐπεὶ
ἀθανάτοισιν ἀπήχθετο πᾶσι θεοῖσιν· («Neppure il figlio di Driante, il forte Licurgo,
visse a lungo dopo aver lottato contro gli dei celesti e aver inseguito sul sacro monte
Niseo le nutrici del folleggiante Dioniso; e esse tutte gettarono a terra i tirsi, incalzate
dal pungolo di Licurgo sterminatore, e Dioniso atterrito s’immerse nelle onde del mare
e atterrito lo accolse Teti nel suo seno: tremava per le urla dell’uomo. Per questa ragione
lo odiarono gli dei che hanno facile vita: il figlio di Crono lo accecò e non visse a lungo,
perché era venuto in odio a tutti gli immortali.» Traduzione di PADUANO 2007).
Per la storia di Licurgo in Omero cf. SEAFORD 1994, 444. Il dio descritto da Omero
è un bambino, seguito dalle sue nutrici (tiyÆnaw) già assimilate a sue seguaci in
quanto munite di tirso; scappa di fronte alla violenza (¶rizen) di Licurgo e si rifugia
in mare, da Teti. La scena non si svolge in Tracia ma sul mitico e sacro monte Nyseion.
La punizione riservata, infine, da Zeus a Licurgo è la cecità, una vita breve trascorsa
nell’odio degli dei. Un racconto simile a quello di Eumelo nell’Europia (= fr. 11 Bernabè).
Cf. PRIVITERA 1970, 53‑74. La narrazione omerica è in linea con quanto leggiamo
nell’Antigone (955‑965): Ζεύχθη δ’ ὀξύχολος παῖς ὁ Δρύαντος, / Ἠδωνῶν βασιλεύς,
κερτομίοις ὀργαῖς, / ἐκ Διονύσου πετρώδει κατάφαρκτος ἐν δεσμῷ. / Οὕτω τᾶς
μανίας δεινὸν ἀποστάζει / ἀνθηρόν τε μένος. Κεῖνος ἐπέγνω μανίαις / ψαύων τὸν
θεὸν ἐν κερτομίοις γλώσσαις. / Παύεσκε μὲν γὰρ ἐνθέους / γυναῖκας εὔιόν τε πῦρ,
/ φιλαύλους τ’ ἠρέθιζε Μούσας. («Anche il figlio di Driante, l’iracondo re degli Edoni,
fu incatenato da Dioniso in una prigione rocciosa, per pena degli insulti taglienti. Così
svaniva la furia rigogliosa della follia. Allora conobbe il dio che aveva provocato e
insultato, pretendendo di porre un termine all’esaltazione delle donne ed al fuoco
sacro; e aveva irritato pure le Muse amanti del flauto.» Traduzione di PADUANO 1982,
I).
6 Francesco Carpanelli

abbandonare le loro case e ad andare sul monte Citerone per celebrare i


suoi riti. Il re Penteo, suo cugino, cerca di opporsi a questo piano, va a
spiare le menadi ma la madre Agave, in un empito di follia, lo prende per
una belva e lo uccide.

2. Nasce «un bimbo non ancora formato»16 (dalla Semele)

2.1. Il testo

Anche se i frammenti eschilei sono scarsi il loro contenuto precede


l’unica tragedia di soggetto dionisiaco, a noi rimasta, le Baccanti di Euripide,
la parte finale della storia, lo scontro tra il dio e il cugino Penteo, di cui
niente ci rimane, come abbiamo detto, in Eschilo, a parte due titoli, Baccanti
e Penteo.
La presenza, nel catalogo medievale, del titolo Baccanti indica che
esisteva un’opera eschilea scomparsa forse per il rilievo dato a quella
omonima, euripidea17, o semplicemente perché si tratta di un doppione del
Penteo. L’unico frammento che abbiamo, riportato da Giovanni Stobeo (1,
3, 26, 27), è riferibile alla punizione di un fantomatico nemico di Dioniso,
un mortale, e quindi alla lotta con qualcuno che non voleva riconoscere la
sua essenza divina; si tratta, del resto, dell’unica divinità del paganesimo
ellenico dedita così intensamente, e in prima persona, alla propria
rivelazione. Ecco il testo:

τό τοι κακὸν ποδῶκες ἔρχεται βροτοῖς


καὶ τἀμπλάκημα18 τῷ περῶντι τὴν θέμιν

davvero il male piomba sugli uomini con rapido piede perché contraccam‑
bia la colpa di chi viola la norma divina. (TrGF III, 22)

Il dramma, dunque, non può avere alcuna collocazione perché privo di


riferimenti sicuri.
Per quanto riguarda il Penteo19 possiamo dar credito all’hypothesis delle
Baccanti euripidee, scritta da Aristofane di Bisanzio, in cui si equiparano le
trame dei due autori; è comunque imposssibile formulare un’ipotesi mini‑

16
È la traduzione di «Inperfectus adhuc infans» Ov. Met. 3, 310 nella traduzione di
PADUANO 2007.
17
Cf. DODDS 1960, xxix.
18
Cf. A. Pr. 112, Su. 230 e Eu. 934.
19
La variante del plot eschileo, rispetto alle Baccanti euripidee, potrebbe nascondersi
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 7

mamente credibile20. Anche in questo caso abbiamo un solo frammento


difficile da contestualizzare nonostante gli sforzi fatti per inserirlo nell’or‑
dito di una trama21:

μηδ ᾽ αἵματος πέμφιγα πρὸς πέδῳ βάλῃς

E non versare una goccia di sangue a terra. (TrGF III, 183)

In realtà, dunque, possiamo solo arguire dai titoli che la trilogia finisse
in maniera simile a quanto leggiamo nelle Baccanti euripidee.
Il primo dei drammi tebani eschilei era, quasi certamente, la Semele:
la triste sorte della Principessa, messa incinta da uno sconosciuto22,
come pensavano le sorelle, o da Zeus, secondo l’interessata che diventa
così fonte della gelosia di Era23. A parte un termine riferito alle Anfi‑

in quanto leggiamo nelle Eumenidi (vv. 24‑26) in cui si ricorda che le Menadi, insieme
a Dioniso, dettero la caccia a Penteo: PYTHIA. Βρόμιος δ’ ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ’
ἀμνημονῶ, / ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός, / λαγὼ δίκην Πενθεῖ
καταρράψας μόρον· («PIZIA. Bromio è il padrone del luogo – lo ricordo: da lì il dio
partì con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come
una lepre»).
È la Pizia che parla, all’inizio del dramma, delle divinità che accompagnarono Febo
sul monte Parnaso. Bromio («strepitante») è un epiteto di Dioniso che nei tre mesi di
inverno, quando Apollo andava in visita agli Iperborei, si pensava risiedesse a Delfi.
Sul Parnaso si tenevano, in suo onore, ogni due anni, feste notturne che prevedevano
rituali e danze di donne. Questo passo non implica, come intendono gli scoli, che
Penteo sia stato ucciso qui ma che da qui sia partito l’esercito di dionisiaco che poi lo
avrebbe punito con la morte. La caccia di Penteo può quindi essere un’autocitazione
di Eschilo nello stesso contesto in cui si ricorda la persecuzione delle Erinni nei
confronti di Oreste (cf. vv. 111, 147‑8, 231, 246). Una scena che trova conferma in tre
vasi dipinti ora a Ruvo, a Napoli, a Monaco, in cui si vedono le Menadi armate mentre
Penteo si difende dal loro attacco. Cf. SÉCHAN 1926, 102‑106.
20
Riporto come esempio quanto ipotizza Sommerstein: «Pentheus will have dealt
only with the arrival at Thebes of the news of Pentheus’ death on Mount Cithaeron at
the hands of the bacchants, and the reactions of his family, the Theban community and
perhaps Dionysus himself.» SOMMERSTEIN 2008, 188‑89.
21
Cf. JOUAN 1992, 78 e DI BENEDETTO 2004, 39‑40.
22
Un «caso eccezionale di donna mortale che concepisce un vero e proprio dio…e
la sua storia richiede lo sviluppo di una duratura relazione sessuale, non un incontro
occasionale con Giove, o un ruolo di pura e semplice vittima di stupro» scrive Barchiesi
(in Barchiesi‑Rosati, 2007, 164) a proposito dei versi del terzo libro delle Metamorfosi
di Ovidio (Met. 3, 253‑315).
23
Per il contenuto cf. HADJICOSTI 2006. Il confronto con le Hydrophoroi di Sofocle
(TrGF IV, 672‑674) è solo ipotetico in quanto non siamo sicuri del fatto che anche questo
dramma avesse come argomento la morte di Semele. Sono attestate anche altre tragedie
8 Francesco Carpanelli

dromie24, festività della famiglia in cui si dava il nome ad un neonato e che


quindi ci riporta alla nascita di un bambino, abbiamo solo la testimonianza
di uno scolio ad Apollonio Rodio (1, 636):

ἔνθεν καὶ τὴν Σεμέλην Θυώνην καλοῦσιν, ἐπειδὴ Αἰσχυλος ἔγκυον


αὐτὴν παρεισήγαγεν οὖσαν καὶ ἐνθεαζομένην, ὁμοίως δὲ καὶ τὰς
ἐφαπτομένας τῆς γαστρὸς αὐτῆς ἐνθεαζομένας

Da qui proviene il nome a Semele, Thyone, perché Eschilo l’ha portata sulla
scena incinta e invasata; allo stesso modo risultano invasate anche quelle
che toccavano il suo grembo25.

Sembra proprio che si possa pensare alla nostra tragedia; pochi termini
che comunque dicono già qualcosa sul contenuto: Semele è dunque un
personaggio che appare sulla scena non solo incinta ma anche invasata
(ἐνθεαζομένην), così come poi lo diventano le donne (il Coro?) quando
toccano il suo grembo. Questo fa pensare ad una scena legata o al periodo
di gestazione o a quello della nascita di Dioniso: il figlio è in grado di
influenzare la madre, in questo senso la prima menade del mondo. Un
indizio per capire che il dramma, come la trilogia, era senza dubbio
impostato su una profonda valenza religiosa che si diffondeva fin dalle
prime scene. Tutte le tragedie dei due cicli, vedremo, seguono infatti un
filone dedicato al rapporto tra gli uomini e i culti misterici (anche e
soprattutto nella loro conciliazione). Dal punto di vista testuale tutto
cambia, però, se attribuiamo a questa tragedia un papiro26, pubblicato nel

intitolate Semele, una di Diogene Ateniese (TrGF I, 45 F 1) e una di Carcino II (TrGF I,


70 F 2). Della Semele di Callimaco conosciamo solo il titolo.
24
Il frammento è tratto dal Lessico (A 3996 L.) di Esichio: «“Anfidromo” Eschilo nella
Semele plasmò questo demone, e un canto sulle Anfidromie (TrGF III, 222).» Dobbiamo
pensare ad un personaggio di nome Anfidromo, creato appositamente per il dramma?
Più immediato immaginare che il termine facesse parte di un canto relativo alle
Anfidromie, la festa ateniese celebrata nelle abitazioni private qualche giorno dopo la
nascita di un bambino. Era il padre che si purificava portando il neonato nelle sue
braccia e girando (da qui il nome della ricorrenza) intorno al focolare. Si portavano
doni ai genitori e la festa terminava con un banchetto a base soprattutto di cavolo. È
facile arguire che, nello stesso contesto, si dava anche il nome al neonato; se si trattava
di un maschio si metteva fuori dalla porta un ramo d’ulivo, se femmina un fiocco di
lana.
25
Il Coro sarebbe quindi formato dalle donne che imponevano le loro mani sul
ventre di Semele per facilitare i dolori del parto (?).
26
È il P.Oxy. 2164 (composto da tre frammenti) di cui si conoscevano già alcuni
versi attraverso citazioni indirette; negli scoli al v. 1344 delle Rane di Aristofane in cui
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 9

194127, molto corrotto, che contiene parti di un canto corale che menziona
Semele e Cadmo, ma anche versi in esametro in cui Era, trasformatasi in
una sacerdotessa mendicante, elogia la sposa ideale, quando è casta. Un
avvertimento per Semele che, se presente sulla scena, doveva pensare alla
sua segreta relazione con Zeus. Rimane indubbio che se le Xantriai
occupavano il secondo posto della trilogia il loro plot doveva comunque
iniziare almeno dopo la nascita di Dioniso (contenuta nella Semele) e
comprendere il momento in cui Dioniso iniziava la vendetta sui suoi
nemici; il travestimento di Era come sacerdotessa ha senso solo in relazione
ad un inganno precedente la nascita del dio28 e quindi non può appartenere
a questa tragedia. Attribuirei quindi, senza dubbi sostanziali, le parti del
papiro, nel complesso di difficile lettura, alla Semele. Cerchiamo ora di
trovare gli elementi utili per la ricostruzione di parte del plot (SOMMERSTEIN
2008, 220a = TrGF III, 168):

XOPOS
φίλοισιν29 ἐν μάκεσι30 πίστις φθονερ[ὰ31 8
δόξα τ᾿ ἀεικής. Σεμέλας δ᾿ ε[ὐ‑
χόμεθ᾿ εἶναι διὰ πᾶν 10
εὐθύπορον λά[χος

leggiamo «Ninfe nate sui monti» (νύμφαι ὀρεσίγονοι), Asclepiade attribuisce i vv. 16
e 17 alle Xantriai di Eschilo, aggiungendo che li ha letti in un manoscritto da lui
consultato ad Atene; anche Platone nella Repubblica, 381d cita il verso 17 senza indicare
l’autore ma dice solo che è Era a pronunciarlo (cf. Totaro 2017, 19‑21). L’attribuzione
alle Xantriai è stata messa in forte discussione e Sommerstein (SOMMERSTEIN 2008, 226,
n. 1) riassume la questione riportando altri casi di inesatta citazione da parte di
Asclepiade: «In Birds 348 he [Asclepiades] detects parody of Euripides’ Andromeda,
which was not produced until two years after Birds; and he ascribes Frogs 1270 (= A.
Fr. 238) to Aeschylus’ Iphigeneia when another scholar, Timachidas, said it was from
Telephus (they were probably both guessing: see introductory note to Telephus ). It
should be added, too, that Frogs 1344 itself can hardly be derived from Wool‑Carders
(as Asclepiades claimed), or from any other Aeschylean play, when it forms part of a
song which is presented by the character “Aeschylus” as tipically Euripidean, and
which elsewhere parodies only Euripides». Prima di lui l’attribuzione di questo papiro
alla Semele si deve a LATTE 1948, NILSSON 1955, LLOYD‑JONES 1957, TAPLIN 1977, 427‑
428, GANTZ 1981, 25, JOUAN 1992, 77, HADJICOSTI 2006a. Fondamentale ora la lettura
del recentissimo saggio di TOTARO 2017 che è propenso ad attribuire il passo alla
Semele.
27
In sintesi METTE 1959 attribuisce i tre frammenti del papiro, con il numero 355,
alla Semele, Sommerstein (SOMMERSTEIN 2008, 220a‑c) alla Semele, Radt (TrGF III, 168 e
168a) alle Xantriai.
28
Cf. SOMMERSTEIN 2008, 226.
29
φίλοισιν (o φιλοῦσιν) Lobel.
30
Forma dorica da μῆκος, per indicare la durata, la lunghezza del tempo.
31
πίστις φθονερ[ὰ Mette.
10 Francesco Carpanelli

CORO
con i (suoi?) cari nei lunghi tempi fiducia comporta invidia
e ciò che pensano diventa nocivo32. Noi però preghiamo
che Semele abbia sempre
una sorte che proceda retta

τὰ γάρ ἄλλα τάδ᾿ [ 12


Κάδμῳ Σεμέ[λα
τῶ[ι] παντοκρα[τ
Ζηνί γάμων δ[ 15

Per questi altri motivi […]


a Cadmo Semele […]
con l’onnipotente […]
Zeus […] unendosi […]

ΗΡΑ
νύμφαι ναμερτεῖς33, κυδραὶ θεαί, αἷσιν ἀγείρω 16
᾿Ινάχου ᾿Αργείου ποταμοῦ παισὶν βιοδώροις,
αἱ τε παρίστανται πᾶσιν βροτέοισιν ἐπ᾿ ἔργ[οις
[ ]τε καὶ εὐμόλποις ὑμ[εναίοις
καὶ τ[ ν]εολέκτροις ἀρτιγάμ[ 20

ERA
Ninfe infallibili, dee illustri, per le quali io raccolgo elemosine,
figlie del fiume argivo Inaco, che date vita,
e che favorite tutte le attività degli uomini…
e i matrimoni con le loro belle musiche,
e […] le nuove spose ai talami nuziali34

αἰδὼς γάρ καθαρὰ καὶ ν[υ]μφοκόμος μέ[γ]᾿ ἀρί[στα, 23


παίδων δ᾿ εὔκαρπον τε[λ]έθει γένος, οἷς [
ἵλαοι ἀντιάσουσι μελίφ[ρον]α35 θυμὸν ἐχ[ουσαι 25

32
È ciò che le sorelle pensano di Semele, anche se prima delle Baccanti di Euripide
la cattiva fama della principessa, che sarebbe stata messa incinta da uno sconosciuto e
avrebbe per questo inventato di avere una relazione con Zeus, non è attestata.
33
La forma dorica dell’aggettivo νημερτής (infallibile, che non sbaglia mai)
introduce al meglio il tono del subdolo discorso di Era che invoca le ninfe veritiere:
lei, una dea vestita sotto mentite spoglie con in mente un piano mortifero.
34
Non è molto difficile interpretare il senso di questi versi. Era vede di fronte a sé
Semele già incinta e si presenta come una sacerdotessa di ninfe che favoriscono tutte
le attività degli uomini, tra cui anche i matrimoni. Semele le dà fiducia (πίστις v. 8),
come è solita fare per carattere e questo la condurrà alla rovina. La percezione è
dunque quella di un dramma basato sulla difficoltà per gli uomini di avere un rapporto
paritario con gli dei. Anche Zeus del resto non farà niente per salvare l’amata.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 11

Poiché il pudore è casto ed è di gran lunga il più degno ornamento di una


sposa,
e una ricca messe di figli tocca a coloro che [quelle]
avvicineranno benevole, con animo dolce come il miele.

τραχεῖαι στυγεραί τε καὶ [ 27


ἁ]γχίμολοι πολλὰς μεν [
…]γον εὐναίου φωτὸ[ς 29

Dure e odiose e […]


nel loro approccio; molte
di un marito di letto36… (vv. 27‑29)

Il Coro difende il buon nome di Semele, una brava ragazza la cui


sincerità è diventata motivo di infamia. Il suo avvenire, si augurano le
donne, percorrerà un cammino retto come la principessa si merita, lei che
si è unita a Zeus, una fortuna che certo non capita a tutte le ragazze. Zeus
però è sposato con Era, chissà se le donne ne facevano minimamente cenno?
Ed ecco che la dea si presenta sulla scena, trasformatasi in sacerdotessa che
cerca offerte per le ninfe, figlie di Inaco. Le esili tracce che rimangono sono
chiare: Era intesse il suo discorso con toni subdoli e ingannatori: le feste di
nozze, in mezzo a musica e canti (v. 19) e le spose novelle (v. 20) che devono
avere per tutta la vita come unico vero ornamento il pudore. I loro figli
godranno del favore delle ninfe, ma solo nel caso si tratti di unioni lecite,
esse saranno benevole e dolci come solo il miele può essere (vv. 24‑25).
Concludo questo tentativo di fornire un’agile rassegna di quello che
possediamo della Semele ricordando che se «nessuno meglio dei filologi sa
esercitare con determinazione e pervicacia l’arte del dubbio»37 bisogna
avere anche il coraggio di scegliere ciò che è necessario per riportare sulla
scena ciò che appare irrimediabilmente perduto.
Quello che sappiamo delle Xantriae (Le cardatrici) è quasi niente perché
gli esigui frammenti non danno alcuna notizia sicura del plot. Le cardatrici
del titolo, il Coro (?), le donne intente, all’inizio della tragedia, nelle loro
attività domestiche, come quella appunto di cardare la lana, sarebbero state
fatte impazzire dal dio dell’estasi38 ma si può escludere un’azione cul‑

35
Ancora un aggettivo per convincere Semele. La finta sacerdotessa vuol farle
intendere che anche il suo animo è, come quello delle dee, dolce come il miele; è
necessario solo che Semele ascolti i suoi consigli.
36
Possiamo solo chiederci come faccia Semele a non riflettere sul fatto che Zeus ha
già una moglie, quella che è di fronte a lei sotto mentite spoglie.
37
DI MARCO 1993, 108.
38
Cf. Eu. Ba. 118‑119.
12 Francesco Carpanelli

minante con la morte di Penteo sul Citerone che qui era però menzionata,
come leggiamo negli Scolii a Eschilo, Eumenidi, 26:

νῦν φησιν ἐν Παρνασσῷ εἶναι τὰ κατὰ Πενθέα, ἐν δὲ ταῖς Ξαντρίαις ἐν


Κιθαιρῶνι

ora dice che ciò che accadde a Penteo avvenne sul Parnaso; nelle Xantriai
invece sul Citerone. (TrGF III, 172 b)

Dal momento che non c’è alcun motivo per non credere alla notizia,
l’unica certa, che il Penteo eschileo avesse un plot sul quale le Baccanti di
Euripide sono state modellate, nelle Xantriae può essere stato solo annun‑
ciato, o profetizzato, lo sparagmos di Penteo. Lissa39, l’unico personaggio
del dramma che conosciamo, poteva essere il tramite mitologico della
vendetta (?) come personificazione dell’azione punitiva di Dioniso o,
meglio, guida spirituale delle menadi nel nuovo sistema di vita utopico,
alternativo, esoterico in un racconto che in qualche modo rendeva edotto il
pubblico sugli aspetti del rito dionisiaco che non tutti gli spettatori
conoscevano. Impossibile comunque parlare del contesto in questione:

ΛΥΣΣΑ (ἐπιθειάζουσα ταῖς Βάκχαις)


ἐκ ποδῶν δ᾿ ἄνω
ὑπέρχεται σπαραγμὸς40 εἰς ἄκρον κάρα·
κέντημα λύσσης41, σκορπίου βέλος λέγω

LYSSA (rivolgendosi, in nome degli dei, alle Baccanti)


Dai piedi sale
alla cima della testa la lacerazione;
parlo del pungolo della follia, il dardo dello scorpione.
(TrGF III, 169)

***

ἃς οὔτε πέμφιξ ἡλίου προσδέρκεται


οὔτ᾿ ἀστερωπὸν ὄμμα Λητρῴας κόρης

che non guarda né il raggio del sole,


né l’occhio dall’aspetto di stella della figlia di Latona42
(TrGF III, 170)

***

39
Demone della follia legato ad Era anche nell’Eracle euripideo (vv. 843‑873).
40
Cf. Eu. Ba. 1095‑1136.
41
λύσσης Lobeck. γλώσσης codd.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 13

κάμακες πεύκης οἱ πυρίφλεκτοι

pali di pino ardenti43


(TrGF III, 171)

Dopo la storia dell’infelice amore di Semele con Zeus, la sua morte e la


nascita di Dioniso, lo sconvolgimento si diffonde a Tebe fino all’abbandono
delle case da parte delle donne44; la loro ultima azione, legata ai ritmi
quotidiani, è stata quella di cardare la lana. Preda dell’invasamento
bacchico sono fuggite sui monti, al servizio del nuovo dio, sotto la guida
di Lyssa; nel Penteo invece si trattava la storia cui si è ispirato Euripide. In
prima istanza possiamo immaginare le Xantriae come un dramma di
formazione per le iniziate al culto misterico, una storia impossibile da
ricostruire nei dettagli ma che senza dubbio preparava i ‘fatti di Penteo’.
Nulla vieta però di pensare che a queste si sia ispirato Euripide nella parte
delle Baccanti in cui racconta la vita delle menadi fuggite sui monti: il
Messaggero45 appare nel momento in cui Penteo fa chiudere ogni porta
pensando così di mantenere il potere che crede di avere ancora in Tebe.
All’alba i pastori portavano le mandrie sui monti quando scorsero i tre tiasi
di baccanti condotti da Agave, Ino e Autonoe. Il lungo racconto rivela una
struttura narrativa non indifferente nella descrizione di una tipologia nuova
di vita in comunione con la natura. Il Messaggero, tra l’altro, dice al re che
se si fosse trovato là avrebbe imparato a pregare questo dio (v. 712).
Seguono poi il piano per catturare Agave, che però fallisce grazie
all’intervento delle menadi, e le scene di sparagmos, anticipazione anche qui
del destino di Penteo. Le donne danno poi l’assalto ai villaggi sottostanti il
Citerone per ritornare infine, mansuete, alla pace da cui erano state cacciate
per colpa della curiosità dei pastori. Ripeto, si tratta solo di una suggestione
che accompagna i pochi versi che abbiamo letto, non avulsa dal contesto
di un dramma di passaggio che ben preparava la conclusione della trilogia
con le vicende di Penteo.
Se questo breve plot, semplice come succede per ogni storia il cui testo
residuo è pressochè inesistente, merita credito perché riempie uno spazio
vuoto senza impegnare o compromettere l’equilibrio filologico della
questione, una seconda ipotesi che ci conduce a una storia del mito che
conosciamo. Le Xantriai, le Cardatrici per eccellenza, sarebbero le figlie di

42
Questa è la più antica testimonianza in cui la luna viene identificata con
Artemide.
43
cf. Eu. Ba. 144‑7.
44
La stessa cosa che accade anche nelle Baccanti di Euripide.
45
Eu. Ba. 660‑786.
14 Francesco Carpanelli

Minia che preferirono continuare la loro attività domestica, cardare la lana,


invece di partecipare alle feste in onore di Dioniso e, come sempre in questi
casi, il dio dal volto dolce di bambino si era vendicato ferocemente su chi
non voleva rendergli i dovuti omaggi46. Le Miniadi, Licurgo, Orfeo, e per
quarto ed ultimo Penteo, rappresentano la volontà, compulsiva, di opporsi
alla forza di un dio47. Tra le rappresentazioni poetiche di questo episodio48
segnalo un passo di Ovidio49 che ha un interessante riscontro in uno dei
frammenti eschilei. Alcitoe e le due sorelle, figlie del re di Orcomeno, Minia,
pur di non seguire i riti di Dioniso si barricano in casa dedicandosi ai lavori
sacri a Minerva, la loro dea. Per passare il tempo si raccontano, a turno,
delle storie: quella di Piramo e Tisbe, quella di Leucotoe e Clizia, infine
quella di Salmacide ed Ermafrodito, fino a quando si manifesta l’ira e la
punizione di Bacco, accompagnata da miracoli verificatisi all’interno della
casa. Le sorelle si trasformano allora in pipistrelli (Metamorfosi, 4, 414‑415):

Tectaque, non silvas celebrant lucemque perosae


nocte volant seroque tenent a vespere nomen

46
Riporto la sintesi bibliografica di Radt su chi siano stati i primi sostenitori di
questa tesi: «Mynyeidum poenam fuisse censuit Boeckh (Gr. Tr. Princ. 29) coll. Ov. Met.
4, 32sqq. (et ad F 171 comparans Ov. Met. 4, 402sq.), prob. e.g. Wecklein, Fritzsche
(ranae 413sqq.; ubi fabulam satyricam fuisse perperam contendit: vide TRI B XI 3),
Nilsson (AC 24, 1955, 337)» Xantriae, p. 281.
47
Per il tentativo di impedire la diffusione del culto di Dioniso cf. JEAMNAIRE 1972.
48
Riporto la sintesi di Rosati (in BARCHIESI/ROSATI 2007, 243‑244) che dà modo di
riflettere anche sulle fonti : «Nella versione del mitografo Antonino Liberale (10), che
alcuni fanno risalire proprio al libro IV delle Metamorfosi di Nicandro, ma anche alla
poetessa Corinna (forse compagna di Pindaro), le tre sorelle (Leucippe, Arsippe e
Alcatoe) figlie del re Minia, «esageratamente amanti del lavoro», rifiutano di seguire
le altre Menadi sui monti e di unirsi al culto di Bacco. Questi si presenta in sembianze
di fanciulla per tentare di convincerle a non offendere il dio; al loro ostinato rifiuto si
trasforma in vari animali (toro, leone, leopardo), mentre dai montanti dei loro telai
scorre nettare e latte. Sconvolte, esse fanno a brani il figlio di Leucippe e fuggono sui
monti come baccanti, nutrendosi di edera, convolvoli e alloro, finchè Ermes le
trasforma in uccelli notturni (un pipistrello, una civetta, un gufo), e «tutte e tre
fuggirono la luce del sole» (Forbes Irving 1990, 252 sg.). Secondo un’altra versione,
attestata in Eliano, Varia historia 3, 42, e più lontana da Ovidio (anche se meno dei vaghi
cenni di Plutarco, Quaestiones Graecae 299e‑f) le donne rifiutano il dio perché «inna‑
morate dei loro mariti»; mentre sono in casa a filare, d’improvviso edera, pampini e
serpenti avvolgono i loro telai, e stillano gocce di vino e di latte. Non ancora persuase
della potenza del dio, esse sono allora indotte a dilaniare il figlioletto di Leucippe,
credendolo un cerbiatto, come le Menadi avevano fatto con Penteo, e infine trasformate
in uccelli (una cornacchia, una nottola, una civetta»).
49
Met. 4, 1‑415.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 15

Abitano case e non boschi e, odiando la luce, volano di notte e prendono il


nome dal vespro

Questi ultimi due versi possono essere messi a confronto con un


frammento della tragedia eschilea, da noi già riportato, in cui sembrerebbe
davvero di riconoscere le tre sorelle:

ἃς οὔτε πέμφιξ ἡλίου προσδέρκεται


οὔτ᾿ ἀστερωπὸν ὄμμα Λητῴας κόρης

alle quali non rivolge lo sguardo né raggio di sole né l’occhio splendente


della figlia di Leto (TrGF III, 170)

Se l’immagine derivasse da questa tragedia Ovidio le renderebbe


soggetto, esse odiano la luce (lucemque perosae)50 e volano di notte (nocte
volant), da un originale greco in cui sono invece Apollo e Artemide che,
nelle ventiquattro ore del giorno, manifestano lo spietato odio degli dei per
chi li disprezza, non rivolgendo mai lo sguardo alle Miniadi (ἃς οὔτε…
προσδέρκεται). Un caso di variatio emulativa: un inciso, legato al mito
dionisiaco, simile a quanto potrebbe essere accaduto, lo vedremo, nelle
Bassaridi (ciclo di Licurgo); una possibilità esclude l’altra, e per sostenere
quest’ultima ipotesi Eschilo avrebbe amplificato un nucleo principale con
un mito collegato al tema della trilogia, una climax che nel terzo dramma
completava quanto era iniziato nel primo; certo una costruzione intrigante
ma al momento a noi preclusa per sempre (in entrambe le trilogie).
Nel nostro contesto meritano una nota anche le Trophoi (Le Nutrici)51,
probabile dramma satiresco legato a questa trilogia. Dalla prima hypothesis
della Medea di Euripide sappiamo che l’opera eschilea raccontava come
Medea avesse portato a nuova giovinezza le nutrici di Dioniso e i loro
mariti, dopo averli bolliti; lo stesso procedimento eseguito dalla maga sul
padre di Giasone, Esone, quello stesso sortilegio che porta alla morte di
Pelia, zio e nemico del marito52. Un riferimento in Ovidio è molto discusso
dalla critica ma vale ricordarlo (Metamorfosi 7, 294‑296):

50
Ovidio caratterizza così i pipistrelli, animali che cercano di sfuggire al fuoco e
alla luce.
51
I tre frammenti superstiti sono TrGF III, 246 b, c, d. Per una rassegna sia sulle
rappresentazioni della ceramografia che sul rapporto tra le Metamorfosi di Ovidio e le
Trophoi cf. DI MARCO 2013b.
52
Φερεκύδης δὲ (FGrHist. 3 F 113) καὶ Σιμωνίδης (PMG 548) φασίν ὡς ἡ Μήδεια
ἀνεψήσασα τὸν ῾Ιάσονα νέον ποιήσειεν. Περὶ δὲ τοῦ πατρὸς αὐτοῦ Αἴσονος ὁ τοὺς
Νόστους ποιήσας φησὶν οὕτως (fr. 6 Kinkel, Allen, Bethe): … . Αἰσχύλος δὲ ἐν {ταῖς
16 Francesco Carpanelli

Viderat ex alto tanti miracula monstri


Liber et admonitus iuvenes nutricibus annos
posse suis reddi, capit hoc a Colchide munus.

Dall’alto Bacco aveva visto un così straordinario prodigio


E, vedendo possibile rendere alle sue nutrici la giovinezza,
riceve questo dono dalla donna della Colchide.53

Un’altra grave lacuna nel panorama eschileo54, un vero peccato che ci


siano rimaste solo tre parole e nessun papiro frammentario del testo.55

2.2. Suggestioni performative

2.2.1. Poesia e scena

È una società quella tardo antica che si riconosce nella vocazione allo
spettacolo, sia quello che offre una letteratura votata all’ἐνάργεια, al porre
davanti agli occhi del lettore o meglio dell’ascoltatore il mondo esterno,
molto spesso in forme già rappresentate nell’arte56

Questa sintesi può essere estesa a tutta la letteratura ellenistico romana


perchè la vocazione allo spettacolo accompagna molte testimonianze, e non
solo quelle poetiche. Anche nel caso di Semele Ovidio, e molto dopo di lui
Nonno di Panopoli, ci hanno lasciato due ritratti utili per qualsiasi
‘suggestione performativa’.

1) Nel terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio dopo la trasformazione e


la morte di Atteone, reo di aver visto Diana nuda mentre faceva il bagno,
Giunone appare particolarmente felice perché si appresta a vedere la fine

Διονύσου} Τροφοῖς ἱστορεῖ ὅτι καὶ τὰς Διονύσου τροφοὺς μετὰ τῶν ἀνδρῶν αὐτῶν
ἀνεψήσασα ἐνεοποίησεν. (TrGF III, 246a).
53
Traduzione di PADUANO 2007
54
SOMMERSTEIN 2008, 249.
55
Il più interessante testimone è forse un vaso del 460 a.C. ca. (ora al Museo
Nazionale di Ancona (3198). Cf. KPS pl. 23a, b) in cui si vede, su un lato, una donna
che conduce con sé un vecchio satiro verso un calderone (un’immagine simile a quelle
in cui la donna è Medea e il vecchio è Pelia. Cf. SOMMERSTEIN 2008, 248), sull’altro lo
stesso satiro ora vigoroso sembra avere la capigliatura scura; accanto a sé ha la moglie
ed un piccolo satiro.
56
GIGLI PICCARDI 2003, 26.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 17

del casato di Cadmo, la stirpe di Europa; la sua attenzione sarà ora rivolta
alla rivale del momento, Semele, l’ultima fiamma di Giove, da lui messa
incinta. La dea ha un piano: ingannerà la ragazza prendendo l’aspetto della
sua vecchia nutrice, Beroe; sarà facile, a quel punto, consigliarle di
pretendere una prova d’amore: che il suo amato si mostri con lo stesso
aspetto che prende quando si unisce alla sua sposa immortale. A causa di
questa richiesta Semele, morirà incenerita dal fulmine divino e dal suo
ventre Giove dovrà estrarre il frutto del loro amore, Bacco, e cucirselo nella
coscia: sarà così ultimato il tempo della gestazione. Questo il testo (3, 273‑
315):

Surgit ab his solio fulvaque recondita nube


limen adit Semeles; nec nubes ante removit
quam simulavit anum posuitque ad tempora canos57 275
sulcavitque cutem rugis et curva trementi
membra tulit passu; vocem quoque fecit anilem
ipsaque erat Beroë, Semeles Epidauria nutrix.
Ergo ubi captato sermone diuque loquendo
ad nomen venere Iovis, suspirat et: “Opto 280
Iuppiter ut sit;” ait “metuo tamen omnia; multi
nomine divorum thalamos iniere pudicos58.
Nec tamen esse Iovem satis est; det pignus amoris59,
si modo verus is est; quantusque et qualis ab alta
Iunone excipitur, tantus talisque, rogato, 285
det tibi complexus60 suaque ante insignia sumat.”
Talibus ignaram Iuno Cadmeida dictis
formarat61; rogat illa Iovem sine nomine munus.
Cui deus:”Elige”; ait “nullam patiere repulsam;
quoque magis credas, Stygii quoque conscia sunto 290
numina torrentis; timor et deus ille deorum est.”
Laeta malo nimiumque potens perituraque amantis

57
posuit… canos: come un’attore Era si mette una parrucca bianca; la sua è dunque
una trasformazione che avviene tra magia e artificio teatrale. È molto importante
ricordare questi particolari per eventuali collegamenti tra poesia e dramma.
58
I thalamos… pudicos sono quelli in cui rimane minima traccia dell’Era eschilea,
apparentemente preoccupata della pudicizia delle fanciulle, facilmente preda di
uomini che le usano facendosi falsamente vanto del nome degli dei.
59
Il pignus amoris sarà un dono letale che causerà la morte dell’amata.
60
Con il termine complexus si dà una svolta evidentemente erotica alla scena e si
danno per scontati incontri di carattere sessuale.
61
Evidente nel verbo il processo di plagio psicologico operato da Era su Semele.
18 Francesco Carpanelli

obsequio Semele: “Qualem Saturnia” dixit


“te solet amplecti, Veneris cum foedus initis62,
da mihi te talem.” Volvit deus ora loquentis 295
opprimere; exierat iam vox properata sub auras.
Ingemuit; neque enim non haec optasse neque ille
non iurasse potest. Ergo maestissimus altum
aethera conscendit vultuque sequentia traxit
nubila, quis nimbos inmixtaque fulgura ventis 300
addidit et tonitrus et inevitabile fulmen.
Qua tamen usque potest, vires sibi demere temptat;
nec, quo centimanum deiecerat igne Typhoea,
nunc armatur eo; nimium feritatis in illo est.
Est aliud levius fulmen63, cui dextra Cyclopum 305
saevitiae flammaeque minus, minus addidit irae:
tela secunda vocant superi; capit illa domumque
intrat Agenoream. Corpus mortale tumultus
non tulit aetherios donisque iugalibus arsit.
Inperfectus adhuc infans genetricis ab alvo 310
eripitur patrioque tener (si credere dignum est)64
insuitur femori maternaque tempora complet.
Furtim illum primis Ino matertera cunis
educat; inde datum nymphae Nyseides antris
occulvere suis lactisque alimenta dedere. 315

(Era scil.) si alza dal trono, e nascosta


in una nuvola fulva65, va a casa di Semele, e non dissolve la nuvola
prima di essersi travestita66 da vecchia, mettendosi capelli bianchi,
pelle solcata di rughe, e trascinando le membra ricurve
con passo tremante; prese anche una voce da vecchia,
e fu Beroe, di Epidauro, nutrice di Semele.
Attacca discorso e, dopo averle parlato
a lungo67, venuta al nome di Giove, fece un sospiro,

62
Vv. 293‑294: Semele vuole vedere Zeus nello stesso modo in cui si presenta a Era.
63
Per levius fulmen, nel rapporto con Nonno 10, 305, cf. D’IPPOLITO 1962, 299‑300.
64
si credere dignum est «è un’espressione dubitativa e un ironico richiamo alla
tradizione, tipici della poesia euripidea ed ellenistica (cf. T. C. W. Stinton, «PCPhS»
n.s. XXII, 1976, 60‑89)» BARCHIESI/ROSATI 2007, 170.
65
Cf. Verg. Aen. 12, 791‑792.
66
Nel poema avvengono altre trasformazioni: cf. 6, 26 ss. e 14, 656. Per la scelta del
nome Beroe cf. Verg. Aen. 5, 620. Nelle Dionisiache (vv. 180‑192) di Nonno, come
vedremo, la vecchia rimane anonima.
67
«impersonando una nutrice, Giunone assume alcuni tratti stereotipi della vecchia
confidente nel teatro e nell’elegia, chiaccherona, partecipe di segreti amorosi, e pronta
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 19

e disse: «Spero che sia proprio Giove, ma ho paura:


molti spacciandosi per dei entrarono in letti pudichi.
E poi, non basta essere Giove!, ti dia una prova
del suo amore: chiedigli, se è il vero Giove, che ti abbracci con tutta
la grandezza e bellezza con la quale l’accoglie
l’eccelsa Giunone, e prima rivesta le sue insegne.
Con queste parole sobilla l’ignara figlia di Cadmo;68
lei chiede a Giove un dono senza specificare, e il dio
le dice: «Scegli, non c’è niente che io ti rifiuti;
e perché tu mi creda, mi sia testimone lo Stige,
l’acqua che mette paura perfino agli dei».
Lieta del suo male, troppo potente, destinata a morire.
Per l’omaggio del suo amante, Semele disse:
«concediti a me tale quale usa abbracciarti la figlia
di Saturno, quando fate l’amore». Il dio voleva
chiuderle la bocca, ma la voce affrettata era già uscita al vento.
Gemette: lei non può più non avere espresso il suo desiderio,
lui il giuramento. Tristissimo sale in cielo,
raduna con lo sguardo le docili nuvole,
vi aggiunge i nembi, i lampi mescolati ai venti,
e i tuoni e i fulmini a cui non si sfugge.
Per quanto può, cerca di togliersi forze,
non si arma del fulmine con cui abbattè Tifeo dalle cento braccia:
in quello c’è troppa violenza. C’è un altro fulmine,
più leggero, dove la mano dei Ciclopi ha meno
fuoco e ferocia, e meno collera; gli dei lo chiamano
fulmine minore. Lo prende ed entra
nella casa di Agenore; il corpo mortale
non sopporta lo sconvolgimento celeste e muore del dono
nuziale. Dal ventre della madre è estratto un bimbo
non ancora formato e, se si può crederlo,
tenero com’è, è cucito nella coscia del padre, e così compie il tempo
della gestazione. Di nascosto Ino, la zia materna, gli dà le prime cure
nella culla e poi lo affida alle ninfe di Nisa,
che lo nascondono nei loro antri e gli danno il latte.

2) All’inizio del settimo libro delle Dionisiache di Nonno di Panopoli,


dopo la distruzione causata dal diluvio, inizia di nuovo la creazione69. Aion

a dare consigli nella sfera sessuale, sino quasi a sfumare nella tipologia della vecchia
mezzana» BARCHIESI/ROSATI 2007, 168.
68
Brusco passaggio, dalla scena del colloquio a quello dell’ennesimo incontro
amoroso in cui Semele, per niente timorosa, prende l’iniziativa.
69
Cf. Pl. Pol. 271a ss.
20 Francesco Carpanelli

si lamenta con Zeus per i mali che affliggono l’umanità (7, 1‑109) e il dio lo
consola con l’annuncio della nascita di un secondo Bacco che darà agli
uomini il vino, bevanda capace di togliere tutti gli affanni (7, 67‑109). A
questo punto inizia la storia d’amore del Cronide con Semele (7, 110‑368)
che si conclude con la vendetta di Era e la morte di Semele (canto 8).
(Canto 7) La principessa si è alzata di buon mattino, ancora presa dal
sogno che ha avuto nella notte; conduce un carro trainato da muli, come
Nausicaa nel sesto libro dell’Odissea. Il sogno era una profezia: Semele ha
visto, in un giardino, un albero carico di rami, con un frutto acerbo, bagnato
dalla rugiada di Zeus. Una fiamma caduta sull’albero lo distrugge
completamente ma il frutto, intatto, viene raccolto e portato al re degli dei
da un uccello; Zeus lo cuce nella coscia ma al suo posto sorge un uomo,
sotto forma di toro. Tiresia, consultato da Cadmo, consiglia di sacrificare a
Zeus un toro e un capro ma Semele si macchia con il sangue del sacrificio
e per purificarsi fa un bagno nell’Asopo: proprio in questa occasione il dio
la vede nuda e se ne innamora. Giunta la notte Zeus va da Semele e si
unisce a lei (vv. 319‑343), come toro, come leone, come leopardo, come
serpente.
(Canto 8) I primi 33 versi dell’ottavo canto sono una ekphrasis sulla
gravidanza di Semele70 dopodiché inizia la narrazione della vendetta di Era
e della morte della ragazza, la parte di cui abbiamo traccia nel testo
eschileo. Phthonos, geloso di Dioniso, ancora nel grembo materno, assume
le sembianze di Ares, per fare ingelosire Era; la tecnica da lui usata è simile
a quella di un qualsiasi attore71 (8, 34‑44):

καὶ Φθόνος ὑψιμέδοντος ὀπιπεύων Διὸς εὐνὴν


καὶ Σεμέλης ὠδῖνα θεηγενέος τοκετοῖο 35
Βάκχου ζῆλον ἔδεκτο καὶ ἔνδοθι γαστρὸς ἐόντος,
αὐτοπαθὴς ἄστοργος ἑῷ βεβολημένος ἰῷ.
καὶ φρενὶ κερδαλέῃ σκολιὴν ἐφράσσατο βουλὴν
Ἄρεος ἀντιτύποιο φέρων ψευδήμονα μορφὴν
ἔντεσι μιμηλοῖσι, καὶ οἷά περ αἵματος ὁλκῷ 40
ἄνθεϊ φαρμακόεντι κατέγραφε νῶτα βοείης
ποιητῇ ῥαθάμιγγι, καὶ ὡς κταμένων ἀπὸ φωτῶν
βάψας ἰσοτύπῳ δεδολωμένα δάκτυλα μίλτῳ
χεῖρας ἐρευθιόωντι νόθῳ φοινίσσετο λύθρῳ·

70
Difficile provare quanto ricordato da GIGLI PICCARDI 2003, 574, a proposito di
eventuali riflessi tra questa Semele, influenzata al dionisismo dal bambino che cresce
in lei, e la Semele di Eschilo.
71
Cf. GIGLI PICCARDI 2003, 519.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 21

Ma la Gelosia, spiando il letto di Zeus, signore del cielo


e la gestazione di Semele da cui nascerà un dio,
s’ingelosisce di Bacco, anche se è ancora nel ventre materno e incapace d’amore,
tutta presa dal sentimento che ispira, è colpita dal suo stesso veleno72.
Allora nella sua mente disonesta ordisce un piano sleale
ed in questa farsa assume l’aspetto di un falso Ares
imitandone anche le armi; per far credere a striature di sangue
colora73 la superficie dello scudo di falsi schizzi
con fiore velenoso74; poi bagna le sue dita di sosia nel minio75
simile al sangue conseguente ad una strage,
così che le mani rosseggiano come per un falso spargimento di sangue.76

Il discorso con cui Phtonos aizza Era è infarcito di allusioni mitologiche


che ricordano i tradimenti di Giove. La dea decide di andare da Apate77,
per chiedergli il cinto ingannatore che la aiuterà nella vendetta; lo incontra
a Creta, patria dell’inganno per antonomasia. Avuta la cintura entra
nell’alcova di Zeus e Semele, nel palazzo di Cadmo, e recita una parte da
grande attrice restituendoci, forse, il senso del suo colloquio con il Coro sul
valore del matrimonio e del pudore (8, 180‑215):

72
Per l’immagine del veleno che infonde la Gelosia cf. A. Ag. 834.
73
Tutto il passo ci porta nel camerino di un attore pronto a truccarsi. Dopo aver
assunto l’aspetto di un falso Ares, Phtonos passa a truccare le sue armi con finte
striature di sangue e colora lo scudo con schizzi da lui disegnati.
74
«Il fiore che produce un liquido rosso simile al sangue ricorda “i fiori tessali” con
cui in 39, 40 Dioniso secondo Deriade ha provocato la metamorfosi dell’Idaspe in vino;
su questo episodio e il possibile riecheggiamento del mito egiziano antico che vede
come protagonisti Ra e Hathor vd. Gigli Piccardi, «Prometheus» 24, 1998, 80 sg.» GIGLI
PICCARDI 2003, 577.
75
«Il minio veniva usato in tal senso (cf. schol. Ad Ar. Av. 230, II) ed era altresì
considerato simbolo magico del sangue (PMG VII 223 e XII 98; per un’analisi
antropologica di questa simbologia anche in ambito dionisiaco vd. G. Casadio 1999,
62 sgg.). Anche i Sileni in D. 34, 141‑4 si servono dello stesso stratagemma per
terrorizzare il nemico» GIGLI PICCARDI 2003, 577.
76
Le traduzioni del libro ottavo delle Dionisiache di Nonno di Panopoli sono di
GIGLI PICCARDI 2003.
77
Apate è l’Inganno per eccellenza che compare solo qui nel poema. È chiaro che
Nonno vuole ricordare il canto quindicesimo dell’Iliade. Richiami come questi erano
frequenti fin dalla tradizione ellenistica, come abbiamo già accennato: basta pensare a
quanto leggiamo nelle Metamorfosi di Ovidio, filtro di tutti questi procedimenti poetici.
Minerva va dall’Invidia (Ov. Met. 2, 760 ss.), Giunone scende nell’Ade a trovare
Tisifone (Ov. Met. 4, 432 ss.), Cerere manda Oreade da Fame (Ov. Met. 8, 788 ss.).
22 Francesco Carpanelli

εἰς θάλαμον Σεμέλης ἀπατήλιος ἤλυθεν Ἥρη, 180


ζήλῳ φυσιόωσα· μελιγλώσσῳ δὲ γεραιῇ
ἰσοφανὴς φιλόπαιδι δέμας μορφοῦτο τιθήνῃ
παιδοκόμῳ, τὴν αὐτὸς ἀνηέξησεν Ἀγήνωρ,
καί οἱ κλῆρον ἔδωκε, καὶ ὤπασεν ἀνδρὶ γυναῖκα
οἷα πατήρ· κομιδῆς δὲ χάριν τίνουσα καὶ αὐτὴ 185
νήπιον εἰσέτι Κάδμον ἑῷ μαιώσατο μαζῷ
καὶ βρέφος Εὐρώπην φιλίῳ πήχυνεν ἀγοστῷ.
τῇ δέμας ἶσον ἔχουσα διέστιχεν ἐς δόμον Ἥρη
χωομένη Σεμέλῃ καὶ Κύπριδι καὶ Διονύσῳ
μή πω φέγγος ἰδόντι, καὶ ἀρτιγάμῳ παρὰ παστῷ 190
τοῖχον ἐς ἀντικέλευθον ἑὴν ἔκλινεν ὀπωπὴν
ὄμμα παραστρέψασα, Διὸς μὴ λέκτρα νοήσῃ.
τὴν μὲν Πεισιάνασσα καθίζανεν ὑψόθι δίφρου
ἀμφίπολος Σεμέλης, Τυρίης βλάστημα γενέθλης,
Θελξινόη δὲ τάπητας ἐνήρμοσεν ἤνοπι δίφρῳ. 195
ἔνθα θεὰ σχεδὸν ἧστο δολοπλόκος· εὗρε δὲ κούρην
βριθομένην ὠδῖνι πεπαινομένου τοκετοῖο·
καὶ τόκον, οὐ ψαύοντα τελεσσιγόνοιο Σελήνης,
γαστρὸς ἀσημάντου χλοερὴ κήρυξε παρειὴ
καὶ χλόος †ἦν ἐπεὼν μελέων πάρος78· ἑζομένης δὲ 200
Ἥρης ψευδομένης δολόεν δέμας79 ἔτρεμε παλμῷ
ἀντιτύπῳ, καὶ νέρθεν ἐπὶ χθόνα κάμπτετο νεύων
ὤμοις θλιβομένοισι γέρων κυρτούμενος αὐχήν.
καὶ πρόφασιν μόγις εὗρεν· ἐπεστενάχιζε δὲ μύθῳ
δάκρυον εὐποίητον ἀποψήσασα προσώπου, 205
καὶ δολόεν κατέλεξεν ἔπος φρενοθελγέι φωνῇ·
‑ εἰπέ, πόθεν, βασίλεια, τεαὶ χλοάουσι παρειαί;
πῇ σέο κάλλος ἐκεῖνο; τίς εἴδεϊ σεῖο μεγαίρων
πορφυρέους σπινθῆρας ἀπημάλδυνε προσώπου;
καὶ ῥόδα τίς μετάμειψεν ἐς ὠκυμόρους ἀνεμώνας; 210
καὶ σὺ κατηφιόωσα τί τήκεαι; ἦ ῥα καὶ αὐτὴ
ἔκλυες αἴσχεα κεῖνα, τά περ βοόωσι πολῖται;
ἐρρέτω ἀρχεκάκων ὀλοὸν στόμα θηλυτεράων.
εἰπὲ δέ μοι, μὴ κρύπτε τεῆς συλήτορα μίτρης·
τίς σε θεῶν ἐμίηνε; τίς ἥρπασε σεῖο κορείην; 215

78
Per le problematiche testuali del passo cf. CHUVIN 1992, 192‑193.
79
I tre termini riferiti a Era che finge un ruolo non suo, con un corpo che è finto,
all’apparenza, come quello di un attore, insistono su un’immagine che sembra davvero
voler rimandare a un testo teatrale in cui Era era truccata da vecchia. Al v. 182 Nonno
aveva già detto che il suo «corpo» (δέμας) appariva «come quello di una vecchia
melliflua. (Μελιγλώσσῳ δὲ γεραιῇ)» (v. 181); l’insistenza è indizio di un rapporto con
un testo conosciuto e quindi probabilmente un dramma.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 23

Era s’introduce furtivamente nella camera di Semele,


ansante di Gelosia. Apparendo come una vecchia melliflua,
prende l’aspetto della nutrice affettuosa
e premurosa, che lo stesso Agenore aveva allevato,
donandole un pezzo di terra e dandole poi marito80,
proprio come un padre; in cambio della sua sollecitudine,
l’aveva ripagato nutrendo al suo seno Cadmo appena nato
e tenendo fra le braccia affettuose la piccola Europa.
Con un aspetto simile al suo Era si introduce nel palazzo,
in preda alla rabbia contro Semele, Cipride e Dioniso,
che ancora non aveva visto la luce; giunta alla camera, teatro recente d’amore,
gira il volto verso la parete opposta,
distogliendo lo sguardo per non vedere il letto di Zeus.
Allora Peisianassa, ancella di Semele, tiria di nascita,
la fa accomodare su un seggio splendente,
mentre Thelxinoe vi dispone sopra dei tappeti.
Ed eccola là seduta vicino a Semele, la dea, ad intrecciare inganni;
trova la fanciulla appesantita per il bambino già maturo per il parto;
la gravidanza che non ha ancora compiuto la Luna della nascita
è provata dal pallore delle guance più che dalla grossezza del ventre,
un pallore diffuso sulle membra, prima rosee. Mentre Era siede
sotto mentite spoglie, il suo corpo d’attrice sussulta
d’un tremito artefatto; piega giù verso terra le spalle
come fosse oppressa, curvando il collo tentennante di vecchia.
Alla fine trova un pretesto e parlando piange,
asciugandosi una lacrima che scende al momento giusto sul volto;
con voce suadente dà il via all’inganno con queste parole:
«Dimmi, principessa, come mai le tue guance sono così pallide? Dove è finita
la tua bellezza d’un tempo? Chi, invidioso del tuo aspetto,
ha fatto appassire i purpurei bagliori del tuo volto?
Chi ha cambiato la rosa in effimeri anemoni?
Perché ti consumi con codesto aspetto sofferente? Forse anche tu
hai udito di quella vergogna di cui si parla in città?
Alla malora la bocca funesta delle donne, da cui si originano tanti mali!81
Parlami, non nascondermi chi ha oltraggiato la tua cintura,
è uno degli dei che ti ha insozzato? Chi ha rubato la tua verginità?»

80
Cf. Hom. Od. 14, in cui Eumeo ricorda cosa il padrone abbia fatto per lui.
81
Il tema delle chiacchere fatte dalla gente sulle ragazze giovani risale a Omero (a
proposito di Nausicaa, Od. 6, 273‑285) ma qui sembra più vicino a quanto scrive
Apollonio Rodio (3, 771‑801) nel monologo in cui Medea parla del suo amore per
Giasone. Cf. Chuvin 1992, 194.
24 Francesco Carpanelli

2.2.2. Arte e scena

Per quanto riguarda la Semele ci resta un cratere che per il soggetto, ma


non per riferimenti specifici al teatro, può vagamente rimandarci a una
scena del dramma, meglio forse al racconto della nascita di Dioniso: Semele
è nuda, due donne la sostengono; Ermes e una ninfa, alla presenza di altre
tre donne, accorrono verso Dioniso, seduto su un prato. La scena è in realtà
una variante della versione più diffusa cioè la morte di Semele, il parto
prematuro, l’intervento di Zeus che cuce il feto nella sua coscia. Anche se
non abbiamo testi di sostegno è interessante registrare questa variante
soprattutto perchè sul finale del dramma siamo completamente all’oscuro.82

2.2.3. Ipotesi per la scena

La tetralogia eschilea dedicata a Dioniso comprendeva dunque la saga


familiare della famiglia umana del dio, dalla sua nascita fino alla punizione
del cugino Penteo (la cui vicenda ci è nota dalle Baccanti di Euripide), con
un finale, il dramma satiresco, dedicato alle nutrici del dio, le balie che
avevano fatto le veci della madre.
Come è emerso nella parte dedicata al testo l’unica traccia di un certo
valore è quella della Semele (grazie al papiro ormai da molti ad essa
attribuito); il resto sono solo dei titoli. La perdita di questa tragedia è per
noi una grave lacuna perché la presenza di Era sulla scena, camuffata da
sacerdotessa, lei moglie e sorella del sommo degli dei, avrebbe potuto farci
conoscere meglio alcuni aspetti della religiosità eschilea nel rapporto, non
facile, tra uomini e dei; al pari possiamo dire che la rappresentazione
drammatica di Era e il suo dialogo con la sventurata principessa doveva
giocare su quelle immagini che, lo abbiamo visto, sono parzialmente fruibili
in Ovidio e in Nonno di Panopoli; il secondo, in modo particolare, ci dà
una visione di insieme sulla storia d’amore di Zeus e di Semele che

82
«Ap. 237. Tampa, Tampa Bay Museum of Art, 87. 36 (già Basilea, mercato anti‑
quario). Cratere a volute. A. Collo. Amazzonomachia. Corpo. R. s.: satiro e due donne
in movimento verso d.; due donne in movimento verso d.; due donne in atto di
sostenere una donna (Semele) nuda, seduta su un mantello; in alto, nimbo radiato,
fulmine e astri; donna e giovane satiro in fuga verso d. R. i.: tre donne (ninfe di Nysa),
ammantate e stanti; Ermes e donna (ninfa) che accorrono verso il piccolo Dioniso,
seduto su un prato fiorito sotto un tralcio di grappoli; papposileno in movimento verso
sin. […]».
A. Corpo. Eschilo, Semele o Le portatrici d’acqua (Kosatz‑ Deissmann 1994c). Pittore
di Arpi. 315‑305» TODISCO 2003, 490.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 25

potrebbe essere portata sulla scena come libera reinterpretazione di quella


che per noi rimane comunque una favola. Dioniso punisce il casato da cui
proviene perché non è stato accettato come dio; lo recuperiamo da le
Baccanti che continuano la Semele almeno nel Prologo recitato da Dioniso,
soprattutto nei versi in cui ricorda e celebra la madre. Le rovine fumanti
della casa di Semele, luogo di culto per il padre Cadmo e per il di lui nipote,
riprendono e sostituiscono allegoricamente ciò che di Eschilo abbiamo
perduto. Euripide deve aver dato un gande valore agli effetti della Semele
e ha scelto di cimentarsi con la parte che aveva più attinenza con il difficile
rapporto etico politico tra una comunità, Tebe, e un culto religioso come
quello dionisiaco, aggregante ma totalizzante, in consonanza con i
cambiamenti della società ateniese nell’ultimo periodo della guerra del
Peloponneso. È indubbio che, se si vuole rimanere fedeli al testo tragico, al
di là delle suggestioni poetiche successive, la presenza di Era sulla scena,
le sue melliflue parole di dea che usa il sentimento religioso per ingannare
Semele sono l’unica immagine del dramma che possiamo salvare.
Per quanto riguarda le Xantriae è impossibile qualsiasi percorso di una
minima credibilità filologico‑letteraria; le suggestioni, ovviamente ipote‑
tiche, possono riprendere in alternativa:
1) i versi delle Baccanti di Euripide (677‑774) dedicati alla vita delle
menadi, soprattutto negli aspetti misterici e in riferimento ai versi recitati
da Lyssa, potrebbero contenere tracce delle Xantriae83;
2) la storia legata alle Miniadi, con quei versi che ho citato a proposito
di un’allusività ovidiana nei confronti di Eschilo, permette solo di
recuperare un’episodio del ciclo dionisiaco di cui non ci rimangono altre
tracce drammatiche.

3. «Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei»84 (la Lycurgheia)

3.1. Il testo

La prima tragedia della tetralogia dedicata al re Licurgo, gli Edoni, era

83
«Il problema è se la furia bacchica sia stata determinata dal comportamento ostile
dei pastori e in particolare dall’atto aggressivo del Messaggero. Chi dà a questa
domanda una risposta affermativa include la tragedia di Euripide nei parametri
concettuali eschilei, in quanto orientati verso la messa in atto della sequenza col‑
pa\punizione» Di Benedetto 2004, 125.
84
È la traduzione dei vv. 134‑135 delle Donne alle Tesmoforie di Aristofane (tradu‑
zione di Del Corno, in PRATO 2001): «Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei, come
Eschilo nel dramma di Licurgo (καί σ᾿, ὦ νεανίσχ᾿, ἥτις εἶ, κατ᾿ Αἰσχύλον ἐκ τῆς
Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι)».
26 Francesco Carpanelli

stata un grande successo85, perché per la prima volta86, al posto del solito
dio barbuto della tradizione, appariva sulla scena un’androgina figura
vestita con la tunichetta gialla messa sopra il lungo chitone delle donne87;
il titolo che ho dato al gruppo di drammi dedicato al rapporto impossibile
tra il re Licurgo e il dio Dioniso nasce da questa immagine.
Alcuni versi anapestici, cantati dal coro di Traci (anziani sudditi di
Licurgo?), che annunciavano l’arrivo di Dioniso e dei suoi seguaci sono i
primi a noi rimasti. La descrizione di quanto avveniva per le strade della
città doveva essere particolarmente accurata88, come leggiamo in TrGF III,
5789 in cui sono citati gli strumenti e i suoni da essi prodotti, nonché la
paura o la follia da essi generati; dopo una lacuna sono salve alcune parti
che descrivono, nei particolari, l’atmosfera creatasi all’arrivo del corteo
dionisiaco:

σεμνὰ Κοτυτοῦς ὄργι᾽ ἔχοντες

praticando i sacri riti iniziatici di Cotito90

***

ὁ μὲν ἐν χερσὶν
βόμβυκας ἔχων, τόρνου κάματον,
δακτυλόθικτον91 πίμπλησι μέλος, 4
μανίας ἐπαγωγὸν ὁμοκλάν,
ὁ δὲ χαλκοδέτοις κοτύλαις ὀτοβεῖ

Un uomo tiene nelle mani


dei flauti, foggiati al tornio,

85
Lo dice un epicureo del primo sec. a.C., Demetrio Lacone (cf. TrGF III, T69) e le
parodie della commedia lo confermano (cf. Cratin. fr. 40 K. A. e Ar. Av. 276, Ra. 47, frr.
181, 307 K. A.).
86
Ricordiamo comunque che, per quanto riguarda il soggetto, non è escluso che
Eschilo seguisse le orme di Polifrasmone che aveva portato sulla scena una Lycurgheia
nel 467 a.C. La data di composizione può essere fissata tra il 470 e il 460 a.C. cf. DI
MARCO 1993, 146‑148.
87
Cf. PRATO 2001, 179‑180.
98
cf. XANTHAKIS‑KARAMANOS 2005.
89
Cf. Sommerstein 57.
90
Cotito è una divinità tracia i cui riti non dovevano essere particolarmente diversi
da quelli dionisiaci, ed erano forse menzionati nella parte che non leggiamo. Lo dice
Strabone stesso nel riportare la citazione (10, 16 : « Presso i Traci i culti orgiastici
corrispondono a quelli di Cotito e di Bendide».
91
Θικτον Jacobs: δεικτον codd.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 27

e suona una melodia frutto delle sue dita,


incitamento che porta alla follia,
mentre un altro fa strepitare cembali di bronzo

***

ψαλμὸς δ᾿ ἀλαλάζει·
ταυρόφθογγοι δ᾿ ὑπομυκῶνταί
ποθεν ἐξ ἀφανοῦς φοβεροὶ μῖμοι,
ἠχὼ τυπάνου δ᾿92, ὥσθ᾿ ὑπογαίου
βροντῆς, φέρεται βαρυταρβής

…e il suono della cetra risuona:


terrificanti imitatori che muggiscono come tori
rispondono da un luogo indefinito,
e il rimbombo di un timpano, quasi fosse un sotterraneo
suono, si diffonde creando forte spavento93.
(TrGF III, 57)

Segue uno scontro con Licurgo che, come Penteo nelle Baccanti cerca di
ridicolizzare l’aspetto del dio silenzioso al suo cospetto. I pochi versi che
abbiamo anticipano quanto leggiamo in Euripide94:

ὅστις χιτῶνας βασσάρας τε Λυδίας


ἔχει ποδήρεις

92
ἠχὼ τυπάνου δ᾿ F. W. Schmidt.
93
Si è dato scarso rilievo, in passato, all’importanza che hanno queti suoni indefiniti
e indefinibili, soprattutto perché non sappiamo quanto essi fossero realmente ricreati
(nel retroscena?) per gli ascoltatori; un recentissimo studio di Sahara Nooter (NOOTER
2017, 78‑79) si sofferma proprio su questo frammento che commenta così: «Here we
can perceive the fearsome qualities of musical sounds that arise not from a martial
setting, as in Persians, but from orgiastic rites. Much time is spent in this passage
detailing the unsettling sounds that announce the presence of Dionysus. In a play that
tells of Dionysus’ destruction of Lycurgus, these sounds likely connoted the menace
of the divine world. Aeschylus is not alone in characterizing Bacchic sounds as fearful,
nor can we know the dramatic use to which Aeschylus puts this description and how
the dramatic use to which Aeschylus puts this description and how it differs from, for
example, Euripides’ description of bacchants’ sound of worship in his later play on
the destructive power of Dionysus. But what we can see is how swiftly and explicity
Aeschylus links the sounds of Bacchic worship to inhuman voices, unseen origins, and
the fear these sites of ignorance inspire in listeners. In Aeschylean tragedy, these
sounds and voices draw the audience into a recognition of mortal fragility, whether
by showing the vulnerabity heard in a utterance or felt in the act of hearing».
94
cf. Ba. 576‑603.
28 Francesco Carpanelli

Uno che porta chitoni e pelli di volpe lidie lunghe fino ai piedi95
(TrGF III, 59)

***

τίς ποτ᾿ ἔσθ᾿ ὁ μουσόμαντις † ἄλλος


ἀβροβάτης96
ὃν σθένει †

Chi è mai questo profeta canterino,…un altro che cammina come un


effeminato97
(TrGF III, 60)

***

ΛΥΚΟΥΡΓΟΣ
ποδαπὸς ὁ γύννις; τίς πάτρα; τίς ἡ στολή;

LICURGO
Di quale paese è questo effeminato, qual è il suo paese, che veste
indossa?98
(TrGF III, 61)

***

95
Probabilmente una considerazione di Licurgo che descrive Dioniso.
96
ἀβροβάτης Hermann, Friebel.
97
Il fatto che qui si faccia riferimento ad un secondo effeminato del gruppo di
iniziati, ha fatto pensare ad Orfeo anche perché, sempre seguendo questa linea, il
secondo dramma, Le Bassaridi, sarebbe incentrato sulla figura del vate‑poeta. Cf. DI
MARCO 1993.
98
Ar. Thesm. 136.
Nel testo di Aristofane ci sono nove versi (136‑145) che dovrebbero venire dalla
Lykurgheia, come attesta lo scoliaste al v. 135: Mnesiloco dice ad Agatone che desidera
interrogarlo usando le stesse parole usate da Eschilo nella Lycurgheia. È impossibile
distinguere (come molti cercano di fare, cf. e.g. SOMMERSTEIN 2008, 67, n. 1) le aggiunte
non eschilee in quanto i riferimenti ad Agatone, adatti ad un ambito comico, non si
adattano assolutamente, per la volgarità, ad un contesto tragico: ΚΗΔΕΣΤΗΣ: Καί σ’,
ὦ νεανίσκ’, εἴ τις εἶ, κατ’ Αἰσχύλον / ἐκ τῆς Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι. /
Ποδαπὸς ὁ γύννις; Τίς πάτρα; Τίς ἡ στολή; / Τίς ἡ τάραξις τοῦ βίου; Τί βάρβιτος /
λαλεῖ κροκωτῷ; Τί δὲ δορὰ κεκρυφάλῳ; / Τί λήκυθος καὶ στρόφιον; Ὡς οὐ ξύμφορα.
/ Τίς δαὶ κατόπτρου καὶ ξίφους κοινωνία; / Σύ τ’ αὐτός, ὦ παῖ, πότερον ὡς ἀνὴρ
τρέφει; / Καὶ ποῦ πέος; Ποῦ χλαῖνα; Ποῦ Λακωνικαί; / Ἀλλ’ ὡς γυνὴ δῆτ’; Εἶτα ποῦ
τὰ τιτθία; / Τί φῄς; Τί σιγᾷς; Ἀλλὰ δῆτ’ ἐκ τοῦ μέλους / ζητῶ σ’, ἐπειδή γ’ αὐτὸς οὐ
βούλει φράσαι; («PARENTE: Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei, come
Eschilo nel dramma di Licurgo. Da dove viene l’uomo femmina? Qual è la sua patria?
Cos’è questo disordine della vita? Cos’ha da dire la cetra alla gonna? E la lira alla
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 29

μακροσκελὴς μέν ἆρα μὴ χλούνης τις ἦν;

Ha gambe lunghe davvero – è possibile che fosse un predone?99 (TrGF


III, 62)

L’epifania di Dioniso, probabilmente dopo il suo arresto nel palazzo, ed


una conseguente magica liberazione:

ἐνθουσιᾷ δὴ δῶμα, βακχεύει στέγη

La casa è davvero preda di invasamento divino, l’edificio è pervaso


dal furore bacchico100
(TrGF III, *58)

Se il plot prevedeva che, alla fine della trilogia drammatica, Licurgo


tornasse in sé dopo aver infierito sul corpo del figlio, le analogie con la
struttura delle Baccanti di Euripide (Agave non riconosce Penteo e gli
mozza la testa come se fosse stato una bestia feroce) sono certe. Le
testimonianze rivelano quanto meno il successo di questo tema anche se è
per noi impossibile, purtroppo, conoscere il finale degli Edoni (come della
trilogia) che poteva trattare l’imprigionamento di Licurgo e la sua morte101.
Nel secondo dramma della tetralogia, le Bassaridi, i frammenti sono
davvero di scarso aiuto ma un’integrazione di Kannicht102, che unisce TrGF
III, 23 con TrGF II, 144, ci fornisce una delle prime attestazioni letterarie
della trasformazione in toro103 di Dioniso come elemento rituale104:

cuffia? E l’olio da atleta e la fascia del seno? Che stonatura! E poi, lo specchio e la spada
cos’hanno in comune? E tu, figliolo, sei proprio un uomo? Dov’è l’uccello? Dov’è il
mantello? E le scarpe alla spartana? Sei una donna, dunque? E allora, dove sono le
tette? Cosa dici? Perché taci? Devo capire chi sei dal tuo canto, poiché tu stesso non
vuoi dirlo?» Ar. Thesm. 134‑145. Traduzione di Del Corno in PRATO 2001).
99
Un’altra descrizione di Dioniso da parte di Licurgo.
100
La liberazione di Dioniso è accompagnata dal suo manifestarsi, come precisa
nella sua citazione Longino (De subl. 15, 6): «In Eschilo la reggia di Licurgo quando il
dio si manifesta è incredibilmente scossa (παρὰ…Αἰσχύλω παραδόξως τὰ τοῦ
Λυκούργου βασίλεια κατὰ την ἐπιφάνειαν τοῦ Διονύσου θεοφορεῖται)»
101
Cf. WEST 1990, 64‑70.
102
KANNICHT 1957; cf. TrGF III, p. 139.
103
«The double nature of Dionysus as god and animal and his thiasos as human
beings and animals in Aeschylus’ ‘Dionysiac’ plays and Euripides’ Bacchae show that
Dionysiac religion revolves around the peculiar god, at once superman and ‘sub‑man’,
beast and stranger» XANTHAKI‑KARAMANOU 2012, 335. Cf. E. Ba. 100; 920‑922; 1017‑
1018; 1159.
104
Cf. ROSENMEYER 1983, 376.
30 Francesco Carpanelli

ὁ ταῦρος δ᾿ ἔοικεν κυρίξειν τίν᾿ ἀκτάν,


τίν᾿ ὕλαν δράμω; ποῖ πορευθῶ;
……
φθάσαντος δ᾿ ἐπ᾿ ἔργοις προπηδήσεται νιν.

sembra che il toro stia per attaccarmi con le corna; in quali vetta,
in quale riva, in quale selva potrò fuggire? Dove posso andare?

in fretta balzerà su di lui per portare a termine l’azione.

È la descrizione di Dioniso, trasformatosi in toro mentre attacca un suo


nemico, ma non possiamo sapere chi sia in realtà quest’ultimo; il solo
appiglio che abbiamo è ciò che leggiamo nei Catasterismi (24)105, attribuiti
ora a Eratostene di Cirene, in cui si riporta che «come dice Eschilo106» Orfeo
si allontanò dal culto dionisiaco per passare a quello di Apollo Elio, dopo
la sua catabasi negli Inferi, in seguito alla morte di Euridice (che non riuscì
a riportare sulla terra). In suo onore Orfeo sarebbe salito sul monte
Pangeo107 e le Bassaridi108, sacerdotesse di Dioniso, lo avrebbero punito
facendolo in pezzi sparsi poi in diverse direzioni109; le Muse, allora, dopo

105
Riporto il testo elaborato da WEST 1990, 34; si tratta di un «working text» nato
dal confronto tra il codice Vat. Gr. 1087 (T) e la vulgata: …διὰ δὲ τὴν γυναῖκα εἰς
῞Αιδου καταβὰς καὶ ἰδὼν τὰ ἐκεῖ οἷα ἧν τὸν μὲν Διόνυσον οὐκέτι ἐτίμα, ὑφ᾿ οὗ ἧν
δεδοξασμένος, τὸν δὲ ῞Ηλιον μέγιστον τῶν θεῶν ἐνόμισεν, ὃν καὶ ᾿Απόλλωνα
προσηγόρευσεν. ἐπεγειρόμενός τε τὴν νύκτα ἓωθεν κατὰ τὸ ὄρος τὸ καλούμενον
Πάγγαιον προσέμενε τὰς ἀνατολάς, ἵνα ἵδῃ τὸν ῞Ηλιον πρῶτος. ὅθεν ὁ Διόνυσος
ὀργισθεὶς αὐτῷ ἔπεμψε τὰς Βασσάρας, ὥς φησιν Αἰσχύλος ὁ τῶν τραγῳδιῶν
ποιητής, αἳ διέσπασαν αὐτὸν καὶ τὰ μέλη ἔππιψαν χωρὶς ἔκαστον … («Egli (scil.
Orfeo) dopo escere sceso nell’Ade per sua moglie ed aver visto qual era la situazione
laggiù, non onorava più Dioniso, dal quale egli era stato reso famoso, ma riteneva che
il più grande degli dei fosse Elios, cui si rivolgeva anche con il nome di Apollo. E
svegliandosi, di notte, all’alba saliva sul monte chiamato Pangeo e e si poneva in
direzione di oriente per essere il primo a vedere il sole. Allora Dioniso, adiratosi, inviò
contro di lui le Bassaridi, come dice il tragediografo Eschilo. Queste lo fecero a pezzi
e dispersero le sue membra in parti differenti»).
106
Per la discussione concernente il valore che si debba dare al verbo greco «dice»,
cioè se si riferisca realmente al contenuto della tragedia eschilea cf. DI BENEDETTO 2004,
108‑110.
107
Leggiamo il nome del monte Pangeo anche in uno dei frammenti delle Bassaridi
(TrGF III, 23a). È lo stesso monte sul quale sarebbe morto anche Licurgo.
108
Dalla parola anaria βασσάρα, «volpe», gli scoliasti pensano che il nome sia da
leggere in riferimento alle pelli di volpe con cui queste menadi si agghindavano.
109
Fondamentale per questa ipotesi l’intervento di DI MARCO 1993. Cf. anche
MARCACCINI 1995 e SEAFORD 2005.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 31

aver ricomposto il cadavere, lo avrebbero sepolto sui monti Libetri. West110


ipotizza dunque:
‑ un monologo di Orfeo, di ritorno dagli inferi dove aveva avuto delle
rivelazioni sull’Ade;
‑ una parodo cantata dal Coro composto dalle Bassaridi;
‑ uno stasimo sulla storia del musicista mitico Tamiri111, cui seguiva il
racconto di come il dio avesse perseguitato e reso folle Orfeo112.
Si tratterebbe, in questo caso, di una novità molto forte nella struttura
di una trilogia, una sorta di ‘romanzo di formazione’ realizzato in forma
teatrale, a cesura della storia principale; più prudente, forse, pensare che
Orfeo e Tamiri, puniti brutalmente, rappresentino due inserti nel cammino
di redenzione di Licurgo. È, dunque, impossibile, a mio parere, affermare
che la testimonianza di Eratostene si riferisca ad un’opera completamente
dedicata a Orfeo e al suo destino, una volta abiurato il credo dionisiaco, ed
è semmai più semplice pensare ad inserti corali che dovevano servire da
ammonimento a Licurgo in attesa della sua redenzione. Ciò che a noi

110
WEST 1990, 64‑70.
111
RAMELLI 2009, test. 84, 229‑231: «Scolii V ad Euripide, “Reso”, 916. 922 (ed. H. Rabe,
“Rheinisches Museum” 63, 1908, 420‑421: “[…] Presso Eschilo, invece, i fatti di Tamiri
e delle Muse si trovano narrati in modo un po’ diverso. Ebbene, Asclepiade, nelle Trame
delle tragedie, riguardo a queste storie dice così: “Dicono che Tamiri, quanto all’aspetto,
suscitasse meraviglia; degli occhi, ne aveva uno bianco, il destro, e l’altro, il sinistro,
invece nero e, quanto a competenza nel canto, si distingueva fra tutti quanti gli altri.
Ebbene, quando le Muse giunsero in Tracia, Tamiri fece la proposta, rispetto a loro, di
abitare insieme con tutte, dicendo ai Traci ripetutamente che era legittimo che un uomo
stesse insieme con molte. Esse, allora, lo invitarono, su questo, a svolgere una gara di
canto, con il seguente patto: qualora a vincere fossero state loro, egli avrebbe fatto
quello che esse avessero voluto; qualora invece fosse stato lui a vincere, avrebbe potuto
prendersi in moglie tutte quante egli avesse voluto. Si trovarono d’accordo su questi
patti. E vinsero le Muse, e gli cavarono gli occhi. Omero, invece, dice che i fatti relativi
a Tamiri accaddero presso Dorio: …e Steleo <ed Elo> e Dorio, e dove le Muse si
scontrarono con il tracio Tamiri e lo fecero desistere dal canto. “Pangeo con strumenti”]
†…†. Dicono che vicino al Pangeo le Muse abbiano gareggiato con Tamiri. Omero dice
che fu presso Dorio. “dalle auree zolle”] ha chiamato così il Pangeo (v. 921), in quanto
lì ci sono miniere d’oro. Eschilo, per parte sua, nelle Bassaridi, afferma che vi siano
miniere d’argento. Similmente, anche lo stesso Euripide, un pochino sotto, dice (v. 970):
nascosto in questi antri di una terra che sotto l’argento…ed Eschilo dice così:…del
Pangeo, infatti, illuminò le altezze ricche d’argento, la luce acuta di un lampo». Lo
scoliaste unirebbe dunque il nome di Tamiri (poeta che si vantava di essere superiore
alle Muse e per questo era stato da quelle privato di vista, memoria e voce) con la
montagna del Pangeo, citando anche le Bassaridi di Eschilo.
112
Cf. TrGF III, 23.
32 Francesco Carpanelli

rimane è soprattutto un indizio sul pensiero che guida i tre drammi: il


contatto di Eschilo, probabilmente fin dal suo primo soggiorno siciliano,
con il pitagorismo, e le relative convergenze tra quest’ultimo e l’orfismo,
sono ben attestate nel sesto sec. a.C. La trilogia dunque non può che essere
dettata dalla ricerca di una conciliazione tra due sensibilità diverse
dell’orfismo113, una dionisiaca ed una pitagorica114. Dal punto di vista
testuale un’altra fondamentale considerazione da fare è che non rimane
traccia dell’assassinio del figlio Driante da parte di Licurgo impazzito, ma
neppure della morte del re stesso.
Del terzo dramma, i Neaniskoi115, non abbiamo alcun frammento che
possa indirizzarci sul plot e le ipotesi avanzate riguardano l’eventualità che
dopo l’esempio di Orfeo punito come seguace di Apollo‑Elios si proponesse
la riconciliazione tra i due culti seguiti in Tracia116 cui abbiamo accennato;
il titolo sarebbe quindi da vedere in relazione ai giovani Edoni, i nuovi
sacerdoti di questa sintesi religiosa. È evidente che questa teoria vive in
consonanza con la precedente sulle Bassaridi: un’ipotesi che sottende una
visione totalmente cultuale e filosofica della trilogia. È certo che questa sia
un’interpretazione credibile alla luce di quei pochi frammenti che abbiamo
in cui gli elementi di un credo misterioso, violento, ma soprattutto legato
alla figura di Dioniso vindice, non sono assolutamente da sottovalutare. Se
Licurgo, lo attesta la ceramografia117, uccide il figlio, forse anche la moglie,
e viene poi punito, come riportano Sofocle e Apollodoro, per ciò che ha
commesso, sotto l’effetto dell’invasamento dionisiaco, nel secondo dramma
della trilogia la presenza delle menadi Bassaridi e il canto su Orfeo fanno
pensare che proprio qui si nasconda un plot legato all’immotivato assassinio
del giovane Driante (alla presenza appunto del Coro delle baccanti). La fine
del re trascinato in catene nella prigione sotterranea (l’Ade di Orfeo),
ipotizzabile nel terzo dramma, è un modo per indicare anche il cammino
di chi è destinato a tornare alla luce; un Coro di Giovinetti, edoni convertiti

113
Cf. EDMONDS III 2013.
114
cf. SEAFORD 2005, 606 e SEAFORD 2012, 281‑292.
115
«Ancor meno si sa del terzo dramma; i Fanciulli (Neanískoi) del titolo ovviamente
costituivano il coro e presumibilmente «rappresentano il prototipo di un’organiz
zazione efebica» (West): «neanískoi indica specificamente gli iniziati, superate le prove
che trasformano un essere umano da bambino a uomo; sospetto che i Neanískoi non
fossero altro che gli Edoni dopo la conversione». È possibile che la trilogia si
concludesse con la conciliazione tra Dioniso e Apollo‑Helios e con lo stabilirsi del culto
solare in Tracia, in conformità a un dato culturale ben noto anche a Eschilo» AVEZZÙ
2003, 80. Cf. JOUAN 1992, 75‑76.
116
Cf. WEST 1990, 47 e SEAFORD 2005, 606.
117
Cf. ultra la breve rassegna sulle testimonianze della ceramografia.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 33

al nuovo credo, accompagnerebbe le riflessioni di un uomo sconfitto ma


destinato a risalire dalle tenebre, pronto ormai a riconoscere il dioni‑
sismo.118
Il dramma satiresco, Licurgo119 integrava, forse, l’immagine del re
tirannico che aveva cercato di addomesticare anche i satiri120: Licurgo
sarebbe qui presentato scherzosamente per essere riassorbito in ambito
dionisiaco; nel frammento che abbiamo il sovrano sembra ormai un
ubriacone trace che, abbandonata la birra, bevanda in uso nella sua terra,
si è convertito al vino121 (TrGF III, 124):

κἀκ τῶνδ᾿ ἔπινε βρῦτον ἰσχναίνων χρόνῳ


κἀσεμνοκόμπει τοῦτ᾿ ἐν ἀνδρείᾳ στέγῃ

e dopo di ciò beveva del mosto che aveva fatto concentrare col
tempo e faceva vanto di questo fatto nella stanza degli uomini.122

In un simile contesto escludo che si possa pensare ad un Licurgo


resuscitato, anche se per burla, e in più ubriaco.

118
Una tesi questa riassunta così da JOUAN 1992, 75: «Les Néaniskoi devaient tirer
leur nom des jeunes Édoniens qui formaient le choeur, sans doute un groupe
éphebique de sectateurs de Dionysos (plutôt que d’Apollon, comme le suggère West).
À notre avis, c’est dans ce drame que s’accomplissait le châtiment de Lycurgue. Un
moment désarmé, le roi reprenait ses persecutions nocturne. Il y a sans doute plusiers
souvenirs de la pièce dans un stasimon de l’Antigone de Sophocle où le choeur
énumère des précédents à l’emprisonnement de l’héröine dans un caveau».
119
«Come nella trilogia tebana, il satiresco Licurgo doveva comportare la regressione
a una fase precedente della storia, forse al momento della liberazione di Satiri e
Baccanti dalla prigionia loro inflitta dal re degli Edoni» AVEZZÙ (2003, 80).
120
È un riferimento che leggiamo in Nonno di Panopoli (Dion. 20, 226‑227 e 248‑
250) come ricorda anche SOMMERSTEIN 2008, 127.
121
«Se l’ipotesi di una conclusiva conversione di Licurgo alle dionisiache gioie del
vino coglie nel segno, possiamo ragionevolmente credere, mettendo ancora una volta
a frutto le indicazioni offerteci dal frammento di Timone, che nel comporre il dramma
satiresco Eschilo abbia voluto riprendere, con un’operazione di rovesciamento
speculare, uno dei motivi fondamentali svolti in precedenza dalla trilogia tragica: colui
che nel σατυρικόν finale mostrava di gustare gli effetti inebrianti del vino era lo stesso
Licurgo che la scena tragica ci aveva mostrato feroce persecutore di Dioniso e della
vite; e gli stessi avvinazzati compagni del dio contro cui nella trilogia tragica si era
abbattuta la furia del re tracio diventavano infine – nelle persone dei satiri – suoi allegri
compagni di bevuta» DI MARCO 2013a, 210.
122
Traduzione di MORANI 1987.
34 Francesco Carpanelli

3.2. Poesia e scena

1 ‑ Il Lucurgus, il dramma di Nevio di cui abbiamo il maggior numero


di frammenti, ha indubbi legami con il testo eschileo che, a parte ciò che
può essere stato scritto in epoca ellenistica, sono difficili da negare nel
confronto con i frustuli greci che abbiamo riportato.123 Leggiamo i passi che
ci indirizzano in questa direzione dividendoli per argomenti:

a ‑ L’avvistamento delle Baccanti e di altri seguaci di Libero:

alte iubatos angues in sese gerunt

portano su di sé serpenti124 dall’alta cresta


(TRF3 18)125

***

† lib. II †126 quaeque incedunt, omnis aruas opterunt

dovunque passano, devastano tutti i campi


(TRF3 19 )127

b ‑ Licurgo ordina di dare la caccia a strani figuri:

uos, qui regalis corporis128 custodias


agitatis, ite actutum in frundiferos locos,
ingenio arbusta ubi nata sunt, non obsitu

voi che fate la guardia alla persona regale,


andate subito in luoghi frondosi,
dove alberi sono nati spontaneamente,
senza che alcuno li abbia piantati
(TRF3 21‑23)

123
Per le ipotesi di ciò che può essere stato scritto dopo Eschilo e prima di Nevio
cf. LATTANZI 1994, 191‑202.
124
Le baccanti in preda dell’invasamento dionisiaco sono avvolte da serpenti.
125
Le traduzioni di TRF3 sono di LATTANZI 1994.
126
C’è qui un errore da ricondurre all’archetipo.
127
Scil. i seguaci di Dioniso (Libero).
128
«L’uso di corpus unito in perifrasi ad un genitivo o, come in questo caso, ad un
aggettivo denominativo ricalca quello di δέμας nella lingua della tragedia attica,
soprattutto euripidea» LATTANZI 1994, 213.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 35

c‑ Le baccanti sulla scena

ut in uenatu uitulantis ex suis


locis nos mittant poenis decoratas feris

che lascino andare via dalle loro terre noi,


esultanti nella caccia, adorne di pene crudeli (TRF3 29‑30)129

***

pallis, patagiis, crocotis130, malacis mortualibus

con ampie vesti, frange dorate, crocotule, morbide gramaglie (TRF3 43)131

d ‑ Il racconto delle guardie che hanno catturato il corteo dionisiaco:

nam ut ludere laetantis inter se uidimus † praeter amnem


creterris sumere aquam ex fonte

come infatti le vedemmo scherzare gioiose tra loro oltre il fiume,


attingere con dei vasi acqua da una fonte…
(TRF3 41‑42)

e ‑ La cattura di Libero e il suo confronto‑scontro con Licurgo:

diabatra in pedibus habebat, erat amictus epicroco

sandaletti aveva ai piedi, era avvolto da un mantellino (TRF3 54)

***

dic, quo pacto eum potiti: pugna<a>n an dolis?

Dì, in che modo lo avete preso: con la lotta o con l’inganno? (TRF3 34)

***

129
Le baccanti, fatte prigioniere, sperano di essere rilasciate.
130
Un abito giallo e trasparente indossato nelle feste dionisiache oppure da Dioniso
stesso nella sua rappresentazione teatrale (cf. Ar.Ra. 46 e Cratin. Fr. 40 K.‑A.). Crocota
è un termine molto importante perché nel v. 138 delle Tesmoforiazuse di Aristofane, la
parte della Lycurgheia eschilea parodiata dal poeta comico, c’è il termine κροκωτός:
una piccola prova del testo cui Nevio ha guardato.
131
Le vesti delle baccanti.
36 Francesco Carpanelli

Ne ille mei feri ingeni atque animi acrem acrimoniam

Certo egli [subirà] l’aspra violenza del mio fiero carattere e del mio
animo (TRF3 35)

***

Caue sis tuam contendas iram contra cum ira Liberi

Bada invece, per favore, di non mettere a confronto la tua ira con
quella di Libero (TRF3 36)

f ‑ La condanna a morte del corteo dionisiaco da parte del re:

ducite eo tum argutis linguis mutas quadrupedis […]

conducete là allora i mugulanti quadrupedi dalle lingue canore…


(TRF3 24‑25)

***

sine ferro pecua manibus ut ad mortem meant

come vanno alla morte per la forza di mani disarmate gli animali
domestici (TRF3 44)

g ‑Libero, ora rivelatosi nella sua essenza divina, ordina di portargli Licur‑
go (dopo che un Messaggero aveva annunziato l’assassinio dei familiari
compiuto dal re?):

proinde huc Druante regem prognatum patre


Lucurgum cette

Portatemi qui dunque il re Licurgo, progenie del padre Driante


(TRF3 46‑47)

Del finale non abbiamo traccia ma gli studiosi concordano, come per il
resto del plot132, su quanto riassume Lattanzi133: «A questo punto forse il
dio annuncia al re che dovrà morire, perché una carestia colpirà il suo

132
Cf. RIBBECK 1875, 55 ss.; WARMINGTON 19572, 122 ss.; MARMORALE 19502, 191 ss.;
PASTORINO 1957, 35 ss.
133
1994, 265.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 37

popolo e potrà avere fine solo con la sua morte. Nella parodo infine gli
edoni, ormai conquistati dal nuovo dio e convertiti al suo culto, escono di
scena portando via Licurgo»

2 ‑ In un lungo percorso diacronico ritroviamo un excursus su Licurgo


nella sezione che Nonno di Panopoli gli riserva nei canti 20 e 21 delle
Dionisiache; un’ultima incursione in questo testo che attesta l’evoluzione di
un personaggio che continua ad avere, anche dopo secoli, l’impronta
datagli da Eschilo, tale doveva essere stato il successo della Lykurgheia.
Dioniso viene ingannato da Iris con la promessa che anche Licurgo gli
sarà favorevole; tutto questo nel contesto di una versione recente del mito,
quella di Antimaco di Colofone (IV sec. a.C.)134, secondo la quale Licurgo
viveva in Arabia e non in Tracia135 come la tradizione, fin da Omero, aveva
voluto. Purtroppo non sappiamo niente delle versioni poetiche ellenistiche
e imperiali e quella di Nonno non ha certo molto in comune con la linea
che abbiamo supposto per Eschilo perché si tratta di un plot molto vicino
ad un romanzo: sogni, imbrogli, false aspettative che culminano in uno
scontro frontale, una fuga del corteo dionisiaco perseguitato da Licurgo, il
finale con il trionfo di Dioniso e l’accecamento del re. Voglio solo ricordare
un passo relativo all’incontro tra i due futuri nemici perché contiene un
ricordo eschileo, vago ma lo conserva; è tratto dal libro 20 delle Dionisiache,
vv. 304‑324:

καὶ θρασὺς ὡς ἤκουσεν ἄναξ ἀλάλαγμα χορείης 304


<…………………………………………………………>
αὐλοῦ μελπομένοιο μέλος Βερεκυντίδος ἠχοῦς 305
καὶ καναχῆς σύριγγος, ἀρασσομένης δὲ καὶ αὐτῆς
μαίνετο παπταίνων διδυμόκτυπα κύκλα βοείης·

134
Cf. Diod. Sic. 3, 65, 7.
135
«1) sceglie l’ambientazione presso la Nisa araba […] 2) fa poi di Licurgo un figlio
di Ares […]; 3) gli attribuisce i caratteri di un feroce predone omicida; 4) inserisce un
intervento diretto di Era ostile a Dioniso […]; 5) unisce inoltre nel c. 21 due tipi di
vendetta contro Licurgo: quella operata da Ambrosia metamorfosizzata in vite insieme
ad altre Baccanti (21, 33 sgg.) e, come in Omero, l’accecamento a opera di Zeus (21,
165‑169); 6) a questa punizione accompagna un’ulteriore rappresaglia divina dei
sudditi di Licurgo (21, 90‑123) […] Del mito di Licurgo risulta così trascurato solo
l’elemento che invece era piaciuto ai tragici, vale a dire la sua follia, mandatagli come
punizione e in conseguenza della quale aveva ucciso la moglie e il figlio. Nemmeno
questo aspetto però manca del tutto; solo che esso è stato, per così dire, spostato da
Licurgo ai suoi sudditi, i quali divengono uccisori e cannibali dei propri figli (21, 110
sgg.). » GONNELLI 2003, 412‑413.
38 Francesco Carpanelli

καὶ θεὸν ἀμπελόεντα παρὰ προθύροισι δοκεύων,


σαρδόνιον γελόων, φιλοκέρτομον ἴαχε φωνήν,
Βασσαρίδων ἐλατῆρι χέων ἄσπονδον ἀπειλήν·
‑ ἡμετέρων ὁράᾳς ἀναθήματα ταῦτα μελάθρων;
καὶ σύ, φίλος, κόσμησον ἐμὸν δόμον ἢ σέο θύρσοις
ἢ ποσὶν ἢ παλάμῃσιν ἢ αἱματόεντι καρήνῳ.
εἰ κεραοῖς Σατύροισι, κερασφόρε Βάκχε, κελεύεις,
ὑμέας ἶσα βόεσσιν ἐμῷ βουπλῆγι δαμάσσω.
τοῦτό σοι ἐξ ἐμέθεν ξεινήιον, ὄφρα τις εἴπῃ,
ἢ θεὸς ἢ μερόπων τις, ὅτι προπύλαια Λυκούργου
ἡμιτόμοις μελέεσσιν ἐμιτρώθη Διονύσου.
οὐ παρὰ Βοιωτοῖσιν ἀνάσσομεν, οὐ τάδε Θῆβαι,
οὐ Σεμέλης δόμος οὗτος, ὅπῃ νόθα τέκνα γυναῖκες
ἀστεροπῇ τίκτουσι καὶ ὠδίνουσι κεραυνῷ.
σείεις οἴνοπα θύρσον, ἐγὼ βουπλῆγα τινάσσω,
καί σε διατμήξας βοέου κατὰ μέσσα μετώπου
ὑμετέρην ἐπίκυρτον ἀναρρήξαιμι κεραίην.

Non appena il sovrano violento ode il gridare di quella banda,


[esce dal palazzo, furente per il suono]136
dell’aulos che intona il canto della melodia berecinzia
e per quello della siringa stridula, e si infuria anche vedendo
le rotonde pelli bovine battute d’ambo i lati.
Scorge nel suo vestibolo il dio dell’uva,
e ride sardonico, pronuncia allora parole di scherno
riversando implacabile minaccia al capo delle Bassaridi.
«Tu le vedi, queste offerte appese nel mio palazzo?
Decora anche tu, amico, la mia casa coi tuoi tirsi
O con i piedi, o con le mani, o con la testa sanguinante.
allora io vi ucciderò, come dei buoi, con la scure bovina.
Questo sia per te il mio dono ospitale, di modo che qualcuno,
un dio o un mortale, possa dire che gli ingressi di Licurgo
sono cinti dalle membra mozzate di Dioniso.
Non sono signore dei Beoti, e questa non è Tebe,
non è la casa di Semele, dove le donne fanno bastardi
con la folgore, partoriscono grazie al fulmine.
Tu scuoti il tirso divino, io vibro la scure da buoi,
e spaccando a metà la tua fronte bovina
romperò le tue corna ricurve!»137

136
«La scena dell’incontro fra i dionisiaci e Licurgo sembra turbata da una lacuna,
ma probabilmente di non più di un verso, dopo il v. 304 […] nella parentesi si è tradotto
un senso ragionevole simile a quello proposto da Hopkinson (cf. D. 44, 15 sgg.: Penteo
irritato dal rumore dei baccanali)» GONNELLI 2003, 446.
137
La traduzione è di GONNELLI 2003.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 39

Al di là del fatto che ci troviamo di fronte ad un’ambientazione simile a


quella che la leggenda e il dramma descrivono per le mura del palazzo di
Enomao138, adornate con le teste dei pretendenti della figlia, i primi versi
del passo alludono all’arrivo del corteo dionisiaco che, a distanza di molti
secoli, sembra quello di una sgangherata banda di paese139: il rumore
infastidisce il re che nel vestibolo della reggia incontra Dioniso sicuro di
una calda accoglienza dovuta ai suoi servigi di musico. Forse solo una
suggestione, importante per capire il mutare dei significati letterari attra‑
verso il tempo.

3.3. Arte e scena

La ceramica140 ci consegna ampio materiale sull’epilogo tragico della


follia che avrebbe portato Licurgo a uccidere e a fare a pezzi prima il figlio,
poi la moglie, convinto invece di potare una vite141; ciò è particolarmente
evidente in due crateri ritrovati a Ruvo di Puglia142. L’azione sembra

138
Cf. CARPANELLI 2011, 36‑49.
139
Cf. il v. 304 («il gridare di quella banda» ἀλάλαγμα χορείης) e il v. 306 («della
siringa stridula» καναχῆς σύριγγος).
140
Cf. SUTTON 1975. Si pensa che dietro questa produzione ci sia una fonte comune:
i dipinti ispirati alla storia di Licurgo nel tempio di Dionisio Eleutereo di cui parla
Pausania (1, 20, 3).
141
Cf. SÉCHAN 1926, 63‑79; LIMC 6, 1, 309‑319.
142
Riporto di seguito la descrizione dei due prodotti:
‑ «Ap 48. Ruvo di Puglia, Museo Nazionale Jatta, 36955 (n. i. 32). Cratere a
colonnette. Da Ruvo di Puglia. A. Guerriero stante che porta la mano al volto; accanto
a lui, cane; in alto scudo; tempio dorico in cui è un uomo (Licurgo), armato di doppia
ascia, che minaccia un giovane nudo (Driante), aggrappato alle sue gambe; in alto, sul
frontone: busto di donna (Lyssa); donna panneggiata e col capo velato, in fuga verso
d., che lascia cadere una phiale con offerte. B. Due sileni, Dioniso e cane, tutti in
movimento verso sin. Eschilo, Licurgia (Huddilston 1898; Séchan 1926; Pickard‑
Cambridge 1946); Eschilo, Edoni (Webster 1967a); autore ignoto, Licurgo (influenzato
dall’Eracle di Euripide: Sutton 1975). Pittore cdi Boston 00. 348. 380‑360.» Todisco 2003,
418‑419. Cf. anche Taplin 2007, 68‑70. L’episodio non poteva essere rappresentato, come
sappiamo dalle regole non scritte della drammaturgia classica e da tutti rispettate nei
contesti cruenti, ma doveva essere raccontato in una rhesis : «è al teatro che con ogni
evidenza rinviano le strutture architettoniche (un edificio a colonne e un palazzo dalla
cui porta si slancia Licurgo) che compaiono in due di queste raffigurazioni e che sono
del tutto analoghe ad altre numerose stilizzazioni vascolari della skene teatrale» DI
MARCO 2013, 203.
‑ «Ap 96. Londra, British Museum, F 271 (49. 6‑23. 48, 1434) (già Napoli, Collezione
Steuart). Cratere a calice. Da Ruvo di Puglia. A. In alto: donna stante, in conversazione
con un giovane nudo con lancia, seduto su uno sgabello; Furia (Lyssa), nimbata, in
40 Francesco Carpanelli

avvenire durante un sacrificio probabilmente non compiuto a causa


dell’improvviso attacco di follia di Licurgo provocato da Lyssa, dea del
furore; il re usa una bipenne per compiere l’omicidio (o i due omicidi)143.

3.4. Ipotesi per la scena

3.4.1. Il corteo dionisiaco

Il nostro excursus nella Lycurgheia dimostra ancora una volta che, come
in altri casi del teatro eschileo, di una intera trilogia resta soltanto un
dramma i cui frammenti sono in qualche modo di aiuto per la ricostruzione
scenica: in questo caso si tratta degli Edoni.
Gli Edoni. Siamo nella Tracia meridionale e gli avvenimenti riguardano
comunque, anche in ambito satirico, l’incontro‑scontro tra il re Licurgo e il
dio Dioniso: dopo l’arrivo di quest’ultimo, nei confini del regno, il sovrano
avutone notizia, manda i suoi soldati a catturare lo strano corteo che si
aggira per il paese. La descrizione degli strumenti e dell’abbigliamento di
questi iniziati rende magica l’atmosfera; segue l’apparizione del dio
effemminato, stigmatizzata dal re con parole di scherno. L’arresto di
Dioniso e delle menadi, la loro successiva liberazione per intervento
metafisico (?), con un fenomeno tellurico simile a quello, reale o illusorio,
che a Tebe riduce in rovina il palazzo di Penteo nelle Baccanti, dà il vero
avvio all’azione drammatica. In una eventuale ricostruzione scenica non
possiamo essere sicuri che il corteo dionisiaco venga catturato per volontà
di Licurgo visto che, come nelle Baccanti, il gruppo potrebbe essere arrivato
spontaneamente in città, con una parodo che avrebbe dato inizio all’azione.

3.4.2. La follia di Licurgo

Se partiamo da un confronto con ciò che Dioniso farà fare a Penteo nelle
Baccanti e la sua uccisione da parte della madre Agave, qui, a ruoli invertiti,

volo verso d.; Apollo seduto; Ermes stante. Al centro: idria accanto ad un altare su cui
arde un fuoco. In basso: vecchio con bastone (pedagogo) e giovane nudo che
trasportano il cadavere di un giovane nudo (Driante). Nel campo: rosette […] A.
Eschilo, Licurgia […] A. Eschilo, Bassaridi; A. Eschilo, Edoni (Webster 1967a; Trendall,
Webster 1971 Trendall, Cambitoglou; Palagia 1984). Pittore di Licurgo. 335‑345»
TODISCO 2003, 434.
Cf. anche TAPLIN 2007, 70‑71. Il Pedagogo poteva essere un carattere drammatico
di cui però non abbiamo alcun riscontro testuale: cf. TRENDALL/WEBSTER 1971, 51 e
GREEN 1999.
143
Cf. Hyg. Fab. 132, 2. (e al riguardo Sutton 1975, 360).
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 41

Licurgo uccide il figlio Driante, scambiatolo per un tralcio di vite, e forse


anche la moglie144.

3.4.3. L’exemplum di Orfeo. Le Bassaridi

A livello drammaturgico non serve a molto l’incredibile sforzo fatto dalla


critica per definire il tema generale della trilogia come ricerca di
conciliazione, (simile a quello che avviene nell’Orestea con le Erinni mutate
in Eumenidi) tra gli elementi misterici legati a Dioniso e quelli legati ad
Apollo, tramite Orfeo, figura di riferimento dai seguaci del pitagorismo e
di quelli dell’orfismo. È infatti difficile dimostrare che ci fosse una tragedia
con funzioni di ‘intermezzo’, le Bassaridi, come exemplum di supporto per
far vedere cosa succedeva a chi cambiava il suo credo religioso: Orfeo dopo
essere stato legato ai culti dionisiaci sarebbe passato alla venerazione totale
per Apollo, nel cammino tenebre‑luce simile a quello che oggi definiamo
l’esperienza di chi ha conosciuto lo spazio liminare tra la vita e la morte. È
impossibile altresì sostenere che la testimonianza di Eratostene sulla
conversione di Orfeo, che si limita a un «come dice Eschilo», riassuma il
testo di un intero dramma; possiamo al massimo pensare che fosse parte
di un lungo intervento del coro che, dopo il trionfo di Dioniso e l’umilia‑
zione del suo nemico, introduceva la punizione del re. Subito dopo le
donne legate al suo culto, adornate con pelli di volpe, guidate dal dio stesso,
sorprendevano Licurgo e la sua famiglia intenti ad un sacrificio di ricon‑
ciliazione, nella speranza di avere la propria divinità, Cotito, al loro fianco,
su un altare che si trovava fuori città (si giustificherebbe così il fatto che
Licurgo veda proprio una pianta di vite al posto del figlio). Compiuta la
strage, conosciuta dal pubblico grazie all’intervento di un Messaggero, il
re, privo del proprio erede, come accade ad Agave dopo aver ucciso Penteo,
viene allontanato dal suo popolo che, convertito al verbo dionisiaco, rin‑
chiude il suo ex sovrano, fonte ormai di contaminazione per il paese, in un
carcere tetro ( buio come l’Ade che Orfeo aveva conosciuto nella sua cata‑
basi).
In consonanza con altri ipotetici finali, come quello dell’Orestea o delle
Danaidi, dopo la conversione di Licurgo e il suo manifesto pentimento nei
Neaniskoi, i giovani edoni, dopo aver costituito un nuovo ordine religioso
di appartenenza dionisiaca, accompagnano il sovrano nella sua nuova vita
di redento.145

144
L’Eracle euripideo in cui l’eroe stermina tutta la sua famiglia, sotto la guida di
Lyssa, può fornire molti suggerimenti per relizzare questo tipo di scena.
145
L’altro finale, per il quale non propendiamo, simile forse a quello della Niobe del
42 Francesco Carpanelli

La tetralogia si chiude con il dramma satiresco Licurgo in cui il re, in un


ruolo adatto anche a un satiro, apprezza i vantaggi della nuova bevanda
introdotta da Dioniso, il vino, a discapito di quella nazionale, la birra.

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Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 43

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Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato di Eschilo
nei papiri di Ercolano
PIERO TOTARO (UNIVERSITÀ DI BARI)

L’eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. distrusse Pompei ed Ercolano


portò morte e rovina, anche di molti libri: per esempio di quelli raccolti
nella ricca biblioteca della cosiddetta Villa dei Papiri ad Ercolano, le cui
prime fasi di costruzione vanno datate al terzo quarto del primo secolo
avanti Cristo, come hanno dimostrato gli scavi archeologici più recenti,
condotti tra il luglio 2007 e la fine di marzo 20081. Restano le rovine della
Villa (ancora da esplorare compiutamente) e ciò che si è riusciti a salvare
della sua biblioteca, frammenti di rotoli carbonizzati e disegni, i cosiddetti
apografi napoletani e oxoniensi, realizzati tra fine Settecento e inizi
Ottocento da disegnatori in genere inesperti di greco.
Rispetto ad altre collezioni (penso in particolare a quella dei Papiri di
Ossirinco), i papiri ercolanesi hanno indubbiamente una rilevanza
marginale negli studi sul teatro greco antico; e tuttavia vale la pena
considerarli, o meglio riconsiderarli, anche per quello che possono dirci a
proposito di drammi perduti dei grandi autori ateniesi del V secolo a.C.
Se limitiamo il campo di indagine alla tragedia, nelle opere epicuree
restituiteci dai papiri ercolanesi finora noti si riscontra un discreto numero
di riferimenti ai tre autori del canone tragico: poco meno di una ventina
per Eschilo, più di venti per Sofocle, e ancor più per Euripide, secondo le
stime che Gioia Rispoli ha riportato in un importante contributo, Tragedia e
tragici nei papiri ercolanesi, pubblicato in «Vichiana» negli Atti di un con‑
vegno tenutosi a Napoli nel 2004: un contributo che trae una valutazione
complessiva della tragedia per come emerge soprattutto dai resti delle
opere di poetica composte da Filodemo di Gadara e Demetrio Lacone, e
che pertanto non si prefigge la raccolta e l’analisi sistematica di tutte le
testimonianze ercolanesi sui tragici. A questo specifico scopo si sono accinte
Felicetta Amarante e Giuliana Auriello, che nel 1998 hanno pubblicato sulla
rivista «Cronache Ercolanesi» due articoli dedicati, rispettivamente, ad
Eschilo (la Amarante) e a Sofocle (la Auriello); manca ancora, invece, uno

1
Cf. DORANDI 2017.
46 Piero Totaro

studio completo ed aggiornato riguardante Euripide, per cui si dispone


solo di alcuni buoni contributi parziali, quali quelli di Agathe Antoni su
due citazioni euripidee nel P.Herc. 1384 (in «Cronache Ercolanesi» del 2004),
di Margherita Erbì su una citazione di Euripide nella Retorica di Filodemo
(in Miscellanea Papyrologica Herculanensia, vol. I, 2005), e di Antonio Parisi
su tre citazioni euripidee nei papiri di Demetrio Lacone (in «Cronache
Ercolanesi» del 2011).
Chi, come me, nell’ambito di un progetto internazionale promosso e
finanziato dalla Accademia Nazionale dei Lincei, sta ora lavorando a una
nuova edizione commentata di tragedie frammentarie di Eschilo, deve
dunque necessariamente confrontarsi con l’articolo della Amarante, Eschilo
nei papiri ercolanesi. L’autrice raccoglie complessivamente 18 «citazioni», 16
«citazioni di titoli e versi di drammi eschilei certi» (una dall’Agamennone,
una dagli Edoni, una dalle Eliadi, una dal Fineo, due dai Frigi, due dal
Prometeo incatenato, quattro dal Prometeo liberato, una dal Prometeo portatore
di fuoco, una dalla Semele, una dai Sette contro Tebe, una dai Raccoglitori di
ossa) e 2 «citazioni di Fabulae incertae». Tranne quattro casi, in cui la fonte
è Demetrio Lacone (la sua opera Sulla poesia, più un caso testimoniato da
una sua opera incerta contenuta in P.Herc. 1012), negli altri casi la fonte è
sempre Filodemo, in due la sua opera Sulla musica e nei restanti dodici
l’opera Sulla religiosità, Περὶ εὐσεβείας, De pietate come viene in genere
indicata. Quest’ultimo trattato, il De pietate, si componeva di due parti (più
che due libri, un unico libro suddiviso in due tomi, come ha di recente
sostenuto Dirk Obbink): la prima conteneva una difesa dalle accuse di
empietà rivolte contro Epicuro e la sua scuola, la seconda era una serrata
critica delle favole raccontate riguardo gli dèi da poeti e filosofi, Stoici
compresi; dato il tema, dunque, la seconda sezione dell’opera era infarcita
di continui, puntuali riferimenti a narrazioni mitografiche e a rielaborazioni
letterarie di miti noti e meno noti, con il loro ricco corredo di varianti: un
materiale straordinariamente denso, magmatico, che lamentiamo di non
poter più leggere oggi, se non negli sparuti e disperanti lacerti dei fram‑
menti ercolanesi. Quel che resta della prima sezione è stato edito
esemplarmente da Obbink a Oxford nel 1996 (con una amplissima e
fondamentale introduzione); per la seconda parte, in attesa della edizione
dello stesso Obbink (da tempo desiderata), ci si rifà ancora alla editio
princeps di Theodor Gomperz (del 1866) e alla dissertazione di Adolf
Schober (del 1923, rimasta a lungo inedita)2.
Dalla seconda parte del De pietate, e sulla base esclusivamente di
frammenti riprodotti nei disegni napoletani, ci sono note le quattro citazioni

2
Ma pubblicata in «Cronache Ercolanesi» 1988. Cf. SCHOBER 1988.
Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 47

poste dalla Amarante all’interno della sezione da lei dedicata al Prometeo


liberato. In questa sede mi soffermerò su tre di esse, che intendo portare
come casi‑studio esemplari per varie ragioni: sia perché sono passi pieni di
problemi (ma questa non è una novità per un filologo e, in particolare, per
un editore‑commentatore di frammenti); sia perché la recente edizione
commentata della Amarante non esaurisce e non risolve tutti i problemi,
anzi ne solleva ulteriori, anche di carattere metodologico sul piano ecdotico.
Sul testo stabilito dalla Amarante si basa totalmente, peraltro, la traduzione
annotata di Lucas de Dios nel volume dei frammenti di Eschilo uscito
presso Gredos nel 2008. Nello stesso 2008 è stato pubblicato il volume Loeb
dei frammenti eschilei curato da Alan Sommerstein, il quale, però,
evidentemente in ragione dei selettivi criteri editoriali propri di quella serie,
non ha editato né tradotto i frammenti ercolanesi riferiti al Prometeo liberato;
analogamente, essi sono stati esclusi dalla edizione del Prometeo incatenato
e dei frammenti degli altri drammi prometeici curata nel 2015 da Calderón
Dorda per le edizioni del «Consejo superior de investigaciones científicas
de Madrid».
Procedo nell’analisi dei frammenti seguendo la numerazione pro‑
gressiva data da Lucas de Dios; di ciascun frammento offro qui una mia
traduzione basata sul testo critico stabilito dalla Amarante.

secondo Apollonide e secondo Esiodo e secondo Stesicoro nell’Orestea e in


linea con le cose dette prima, che Crono è gettato nel Tartaro a causa di
costui. E Dioniso è imprigionato da Penteo secondo Euripide similmente
come si narra che uno dei Giganti spingesse lo stesso Ares in un orcio. E i
propri fratelli, Ecatonchiri e Ciclopi, che erano figli della Terra, tutti Crono
li gettò in prigione, lui che forse anche Eschilo nel Prometeo liberato dice che
è stato legato da Zeus. E tutti gettati nel Tartaro già prima da Urano sono
imprigionati. E i Dioscuri poi dagli Afareidi sembrano …
(Fr. 202a Lucas de Dios = 9 Amarante, Philodem. De piet. P.Herc. 1088 III)

In questo punto dell’opera si portavano vari esempi di imprigionamenti


di dèi, con opportuni richiami letterari. Ma molti dettagli restano incerti e
svariate le integrazioni proposte dagli studiosi, in grado di condurre in
tutt’altra direzione rispetto a quella perseguita dalla Amarante. Nelle linee
5‑8, ad esempio, la Amarante stampa, ma senza esplicitarlo in apparato o
nel commento, la proposta di Philippson (in «Hermes» del 1920); ella si
dichiara inoltre sfavorevole all’idea che inizialmente si parlasse di
Prometeo, come vorrebbe invece la ricostruzione di Schober, il quale, infatti,
faceva precedere la linea 1 dalle parole [καὶ ὁ Προμηθεὺς συνδεῖται | κατὰ
Αἰσχύλον | καὶ], e poi integrava le linee 5‑8 con καὶ παρ᾽ ἃ[ς τὸ πρὶν] |
[ἔ]φην ποι[νὰς ὑπ᾽] | αὐτοῦ τα[ρταροῦ|ται]; sicché, seguendo Schober,
la traduzione delle ll. 1‑8 di P.Herc. 1088 III sarebbe: «secondo Apollonide
e secondo Esiodo e secondo Stesicoro nel …» (il titolo dell’opera stesicorea
48 Piero Totaro

è irrimediabilmente perduto) «e in aggiunta alle punizioni di cui ho parlato


prima, (Prometeo) è gettato nel Tartaro da lui» (cioè da Zeus). Un problema
non di poco conto per la tenuta della ricostruzione di Schober è anche
quello sollevato da Davies e Finglass nel commento al fr. 274 della loro
recente edizione di Stesicoro: «but Hesiod, at least, does not include
Tartarus among his afflictions». Nel seguito della colonna si segnalano
almeno due riferimenti letterari sicuri: uno ad Euripide, ricordato alle ll. 8‑
11 per il Dioniso delle Baccanti imprigionato da Penteo, l’altro al Prometeo
liberato di Eschilo, citato alle ll. 21ss. perché evidentemente in quel dramma
si parlava dell’incatenamento/imprigionamento di qualche dio da parte di
Zeus. Di più non possiamo dire in proposito, data la lacunosità del papiro.
Varie ricostruzioni sono state tentate, e alle molte ricordate da Radt in
apparato al fr. 202a della sua edizione del 1985, se ne può aggiungere
un’altra proposta da Luppe in «Cronache Ercolanesi» nello stesso 1985. Mi
sembra pertanto incauta la sicurezza con la quale Amarante dichiara: «Di
Eschilo e del suo Prometeo liberato vi è un semplice accenno come testi‑
monianza della punizione di Crono»; ma Crono qui emerge come vittima
di Zeus solo grazie ad una molto incerta ipotesi ricostruttiva di Philippson
per la l. 21, ,ὃν] κα<ὶ> τάχ’ Αἰσχύλος, accolta a testo dalla Amarante ancora
una volta senza dichiararne la paternità. Nel disegno napoletano si parte
da un tràdito ΚΑΤΑΧΑΙϹΧΥΛΟϹ. L’inserzione di τάχ(α), peraltro,
inietterebbe una potente dose di dubbio nell’argomentazione di Filodemo,
tant’è che la Amarante, seguita su questa strada da Lucas de Dios, è
costretta ad ammettere che «nei frammenti a noi pervenuti del Prometeo
liberato non vi è nessun accenno a queste vicende mitologiche, che, invece,
sono narrate estesamente dallo stesso Prometeo nel Prometeo incatenato (197
ss.) laddove vi è anche l’episodio della detronizzazione di Crono da parte
di Zeus (219‑221, dove però Crono è nascosto in una «cavità del profondo
abisso del Tartaro»). Saremmo dunque» – conclude la Amarante – «dinanzi
ad un errore di attribuzione di Filodemo o, se è giusta la correzione alla
linea 21 del καταχ del disegno napoletano in καὶ τάχ’, almeno ad un
dubbio del filosofo di Gadara». Certo, io penso che esprimere candida‑
mente un dubbio del genere da parte di un campione di mitografia, quale
si rivela Filodemo nel De pietate, costituirebbe una défaillance davvero
clamorosa, e anche un po’ risibile. A me la correzione più semplice e
immediata, nonché in linea con l’usus scribendi di Filodemo, parrebbe quella
di Wilamowitz κατὰ δ᾽ Αἰσχύλον, accolta convintamente da Luppe e
reputata con favore anche da Gianluca Del Mastro, da me consultato in
proposito presso la Officina dei Papiri ercolanesi a Napoli3.

3
Colgo qui l’occasione per ringraziarlo della sua pazienza e generosità, e della
straordinaria competenza sui papiri ercolanesi.
Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 49

Propongo, quindi, il testo da me approntato per l’edizione lincea relativo


alle ll. 18‑30 di Filodemo, De pietate, P.Herc. 1088 III:

] υἱοὺς [
] Κρόν[ος εἰς δεσ‑
μω]τήριον κα[τέβαλε. 20
. . ΚΑΤΑΧ Αἰσχύλος
ἐν τῶι λυομ[έ]ν[ωι
Προ]μη[θ]εῖ [φησιν
ὑπ]ὸ Διὸς δεδ[έσθαι.
καὶ πάντες [καταταρ‑ 25
τα]ρωθέντες [ἤδη πρὶν
ὑπ᾽] Οὐρανοῦ κ[αταδέ‑
δεντ]αι· Διόσκουροι
δὲ] ἄρα ὑπ᾽ ἀ[φαρειδῶν
ἐ[οί]κασιν ἐν 30

21 ΚΑΤΑΧ Αἰσχύλος N : τὸ] κατὰ <γῆς>. Αἰσχύλος <δ᾽> Schmid 1885, 7


(«Quod enim post κατὰ est signum Χ, eo librarius omissum esse vocabulum
voluit significare») : κατὰ δ᾽ Αἰσχύλον? Wilamowitz 1914, 67 : ὃν] κα<ὶ>
τάχ᾽ Αἰσχύλος Philippson 1920, 250 : «fortasse <καὶ τοὺς> Τιτᾶνας»
Schober 1988 [1923], 90

nel Prometeo liberato (Eschilo dice che Zeus) era innamorato di Teti. E dicono
… e l’autore dei Canti ciprî che ella, per compiacere Era, fuggì le nozze con
Zeus; e che costui, adirato, giurasse che l’avrebbe data in matrimonio a un
mortale. Anche in Esiodo si trova più o meno la stessa storia. Pisandro,
invece, riguardo Climene (narra) che quello essendo innamorato …
(Fr. 202b Lucas de Dios = 12 Amarante; Philodem. De piet. P.Herc. 1602 V)

Il frammento, situato in un contesto in cui si parlava di amori divini,


riguardanti in particolare Zeus, informa che nel Prometeo liberato era
presente il tema dell’innamoramento di Zeus per la Nereide Teti. Questo
dato non può non essere messo in rapporto con quanto si apprende da un
altro luogo filodemeo del De pietate, a cui Amarante e Lucas de Dios danno
dignità di autonomo frammento del Liberato (fr. 202c Lucas de Dios = 11
Amarante), diversamente da Radt, che invece semplicemente lo cita in sede
introduttiva al dramma, mentre numera come fr. 202b la testimonianza di
P.Herc. 1602 V.

dicendo che erano stati imprigionati da Zeus affinché mai preparassero le


armi per qualcuno. E Eschilo dice che Prometeo fu liberato perché rivelò
l’oracolo riguardante Teti, e cioè che era destino che il figlio nato da lei
diventasse più potente del padre; e per questo la danno in sposa ad un
mortale. Del resto Omero dice che (Zeus) una volta stava per essere legato
50 Piero Totaro

da Era, da Poseidone e da Apollo o Atena, e che, condotto Egeone da Teti,


(gli dèi) spaventati desistettero dall’attacco. E Stesimbroto dice che avendo
generato quella …
(Fr. 202c Lucas de Dios = 11 Amarante; Philodem. De piet. P.Herc. 1088 V)

Ripetutamente, nel corso del Prometeo incatenato (168‑177, 187‑192, 511‑


525, 764‑774, 907‑931, 984‑996), si allude a un segreto che Prometeo conosce
a proposito del destino di Zeus: un segreto che il Titano per il momento
non intende rivelare, nella consapevolezza che sarà il mezzo con cui
costringerà Zeus a venire a patti con lui e grazie al quale otterrà la
liberazione dal castigo che ora lo opprime. Quanto al contenuto del segreto,
nell’Incatenato non è mai nominata Teti, ma è esplicitamente dichiarato che
il pericolo per Zeus deriverà dal suo infausto matrimonio (764, 908‑909)
con una sposa che «partorirà un figlio più forte del padre» (ἣ τέξεταί γε
παῖδα φέρτερον πατρός, 768). Un paio di scolî antichi all’Incatenato
annotano che la rivelazione avveniva nel dramma successivo (schol. 522
Herington), ossia nel Lyómenos, in cui Prometeo veniva effettivamente
liberato (schol. 511b Herington).
Per un editore dei frammenti di Eschilo si pone qui un problema. Come
va considerata la testimonianza filodemea di P.Herc. 1088 V? Come
autonomo frammento, assecondando la scelta di Amarante e Lucas de
Dios? Possiamo osservare che qui Filodemo a) cita Eschilo ma non specifica
il titolo di un determinato dramma; b) si sta riferendo a un tema – la
liberazione di Prometeo conseguente alla rivelazione del segreto riguardo
la nascita di un figlio che avrebbe detronizzato Zeus – che, come si è visto,
affiora a più riprese già nell’Incatenato. La mia idea sarebbe di raccogliere
sotto un unico frammento tutta questa materia relativa al segreto riguar‑
dante Teti, innanzitutto dando precedenza alla testimonianza filodemea di
P.Herc. 1602 V, che contiene un riferimento esplicito (nelle ll. 3‑5) al Prometeo
liberato e al tema dell’innamoramento di Zeus per la Nereide:

ἐν Π]ρομηθε[ῖ δὲ
τῷ] λυομέ[ν]ω[ι φη‑
σι Θέτ]ιδος ε[ 5

3 ἐν Π. δὲ τῷ suppl. Reitzenstein 1900, 73‑74 4‑5 φησι suppl. Schober 1988


[1923], 105 ἐ[ρᾶν vel ἐ[πιθυμεῖν, sc. φησὶν Αἰσχύλος τὸν Δία Luppe 1986,
64

Poi rinviando a quanto Filodemo dice in P.Herc. 1088 V:

]πλα· καὶ τὸν


Προμη]θέα λύεσθαί 5
φησιν] Αἰσχύλος ὅ‑
Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 51

τι τὸ λ]όγιον ἐμή‑
νυσε]ν τὸ περὶ Θέ‑
τιδο]ς ὡς χρε[ὼ]ν εἴ‑
η] τὸν ἐξ αὐτῆς γεν‑ 10
ν]ηθέντα κρείτ‑
τ]ω κατασ[τῆν]αι
τ]οῦ πατρός· [ὅθεν
κ]αὶ θνητ[ῶι συνοι‑
κί]ζουσιν α[ὐτή]ν. 15

Rinviando, infine, a quanto annotano gli scholia vetera a Prometeo 511 e


522. In sede di commento, inoltre, correderei la documentazione ricordando
i numerosi passi dell’Incatenato relativi al segreto e alla futura liberazione
del Titano, nonché ulteriori fonti pertinenti al tema, come, ad esempio, un
interessante scolio a Pindaro, Istmica 8:

ὁ Ζεὺς βουλόμενος Θέτιδι πλησιάσαι ἐκωλύθη ὑπὸ τοῦ Προμηθέως· εἶτα


Πηλεῖ ἔδοξεν αὐτὴν ἐγγυῆσαι. τεθρύλληται δὲ ἡ ἱστορία παρά τε
συγγραφεῦσι καὶ ποιηταῖς, ἀκριβῶς δὲ κεῖται καὶ παρὰ Αἰσχύλῳ ἐν
Προμηθεῖ δεσμώτῃ

Zeus voleva avere una relazione con Teti ma Prometeo glielo impedì; poi
ritenne opportuno darla in matrimonio a Peleo. La storia si ripete presso
prosatori e poeti, ed è trattata dettagliatamente anche in Eschilo nel Prometeo
incatenato.
(Schol. D Pi. Isthm. 8, 57b, III p. 273, 21‑25 Drachmann)

È significativo che lo scolio riconduca la storia d’amore tra Zeus e Teti


all’Incatenato (παρὰ Αἰσχύλῳ ἐν Προμηθεῖ δεσμώτῃ) e non al Liberato, a
meno che non si voglia correggere il δεσμώτῃ tràdito dal codice in
λυομένῳ, come voleva Bergk (1884, 321‑322, n. 116).

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I Frigi nell’universo tragico greco:
intorno ad una tragedia perduta di Eschilo1
MILENA ANFOSSO (SORBONNE UNIVERSITÉ –
UNIVERSITY OF CALIFORNIA, LOS ANGELES)

1. Introduzione

L’uso sinonimico di due etnonimi originariamente ben distinti, «Frigi»


e «Troiani», nell’ambito della tragedia greca (ma non solo) rappresenta
un’innovazione di portata considerevole, soprattutto rispetto alla tradizione
omerica (§1). Per secoli è stato additato a colpevole Eschilo (§2), autore di
una tragedia dal titolo Frigi o Il Riscatto di Ettore (Φρύγες ἢ Ἕκτορος
λύτρα, §3), in cui il tragediografo mette in scena un coro di Frigi a seguito
del re troiano Priamo (§4). In questo contributo si tenterà di scagionare il
nostro autore, almeno parzialmente, attraverso la ricostruzione di un
sistema complesso (§5) che tenga in considerazione il contesto storico e
culturale degli anni successivi alla Seconda Guerra Persiana, per poi
passare in rassegna i dati iconografici legati in qualche modo alla tragedia
eschilea, e infine quelli testuali, al fine di analizzare tutte le occorrenze
dell’etnonimo nel corpus tragico, da Eschilo ad Euripide, e di trarne le
dovute conclusioni (§6).

1.1. L’«incompetenza geografica dei poeti»

Strabone (24, 3, 3) constatava, non senza un certo disappunto, l’«incom‑


petenza geografica» dei poeti, ed in particolar modo dei tragici, rei di
confondere i popoli tra di loro, soprattutto nell’ambito complessissimo
dell’Anatolia nord‑occidentale:

1
Questo contributo è frutto delle ricerche di una tesi di dottorato in corso di
redazione sui complessi rapporti linguistici tra i Greci e i Frigi, diretta dal Professor
M. Egetmeyer, Sorbonne Université, e dal Professor B. Vine, University of California,
Los Angeles. Mi sento in dovere di ringraziare il Professor B. Vine per aver letto e
commentato la stesura preliminare del capitolo della tesi da cui è stato tratto questo
intervento, così come i Professori F. Carpanelli e P. Totaro, e la Dottoressa L. Carrara,
per i loro utilissimi suggerimenti e spunti di riflessione in sede di discussione al
Convegno. Resto la sola responsabile degli eventuali errori contenuti in questo lavoro.
54 Milena Anfosso

Οἱ ποιηταὶ δὲ μάλιστα οἱ τραγικοὶ συγχέοντες τὰ ἔθνη, καθάπερ τοὺς


Τρῶας καὶ τοὺς Μυσοὺς καὶ τοὺς Λυδοὺς Φρύγας προσαγορεύουσιν
[…].

I poeti, e soprattutto i poeti tragici, che confondono volentieri i popoli, danno


il nome di «Frigi» anche ai Troiani, ai Misii e ai Lidii […].

Le conseguenze di una tale confusione, tuttavia, non si limitano soltanto


all’ambito poetico, se è vero che addirittura, secondo Pausania (5, 25, 6), un
gruppo di «Frigi» abitava la Sicilia2 insieme ai due principali ἔθνη
preellenici, i Sicani e i Siculi:

Σικελίαν δὲ ἔθνη τοσάδε οἰκεῖ· Σικανοί τε καὶ Σικελοὶ καὶ Φρύγες, οἱ μὲν
ἐξ Ἰταλίας διαβεβηκότες ἐς αὐτήν, Φρύγες δὲ ἀπὸ τοῦ Σκαμάνδρου
ποταμοῦ καὶ χώρας τῆς Τρῳάδος.

I popoli che abitano la Sicilia sono i seguenti: i Sicani, i Siculi e i Frigi, i primi
essendovi giunti dall’Italia, mentre i Frigi dal fiume Scamandro e dalla
regione della Troade.

È opinione comune che Pausania indicasse con questo nome non dei veri
Frigi, ma i Troiani scampati alla guerra contro gli Achei che, secondo la
tradizione mitica, avrebbero dato origine al popolo degli Elimi3. Ciò è
desumibile dal fatto che la loro regione di provenienza è identificata con la
Troade e con il fiume che bagna Troia, lo Scamandro. Nel II sec. d.C.,
dunque, l’uso indifferenziato, sinonimico, di «Frigi» e «Troiani» doveva
essere pienamente ammesso anche in un contesto storiografico. Pertanto,
vista la portata del problema, se seguiamo l’indicazione di Strabone, ci
sembra molto interessante procedere a ritroso, nel tentativo di dare un
nome al primo poeta responsabile di una tale confusione Troia‑Frigia.
Quale poeta, dunque?

1.2. Sicuramente non un poeta epico!

In Omero, i Frigi compaiono nell’Iliade nel cosiddetto «Catalogo dei


Troiani» tra i popoli alleati dei Troiani, pur restando del tutto distinti da
essi (Il. 2, 862‑3). Tale alleanza risulta essere molto antica: il re Priamo aveva
aiutato i Frigi a combattere contro le Amazzoni, una generazione prima

2
Su questo argomento, si veda in particolare SAMMARTANO 2000, con riferimenti
bibliografici.
3
Sugli Elimi, si vedano, ad esempio, DE VIDO 1997 e SAMMARTANO 2003.
I Frigi nell’universo tragico greco 55

della guerra di Troia (Il. 3, 184‑9). La stessa casa reale troiana risulta essere
legata alla Frigia per via dell’unione matrimoniale tra il re Priamo e la
regina Ecuba, figlia, secondo Omero, del re frigio Dimante (Il. 16, 715).
Ettore si lamenta, infine, in maniera anacronistica per i tempi della guerra
di Troia, ma in consonanza con la realtà storica dell’epoca di composizione
dell’Iliade4, di aver dovuto vendere alla Frigia e alla Meonia numerosi tesori
artistici per poter sopperire alle ingenti spese dovute alla guerra (Il. 18, 289‑
92). Infine, l’Inno Omerico ad Afrodite5, risalente al VII sec. a.C., ci informa,
attraverso le parole della dea stessa, che Troiani e Frigi parlano due lingue
che appaiono ben diverse all’orecchio dei Greci, «troiano»6 e frigio7, e che
li identificano pertanto come due popoli geograficamente vicini, ma etni‑
camente distinti (vv. 111‑6).

1.3. Un lirico precursore?

Percorrendo il corpus dei poeti lirici greci, Frigi e Troiani sembrerebbero


confusi in un solo caso, risultato, però, di una congettura moderna. Edith
Hall8 aveva considerato come parzialmente arbitraria l’integrazione di
Wilamowitz al v. 15 del fr. 42 Lobel‑Page = 42 Voigt del poeta lirico Alceo
di Mitilene, influenzata, probabilmente, proprio dalla lettura dei poeti
tragici successivi:

οἰ δ’ ἀπώλοντ’ ἀμφ’ Ἐ[λέναι Φρύγες τε (15)


καὶ πόλις αὔτων.

Così per Elena perirono i Frigi (15)


e la loro città.

La lettura Ἐ[λέναι sembra essere pienamente giustificata, in virtù della


struttura ad anello del componimento, un paragone fra Elena e Teti. Invece,

4
La Frigia del re Mida era davvero una grande potenza tra il IX e il VII sec. a.C.,
egemone in Asia Minore, e dotata di ricchezze sufficienti per importare opere d’arte e
oggetti di grande valore dalle terre vicine (anche dalla Grecia continentale), cosa che
giustificherebbe in pieno l’affermazione di Ettore. Si veda MUSCARELLA 2013, con
bibliografia.
5
Si veda la bella edizione di FAULKNER 2008.
6
Linguisticamente parlando, il «troiano» non esiste; il primo a tentare di
identificare la lingua parlata a Troia con una lingua del ceppo anatolico, il luvio, fu
Calvert Watkins, al cui articolo fondatore, WATKINS 1986, sembra utile rimandare in
questo contesto.
7
Lingua attestata frammentariamente, ma apparentata al greco e all’armeno, e
pertanto di origine balcanica: per un’utile introduzione, si veda BRIXHE 2004.
56 Milena Anfosso

se la lettura Φρύγες τε di Wilamowitz fosse corretta, essa presupporrebbe


una confusione Troia‑Frigia ben più precoce rispetto a quanto tutte le fonti
sembrerebbero indicare, e non attestata altrove nel VII sec. a.C. Tale
congettura sarebbe, a ragione, da rifiutare.

2. Tutta colpa di Eschilo?

2.1. Gli scolii ad Omero

Secondo alcuni scolii ad Omero, l’equazione Troia‑Frigia sarebbe stata


introdotta da Eschilo. Leggiamo, ad esempio, gli scolii A ad Il. 2, 862 (I 348
Erbse = fr. 446 Radt) e BCE, sempre ad Il. 2, 862 (I 349 Erbse):

ὅτι οἱ νεώτεροι τὴν Τροίαν καὶ τὴν Φρυγίαν τὴν αὐτὴν λέγουσιν, ὁ δὲ
Ὃμηρος οὐχ οὕτως. Αἰσχύλος δὲ συνέχεεν.

Riguardo al fatto che gli autori più recenti dicano che Troia e la Frigia siano
la stessa cosa, per Omero non è così. È Eschilo ad averli unificati.

τοὺς Φρύγας ὁ ποιητὴς διαστέλλει, ὁ δὲ Αἰσχύλος συνέχεεν.

Il Poeta [scil. Omero] separa i Frigi, Eschilo li unifica.

Secondo Edith Hall9, pertanto, «there is a prima facie case for believing
that it was Aeschylus, the innovator and reworker of the old myths, with
his enormous interest in βαρβαρικά, who first Phrygianised the Trojan
royal house».

Tuttavia, non esisterebbe in alcuna delle tragedie conservate di Eschilo


una prova incontestabile di una tale equazione. Appare pertinente, dunque,
concentrarsi sui frammenti delle tragedie perdute, ed in particolare di
quelle di ispirazione iliadica nelle quali, con maggior verosimiglianza,
sarebbe plausibile l’introduzione di un’eventuale, deliberata, confusione
Troia‑Frigia da parte di Eschilo, per verificare una tale ipotesi.

8
E. HALL 1988.
9
E. HALL 1988, 16.
I Frigi nell’universo tragico greco 57

2.2. L’Achilleide

Secondo la critica, infatti, Eschilo avrebbe consacrato un’intera trilogia


alla figura di Achille10, la cosiddetta Achilleide11, collocabile cronologica‑
mente, secondo West12, nei primi anni del V sec. a.C. e, più precisamente,
tra la data dell’esordio del tragediografo (fra il 499 e il 496 a.C.), e l’anno
dei Persiani13 (472 a.C.), e addirittura, almeno per Alan H. Sommerstein14,
nel 484 a.C., ovvero l’anno della sua prima vittoria. Lo stato della trilogia è
molto frammentario, ma l’autenticità delle tre tragedie è confermata dal
Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων15 e dalle altre fonti che ci trasmet‑
tono i frammenti16. Com’è noto, le tre tragedie della trilogia sono le
seguenti:

a) Mirmidoni (Μυρμιδόνες)17, tragedia che mette in scena Il. 9, 15, 16 e


l’inizio di Il. 18;

10
Per un’analisi dell’evoluzione della figura di Achille dall’epica alla tragedia, si
vedano MICHELAKIS 2002 e DESCHAMPS 2010.
11
In realtà, l’Achilleide in quanto tale non è attestata da nessuna parte: WELCKER
1824, 415‑30, fu il primo ad ipotizzare l’esistenza di tale trilogia sulla base della
congruenza dei titoli e dei soggetti. Da allora, tale ipotesi si è trasformata in certezza
per la critica, ma non bisogna tralasciare di sottolineare che, malgrado l’elevato grado
di probabilità, si tratta pur sempre di un’ipotesi: a tale proposito, si veda RADT 1986,
172.
12
WEST 2000, 340‑2.
13
Come CARRARA 2014, 51, ha ben sottolineato, è possibile datare con certezza
soltanto i drammi frammentari di Eschilo messi in scena con una delle tragedie
conservate di cui sia nota la data di rappresentazione. La maggior parte dei drammi
frammentari di Eschilo non datati per questa via dovrebbe essere attribuita, su base
statistica, alla prima fase della carriera del poeta, tra l’inizio del V sec. e il 472 a.C., per
un totale di cinquanta o sessanta tragedie perdute, a seconda che si fissi ad ottanta o
novanta opere l’ammontare della produzione totale del poeta. Il Κατάλογος τῶν
Αισχύλου δραμάτων elenca un totale di 73 titoli, ma mancano almeno 8 titoli noti da
altre fonti; la Suida cita 90 drammi; la Vita di Eschilo 70 o 75 drammi. Per una discussione
di questi dati, si veda MÜLLER 1984, 76‑7.
14
SOMMERSTEIN 2008, 135.
15
Il Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων è riprodotto in RADT 1985, 58‑9 e GANTZ
1980, 211; sulla sua origine si veda MONTANARI 2009, 395.
16
In RAMELLI 2009 si trovano le traduzioni in italiano dei frammenti, degli scolii, e
dei testi in cui si fa riferimento ai frammenti di Eschilo in altri autori secondo l’edizione
METTE 1959.
17
Per un’analisi dei frammenti, si veda GARZYA 1995b. Per il tema dell’amore
omosessuale, caro agli ideali aristocratici, tra Achille e Patroclo nella tragedia, ma mai
58 Milena Anfosso

b) Nereidi (Νηρεΐδες)18, tragedia che copre Il. 17‑23;


c) Frigi o Il riscatto di Ettore (Φρύγες ἢ Ἕκτορος λύτρα), tragedia che
rappresenta Il. 24

Infine, molto probabilmente, un dramma satiresco dal titolo I costruttori


del talamo19 (Θαλαμοποιοί) doveva chiudere la trilogia.
Come Alain Moreau20 aveva giustamente notato, Eschilo «procède par
effets d’étirements et de concentration», in quanto non distribuisce
equamente i canti omerici, ma li concentra e li espande, fino al punto di
consacrare ad un solo canto una tragedia intera, l’ultima. In tutte e tre le
tragedie, la tenda di Achille doveva essere parte integrante della scena,
elemento efficacemente descritto da Francesco Carpanelli21 come
«l’ossessionante luogo della riflessione e del dolore causato dalla morte,
metafora della solitudine dell’eroe in guerra».

3. La tragedia incriminata: i Frigi o il Riscatto di Ettore

La tragedia incriminata di Eschilo per la confusione Troia‑Frigia è


conosciuta nell’Antichità con il titolo alternativo di Φρύγες ἢ Ἕκτορος
λύτρα. Nel suo studio sui titoli, singoli, doppi o addirittura tripli, delle
pièces teatrali antiche, Alan H. Sommerstein22 ha rilevato che, fino al
250 a.C., la tragedia in questione è citata per sei volte con il primo titolo
Φρύγες, una volta con il secondo titolo Ἕκτορος λύτρα, e per tre volte con

esplicitato nell’epica, si vedano MOREAU 1996, in particolare 16‑20; FANTUZZI 2012;


CARPANELLI 2013, in particolare 72‑82.
18
La teoria di Martin L. West, secondo la quale le Nereidi dovrebbero essere
considerate come terza tragedia della trilogia, in quanto nessuno dei frammenti
conservati si riferisce esplicitamente ad una nuova armatura per Achille, e il cui
culmine doveva essere la morte dell’eroe stesso, non ha trovato seguito tra gli studiosi.
Cf. WEST 2000, e il commento di SOMMERSTEIN 2008, 157.
19
La scena doveva avere luogo a Troia e il titolo sarebbe legato alla costruzione di
una camera da letto nuziale, quella di Paride ed Elena, secondo DI MARCO 1993 (lo
studioso attribuisce all’opera un frammento non inserito in RADT 1985), oppure quella
di Ettore ed Andromaca, secondo SOMMERSTEIN 2008, 81.
20
MOREAU 1996, 7.
21
CARPANELLI 2013, 78.
22
SOMMERSTEIN 2002, 15. Lo studioso ha altresì messo in evidenza che, delle
quindici tragedie conosciute con un titolo doppio, nove sono di Eschilo e due di
Sofocle, ma nessuna di Euripide, che resta però il tragediografo più conosciuto e citato.
Si veda SOMMERSTEIN 2002, 7.
I Frigi nell’universo tragico greco 59

il titolo doppio. Il titolo costituito dall’etnonimo Φρύγες doveva essere il


titolo originale eschileo, a cui si sarebbe aggiunto, in seguito, il secondo
titolo Ἕκτορος λύτρα. Il fulcro di questa tragedia doveva essere l’incontro
tra Achille e Priamo, come descritto in Il. 24: il vecchio sovrano si reca al
campo greco per chiedere all’eroe di restituirgli il cadavere di suo figlio
Ettore, in cambio di un copioso riscatto. Sebbene in linea di massima fedele
al racconto omerico, Eschilo ritiene comunque opportuno inserire le
seguenti variazioni maggiori:

a) Nell’Iliade (24, 175‑87), Priamo, dietro suggerimento di Iris, dopo aver


preparato il carro con i doni da offrire ad Achille per riscattare il corpo
del figlio, si era avviato all’accampamento acheo da solo, accompa‑
gnato soltanto dall’araldo Ideo e dal dio Ermes. Invece, nella tragedia
eschilea, Priamo, piegato dal dolore, e verosimilmente carico di doni
(fr. 263 Radt = fr. 245 Mette), viene accompagnato da un nutrito
seguito di Frigi, da cui il primo titolo della tragedia, Φρύγες, che
costituiscono i membri del coro, e il cui ruolo doveva essere quello di
aiutare il sovrano a trasportare i doni alla tenda.

b) Achille, all’inizio della tragedia, viene ritratto seduto, in silenzio23,


con il capo coperto, ἐγκεκαλυμμένος, come leggiamo in Aristofane
(Rane, 911‑3 = fr. 212 Mette, e in due scolii riportati da Tzetzes, ad Ran.
911). Le poche parole che l’eroe scambiava all’inizio della tragedia
erano con il dio Ermes (Vita Aeschyli, frr. 22‑3 Radt = fr. 243a Mette),
che tentava invano di convincerlo ad abbandonare l’odio nei confronti
del cadavere di Ettore (fr. 266 Radt = fr. 244 Mette), ruolo
originariamente svolto dalla madre Teti nell’Iliade (24, 128‑37). La
tragedia doveva proseguire, poi, con ulteriori tentativi da parte di
altri personaggi di fare breccia nella sua ostinazione a non voler
restituire il cadavere, ma chi fossero non è del tutto chiaro poiché i
frammenti conservati non danno alcuna indicazione specifica al
riguardo24 (forse Andromaca? Cf. fr. 267 Radt = fr. 247 Mette, che
fornisce indicazioni circa la sua insolita genealogia, e fr. 264 Radt =
fr. 248 Mette, interpretabile come un nostalgico ricordo di Ettore). Solo
le parole di Priamo, nel rievocare la figura dell’anziano Peleo, padre
di Achille, piegavano l’eroe nell’Iliade (24, 486‑506).

23
TAPLIN 1972.
24
GARZYA 1995a.
60 Milena Anfosso

c) La scena culmine della tragedia, da cui deriva il secondo titolo,


Ἕκτορος λύτρα, non è esplicitamente presente nel libro 24 dell’Iliade,
ma è stata suggerita a Eschilo proprio da alcuni versi iliadici in cui
Achille sottolineava, in un’iperbolica affermazione del suo odio nei
confronti di Ettore, che non avrebbe restituito il suo corpo neppure
se questo fosse stato riscattato a peso d’oro dal padre Priamo (Il. 22,
351‑2). Gli scolii sottolineano come Eschilo «per davvero» abbia
sfruttato una tale possibilità narrativa (schol. A ad Il. 22, 351b = V 333,
53‑4 Erbse = fr. 254a Mette, schol. T ad. Il. 22, 351c1 = V 333, 56‑8 Erbse
= fr. 254b Mette), in una scena dal forte impatto visivo, trasformando,
secondo la felice definizione di Alain Moreau25, «les mots d’Homère
en spectacle». Quindi, Achille, non solo accetta il riscatto, ma decide
anche che l’ammontare venga stabilito a peso d’oro, ponendo il corpo
di Ettore su una bilancia come contrappeso. Sorprendentemente, la
rappresentazione della bilancia o della scena della pesatura non
compare mai nell’ambito della ceramografia attica26, che si concentra
piuttosto sul momento dell’incontro tra Priamo ed Achille nella tenda
dell’eroe, ma verrà, come vedremo (cf. infra § 5.2.), sfruttata altrove.

4. I Frigi del coro: identità e funzione

Il primo titolo della tragedia è dunque Φρύγες, Frigi: normalmente,


quando un dramma porta un titolo al plurale consistente in un etnonimo
si è immediatamente portati ad individuare in esso i membri del coro.
Come Laura Carrara27 ha messo in evidenza, questa inferenza non si è fino
ad ora mai rivelata errata e su di essa converge totalmente l’accordo della
critica. Per Eschilo, in particolare, Markus Gruber28 ha sottolineato il

25
MOREAU 1996, 11.
26
Nella pittura vascolare attica, a figure nere così come a figure rosse, viene
utilizzato uno schema figurativo particolare che ricorre, con variazioni minime, in tutti
gli esemplari. Achille è rappresentato banchettante, con un pezzo di carne e un coltello
in mano, disteso su un lettino, mentre Priamo, in gesto di supplica, tende le braccia
verso l’eroe. Il tavolo è imbandito e sotto il tavolo si trova il cadavere di Ettore. Spesso
compaiono i servi che accompagnano Priamo, Ermes, e le ancelle o i servi di Achille.
Per una lista completa delle rappresentazioni attiche del VI e del V sec. a.C. si vedano
KOßATZ‑DEIßMAN 1983, 148‑52; VISCONTI 2008‑2009, 35‑59.
27
CARRARA 2014, 53.
28
GRUBER 2009, 53‑4. Lo studioso cita, oltre ai Frigi, i titoli seguenti: Argive, Carii,
Cretesi, Edoni, Eleusinii, Lemniadi, Misii, Perraibides, Salaminie. Esiste tuttavia un caso,
quello delle Tracie, in cui l’etnonimo del titolo non corrisponderebbe all’ambientazione
geografica suggerita.
I Frigi nell’universo tragico greco 61

costante rapporto di interdipendenza tra titolo della tragedia, identità del


coro e localizzazione geografica della tragedia stessa. È Ateneo che, nei suoi
Deipnosofisti (1, 39), riportando due frammenti di Aristofane (fr. 696 Kassel‑
Austin = frr. 677‑8 Kock = fr. 246 Mette), conferma incidentalmente l’identità
dei Frigi della tragedia in quanto membri del coro:

Ἀριστοφάνης γοῦν—παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς ἡ περὶ τῶν τραγικῶν


ἀπόκειται πίστις—ποιεῖ αὐτὸν Αἰσχύλον λέγοντα·
‘<⏔⏕⏔⏕⏔> τοῖσι χοροῖς αὐτὸς τὰ σχήματ’ ἐποίουν’,
καὶ πάλιν·
‘… τοὺς Φρύγας οἶδα θεωρῶν,
ὅτε τῶι Πριάμωι συλλυσόμενοι τὸν παῖδ’ ἦλθον τεθνεῶτα,
πολλὰ τοιαυτὶ καὶ τοιαυτὶ καὶ δεῦρο σχηματίσαντας’.

Aristofane, dunque — dal momento che la testimonianza di un poeta


comico in favore di un tragico non può non essere degna di fede — fa dire
questo ad Eschilo:
«Sono io che ho ideato tutte le figure dei miei cori»,
E altrove:
«Conosco i Frigi per averli visti
Danzare in molte configurazioni, anche qui, allorquando
Con Priamo vennero a riscattare il suo figlio morto».

Sulla base dei dati cronologici del Marmor Parium (FGrHist 239 A 589) il
decesso di Eschilo è collocabile nel 456/455 a.C. L’Achilleide era stata messa
in scena per la prima volta all’inizio della sua carriera, tra il 490 e il 480 a.C.,
e quando Aristofane era in attività, egli doveva essere morto da diversi
anni. Tuttavia, varie fonti antiche29 attestano che le tragedie eschilee
avevano ottenuto il privilegio di potere essere rappresentate anche dopo la
morte del poeta. Pertanto, il frammento di Aristofane in questione potrebbe
a ragione riferirsi ad una replica postuma dell’Achilleide, come la formu‑
lazione «τοὺς Φρύγας οἶδα θεωρῶν» sembrerebbe indicare, ma questo non
sminuirebbe in nulla il suo valore di testimonianza sulla drammaturgia
della tragedia, anzi lo accrescerebbe. Infatti, i Frigi dovevano esibirsi in
coreografie orientalizzanti piuttosto elaborate, destinate a stupire lo
spettatore e a fissarsi indelebilmente nella sua memoria, se è vero che
Aristofane poteva farvi riferimento in questa maniera diversi anni dopo in
una battuta della commedia.
Maria Staltmayr30 aveva osservato che solo un coro di stranieri, di Frigi
in questo caso, poteva svolgere tutte le funzioni richieste dalla dramma‑

29
Si veda quanto citato in RADT 1985, 56‑8.
30
STALTMAYR 1991, 370.
62 Milena Anfosso

turgia della tragedia, poiché tale condizione rendeva possibile per loro un
lamento funebre in grado di essere una via di mezzo tra l’espressione di un
dolore smodato per la morte di Ettore e una riflessione distante sulla
caducità del genere umano in generale. In quanto gruppo anonimo, essi
potevano restare sullo sfondo durante l’incontro decisivo tra Priamo e
Achille. Inoltre, i Frigi del coro dovevano essere schiavi, servitori della
famiglia reale di Troia. Dal punto di vista di Eschilo era infatti logico
pensare che egli vi andasse con un corteo di servitori per aiutarlo a
trasportare l’ingente riscatto. Cosa di più naturale per un uomo del
V sec. a.C., ateniese, immaginare che il re di Troia avesse schiavi di origine
straniera e, più in particolare Frigi, come era la norma per il pubblico
ateniese dell’epoca?
Una tale identificazione sembrerebbe anacronistica e, allo stesso tempo,
in completa opposizione rispetto alla narrazione omerica. Secondo la
celebre definizione di Ateneo (8, 347), Eschilo era il tragico:

ὃς τὰς αὑτού τραγῳδίας τεμάχη εἶναι ἔλεγεν τῶν Ὁμήρου μεγάλων


δείπνων

che diceva che le sue tragedie erano fette dei grandi pranzi di Omero.

Ad una prima lettura non vi sarebbe alcun motivo di pensare che Eschilo
avrebbe distorto la narrazione omerica trasformando in schiavi i Frigi, gli
alleati per eccellenza dei Troiani dai tempi della lotta contro le Amazzoni
(Il. 3, 184‑9), e legati alla famiglia reale troiana per via delle origine frigie
della regina Ecuba (Il. 16, 715). In una prospettiva omerica essi avrebbero
potuto essere degli anziani della generazione di Priamo, dei notabili, forse
membri della famiglia di Ecuba, e non avrebbero dovuto limitarsi ad un
ruolo di sfondo, ma anche partecipare agli eventi dal punto di vista
emotivo. Questa posizione31 non può essere condivisa in questo caso.
Eschilo amava piegare i miti per assecondare le proprie necessità sceniche:
se era riuscito a trasformare il fiero Achille omerico in un νεκροπέρνας,
un «venditore di cadaveri» senza scrupoli32, secondo l’icastica definizione
licofronea33, perché non avrebbe dovuto «cancellare» l’omerica alleanza tra
Troiani e Frigi e aggiungere, seppur anacronisticamente, un tocco esotico
alla tragedia con le danze di un coro orientalizzante?

31
Si veda SAMMARTANO 2000, 172.
32
STAMA 2015, 71‑2.
33
Licofrone, Alessandra, 276.
I Frigi nell’universo tragico greco 63

Tuttavia, anche in questo caso, non bisogna esagerare: l’innovazione per


quanto riguarda il coro doveva limitarsi strettamente a questo. Gli schiavi
Frigi restavano schiavi Frigi, con una funzione scenica ben precisa:
ravvivare con i loro costumi orientalizzanti, le loro danze, i loro canti, una
tragedia che doveva essere piuttosto statica, con un Achille immerso in un
impenetrabile silenzio, e un numero imprecisato di personaggi all’assalto,
in un crescendo di argomentazioni serrate volte a farlo cedere alle richieste
del re Priamo, fino al momento cruciale della pesatura del cadavere di
Ettore. I loro costumi sgargianti, nonché i loro lamenti, dovevano essere in
contrasto con la figura ieratica, sofferente, eppure piena di dignità,
dell’anziano sovrano di Troia. Gli schiavi Frigi e il re Troiano Priamo
dovevano costituire due insiemi separati e ben distinti nella tragedia.

5. Un sistema complesso

Allora, come si sarebbe giunti all’impiego sinonimico di questi due


etnonimi, «Troiani» e «Frigi», in origine così differenti? Possiamo davvero
imputare ad Eschilo una confusione così gravida di conseguenze nella
letteratura successiva?

5.1. Il contesto storico

Per poter rispondere a queste domande, occorre allargare il nostro punto


di vista per abbracciare con lo sguardo l’intero contesto storico.

5.1.1. Le Guerre Persiane e l’identificazione Troiani‑Persiani


Le Guerre Persiane (499‑479 a.C.) costituiscono un momento cardine per
la formazione dell’identità greca, quello che avrebbe portato di fatto
all’identificazione dei Troiani con gli antesignani dei Persiani. In realtà, se
si segue Erodoto (7, 43), l’idea dell’equivalenza tra Persiani e Troiani doveva
provenire addirittura dai Persiani stessi: secondo lo storico, Serse, con
un’abile mossa di propaganda politica, avrebbe giustificato l’invasione
dell’Europa con la vendetta dei popoli asiatici sui Greci per via della
sconfitta a Troia. E per identificarsi al meglio in questo ruolo, prima di
lasciare l’Asia Minore, fece una sosta a Ilion34: visitò la cittadella di Priamo,

34
Secondo Dominique Lenfant (LENFANT 2004, 79), forse furono proprio dei Greci,
quelli che gravitavano intorno alla corte achemenide, come i Pisistratidi, o lo spartano
Demarato, a suggerire a Serse una tale mossa.
64 Milena Anfosso

rese omaggio ad Atena Iliaca con un sacrificio di mille buoi e i suoi Magi
offrirono libagioni agli eroi. Dal momento che anche la Troade faceva parte
dell’impero achemenide al momento del passaggio di Serse, il Gran Re
poteva facilmente adottare le tradizioni locali per puro pragmatismo
politico.
Sarebbe più logico pensare che una tale equivalenza Persiani‑Troiani si
fosse presentata alla mente dei Greci fin dall’inizio del conflitto; e invece
non ve n’è alcuna traccia fino alla fine della Seconda Guerra Persiana (480‑
479 a.C.). Fino a quando, cioè, i Greci, uniti in una coalizione, esattamente
come avvenne a Troia, non ebbero la percezione esatta della vittoria, di aver
annientato il nemico persiano, così come avevano fatto con il nemico
troiano35. Entrambi asiatici, ed entrambi meritevoli di essere sconfitti per
un atto di hybris. Dal punto di vista politico, inoltre, l’identificazione dei
Persiani con i Troiani non faceva che legittimare ancora di più le mire
espansionistiche di Cimone, della Lega Delio‑Attica, e i conseguenti
attacchi in suolo asiatico.
Come sottolinea Dominique Lenfant36, fu proprio in questo contesto di
affermazione della propria identità greca in opposizione all’identità dei
propri nemici persiani che bisogna inquadrare l’elaborazione del concetto
di barbaro, non‑Greco, addirittura anti‑Greco, e la conseguente confusione
Troia‑Frigia che ci interessa in questo intervento. I contesti privilegiati per
una tale operazione furono, ovviamente, la letteratura e l’iconografia, in
quanto fruitori di un codice simbolico che si serviva naturalmente delle
figure del mito. Se si esclude il solo esempio interamente conservato dei
Persiani37 di Eschilo, dramma storico che non contiene alcuna allusione al
modello troiano, di fatto i Persiani si reincarnano in figure mitiche, i Troiani,
che vengono a loro volta profondamente modificati rispetto al modello
epico originario.
Nell’Iliade, infatti, non vi è alcuna differenza fra Troiani ed Achei, né
alcuna opposizione binaria fra loro: essi condividono apparentemente la
stessa lingua38, le stesse divinità, gli stessi valori eroici, pressoché gli stessi

35
MILLER 1995, 460.
36
LENFANT 2004, 83.
37
I Persiani dell’omonima tragedia sono sicuramente caratterizzati dal lusso, ma
non presentano gli altri tratti denigranti tipici nelle tragedie degli autori successivi.
Eschilo non li disprezza né si prende gioco di loro; semplicemente li presenta, con
grande dignità, nella loro differenza. A tale proposito, si veda J. HALL 2002, 175‑6.
Invece, E. HALL 1989, 117‑21, spiega bene i procedimenti messi in atto da Eschilo per
produrre l’effetto di un accento straniero nella tragedia.
38
Si vedano LEJEUNE 1948, 53; MACKIE 1996.
I Frigi nell’universo tragico greco 65

usi e costumi. Non solo, secondo Il. 3, 184‑9, i Frigi di Migdone e Otreo e il
re troiano Priamo condividono con l’eroe greco civilizzatore per eccellenza,
Eracle39, la lotta contro l’incarnazione del mondo barbaro, le Amazzoni, e
si inscrivono, dunque, nella stessa volontà di civilizzazione in un momento
storico in cui i Troiani e i loro amici e alleati Frigi sono ancora rappresentati
in una funzione strettamente anti‑barbarica. Dal punto di vista simbolico,
non sembra fuori luogo ricordare che addirittura sui fregi dell’Amazzono‑
machia del lato occidentale del Partenone, veicolo principale della
propaganda ateniese, non sono i Troiani ad essere rappresentati in costumi
orientalizzanti, ma proprio le Amazzoni40.

5.1.2. I Frigi, questi sconosciuti


Ma cos’hanno allora a che vedere i Frigi con i Persiani? Etnicamente,
nulla. I Frigi, quelli veri, erano di origine balcanica41, e parlavano
paradossalmente l’idioma che più si avvicinava al greco fra tutte le lingue
indoeuropee42. Si insediarono in Asia Minore a partire dal XIII sec. a.C.,
sulle rovine del grande impero ittita, come gli scavi nella capitale frigia,
Gordion, testimoniano43. Dopo essere divenuti una grande potenza tra il
IX e il VII sec. a.C., la cosiddetta Grande Frigia del leggendario Re Mida,
essi furono soggiogati dai Lidii, i quali riuscirono, sotto la guida del
sovrano Aliatte (610‑561 a.C.), a scacciare i nomadi Cimmeri e ad ottenere
il controllo sull’intera Asia Minore. A metà del VI sec. a.C., e più
precisamente a partire dal 546 a.C., la conquista di Sardi da parte di Ciro il
Grande marcò l’annessione dell’Asia Minore alla Persia, che venne ad
impossessarsi così dei territori appartenuti precedentemente alla Lidia, tra
cui, appunto, la Frigia, che divenne parte dell’impero persiano44.

39
Apollonio Rodio (2, 775‑810) racconta che l’eroe Eracle, nell’ambito delle Dodici
Fatiche e, nella fattispecie, della nona (consegnare a Euristeo la cintura della regina
delle Amazzoni Ippolita), aveva sottomesso numerosi popoli mentre attraversava
l’Anatolia. Tra questi popoli, vi erano anche i Frigi Migdoni, che furono affidati a
Dascilo, evidentemente l’eroe eponimo di Daskyleion in Frigia Ellespontica, re dei
Mariandini. Ora, secondo una versione attribuita allo storico Timeo di Tauromenio,
ma riportata da Diodoro Siculo (4, 32), Eracle stesso fu il responsabile dell’installazione
di Priamo sul trono di Troia. Egli era stato, infatti, il solo dei figli di Laomedonte ad
opporsi alla volontà del proprio padre di non consegnare all’eroe i cavalli che gli erano
stati promessi, un gesto che gli permise di conservare allo stesso tempo la vita e il
trono.
40
MILLER 1995, 457.
41
MANOLEDAKIS 2016.
42
BRIXHE 2004.
43
Si veda, ad esempio, ROSE 2013.
44
Per la storia dell’impero persiano, si veda BRIANT 1996.
66 Milena Anfosso

Un insediamento frigio di una certa importanza, almeno a partire


dall’VIII sec. a.C., di nome Daskyleion, si trovava nell’area nord‑occidentale
della penisola anatolica, proprio nella regione della Troade. I contatti con
le genti greche delle colonie asiatiche non dovevano mancare in questa
zona fin dall’epoca arcaica, come le ceramiche greche ritrovate sembrano
attestare45. Dopo la conquista dell’Asia Minore, i Persiani decisero di
collocarvi la capitale della satrapia conosciuta come Frigia Ellespontica46.
Gli scavi intrapresi dal Museo di Çanukkale vicino ai siti di Biga e Can,
lungo il fiume Granico, proprio a metà strada tra Troia e Daskyleion, hanno
permesso di riportare alla luce dei reperti storici di grande valore risalenti
all’epoca della dominazione persiana47, in stile «greco‑persiano». Una tale
collocazione geografica doveva, dunque, accentuare l’idea di una corri‑
spondenza tra antichi Troiani, Frigi e Persiani contemporanei.
Gli incontri dei Greci con i Frigi dovevano avvenire anche sul continente
greco, dal momento che la Frigia riforniva con il suo «capitale umano» il
mercato degli schiavi per la vendita non solo in Asia Minore48, ma anche
nelle grandi città come Atene. Anzi, nell’Atene del V sec. a.C., quello dello
«schiavo frigio» divenne un vero e proprio topos della letteratura49, come
attestato in particolare dai comici Aristofane ed Ermippo, e l’antroponimo

45
Si veda KERSCHNER 2005.
46
Erodoto (3, 90) non distingue tra Grande Frigia e Frigia Ellespontica. La prima
menzione esplicita di una bipartizione della Frigia appare forse in Xanthos di Lidia,
citato da Strabone (1, 49), e in maniera più precisa nella Ciropedia di Senofonte (1, 1, 4;
7, 4, 8; 7, 4, 16). La descrizione più completa delle due Frigie si trova proprio in
Strabone (12, 8, 1), ma presenta la situazione al suo tempo, cioè nel I sec. d.C., in epoca
romana.
47
Tre tumuli monumentali scavati durante l’ultimo decennio hanno restituito una
serie di sarcofagi in marmo riccamente decorati, collocabili cronologicamente tra il VI
e l’inizio del IV secolo a.C., in stile «greco‑persiano». Nel primo tumulo, detto
Kizöldün, sono stati trovati due sarcofagi in marmo e resti del carro funebre che
avrebbe trasportato il corpo del defunto per la sepoltura. Il sarcofago più antico,
risalente al 500 a.C. circa, è il più antico esemplare lapideo con scene figurate mai
trovato in Asia Minore: due di esse sono dedicate ad un episodio mitico della fine della
guerra di Troia, l’uccisione di Polissena da parte di Neottolemo, al cospetto della madre
Ecuba, che si accascia a terra per il dolore. Cf. DUSINBERRE 2013, 171‑5.
48
Già nel VI sec. a.C. Ipponatte citava la vendita di schiavi provenienti dalla Frigia
a Mileto (fr. 27 West = 38 Degani): καὶ τοὺς σολοίκους ἢν λάβωσι περνᾶσι, / Φρύγας
μὲν ἐς Μίλητον ἀλφιτεύσοντας, «e se li catturano i barbari li vendono, Frigi a Mileto,
per macinare orzo».
49
Schiavi frigi sono menzionati da Aristofane come oggetto di insulti e punizioni
fisiche in Uccelli, 1244‑1245 e 1326‑1329; per quanto riguarda la marchiatura come
punizione degli schiavi, si veda Platone, Leggi, 9, 854d; Eronda 2, 100; 5, 27‑28; 65‑66.
I Frigi nell’universo tragico greco 67

frigio Manes si trasformò ben presto nel sinonimo esatto per «schiavo»50.
Come Senofonte (Poroi, 2, 3) ci informa, anche una buona percentuale di
meteci, tra cui schiavi resi liberi, doveva essere di origine frigia. Non
doveva stupire, dunque, un coro di servitori frigi per il re di Troia, anzi si
allineava, seppur anacronisticamente, alle aspettative del pubblico ateniese
dell’epoca per un sovrano come Priamo. Tuttavia, come Erodoto (7, 73) ci
fa notare, anche un contingente di Frigi era stato arruolato nell’imponente
esercito di Serse durante la Seconda Guerra Persiana. Pertanto, uno scenario
come quello descritto da Timoteo di Mileto nel suo ben noto nomo, i
Persiani, in cui un pavido soldato frigio51 implora, in un greco stentato a
patina ionica, un soldato greco di risparmiargli la vita durante la battaglia
di Salamina, non doveva essere del tutto inverosimile.

5.2. I dati iconografici

Si passeranno ora in rassegna le fonti iconografiche legate in qualche


modo ai Frigi di Eschilo, prestando una particolare attenzione alla figura
di Priamo.

5.2.1. La raffigurazione di Priamo


In virtù della datazione alta delle tragedie di Eschilo, possiamo affer‑
mare che egli si collocasse ad uno stadio iniziale del processo di costruzione
della figura del barbaro persiano effemminato, amante del lusso, sfrenato

Essi vengono utilizzati nelle case: Vespe, 433, Lisistrata, 908; nelle fattorie: Pace, 1146‑
1148; e anche come minatori. Ermippo (fr. 63 Kock, v. 18) cita, insieme ad altri beni, gli
schiavi frigi, ἀνδράποδ’ ἐκ Φρυγίας, «schiavi dalla Frigia», come uno dei vantaggi
portati dal commercio e dalla navigazione.
50
Si veda BÄBLER 1998, 158‑9, in particolare il commento all’epigramma 733
dell’Antologia Graeca: Μάνης οὗτος ἀνὴρ ἦν ζῶν ποτέ νῦν δέ τεθνηκώς ἶσον Δαρείῳ
τῷ μεγάλῳ δύναται, «Quest’uomo era Manes in vita; ma ora, in morte, è Dario, il più
potente dei re».
51
Nel terzo dei quattro discorsi diretti introdotti nel nomo per descrivere la
battaglia navale di Salamina, con un notevole sforzo mimetico, e rendendo il livello
stilistico proporzionale alla persona loquens, Timoteo decide di dare la parola ad un
soldato frigio di Celene, una città della Frigia sud‑occidentale. Il contesto del dialogo
è descritto nei versi che precedono il discorso diretto, attraverso l’introduzione
dell’avversario greco (vv. 140‑9), a cui il soldato frigo si rivolge poi in greco (vv. 150‑
61). Si vedano HORDERN 2002; LAMBIN 2013; il mio intervento «Un soldat phrygien qui
parle grec dans l’armée perse: Timothée de Milet, Perses, 140‑161», tenuto nell’ambito
del Convegno Internazionale «Beyond all Boundaries: Anatolia in the Ist Millennium
BC», Ascona, Conference Center Monte Verità, 17‑22 giugno 2018 (prossima
pubblicazione).
68 Milena Anfosso

e crudele, che trova il proprio apice nella letteratura epidittica52 del


IV sec. a.C., e con cui i Troiani vennero identificati in seguito alle Guerre
Persiane. Eschilo introdusse nei Frigi un coro di schiavi frigi, innovando
rispetto al racconto omerico, è vero, ma la sua innovazione doveva limitarsi
a questo, e strettamente per motivi scenici. Il re Priamo, però, descritto (fr.
263 Radt = fr. 245 Mette) non più come un sovrano,

ἀλλὰ ναυβάτην
φορτηγόν, ὅστις ῥῶπον ἐξάγει χθονός

ma come un mercante
che va per mare ed esporta merce dal suo paese

doveva restare un re troiano nel senso omerico del termine, non persiano,
come le fonti iconografiche testimoniano, almeno fino alla fine del
V sec. a.C.
Margaret C. Miller53 ha sottolineato come l’orientalizzazione del re Pria‑
mo nell’arte greca sia piuttosto tardiva, e collocabile solo verso la fine del
V sec. a.C., proprio in virtù della simpatia di cui godeva questo personag‑
gio. Più in particolare54, si può assistere ad una parziale persianizzazione
di Priamo a partire dal 440 a.C. circa, per passare ad una totale persianizza‑
zione a partire dal 400 a.C. circa. Invece, personaggi più sgradevoli, come
Paride in particolare, assumono attributi orientali quali armi, gioielli e abiti,
già nel corso del VI sec. a.C. Se l’Achilleide fu rappresentata per la prima
volta indicativamente tra il 490 a.C. e il 480 a.C., cioè all’inizio del
V sec. a.C., vi sono allora buone ragioni di credere che sulla scena il re
Priamo non fosse trattato diversamente.
Nel Commento a Omero di Eustazio a Iliade 24, 162 (fr. 243b Mette),
leggiamo che la figura di Priamo velato e affranto, quale è descritta in Iliade
24, 162‑165, avrebbe ispirato il pittore Timante di Sicione, o meglio, di
Citno55 (attivo, probabilmente, fra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C.)

52
Una prova di quanto appena detto si trova, ad esempio, nel Panegirico (§159) di
Isocrate, in cui l’oratore, per spronare i Greci ad unirsi in una spedizione contro i
Persiani nel 380 a.C., considera la poesia di Omero come il mezzo per inculcare nei
giovani l’odio per il barbaro, categoria nella quale si fondono i Troiani, antichi nemici,
e i Persiani, nuovi nemici.
53
MILLER 1995, 449.
54
Dati comunicati da Margaret C. Miller in un intervento dal titolo «The
Persianization of Greek Myth», tenuto nell’ambito del Simposio Internazionale
«Ancient Persia and the West», University of California, Los Angeles, 25 aprile 2018.
55
Quintiliano (Inst. Orat. 11, 13, 12) definisce Timante, con maggior verosimi‑
I Frigi nell’universo tragico greco 69

per il suo Agamennone, dipinto appunto, velato, durante il sacrificio di


Ifigenia in Aulide. Stando a Eustazio, pare che:

[…] ὅπερ καὶ Αἰσχύλος μιμησάμενος τήν τε Νιόβην καὶ ἄλλα πρόσωπα
ὁμοίως ἐσχημάτισε, σκωπτόμενος μὲν ὑπὸ τοῦ Κωμικοῦ, ἐπαινούμενος
δὲ ἄλλως διὰ τὸ τῆς μιμήσεως ἀξιόχρεων.

[…] Il che, appunto, Eschilo imitò, rappresentando in un simile aspetto sia


Niobe sia altri personaggi, e fu per questo deriso dal Comico [scil. Aristo‑
fane], mentre fu lodato da altri per la corrispondenza mimetica.

Dunque, secondo Eustazio (seppur anacronisticamente per quanto ri‑


guarda Timante di Citno, dal momento che il pittore era attivo nella
seconda metà del V sec. a.C.), Eschilo si sarebbe ispirato ad una rappresen‑
tazione iconografica56 per la sua Niobe velata, suggerita direttamente dal
personaggio di Priamo come descritto in Il. 24, 162‑165. Se seguiamo
Aristofane, Rane, 911‑913, tra gli altri personaggi velati delle tragedie
eschilee ci sarebbe anche Achille, e, in consonanza con quanto descritto in
Il. 24, 162‑165, possiamo verosimilmente dedurre che dovesse necessaria‑
mente esserlo anche Priamo, in segno di lutto, nei Frigi.

5.2.2. I bassorilievi
Se si considerano le fonti iconografiche legate in qualche modo ai Frigi,
la prima rappresentazione della pesatura del cadavere di Ettore su di una
bilancia compare su di un rilievo melio57 risalente al 450‑440 a.C.: su di essa
il re Priamo si trova a destra della bilancia, mentre due personaggi vi
appoggiano sopra gli oggetti preziosi del riscatto. La figura del re Priamo
non presenta alcun tratto orientalizzante: ha il capo coperto in segno di
lutto, e mentre guarda il figlio morto che giace nudo, per terra, davanti alla
bilancia, porta la mano sul volto in segno di dolore. La rappresentazione
sul rilievo è inedita, e non presenta punti in comune né con la tradizione

glianza, nativo di Citno; la diversa provenienza fornita da Eustazio potrebbe essere


dovuta alla confusione di questo pittore con il suo omonimo di Sicione del III sec. a.C.
(MORENO 1966, s.v. Timanthes).
56
In realtà, secondo MORENO 1966, s.v. Timanthes, il modello dell’Agamennone
velato di Timante di Citno non sarebbe originale, ma dipenderebbe direttamente da
quello dell’Eleno nell’Ilioupersis di Polignoto di Taso, attivo anche ad Atene nella prima
metà del V sec. a.C., e dunque contemporaneo di Eschilo. C’è in ogni caso uno stretto
legame tra rappresentazione iconografica e teatrale.
57
Rilievo melio. Toronto, Ontario Mus. 926, 32. Datato al 450‑440 a.C. STILP 2006,
193‑4, num. 55.
70 Milena Anfosso

iconografica della ceramica attica né con quella corinzia: essa sembrerebbe


suggerire una certa vicinanza con la tragedia eschilea.
Degno di nota è anche un altro bassorilievo, questa volta su di un cratere
in ceramica proveniente da Egnazia58 e conservato a Berlino. Benché
considerato imitazione del XIX sec. di un’originale antico, vale la pena
citarlo poiché il modello del rilievo di tale cratere doveva essere ispirato
proprio dalla tragedia eschilea. Su di un lato, vediamo Achille alla guida
del carro intento a trascinare il cadavere di Ettore, inseguito da un’Erinni;
sull’altro, è raffigurato l’arrivo di Priamo alla tenda dell’eroe. Il re è curvo,
appoggiato al suo bastone, ha il capo coperto dal mantello in segno di lutto
ed è carico di doni. Seguono due servitori, anch’essi carichi di doni, che
potremmo verosimilmente identificare con i Frigi del coro.

5.2.3. La pittura vascolare


Nel IV sec. a.C., la trattazione del personaggio cambia completamente.
Su di un cratere59 apulo a figure rosse conservato al museo dell’Ermitage
S. Pietroburgo, databile intorno al 350 a.C., il re Priamo si trova al centro
della fascia inferiore, vestito questa volta alla maniera orientale con un
ramoscello di supplice tra le mani. Accanto a Priamo, due servi trasportano
il corpo senza vita di Ettore, presumibilmente verso l’estrema sinistra del
vaso, in direzione della bilancia, mentre a destra si nota Teti. Gli altri
personaggi60 si trovano sulla fascia superiore del cratere: Achille, seduto al
centro e con il capo coperto; accanto a lui, le divinità Atena ed Ermes61 e,
rispettivamente sulla destra e sulla sinistra, Antiloco e Nestore, appoggiato
a un bastone. La rappresentazione di Priamo in ricchi abiti orientali del
cratere dell’Ermitage è confrontabile con quella su due frammenti di
cratere, ancora di fattura apula, conservati al Metropolitan Museum di New

58
Bassorilievo su cratere in ceramica da Egnazia. Riproduzione di un originale
antico. Krater F 3884, Berlin, Staatlische Museen zu Berlin, Antikensammlung.
WUILLEUMIER 1930, 92, n. 7; KOSSATZ‑DEISSMANN 1978, 25, 30‑1.
59
Cratere a volute apulo. S.Pietroburgo, Ermitage Mus. B1718. Datato al 350 a.C.;
attribuito al Pittore di Licurgo. TRENDALL‑CAMBITOGLOU 1978‑1982, 424.
60
I nomi dei vari personaggi sono letteralmente incisi sul vaso, cosa che ne agevola
notevolmente l’identificazione.
61
La forte somiglianza con la tragedia eschilea ha fatto ipotizzare a GARZYA 1995a,
47, che possa trattarsi di una prova della presenza nel dramma di Atena, in quanto
protettrice di Achille, insieme all’altra divinità, Ermes, anche se forse, come MOREAU
1996, 8, sottolinea, il pittore doveva essere «infidèle à la lettre, mais fidèle à l’esprit»,
nel senso che forse era stato in grado di cogliere il parallelismo del ruolo conciliatore
delle due divinità, l’una nei Frigi, l’altra nelle Eumenidi.
I Frigi nell’universo tragico greco 71

York, l’uno62 databile intorno al 390 a.C., in cui Priamo, in ginocchio,


sembra portare addirittura un copricapo orientale, e l’altro63 intorno
350 a.C., più piccolo, in cui si intravede Priamo supplice ai piedi di Achille,
e con quella su di una lekythos64 apula attribuita al pittore di Dario, risalente
al 340‑330 a.C., che però non raffigura il Riscatto di Ettore, bensì la famiglia
reale troiana. Tale somiglianza farebbe pensare ad un motivo ispirato da
una replica dell’Achilleide dell’inizio del IV sec. a.C., in cui la figura di
Priamo, troiano, risulterebbe ormai del tutto integrata a quella dei Frigi del
coro.

5.3. I dati testuali

Si ripercorrerà ora l’intero corpus tragico conservato (tragedie integrali


e frammenti) al fine di reperire le occorrenze dell’etnonimo «Frigi» e di
distinguere quando esso venga usato in senso proprio e quando, invece,
come sinonimo di «Troiani».

5.3.1. Eschilo
Non si può condividere un’interpretazione sbrigativa secondo la quale
fu proprio Eschilo l’autore responsabile della confusione Troia‑Frigia e
dell’uso dei due etnonimi in qualità di sinonimi, come si può osservare
invece negli autori tragici successivi. Ripercorrendo il corpus eschileo
conservato, infatti, la Frigia e i Frigi sono nominati da Eschilo solo due
volte:

• al v. 770 dei Persiani, Λυδῶν δὲ λαὸν καὶ Φρυγῶν ἐκτήσατο, in cui si


descrivono le conquiste di Ciro il Grande, che comprendevano anche la
Frigia e la Lidia;

• al v. 548 delle Supplici, μηλοβότου Φρυγίας διαμπάξ, in cui la Frigia viene


definita «pascolo per le greggi».

In alcun caso essi risultano essere stati assimilati ai Troiani, o la Frigia


alla Troade. Non vi è pertanto motivo di pensare che egli l’abbia fatto

62
Frammento di cratere. New York, Metropolitan Museum 20.195. Datato al 390
a.C. TRENDALL‑CAMBITOGLOU 1978‑1982, 166.
63
Frammento di cratere. New York, Metropolitan Museum 10.210.17A. Datato al
350 a.C. e messo in relazione con il Pittore di Konnakis. KOßATZ‑DEIßMANN 1978, 23‑
32, tav. 3, num. 2.
64
Lekythos. Ginevra, Collection Musée d’art et d’histoire, HR 134. Datata al 340‑330
a.C. e attribuita al Pittore di Dario. AELLEN‑CAMBITOGLOU‑CHAMAY 1986, 136‑49.
72 Milena Anfosso

deliberatamente nella terza tragedia dell’Achilleide, soprattutto in virtù della


datazione alta. Quanto ai frammenti, si citerà il fr. 446 Radt, il solo che
potrebbe essere utile ai fini di questo studio, e che non è stato attribuito
all’Achilleide :

Φρύγες vel/et Φρυγία.

Frigi o/e Frigia.

Non abbiamo purtroppo alcuna indicazione che ci permetta di compren‑


dere il contesto di questo frammento e, dunque, di trarne conclusioni utili.
Se è vero che il Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων distingue tra due
tragedie diverse, l’una dal titolo Φρύγες e l’altra dal titolo Φρύγιοι, è anche
altrettanto vero che si tratta dell’unica fonte che attesterebbe l’esistenza di
tale tragedia. Friedrich Heinrich Bothe65 fu il primo a pensare che, nel caso
in cui non si trattasse di un doppione del Riscatto di Ettore, in realtà potrebbe
essere la corruzione di Φρύγιαι, forse il titolo di un’altra tragedia con un
coro di donne troiane o del territorio circostante, ma non abbiamo alcun
indizio al riguardo. Sommerstein66, dal canto suo, aveva fatto notare che
un tale titolo Φρύγιοι sarebbe contrario all’uso del V sec. a.C. dell’aggettivo
Φρύγιος, attestato solo in funzione di aggettivo.
Mette attribuisce poi ai Frigi, a Priamo, per essere precisi, un verso (fr.
250 Mette = fr. 295 Nauck, apparentemente contenuto anche in P.Oxy. XX
2256 fr. 87) tratto da Partizioni omeriche, Anecdota Oxoniensia, Cramer, I, 119,
10, addotto come esempio per l’uso della preposizione causale διαί, che
confermerebbe l’uso del toponimo Troia, senza ricorrere ad alcuna perifrasi
che includa i Frigi:

πᾶσα γὰρ / Τροία δέδουπεν Ἕκτορος τύχης διαί

Tutta Troia, infatti, ha risuonato cupamente per la sorte di Ettore.

Addirittura, il fr. 252 Mette (= P.Oxy. XX 2256 fr. 85) è stato attribuito dal
filologo al coro e, secondo la sua lettura, conterebbe esplicitamente
l’etnonimo «Troiani», Τρώων, cosa che sarebbe davvero utile ai fini di
questo studio, in quanto menzionerebbe gli abitanti di Troia in quanto
«Troiani», e non «Frigi». Tuttavia, se si guarda allo stato lacunoso del papiro
in questione, risulta abbastanza difficile, almeno per quanto mi riguarda,
esprimere un giudizio insindacabile in merito67.

65
BOTHE 1844.
66
SOMMERSTEIN 2008, 263‑5.
67
Per questo frammento di tradizione diretta papiracea si è consultata la fotografia
I Frigi nell’universo tragico greco 73

<ΧΟΡ.>       ] ̣ ̣ [             ] . ν̣ . ϕρ̣ έ̣ ν̣ ας


ἡ] Τ̣ ρ̣ ώων̣ π[ολ]υ̣ δ̣ [ά]ϰ̣ρυ̣ τ̣ ο̣ ς̣ α̣ ῖ̣ [σ]α

<Coro:>… animi
La molto lacrimevole sorte dei Troiani
[…]

5.3.2. Sofocle
Se guardiamo ai tragici successivi, invece, la situazione cambia. Per
quanto riguarda Sofocle, i Frigi sono nominati in una sola tragedia
conservata interamente, l’Aiace (Αἴας), rappresentata tra il 450 e il 440 a.C.,
probabilmente nel 445 a.C., ai vv. 210, 488, 1054, 1292. Per il resto, li tro‑
viamo citati nei frammenti delle seguenti tragedie: nel fr. 364 Radt di Kophoi
Satyroi (Κωφοί Σάτυροι), nel fr. 412 Radt dei Misii (Μυσοί), nel fr. 368 Radt
delle Lakainai (Λάκαιναι), nel fr. 373 Radt del Laocoonte (Λαοκόων). I Frigi,
però, risultano confusi con i Troiani soltanto tre volte in totale:

• nel fr. 368 Radt: […] ἄρξασι Φρυξὶ τὴν κατ’ Ἀργείους ὕβριν […],
«quando i Frigi diedero inizio all’oltraggio nei confronti degli Argivi»;

• nel fr. 373 Radt: […] συνοπάζεται δὲ πλῆθός οἱ πόσον δοκεῖς, / οἳ


τῆσδ’ ἐρῶσι τῆς ἀποικίας Φρυγῶν, «E lo [scil. Enea] accompagna una
folla, non puoi immaginare quanto grande, di coloro che desiderano
prendere parte a questa migrazione dei Frigi»;

• nell’Aiace, al v. 1054: ἐξηύρομεν ξυνόντες ἐχθίω Φρυγῶν, «abbiamo


riconosciuto, avendo a che fare con lui, un nemico peggiore dei Frigi».

Sappiamo, inoltre, che Sofocle avrebbe scritto una tragedia dallo stesso
titolo di quella di Eschilo, i Frigi, Φρύγες, alla quale sono stati attribuiti
soltanto due frammenti (frr. 724‑725 Radt), e la cui trama doveva essere
ispirata verosimilmente a quella della tragedia dell’illustre predecessore,
se è vero quanto si legge in uno scolio al Prometeo (schol. ad Prom. 436), cioè
che Achille restava in silenzio anche nella tragedia sofoclea, benché il mo‑
tivo addotto risultasse essere la sua caparbietà (αὐθάδεια). Nei frammenti
conservati di questa tragedia non ci sono tracce, purtroppo, dell’uso
sinonimico dei due etnonimi Frigi e Troiani.

accessibile online al seguente link http://163.1.169.40/gsdl/collect/Poxy/index/assoc/


HASHfdc8.dir/Poxy.v0020.n2256.a.04.hires.jpg. Le lettere chiaramente distinguibili sono
le due omega centrali; del nu che segue sarebbero riconoscibili i segmenti delle asticelle
verticali, mentre il rho che precede è difficilmente riconoscibile; manca del tutto il tau.
74 Milena Anfosso

5.3.3. Euripide
In Euripide, invece, la nuova tendenza che vede l’uso sinonimico dei
due etnonimi «Frigi» e «Troiani» e l’identificazione concettuale con i Per‑
siani, trova il proprio punto di arrivo. Nelle tragedie conservate e nei
frammenti restanti, dal 429 a.C. (se si accetta la datazione più alta per
l’Andromaca) al 405 a.C., i Frigi e la Frigia sono nominati per un totale di
122 volte, di cui 101 per fare riferimento ai Troiani, a Troia, o alla Troade,
nelle tragedie ispirate alla saga troiana, fino a un massimo di 25 volte
rilevato nelle Troiane (415 a.C.). I sinonimi per Troia che Euripide utilizza
più spesso sono del tipo Φρυγῶν πόλις, Φρυγῶν γαῖα, Φρυγῶν χθών.
Tuttavia l’utilizzo dell’etnonimo per identificare realtà genuinamente frigie
coesiste, in particolare modo nelle Baccanti (405 a.C.). Ecco la lista dei dati:

• nell’Alcesti (438 a.C.), l’uso sinonimico dei due sinonimi non è


attestato, ma uno schiavo effettivamente frigio è nominato al v. 675;

• nell’Andromaca (fra il 429 e il 425 a.C.), l’uso sinonimico è attestato ai


vv. 194, 204, 291, 363, 455, 592, 1044;

• nell’Ecuba (424 a.C.), ai vv. 4, 350, 492, 776, 827, 1063, 1111, 1141;

• nelle Troiane (415 a.C.), ai vv. 7, 18, 24, 64, 338, 391, 418, 432, 476, 531,
563, 567, 575, 709, 716, 754, 773, 926, 960, 974, 994, 1164, 1208, 1210,
1288, ma con le seguenti eccezioni: al v. 151, musica frigia; v. 545,
melodie frigie; v. 1075, festività sacre di Frigia; v. 1220, abito frigio;

• nell’Elettra (413 a.C.), ai vv. 314, 336, 457, 681, 917, 1001, 1281;

• nell’Elena (412 a.C.), ai vv. 39, 42, 109, 229, 369b, 573, 608, 928;

• nell’Oreste (408 a.C.), ai vv. 888, 1382, 1434, 1480b, 1484, 1515, 1518,
1614, 1640, ma ai vv. 1111, 1367, 1417, 1447, 1473, si fa esplicitamente
riferimento agli schiavi frigi, mentre al v. 1351 alla codardia
proverbiale dei Frigi e al v. 1426 (2x) ai costumi frigi;

• nell’Ifigenia in Aulide (405 a.C.), ai vv. 71, 92, 662, 672, 682, 773, 788,
970, 1053, 1197, 1284, 1290, 1379, 1476, 1511, 1525, 1628, ma i flauti del
v. 576 sono davvero frigi; nel dramma satiresco Il Ciclope (forse del
427 a.C.), ai vv. 200, 284, 295;

• nelle Baccanti (405 a.C.), invece, ai vv. 14, 58, 86, 127, 140, 159, è più
probabile che si faccia realmente riferimento alla Frigia;
I Frigi nell’universo tragico greco 75

• nel Rheso (tragedia del IV sec. a.C., scritta probabilmente da un


imitatore), ai vv. 32, 75, 191, 249, 357, 401, 585, 721, 727, 814, 846, 911;

• troviamo infine i Frigi nominati al posto dei Troiani nel fr. 43, v. 36 e
probabilmente nel fr. 23, v. 14 dell’Alessandro; nel fr. 899 Nauck = fr.
10 Page, v. 95; nel fr. 48, v. 101 dell’Antiope; nel fr. 9c Page, v. 25 si fa
invece riferimento ad uno schiavo frigio.

Una totale, anacronistica, identificazione tra i costumi persiani e quelli


frigi si trova sicuramente nell’Oreste, una tragedia del 408 a.C., nella quale
Euripide introduce gli schiavi frigi al servizio di Elena. Essi presentano tutti
i tratti orientali stereotipicamente attribuiti al barbaro‑persiano alla fine del
V sec. a.C. tanto invisi ai Greci, quali codardia, effemminatezza, servilità,
gusto per il lusso, e non costituiscono soltanto una presenza silenziosa sulla
scena. Infatti, al v. 1369 Euripide dà la parola proprio ad uno schiavo frigio68
per raccontare al corifeo l’aggressione che ha appena avuto luogo nel
palazzo di Elena e che non può essere rappresentata sulla scena. Egli non
presenta i tratti impersonali del messaggero classico che espone i fatti in
maniera chiara e in trimetri giambici, ma si tratta di un vero e proprio
personaggio minore, psicologicamente ben delineato, che si abbandona,
come i personaggi femminili più importanti, ad una frenetica monodia in
versi lirici69. In questa tragedia occorre, pertanto, distinguere chiaramente
quando l’etnonimo «frigio» è utilizzato come sinonimo di «troiano» e
quando è invece utilizzato sì in senso proprio, ma per fare riferimento a
schiavi frigi che presentano però tratti persiani contemporanei.

68
Sulla figura dello schiavo frigio nell’Oreste si veda PORTER 1994, 173‑250.
69
Il passaggio, che va dal v. 1369 al v. 1502, è interrotto soltanto da sei interventi
del coro in trimetri giambici, e la varietà di metri e ritmi offriva una buona opportunità
per l’attore che interpretava la parte dello schiavo frigio di presentare al pubblico un
vero e proprio pezzo di bravura. Nella tragedia, le monodie come quella dello schiavo
frigio erano normalmente riservate ai personaggi femminili più importanti, non agli
schiavi anonimi, e soprattutto mai per esporre fatti di cui gli spettatori non erano già
a conoscenza, come in questo caso. Soprattutto in questo caso, diremmo, dal momento
che i fatti raccontati dallo schiavo sono ben lontani dalla tradizione e completamente
frutto della fantasia dell’autore. Lo schiavo frigio è poi ancora protagonista di una
scena comica che, per diversi motivi, è stata considerata frutto di interpolazione da
parte della critica, in cui Oreste e lo schiavo frigio si affrontano faccia a faccia. Per una
discussione approfondita sull’ipotesi dell’interpolazione della scena, si veda PORTER
1994, 215‑50.
76 Milena Anfosso

6. Conclusione: Eschilo scagionato?

Prossimità geografica, dunque, tra le vestigia dell’antica Troia e


Daskyleion, la nuova capitale satrapica della Frigia Ellespontica, di cui
Troia stessa veniva a fare parte; identificazione da parte dei Greci, in seguito
alla vittoria della Seconda Guerra Persiana, dei Persiani contemporanei, del
cui impero i Frigi stessi facevano parte, con gli antichi Troiani, che non
esistevano più in quanto popolo nel V sec. a.C., ma che condividevano con
essi l’Asia Minore e la condizione di sconfitti; ecco gli ingredienti che
avrebbero portato ben presto all’uso sinonimico di due etnonimi, «Frigi» e
«Troiani» in origine del tutto distinti, in un sistema di cui la tragedia di
Eschilo fa parte, ma non costituisce il solo elemento determinante. Infatti,
sulla base dell’analisi testuale condotta sull’intero corpus costituito da
tragedie complete e frammenti dei tre tragici maggiori (cf. infra fig. 1),
possiamo affermare che:

a) in Eschilo (inizio del V sec. a.C.) non abbiamo alcuna prova certa
dell’uso deliberato di «Frigi» e «Troiani» in quanto sinonimi, ed essi
non sono, purtroppo, presenti in nessuno dei frammenti conservati
dei Frigi o il Riscatto di Ettore;

b) in Sofocle (metà del V sec. a.C.) ne troviamo tre, uso che potremmo
definire sporadico, parallelamente alla parziale persianizzazione del re
Priamo nell’arte greca a partire dal 440 a.C. (cf. supra § 5.2.1.);

c) in Euripide (fine del V sec. a.C.) l’uso aumenta in maniera


esponenziale (101 volte) e risulta ormai essere una consuetudine ben
acquisita, in consonanza con il gusto sempre più orientalizzante
dell’autore, come West70 mette bene in evidenza, e contemporanea‑
mente alla totale persianizzazione del re Priamo nell’iconografia a
partire dal 400 a.C. (cf. supra § 5.2.1.), che risulta ormai totalmente
integrato al coro.

Va sottolineato poi che i citati scolii A ad Il. 2, 862 e BCE ad Il. 2, 862 sono
gli unici che esplicitamente fanno il nome di Eschilo quale autore della
confusione Troia‑Frigia. Tutti gli altri scolii che commentano l’equazione
tra Frigi e Troiani, cioè A ad Il. 3, 184 (= I 392 Erbse), T ad. Il. 10, 431 (= III 92
Erbse), BCE ad Il. 10, 431 (= III 92 Erbse), AT ad Il. 20, 216‑7 (= V 35 Erbse),
A ad Il. 24, 545 (= V 610 Erbse), mettono in evidenza il fatto che questa,

70
WEST 1987, 277.
I Frigi nell’universo tragico greco 77

giustamente, non deve essere attribuita ad Omero, ma a più generici


νεώτεροι, poeti più recenti, ma Eschilo non è affatto nominato tra di loro.
È più probabile, dunque, che la confusione si sia verificata a livello
successivo, cioè al momento della ricezione della tragedia. Il fatto che la
tragedia che si svolge a Troia e che si concentra sul momento più doloroso
della guerra per i Troiani, con il re Priamo tra i personaggi protagonisti, si
chiamasse Frigi a causa del suo coro poteva facilmente causare un
cortocircuito cognitivo. Senza contare che le tragedie di Eschilo potevano
essere rappresentate anche dopo la morte del loro autore. Se osserviamo le
rappresentazioni iconografiche della ceramica apula che abbiamo descritto,
vediamo bene come queste possano essere state ispirate da una replica della
tragedia della fine del V sec. o dell’inizio del IV sec. a.C., quando ormai
l’identificazione dei Troiani con i Persiani era un dato di fatto, e Priamo
aveva definitivamente acquisito le sembianze di un sovrano orientale.
Inoltre, dopo la vittoria conseguita sui Persiani, per il pubblico greco, e
ateniese in particolare, doveva essere un momento di grande soddisfazione
vedere in scena l’incarnazione simbolica del Nemico Persiano, Priamo,
accompagnato dal suo stuolo di schiavi frigi effemminati, prostrato ai piedi
dell’eroe greco per eccellenza, Achille, in atto di supplica.
Infine, i Troiani in quanto popolo non esistevano più da secoli alla fine
del V sec. a.C., ma i Frigi sì, e facevano parte dell’impero persiano a partire
dal 546 a.C., insieme a tutte le altre popolazioni dell’Asia Minore. Perciò,
con un procedimento che potremmo definire sineddochico (un genere per la
specie), e contemporaneamente attivo su diversi assi temporali, cioè il tempo
ancestrale della guerra di Troia, riattualizzato dalla tragedia di Eschilo, e il
tempo presente, successivo alle guerre persiane, l’etnonimo Frigi doveva
evocare allo spirito greco allo stesso tempo i Troiani antichi e i Persiani
moderni, in un continuo gioco di specchi. Il fatto che in seguito alla Seconda
Guerra Persiana l’equivalenza Troiani‑Persiani fosse ormai una realtà
incontestata e che il titolo Frigi della tragedia eschilea indicasse allo stesso
tempo un soggetto interamente troiano e un popolo che sincronicamente
faceva parte dell’Impero Persiano mi sembra possa spiegare abbastanza
bene la confusione Troia‑Frigia nella letteratura successiva.
78 Milena Anfosso

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Sofocle, fr. 871 Radt

DANIELA MILO (UNIVERSITÀ DI NAPOLI FEDERICO II)

1. Il fr. 871 Radt1 – costituito da otto versi in metro giambico – è trasmesso,


nella sua interezza, da Plutarco in Vita Demetrii (45, 3)2: in esso Menelao si
lascia andare ad amare riflessioni sull’instabilità del proprio vivere, per
accostare poi (5‑8) l’alterna fortuna della sua vita al cangiante aspetto della
luna. Il frammento è da tragedia sconosciuta.
Veniamo al testo:

ΜΕΝΕΛΑΟΣ
ἀλλ᾽οὑμὸς ἀεὶ πότμος ἐν πυκνῷ θεοῦ3
τροχῷ κυκλεῖται4 καὶ μεταλλάσσει φύσιν,
ὥσπερ σελήνης ὄψις εὐφρόνας5 δύο
στῆναι6 δύναιτ᾽ ἂν οὔποτ᾽ ἐν μορφῇ μιᾷ,
ἀλλ᾽ ἐξ ἀδήλου πρῶτον ἔρχεται νέα, 5
πρόσωπα καλλύνουσα7 καὶ πληρουμένη,

1
Cf. RADT 1977.
2
I vv. 5‑8 sono tramandati da Plutarco anche in De curiositate 5, 517 d, e in
Quaestiones Romanae 76, 282 a.
3
Θεοῦ è da intendere femminile, in riferimento a Τύχη (cf. LLOYD‑JONES 1996, 381
e già HEADLAM 1907, 291 ss.), come confermano le parole introduttive alla citazione:
ἣν οὖν ὁ Σοφοκλέους Μενέλαος εἰκόνα ταῖς αὑτοῦ τύχαις παρατίθησιν. PADUANO
1982, 1029, intende invece in riferimento al Sole («il mio destino si volge nella corsa
veloce del Sole»).
4
Cf. Pi. P. 2, 22: ἐν πτερόεντι τροχῷ … κυλινδόμενον.
5
εὐφρόνας Grotius: εὐφρόναις codd., che non si concilia con δύο. εὐφρόνη
designa, come è noto, la notte già in Esiodo (op. 560) e Eschilo (Pers. 221). Cf. anche Pi.
N. 7, 3; Hdt. 7, 12, 1 e al. In Sofocle è presente in Tr. 149, El. 19 e 259.
6
RUPPRECHT 1922, 393, proponeva senza necessità μεῖναι in luogo di στῆναι
(«permanere», in luogo di «star fisso»).
7
Il riferimento alla bellezza e alla pienezza della luna è di ascendenza saffica
(ringrazio Tiziana Drago per lo spunto): cf. il fr. 34 Voigt (trad. di ALONI 1997: «le stelle
intorno alla bella luna di nuovo celano lo splendente aspetto, quando piena brilla più
forte, sopra <tutta la terra> *** argentea», ma per il motivo della luna in contesti erotici
vd. anche frr. 96, 154 e 168 B, su cui ALONI 1997, 68‑69, 158‑161, 252‑253, 264‑265): in
cui la poetessa varia un modulo già omerico (come osservato pure da FERRARI 1998,
84 Daniela Milo

χὤτανπερ αὑτῆς εὐπρεπεστάτη8 φανῇ,


πάλιν διαρρεῖ κἀπὶ9 μηδὲν ἔρχεται.

Gira incessante il mio destino sulla ruota salda della dea e cambia natura,
come il volto della luna, che non può mai conservare per due notti lo stesso
aspetto, ma dall’oscurità dapprima spunta, nuova, abbellendo e riempiendo
il suo volto, poi, ogni qualvolta appare più luminosa, di nuovo scompare e
torna nel nulla10.

In Vita Demetrii la citazione del passo sofocleo è motivata dalla considera‑


zione delle infelici vicende di Demetrio Poliorcete (45, 4):

ταύτῃ μᾶλλον ἄν τις ἀπεικάσαι τὰ Δημητρίου πράγματα καὶ τὰς περὶ


αὐτὸν αὐξήσεις καὶ φθίσεις καὶ ἀναπληρώσεις καὶ ταπεινότητας, οὗ γε
καὶ τότε παντάπασιν ἀπολείπειν καὶ κατασβέννυσθαι δοκοῦντος
ἀνέλαμπεν αὖθις ἡ ἀρχή, καὶ δυνάμεις τινὲς ἐπιρρέουσαι κατὰ μικρὸν
ἀνεπλήρουν τὴν ἐλπίδα.

Con questa immagine meglio si potrebbero rappresentare le vicende di


Demetrio, le loro fasi crescenti e decrescenti, i momenti di pienezza e di
oscuramento. Poiché anche allora, mentre sembrava che venisse meno e si
spegnesse del tutto, ancora una volta la sua potenza riprese a splendere,
alcune forze affluirono e a poco a poco colmarono le sue speranze11.

Egli, dopo aver governato per sette anni sulla Macedonia e aver perso
poi il potere, si rifugiò a Cassandrea; a questi eventi seguirono il suicidio
della moglie, la partenza per la Grecia con l’intento di ricompattare i suoi
fautori, strateghi e amici ivi dimoranti. In questo contesto è inserita la
menzione dei versi di Sofocle. Plutarco si avvale ancora di altre citazioni

129: cf. Il. 8, 555‑559): il riferimento alla luna nel nostro frammento è tuttavia in contesto
completamente diverso, e il richiamo saffico – in particolare per quanto concerne
l’elemento ‘nuovo’ della bellezza della luna –, si limita al livello lessicale: nel fr. 871
Radt la luna bella e piena allude a uno stato di prosperità, che proprio nel momento
del suo culmine – cui corrisponde il massimo splendore dell’astro – precipita nel nulla.
8
εὐγενεστάτη in alcuni codici plutarchei, il cui senso appare qui improprio. È
probabile che ambedue le lezioni siano erronee e che εὐγενεστάτη nasconda
εὐαγεστάτη (così anche M. Pohlenz), di cui εὐπρεπεστάτη potrebbe essere glossa.
9
κἀπί Radt ex Plu. quaest. Rom. e curios. (vd. infra); in Dem. è scritto κεἰς τό, lezione
già ritenuta potior da Nauck. Naturalmente, le due lezioni omologhe rinviano a due
diversi excerpta, fonti di Plutarco.
10
Trad. di MARASCO 1994, 113.
11
Trad., qui e in avanti, di C. Carena in AMANTINI/CARENA/MANFREDINI 1995.
Sofocle, fr. 871 Radt 85

sul medesimo tema della precarietà della vita: un frammento attribuito a


Eschilo, due versi di Archiloco. Secondo il Cheroneo, era tradizione diffusa
che Demetrio nei momenti più gravi di crisi «apostrofava la Fortuna con le
parole di Eschilo» (35, 4: διὸ καί φασιν αὐτὸν ἐν ταῖς χείροσι μεταβολαῖς
πρὸς τὴν Τύχην ἀναφθέγγεται τὸ Αἰσχύλειον· “σύ τοί μ᾿ ἔφυσας, σύ με
καταιρήσειν δοκεῖς”12); segue poi (35, 6) la citazione di due versi di
Archiloco, che si riferiscono però all’indole femminile (fr. 184 West = 190
Tarditi: τῇ μὲν ὕδωρ ἐφόρει / δολοφρονέουσα χειρί, θἠτέρῃ δὲ πῦρ:
«portava, ingannevole, acqua con una mano, con l’altra del fuoco»)13.
Nella Vita di Demetrio occorre solo un’altra citazione sofoclea, ma da
tragedia integra (S. OC 1‑2 = Plut. Dem. 46, 10: τέκνον τυφλοῦ γέροντος
Ἀντιγόνη, τίνας / χώρους ἀφίγμεθα;: «figlio del vecchio cieco Antigono,
/ a quali terre siam giunti?»); va osservato che, tra i frammenti tragici
sofoclei incertae sedis citati dal Cheroneo (frr. 831‑899 Radt), in nessuno il
personaggio parlante è Menelao.
Nelle Questioni romane, i vv. 5‑8 del fr. 871 emergono dalla riflessione
sull’uso, da parte di chi affetta nobiltà, di portare lunette sui calzari (282 a:
διὰ τί τὰς ἐν τοῖς ὑποδήμασι σεληνίδας οἱ διαφέρειν δοκοῦντες εὐγενείᾳ
φοροῦσιν;: «perché coloro che risultano segnalarsi per nobiltà portano delle
mezzelune sui calzari?»); per Plutarco la luna con le sue varie fasi è simbolo
dei cambiamenti improvvisi delle sorti umane, e si erge per questo a monito
per i superbi (282 a‑b):

ἤ, καθάπερ ἄλλα πολλά, καὶ τοῦτο τοὺς ἐπαιρομένους καὶ μέγα


φρονοῦντας ὑπομιμνήσκει τῆς ἐπ᾿ ἀμφότερον τῶν ἀνθρωπίνων μετα‑
βολῆς παράδειγμα ποιουμένους τὴν σελήνην, ὡς “ἐξ ἀδήλου ~ φανῇ”.

oppure, come molte altre cose, anche questo fa ricordare la mutabilità in


entrambi i sensi delle faccende umane, a coloro che sono in posizione elevata
e hanno alta considerazione di sé che utilizzano come esempio la luna,
poiché “ἐξ ἀδήλου ~ φανῇ”14.

In De Curiositate, la citazione nasce dalla riflessione sulla curiosità male


indirizzata, e su come essa riesca nociva; occorre dunque indirizzarla

12
Riporto il frammento secondo l’ed. RADT 1977 («tu mi ha generato, e sembra che
tu mi distruggerai»), al cui apparato rinvio per le questioni di carattere testuale (fr. 359
Radt = 699 Mette). Questo verso eschileo è citato da Plutarco anche in Mor. 827 c (tribus
rei publ. gener.).
13
Cf. anche Mor. 950 e‑f (frig.); 1070 a (adv. Stoic.).
14
Trad., per le Questioni romane, di CARLÀ‑UHINK 2017.
86 Daniela Milo

meglio, applicarsi all’indagine sui fenomeni naturali e celesti, e fra questi


alle fasi lunari (517 d: ζήτει τὰς ἐν σελήνῃ καθάπερ ἀνθρώπῳ μετα‑
βολάς, ποῦ τοσοῦτον κατηνάλωσε φῶς πόθεν αὖθις ἐκτήσατο, πῶς “ἐξ
ἀδήλου ~ ἔρχεται”: «studia le fasi della luna in relazione all’indole umana,
dove mai essa disperda tanta luce e donde ne riacquisti, in che modo “ἐξ
ἀδήλου ~ ἔρχεται”»)15.
La riflessione sull’instabilità della vita e sulla mutevolezza della fortuna
è topos non infrequente in Sofocle; si vedano ad esempio le parole di
conforto che le coreute rivolgono a Deianira nella parodo delle Trachinie
(124‑135):

φαμὶ γὰρ οὐκ ἀποτρύειν / ἐλπίδα τὰν ἀγαθὰν / χρῆναί σ᾽· ἀνάλγητα γὰρ
οὐδ᾽/ ὁ πάντα κραίνων βασιλεὺς / ἐπέβαλε θνατοῖς Κρονίδας· / ἀλλ᾽ἐπὶ
πῆμα καὶ χαρὰ / πᾶσι κυκλοῦσιν, οἷον Ἄρ‑ / κτου στροφάδες κέλευθοι. /
μένει γὰρ οὔτ᾽αἰόλα / νὺξ βροτοῖς οὔτε Κῆρες οὔτε πλοῦτος, / ἀλλ᾽ἄφαρ
βέβακε, τῷ δ᾽ἐπέρχεται / χαίρειν τε καὶ στέρεσθαι.

Affermo che non devi stancare la speranza buona. Neanche il sovrano che
regge tutto, il figlio di Crono, ha destinato sorti senza dolore ai mortali. La
pena e la gioia si alternano per tutti, come le vie dell’Orsa che muovono
ruotando. Ai mortali non restano né la notte screziata né le sventure, e
neanche la ricchezza: no, svaniscono in fretta, e già toccano a un altro la gioia
e la privazione16.

Tuttavia, il topos è presente soprattutto in Euripide e nelle sue cosiddette


tragedie di Τύχη, nelle quali non mancano apostrofi a Τύχη stessa con

15
Trad. di INGLESE 1996.
16
Traduzione, qui e in avanti, per le Trachinie, di RODIGHIERO 2004. Vd. anche fr.
879a Radt (incertae sedis): οὐ χρή ποτ᾽ ἀνθρώπων μέγαν ὄλβον ἀπο‑ / βλέψαι·
τανυφλοίου γάρ ἰσαμέριος / ὅστις αἰγείρου βιοτὰν ἀποβάλλει: «non bisogna
guardare alla grande prosperità dell’uomo; con la stessa durata delle foglie del pioppo,
così si consuma la vita»: trad. PADUANO 1982, 1031; cf., per il commento al fr. 879a,
MILO 2008, 120‑124. Il concetto tuttavia, anche quando non è esplicitamente formulato,
è alla base della tragicità sofoclea, in linea con la visione erodotea (1, 32) che la vita
dell’uomo, se felice o meno, vada giudicata nel suo ultimo giorno (vd., p. es., Tr. 1‑3:
Λόγος μέν ἐστ᾽ ἀρχαῖος ἀνθρώπων φανεὶς / ὡς οὐκ ἂν αἰῶν᾽ἐκμάθοις βροτῶν,
πρὶν ἂν / θάνῃ τις, οὔτ᾽εἰ χρηστὸς οὔτ᾽εἴ τῳ κακός: «Esiste un detto antico, fra i
mortali: che non si può conoscere la vita di un uomo prima che costui sia morto, se gli
è stata propizia o sfavorevole»; OT 1527‑1530 εἰς ὅσον κλύδωνα δεινῆς συμφορᾶς
ἐλήλυθεν, / ὥστε θνητὸν ὄντ᾽ ἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα
μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών: «e allora
fissa il tuo occhio al giorno estremo e non dire felice uomo mortale, prima che abbia
varcato il termine della vita senza aver patito dolore.» Trad. di FERRARI 1994).
Sofocle, fr. 871 Radt 87

concetti vicini a quelli espressi nel nostro frammento; si veda, p. es., lo Ione
(1512‑1517):

ὦ μεταβαλοῦσα μυρίους ἤδη βροτῶν / καὶ δυστυχῆσαι καὖθις αὖ πρᾶξαι


καλῶς / τύχη, παρ᾽οἵαν ἤλθομεν στάθμην βίου / μητέρα φονεῦσαι καὶ
παθεῖν ἀνάξια. / φεῦ· / ἆρ᾽ ἐν φαενναῖς ἡλίου περιπτυχαῖς / ἔνεστι
πάντα τάδε καθ᾽ ἡμέραν μαθεῖν;

O Fortuna, tu hai cambiato il destino di infiniti uomini: dalla sciagura li hai


portati alla buona sorte e viceversa. A quale svolta ci hai portati: io ero sul
punto di uccidere mia madre, e lei me. Ah, accade mai nel volgersi luminoso
dei giorni che si rivelassero simili cose?17

Welcker (ap. RADT 1977, 565) ipotizzò che il fr. 871 appartenesse alla
Richiesta di Elena (Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης). In questa tragedia, della quale
restano pochi frammenti18, Sofocle raccoglieva dai Κύπρια un episodio del
mito troiano, rielaborato su alcuni luoghi iliadici19, collocato nelle prime

17
Trad. di GUIDORIZZI 2001.
18
frr. 176‑180a Radt. Il fr. 176 presenta un riferimento alla lingua spartana (176: καὶ
γὰρ χαρακτὴρ αὐτὸς ἐν γλώσσῃ τί με / παρηγορεῖ Λάκωνος ὀσμᾶσθαι λόγου); nel
fr. 177, lacunoso, si legge di una donna che viene presa e che tormenta la sua guancia:
γυναίκα δ᾽ ἐξελόντες ἣ θράσσει γένυν / † τε ὡς τοῦ μὲν ἕωλον γραφίοις
ἐνημμένοις †; il fr. 178 è costituito dalle parole di un personaggio, probabilmente
Elena, che afferma che sarebbe preferibile bere sangue di toro, notoriamente mortale,
piuttosto che avere cattiva fama: ἐμοὶ δὲ λῷστον αἷμα ταύρειον πιεῖν / καὶ μὴ ᾿πὶ
πλεῖον τῶνδ᾿ἔχειν δυσφημίας; il fr. 179 è un verbo che allude all’atto di opporsi:
ἀναχαιτίζει (ἀπειθεῖ καὶ ἀντιτείνει); il fr. 180 è un riferimento all’oracolo dato a
Calcante e alla contesa tra Calcante e Mopso in Cilicia, fatti attribuiti da Strabone (14,
1, 27; 14, 5, 16) alla Richiesta di Elena. Su 180a, Παμφυλία, vd. infra n. 23. Non trova
consenso l’ipotesi di Hermann (ap. RADT 1977, 178), basata su fr. 177, che la Ἀπαίτησις
fosse un dramma satiresco.
19
L’ambasceria di Menelao e Odisseo a Troia per il recupero di Elena agli inizi della
guerra è ricordata anche in Iliade 3, 203‑224 (τειχοσκοπία) dal vecchio Antenore, che
in avanti (7, 348‑352) propugna all’assemblea dei Troiani la restituzione di Elena e della
sua dote pur di risolvere la guerra, ma è contestato da Paride; da 11, 138‑142 appare
che Antenore, in occasione dell’ambasceria, avrebbe ospitato i due Greci, salvandoli
dalla morte sollecitata dal troiano Antimaco (Il. 11, 138‑142, in cui parla Agamennone
che si accinge a uccidere i due figli di Antimaco: εἰ μὲν δὴ Ἀντιμάχοιο δαΐφρονος
υἱέες ἐστόν, / ὅς ποτ᾽ ἐνὶ Τρώων ἀγορῇ Μενέλαον ἄνωγεν, / ἀγγελίην ἐλθόντα
σὺν ἀντιθέῳ Ὀδυσῆϊ, / αὖθι κατακτεῖναι μηδ᾽ ἐξέμεν ἂψ ἐς Ἀχαιούς, / νῦν μὲν δὴ
τοῦ πατρὸς ἀεικέα τείσετε λώβην: «se davvero siete figli del bellicoso Antimaco, che
nell’assemblea dei Troiani un giorno dava consiglio su Menelao, venuto in ambasceria
con Odisseo divino, di ammazzarlo lì stesso e non rimandarlo agli Achei, ora sì che
88 Daniela Milo

fasi della guerra decennale, in un momento di crisi dell’armata greca,


appena dopo l’uccisione di Protesilao da parte di Ettore e di Cicno da parte
di Achille. Menelao e Odisseo si presentavano in ambasceria, per richie‑
dere, invano, la restituzione di Elena20; l’opinione di Welcker è accettata da
Radt; altre possibilità sono avanzate da Paduano21, ma, trattandosi in tutti
i casi di pochi e brevi frammenti, gli elementi di garanzia non sono
sufficienti.
La Ἁπαίτησις τῆς Ἑλήνης non è citata fra i drammi di argomento
troiano nella ὑπόθεσις dell’Aiace, dove invece trovano menzione
Ἀντηνoρίδαι, Αἰχμαλωτίδες, Ἑλήνης ἁρπαγή e Μέμνων. Da qui anche
l’ipotesi, avanzata in passato da alcuni studiosi, fra i quali Blass e
Wilamowitz, che i titoli Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης e Ἀντηνoρίδαι22 si riferis‑
sero a un unico dramma23, caso non raro nella tradizione tragica. Ma
l’argomento degli Ἀντηνoρίδαι riporta agli eventi finali della guerra,
laddove l’ambasceria per Elena si colloca nella tradizione mitica agli inizi

sconterete l’offesa indegna di vostro padre!» [trad., qui e in avanti, per l’Iliade, di CERRI
1999]). L’ambasceria dei Greci per la richiesta di Elena si pone dopo lo sbarco a Lemno,
l’abbandono di Filottete e la morte di Protesilao, quindi dopo l’approdo degli Achei a
Troia ma prima dell’assedio alle mura, come si evince dall’argumentum dei Cypria,
tramandato da Proclo nella Chrestomathia (IV, 84, 152‑154 Severyns; cf. Cypr. arg. 1, 42,
rr. 55‑57 Bernabé; cf. anche SCAIFE 1995, 167). Tuttavia secondo [Ps.] Apollod. epit. 3,
28 (vd. GANTZ 1993, 595‑596; cf. anche lo scolio a Il. 3, 205 [I, 396, 69‑70 Erbse]),
l’ambasceria di Menalo si sarebbe mossa da Tenedo, quindi ancor prima dell’arrivo
dei Greci a Troia.
20
Cf. JOUANNA 2007, 623‑624.
21
Cf. PADUANO 1982, 1029, n. 337.
22
I figli e i discendenti di Antenore e della moglie Teano, ricordata da Omero come
sacerdotessa di Atena (Il. 6, 297‑299: αἱ δ’ ὅτε νηὸν ἵκανον Ἀθήνης ἐν πόλει ἄκρῃ, /
τῇσι θύρας ὤιξε Θεανὼ καλλιπάρῃος, / Κισσηΐς, ἄλοχος Ἀντήνορος ἱπποδάμοιο:
«quando giunsero al tempio d’Atena sull’alto della rocca, aprì la porta Teano dalle
belle gote, figlia di Cisse, sposa d’Antenore domatore di cavalli»).
23
L’ipotesi doveva trovare fondamento nel dith. 15 Maehler di Bacchilide, benché
molto lacunoso, dal titolo Ἀντηνορίδαι ἢ Ἑλήνης ἀπαίτησις: in questa composizione
veniva evocata, in incipit, Teano e indi i componenti dell’ambasceria greca (Odisseo e
Menelao) venuti per la trattativa della proposta restituzione di Elena; dopo un’ampia
lacuna, Antenore presentava a Priamo e ai suoi figli la proposta dei Greci; veniva
convocata l’assemblea dei guerrieri troiani, davanti alla quale Menelao teneva un
discorso. Nel fr. 180a Radt pare che Sofocle faccia menzione dell’oracolo secondo il
quale Calcante sarebbe morto in Panfilia, dopo aver incontrato un indovino di lui più
valente (cf. anche Strabone 14, 1, 27 e 5, 16, su cui supra n. 18). Doveva essere questo
un dettaglio estraneo all’azione drammatica, riferito forse da un deus ex machina,
espediente che pare che Sofocle abbia utilizzato anche in altre sue tarde tragedie.
Sofocle, fr. 871 Radt 89

della guerra, benché dovesse esservi memoria anche negli Ἀντηνoρίδαι,


dove essa veniva forse evocata a giustificare il trattamento di favore fatto
dai Greci ad Antenore, alla sua casa e alla sua famiglia, nella notte del
saccheggio e della distruzione di Troia24.
Alla Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης riporta anche il registro principale di un
grande cratere corinzio conservato in Vaticano (Museo Gregoriano Etrusco,
Ast 565, inv. 35525), attribuito al Pittore Astarita25, che è fatto risalire intorno
alla metà del VI a.C. e ha forse la sua fonte nei Cypria26; vi è raffigurata la
scena dell’ambasceria per Elena: vi si vedono seduti su gradoni, forse
dell’altare di Atena27, Menelao, sul gradone più alto, Odisseo, su quello
centrale e l’araldo Taltibio, su quello inferiore, probabilmente nella parte
di supplici28; di fronte a loro è Teano, moglie di Antenore29, e sacerdotessa
di Atena Poliade a Ilio, scortata da due ancelle e dalla nutrice, con un
seguito di cavalieri e di uomini appiedati30. È la situazione descritta in

24
Per aver ricevuto e protetto Odisseo e Menelao quando vennero in ambasceria
per la richiesta di Elena, la casa, la famiglia e i beni di Antenore non conobbero il
saccheggio nell’ultima notte di Troia: su ordine di Agamennone, la porta della casa
del nobile troiano fu ricoperta da una pelle di leopardo (o pantera) a segno della sua,
per così dire, extraterritorialità (cf. lo scolio a Il. 3, 205a [1, 396 Erbse] e S. Aj. Locr. fr.
11 Radt; questo celebre dettaglio sarebbe stato raffigurato da Polignoto, amico di
Sofocle, a Delfi: cf. Pausania 10, 26, 7). L’argomento del dramma è presente nel dith. 15
di Bacchilide (cf. supra n. 23); che Sofocle, unico fra i tragici, avesse trattato l’argomento
negli Antenoridi è detto da Strabone 13, 1, 53, secondo il quale, e in conformità alla
tradizione mitica, gli Antenoridi trovarono un primo rifugio in Tracia, per indi
spostarsi, col gruppo degli Eneti, sulle coste adriatiche e precisamente nel Veneto, dove
Antenore avrebbe fondato Padova (vd. anche Liv. 1, 1 e i frammenti di Accio di una
tragedia omonima). Degli Antenoridi restano solo tre frammenti (137‑139 Radt).
25
Per un’ampia e accurata descrizione del Cratere Astarita e delle problematiche
artistico‑letterarie connesse, cf. la trattazione di IOZZO 2012, 27‑40.
26
Cf. supra n. 19.
27
Non mancano altre ipotesi: i gradoni potrebbero raffigurare una scalinata verso
le mura di Troia (BEAZLEY 1958, discusso in IOZZO 2012, 37‑40 che, sulla base dell’analisi
dell’iconografia di Teano, è convinto che i gradoni siano quelli dell’altare del santuario
di Atena Poliade sull’acropoli di Ilio e che il contesto sia quello della supplica; Iozzo
evidenzia altresì l’importanza del ruolo svolto da Teano nella scena, e rimanda a Bacch.
dith. 1 [IOZZO 2012, 40]). Per il contesto dell’ambasceria, cf. DAVIES 1977; BÉRARD 1977.
28
BÉRARD 1977, 16, non vede nella raffigurazione delle tre figure maschili un
atteggiamento da supplici, sia sulla base di considerazioni di natura iconografica, sia
per il contesto, e ritiene invece che i gradoni fossero quelli di una tribuna, posta a lato
di una piazza, ipotizzando dunque per l’ambasceria una scena assembleare (cf. la
discussione in IOZZO 2012, 38‑40).
29
Cf. DAVIES 1981, in part. 812 e 815.
30
Cf. BEAZLEY 1958, in part. 234‑238; DAVIES 1977, 73‑85; IOZZO 2012, 29‑30, che
90 Daniela Milo

Bacchilide (dith. 15, cf. n. 23)31, e non è da escludere che una scena simile
fosse anche nel dramma sofocleo. Il particolare poi del discorso di Menelao
ai Troiani nella situazione di difficoltà in cui si trovava, testimoniato anche
in Il. 3, 203 ss. (cf. n. 19), dove Antenore rileva i limiti della retorica
dell’Atride rispetto a quella di Odisseo32, tenuto conto dell’impronta
dimessa del nostro frammento, potrebbe confortarne l’appartenenza
proprio alla Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης.

2. Menelao è tra i personaggi più sgradevoli della tragedia greca superstite.


In Eschilo, almeno per quanto riguarda le sette tragedie della ‘scelta’, egli
non ha alcun ruolo, fatta salva la sua comparsa in una col fratello, e, a
quanto appare dal testo, in condizione di parità con lui, nella parodo
dell’Agamennone, a proposito del sacrificio di Ifigenia33. In Sofocle fa la sua
comparsa nell’Aiace, per poi riapparire, come già segnalato, solo in alcuni
drammi frammentari.

osserva nello specifico (30): «L’elegante e coloratissima cavalcata si svolge lungo tutta
la circonferenza del vaso, procedendo al passo, lenta e solenne, e rivelando la tensione
latente dell’incontro».
31
Cf. BEAZLEY 1958 e DAVIES 1977, in part. 76‑77 (quest’ultimo, a n. 23, non esclude
la possibile dipendenza del Pittore Astarita e di Bacchilide da un poema di Arione di
Lesbo. Cf. anche IOZZO 2012, p. 37 e n. 108). Alla stessa situazione potrebbero far
riferimento anche le raffigurazioni di altri vasi corinzi: cf. AMYX 1988, 376, n. 75 e 633,
n. 40; IOZZO 2012, 34‑35, che ipotizza che la scena di ambasceria raffigurata su un
kantharos attico a figure rosse da Gravina, attribuito al Pittore di Eretria, sia collegabile
alla Richiesta di Elena o agli Antenoridi di Sofocle.
32
Il. 3, 209‑224: «quando poi s’incontrarono con i Troiani riuniti, se ne stavano in
piedi, Menelao sovrastava con le sue ampie spalle, se invece sedevano entrambi, il più
imponente era Odisseo; ma quando poi formulavano in pubblico discorsi e pensieri,
Menelao allora parlava conciso, poche battute, ma con grande efficacia, ché non era di
molte parole né si lasciava sfuggire sciocchezze; del resto era anche più giovane.
Quando invece s’alzava a parlare Odisseo scaltrito, se ne stava in piedi a lungo,
guardava all’ingiù, fissando gli occhi a terra, non agitava lo scettro né avanti né
indietro, ma lo teneva immobile, alla maniera di un inesperto: avresti detto che era
imbronciato o addirittura fuori di sé. Ma quando svolgeva dal petto la sua voce
possente e le parole, dense come fiocchi di neve d’inverno, con Odisseo allora nessuno
si sarebbe messo in gara: non stavamo più come prima a stupirci di lui, per il suo
aspetto».
33
Cf. A. Ag. 104 ss. È dubbio che vi sia allusione a lui a Ch. 1041 (cf. CRISCUOLO
2016a, 106‑110). Per quanto riguarda l’Eschilo frammentario, lo si cita in fr. 180a, 5
Sommerstein = 451k Radt (cf. SOMMERSTEIN 2008, 183‑185), del Palamede, a proposito
del rapimento di Elena e del suo desiderio di vendetta.
Sofocle, fr. 871 Radt 91

Nell’Aiace, Menelao entra in scena a v. 1046 e inizia un lungo dibattito


con Teucro sulla sepoltura del cadavere del Telamonio. Notevole la sua
riflessione sulla labilità del destino umano34, che non assume tuttavia valen‑
za ‘universale’, ma è un’ulteriore accusa all’eroe suicida. Nella sostanza, il
suo intervento è esclusivamente finalizzato a impedire la sepoltura di
Aiace, ed egli appare piuttosto solo latore di ordini di Agamennone, al
quale è rinviata la decisione definitiva. Con Teucro esibisce baldanza, ma
presto, di fronte alle contestazioni di lui, si ritira. Sofocle sembra far di tutto
per renderlo antipatico e odioso, fors’anche a soddisfare la tendenza
antispartana del suo pubblico ateniese35.
Ai fini della collocazione cronologica del nostro frammento, sono
opportune alcune considerazioni. In Euripide Menelao è presente, quanto
alla tragedie tramandate per intero, nell’Andromaca, nelle Troadi, nell’Elena,
nell’Oreste, nell’Ifigenia in Aulide. Ha connotazione del tutto negativa, con
l’eccezione delle Troadi, dove la sua presenza in scena è limitata al ‘quadro’
che lo rappresenta quando si porta a prelevare Elena, prima in un lungo
monologo, sorta di nuovo prologo36, indi in contrasto con Ecuba e la
moglie; in questo dramma si manifesta in pieno la debolezza del carattere
del più giovane degli Atridi, ben lontano dal personaggio dell’Andromaca:
deciso alla vendetta sulla fedifraga, destinata a terribile punizione una volta
rientrata a Sparta, si lascia poi vincere dalle di lei lusinghe. Nell’Andromaca,
tragedia antispartana, Menelao è crudele e vigliacco, esercita la sua forza
sui deboli (Andromaca e Molosso), ma è sollecito a ritirarsi quando è
contrastato dal vecchio Peleo. Nelle Troadi è anticipato piuttosto il Menelao
delle più tarde tragedie, soprattutto quello, vacillante e totalmente
‘imborghesito’, dell’Ifigenia in Aulide37. Diverso discorso può farsi per l’Elena
(412) e per l’Oreste (408)38. Nell’Oreste, in cui appare in tutto il suo splendore

34
Aj. 1077‑1080: ἀλλ᾽ ἄνδρα χρή, κἂν σῶμα γεννῄσε μέγα, / δοκεῖν πεσεῖν ἂν
κἂν ἀπὸ σμικροῦ κακοῦ. / δέος γὰρ ᾧ πρόσεστιν αἰσχύνη θ᾽ ὁμοῦ, / σωτηρίαν
ἔχοντα τόνδ᾽ ἐπίστασο («un uomo deve sapere, anche se ha avuto da natura un corpo
immane, che può soccombere, sia pur per lieve colpa; chi invece possiede insieme il
senso del timore e del rispetto – sappilo – troverà salvezza»). 1087‑1090: ἕρπει παραλ‑
λὰξ ταῦτα. πρόσθεν οὗτος ἦν / αἴθων ὑβριστής, νῦν δ᾽ ἐγὼ μέγ᾽ αὖ φρονῶ («tali
cose procedono con alterna vicenda. Prima costui era focoso, un violento; ora sono io
ad insuperbire» [trad. di PATTONI 1997]).
35
Nella contesa per la sepoltura di Aiace, è stata vista una eco della questione
riguardante Temistocle, il vincitore di Salamina, che, ostracizzato nel 472‑471 e morto
nel 459 a Magnesia (riabilitato poi da Pericle), fu sepolto clandestinamente in Attica,
in quanto traditore (cf. Thuc. 1, 138 e Plu. Them. passim).
36
Cf. CRISCUOLO 1998.
37
Cf. CRISCUOLO 2016b, 473‑502.
38
Parallelismi tra questi due drammi, in particolare in relazione al gioco tra
92 Daniela Milo

di condottiero vittorioso, l’Atride smentisce nei fatti la promessa di aiuto a


Oreste e cede alle ragioni di Tindareo, in certo senso come nell’Andromaca,
ma in una situazione qui ben diversa.
È tuttavia nell’Elena che le affinità con il Menelao del fr. 871 sembrano
infittirsi.
Nell’Elena39, Menelao ha ruolo da protagonista, e appare contrassegnato,
così come Elena, da pessimismo e inquietudine per la propria condizione.
Personaggio «vigliacco, vanaglorioso, egoista e arrogante»40, recupera,
come un po’ nelle Troadi, in dignità, a ragione delle sue dolorose esperienze,
dei lunghi anni di sofferenze e peregrinazioni. Di grande interesse per il
nostro tema è il monologo a cui dá avvio comparendo in scena (a 386)41: il
discorso prologico di Menelao è ispirato dalla commiserazione della sua
precarietà. Questa constatazione costituisce un collegamento con il nostro
frammento: egli lamenta la sua triste condizione, maledice il ghenos di
Pelope (386‑392), e precisa di non aver mai comandato l’esercito greco a
modo di τύραννος, ma riuscendo a coinvolgere i soldati nell’entusiasmo
(395‑396). I successi del passato (453)42 sono un lontano ricordo, che
contrasta col destino, più crudele della morte stessa, che si è manifestato

illusione e realtà nel teatro, e alle figure di Elena e Ifigenia, sono stati istituiti da ZEITLIN
2010, 263‑282 (per il riferimento all’Oreste, cf. in part. 269, 278‑282). Per quanto riguarda
il nostro frammento, sembra potersi escludere l’influenza su Sofocle del personaggio
quale trattato nell’Oreste.
39
Tragedia per lo più valutata molto negativamente dalla critica. Cf., p. es.,
BLAICKLOCK 1952, 85‑93; BIFFI 1961, 94; KATSOURIS 1975, 80‑81; FUSILLO 1997, 13. Cf.
anche PODLECKI 1970, 401‑408, che ridimensiona la figura di Menelao dai tratti ‘comici’;
SEGAL 1971, 553‑614, che attribuisce a Menelao l’emblema della crisi dei valori bellici
da lui rappresentati; KANNICHT 1969, II, 121‑122. Una rivalutazione del personaggio è
in BELARDINELLI 2003, in part. 173‑177, sulla base dell’analisi della struttura della scena
del riconoscimento: alla creazione della ‘nuova’ immagine che il poeta offre di Elena
nella tragedia omonima avrebbe contribuito anche il ‘nuovo’ Menelao (175). Già DIRAT
1976, 3‑17, metteva in luce la vicinanza del Menelao dell’Elena al modello omerico (7
s.).
40
Così, in modo deciso, BELARDINELLI 2003, 172.
41
A 386 Menelao peraltro entra in scena con un monologo che è ‘speculare’ a quello
di Elena a 1‑67 e che funge quasi da secondo prologo (cf. KANNICHT 1969, II, 10‑13;
BELARDINELLI 2003, 165ss. e n. 17 e, per uno studio globale sulla problematica del
secondo prologo, CRISCUOLO 1998, 67‑83, in cui è la disamina anche del caso dell’Oreste
[75‑76]).
42
Cf. PODLECKI 1970, 404: “Menelaus’ lament for ‘the robes of time past, the
gleaming luxurious clothes which the sea took’ (423‑424) is not meant to tickle our
risibility, but rather to show us how deeply he feels his loss of kingly status”.
Sofocle, fr. 871 Radt 93

ora per lui, errabondo per il mare, senza approdo in patria43. Il Menelao
dell’Elena è insomma un derelitto: gli stracci che indossa stridono con il
passato splendore delle vesti di un tempo, portate via dal mare44. Nel suo
secondo monologo (483‑514), appresa la presenza a corte di un’altra Elena,
valuta diverse possibilità di azione, e considera l’eventualità di dover
chiedere di necessità sostentamento al re del luogo; è ormai al culmine dei
mali. Questa consapevolezza tuttavia non lo getta nello sconforto più di
tanto, perché egli sa bene di non avere alternative e di dover escogitare
nuovi mezzi per vivere (514 δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον). Un
Menelao, dunque, derelitto ma fondamentalmente disincantato, che riesce
a mettere riparo al suo patire nell’accettazione della ἀνάγκη; è insomma
un Menelao ben diverso da quello arrogante e sprezzante dell’Aiace.
Probabilmente il Menelao del fr. 871 è accostabile al Menelao dell’Elena, ma

43
Hel. 397‑403 (si riporta per l’Elena il testo di KANNICHT 1969): καὶ τοὺς μὲν οὐκέτ᾽
ὄντας ἀριθμῆσαι πάρα, / τοὺς δ᾽ ἐκ θαλάσσης ἀσμένους πεφευγότας, / νεκρῶν
φέροντας ὀνόματ᾽ εἰς οἴκους πάλιν. / ἐγὼ δ᾽ἐπ᾽οἶδμα πόντιον γλαυκῆς ἁλὸς / τλή‑
μων ἀλῶμαι χρόνον ὅσονπερ Ἰλίου / πύργους ἔπερσα, κἀς πάτραν χρῄζων μολεῖν
/ οὐκ ἀξιοῦμαι τοῦδε πρὸς θεῶν τυχεῖν («ora posso contare quelli che non ci sono
più, e quelli che sono sfuggiti felici alle insidie del mare e tornano a casa dopo essere
stati dati per morti. Io invece no: continuo a vagare infelice sul mare azzurro e
tempestoso da quando ho espugnato la rocca di Troia; vorrei tanto raggiungere la mia
patria, ma gli dei non mi ritengono degno di questa gioia» [trad., qui e in avanti per
l’Elena, di FUSILLO 1997]). Il tema della vana peregrinazione e del naufragio in Egitto
è in certa misura il Leit Motiv del suo monologo: cf. anche 404‑410: Λιβύης τ᾽ ἐρήμους
ἀξένους τ᾽ ἐπιδρομὰς / πέπλευκα πάσας· χὥταν ἐγγὺς ὦ πάτρας, / πάλιν μ᾽
ἀπωθεῖ πνεῦμα, κοὔποτ᾽ οὔριον / ἐσῆλθε λαῖφος ὥστε μ᾽ ἐς πάτραν μολεῖν. / καὶ
νῦν τάλας ναυαγὸς ἀπολέσας φίλους / ἐξέπεσον ἐς γῆν τήνδε· ναῦς δὲ πρὸς
πέτρας / πολλοὺς ἀριθμοὺς ἄγνυται ναυαγίων («ho navigato lungo tutti gli approdi
deserti e inospitali della Libia; e ogni volta che mi avvicinavo alla mia terra, i venti mi
spingevano di nuovo indietro: nessun vento favorevole è durato tanto da portarmi in
patria. Ora ho persino fatto naufragio: ho perso i miei compagni e sono finito su questa
terra, mentre la nave sbattuta sugli scogli si è fatta in mille pezzi»). 414‑415: ὄνομα δὲ
χώρας ἥτις ἥδε καὶ λεὼς / οὐκ οἶδα («non conosco il nome di questa terra, né che
popolo la abita»). 417‑419: ὅταν δ᾽ ἀνὴρ / πράξῃ κακῶς ὑψηλός, εἰς ἀηθίαν / πίπτει
κακίω τοῦ πάλαι δυσδαίμονος («quando un uomo di alto rango cade nella disgrazia,
l’inesperienza lo fa soffrire di più rispetto a chi è sempre vissuto nella miseria»).
44
Hel. 420‑424: χρεία δὲ τείρει μ᾽· οὔτε γὰρ σῖτος πάρα / οὔτ᾽ἀμφὶ χρῶτ᾽ἐσθῆτες·
αὐτὰ δ᾽εἰκάσαι / πάρεστι ναὸς ἐκβόλοις ἃ ἀμπίσχομαι. / πέπλους δὲ τοὺς πρὶν
λαμπρά τ᾽ἀμφιβλήματα / χλιδάς τε πόντος ἥρπασ᾽ («ma ora il bisogno mi incalza:
non ho cibo, non ho vesti; basta guardare gli stracci strappati alla nave con cui mi sono
coperto; i pepli e gli splendidi mantelli di un tempo, tutto il mio sfarzo se l’è rubato il
mare»).
94 Daniela Milo

dai pochi versi superstiti non appare in lui una prospettiva di reazione e di
salvezza.
Nell’Elena, la lunga scena che porta al riconoscimento vede ‘cadute’ di
Menelao nella disperazione: egli si definisce «l’uomo più sfortunato della
terra» (565: ἔγνως γὰρ ὀρθῶς ἄνδρα δυστυχέστατον); manifesta la
consapevolezza dei suoi guai (589: μέθες με, λύπης ἅλις ἔχων ἐλήλυθα),
consapevolezza acuita dalle parole del servo che nell’accingersi a rivelargli
la vera storia di Elena (605‑621) gli ricorda di aver sopportato infiniti mali
invano (λέγω πόνους σε μυρίους τλῆναι μάτην).
La scena successiva a quella del riconoscimento vede la richiesta di Elena
a Menelao di raccontare le sue vicende, richiesta che l’eroe cerca di eludere:
raccontare significherebbe ripercorrere nuovamente i suoi mali e raddop‑
piare il suo dolore (669‑771), dolore che si acuisce (804: οὕτως ἂν εἴην
ἀθλιώτατος βροτῶν) nel momento in cui viene a sapere dalla moglie che
non può portarla via e che lì dove è giunto lo attende non il suo letto, bensì
una spada (802‑803: οὐδ᾿ ἄρα πρὸς οἴκους ναυστολεῖν <σ᾿> ἔξεστί μοι; /
{Ελ.} ξίφος μένει σε μᾶλλον ἢ τοὐμὸν λέχος). Anche nel successivo
colloquio con Teonoe, Menelao non manca di sottolineare il suo essere
ormai avvezzo alla disgrazia (957‑958: ἐγὼ μὲν οὐ νῦν πρῶτον ἀλλὰ
πολλάκις / ἄθλιος ἂν εἴην, σὺ δὲ γυνὴ κακὴ φανῇ)45. Le ultime parole in
cui egli fa riferimento al suo destino di sventura vengono pronunciate
nell’àmbito della piena messa in atto della μηχανή, perché ormai
Teoclimeno è caduto nell’inganno e acconsente che il falso ospite straniero
si rechi al mare con la donna per libare le offerte al primo marito di Elena:
è nel momento cruciale dunque che Menelao rivolge una sorta di preghiera
a Zeus per ricevere la sua attenzione, essere liberato dai mali dopo tante
sofferenze e poter vivere finalmente felice, perché non sempre tutto può
andare male (1441‑1450). Ancora una volta, dunque, un messaggio di
speranza.
Dai pur esigui versi pervenutici di un perduto dramma sofocleo in cui
il personaggio di Menelao insiste sui rivolgimenti della fortuna e la
precarietà della sua esistenza, è possibile collegare il fr. 871 alla proble‑
matica del Menelao dell’Elena. Se questo è vero, probabilmente Sofocle avrà
subito nella tarda fase della sua produzione l’influenza di Euripide. Il che
non sorprende: l’Edipo Coloneo è inconcepibile senza il precedente delle
Fenicie di Euripide; tematiche euripidee (o almeno lo spirito di queste)
doverono animare altre tarde tragedie, quali, per esempio, il Tereo, la (o le)
Tyro e forse la Niobe.

45
Nel discorso con Teonoe Menelao appare caratterizzato da una certa premura
per l’onore, espressa in una sorta di ‘eloquenza virile’, nonché da razionalità (cf. DIRAT
1976, 11‑12).
Sofocle, fr. 871 Radt 95

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Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans1

ELENI KORNAROU (HELLENIC OPEN UNIVERSITY)

Debate scenes (agones) between two opposing characters have often been
regarded as one of the most distinctive features of Euripidean drama, and
their characteristic aspects as well as the influence of sophistic rhetoric on
them have often attracted the interest of scholars.2 In this paper I intend to
discuss Pasiphae’s apology in Euripides’ fragmentary Cretans (fr. 472e K),3
the longest surviving fragment of this play, where Pasiphae attempts to
defend herself against the accusations of Minos of her sexual intercourse
with the bull Poseidon had sent to him and the subsequent birth of the
monster Minotaur.4
The question whether Pasiphae’s rhesis constitutes the second part of a
symmetrically structured agon replying to the accusations raised in its
first half by Minos5 is debatable. Most scholars argue that this is the

1
I would like to thank Mr B. Gredley for his comments on an earlier draft of this
article. Some parts of it (in a primary form) were included in my paper entitled: «Η
Πασιφάη στους Κρήτες του Ευριπίδη», which was presented at the 10th International
Cretological Congress (Chania, 1‑8 October 2006) and published in its Proceedings (cf.
KORNAROU 2011).
2
Cf. STROHM 1957, 3‑49; DUCHEMIN 1968; COLLARD 1975; LLOYD 1992; DUBISCHAR
2001; BARKER 2009, 267‑365; MASTRONARDE 2010, 207‑245.
3
For the text, I refer to the edition of KANNICHT 2004, unless otherwise stated.
4
The version of the myth Euripides follows in Cretans is attested in Apollodorus
(Bibl. 3, 1, 3‑4) as follows: Minos prayed to Poseidon to send him a bull as a
confirmation of his reign in Crete, vowing that he would sacrifice it to the god in
return. Yet the bull that appeared from the sea was so handsome that Minos decided
to keep him in his herd and sacrificed another animal to Poseidon. In order to punish
Minos, the god afflicted his wife Pasiphae with an irresistible sexual infatuation for
the bull. Daedalus, then, with his art helped the Queen to fulfill her lust by constructing
an artificial wooden cow inside which Pasiphae was hidden and so she consummated
her passion for the bull. The result of this union was the Minotaur, a monster with a
bull’s head and a man’s body, who, in accordance with a divine order, was secluded
by Minos in the Labyrinth, constructed by Daedalus.
5
Cf. the pattern of the agones in E. Med. 465‑575 and Hipp. 936‑1035. As LLOYD (1992,
98 Eleni Kornarou

case,6 while others assert that the lyric verses of the chorus preceding
Pasiphae’s speech, where they advise Minos to conceal his wife’s shameful
deed, are unexampled in the context of an agon where the two speeches are
normally separated by an iambic distich delivered by the coryphaeus;7
hence much discussion has been made on the function of these verses.8 In
any case one should take into account the variability of the agon’s structure
emphasized by various scholars,9 as well as the fact that Cretans is an early
play,10 when the formal conventions of the agon may not have been yet

1) defines it, despite the great variation of its form, «[t]he agon basically consists of a
pair of opposing set speeches of substantial, and about equal, length». On a broad
definition of the agon as the opposition of two competing speeches, cf. also DUBISCHAR
2001, 53‑56.
6
Cf. CANTARELLA 1964, 117; WEBSTER 1967, 90; DUCHEMIN 1968, 90; COZZOLI 2001
passim, e.g. 12, 26, 102; PADUANO 2005, 135‑137.
7
Cf. LUCAS 1965, 455‑456; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 72‑73, on 472e. LUCAS (1965,
456) points out in addition that Pasiphae does not enumerate the charges to which she
is replying, a usual technique in the Euripidean agones (e.g. Med. 548‑549, Hipp. 991,
1021, Hec. 1199, Tro. 919‑920).
8
So WEBSTER (1967, 90) claims that this choral lyric, unusual between two speeches
of an agon, may be justified by the chorus’ horror at Minos’ revelation and parallels it
to the choral strophe intervening between the revelation of Phaedra’s secret and her
self‑defence in Hipp. 362‑372 (similarly COZZOLI (2001, 102, 104, on 1‑3) asserts that
these verses were probably in responsion with another section in the part of the agon
now lost, bringing out as parallel the choral section in Hipp. 362‑372 corresponding to
Phaedra’s verses at 669‑679). DI BENEDETTO (2001, 227) also argues that the three verses
preceding Pasiphae’s rhesis constitute part of a choral comment on Minos’ preceding
speech. On the other hand COLLARD/CROPP/LEE (1995, 73, on 2‑3), who, unlike most
editors, give the first verse (an iambic trimeter) to Minos and the subsequent lyric ones
to the chorus, suppose that these three verses constitute the end of a short epirrhematic
system functioning as a prelude to Pasiphae’s rhesis (like the epirrhematic dialogue
between the chorus and Iphis preceding Iphis’ monologue in E. Supp. 1080‑1113, 1072‑
1079).
9
E.g. DUCHEMIN 1968, esp. 156‑166; COLLARD 1975; LLOYD 1992, 1‑36; DUBISCHAR
2001, 56‑80.
10
Based on metrical evidence scholars argue for an early date, almost certainly
before 430: cf. WEBSTER 1967, 4; CROPP/FICK 1985, 70, 82; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 58;
CANTARELLA (1964, 103‑107) dates it more precisely around 433, a date which COZZOLI
(2001, 9‑11) also regards as the most probable. In any case the play is dated before
Hippolytus (428) and probably also before the First Hippolytus (dating disputed) –
Phaedra’s allusion to Pasiphae’s infatuation for the bull in Hipp. 337 (with the
implication that her illicit love for Hippolytus may have been inherited from her
mother’s fatal passion) most likely points to the earlier drama Cretans (cf. WEBSTER
1967, 86).
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 99

rigidly established. Equally debatable is the question of the positioning of


the conflict between Minos and Pasiphae in the structure of the play, which
clearly depends on the reconstruction of the plot, on which views diverge
widely.11 No doubt, however, this scene would constitute the climax of the
play like the agon between Jason and Medea in Euripides’ Medea.
In order to defend herself Pasiphae employs rhetorical devices and
arguments recognizable in defence cases in contemporary judicial debates.
Since it would be useless to deny her offence, she admits her deed (4‑5),12
attempting to demonstrate that her misfortune was god‑sent, and therefore
that she is not responsible for it, by the use of εἰκότα, arguments from
probability (11‑20). This kind of argument, «almost a hallmark of rhetorical
sophistication», «is used to analyse possible motives, and it tends to appear
when a character is trying to make the best of a weak case».13 Pasiphae
attempts to prove that her lust for the bull is remote from any sense of
likelihood (11 ἔχει γὰρ οὐδὲν εἰκός14) as the bull could not have attracted
her sexually either by his outer appearance15 or by the prospect of marriage
and children (11‑20).16 Thus, although she would be rightly charged if she
had had a normal liaison (6‑8),17 her unnatural union with the bull must

11
Cf. CANTARELLA 1964, 111‑120; LUCAS 1965, 455‑456; WEBSTER 1967, 87‑92;
COLLARD/CROPP/LEE 1995, 54‑55; JOUAN/VAN LOOY 2000, 309‑318; COZZOLI 2001, 12‑
13; COLLARD/CROPP 2008, 530‑532; PEROTTI 2008‑2009, 251‑254.
12
Cf. Antigone’s apology (S. Ant. 443) or that of Orestes (A. Eum. 463, 588).
13
Cf. LLOYD (1992, 29), who points out that it is especially frequent in Antiphon’s
and Lysias’ forensic speeches, in Gorgias’ Palamedes as well as in the Euripidean agones.
On the use of probability argument, cf. also the extensive discussion in GAGARIN 1994.
To present the weaker view as the stronger (τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν) was one
of the major aims of sophistic rhetoric in accordance with its claim that there were two
opposed arguments for each issue (cf. the Protagorean δισσοὶ λόγοι). LLOYD (1992, 43)
regards Jason’s speech in the agon of Medea as «the outstanding example in Euripides
of rhetoric being used to promote the weaker case». On verbal performance as the
weapon of the weak, cf. SCODEL 1999‑2000, 140‑144.
14
Some editors print εἰκός in verse 19 as well (cf. AUSTIN 1968, 56; JOUAN/VAN LOOY
2000, 330).
15
In Tro. 987‑992 Hecuba accuses Helen of being fascinated by Paris’ glittering
appearance. PADUANO (2005, 142) shows that the terms by which male beauty is
defined in the above passage, e.g. beautiful clothes, brilliant eyes, are topoi in erotic
language, serving to underline the difference between a human and a bestial lover and
thus to emphasize Pasiphae’s exceptional, pathological case (cf. SANSONE 2013, 59). On
bestiality in Greek mythology, see ROBSON 1997.
16
In Hipp. 1009‑1015 and Tro. 946‑947 the defendant (Hippolytus and Helen
respectively) also emphasizes the lack of plausible motives against a charge of sexual
offence.
17
Phaedra expresses a similar condemnation of adultery in Hipp. 407ff.
100 Eleni Kornarou

have been god‑inflicted (9), and therefore she is not to blame for it. Pasiphae
proceeds to use the rhetorical device of ἀντικατηγορία (counter‑attack),18
that is, from being the defendant she becomes the accuser, blaming Minos
for her misfortune (21‑41)19 and abusing him as the worst of men (32 ὦ
κάκιστ’ ἀνδρῶν φρονῶν).20 She accuses him of breaking his vow to
Poseidon to sacrifice the bull, thus attracting the god’s anger upon him and
his wife, while also referring to an obscure divine force, δαίμων (cf. 21, 30),
which has brought about her own and Minos’ destruction.21 Thus Pasiphae
presents herself as a victim of divine vengeance suffering because of Minos’
impiety.22 And whereas she did the right thing in concealing her god‑
inflicted misfortune from people’s eyes as the chorus have also advised
Minos to do (2‑3),23 he proclaims it shamefully to everybody, considering
her responsible (30‑33). The picture of the cruel, savage Minos with which
Pasiphae concludes her apology, proudly challenging his authority to kill
her, is emphatically contrasted with her own innocence and constitutes the
climax of her counter‑attack (35‑41).24
Throughout her rhesis Pasiphae ascribes her misfortune to divine cause
(9, 21, 25‑26, 30), asserting her innocence (29 κοὐδὲν αἰτία, 40 κοὐδὲν

18
On this rhetorical device, see DOLFI 1984, 130‑133; LLOYD 1992, 101‑102. On the
technical and stylistic techniques of sophistic rhetoric, cf. also DUCHEMIN 1968, 167‑
216, and on the relationship between tragedy and rhetoric in general, BERS 1994.
19
Cf. her direct attacks on Minos (34‑35 σύ τοί μ’ ἀπόλλυς, σὴ γὰρ ἡ ’ξαμαρτία, /
ἐκ σοῦ νοσοῦμεν, 41 τῆς σῆς ἕκατι ζημίας – most editors supplementing θανούμε‑
θα). Similarly in Troades Helen shifts responsibility to Hecuba and Priam for giving
birth to Paris and then allowing him to survive (919‑922; cf. Andr. 293ff) as well as to
Menelaus for going away while Paris was visiting Sparta and leaving her alone with
him (943‑944; cf. Andr. 592ff). Phaedra acts in a similar way in Hippolytus: when her
secret is revealed, she commits suicide, yet, in order to preserve her good fame and
honour (419‑423, 716‑721, 1310‑1312) and to take revenge on Hippolytus for his pride
and rejection of her (728‑731), she accuses him, in the tablet she leaves to Theseus, of
attempting to rape her.
20
Such characterizations are frequent in agon‑scenes (e.g. Med. 465 ὦ παγκάκιστε,
Hec. 1199, Tro. 943 ὦ κάκιστε).
21
On the notion of δαίμων in the play, see CANTARELLA 1964, 71‑72, on 21, 129‑132,
and more extensively on the role of divine element in it, PEROTTI 2008‑2009.
22
Offence against impiety was a frequent case in fifth‑century Athenian courts and
Euripides often speculated on its consequences as in Hippolytus and Bacchae (cf.
FLETCHER 2017, 485).
23
Phaedra also attempted to conceal her passion for Hippolytus (Hipp. 394).
24
On the structure of Pasiphae’s rhesis, cf. CANTARELLA 1964, 77. Judging from
Pasiphae’s final words, WEBSTER (1967, 90) argues that «Minos must, therefore, before
this have told the story and have threatened to kill her».
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 101

ἠδικηκότες) as her deed was involuntary (10 ἔστι δ’ οὐχ ἑκούσιον


κακόν).25 Issues of guilt and innocence are frequently treated in the
Euripidean agones (as in the debates of Electra and Troades), the question of
divine or human responsibility in love affairs being a major issue in the
conflicts of Cretans and Troades. As Pasiphae argues that she acted under
divine constraint, similarly Helen claims that Aphrodite is responsible for
her sexual attraction to Paris and elopement with him (929‑931, 940‑942),
ironically prompting Menelaus to punish the goddess instead of her (948‑
950). Refuting Helen’s excuse, Hecuba denies that Aphrodite is to blame
for her deeds, declaring that she attributed her folly to the goddess (988:
«your mind became Cypris»;26 cf. 981‑982, 989‑990), whereas her real
motive was lust for Paris and Trojan wealth (991‑997). Menelaus agrees with
Hecuba claiming that Helen left home of her own free will (1037
ἑκουσίως),27 introducing the goddess into her rhesis speciously (1038‑
1039).28 Certainly arguments from divine coercion would not have had
much weight in legal cases in fifth‑century Athens, yet Pasiphae and Helen
are mythical heroines, not everyday women.29 Hecuba’s argument that man
is wholly responsible for his actions and what he calls god is in fact
comprised of his own decisions and thoughts reflects a tendency prevalent
towards the end of the fifth‑century and standing in contrast with older
mythical modes of thought which attributed to divine intervention human
passions and vicissitudes as presented in Cretans, Hippolytus and in Troades
by Helen.30 In this case Euripides’ presentation of divine and human
interaction is not much different from that of his predecessors; already in
Homer it becomes evident that human action is defined by divine will so
reference to divine attack would not be readily refuted as an excuse,31
although that would not exonerate man from responsibility for an evil
deed.32 According to the above view neither Helen nor Pasiphae is to be

25
Phaedra uses similar phraseology in Hipp. 319 φίλος μ’ ἀπόλλυσ’ οὐχ ἑκοῦσαν
οὐχ ἑκών; cf. Artemis’ words at 1305 διώλετ’ οὐχ ἑκοῦσα.
26
Cf. Hecuba’s prayer to Zeus before the debate (884‑888) where she states that it
is difficult to understand Zeus’ nature, wondering whether he is the law of nature or
the mind of man – views influenced by fifth‑century philosophical thought (cf. SCODEL
1980, 93‑95; LLOYD 1992, 107‑108).
27
Similar is Cassandra’s claim at 373 ἑκούσης κοὐ βίᾳ λελῃσμένης.
28
The theme of Helen’s responsibility is also treated in Gorgias’ Encomium of Helen.
On the possible relations between the agon of Troades and Gorgias’ Encomium, see
SPATHARAS 2002.
29
Cf. DOLFI 1984, 122‑123; LLOYD 1992, 104.
30
Cf. LESKY 1966, 250‑252; DOLFI 1984, 124‑128; VERNANT/VIDAL‑NAQUET 1988, 46.
31
Cf. LESKY 1966, 247‑248; LLOYD‑JONES 1971, 150‑151.
32
LLOYD‑JONES (1971, 150‑151) emphasizes that the Homeric Helen is conscious of
102 Eleni Kornarou

regarded as totally innocent, even though in Pasiphae’s case divine


visitation is presented as the only possible motivation for her monstrous
union, which could not be explained otherwise.33 It is under the influence
of sophistic rhetoric of the later fifth century that both heroines claim their
innocence without admitting guilt or responsibility for their actions. The
fact that their passion was god‑induced does not mean that they were
justified in surrendering to it. In Hippolytus Phaedra, although her illicit
love is inspired by Aphrodite,34 does not exempt herself from shame and
guilt for her feelings and attempts to control them.
Pasiphae treats her insane lust for the bull as an illness, νόσος (cf. 12, 20,
35),35 which implies force majeure and consequently moral innocence as
regards her sexual misbehaviour. This term is frequently used in the tragic
texts with reference to a strong erotic passion. It is a recurrent word in
Hippolytus, used to describe Phaedra’s love for her step‑son (40, 394, 405,
477, 479, 512, 597, 766, 1306),36 while Deianeira, referring to Heracles’
tremendous passion for Iole (S. Trach. 476 δεινὸς ἵμερος), also declares that
he has been struck by a νόσος (445, 491, 544). Yet Pasiphae does not
associate her pathological state with a strong personal erotic feeling37 but
rather with a divine impulse described as madness (cf. 9 ἐμηνάμην, 20
ἐμαινόμην) as Phaedra does in Hippolytus (241 ἐμάνην, 398 ἄνοιαν).
Paduano (2005, 139) rightly distinguishes the two cases in that Pasiphae’s
madness may be regarded as a complete and temporary alienation from
her own personality (as that Ajax and Heracles suffer in S. Ajax and E. HF
respectively)38 while in the case of Phaedra it is a metaphor of eros as a
powerful and destructive emotion which she tried in vain to overcome.
Phaedra describes the efforts she made in that direction in a long rhesis
addressing the chorus (Hipp. 391ff): initially she suffers in silence, then she

her guilt (cf. Il. 3, 171‑180), stating that by Homeric standards, in the agon of Troades
both Helen and Hecuba are right as gods work through human passions.
33
Cf. CANTARELLA 1964, 127‑128; SANSONE 2013, 59.
34
RIVIER (1960) shows that in Sophocles’ and Euripides’ plays before 428 eros is
frequently presented as both a human and a divine (i.e. ‘demonic’) impulse.
35
Most editors print νόσον at the end of verse 26 as well (e.g. COLLARD/CROPP/LEE
1995, 64; DIGGLE 1998, 118; COZZOLI 2001, 65; COLLARD/CROPP 2008, 548).
36
On Euripides’ use of clinical terminology in the context of the theoretical
discussions of the era about medical themes, the origins of various illnesses and the
ways of curing them, see COZZOLI 2001, 35‑39.
37
As PADUANO (2005, 139, n. 20) points out, the word ἔρως is not mentioned in
Pasiphae’s apology.
38
BATES (1930, 241) also agrees that Pasiphae «is…suffering from a form of
insanity».
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 103

tries to restrain her feelings by means of self‑control, and finally, physically


and psychologically ill from the inner struggle which she experiences, she
decides to die of starvation in order to preserve her honour and dignity.
The heroine is presented as a virtuous wife, conducting a struggle against
a powerful opponent who ‘wounded’ her (392 ἔτρωσεν; cf. 1300‑1303) and
is finally defeated (cf. 399 νικῶσα, 401 κρατῆσαι, 727 ἡσσηθήσομαι, 1304
νικᾶν), granting pleasure to Cypris (725‑727). Aphrodite appears in the
prologue of the play as a vengeful deity who, in order to destroy Hippo‑
lytus for his lack of reverence towards her, uses Phaedra as the instrument
of her vengeance, leading her to ruin as well. According to a possible
reconstruction of the plot Aphrodite is likely to have appeared in the
prologue of Cretans as well, alone or together with Poseidon, according to
the pattern of Troades, as the agent of the Queen’s infatuation for the bull.39
Throughout Greek literature Eros is presented as an irresistible power,
often with destructive consequences, to whom even gods succumb.40 No
doubt it is vain and even ruinous to try to resist a god‑inflicted passion as
gods destroy those who oppose them (like Hippolytus and Pentheus).
Phaedra’s Nurse even calls such an effort hybris (Hipp. 474‑475) while Helen
warns Menelaus of the folly of attempting to overcome the power of the
gods (Tro. 964‑965).41
Similarly Pasiphae treats her passion as a divine disease beyond human
power to overcome, and so she does not struggle against it as Phaedra
does.42 Hence she has been regarded as morally inferior to Phaedra and
closer to the picture of Phaedra in the First Hippolytus, who gives in her
passion easily.43 Yet one should be cautious of characterizations such as the

39
On a summary of the views concerning the prologue of the play, cf. JOUAN/VAN
LOOY 2000, 310.
40
So Deianeira excuses Heracles and Iole on the grounds that Eros is invincible
(Trach. 441‑449), Phaedra’s Nurse, shocked by the revelation of her mistress’s secret,
declares that Aphrodite is not a deity but even mightier (Hipp. 359‑360), while Helen
states that even Zeus, whom all gods obey, is enslaved to this goddess (Tro. 948‑950),
implying that if Zeus cannot resist her, how could she. On this topos in Greek tragedy,
see ROMILLY 1976.
41
In fr. 680 R of S. Phaedra it is also asserted that one should bear god‑sent
misfortunes (νόσους δ’ ἀνάγκη τὰς θεηλάτους φέρειν).
42
Pasiphae has always been presented as a less complex and tormented figure than
Phaedra (e.g. DI BENEDETTO 1971, 80; DOLFI 1984, 127; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 56‑
57), yet that may be due to the different dramatic context (cf. COLLARD/CROPP 2008,
532), perhaps the first in a series of ‘bad/unhappy women’ (cf. WEBSTER 1967, 77, 86)
motivated by their passions such as Medea, Phaedra, Stheneboea (cf. CANTARELLA
1964, 136; COZZOLI 2001, 9).
43
Cf. RECKFORD 1974. According to BARRETT (1964, 11) in the First Hippolytus
104 Eleni Kornarou

above taking into account that Euripidean agones are frequently simple
rhetorical exercises, detached from their dramatic context, which are not
always in accordance with the character the speaker exhibits in other parts
of the play (as happens in the case of Hippolytus in the name‑play or of
Hecuba in Troades).44 Furthermore the fragmentary nature of the play does
not allow us to draw safe conclusions about Pasiphae’s role in it or about
Euripides’ attitude towards this myth, a very debatable issue. Opinions
differ from the view that Euripides uses myth in its literal sense, i.e. to show
that Pasiphae is an innocent victim of divine wrath, to the belief that he
shows a critical attitude towards myth as a means of covering up human
irrationality and misdeeds45 or even that the poet aims at parodying
mythology.46 Yet the fact that Pasiphae accepts to be sentenced to death
may indicate that she is not meant to be regarded as a totally corrupt,
unscrupulous character and that her case should be taken more seriously.
In any case what Euripides is mainly interested in his use of the myth is to
explore the psychology and reactions of his heroes/heroines in extreme
situations.47 As Lloyd (1992, 104) argues, «Euripides confronts…mythology
with a human and realistic treatment of events», pointing out the clash
between the rhetorical, intellectual style and the mythical content of the
Euripidean agones.48
Although Pasiphae does not seem to strive like Phaedra to remain a
faithful wife, both mother and daughter are aware that their passionate
feelings are opposed to reason.49 At the beginning of her speech to the

Phaedra was portrayed as «a shameless and unprincipled woman» who deliberately


attempted to seduce her step‑son; hence in Ar. Frogs Aeschylus criticizes Euripides, in
the context of the contest between them, for presenting ‘Phaedras and Stheneboeas’
(1043; cf. Thesm. 497, 546‑550) and thus corrupting his audience.
44
Cf. LLOYD 1992, 19, 94‑95, 108‑109. On the relationship between rhetoric and
characterization, cf. also SCODEL 1999‑2000, 130; MASTRONARDE 2010, 207‑245.
45
Cf. RIVIER 1975 and POHLENZ 1954, 250‑251; DOLFI 1984, 137‑138, respectively (on
the traditional use of myth as an alibi in Pasiphae’s case, cf. also SAMPATAKAKIS 2007,
19‑20).
46
Cf. GOOSSENS 1962, 156‑157. Similarly LLOYD (1992, 50) asserts that «the
circumstances are grotesque».
47
Cf. LESKY 1960, 1966; ROMILLY 1991, 92‑122.
48
Cf. VERNANT/VIDAL‑NAQUET (1988, 26) that tragedy «confronts heroic values and
ancient religious representations with the new modes of thought that characterize the
advent of law within the city‑state».
49
Cf. CROISET 1915, 225; DOLFI 1984, 126‑127; COZZOLI (2001, 31), who makes a
distinction between the two cases (33) in that while both heroines recognize the evil,
Phaedra realizes it before acting, while Pasiphae only after her monstrous deed; in this
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 105

chorus where Phaedra analyses her situation, she reflects on the causes of
human fallible behaviour (Hipp. 373ff), declaring that «we understand what
is right, yet we fail to carry it out» (380‑381). Scholars usually contrast this
passage with the Socratic view equating virtue with knowledge.50 The
optimism of the Socratic doctrine that good judgment/understanding leads
to right behaviour is refuted by the above passage: men know what is good,
yet they fail to do it, led to ruinous actions by their emotions/desires. A
notable example in this respect is the passage in Medea 1078‑1080: the
heroine recognizes the evil she is about to accomplish, yet her wrath
(θυμός) overcomes her right judgment (βουλεύματα). In the context of
Socrates’ teaching that no one commits injustice of his own free will (οὐδεὶς
ἑκὼν ἁμαρτάνει) but because he is unaware of the right thing to do, and
of the relevant philosophical discussions of the era, the involuntariness of
an offence becomes the object of discussion in the second half of the fifth
century and was a frequent argument of defence in contemporary trial
cases51. This is also the basic argument of Pasiphae’s apology, that she acted
involuntarily, driven by divine madness because of Minos’ impiety.
Yet despite her rhetorical ability Pasiphae’s attempts to defend herself
fail much as Hippolytus’ employment of rhetoric in his agon with Theseus
in Hippolytus proves unable to save him.52 As Lloyd (1992, 15‑18, 110‑112)
points out, unlike real court cases, rarely does a character achieve his/her
goal by means of the agon and thus rarely do tragic debate scenes have any
impact on the action of the play.53 Minos orders Pasiphae to be shut together
with her accomplice (47 τὴν ξυνεργὸν τήνδε), most probably her Nurse,
in an underground prison to die,54 rejecting the chorus’ attempts to

case her state of mind could be indeed paralleled to that of Ajax and Heracles who
realize their abominable deeds only after they have recovered their sanity (cf.
PADUANO 2005, 139).
50
Cf. esp. Plato, Protagoras 345d‑e, 352bff, Meno 78a, and CROISET 1915, 224‑225;
LESKY 1966, 254‑255; DI BENEDETTO 1971, 5‑23; ROMILLY 1991, 107‑109; CONACHER 1998,
35‑36; COZZOLI 2001, 31‑35, as well as the discussion in GUTHRIE 1969, 459‑462.
51
Notable examples are Antiphon’s 2nd and 3rd Tetralogies, Gorgias’ Encomium of
Helen. Cf. also RIVIER 1975, 57‑60; DOLFI 1984, 129‑133. As VERNANT/VIDAL‑NAQUET
(1988, 46) note: «In its attempts at distinguishing the different categories of crime that
fall within the competence of different courts, the phonos dikaios, akousios, hekousios, the
law…lays emphasis on the ideas of intention and responsibility. It raises the problem
of the agent’s different degrees of commitment in his actions».
52
On the power and abuses/limits of rhetoric, cf. CONACHER 1998, 58, n. 13; SCODEL
1999‑2000.
53
On the dramatic relevance of tragic rhetorical speeches/debates, cf. DUCHEMIN
1968, 124‑135; CONACHER 1981.
54
On this usual punishment for tragic heroines, Sophocles’ Antigone being the most
106 Eleni Kornarou

dissuade him from his decision by emphasizing divine responsibility in


Pasiphae’s misdeed (42‑52). Whatever we are to think of Pasiphae in this
debate, we would hardly be meant to sympathize with the portrayal of the
violent, bloodthirsty Minos who rebuffs the chorus’ admonitions to
prudence (2‑3, 42‑43, 50‑51),55 disbelieving that Pasiphae’s evil is god‑
induced, as both the Queen and the chorus declare.56 The identity of the
chorus as priests of Idaean Zeus who speak with religious authority57
would be an additional reason for their opinion to be revered, so Minos’
refutation of it may be even regarded as impiety.58 Furthermore the fact
that the chorus share Pasiphae’s view and attitude towards her misfortune
would seem to direct the audience’s sympathy towards her rather than
Minos as frequently in an agon the choral comments guide the audience’s
sympathies/preferences towards one party or the other.59 The order of

notable example, cf. SEAFORD 1990. COZZOLI (2001, 40‑41) demonstrates that the
punishment inflicted on Pasiphae by Minos – according to COLLARD/CROPP/LEE (1995,
54) Euripides’ innovation in Pasiphae’s myth – is extremely severe compared with
contemporary Athenian legal practice (cf. Dem. Against Neaera 87), yet it is attested in
mythical tradition (in Tro. 1031‑1032 Hecuba, addressing Menelaus, also claims that
adulterous women should be killed by law). Some scholars have argued that
Pasiphae’s condemnation would come at the end of the play and place the agon in its
final part (e.g. CROISET 1915, 226; DUCHEMIN 1968, 90; COZZOLI 2001, 102), yet opinions
diverge widely on this matter (e.g. CANTARELLA (1964, 116) places the agon early in the
play, a view shared by JOUAN/VAN LOOY 2000, 312, and PEROTTI 2008‑2009, 253), while
according to a possible reconstruction of the plot Pasiphae was later miraculously freed
by a god (cf. WEBSTER 1967, 91‑92; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 54‑55; JOUAN/VAN LOOY
2000, 317, n. 37).
55
The role of the chorus in this scene and in the play in general would be to advise
the king as they were summoned precisely to interpret the portent of the monstrous
birth (cf. COZZOLI 2001, 102‑103).
56
Cf. RIVIER 1975, 51‑52.
57
Cf. COLLARD/CROPP/LEE 1995, 67.
58
One may be reminded of Oedipus’ impious behaviour towards Teiresias in S. OT
PADUANO (2005, 135) suspects further that the chorus’ invitations to prudence may
reveal a disagreement which they do not dare express openly, as in S. Antigone. In this
fragment Minos is portrayed as a violent ruler, characterized by all the negative
qualities of a typical tragic tyrant such as hybris, impiety, injustice (cf. COZZOLI 2001,
110). On Minos’ harsh portrayal on the tragic stage, sharply contrasted with the picture
of the pious, just king as presented in Homer and Hesiod, cf. [Plato], Minos 318d‑321a,
Strabo 10, 4, 8, Plut. Theseus 16.
59
One may think of Med. 576‑578 where the chorus’ condemnation of Jason’s
rhetorical ability to defend his unjust behaviour against his wife (reinforced by Medea
herself at 579ff) guides the audience’s sympathy towards her.
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 107

speakers in the debate is also probably meant to reinforce the above.


Scholars often claim that the character speaking second (usually the
defendant according to forensic practice)60 is more sympathetic or has
stronger arguments,61 although this is clearly false in some cases,62 and the
question of who is the ‘winner’ in the agon is not always so straight‑
forward.63 Yet, supposing that we have a proper agon here, according to the
above more ‘usual’ pattern, Pasiphae is more likely to have been presented
in a positive light compared with her judge and prosecutor Minos who
appears as an executioner. Minos’ violent outburst at the end of Pasiphae’s
speech and his hurry to punish her (44‑52) without refuting her arguments
in a reasoned speech but only abusing her as an evil woman (46 τὴν
πανοῦργον)64 may be regarded as an indication of his ‘defeat’ in the
debate.65
Yet whether Pasiphae or Minos is the ‘winner’ in the conflict is not so
important and we can only speculate upon this question as neither the
dramatic context of the scene nor the outcome of the play is known with
certainty. What is more significant in the study of Pasiphae’s apology is the
speculation it raises on serious issues such as the role of the gods in human

60
Yet this order is reversed in some cases: in the agones of the Electra‑plays and of
Troades Clytemnestra and Helen respectively speak first, despite being the defendants,
as the accusations against them are already known (cf. LLOYD 1992, 17; CROALLY 1994,
137).
61
E.g. SCHLESINGER 1937, 69‑70; DALE 1954, 106, on 697; STROHM 1957, 44; COLLARD
1975, 62; PADUANO 2005, 135‑137. In the agon of Hecuba Agamemnon, who acts as the
judge, pronounces a verdict clearly favourable to Hecuba (1240‑1251), speaking
second, while Polymestor grumbles that he has been ‘beaten’ by a slave woman (1252‑
1253).
62
Notable is the example of Jason who speaks second in the agon of Medea. Cf.
further LLOYD 1992, 17.
63
Cf. DUCHEMIN 1968, 189‑190; LLOYD 1992, 15‑17. Characteristic in this respect is
the agon of Troades where Hecuba seems to be in a stronger position, speaking second.
Yet, as RABINOWITZ (2017, 208) points out, on a narrative level Hecuba wins but in fact
she loses since, as the spectators are well aware, Helen is not finally to be killed by
Menelaus as the Old Queen desires. On the ambivalence of the result of the agon of
Troades, cf. also SCODEL 1980, 93‑100; LLOYD 1992, 110‑112; CROALLY 1994, 137‑138, 157‑
160.
64
Similarly in the agon of Hippolytus Theseus accuses his son of charlatanism (1038
ἐπῳδὸς καὶ γόης) without attacking his defence. Minos’ violent reaction refuting the
chorus’ recommendation to prudence may also be paralleled to Theseus’ explosion of
anger against Hippolytus after the revelation of Phaedra’s tablet while the chorus
vainly try to restrain him (Hipp. 882‑898).
65
Cf. COLLARD 1975, 62; PADUANO 2005, 135.
108 Eleni Kornarou

suffering and the relation of divine involvement in human affairs to man’s


personal responsibility, questions which lie at the heart of tragedy’s
philosophical thought. Euripidean agones raise but do not resolve serious
moral questions and conflicts,66 aiming rather to problematize for the
members of the audience, who are after all the ultimate judges and will
give their own divergent verdicts.

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66
Rather they highlight them as in the agon between Medea and Jason in Medea (cf.
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Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 109

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110 Eleni Kornarou

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Edipo all’altare?
Per una lettura ed interpretazione di Euripide,
fr. 554a K. (Edipo)*

LAURA CARRARA (HEIDELBERGER AKADEMIE DER


WISSENSCHAFTEN / UNIVERSITÄT TÜBINGEN)

La tragedia euripidea intitolata Edipo (Οἰδίπους), oggi frammentaria (frr.


539a‑557 K.[annicht]), è decisamente meno nota dei due drammi sofoclei,
entrambi conservati, dedicati a questo personaggio, l’Edipo Re e l’Edipo a
Colono. Data la quantità – ridotta – e la natura – spesso gnomica – dei
frammenti superstiti, plot, cast ed action dell’Edipo euripideo restano ancora
ignoti o incerti per larghi tratti. Tra le originali svolte impresse da Euripide
ad una materia mitica che aveva già ai sui tempi un’imponente tradizione
letteraria (soprattutto tragica)1 paiono potersi annoverare con sufficiente
confidenza almeno il rilievo dato alla Sfinge (con il suo indovinello) e a
Giocasta, quest’ultima presentata come fedele ad Edipo anche dopo la
scoperta del suo essere assassino di Laio, se non addirittura dopo la
rivelazione dell’incesto2.
Il presente contributo non intende aggiungere una nuova proposta di
ricostruzione dell’Edipo euripideo a quelle, parziali o globali, già esisten‑

* Lo spunto originario per questo contributo è sorto nel corso delle ricerche sui testi
dei due riceventi tardo‑antichi del mito di Edipo menzionati in queste pagine – la
Cronaca di Giovanni Malala e la Teosofia di Tubinga – che conduco presso la Accademia
delle Scienze di Heidelberg e l’Università di Tubinga con i professori Mischa Meier ed
Irmgard Männlein‑Robert, che desidero ringraziare in questa sede per la loro guida
in questi anni. Ringrazio, inoltre, gli organizzatori del convegno di cui qui si
raccolgono gli Atti, in particolare il dott. Luca Austa, per l’invito e l’ospitalità a Torino.
La citazione e discussione della – altrimenti sterminata – bibliografia su Edipo sarà
necessariamente selettiva. Le traduzioni dei passi greci citati sono mie.
1
Panoramiche ad es. in MARCH 1987, 121‑154; GANTZ 1993, 492‑502; EDMUNDS 2006,
11‑55; FINGLASS 2018, 13‑40.
2
Svariati frammenti superstiti paiono essere riconducibili alla Sfinge o a Giocasta,
il che concorda con la preminenza data a queste due figure nel brevissimo sunto dell’E‑
dipo euripideo presente nella Cronaca di Giovanni Malala: Ioh. Mal. Chronographia II
17 (p. 38, 3‑5 Thurn) ὁ γὰρ σοφώτατος Εὐριπίδης ποιητικῶς ἐξέθετο δρᾶμα περὶ τοῦ
Οἰδίποδος καὶ τῆς Ἰοκάστης καὶ τῆς Σφίγγος. Per l’Edipo euripideo in Malala vd.
COLLARD 2005, 59; D’ALFONSO 2006, 25‑31; per il trattamento razionalizzante riservato
al mito di Edipo nella Chronographia vd. REINERT 1981, 341‑344, 396‑403.
112 Laura Carrara

ti3 quanto concentrarsi su un singolo frammento scientificamente ‘giovane’


e dunque ancora da valutare in tutte le sue implicazioni, il fr. 554a K. Nelle
prime due sezioni dell’articolo si analizzeranno testo, testimoni e retroterra
cultuale nonché culturale dei quattro trimetri che costituiscono il brano. La
terza sezione si concentrerà sulla dimensione inter‑ ed intra‑drammatica
di questi versi, con riferimento prima (in § 3.1) ai motivi collegati del rifugio
in luogo sacro, della supplica e dell’esilio nell’Edipo a Colono di Sofocle e
poi (in § 3.2) all’ipotesi di un possibile scioglimento ateniese dell’Edipo
euripideo. La quarta sezione trarrà qualche breve conclusione.

1. Testo e testimoni

A livello di testo, il frammento 554a K. è privo di particolari problemi o


incertezze4 e recita concordemente in tutte le edizioni moderne correnti5:

ἐγὼ γὰρ ὅστις μὴ δίκαιος ὢν ἀνὴρ


βωμὸν προσίζει, τὸν νόμον χαίρειν ἐῶν
πρὸς τὴν δίκην ἄγοιμ’ ἂν οὐ τρέσας θεούς·
κακὸν γὰρ ἄνδρα χρὴ κακῶς πάσχειν ἀεί.

Ed io – chiunque sia l’uomo che non essendo giusto


viene a sedersi presso l’altare – lasciando perdere la legge
lo condurrei a giudizio senza temere gli dei;
è infatti necessario che un uomo malvagio sempre soffra malamente.

In conseguenza del suo complesso percorso di trasmissione, questo


frammento non appartiene al nucleo dei disiecta membra dell’Edipo da

3
Oltre alle prime ipotesi ricostruttive di Welcker, Hartung, Robert e Séchan (vd.
infra n. 8) vd. più di recente (fa da spartiacque, nel 1962, la pubblicazione a cura di Eric
Turner di P.Oxy. 2459, latore dei frr. 540, 540a e 540b K.) VAIO 1964; WEBSTER 1967, 241‑
246; DINGEL 1970; DI GREGORIO 1980; AÉLION 1986, 42‑61; HOSE 1990; GANTZ 1993,
499‑500; HUYS 1997, 17‑18; VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 436‑444; COLLARD in
COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 105‑132; COLLARD 2005, 57‑62; EDMUNDS 2006, 41‑43;
COLLARD/CROPP 2008, 2‑7; LIAPIS 2014 (con la tesi estrema che l’Edipo rifugga da
sempre ad ogni ricostruzione coerente poiché molti dei frammenti gnomici assegnativi
sono in realtà spuri, provenienti da un tardo esercizio retorico); FINGLASS 2017 (per‑
suasiva confutazione di Liapis).
4
Vd. infra n. 16 per πρὸς τὴν δίκην ed a testo per una varia lectio al v. 4.
5
AUSTIN 1968, 64 (fr. 98); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 457 (fr. 15);
KANNICHT 2004, 581; COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 122; COLLARD/CROPP
2008, 24.
Edipo all’altare? 113

sempre noti6. I quattro versi che lo compongono sono tràditi, insieme e nella
sequenza sopra stampata, da Giovanni Stobeo nel quarto libro dell’Antho‑
logion nella sezione περὶ ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὀποῖον χρὴ εἶναι τὸν
ἄρχοντα, «Sul governo e su come debba essere il governante» (Stob. 4, 5,
11 = 4, 199, 13‑17 Hense); essi sono là accompagnati dal solo nome d’autore,
Εὐριπίδου, non anche dal titolo del dramma. Per questa ragione, nelle
ottocentesche edizioni di riferimento (quelle di August Nauck) questi quat‑
tro trimetri compaiono tra i fragmenta incertae sedis di Euripide,
rispettivamente come fr. 1036 nell’edizione del 1856 e come fr. 1049 nella
riedizione del 18897. Di conseguenza, essi restarono esclusi dalle
pionieristiche ricostruzioni otto‑ e primonovecentesche della trama
dell’Edipo8. Chiarezza sul loro dramma di provenienza, per la verità, fu fatta
nello stesso 1889, senza tuttavia che Nauck, parrebbe, ne avesse notizia in
tempo utile. In quell’anno, Karl Buresch pubblicava in sede abbastanza
nascosta (in appendice alla sua Habilitationsschrift sull’oracolo apollineo di
Claro) sotto il titolo Χρησμοὶ τῶν Ἑλληνικῶν θεῶν (Oracoli degli dei greci)
un breve escerto bizantino di un’opera cristiana tardoantica in lingua greca
intitolata Θεοσοφία (Teosofia)9. In sintesi, questa Teosofia era, nella sua
versione originale oggi perduta, una raccolta in quattro libri comprendente
oracoli degli dei del pantheon greco, esametri orfici, vaticini sibillini, motti
ed aneddoti sapienziali di e su saggi pagani allestita dal suo autore – un
per noi anonimo teologo cristiano con tutta probabilità di origine orientale
attivo intorno al 500 d.C. – con lo scopo di dimostrare che anche divinità
ed autori della grecità pagana avevano avuto nozione ante litteram della
Verità cristiana10. Ebbene, nell’escerto bizantino di questa Teosofia pubbli‑

6
Noti cioè da quando si cominciò a collezionare i resti dei drammi classici perduti,
nel Tardo Rinascimento. La prima raccolta di frammenti drammatici greci mai allestita
fu quella, rimasta inedita, di Theodorus (Dirk) Canter (1545‑1616), fratello minore
dell’editore eschileo Willem Canter (1542‑1575), vd. COLLARD 1995, 243‑251; GRUYS
1981, 277‑309.
7
NAUCK 1856, 538; NAUCK 1889, 683, entrambe le edizioni con testo identico a
quello stampato qui sopra.
8
WELCKER 1839, 537‑553; HARTUNG 1843, 244‑254; ROBERT 1915, 305‑331; SÉCHAN
1926, 434‑441, tutti (tranne Hartung) con rimando alla bibliografia precedente.
9
BURESCH 1889, 89‑126.
10
Su problemi autoriali e presupposti teologico‑culturali della Teosofia così come
sul complesso processo di tradizione che ha portato alla sopravvivenza di copia
dell’escerto bizantino nel manoscritto tardo‑rinascimentale e miscellaneo di Tubinga
vd. almeno BEATRICE 2001, xi‑lviii (che propone come autore della Teosofia Severo di
Antiochia) e le introduzioni alle due recentissime traduzioni commentate della Teosofia
di Tubinga di TISSI c.d.s. e CARRARA/MÄNNLEIN‑ROBERT 2018, con ricca bibliografia.
114 Laura Carrara

cato da Buresch, comunemente noto oggi con il nome di Teosofia di Tubinga


dal luogo di conservazione dell’unico testimone manoscritto (Tubingensis
Mb 27), compare nella sezione finale dedicata a motti ed aneddoti di autori
pagani il quarto ed ultimo verso del frammento euripideo in esame, con la
preziosa attribuzione all’Edipo11:

§ 86. Ὅτι Εὐριπίδης ἐν Οἰδίποδι τῷ δράματί αὐτοῦ φησι·


κακὸν <γὰρ> ἄνδρα χρὴ κακῶς πράσσειν ἀεί

§ 86. Euripide nell’Edipo, il (suo?) dramma, dice:


«È infatti necessario che un uomo malvagio sempre sia a mal partito».

È in teoria ipotizzabile che l’originale Teosofia tramandasse il passo


dell’Edipo nella versione longior di Stobeo (o addirittura con versi in più), e
che sia stato l’escerto, la Teosofia di Tubinga, a ritagliare dalla citazione della
Vorlage il solo trimetro finale. Mi pare tuttavia più probabile pensare che
già la stessa Teosofia, in dipendenza da una raccolta di sentenze precedenti
(simile a quella di Stobeo?), contenesse il solo verso κακὸν γὰρ ἄνδρα κτλ.:
è infatti la forma breve, monolineare della citazione, con il suo tono di
massima moraleggiante ‘universale’ («il malvagio deve avere vita grama»),
ad essere più facilmente sfruttabile anche in un orizzonte cristiano. La parte
del frammento concernente la supplica all’altare, cioè i vv. 1‑3, riguarda
un’usanza specifica della religione politeista greca ed era forse meno
rilevante per l’impianto ‘comparatistico‑sinfonico’ della Teosofia. Inoltre,
tutti i passi poetici sentenziosi di autori classici citati nella sezione finale
della Teosofia di Tubinga (§§ 86‑91 Erbse: Euripide, [Pseudo‑]Menandro,
Antistene e Timone di Fliunte) sono mono‑ o, al massimo, bilineari; pare
di cogliere qui ancora la coerente facies del modello, la Teosofia tardoantica,
piuttosto che il risultato dell’opera di riduzione bizantina12. In maniera
analoga, il frammento 554a K. si ridurrà dai quattro versi stobeani alla sola
massima finale nel passaggio a tarde collezioni di proverbi13.

11
Testo del passo della Teosofia di Tubinga secondo ERBSE 1995, 55; vd. anche ERBSE
1941, 201; BEATRICE 2001, 36 (Theos. II, 26). Sia Erbse sia Beatrice ritengono sospetto il
pronome αὐτοῦ (αὑτοῦ?). È anche pensabile che sia l’intero nesso τῷ δράματί αὐτοῦ
glossa esplicativa da espungere, entrata secondariamente nel testo in coda al titolo
Οἰδίπους («nell’Edipo, [il suo dramma]»): il complemento ἐν Οἰδίποδι è già sufficiente
alla localizzazione della citazione.
12
Altrimenti detto, sarebbe una rimarchevole coincidenza se il risultato del processo
di riduzione fosse, in ogni caso, una citazione mono‑ o bilineare. Sul finale della Teosofia
di Tubinga (§§ 84‑91 Erbse), che fa seguire detti di autori greci pagani alla sezione
sibillina (§§ 75‑83 Erbse), e sulla sua posizione nella Teosofia vd. CARRARA c.d.s.
Edipo all’altare? 115

Qualunque fossero le dimensioni originarie della citazione, la comparsa


del trimetro κακὸν γὰρ ἄνδρα κτλ. con il titolo ἐν Οἰδίποδι nella Teosofia
di Tubinga permette l’assegnazione definitiva dell’intero frammento incertae
sedis stobeano all’Edipo euripideo. Tale fatto, pur già notato da Buresch14,
ha acquisito piena cittadinanza negli studi solo a seguito dell’edizione
critica della Teosofia di Tubinga di Hartmut Erbse nel 1941, e anche da allora
con lentezza. Il primo studioso di frammenti drammatici a divulgare la
testimonianza della Teosofia di Tubinga e a rinumerare di conseguenza il
brano come fr. 554a fu Bruno Snell nel suo Supplementum all’editio secunda
di Nauck, nel 196415. Non sorprende quindi che al silenzio (obbligato) delle
più antiche ricostruzioni dell’Edipo sul frammento risponda oggi un certo
interesse della critica per esso, che va dalla scoperta (con tutti gli azzardi e
le speculazioni del caso) delle sue ancora inesplorate potenzialità
semantiche e drammaturgiche al suo rifiuto come spurium16.

Il secondo dato nuovo, di molto minor momento, fornito dalla Teosofia di


Tubinga in relazione al fr. 554a K. è la variante testuale per il verbo del v. 4:
laddove tutti i manoscritti di Stobeo leggono πάσχειν («è infatti necessario
che un uomo malvagio sempre soffra malamente»), la Teosofia di Tubinga
tramanda πράσσειν («è infatti necessario che un uomo malvagio sempre sia
a mal partito»). La differenza di significato è lieve17, ed entrambi i nessi sono

13
Cf. Mantissa Proverbiorum 1, 83 = CPG II, 757, 3 Leutsch (da Stobeo, con πάσχειν
nel testo).
14
BURESCH 1889, 124‑125.
15
SNELL 1964, 10. NESTLE 1901, 120 ed ancora SOLMSEN 1975, 75 citano il frammento
come nr. 1049 incertae sedis, vd. infra n. 76.
16
Così LIAPIS 2014, 354 nel quadro della sua tesi generale per cui vd. supra n. 3. Per
l’argomento contenutistico di Liapis, vd. infra § 3.2. La sua obiezione linguistica (vd.
anche le sue pp. 334, 343) si appunta sull’articolo determinativo in πρὸς τὴν δίκην
(ἄγοιμ’): idiomatico è, a suo parere, πρὸς δίκην (ἄγειν). Invero la formula ‘a processo’
è εἰς δίκην, vd. LSJ s.v. ἄγω I 4 e cf. Pl. Lg. 767b6 ἄγων εἰς δίκην; nelle stesse Leggi e
negli oratori attici εἰς δίκην compare anche con altri verbi come ‘andare’ o ‘chiamare’;
per πρὸς τὴν δίκην cf. invece Pl. Lg. 936e7 ὁ δὲ κληθεὶς ἀπαντάτω πρὸς τὴν δίκην e
fr. adesp. 498 K.‑Sn. (data incerta, testimoni tardi) ἄγει τὸ θεῖον τοὺς κακοὺς πρὸς
τὴν δίκην (quest’ultimo citato anche da FINGLASS 2017, 25, il quale elenca, inoltre, altre
occorrenze tragiche di τὴν δίκην al posto di δίκην con verbi ‘legalistici’, ad es. δίδωμι).
La lingua del brano non è altrimenti problematica: cf. anzi per βωμὸν προσίζει al v. 2
in identico contesto A. Supp. 189 πάγον προσίζειν τόνδ᾽ ἀγωνίων θεῶν; E. Hec. 935
(lyr.) σεμνὰν … προσίζουσι Ἄρτεμιν.
17
Tant’è che SEECK 1981, 240‑241 stampa πάσχειν ma traduce πράσσειν («denn
einem schlechten Mann sollte es stets auch schlecht ergehen»). Errata è la resa attiva
di VAN KASTEEL 2011, 269 («un homme méchant agira etc») del testo della Teosofia di
116 Laura Carrara

idiomatici della lingua greca in generale ed euripidea in particolare: per


κακῶς (o καλῶς) πράσσειν cf. e.g. E. Alc. 961 κακῶς πεπραγότι; Hec. 55
ὡς πράσσεις κακῶς, 957 οὔτ᾽ αὖ καλῶς πράσσοντα μὴ πράξειν κακῶς;
Or. 1599 ἀνέχου δ᾽ ἐνδίκως πράσσων κακῶς; per κακῶς πάσχειν cf. invece
E. Med. 38‑39 e 280 κακῶς πάσχουσ᾽, 815 μὴ πάσχουσαν, ὡς ἐγώ, κακῶς18.
L’idea che un uomo malvagio si trovi giustamente a mal partito ritorna nel
citato verso dell’Oreste (1599, rivolto da Oreste a Menelao), che potrebbe
dunque essere addotto a sostegno di πράσσειν della Teosofia di Tubinga. A
favore della lezione stobeana πάσχειν parla invece un passo, pure esso
gnomico, come E. Hec. 903‑904 πᾶσι γὰρ κοινὸν τόδε, (…) τὸν μὲν κακὸν
/ κακόν τι πάσχειν, τὸν δὲ χρηστὸν εὐτυχεῖν, «a tutti è comune regola
questa, (…) che il malvagio soffra qualcosa di male, il valente abbia invece
buona fortuna» (qui tuttavia πάσχειν regge l’aggettivo neutro κακόν, non
l’avverbio κακῶς). In tal caso, πράσσειν della Teosofia di Tubinga sarebbe o
un errore di tradizione meccanico o una banalizzazione più o meno
consapevole di πάσχειν. In quale stadio della trasmissione πράσσειν abbia
soppiantato il (presunto) originale euripideo πάσχειν – se già nella Teosofia
tardoantica (se non nella fonte di questa?) oppure solo nella bizantina
Teosofia di Tubinga o addirittura nella copia tardo‑rinascimentale di questa
nel codice Tubingensis Mb 27 – è quasi impossibile dire19.

2. Presupposti cultuali e culturali

Il background cultuale e culturale di fr. 554a K. è ben noto agli studiosi di


antichità greche: presupposto – e criticato, vd. infra – in questo frammento
è il diritto all’intoccabilità automaticamente acquisito secondo la credenza
comune da chiunque, perseguitato, inseguito o ricercato, andasse fisica‑

Tubinga: il verso non riguarda la coercizione a compiere il male, ma le conseguenze


per il malfattore.
18
Questi passi paralleli già in BURESCH 1889, 125. Apparentemente senza conoscere
la Teosofia di Tubinga, BLAYDES 1894, 360 aveva già proposto πράσσειν al posto di
πάσχειν per il frammento euripideo, confrontando A. fr. 466 R. (dubium?) ζοῆς
πονηρᾶς θάνατος αἱρετώτερος· / τὸ μὴ γενέσθαι δ’ ἐστὶν ἤ πεφυκέναι / κρεῖσσον
κακῶς πράσσοντα, «Ad una vita meschina è preferibile la morte; il non esser nato è
meglio che l’essere nato passandosela male». Anche qui, tuttavia, la tradizione
manoscritta è bipartita, con il ms. A di Stobeo, la fonte del frammento, che legge
πάσχοντα, e divisi sono anche editori e studiosi: vd. l’app. cr. ad loc. di RADT 1985,
502. Identica alternanza πάσχω ‑ πράσσω in E. fr. *545a 9 K. (pure dall’Edipo), vd.
COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 131.
19
L’ultimo editore della Teosofia (BEATRICE 2001, 36, Theos. II, 26) restituisce già in
questo testo πάσχειν, con scelta forse azzardata.
Edipo all’altare? 117

mente a porsi presso l’altare o nella sede sacra di un dio (e dunque sotto la
sua tutela) per tutto il tempo della sua permanenza in quel luogo20. Un caso
antico celebre e spesso citato di questa pratica è quello del generale
spartano Pausania, il vincitore della battaglia di Platea: accusato pochi anni
dopo quella vittoria (intorno al 470 a.C.) di μηδισμός dai suoi concittadini,
Pausania si rifugiò nel tempio di Atena Chalkioikos sull’Acropoli di Sparta,
da dove nessuno per timore e reverenza della dea osava strapparlo21.
Questo principio cardine della religione greca trovò ampia ricezione nel
teatro tragico, venendo a costituire il nucleo di numerose scene e di intere
tragedie, organizzate anche visivamente intorno alla presenza di uno o più
rifugiati presso un altare o un tempio (si pensi alle Supplici eschilee)22. Nel
dramma attico, e più precisamente nella produzione euripidea, s’incon‑
trano però di questo principio anche messe in discussione, sorte forse in
conseguenza di reali casi storici di abuso del diritto del santuario23 e/o sulla
scia di un dibattito contemporaneo che tendeva a relativizzare l’automa‑
tismo dell’applicazione a favore di un approccio più sfaccettato. Anche da
testi non drammatici di tardo quinto secolo pare, infatti, di dover dedurre
che in quegli anni si fosse sviluppata una maggiore sensibilità per il
carattere potenzialmente a‑sociale del diritto del rifugio all’altare: l’esten‑
sione della protezione divina tanto sui rifugiati innocenti quanto su quelli
colpevoli veniva da più parti percepita – e/o strumentalmente presentata –
come destabilizzante per il corpo civico, poiché sottraente i criminali alla

20
Vd. GOULD 1973, 77‑78; PARKER 1983, 182‑183; MIKALSON 1991, 69‑70; SINN 1990,
71‑83; SINN 1993; CHANIOTIS 1996; MARTIN 2018, 478‑479. Se il fenomeno in questione
sia più propriamente da definirsi ἀσυλία (CHANIOTIS 1996, 66‑67) o ἱκετεία (GOULD
1973, 77; SINN 1990, 71‑73; SINN 1993, 90‑91; vd. anche GÖDDE 2000, 31‑32) o sia una
combinazione tra le due, è materia di controversia: qui basterà averne richiamato le
caratteristiche. La concreta dimensione ritualistica della supplica, con i suoi segni
esteriori, la formulazione di aperta richiesta di aiuto da parte del rifugiato,
l’accoglimento della stessa etc., è per la presente discussione di rilevanza secondaria.
21
Secondo Tucidide (1, 133‑134) i persecutori di Pausania credettero di aver trovato
il modo di aggirare l’ostacolo senza macchiarsi di empietà: essi sprangarono il tempio
e bloccarono i rifornimenti a Pausania, tirando fuori il generale appena prima che
questi morisse di fame, ed impedendo così che fosse la sua morte per fame (una forma
di decesso considerata particolarmente impura dai greci, cf. e.g. S. Ant. 775‑776) a
contaminare il suolo sacro, vd. GOULD 1973, 82 con n. 45.
22
MIKALSON 1991, 70‑77, con altri esempi; SINN 1993, 89. Sulle Supplici vd. GÖDDE
2000; DREHER 2003; GÖDDE 2003; in generale sul motivo della supplica nel teatro antico
vd. KOPPERSCHMIDT 1967; per gli aspetti scenici e visuali, soprattutto della supplica
personale (tra due attori), vd. TELÒ 2002.
23
OWEN 1939, 60: «the tirade may have been inspired by contemporary abuses of
the right of sanctuary».
118 Laura Carrara

punizione24. Oltre al fr. 554a K., tocca questo delicato tema nel corpus
euripideo il seguente passo dello Ione (1312‑1319, ed. Diggle)25:

Ἴων· φεῦ·
δεινόν γε θνητοῖς τοὺς νόμους ὡς οὐ καλῶς
ἔθηκεν ὁ θεὸς οὐδ’ ἀπὸ γνώμης σοφῆς·
τοὺς μὲν γὰρ ἀδίκους βωμὸν οὐχ ἵζειν ἐχρῆν
ἀλλ’ ἐξελαύνειν· οὐδὲ γὰρ ψαύειν καλὸν 1315
θεῶν πονηρᾶι χειρί, τοῖσι δ’ ἐνδίκοις·
ἱερὰ καθίζειν <δ’> ὅστις ἠδικεῖτ’ ἐχρῆν,
καὶ μὴ ’πὶ ταὐτὸ τοῦτ’ ἰόντ’ ἔχειν ἴσον
τόν τ’ ἐσθλὸν ὄντα τόν τε μὴ θεῶν πάρα.

Ione: Ohimè
Tremendo davvero come agli uomini le leggi non rettamente
abbia posto il dio né sulla base di un’opinione saggia.
Bisognerebbe che gli ingiusti non sedessero agli altari,
ma (bisognerebbe) cacciarli; infatti non è bello 1315
per mano malvagia toccare gli dei; per i giusti invece –
presso i luoghi sacri bisognerebbe sedesse chiunque abbia subito ingiustizia
e non che, trovandosi nello stesso stato, ottenga lo stesso
da parte degli dei chi è virtuoso e chi non lo è.

Con questa riflessione generale Ione commenta la situazione particolare


venutasi a creare in scena: Creusa (che Ione non ha ancora riconosciuto
essere sua madre) si è riparata presso l’altare di Apollo delfico dalla ven‑
detta del giovane, appena scampato all’avvelenamento da lei orchestrato.
Mentre Creusa si richiama alla concezione religiosa diffusa secondo cui chi
si affida al dio non può essere toccato (1285 ἱερὸν τὸ σῶμα τῷ θεῷ δίδωμ᾽

24
PARKER 1983, 183; CHANIOTIS 1996, 68, 84‑87; MARTIN 2018, 479, gli ultimi due
con rimando a Thuc. 4, 98, 6 (καὶ γὰρ τῶν ἀκουσίων ἁμαρτημάτων καταφυγὴν εἶναι
τοὺς βωμούς, «è possibile rifugiarsi presso gli altari per le colpe compiute
involontariamente»), un passo che pare restringere il diritto al rifugio presso gli altari
ai colpevoli involontari; vd. anche GOULD 1973, 101.
25
Su lingua e testo del passo vd. il commento di MARTIN 2018, 479‑480, che espunge
i vv. 1315‑1317 (in questo già parzialmente preceduto da Diggle) in ragione di una loro
presunta incoerenza sintattica e contenutistica con il resto del brano; diverse possibilità
di costruzione sono però illustrate nel commento di OWEN 1939, 160. Una decisione in
merito non è comunque rilevante ai fini dell’interpretazione ideologica e logica del
brano, per la quale vd. BURNETT 1962, 99 n. 36; MIKALSON 1991, 75‑76; CHANIOTIS 1996,
65‑66; MARTIN 2018, 478‑479; anche SINN 1993, 108 n. 11; BOLKESTEIN 1939, 90‑91, 128,
247‑248 (in particolare sulla concezione ‘legalistica’ di ἀδικούμενοι).
Edipo all’altare? 119

ἔχειν), Ione condivide, in linea di principio, le stesse premesse del fr. 554a
K., anche se – ed è differenza non da poco – non la stessa prontezza ad agire
che la persona loquens del frammento rivendica per sé26 (quantomeno per
via di ipotesi, ἄγοιμ’ ἂν al v. 3 del frammento è condizionale: «condurrei a
giudizio», vd. su questo infra § 3.2); con la ‘tirata’ dei versi 1312‑1319 Ione
pare, infatti, finire per ammettere la superiore forza della legge divina e
limitarsi ad esprimere un desiderio utopico, ed in partenza frustrato, che
le cose stiano diversamente (al v. 1314 ἐχρῆν è condizionale: Ione non è
dunque violento, ma blasfemo)27. A sciogliere l’impasse arriva la Pizia, che
frena Ione (1320 ἐπίσχες, ὦ παῖ) ed avvia il riconoscimento28.
Un’ulteriore attestazione euripidea del medesimo motivo, cronolo‑
gicamente precedente29 e stavolta dialogica, offrono gli Eraclidi, 254‑260 (ed.
Diggle):

Δη· καὶ πῶς δίκαιον τὸν ἱκέτην ἄγειν βίᾳ;


Κη· οὔκουν ἐμοὶ τόδ᾽ αἰσχρὸν ἀλλ᾽ <οὐ> σοὶ βλάβος; 255
Δη· ἐμοί γ᾽, ἐάν σοι τούσδ᾽ ἐφέλκεσθαι μεθῶ.
Κη· σὺ δ᾽ ἐξόριζε, κᾆτ᾽ ἐκεῖθεν ἄξομεν.
Δη· σκαιὸς πέφυκας τοῦ θεοῦ πλείω φρονῶν.
Κη· δεῦρ᾽, ὡς ἔοικε, τοῖς κακοῖσι φευκτέον.
Δη· ἅπασι κοινὸν ῥῦμα δαιμόνων ἕδρα. 260

Dem: Come può esser giusto portar via con la forza il supplice?
Ar.: Questo sarà per me un disonore, ma per te non è un danno? 255
Dem.: Sì, se ti permetto di trascinarli via.
Ar.: Tu mandali fuori dai confini, e poi da là li porteremo via.
Dem.: Sei sciocco se pensi di saperne più del dio.
Ar.: Invero questo, così pare, è rifugio ai malvagi.
Dem.: A tutti è comune baluardo l’altare degli dei. 260

Il re ateniese Demofonte e l’Araldo argivo dibattono sul destino dei figli


di Eracle, i quali, con Alcmena e Iolao, hanno trovato rifugio dalla persecu‑

26
LIAPIS 2014, 354.
27
SOLMSEN 1975, 72 e 75, seguito da MARTIN 2018, 478.
28
La Pizia non trattiene quindi Ione dallo strappare Creusa dall’altare con le proprie
mani, ma da nuove avventate affermazioni sul divino, vd. MARTIN 2018, 481 nelle note
vv. 1320‑1325 e v. 1320.
29
Gli Eraclidi sono datati intorno al 430 a.C., lo Ione tra il 414 ed il 411/410 a.C. (vd.
rispettivamente WILKINS 1993, xxxiii‑xxxv e MARTIN 2018, 24‑32), l’Edipo intorno al 415
a.C. (su questo vd. infra n. 43). Non è dunque vero che sia lo Ione a contenere «the
earliest attack against the institution of asylia in the Greek literary tradition»
(CHANIOTIS 1996, 66): lo precedono gli Eraclidi, e forse lo stesso Edipo.
120 Laura Carrara

zione di Euristeo presso l’altare di Zeus a Maratona. L’Araldo argivo


pretende la loro consegna: dopo che sia la sua minaccia di ritorsione (255)
sia il suo suggerimento di ingannare i supplici concedendo loro scorta fino
al confine attico per poi abbandonarli là (257)30 sono stati ovviamente
ignorati da Demofonte, egli sposta la propria argomentazione da un piano
pratico ad uno etico ed obietta – ponendosi così sulla stessa lunghezza
d’onda di Ione e della persona loquens di fr. 554a K. – che l’altare di un dio
non può né deve essere ricettacolo di malvagi (259: tali sono a suo giudizio
gli Eraclidi, cf. v. 178). L’enfatico accostamento di ἅπασι e κοινὸν nella
risposta di Demofonte («a tutti comune baluardo», 260) sintetizza bene la
credenza comune nell’universalità della protezione garantita dall’altare,
indipendentemente dai meriti o demeriti di chi ne beneficia31. Secondo
l’Araldo argivo, Ione e lo speaker anonimo di fr. 554a K. questa è una palese
ingiustizia che mina alle fondamenta il funzionamento della società umana,
retto dalla corrispondenza tra colpa e punizione (vd. supra).
Nel suo celebre – e discusso – saggio Euripides. Der Dichter der
griechischen Aufklärung, Wilhelm Nestle aveva citato anche il passo dello
Ione ed il frammento 554a K. (per lui ancora fr. 1049, vd. supra n. 15) tra le
attestazioni della critica portata da Euripide alle concezioni religiose
tradizionali ed alle pratiche da queste dipendenti (come, appunto, il rifugio
agli altari)32. Analoghe interpretazioni di questi due brani come ‘progres‑
siste’ o ‘illuministe’ prese di posizione di Euripide nel conflitto tra credenze
tradizionali e nuova etica s’incontrano anche altrove nella letteratura
secondaria33. Altri studiosi hanno fatto però giustamente notare che, se si
vuol per forza distillare una posizione euripidea in merito al principio
dell’intoccabilità dei rifugiati in spazio sacro, essa sarà difficilmente in
accordo con quella di Ione: tutta la macchina drammatica dell’anagnorisis
di quella tragedia è lì a dimostrare che la ‘tirata’ di Ione (1312‑1319) è
malfondata e che gli dei hanno ben posto la legge del rifugio nei santuari:
solo grazie a questa legge, e grazie all’aderenza, per quanto non entusiasta,
di Ione ad essa, madre e figlio possono ricongiungersi; se Ione avesse
seguito i dettami (solo apparentemente!) equanimi dell’etica umana e

30
Su questo stratagemma per liberarsi di supplici molesti o difficili da trattare vd.
SINN 1990, 79‑80; SINN 1993, 92‑93.
31
MIKALSON 1991, 76; CHANIOTIS 1996, 67.
32
NESTLE 1901, 120.
33
SCHMID/STÄHLIN 1940, 554 («einer der dem Euripides so beliebten Weltverbes‑
serungsvorschläge»); SOLMSEN 1975, 75‑77 (E. Ion 1312‑1319 e fr. 554a K. [per lui an‑
cora fr. 1049] sono esternazioni ‘illuministiche’, vagheggiamenti di una situazione
utopica da parte di uno spirito libero ed avanzato come Euripide).
Edipo all’altare? 121

punito Creusa per l’attentato ai suoi danni, avrebbe finito per macchiarsi
di uno dei peggiori crimini immaginabili, il matricidio34. Allo stesso modo,
anche l’altro sostenitore della medesima opinione, l’Araldo argivo in
Eraclidi v. 259, non è certamente modello di pietà positiva, come risulta dalla
lettura dell’intera tragedia35. Soltanto se fossero ridotti allo status di
frammenti privi di contesto, Ion. 1312‑1319 e Heracl. 254‑260 potrebbero
esser presi come esternazioni ‘progressiste’ della voce del poeta miranti a
fare proseliti tra il pubblico – ma frammenti essi non sono36.
Sullo sfondo costituito dall’analisi dei due loci similes di Ione ed Eraclidi,
si affronterà ora lo studio di fr. 554a K. nella sua dimensione intra‑ (cioè in
rapporto con il resto della tragedia, ancorché oggi perduta, che lo
conteneva) ed inter‑drammatica (cioè in eventuale relazione con altri
drammi più o meno contemporanei).

3. Dimensione inter‑ ed intradrammatica

3.1. E. fr. 554a K. ed Edipo a Colono

Per cominciare da questo secondo aspetto, non mi pare sia mai stato
osservato che il fr. 554a K. dall’Edipo di Euripide è concettualmente
prossimo ad uno dei motivi portanti dell’Edipo a Colono sofocleo, la
permanenza di Edipo nello spazio sacro delle Eumenidi a Colono. Le scene
iniziali di questa tragedia, compresa la parodo commatica, fino alla
comparsa di Ismene (324) ruotano intorno alla questione se sia lecito per
Edipo fermarsi nel χῶρος ἱερός (16) o se egli debba, invece, andarsene
subito37. È la sua entrata ‘non autorizzata’38 in un’area che gli indigeni
considerano intoccabile (37 χῶρον οὐκ ἁγνὸν πατεῖν; 39 ἄθικτος οὐδ’
οἰκητός) anche solo con il pensiero, lo sguardo o la parola (126‑134 ἀστιβὲς
ἄλσος … ἀδέρκτως, ἀφώνως, ἀλόγως) a scatenare il primo conflitto della
tragedia, quello che oppone Edipo all’Abitante di Colono ed al Coro. Il
Coloniate ed i coreuti fanno ogni tentativo di persuaderlo a lasciare la sacra

34
FRIEDRICH 1953, 23; BURNETT 1962, 99, 103 n. 36; CHANIOTIS 1996, 86.
35
Sull’assoluta negatività dell’Araldo argivo FITTON 1961, 450.
36
Sull’uso dei frammenti euripidei da parte di Nestle come base della sua
interpretazione generale del poeta e gli ovvi problemi che ciò comporta vd. MIKALSON
1991, 6‑7.
37
εἰ χρὴ σε μίμνειν ἤ πορεύεσθαι πάλιν, per formulare l’alternativa con le parole
dell’Abitante di Colono (80).
38
Sulla portata esatta dell’illiceità del gesto di Edipo (e di Antigone, che lo
accompagna) agli occhi dell’Abitante di Colono e del Coro, vd. infra a testo.
122 Laura Carrara

sede (ad es. 36‑37 ἐκ τῆσδ’ ἕδρας ἔξελθ’; 162 μετάσταθ’, ἀπόβαθι; 166
ἀβάτων ἀποβάς); essi però non osano, anzi nemmeno mai pensano di
allontanarlo a forza con le proprie mani. Al contrario, dopo che Edipo ha
fondato la richiesta di permanenza con una supplica di accoglienza alle dee
epicoriche (44‑45 ἱκέτης … οὐχ ἕδρας … ἄν ἐξελθοιμ’), il Coloniate
esplicitamente esclude il ricorso all’iniziativa personale (47‑48).
Il rapporto tra i due testi mi pare potersi descrivere così: se il frammento
euripideo 554a K. mette sul tavolo la questione del ‘supplice all’altare’ ed
espone, qualora si dia il caso che questi sia portatore di colpe nei confronti
dei propri Mitmenschen, il comportamento da adottare (consegnarlo alla
giustizia umana senza timore degli dei), l’Edipo a Colono prende le mosse
dalla rappresentazione scenica del motivo della supplica e vi fa interagire
uno dopo l’altro concreti Mitmenschen (non solo il Coloniate ed il Coro, ma
anche Teseo e Creonte). Le differenze tra i due testi sono, ovviamente,
evidenti: non solo nell’Edipo a Colono non compare mai il termine βωμός a
proposito dello spazio sacro in cui si muove Edipo39; anche orientamento
e presupposti del dibattito sulla liceità del soggiorno in luogo sacro sono
diversi. Mentre lo speaker euripideo di fr. 554a K., ed anche Ione nella
tragedia omonima, si rifanno ai concetti di giustizia ed ingiustizia, colpa e
conseguente punizione per distinguere tra chi abbia diritto alla protezione
dell’altare e chi ne abusa, gli Abitanti di Colono ragionano secondo altre
categorie. La ragione primigenia per cui essi – il Coloniate prima ed i
coreuti poi – vogliono allontanare Edipo dal suolo sacro alle Eumenidi
risiede nel fatto che egli vi si è introdotto da semplice mortale, senza
l’adeguata preparazione e protezione rituale; il timore che la presenza di
Edipo attiri su di loro le maledizioni (ἀραί, 154) delle dee è ben precedente
alla, e del tutto indipendente dalla, scoperta delle sue colpe.

Ciò emerge chiaramente dal già menzionato mutamento di attitudine del


Coloniate, il quale diventa (più) disposto a tollerare la presenza di Edipo

39
Si parla piuttosto di una ‘pietra non polita’ (ἐπ’ ἀξέστου πέτρου, 19), più volte
vagamente di ‘sede’ (ἕδρα), di uno o più gradini (βάθρον: 101; 263), il tutto all’interno
di un bosco (ἄλσος: 10; 98; 114; 126), descritto prima dal Coloniate (52‑63) e poi dal
Coro (156‑160): manca, insomma, l’intera dimensione della costruzione templare man‑
made. Sulla conformazione del luogo sacro di OC vd. GÖDDE 2000, 113‑115 (in un
capitolo efficacemente intitolato «Steine, Schwelle und Stufen»); al di là della
topografia precisa resta valida l’osservazione di GOULD 1973, 90: «nowhere else in
Greek tragedy does the primitively mysterious power of boundaries and thresholds,
the ‘extraterritoriality’ of the sacred, make itself felt with the force and precision that
Sophocles achieves in the parodos of Oedipus at Colonus». Sullo spazio di OC vd. anche
DI BENEDETTO 2003, 110‑113.
Edipo all’altare? 123

non appena questi si dichiara ἱκέτης (44). Il Coro, che nulla sa di questa
richiesta di ἱκεσία e per il quale Edipo non è esteriormente riconoscibile
nelle vesti di supplice (egli non ne porta i segni religiosi consueti)40, fa ogni
sforzo per spingerlo fuori dallo spazio (più?)41 sacro del bosco delle
Eumenidi nell’articolata scena dei vv. 165‑204 come precondizione per poter
avere un contatto verbale‑dialogico con lui (165‑169; 203‑204) e dunque ben
prima di iniziare l’indagine sulla sua identità (204‑206). Che Edipo poi nel
corso della parodo venga allo scoperto come parricida ed incestuoso (203‑
227) non può che peggiorare la sua posizione e conferma il Coro nel suo
timore di conseguenze divine (256 τὰ ἐκ θεῶν τρέμοντες)42 – ma il divieto
di stare nello spazio sacro alle Eumenidi era già stato espresso dal Coro
preventivamente.

Nonostante queste differenze tra fr. 554a K. ed OC, mi pare rimanga


coincidenza degna di nota che la seconda delle due tragedie sofoclee su
Edipo ruoti intorno alla stessa scénerie – un colpevole rifugiato in un luogo
sacro – che già Euripide aveva evocato con il fr. 554a K. in una tragedia dal
titolo Edipo. Non si vuole con ciò sostenere che la particolarissima ouverture
dell’Edipo a Colono – con Edipo esiliato e rifugiato alle porte di Atene in un
χῶρος ἱερός – sia stata ispirata a Sofocle dalla conoscenza dei quattro versi
euripidei del fr. 554a K. con i quali, una decina di anni prima43, il tema della
supplica all’altare aveva già fatto la sua comparsa in un dramma di Edipo44.

40
Vd. GÖDDE 2000, 113, che definisce Edipo «ein unrechtmäßiger Eindringling»;
anche GOULD 1973, 100. Il Coro non lo dimentica, e più avanti esorterà Edipo a
recuperare la purezza rituale con un sacrificio ‘riparatore’ (464‑492, vd. SEIDENSTICKER
1972, 263 con n. 2), nuovamente come precondizione per essergli al fianco (490‑492).
Edipo stesso è consapevole di questa sua trasgressione rituale, compiuta solo per
‘cause di forza maggiore’ (per dar compimento alla profezia di Apollo sul luogo della
sua ultima dimora), cf. vv. 98‑101.
41
Sui diversi gradi e confini di sacralità che paiono esistere nel bosco delle
Eumenidi, vd. GÖDDE 2000, 114 n. 320, con bibliografia.
42
Sul miasma che emana da Edipo quale parricida ed incestuoso vd. PARKER 1983,
318‑321.
43
La data di rappresentazione dell’Edipo euripideo non è nota da fatti esterni, ma
è stata posta dalla critica con buona approssimazione negli anni intorno al 415 a.C.,
vd. AUSTIN 1968, 59; CROPP/FICK 1985, 70, 85; VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022,
435‑436. Sulla data postuma di rappresentazione dell’Edipo a Colono (402/401 a.C.)
informa la Hypothesis II manoscritta al dramma (rr. 1‑3), vd. KAMERBEEK 1984, 3.
44
Va comunque osservato che la declinazione della vicenda edipica in direzione di
una ἱκεσία non è attestata con certezza prima dell’ultimo quarto del quinto secolo a.C.:
della saga eroica locale comunemente ritenuta preesistere l’OC facevano parte la morte
e/o sepoltura di Edipo a Colono, non anche una tradizione dettagliata su un suo esilio
124 Laura Carrara

La relazione che sussiste tra i due testi è, piuttosto che cronologica o


genealogica, ideologica: sia fr. 554a K. sia OC ruotano intorno alla (messa
in discussione della) pratica religiosa del rifugio in luogo sacro e alle
possibili reazioni dei componenti della πόλις ricevente. Se tra i due testi
intercorra anche un rapporto scenico, e cioè se già l’Edipo euripideo, prima
dell’Edipo a Colono, avesse rappresentato in scena l’eroe nelle vesti di ἱκέτης
(ed eventualmente già in Attica?), si potrà dire soltanto dopo aver tentato
la ricostruzione del contesto di provenienza di fr. 554a K.

3.2. Il contesto originale di E. fr. 554a K.

Spesso passato sotto silenzio (perché non ancora conosciuto, vd. supra §
1) o lasciato per prudenza nel vago45, il fr. 554a K. è stato per la prima volta
valorizzato dal punto di vista drammaturgico da T.B.L. Webster nel 1967,
con attribuzione a Creonte (personaggio la cui presenza nell’Edipo
euripideo è assunto comune e condivisibile della critica, per quanto, è bene
ribadirlo, di essa manchi testimonianza esterna sicura)46. Con la posizione
indifferente a scrupoli religiosi e basata solo sulla più angusta etica umana
del fr. 554a K., Creonte verrebbe ad essere, nell’economia del dramma,
antitetico ad Edipo, per parte sua portatore di più alti sentimenti (ad es.
quelli del fr. 542 K.: «il bianco argento e l’oro non sono l’unica valuta, ma
anche la virtù è moneta di scambio a disposizione di tutti gli uomini, di cui
bisogna far uso»; cf. anche fr. 547 K.). Il conflitto verbale ed ideologico
dominante in scena vedrebbe dunque opposti Creonte attivo Realpolitiker
ed Edipo inerme idealista (cf. fr. 552, 2 K. συνετὸν ἄτολμον [Edipo] ἢ
θρασὺν κἀμαθῆ [Creonte])47. Procedendo nella stessa direzione di

e rifugio sacralmente connotato in Attica; sulla saga attica di Edipo vd. KAMERBEEK
1984, 2‑6; MARCH 1987, 139‑148 (a favore della presenza dell’esilio di Edipo in Attica
già nel perduto Edipo di Eschilo sulla base di Androzione, FGrHist 324 F 62); KEARNS
1989, 208‑209; MASTRONARDE 1994, 24‑25 (con ulteriore bibliografia); EDMUNDS 1996,
95‑100 ed EDMUNDS 2006, 51‑52 (anche con analisi di Androzione); sull’esilio di Edipo,
più volte evocato, sempre senza connessione con Atene, ma lasciato infine in sospeso
nell’Edipo Re vd. anche SEIDENSTICKER 1972, 260; FINGLASS 2018, 38‑40.
45
CHANIOTIS 1996, 68: «an anonymous speaker in an unknown context»; MIKALSON
1991, 259 n. 33; FINGLASS 2017, 25.
46
Paragonabile a quella di Malala per Giocasta per cui vd. supra n. 2; tale potrebbe
essere forse la cd. ‘Urna di Volterra’, su cui vd. ROBERT 1915, 307; COLLARD in
COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 111. Per l’opposizione politica tra Edipo e Creonte come
germe della vicenda dell’Edipo vd. già ROBERT 1915, 306.
47
WEBSTER 1967, 243, vd. anche AÉLION 1986, 51 con n. 125, VAN LOOY in JOUAN/VAN
LOOY 20022, 442.
Edipo all’altare? 125

Webster, Rachel Aélion ha voluto più precisamente vedere in fr. 554a K.


una sorta di dichiarazione ‘muscolare’ di Creonte determinato a punire
Edipo parricida ed incestuoso48. Un ulteriore argomento a favore della
messa in relazione di fr. 554a K. con Creonte è la congruenza di questa
ipotesi con il titolo del capitolo stobeano testimone del frammento, περὶ
ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὀποῖον χρὴ εἶναι τὸν ἄρχοντα («sul governo e su
come debba essere il governante», vd. supra § 1)49: la qualifica di ἄρχων
ben si attaglia a Creonte nella gerarchia tebana, soprattutto una volta
decaduto Edipo50.
Una nuova possibilità di contestualizzazione rispetto allo scenario
appena descritto – che è in sostanza quello ‘scontro di caratteri e principi’
già supposto da Webster per altri drammi euripidei frammentari tardi51 –
è emersa dopo la scoperta di un altro fragmentum novum dell’Edipo, il 554b
K. Questo testo si è aggiunto ai lacerti del dramma nel 1969, grazie alla
pubblicazione del celebre Papiro Bodmer XXV della Samia di Menandro. Due
trimetri della commedia (325‑326) sono accompagnati su questo papiro
dalla nota a margine οιδιπους ιριποδου, da interpretarsi come Οἰδίπους
Εὐριπίδου: ‘Edipo di Euripide’52. I due versi in questione – pronunciati da
Demea, il padre adottivo dello iuvenis protagonista della commedia –
recitano:

λάβ’ αὐτόν. ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός,


ὦ ταναὸς αἰθήρ, ὦ – τί, Δημέα, βοᾶις;

Agguantalo! – O città della terra cecropia,


o etere immenso, o – perché gridi, o Demea?

Dall’Edipo di Euripide possono provenire, ovviamente, soltanto


l’apostrofe ad Atene (ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός) ed al (suo?) vasto

48
AÉLION 1986, 51.
49
Ciò è stato espressamente notato solo da KANNICHT 2004, 582 e COLLARD in
COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 131. Il brano più simile a fr. 554a K. proveniente da
tragedia conservata (quindi controllabile) citato da Stobeo nello stesso capitolo è
pronunciato da, e riferito a, un regnante (Stob. 44, 5, 13 = E. Suppl. 875‑880: Adrasto a
Teseo su Eteoclo).
50
In S. OT 629 l’ἄρχειν è (ancora) di Edipo, questi e Creonte sono chiamati ἄνακτες
dal Coro (631); nell’Antigone il campo semantico dell’ἀρχή è (auto‑)riferito interamente
a Creonte (ad es. 736; 739; 744).
51
Vd. WEBSTER 1967, 288‑289: «another common element in the late plays is the
‘contest of lives’», con diversi esempi tra cui il dibattito tra ‘vita contemplativa’ e ‘vita
attiva’ di Anfione e Zeto nell’Antiope.
52
Vd. l’editio principes di KASSER/AUSTIN 1969, 48‑49.
126 Laura Carrara

etere (ὦ ταναὸς αἰθήρ) nonché l’invocazione ὦ iniziante un terzo appello


subito abortito53, non anche le sequenze λάβ’αὐτόν e τί, Δημέα, βοᾶις,
genuinamente comiche. Secondo Gomme e Sandbach, la presenza di
un’apostrofe ad Atene mostrerebbe che la parte finale dell’Edipo euripideo
trattava del rifugio del protagonista in quella città dopo l’accecamento54. Il
suggerimento implicito dei commentatori menandrei è stato sviluppato
nelle sue conseguenze da Lamberto Di Gregorio, che ha introdotto il
concetto decisivo del ‘cambio di scena’:

Nel quinto ed ultimo episodio la scena, che finora aveva avuto luogo a Tebe
e rappresentava il palazzo di Laio, doveva con ogni probabilità cambiare,
come sembra richiedere il P. Bodmer 25: il teatro dell’azione diventava
Atene. (…) [Ne]i vv. 325‑326 della Samia menandrea (…) è da vedere
verosimilmente il saluto di Edipo alla terra di Cecrope55.

Per spiegare questo approdo di Edipo ad Atene non si vede altro modo
che scorgervi l’esito del suo esilio da Tebe. Se tale ipotesi cogliesse nel
segno, bisognerebbe ammettere che una delle colonne portanti della trama
di OC – l’esilio risolutore in terra attica –, finora ritenuta invenzione o
comunque elaborazione personale di Sofocle (vd. supra n. 44), si troverebbe
anticipata56, anzi già concretamente inscenata nell’Edipo euripideo.
Davanti ad una conseguenza di tale portata, altri studiosi hanno
preferito sminuire l’implicazione ‘ateniese’ di fr. 554b K. Martin Cropp e –
in maniera apparentemente indipendente – Herman van Looy hanno
proposto di modificare il Κεκροπίας tràdito dai papiri della Samia in

53
Che fossero nessi dal sapore tragico gli studiosi avevano già visto prima della
scoperta del Papiro Bodmer XXV con la rivelatrice nota marginale (i trimetri erano già
noti dall’inizio del Novecento, perché presenti su un altro testimone papiraceo della
Samia, il cd. Papiro Cairense: edizione in LEFEBVRE 1911, i due versi in esame a p. 37),
vd. la discussione in BARIGAZZI 1965, 121‑122. Per il dettato della prima apostrofe vd.
infra n. 58; per ταναὸς αἰθήρ cf. E. Or. 322 (lyr.) τὸν, ταναὸν αἰθέρ᾽.
54
GOMME/SANDBACH 1973, 577: «It seems then that ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός
κτλ. is a quotation from Euripides’ Oedipus, and that the latter part of that play dealt
with Oedipus’ refuge in Athens after his blinding (cf. perhaps frag. 98 Austin = Stob.
iv. 5. 11, frag. 1049 Nauck [è il fr. 554a K., vd. infra n. 63 N.d.A])»; in questa direzione
e con rimando a questa nota anche KANNICHT 2004, 582 nel suo apparato ad loc.:
«Oedipodis refugium Atheniense respici videtur».
55
DI GREGORIO 1980, 53 («cambiamento di scena»), 70, 88 e 91 (da qui la citazione).
56
L’altra possibile anticipazione euripidea di questo motivo, Ph. 1703‑1707, è
oggetto di un annoso dibattito sull’autenticità (vd. ad es. KAMERBEEK 1984, 2 n. 2;
KEARNS 1989, 208; GANTZ 1993, 296, 502; MASTRONARDE 1994, 626‑627, tutti con la
bibliografia rilevante precedente); vd. anche supra n. 44.
Edipo all’altare? 127

Καδμείας o Θηβαίας, trasformando così la presunta apostrofe alla «città


della terra cecropia» in una più accettabile invocazione (di Edipo?) alla
«città della terra tebana / cadmea»57. Il gioco paratragico di Menandro
sarebbe quindi consistito nella sostituzione di un tipico aggettivo euripideo
come Καδμεῖος o Θηβαῖος riferito a χθών58 con il nesso altrettanto euri‑
pideo Κεκροπία χθών59, adatto all’ambientazione, questa sì sicuramente
ateniese, della Samia. Un approccio altrettanto scettico riguardo all’ipotesi
del cambio di scena, ma meno interventista sul testo del frammento
adottano Rachel Aélion e Christopher Collard, ai quali si deve l’ipotesi che
ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός, ὦ ταναὸς αἰθήρ sia un’apostrofe in
absentia, cioè pronunciata da Edipo al solo apprendere del suo imminente
(ma comunque ancora futuro) esilio ateniese. Secondo Aélion, l’Edipo
euripideo si concludeva in maniera simile alle Fenicie (cf. là i versi 1682‑
1757) con la partenza di Edipo accompagnato da una figura femminile
(stavolta Giocasta, non Antigone) da Tebe per Atene; Collard suppone
invece che fosse un’apparizione della dea ex machina Atena ad indirizzare
Edipo (e Giocasta con lui) verso la città di cui ella è eponima e patrona: in
entrambi i casi, Edipo (o la stessa Giocasta?) avrebbe potuto accompagnare
la partenza per, od accogliere la notizia dell’esilio con l’espressione di
sollievo di cui fr. 554b conserva l’esordio60. Con questa lettura del
frammento, la carica innovativa dell’ambientazione ateniese dell’OC
sarebbe salva, per così dire, a metà: il tema dell’esilio ad Atene sarebbe stato
già anticipato da Euripide (almeno) nell’Edipo61, la sua rappresentazione
rimarrebbe opera di Sofocle.

57
CROPP in CROPP/FICK 1985, 85(b); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY, 20022, 444
seguiti da LIAPIS 2014, 315, con riassunto dei possibili speakers e contesti: «Oedipus –
assuming that he went into exile – would perhaps be bidding farewell to his native
Thebes, or addressing it in his distress or reproachfully (…). Alternatively, another
speaker (Creon?) could be apostrophizing the city of Thebes, perhaps in a call for
Oedipus’s punishment»; vd. anche COLLARD 2005, 61 n. 23.
58
Cf. rispettivamente E. Tr. 243 (lyr.) πόλιν … Καδμείας χθονός, Ph. 1101 ἄστυ
Καδμείας χθονός; 287 πύργωμα Θηβαίας χθονός, 776 τῇδε Θηβαίᾳ χθονί e vd.
DIGGLE 1994, 443, con raccolta di tutti i passi rilevanti, a sostegno della propria tesi che
Euripide prediliga l’aggettivo singolare con χθών, il genitivo plurale del popolo con
πόλις o ἄστυ.
59
Cf. E. Hipp. 34 Κεκροπίαν … χθόνα; Ion 1571 Κεκροπίαν χθόνα, vd. anche infra
n. 69.
60
AÉLION 1986, 52‑53 con n. 127 (Aélion pare ritenere genuini Ph. 1703‑1707, su cui
vd. supra n. 56); COLLARD 2005, 61‑62 e vd. anche COLLARD/CROPP 2008, 6 («fr. 554b …
may allude to Oedipus’ expectation of refuge in Athens») e 25 n. 1; menziona questa
soluzione, senza favorirla, LIAPIS 2014, 315; più possibilista LIAPIS 2014, 356: «Oedipus
(following an oracle?) may have set out to seek refuge in Athens (fr. 554b = A3 above?)».
61
Vd. COLLARD 2005, 62: «one would have to consider if Euripides was quite
128 Laura Carrara

In cerca di altre tracce lasciate dal supposto finale ateniese nei frammenti
superstiti dell’Edipo è andato il più convinto assertore di questa tesi,
Lamberto Di Gregorio. Probanti sarebbero, a suo avviso, i frammenti 549
K. ἀλλ’ ἦμαρ <ἕν> τοι μεταβολὰς πολλὰς ἔχει («un giorno solo davvero
porta molti mutamenti») e 554 K. πολλάς γ’ ὁ δαίμων τοῦ βίου
μεταστάσεις / ἔδωκεν ἡμῖν μεταβολάς τε τῆς τύχης («molti rivolgimenti
di vita ha dato a noi il dio, e mutamenti del destino»): il radicale
cambiamento di vita in essi alluso riguarderebbe il protagonista Edipo e
sarebbe da identificare con il suo esilio ateniese62. Probante sarebbe anche
il fr. 554a K., che secondo Di Gregorio verrebbe da una scena ateniese in
cui «un personaggio (…) rivolge la parola all’eroe rifugiatosi presso l’altare,
e gli dice che, se non è giusto, lo trascinerà via e lo punirà senza alcun
timore degli dei»63 – viene spontaneo pensare alla turbolenta accoglienza
riservata ad Edipo rifugiato nello ἱερὸς χῶρος dalle genti del luogo
nell’Edipo a Colono. Anche a Collard il fr. 554a K. impone, o almeno
suggerisce una scena di supplica all’altare, ambientata però a Tebe, con
Creonte che starebbe minacciando Edipo seduto presso il βωμός di
condurlo a processo64.
La discussione sul finale ateniese dell’Edipo euripideo – inscenato, proiet‑
tato nel futuro extra‑drammatico oppure solo abbaglio della critica dovuto
al pastiche menandreo? – non può dirsi ancora interamente esaurita65.

Né può essere esaurita nello spazio di questo inserto, che si limita a qualche
stringata considerazione sui due aspetti da cui a me pare dipendere la

deliberately playing for applause, using the myth version which Sophocles was later
to exploit so fully in Oedipus at Colonus». Per l’altra possibile anticipazione euripidea
di questo motivo, Ph. 1703‑1707, vd. supra n. 56.
62
DI GREGORIO 1980, 89‑90. La percezione che l’Edipo euripideo avrebbe dell’esilio
(sia o non sia lui lo speaker dei due frammenti) è dunque positiva, paragonabile a quella
dell’Edipo di OT (per cui la permanenza a Tebe, teatro del neo‑scoperto incesto, è
divenuta insopportabile) ma opposta a quella dell’Edipo di OC (che invece ne soffre
l’imposizione).
63
DI GREGORIO 1980, 91; vd. anche supra n. 54 a proposito del commento di Gomme
e Sandbach.
64
COLLARD/CROPP 2008, 6 e 25 n. 1: «Perhaps Creon insisting on summary justice
and exile for the already blinded Oedipus ( n o w a c t u a l l y i n s a n c t u a r y ? )
[enfasi mia, N.d.A], after his revelation as a parricide. For the general idea cf. Ion 1314‑
9»; vd. anche COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 110 («Creon trying … to
punish Oedipus further»), 131. Vd. anche MIKALSON 1991, 259 n. 33: «someone
probably say this of Oedipus»; LIAPIS 2014, 353.
65
Nei due più recenti contributi sulla tragedia essa ha comunque perso di attualità:
LIAPIS 2014, 315 n. 31 liquida l’ipotesi di Di Gregorio come ‘unwarranted’, FINGLASS
2017 non ne fa menzione.
Edipo all’altare? 129

decisione in merito66. Prioritaria è, a mio avviso, l’opinione che si ha sulla


possibilità che un fenomeno già in sé non frequente in tragedia classica come
il cambio di scena avvenisse in un punto avanzato dell’azione, poco prima
della fine. Ciò è stato respinto come «unthinkable» per l’Edipo, perché
«unparalleled», da Collard67; è vero che nel caso più celebre di cambio di
scena, le Eumenidi di Eschilo, lo spostamento da Delfi ad Atene avviene già
al v. 235 – eppure non va dimenticato che, dello stesso Eschilo, esistette
anche un dramma ‘mobile’ come le perdute Etnee, per cui i change of settings
attestati sono una mezza dozzina, disposti lungo tutta l’opera68. Inoltre,
l’idea che l’Edipo euripideo arrivasse ad Atene solo verso la fine del dramma
è, a ben pensarci, un mero derivato logico del fatto che il soggiorno ateniese,
in questa versione del mito, è la conclusione cronologica delle sue peripezie;
tuttavia, una volta ammesso il trasferimento, poco o nulla impedirebbe di
conferire maggior sviluppo drammatico all’episodio ateniese, facendogli
occupare più che la sola scena finale. In secondo luogo, decisiva è la
questione di esistenza, distribuzione e/o frequenza in tragedia di apostrofi
a località (e, secondariamente, a persone) lontane dalla percezione sensoriale
concreta del parlante, che è quanto accadrebbe secondo Aélion e Collard per
ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός in fr. 554a K. Fuori campo mi pare invece
porsi la soluzione congetturale di Cropp e van Looy, la quale rinuncia con
troppa leggerezza ad una genuina vox euripidea come Κεκρόπιος per
abbracciare la tesi certamente difficilior della parodia menandrea. Può essere
che Menandro fosse tanto intimo della lingua euripidea da averne
individuato la predilezione per Κεκρόπιος69 e da averne fatto uso parodico,
ma resta il fatto che, se non fosse per il problema del setting, nessuno mai
avrebbe sospettato dell’aggettivo.

66
Altri argomenti come la lettura in chiave ‘avvenuto esilio ad Atene’ dei frr. 549 e
554 K. (così Di Gregorio, vd. supra n. 62) sono destinati a restare ancillari, perché non
immuni dal rischio del circolo vizioso: tali brani gnomici ammettono svariate
collocazioni e non è lecito estrarre (solo) da loro quod demonstrandum est.
67
Rispettivamente COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 110 e COLLARD 2005,
61.
68
Vd. POLI PALLADINI 2001, 289‑296. In A. Eu. 235 le prime parole di Oreste neo‑
arrivato ad Atene sono un’invocazione alla dea epicorica (ἄνασσ’ Ἀθάνα), a far subito
chiarezza sul nuovo setting: ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός in fr. 554a K. avrebbe
analoga funzione. Sul cambio di scena in tragedia vd. le analisi di DI BENE‑
DETTO/MEDDA 1997, 90‑91, 93, 103‑105, 115.
69
Oltre ai già citati (vd. supra n. 59) Hipp. 34 e Ion 1571 (con χθών), cf. per il genitivo
Κεκροπίας in uso quasi sostantivato Supp. 658, El. 1289, fr. 481, 10 K. (Melanippe Sophé)
nonché Ion 936 Κεκροπίων πετρῶν (‑ίας πέτρας L); per il preciso referente geografico
vd. DIGGLE 1994, 73: «Cecropia was felt to be limited to Athens, as centered on the
Acropolis». Fuori dal corpus euripideo Κεκρόπιος è scarsamente attestato (cf. quasi
solo Strab. 9, 1, 20, 5 Κεκροπία Τετράπολις).
130 Laura Carrara

Limitandosi allo specifico peso probatorio di fr. 554a K. per la tesi


ateniese, bisogna distinguere, a mio avviso, tra due questioni ben diverse.
Se si dimostrasse che questo lacerto può provenire unicamente, o almeno
di preferenza, da una ‘scena all’altare’ reale ed agita, allora esso militerebbe
effettivamente (ma il condizionale è d’obbligo, vd. infra) più a favore della
soluzione ateniese che di quella tebana. È, infatti, difficile immaginare che
Creonte, a tu per tu con Edipo scoperto incestuoso e rifugiatosi presso un
βωμός, minacciasse di non riconoscergli la protezione divina e di
sottoporlo invece a processo a l m o d o o t t a t i v o ‑ c o n d i z i o n a l e (3 πρὸς
τὴν δίκην ἄγοιμ’) – come se si trattasse di ipotesi accademica e non di
diretta intimidazione (si aspetta, insomma, piuttosto l’equivalente
dell’indicativo futuro «ti condurrò a processo»)70. Se di ragionamento
ipotetico si tratta, allora è più logico assegnarlo ad un personaggio che,
visto l’ἱκέτης presso l’altare ma ancora all’oscuro della sua identità e della
sua storia, ragioni ad alta voce anche sull’eventualità estrema di consegnare
il nuovo venuto al giudizio umano nel caso questi si riveli un usurpatore
della protezione divina (ma anche – non è forse impossibile supplire così
la parte di argomentazione presumibilmente precedente – disposto a
lasciarlo in loco nel caso si scoprisse averne diritto). Un argomento del
genere non stonerebbe sulle labbra di un Abitante di Colono ‘in salsa
euripidea’, cioè non preso da terrore religioso come il suo pendant sofocleo
dal fatto puro e semplice che Edipo stia su suolo sacro ma illustrante in
maniera raziocinante, una volta avvistato il supplice, entrambe le vie di
comportamento che gli si dischiudono (corrispondenti alle due posizioni
opposte nel dibattito etico contemporaneo, vd. supra § 2). Questa lettura
del frammento può avere un suo fascino, ma mal si concilia con la sua
sistemazione da parte di Stobeo in un capitolo dedicato all’azione di go‑
verno di un ἄρχων (vd. supra § 1): la definizione di ἄρχων è difficilmente
compatibile con la figura di un passante casuale indigeno della stessa
categoria del Coloniate di Sofocle71.
La questione fondamentale è l’altra, cioè se il fr. 554a K. presupponga
per sé preso, e quindi imponga alla ricostruzione della trama della sua
tragedia, una scena dell’altare concretamente agita. La risposta è negativa72:

70
Non vede in ciò invece difficoltà LIAPIS 2014, 353: «It is even possible that he [scil.
Creon] is attempting to justify (γάρ) his dragging the suppliant off the altar at which
the latter had taken refuge».
71
A meno di non credere che il primo ad incontrare Edipo supplice ad Atene fosse,
nell’Edipo di Euripide, l’ἄρχων di quella terra in persona, un ‘diversamente pio’
(rispetto al suo omonimo di OC) Teseo – ma ci si perde in speculazioni.
72
Contra LIAPIS 2014, 353: «The fragment e v i d e n t l y c o m e s f r o m a s c e n e
Edipo all’altare? 131

se si tiene per fermo l’accostamento stobeano del frammento alla condotta


di un ἄρχων, il candidato più verosimile resta Creonte, in bocca al quale i
quattro versi funzionano bene, come già intravisto da Aélion (vd. supra n.
48), da auto‑caratterizzazione tesa a conferire credibilità alla propria azione
nello scontro con o su Edipo. Approfondendo questa linea esegetica, il
Gedankengang sotteso al frammento e verosimilmente sviluppato dal
locutore nei versi perduti precedenti andrebbe dunque riassunto così:
«<com’è vero che sarò implacabile con Edipo (oppure, in discorso diretto:
con te, o Edipo),> tant’è vero che strapperei dall’altare degli dei i supplici
se κακοί». Si tratterebbe di un’esternazione audace su un tema sensibile e
tabuizzato, mirante a non lasciar dubbi sul fatto che anche l’altrettanto
delicata vicenda di Edipo parricida ed incestuoso sarà presa di petto dal
parlante con efficacia e senza tentennamenti. Il Creonte dell’Edipo euripideo
verrebbe quindi ad essere un’incarnazione dell’implacabile ‘ragion di
stato’, per lui feticcio da soddisfare ad ogni costo, in maniera non dissimile
dal suo omonimo nell’Antigone (cf. ad es. in quella tragedia la sua celebre
sticomitia con Antigone ai vv. 508‑525 e la ῥῆσις ad Emone ai vv. 639‑680).
Un ulteriore indizio a favore della, o perlomeno compatibile con la lettura
di fr. 554a K. come esposizione di un casum fictum è anche la vaghezza in
cui è lasciato il terzo polo dell’azione oltre a persecutore e perseguitato, cioè
il divino: non è parola di una particolare divinità il cui altare sia qui al
centro della scena e circondato dai contraenti; si tratta genericamente di
‘dei’73 (3 ἂν οὐ τρέσας θεούς) che lo speaker direbbe di non voler rispettare
se mai dovesse trovarsi in quella situazione.
Se si accetta questa interpretazione, non c’è bisogno né ragione di
ritenere il fr. 554a K. – in questo allora differente dal locus similis dello Ione
(brano che, nonostante il tenore apparente di ‘tirata’ generale, proviene da
una concreta scena dell’altare, con Creusa avvinghiata al βωμός di Apollo,
vd. supra § 2) – pronunciato in presenza di una vera ἱκεσία. Così,
quand’anche anche la ‘regola’ posta da Vaios Liapis per condannare il fr.
554a K. come spurio fosse giusta – che in tragedia greca si trovano sì
tentativi di rimozione di supplici dall’altare, ma mai commenti espliciti in
merito da parte di chi li compie, come se l’ammissione fosse più empia del
fatto in sé –,74 non avrebbe qui rilevanza, perché la costellazione è diversa.
Con il fr. 554a K. si è piuttosto in presenza di un manifesto di efficienza

[enfasi mia, N.d.A] where a person of authority (Creon?) rebukes a suppliant


(Oedipus?), claiming that the latter has no right to the god’s protection».
73
Su questo plurale vd. anche MIKALSON 1991, 74‑75 con nn. 26 e 31.
74
LIAPIS 2014, 353; contra FINGLASS 2017, 24: «I see no reason to posit such a rule».
132 Laura Carrara

governativa (vd. supra) oppure anche (le due cose non si escludono) di
arroganza religiosa di uno speaker sinceramente convinto di non dover aver
alcun timore gli dei perché giuste sono le sue opere75.

4. Conclusioni

Dopo la presentazione di testo e testimoni del frammento euripideo 554a


K. (§ 1), questo contributo si è soffermato sul retroterra culturale e cultuale
del brano e sui due passi ad esso simili nella restante produzione del poeta
(Ion 1312‑1319, Heracl. 254‑260, § 2) e ha argomentato che:
(a) il motivo del ‘colpevole supplice in spazio sacro’ comunemente
associato alla vicenda di Edipo per il tramite dell’Edipo a Colono di Sofocle
è già evocato in nuce nel fr. 554a K. di Euripide, che proviene da una
tragedia intitolata Edipo (§ 3.1);
(b) un giusto apprezzamento della relazione esistente tra l’Edipo a Colono
ed il frammento euripideo in esame passa da una corretta ricostruzione
della collocazione di quest’ultimo nel dramma di provenienza, per la quale
continua a dover essere preferita la lettura ‘realpolitica’ già della critica
meno recente rispetto all’interpretazione moderna che deduce da questo
solo frammento una concreta scena di supplica all’altare con protagonista
Edipo (§ 3.2);
(c) il fr. 554a K. fa poco o nulla per suffragare la tesi di un finale ateniese
dell’Edipo di Euripide, avanzata da alcuni studiosi dopo la scoperta del
papiraceo fr. 554b K.: l’inquadramento di fr. 554a K. all’interno di un
argomento teorico (pur da leggere in relazione con accadimenti scenici
concreti) immunizza dalla tentazione di schiacciare l’azione dell’Edipo di
Euripide su quella dell’Edipo a Colono, ipotizzando anche per il primo
dramma quel che già si trova nel secondo, cioè un episodio con Edipo
‘all’altare’ e per di più ad Atene (§ 3.2).

Le osservazioni qui offerte su testo e contesto di fr. 554a K., seppur non
conclusive, avranno avuto almeno il merito di attirare l’attenzione su una
pluralità di scenari ed aspetti diversi, contribuendo così all’abbandono di
quell’approccio tardo‑romantico che voleva udire in ogni brano
frammentario soltanto la ‘voce del poeta’ in conflitto insanabile con la

75
Così secondo un’idea di Martin Cropp riportata da FINGLASS 2017, 24 n. 33 e
basata su S. Ant. 280‑289. Nel Creonte dell’Antigone convivono entrambe le dimensioni,
anzi l’una trova sostegno nell’altra.
Edipo all’altare? 133

società a lui contemporanea ed i valori da questa condivisi76 e sensibiliz‑


zando per una lettura polifonica della tragedia greca77. Avranno inoltre
mostrato che – se non si vuole (come in effetti non si deve) credere ad una
messa in scena diretta del motivo di ‘Edipo all’altare’ nell’Edipo euripideo
– l’unica alternativa possibile non è espellere il frammento dal novero dei
resti genuini del dramma78; si può anche tentarne una lettura coerente con
quanto par di poter dedurre dalle altre evidenze disponibili sui personaggi
di Edipo e Creonte e sui loro rapporti reciproci. Oltre a questo è difficile
procedere: a proposito dell’Edipo, resta valido quanto scriveva ormai
venticinque anni Timothy Gantz: «Obviously we would give much to have
the conclusion, so that we might see exactly what the play intended with
such characters»79.

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76
Così NESTLE 1901, 120: «Von der bloß theoretischen Betrachtung dieser
Einrichtung [scil. la critica alla supplica in Ion 1312‑1319] erhebt sich der Dichter zu
fast revolutionären Auflehnung gegen dieselbe im Fr. 1049»; SOLMSEN 1975, 75:
«Elsewhere (fr. 1049) a less inhibited speaker is willing to take justice into his own
hands by removing the guilty person from the altar. Evidently, in a conflict between
morality and established religion, the latter must give way».
77
Così, correttamente, MIKALSON 1991, 259 n. 33: «since we know nothing of the
speaker or the context, we cannot take this as Euripidean criticism of popular religion.
It may well, as in the Ion, turn out to be exactly the opposite».
78
Così LIAPIS 2014, 355.
79
GANTZ 1993, 500.
134 Laura Carrara

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La scena di riconoscimento
nelle tragedie frammentarie di Euripide

MATTIA DE POLI (UNIVERSITÀ DI PADOVA)

1. La scena di riconoscimento: un tentativo di definizione

Nelle tragedie attiche, conservate per tradizione diretta in forma


integrale, l’individuazione della scena di riconoscimento risulta complicata
per due motivi: non è una delle «parti quantitative» della tragedia, elencate
da Aristotele nella Poetica (1452b 14‑27), e non coincide né con una di esse
né con la scena, tipica del teatro moderno, delimitata dall’ingresso o
dall’uscita di uno o più personaggi1. Inoltre, non occupa una posizione fissa
all’interno della struttura complessiva e talvolta presenta caratteristiche
formali differenti.
In effetti, sempre nella Poetica Aristotele si sofferma a più riprese
sull’anagnorisis2, ma egli la considera come un processo, come un elemento
della trama ovvero del mythos, non come una componente strutturale della
rappresentazione teatrale. Alcune sue osservazioni al riguardo risultano,
comunque, utili al tentativo di descrivere la scena di riconoscimento. In
particolare, se Aristotele definisce il riconoscimento come il «volgere
dall’ignoranza alla conoscenza» (1452a 29‑31 ἀναγνώρισις δέ, ὥσπερ καὶ
τοὔνομα σημαίνει, ἐξ ἀγνοίας εἰς γνῶσιν μεταβολή), la scena di ricono‑
scimento è quella parte del dramma in cui tale sviluppo si concretizza: è
necessario che almeno due personaggi siano presenti contemporaneamente
nello spazio scenico e che almeno uno di essi ignori l’identità dell’altro; se
entrambi ignorano l’identità altrui, di solito uno dei due supera lo stato di
ignoranza in modo accidentale; chi sa, cerca quindi di portare l’inter‑
locutore allo stesso livello di conoscenza, facendo ricorso a dimostrazioni
di diverso tipo; infine, i due personaggi esprimono la gioia per la nuova
consapevolezza acquisita e altri sentimenti, come sorpresa e incredulità
dopo una lunga attesa oppure la paura di perdere la persona appena
ritrovata.

1
Cf. TAPLIN 1977, 49‑60.
2
Arist. Po. 1450a 33‑35, 1452a 12‑22, 1452a 30‑1452b 8, 1453b 27‑1454a 9, 154b 19‑
1455a 21.
138 Mattia De Poli

La scena di riconoscimento così intesa può essere individuata in sette


diverse tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide tra quelle conservate dalla
tradizione manoscritta e può essere ridotta ad uno schema elementare,
variamente declinato in rapporto alla trama specifica, ma sostanzialmente
articolato in due momenti: prima l’“inchiesta” o riconoscimento in senso
proprio, poi il “ricongiungimento”.
Affine alla scena di riconoscimento è la scena di ricongiungimento. In
alcune tragedie i personaggi non hanno bisogno di riconoscersi ma
semplicemente si ritrovano dopo un periodo più o meno lungo di
separazione ed esprimono sorpresa, incredulità e gioia con modalità simili
a quelle del “ricongiungimento” nelle scene di riconoscimento: è il caso di
Admeto e Alcesti nel finale dell’Alcesti (1072‑1158) o di Giocasta e Polinice
nel primo episodio delle Fenicie (261‑382).

TRAGEDIE CON SCENA DI RICONOSCIMENTO [O RICONGIUNGIMENTO]3

ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE


458 Coefore
438 [Alcesti]
433 (?) Egeo
425‑413 Melanippe prigioniera
423‑422 Cresfonte
423‑416 Elettra
420‑409 Elettra
415 Alessandro
414‑412 Ifigenia fra i Tauri
Elena
Ione
411‑408 Antiope
Ipsipile
410‑409 [Fenicie]
408 (?) Alcmeone a Corinto

3
In grassetto sono indicate le tragedie euripidee, che verranno trattate in seguito.
La cronologia delle opere è discussa da CARPANELLI 2005 (per Euripide) e da AVEZZÙ
2003 (in generale), nonostante la datazione di alcuni drammi resti particolarmente
controversa, come mostrano le edizioni dei testi frammentari e alcuni studi specifici.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 139

2. Alcune osservazioni sulle scene di riconoscimento nelle tragedie attiche


integrali

In generale, nella fase dell’inchiesta i personaggi si esprimono esclusiva‑


mente in trimetri giambici recitati e la dimostrazione dell’identità
individuale può prevedere il ricorso ad uno o più oggetti o il coinvolgi‑
mento del terzo attore come garante o testimone di un evento4.
Occasionalmente c’è anche un quarto personaggio che resta una presenza
muta, come Pilade nell’Elettra di Euripide5. Il ricongiungimento ha subìto
dei cambiamenti nel corso del tempo ma si caratterizza anche per alcune
costanti: in questa parte della scena di riconoscimento si rileva un
progressivo sviluppo delle parti cantate, eseguite dagli attori in forma di
amebei o monodie6, e sono generalmente presenti manifestazioni di gioia
e di affetto, sia verbali, come il reiterato impiego dell’aggettivo φίλος,
«caro», nelle varie forme del vocativo, spesso al grado superlativo (ὦ
φίλτατε / ὦ φιλτάτη, «o carissimo / o carissima»), sia gestuali, come
l’abbraccio, che di norma viene suggerito da espressioni come ἔχω σε, «ti
stringo (fra le braccia)»7.
I confini della scena di riconoscimento non coincidono necessariamente
con l’entrata e l’uscita di qualche personaggio, nonostante a volte tali
movimenti degli attori risultino comunque significativi. Nelle Coefore la
scena di riconoscimento inizia dopo un canto corale infraepisodico, quando
Elettra scopre alcuni segni insoliti presso la tomba di Agamennone (164‑
166), mentre Oreste insieme a Pilade è ancora nascosto alla vista della
sorella; nell’Elettra di Sofocle l’apostrofe che il Corifèo rivolge ad Elettra
(1171‑1173), menzionandone il nome, e il conseguente disorientamento di
Oreste segnano il passaggio dalla scena dell’inganno dell’urna a quella del
riconoscimento. In effetti, solo nelle tragedie di Euripide l’inizio della scena
di riconoscimento tende a coincidere con l’ingresso di un personaggio (il
vecchio Pedagogo nell’Elettra, Ifigenia nell’Ifigenia fra i Tauri, Elena nell’o‑

4
Questo compito è affidato al vecchio Pedagogo nell’Elettra di Euripide, a Pilade
nell’Ifigenia fra i Tauri e a un Servo nell’Elena.
5
Pilade è spettatore silenzioso della scena di riconoscimento anche nelle Coefore di
Eschilo e nell’Elettra di Sofocle.
6
Fanno eccezione solamente le Coefore di Eschilo, dove i vv. 233‑245 sono ancora
trimetri giambici recitati, e l’Elettra di Euripide, in cui l’iniziale scambio di battute fra
Elettra e Oreste in trimetri giambici recitati (578b‑584) cede il posto anche in questo
caso al canto, ma la voce che canta è quella del Coro (585‑595).
7
Questa spia lessicale del ricongiungimento è assente nella scena di riconoscimento
delle Coefore di Eschilo.
140 Mattia De Poli

monima tragedia), ma l’arrivo di un ulteriore personaggio (Oreste insieme


a Pilade nell’Elettra, il Messaggero nell’Elena) non comporta automa‑
ticamente il passaggio ad una scena diversa8. E nello Ione, al contrario, la
scena di riconoscimento inizia con l’uscita della Pizia. Il transito verso la
scena successiva, che spesso si focalizza sulla pianificazione di un inganno
finalizzato alla vendetta o alla fuga, è suggerito in modo più o meno
esplicito dalle parole di uno dei personaggi direttamente coinvolti nel
riconoscimento (Oreste nelle Coefore di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle e di
Euripide). Nell’Ifigenia fra i Tauri l’esortazione a pensare alla salvezza viene
pronunciata da un personaggio più marginale, Pilade, e il suo monito è
preceduto da un breve commento del Corifèo, racchiuso in un distico; altre
volte, invece, basta l’osservazione del Corifèo (nello Ione e nell’Elena).
Tuttavia, il passaggio dalla scena di riconoscimento alla scena di
pianificazione non è sempre immediato. Le parole di Pilade nell’Ifigenia fra
i Tauri, ad esempio, non sortiscono l’effetto atteso, non subito: fratello e
sorella si dilungano ancora a ricordare le sventure personali e familiari,
trovando in esse finalmente validi motivi per desiderare la salvezza e
progettare la fuga. Questa sezione della tragedia, in cui i personaggi
cercano di acquisire dall’interlocutore maggiori informazioni sul loro
trascorso e sulla situazione presente, è chiusa nuovamente da un commento
del Corifèo e si configura come un prolungamento della scena di
riconoscimento. Il suo contenuto e la sua forma ricordano, in particolare,
la fase dell’inchiesta e per questo può essere definita “supplemento
d’inchiesta”. Nell’Elena Menelao inizia a vagliare le possibilità di riprendere
la rotta verso Sparta insieme alla moglie appena ritrovata solo dopo che i
due coniugi si sono scambiati delle informazioni sulle loro disavventure
più recenti, senza che la sticomitia venga interrotta in alcun modo, e questo
“supplemento d’inchiesta” si realizza dopo un ulteriore ampliamento della
scena di riconoscimento, in cui anche il Servo viene messo a parte della
scoperta appena compiuta da Elena e Menelao e della loro gioia9. Ione,
infine, nell’omonima tragedia chiede a Creusa conferme in merito
all’identità del padre e i suoi dubbi verranno fugati definitivamente solo
dall’intervento di Atena come dea ex machina.

8
Qualcosa di analogo si verifica anche nella scena di riconoscimento delle Coefore,
nel corso della quale Oreste e Pilade escono dal nascondiglio da cui, senza essere visti,
hanno osservato e ascoltato Elettra (212).
9
Un’espansione della scena di riconoscimento, simile a questa, si trova anche
nell’Elettra di Sofocle, in seguito all’uscita dal palazzo del Vecchio pedagogo, di cui la
protagonista ignora l’identità.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 141

Indipendentemente dall’inserimento di simili espansioni, la scena di


riconoscimento non occupa una posizione fissa all’interno della tragedia.
Di solito, quando è seguita da una scena di pianificazione, si trova nella
parte iniziale del dramma, come nelle Coefore, o centrale, come nell’Elettra
di Euripide, nell’Elena e nell’Ifigenia fra i Tauri: fa eccezione l’Elettra di
Sofocle, dove Oreste e il vecchio Pedagogo avevano già progettato la mor‑
te di Clitemnestra ed Egisto all’inizio della tragedia e la scena di ricono‑
scimento, inserita in prossimità dell’esodo, sembra rimandare tempora‑
neamente l’attuazione del piano. Nello Ione, invece, la scena di riconosci‑
mento si trova proprio nell’esodo e costituisce il momento culminante
della vicenda drammatica.

3. Le tragedie frammentarie di Euripide, contenenti una scena di ricono‑


scimento

Nell’ambito della produzione tragica euripidea è possibile ipotizzare la


presenza di una scena di riconoscimento, simile a quelle finora considerate,
in almeno sette opere frammentarie10: Egeo, Cresfonte, Melanippe prigioniera,
Alessandro, Antiope, Ipsipile, Alcmeone a Corinto. Note solo per tradizione
indiretta o grazie a qualche ritrovamento papiraceo, esse coprono un arco
cronologico pari a circa un trentennio, almeno secondo la datazione più
plausibile, ed ampliano così lo spettro d’osservazione su Euripide, che
altrimenti risulta limitato a un decennio, se non a un misero quinquennio.
Di seguito verranno analizzate tre tragedie, che risalgono ad un periodo
precedente (Egeo), contemporaneo (Alessandro) o successivo (Ipsipile)
rispetto a quello in cui si concentrano Elettra, Ifigenia fra i Tauri, Elena e Ione.
Infine, si cercherà di delineare un quadro complessivo delle scene di
riconoscimento presenti nelle tragedie attiche, integrando i dati ricavabili
anche dalle opere euripidee frammentarie.

4. L’Egeo: lo schema “inchiesta” – “ricongiungimento”

In assenza di una hypothesis, la trama dell’Egeo di Euripide può essere


ricostruita solo a partire da fonti mitografiche: gli studiosi ne hanno
individuato principalmente tre – uno scolio all’Iliade, un passo della Biblio‑

10
I frammenti delle tragedie di Euripide sono citati secondo l’edizione di KANNICHT
2004. Per i frammenti delle tragedie di Sofocle, si fa riferimento all’edizione di RADT
1999.
142 Mattia De Poli

teca di Apollodoro (Epit. 1, 4‑6) e uno della Vita di Teseo di Plutarco (12, 2‑6)
– che per certi aspetti sono fra loro discordanti. D’altra parte, è noto che
anche Sofocle compose una tragedia sulla stessa vicenda di quella
euripidea.
Lo scolio a Omero, Iliade 11, 741, attribuito al grammatico Didimo11,
presenta alcuni fatti precedenti l’arrivo di Teseo ad Atene, che riguardano
in particolare il personaggio di Medea: «Medea era figlia di Eeta e moglie
di Giasone. Dopo aver ucciso i figli, giunse esule ad Atene e visse insieme
ad Egeo, figlio di Pandione». In questo contesto si colloca la vicenda
ateniese di Teseo, «figlio di Etra e di Egeo, giunto là da Trezene per il
riconoscimento del padre»: Medea inizia a tessere le sue trame criminali
contro di lui e «convince Egeo a dare a Teseo un veleno mortale, asserendo
che egli era venuto per cospirare contro il suo regno». Il progetto di Medea
si sta per compiere ma la morte del giovane viene scongiurata dal suo
riconoscimento da parte del padre: «proprio quanto Teseo si accingeva a
bere», Egeo riconobbe «la spada e i calzari, che aveva lasciato a Trezene
come oggetti per il riconoscimento (del figlio)»: allora «rovesciò il veleno e
scacciò Medea dall’Attica». Nel raccontare la vicenda, dunque, lo scoliasta
aggiunge un’altra informazione sull’antefatto, ricordando con una breve
analessi, non più di un inciso, che Egeo aveva lasciato a Trezene alcuni
oggetti (γνωρίσματα) che gli avrebbero consentito di riconoscere l’even‑
tuale figlio partorito da Etra. D’altra parte, l’espressione ἐπὶ τὸν τοῦ πατρὸς
ἀναγνωρισμὸν può essere intesa in due modi diversi, a seconda che si
attribuisca al genitivo τοῦ πατρὸς un valore soggettivo («perché il padre
lo riconoscesse») oppure oggettivo («per riconoscere suo padre»): nel primo
caso si può supporre che Teseo conosca fin dall’inizio l’identità del padre,
mentre nel secondo caso si tratterebbe inevitabilmente di un ricono‑
scimento reciproco.
È stato notato che, rispetto a questa versione dei fatti, il testo di Apollo‑
doro12 presenta almeno una variante significativa. Seguendo i consigli di

11
Schol. in Hom. Il. 11, 741 ἣ τ ό σ α φ ά ρ μ α κ α ᾔ δ η : Μήδεια ἐγένετο Αἰήτου
μὲν θυγάτηρ, Ἰάσονος δὲ γυνή. αὕτη μετὰ τὴν ἀπεργασθεῖσαν τεκνοκτονίαν
φυγὰς εἰς Ἀθήνας ἀφίκετο καὶ συνῴκησεν Αἰγεῖ τῷ Πανδίονος. κἀκεῖ Θησέα τὸν
ἐξ Αἴθρας γενόμενον τῷ Αἰγεῖ, ἐπὶ τὸν τοῦ πατρὸς ἀναγνωρισμὸν ἐκ Τροιζῆνος
ἀφικόμενον, πείθει τὸν Αἰγέα φάρμακον αὐτῷ δοῦναι θανάσιμον, ἐπίβουλον
αὐτοῦ τῆς βασιλείας εἰποῦσα παραγίνεσθαι. πεισθεὶς δὲ Αἰγεὺς φάρμακον ἔδωκε
παραγενομένῳ τῷ παιδί· μέλλοντος δὲ καταπίνειν ἐπιγνοὺς τό τε ξίφος καὶ τὰ
ὑποδήματα (ταῦτα γὰρ ἐν Τροιζῆνι γνωρίσματα κατέλιπεν) τὸ μὲν φάρμακον
ἀφείλετο, τὴν δὲ Μήδειαν ἐξέβαλε τῆς Ἀττικῆς. οἰκήσασα δὲ αὕτη τὴν πλησίον
Ἤλιδος Ἔφυραν πολυφάρμακον ἐποίησεν αὐτὴν ἐπονομασθῆναι. ἱστόρηται παρὰ
Κράτητι (fr. 84 M.) AT.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 143

Medea, infatti, Egeo tenta di far morire Teseo due volte, in due modi
diversi: prima «lo mandò ad affrontare il toro di Maratona» e, «dopo che
Teseo lo ebbe ucciso, gli porse un veleno». La vicenda poi prevede il
riconoscimento del figlio da parte di Egeo, che fa cadere la coppa dalle mani
di Teseo, e il conseguente allontanamento di Medea, colpevole delle insidie
ordite. Inoltre, nonostante le parole «riconosciuto dal padre» forniscano
solo il punto di vista di Egeo, il racconto di Apollodoro sembra implicare
un riconoscimento reciproco fra padre e figlio: Etra, tenendo fede alle
disposizioni di Egeo13, si sarebbe limitata a consegnare a Teseo «il coltello
e i sandali» (3, 15, 7 μάχαιραν καὶ πέδιλα) trovati sotto un macigno e, senza
rivelargli l’identità del padre, ad inviarlo ad Atene, dove Egeo avrebbe
riconosciuto il figlio grazie alla sola «spada» (τὸ ξίφος)14.
Generalmente, si ritiene che questa “versione secondaria”, o “variante”,
dipenda da una fonte tragica: così lascia supporre l’uso dell’avverbio
αὐθημερινόν, che colloca entrambi i tentativi «nello stesso giorno» in
ossequio all’unità di tempo che di solito caratterizza la tragedia attica. Lo
scarto rispetto alla vicenda narrata dallo scolio omerico, indicata anche
come “versione standard”, di solito viene attribuito dalla critica moderna
all’originalità di Euripide15, ma nell’Egeo di Sofocle il fr. 25 κλωστῆρσι
χειρῶν ὀργάσας κατήνυσε [Theseus] σειραῖα δεσμά, «dopo averli resi
flessuosi (scil. dei ramoscelli) avvolgendoli come una matassa intorno alle
mani, fece dei legacci da usare come una fune» descriverebbe la cattura del
toro di Maratona da parte del protagonista: così queste parole vengono
spiegate da Fozio16. Al contrario, nulla impedisce di supporre, in base agli

12
Apollod. Epit. 1, 4‑6 καθάρας οὖν Θησεὺς τὴν ὁδὸν ἧκεν εἰς Ἀθήνας. Μήδεια
δὲ Αἰγεῖ τότε συνοικοῦσα ἐπεβούλευσεν αὐτῷ, καὶ πείθει τὸν Αἰγέα φυλάττεσθαι
ὡς ἐπίβουλον αὐτοῦ. Αἰγεὺς δὲ τὸν ἴδιον ἀγνοῶν παῖδα, δείσας ἔπεμψεν ἐπὶ τὸν
Μαραθώνιον ταῦρον. ὡς δὲ ἀνεῖλεν αὐτόν, παρὰ Μηδείας λαβὼν αὐθημερινὸν
προσήνεγκεν αὐτῷ φάρμακον. ὁ δὲ μέλλοντος αὐτῷ τοῦ ποτοῦ προσφέρεσθαι
ἐδωρήσατο τῷ πατρὶ τὸ ξίφος, ὅπερ ἐπιγνοὺς Αἰγεὺς τὴν κύλικα ἐξέρριψε τῶν
χειρῶν αὐτοῦ. Θησεὺς δὲ ἀναγνωρισθεὶς τῷ πατρὶ καὶ τὴν ἐπιβουλὴν μαθὼν
ἐξέβαλε τὴν Μήδειαν.
13
Cf. Apollod. 3, 15, 7 Αἰγεὺς δὲ ἐντειλάμενος Αἴθρᾳ, ὰν ἄρρενα γεννήσῃ,
τρέφειν, τίνος ἐστὶ μὴ λέγουσαν.
14
Non si dice nulla in merito al ruolo del dio Poseidone nella vicenda, dopo che
egli si accostò ad Etra la stessa notte in cui Egeo giacque con la giovane donna: cf.
Apollod. 3, 15, 7.
15
Così ad esempio ancora LLOYD‑JONES 1996; JOUAN/VAN LOOY 1998; GUÉRIN 2015.
16
Phot. α 808: […] Σοφοκλῆς δὲ ἐν Αἰγεῖ <φησι> (fr. 25 R.) τὸν Θησέα στρέφοντα
καὶ μαλάττοντα τὰς λύγους ποιῆσαι δεσμὰ τῷ ταύρῳ. Λέγει δὲ οὕτως· κλωστῆρσι
χειρῶν ὀργάσας κατήνυσε σειραῖα δεσμά. L’allusione al toro di Maratona, presente
nell’Egeo di Sofocle è stata rilevata da HAHNEMANN 1999 e 2003.
144 Mattia De Poli

elementi disponibili, che Euripide abbia portato in scena la vicenda nella


versione standard17.
La trama della tragedia euripidea potrebbe essere alla base di un’altra
fonte, la Vita di Teseo di Plutarco18, che segue la “versione standard” ma,
rispetto allo scolio omerico, aggiunge alcuni dettagli relativi al carattere dei
personaggi e alla situazione generale: per quanto riguarda l’antefatto,
insiste sui disordini e sulle tensioni presenti in città e nel palazzo di Egeo;
presenta il re come un anziano che teme i disordini politici; precisa che il
tentativo di avvelenamento si inserisce nel contesto di un ἄριστον, un pasto
offerto all’ospite. In questo caso, si dice chiaramente che Teseo «non ritenne
opportuno rivelare per primo la propria identità», ma decise di «offrire a
Egeo uno spunto per il riconoscimento» e, per tagliare della carne, utilizzò
la μάχαιρα che permise al padre di capire. Anche in questo caso, dunque,
nonostante Egeo avesse lasciato sotto il macigno a Trezene due oggetti, una
spada e un paio di sandali (3, 7 ξίφος καὶ πέδιλα), come indicato nello
scolio omerico (τό τε ξίφος καὶ τὰ ὑποδήματα), il riconoscimento è reso
possibile solamente (o almeno principalmente) da uno di essi, un coltello
(τὴν μάχαιραν)19. Rispetto al racconto di Apollodoro, d’altra parte, in
questo caso è evidente che qui si tratta di un riconoscimento semplice,
ovvero del riconoscimento di Teseo da parte di Egeo.
Il racconto plutarcheo presenta il riconoscimento come la successione di
due momenti: dopo aver riconosciuto il coltello e aver rovesciato la coppa
con il veleno, Egeo prima interroga Teseo (ἀνακρίνας), poi lo abbraccia, lo
accoglie con gioia, gli fa festa (ἠσπάζετο), due azioni che corrispondono
sostanzialmente allo schema della scena di riconoscimento tragica, uno
schema basato sulla sequenza “inchiesta” – “ricongiungimento”. Alla fine,

17
Cf. HAHNEMANN 2003, 213; COLLARD/CROPP 2008, 4, seppure con cautela.
18
Plut. Thes. 12, 2‑6 κατελθὼν δ’ εἰς τὴν πόλιν εὗρε τά τε κοινὰ ταραχῆς μεστὰ
καὶ διχοφροσύνης, καὶ τὰ περὶ τὸν Αἰγέα καὶ τὸν οἶκον ἰδίᾳ νοσοῦντα. Μήδεια γὰρ
ἐκ Κορίνθου φυγοῦσα φαρμάκοις ὑποσχομένη τῆς ἀτεκνίας ἀπαλλάξειν Αἰγέα
συνῆν αὐτῷ. προαισθομένη δὲ περὶ τοῦ Θησέως αὕτη, τοῦ δ’ Αἰγέως ἀγνοοῦντος,
ὄντος δὲ πρεσβυτέρου καὶ φοβουμένου πάντα διὰ τὴν στάσιν, ἔπεισεν αὐτὸν ὡς
ξένον ἑστιῶντα φαρμάκοις ἀνελεῖν. ἐλθὼν οὖν ὁ Θησεὺς ἐπὶ τὸ ἄριστον, οὐκ
ἐδοκίμαζε φράζειν αὑτὸν ὅστις εἴη πρότερος, ἐκείνῳ δὲ βουλόμενος ἀρχὴν
ἀνευρέσεως παρασχεῖν, κρεῶν παρακειμένων σπασάμενος τὴν μάχαιραν ὡς
ταύτῃ τεμῶν ἐδείκνυεν ἐκείνῳ. ταχὺ δὲ καταμαθὼν ὁ Αἰγεύς, τὴν μὲν κύλικα τοῦ
φαρμάκου κατέβαλε, τὸν δ’ υἱὸν ἀνακρίνας ἠσπάζετο καὶ συναγαγὼν τοὺς
πολίτας ἐγνώριζεν, ἡδέως δεχομένους διὰ τὴν ἀνδραγαθίαν. λέγεται δὲ τῆς
κύλικος πεσούσης ἐκχυθῆναι τὸ φάρμακον ὅπου νῦν ἐν Δελφινίῳ τὸ περίφρακτόν
ἐστιν· ἐνταῦθα γὰρ ὁ Αἰγεὺς ᾤκει, καὶ τὸν Ἑρμῆν τὸν πρὸς ἕω τοῦ ἱεροῦ καλοῦσιν
ἐπ’ Αἰγέως πύλαις.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 145

inoltre, c’è spazio per un aition, simile ad altri presenti nelle tragedie di
Euripide: il luogo dove Egeo ha rovesciato a terra il veleno è il Delfinio, un
santuario di Apollo in cui storicamente ad Atene si giudicavano ed
eventualmente venivano purificate le persone colpevoli di omicidio, che
sostenevano di aver agito legittimamente.
Purtroppo, i pochi frammenti noti dell’Egeo di Euripide non presentano
alcun legame evidente con la scena di riconoscimento. Secondo alcuni
studiosi, il fr. 6 τί γὰρ πατρῴας ἀνδρὶ φίλτερον χθονός; («un uomo, che
cosa ha di più caro della patria?») esprimerebbe la gioia di Teseo in seguito
al riconoscimento da parte del padre, verosimilmente nella fase del
ricongiungimento20. In effetti, considerazioni simili a questa sono presenti
nel primo episodio delle Fenicie, dopo che Giocasta e Polinice si sono
ritrovati21, ma il loro incontro avviene all’inizio della tragedia e il figlio fa

19
Si noti che, in modo speculare, nel racconto di Apollodoro si menziona una
μάχαιρα tra gli oggetti lasciati a Trezene da Egeo e uno ξίφος come oggetto
effettivamente utile al riconoscimento. Nel testo di Plutarco il riconoscimento è
strettamente legato al pasto offerto da Egeo all’ospite straniero: se si accetta che egli
abbia basato il suo racconto sulla trama di una tragedia, bisogna ammettere che non è
usuale che i personaggi tragici mangino in scena; d’altra parte, non è necessario
immaginare che gli spettatori vedessero qualcuno banchettare, ma è sufficiente
ipotizzare che l’ἄριστον venisse preparato e interrotto ancor prima di iniziare, come
accade nel Ciclope, appena Polifemo si accorge dei nuovi arrivati, oppure nell’Alcesti,
quando Eracle biasima il servo per la sua tristezza scoprendo così della morte della
padrona di casa. Sarebbe sufficiente suggerire la circostanza attraverso alcuni oggetti
di scena: possiamo supporre che Egeo facesse preparare un pasto in onore del suo
ospite e che Teseo, appena arrivato in scena, accingendosi a tagliare la carne, mostrasse
la spada, o meglio il coltello, la μάχαιρα lasciata da Egeo a Trezene. Cf. anche E. El.
493‑500, all'inizio della scena di riconoscimento. In alternativa, questa parte della
vicenda poteva svolgersi in uno spazio extra‑scenico, come nello Ione, ma dobbiamo
immaginare che poi, per qualche motivo, Egeo e Teseo arrivassero in scena. Per
l’espressione ὡς ξένον ἑστιῶντα, cf. E. Alc. 765. Sul significato di ἄριστον, cf. E. Cyc.
214 e cf. USSHER 1978, 79‑80; O’SULLIVAN/COLLARD 2013, 160.
20
Cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 7.
21
Cf. E. Ph. 358‑360 Πο. ἀλλ’ ἀναγκαίως ἔχει / πατρίδος ἐρᾶν ἅπαντας· ὃς δ’
ἄλλως λέγει, / λόγοισι χαίρει, τὸν δὲ νοῦν ἐκεῖσ’ ἔχει (Polinice: «è inevitabile che
chiunque ami la propria patria: chi dice altrimenti, si compiace di dirlo, ma la sua
mente corre là»), 388‑389 Ιο. […] τί τὸ στέρεσθαι πατρίδος; ἦ κακὸν μέγα; / Πο.
μέγιστον· ἔργῳ δ’ ἐστὶ μεῖζον ἢ λόγῳ (Giocasta: «Com’è essere privati della patria?
Una grande rovina?», Polinice: «Una rovina enorme! Più grande di quanto dicano le
parole»), 406‑407 Ιο. ἡ πατρίς, ὡς ἔοικε, φίλτατον βροτοῖς. / Πο. οὐδ’ ὀνομάσαι δύναι’
ἂν ὡς ἐστὶν φίλον (Giocasta: «A quanto sembra, gli uomini hanno molto a cuore la
loro patria», Polinice: «Non si possono trovare parole per dire quanto l’abbiano a
cuore!»).
146 Mattia De Poli

tali affermazioni appena rimette piede nella sua città, nella sua patria. La
trama dell’Egeo di Euripide sembra essere diversa: Teseo, quando arriva in
Attica, sa che quella è la terra su cui regna suo padre ed è plausibile che il
fr. 6 debba essere collocato all’inizio della tragedia, in una battuta pronun‑
ciata verosimilmente dal giovane molto prima del suo riconoscimento da
parte del re di Atene.
Accettare la Vita di Teseo di Plutarco come fonte principale per ricostruire
la trama dell’Egeo di Euripide implica che in questa tragedia, databile agli
anni ’30 del V secolo, non solo era presente una scena di riconoscimento,
una tra le più antiche almeno nella produzione euripidea, ma anche che
essa aveva queste caratteristiche: 1) era basata su un riconoscimento
semplice, perché Teseo sa fin dal principio che Egeo è suo padre22; 2)
coinvolgeva padre e figlio; 3) sfruttava un oggetto, la μάχαιρα; 4) rimediava
a una situazione potenzialmente mortale per Teseo; 5) si articolava in due
momenti: l’inchiesta e il ricongiungimento, sottolineato dall’abbraccio; 6)
si inseriva nella trama in prossimità del finale, anche se non è possibile
stabilire con sicurezza la sua posizione all’interno della tragedia23.

5. L’Alessandro: la sorpresa per una situazione inaspettata

I frammenti tragici euripidei conservati dalla tradizione indiretta


non sono facilmente riconducibili all’inchiesta o al ricongiungimento e
in generale alla scena di riconoscimento, salvo – probabilmente – pochi
casi.
Uno di questi è il fr. 62 dell’Alessandro24, tragedia del 415:

22
Cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 7.
23
Secondo WELCKER 1839, 394, il testo di Plutarco, non facendo alcun riferimento
alla cacciata di Medea, potrebbe conservare solo una parte della trama euripidea, che
poteva prevedere anch’essa l’allontanamento di Medea da Atene.
24
Nel ricostruire la scena di riconoscimento, DI GIUSEPPE 2012, 172‑175, non si
sofferma sul fr. 62, mentre riconduce il fr. 50 δούλων ὅσοι φιλοῦσι δεσποτῶν γένος,
/ πρὸς τῶν ὁμοίων πόλεμον αἴρονται μέγαν («gli chiavi che amano la genia dei
padroni si attirano un’avversione grande da parte dei compagni») «all’interrogatorio
del padre adottivo di Alessandro», da parte di Ecuba: il pastore si giustificherebbe così
per il fatto di aver nascosto l’identità di Alessandro; tuttavia, sia JOUAN/VAN LOOY 1998,
63, che KANNICHT 2004, 186, ritengono che questo frammento sia riconducibile ad un
agon logon. A proposito dell’originale proposta interpretativa di Di Giuseppe, cf.
MAGNANI 2014, 151. Forse, tali parole alludono alla ὑπερήφανος συμβίωσις di
Alessandro: in questo caso potrebbero essere pronunciate nel prologo da un
personaggio che descrive l’antefatto della tragedia, oppure in un momento successivo
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 147

Ἑκάβη, τὸ θεῖον ὡς ἄελπτον ἔρχεται


θνητοῖσιν, ἕλκει δ’ οὔ ποτ’ ἐκ ταὐτοῦ τύχας.

Ecuba, la divinità giunge davvero inaspettata


per i mortali e non estrae mai le sorti dallo stesso [vaso]25.

Il legame fra questo frammento e la scena di riconoscimento è stato


talvolta trattato con sospetto dalla critica26; tuttavia, l’aggettivo ἄελπτον
suggerisce un parallelo con i vv. 1510‑1511 dello Ione, pronunciati dal
Corifèo proprio a conclusione della scena di riconoscimento:

Χο. μηδεὶς δοκείτω μηδὲν ἀνθρώπων ποτὲ


ἄελπτον εἶναι πρὸς τὰ τυγχάνοντα νῦν

Co. Alla luce degli eventi attuali


c’è speranza per tutto27.

Il legame tra il fr. 62 dell’Alessandro e la scena di riconoscimento di questa


tragedia è ulteriormente suffragato dall’uso euripideo degli aggettivi
ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος e dalle forme da essi derivate. Nelle
tragedie integrali di Euripide, in cui è presente una scena di riconoscimento
(Elettra, Ifigenia fra i Tauri, Elena, Ione) o anche soltanto di ricongiungimento
(Alcesti, Fenicie), ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος sono variamente
impiegati, ma sempre nell’ambito della scena di riconoscimento o di
ricongiungimento, a sottolineare come la situazione scenica costituisca un
inatteso risvolto positivo della vicenda, un risvolto insperato, che invita a
non perdere mai la speranza.

da un personaggio, forse il padre adottivo, che riflette preoccupato sulle conseguenze


che l’atteggiamento del giovane potrebbe avere o che tenta di ammonire il giovane a
tenere un comportamento più consono ad un pastore.
25
DI BENEDETTO 1998, 108, intende: «la divinità non estrae mai le vicende (~ le sorti)
dallo stesso bussolotto». In COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 69, il fr. 62 viene tradotto:
«… (divine action) never draws its outcomes from the same source». Il v. 2 del fr. 62
sembra sottintendere un’immagine simile a quella descritta in Hom. Il. 24, 527‑530:
secondo le parole di Achille, nella dimora di Zeus sarebbero presenti due pythoi, due
enormi vasi, che dispensano i beni e i mali agli uomini.
26
In COLLARD/CROPP 2008, 61, questi due trimetri giambici vengono collegati al
racconto di un Messaggero, che annuncia le sorprendenti vittorie del giovane pastore,
oppure alla scena di riconoscimento, senza una particolare preferenza. Tuttavia, cf.
KANNICHT 2004, 193; JOUAN/VAN LOOY 1998, 57; DI BENEDETTO 1998, 107; TIMPANARO
1996, 62; HUYS 1986, 34‑35.
27
Letteralmente: «Alla luce degli eventi attuali nessuno dovrà mai ritenere che
qualcosa non possa essere sperato».
148 Mattia De Poli

Nell’Alcesti Admeto sottolinea che il suo ricongiungimento con la moglie


è un «prodigio insperato» (1123 Αδ. ὦ θεοί, τί λέξω; θαῦμ’ ἀνέλπιστον
τόδε) e che la abbraccia «inaspettatamente» (1134 Αδ. ἔχω σ’ ἀέλπτως).
Altrettanto «inaspettatamente» nell’Elettra la protagonista abbraccia il
fratello Oreste, riapparso dopo molto tempo (578‑579 Ηλ. ὦ χρόνωι
φανείς, / ἔχω σ’ ἀέλπτως); in precedenza, le parole con cui il vecchio
Pedagogo aveva asserito di aver riconosciuto nello straniero il figlio di
Agamennone erano suonate alle orecchie della giovane donna come
«un’affermazione inattesa» (570 Ηλ. πῶς εἶπας, ὦ γεραί’, ἀνέλπιστον
λόγον;). Nella monodia intonata alla fine della scena di riconoscimento
dell’Ifigenia fra i Tauri la protagonista si interroga sulla possibilità che «un
dio, un mortale o un evento incredibile» – come è stato il riconoscimento –
indichi una via d’uscita da difficoltà che non sembrano lasciare scampo
(895‑897 †τίς ἂν οὖν τάδ’ ἂν ἢ θεὸς ἢ βροτὸς ἢ / τί τῶν ἀδοκήτων / πόρον
ἄπορον ἐξανύσας†). Nell’Elena Menelao definisce «imprevedibile» la
storia dell’eidolon raccontata dalla moglie (585 Με. τίνος πλάσαντος θεῶν;
ἄελπτα γὰρ λέγεις), la quale a sua volta ritiene «incredibile» il fatto di
poter riabbracciare il marito (657 Ελ. ἀδόκητον ἔχω σε πρὸς στέρνοις).
Nello Ione la visione della cesta in cui Creusa aveva abbandonato il figlio
dopo il parto rappresenta per la madre «un’apparizione insperata» (1395
Κρ. Τί δῆτα φάσμα τῶν ἀνελπίστων ὁρῶ;) e lei stessa, abbracciando Ione,
descrive il «ritrovamento» del figlio come un fatto «inaspettato» (1439‑1442
Κρ. ὦ τέκνον, ὦ φῶς μητρὶ κρεῖσσον ἡλίου / (συγγνώσεται γὰρ ὁ θεός),
ἐν χεροῖν σ’ ἔχω, / ἄελπτον εὕρημ’, ὃν κατὰ γᾶς ἐνέρων / χθονίων μέτα
Περσεφόνας τ’ ἐδόκουν ναίειν); quindi, il Coro con i vv. 1510‑1511 chiosa
la scena nel suo complesso. Infine, nelle Fenicie Giocasta, abbracciando
Polinice, sottolinea come il ritorno del figlio costituisca un’apparizione
inaspettata e incredibile (310‑311 Ιο. ἰὼ ἰώ, μόλις φανεὶς / ἄελπτα
κἀδόκητα ματρὸς ὠλέναις)28.
Le parole πολλὰ δ’ ἀέλπτως κραίνουσι θεοί enunciate dal Coro
nell’intervento finale dell’Alcesti (1160) e dell’Elena (1689), slegate dalla
scena di riconoscimento vera e propria, costituiscono un’eccezione solo
apparente, perché sono parte di una sorta di “morale” ripetuta identica
anche nella conclusione della Medea (1416), dell’Andromaca (1285) e delle
Baccanti (1389)29. D’altra parte, il v. 639 dell’Ifigenia fra i Tauri (Ιφ. ἴσως

28
Il confronto fra questi passi è suggerito da HUYS 1986, 34‑35, che tuttavia omette
E. Ph. 310‑311 e non considera le occorrenze di ἀδόκητος.
29
A questa situazione sono in parte assimilabili le parole di Lico nel finale
dell’Antiope: fr. 223c, 133 ὦ πόλλ’ ἄελπτα … . L’aggettivo ἄελπτος ricorre anche nel
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 149

ἄελπτα τῶν ἐμῶν φίλων τινὶ / πέμψω πρὸς Ἄργος, ὃν μάλιστ’ ἐγὼ φιλῶ
…)30 si inserisce in una scena di poco precedente rispetto a quella di
riconoscimento, focalizzata sulla lettera che Ifigenia vorrebbe affidare a uno
dei due Greci e che favorirà la sua identificazione da parte di Oreste, anche
se ciò non avverrà nei tempi e nei modi previsti dalla giovane donna. Infine,
il v. 783 dell’Elena (Ελ. ἥκεις ἄελπτος ἐμποδὼν ἐμοῖς γάμοις) si trova nella
sezione immediatamente successiva alla scena di riconoscimento, quella
che ho proposto di chiamare “supplemento di inchiesta” e che, pur
introducendo il problema della salvezza e della fuga, insiste ancora sull’i‑
dentità dei personaggi e sulla loro storia.
In generale, comunque, si può osservare che nelle tragedie di Euripide:
1) ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος sono utilizzati in varie forme ma si
specializzano come spie lessicali della scena di riconoscimento, in
particolare del ricongiungimento, proprio come l’espressione ἔχω σε che
segnala l’abbraccio; 2) nelle tragedie con scena di riconoscimento o ricon‑
giungimento ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος esprimono una sorpresa
positiva. Ciò invita a respingere l’interpretazione del fr. 62 dell’Alessandro
come una consolazione o una minaccia.
Inoltre, il vocativo Ἑκάβη porta ad escludere un’attribuzione del fr. 62
ad Alessandro, perché un figlio, quando riconosce o ritrova la madre, la
apostrofa con il vocativo μῆτερ, a sottolineare il legame affettivo e di
parentela appena ristabilito, mentre la formulazione sentenziosa e l’analo‑
gia con i vv. 1510‑1511 dello Ione invitano a ritenere che anche il fr. 62
corrispondesse al distico con cui il Corifèo chiudeva la scena di ricono‑
scimento31.

fr. 550, 1 dell’Edipo di Euripide, ma in questa tragedia la presenza di una scena di


riconoscimento è dubbia.
30
Cf. E. IT 486‑487 Ορ. οὔτοι νομίζω σοφόν … ὅστις Ἅιδην ἐγγὺς ὄντ’ οἰκτίζεται
/ σωτηρίας ἄνελπις … .
31
Cf. COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 41 e 69. La presenza attiva di Priamo nella scena
di riconoscimento non è sicura, anzi è probabile che nella seconda parte dell’Alessandro
il re di Troia non comparisse più in scena, come Xuto nello Ione: cf. DI GIUSEPPE 2012,
172‑173. Cassandra, dopo la profezia, non era più presente. Altrove, formulazioni
sentenziose simili a questa sono pronunciate anche dai personaggi della tragedia (ad
esempio, Ifigenia in E. IT 475‑478 τὰς τύχας τίς οἶδ’ ὅτωι / τοιαίδ’ ἔσονται; πάντα
γὰρ τὰ τῶν θεῶν / ἐς ἀφανὲς ἕρπει κοὐδὲν οἶδ’ οὐδεὶς †κακόν†. / ἡ γὰρ τύχη
παρήγαγ’ ἐς τὸ δυσμαθές, oppure Oreste ancora in E. IT 489 τὴν τύχην δ’ ἐᾶν χρεών),
ma ciò avviene in parti della tragedia diverse dalla scena di riconoscimento. Inoltre,
la divinità viene indicata con il termine θεῖον anche in E. Ion 1456‑1457 Ιων θεῖον τόδ’·
ἀλλὰ τἀπίλοιπα τῆς τύχης / εὐδαιμονοῖμεν, ὡς τὰ πρόσθ’ ἐδυστύχει, pronunciati
dal protagonista, ma l’attribuzione del fr. 62 ad Alessandro, come si è detto, è da
escludere per via del vocativo Ἑκάβη.
150 Mattia De Poli

Essa, dunque, doveva presentare queste caratteristiche: 1) era basata su


un riconoscimento reciproco, perché Alessandro ed Ecuba sono
ugualmente inconsapevoli del loro legame: l’hypothesis mette in risalto la
prospettiva di Ecuba (hyp. 32 Ἑκάβη μὲν οὖν υἱὸν ἀνεῦρε), ma ciò può
significare semplicemente che, come nell’Ifigenia fra i Tauri e nello Ione, il
riconoscimento non avviene in sincrono, che Alessandro intuisce la propria
origine e il legame con Ecuba accidentalmente, probabilmente grazie alla
profezia di Cassandra, e che solo la donna ha bisogno della testimonianza
del pastore che ha raccolto e allevato il neonato abbandonato; 2) coinvol‑
geva madre e figlio; 3) richiedeva l’intervento di un terzo personaggio, il
pastore (hyp. 30‑32 π[α]ρα[γενό]μενος δ’ ὁ θρέψας αὐτὸν | διὰ τὸν
κίνδυνον ἠναγκάσθη λέγειν τὴν | ἀλήθειαν), probabilmente senza il
ricorso a oggetti particolari; 4) rimediava a una situazione potenzialmente
mortale per Alessandro, che Ecuba era determinata a far morire (hyp. 29
Ἑκάβη [δὲ ἀπο]κτεῖναι θέλουσα); 5) era suggellata da un distico di
trimetri giambici, recitati dal Corifèo (fr. 62); 6) probabilmente si collocava
in prossimità del finale della tragedia o proprio nel finale, anche se resta
poco chiaro il ruolo di Priamo nella vicenda e il modo in cui la vicenda si
conciliava con l’oracolo che aveva costretto all’esposizione del neonato.

6. L’Ipsipile (frammenti di tradizione indiretta): la sorpresa, l’abbraccio, gli


oggetti del riconoscimento

L’Ipsipile, generalmente datata fra il 408 e il 406, rappresenta un caso


eccezionale per l’alto numero di frammenti di tradizione indiretta
riconducibili alla scena di riconoscimento.
A questo gruppo appartiene, innanzitutto, il fr. 761:

ἄελπτον οὐδέν, πάντα δ’ ἐλπίζειν χρεών

Nulla è insperabile, anzi è doveroso sperare tutto.

In esso l’aggettivo ἄελπτος funge, come nelle altre tragedie euripidee


con scena di riconoscimento, da spia lessicale con valenza drammaturgica,
esprimendo una sorpresa positiva. Inoltre, la iunctura ἄελπτον οὐδέν
ricalca un’espressione già utilizzata da Archiloco (fr. 122, 1‑2 West
χρημάτων ἄελπτον οὐδέν ἐστιν οὐδ’ ἀπώμοτον / οὐδὲ θαυμάσιον … ),
da Sofocle (Aj. 648‑649 κοὐκ ἔστ’ ἄελπτον οὐδέν, ἀλλ’ ἁλίσκεται / χὠ
δεινὸς ὅρκος) e, nella variante μηδὲν ἄελπτον, dallo stesso Euripide (Ion
1510‑1511 μηδεὶς δοκείτω μηδὲν ἀνθρώπων ποτὲ / ἄελπτον εἶναι πρὸς
τὰ τυγχάνοντα νῦν)32. L’interpretazione complessiva del frammento

32
Queste espressioni sono state accostate anche ad un altro verso sofocleo (S. Ant.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 151

archilocheo è in parte controversa33 ma di certo il componimento allude a


un evento accaduto in modo inaspettato, che – probabilmente con una
voluta esagerazione del poeta – è accostato all’oscuramento del sole in
pieno giorno per effetto di un’eclissi: dopo una simile circostanza diventa
credibile e sperabile qualsiasi cosa, anche la più inverosimile, come
l’adynaton delle fiere che contendono il controllo del mare ai delfini. Nella
tragedia sofoclea Aiace cerca di convincere Tecmessa di aver inaspetta‑
tamente cambiato proposito in merito al suicidio: è l’inizio della cosiddetta
Trugrede, l’eroe sta ingannando la sua concubina, ma in apparenza queste
parole preannunciano una svolta positiva della vicenda. I due versi dello
Ione, infine, come si è visto, sono la considerazione del Corifèo a
conclusione della scena di riconoscimento. In generale, questi paralleli
costituiscono un invito a non perdere mai la speranza alla luce di qualcosa
che è già avvenuto: una riflessione a posteriori. Nell’Ipsipile, dunque, il fr.
761 doveva trovare posto dopo che il riconoscimento vero e proprio era
avvenuto34, dopo l’inchiesta, in qualche punto della fase del ricongiun‑
gimento fra la madre e i suoi due figli. Tuttavia, a differenza dei vv.
1510‑1511 dello Ione e del fr. 62 dell’Alessandro, il fr. 761 dell’Ipsipile non
poteva chiudere la scena di riconoscimento, se – come vedremo – il papiro
di Ossirinco 852 (= E. Hyps. fr. 759a)35 ce ne conserva i versi finali. Restano
due possibilità: le parole del fr. 761, recitate dal Corifèo, si inserivano come
cerniera fra l’inchiesta e il ricongiungimento, come i vv. 1230‑1231
dell’Elettra di Sofocle, anche se in quel caso si tratta di un distico; oppure il
singolo trimetro del fr. 761 potrebbe provenire da un amebeo lirico‑
epirrematico presente nella fase del ricongiungimento: dato, però, che il
Corifèo non interviene mai in questa parte della scena di riconoscimento,
si può ipotizzare l’attribuzione al figlio di Ipsipile, Euneo36, oppure – ma è
meno probabile – ad Anfiarao37.

388 ἄναξ, βροτοῖσιν οὐδέν ἐστ’ ἀπώμοτον): la guardia incaricata di custodire il


cadavere di Polinice insepolto, dopo aver riferito a Creonte degli onori funebri
segretamente tributati al morto da una mano ignota, ha assicurato al sovrano che non
lo avrebbe visto tornare (cf. v. 329) ma, ripresentandosi al suo cospetto, consapevole
di essere venuto meno a tale giuramento, afferma che nulla è impossibile (ovvero che
«non c’è nulla che un uomo possa giurare che non accadrà»).
33
Cf. BOSSI 1990, 179.
34
Cf. BOND 1963, 138. KANNICHT 2004, 793, è più cauto.
35
La prima edizione di questo frammento è stata curata da GRENFELL/HUNT 1908.
36
Nelle scene di riconoscimento frasi simili sono pronunciate da un personaggio
in E. IT 841 Ορ. τὸ λοιπὸν εὐτυχοῖμεν ἀλλήλων μέτα e Ion 1456‑1457 Ιων θεῖον τόδ’·
ἀλλὰ τἀπίλοιπα τῆς τύχης / εὐδαιμονοῖμεν, ὡς τὰ πρόσθ’ ἐδυστύχει. In generale,
come esempio di frase sentenziosa pronunciata da un personaggio, cf. E. IT 489 Ορ.
τὴν τύχην δ’ ἐᾶν χρεών.
37
Cf. ITALIE 1923, 55. Seppure non si tratti di una frase sentenziosa, anche il vecchio
152 Mattia De Poli

Sembrano riconducibili alla scena di riconoscimento dell’Ipsipile anche i


frr. 765 e 765a, conservati dagli scholia ai vv. 1320 e 1322 delle Rane di
Aristofane.
Con le parole del fr. 765a:

Ὑψ. περίβαλ’, ὦ τέκνον, ὠλένας38

Ips. Figlio, getta le tue braccia intorno (a me)

Ipsipile esorta il figlio Euneo ad abbracciarla39: come nell’esodo della


tragedia, la madre si rivolge solo a lui, usando il singolare, nonostante in
scena sia presente come personaggio muto anche il fratello gemello Toante.
L’abbraccio è un gesto tipico della fase del ricongiungimento40 ma, quando
il riconoscimento è reciproco e non è sincrono, il personaggio che per primo
riconosce l’altro può avere uno slancio d’affetto, che appare incomprensibile
e ingiustificato, anticipato rispetto al momento dell’effettivo ricongiun‑
gimento. Così avviene, ad esempio, nell’Ifigenia fra i Tauri, quando Oreste
già nella fase dell’inchiesta comprende di essere di fronte alla sorella e cerca
di abbracciarla41, provocando la sua42 reazione sdegnata: nel v. 799 …

Pedagogo dell’Elettra euripidea interviene subito prima del passaggio dall’“inchiesta”


al “ricongiungimento” (E. El. 576).
38
Rispetto al testo stampato da KANNICHT 2004, 794, in questo frammento
preferisco mantenere il verbo all’aoristo (περίβαλ’) anziché al presente (περίβαλλ’),
come riportato nello scolio, e propendo per un’interpretazione docmiaca anziché
gliconica, più consona ai canti delle scene di riconoscimento (cf. CERBO 1989). Per una
trattazione più articolata della questione, cf. DE POLI c.d.s. Non ritengo fondati i dubbi
in merito all’autenticità di questo frammento, sollevati da KOSTER 1962, sulla base dello
scolio di Giovanni Tzetzes al v. 1322 delle Rane: il filologo bizantino non accenna
alla parodia dell’Ipsipile, limitandosi a suggerire il confronto con i vv. 165‑166 delle
Fenicie.
39
Tenderei ad escludere, come pure è stato ipotizzato, che questo frammento debba
essere anticipato nella parte iniziale del dramma e che Ipsipile rivolgesse queste parole
al piccolo Ofelte nella ninnananna scandita da sequenze gliconiche: sulla questione,
cf. BOND 1963, 138.
40
Cf. E. Hel. 623‑624 ὦ ποθεινὸς ἡμέρα, / ἥ σ’ εἰς ἐμὰς ἔδωκεν ὠλένας λαβεῖν
(Menelao a Elena), Ph. 306‑307 ἀμφίβαλλε μα‑ / στὸν ὠλέναισι ματέρος (Giocasta a
Polinice).
41
Cf. E. IT 796 σ’ ἀπίστωι περιβαλὼν βραχίονι (Oreste a Ifigenia). In modo simile,
nei vv. 165‑166 delle Fenicie περὶ δ’ ὠλένας / δέραι φιλτάται βάλοιμεν χρόνωι
Antigone esprime il desiderio di abbracciare Polinice.
42
L’attribuzione dei vv. 798‑799 dell’Ifigenia fra i Tauri è incerta: cf. DE POLI 2017, 93,
n. 25.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 153

ἀθίκτοις περιβαλὼν πέπλοις χέρα, in particolare, la frase con il verbo


περιβάλλω presenta la stessa struttura sintattica del fr. 765a. Tuttavia, se
tra madre e figlio Ipsipile è l’ultima a riconoscere l’identità altrui, questo
frammento andrà collocato più opportunamente nella fase del ricongiun‑
gimento.
È possibile che l’identità di Euneo e Toante fosse resa certa da un oggetto
a forma di grappolo d’uva, di germoglio di vite oppure di viticcio43, e ad
esso sembra alludere il fr. 765:

οἰνάνθα τρέφει τὸν ἱερὸν βότρυν

un germoglio di vite nutre il sacro grappolo.

Se questo verso apparteneva alla scena di riconoscimento, dovrà essere


ricondotto alla fase dell’inchiesta, perché nelle tragedie integrali l’oggetto
del riconoscimento non viene mai menzionato nella fase del ricongiun‑
gimento; tuttavia, è notevole che queste parole siano formulate in una
sequenza lirica, costituita da una coppia di docmi, che è più comune nella
fase del ricongiungimento. Parte della critica ritiene di dover collocare
questo frammento in una parte della tragedia diversa dalla scena di
riconoscimento: un canto corale, un altro brano lirico cantato da Ipsipile, o
l’amebeo lirico‑epirrematico presente nell’esodo della tragedia, dove Euneo
allude al «grappolo d’uva di quello», cioè del padre di Ipsipile (E. Hyps. fr.
759a, 1632), ma non si può escludere che un amebeo lirico‑epirrematico fra
Ipsipile ed Euneo iniziasse già nella fase dell’inchiesta, se è vero – come
vedremo – che nell’Ipsipile questo tipo di struttura viene impiegata
eccezionalmente anche nel “supplemento di inchiesta”.
L’eventuale oggetto di riconoscimento, legato alla figura di Dioniso,
poteva essere custodito all’interno di un contenitore avvolto da alcune
bende (στέμματα), forse descritte con i tre aggettivi in polisindeto del fr.
76244:

εὔφημα καὶ σᾶ καὶ κατεσφραγισμένα45

sacre, integre e sigillate.

43
Cf. AP 3, 10, 1 Βάκχοιο φυτὸν τόδε (prima dell’epigramma si legge: …
ἀναγνωριζόμενοι τῇ μητρὶ καὶ τὴν χρυσῆν δεικνύντες ἄμπελον, ὅπερ ἦν αὐτοῖς
τοῦ γένους σύμβολον …); cf. JOUAN/VAN LOOY 2002, 158‑159; HARTUNG 1844, 438.
44
Cf. BOND 1963, 138; HARTUNG 1844, 439.
45
Per l’uso di εὔφημος riferito a cose, cf. E. Andr. 1144; per κατεσφραγισμένα, cf.
A. Supp. 947.
154 Mattia De Poli

Si profilerebbe una situazione simile a quella che si verifica nella scena


di riconoscimento dello Ione: dopo aver ricevuto dalla Pizia il cesto in cui
era stato abbandonato, il giovane apostrofa direttamente le sacre bende che
lo avvolgevano, prima di scoprire con stupore il perfetto stato di conser‑
vazione degli oggetti (1389‑1394 Ιων ὦ στέμμαθ’ ἱερά … καὶ σύνδεθ’ …).
Nell’Ipsipile i ruoli sono invertiti e l’oggetto è necessario affinché la madre
riconosca i due figli: pertanto si può supporre che il fr. 762 fosse
pronunciato dalla stessa Ipsipile, meravigliata dalla vista delle bende a lei
note.
In sintesi, dei quattro frammenti dell’Ipsipile conservati dalla tradizione
indiretta e riconducibili alla scena di riconoscimento due sono collocabili
nella fase dell’inchiesta:

fr. 762 εὔφημα καὶ σᾶ καὶ κατεσφραγισμένα


fr. 765 οἰνάνθα τρέφει τὸν ἱερὸν βότρυν

e due nella fase del ricongiungimento:

fr. 761 ἄελπτον οὐδέν, πάντα δ’ ἐλπίζειν χρεών


fr. 765a Ὑψ. περίβαλ’, ὦ τέκνον, ὠλένας.

7. L’Ipsipile (fr. 759a = P.Oxy. 852): la scena di riconoscimento e il “supple‑


mento d’inchiesta”

Secondo uno studio di HOURMOUZIADES 1975, nell’Ipsipile non ci sarebbe


stata una scena di riconoscimento, come finora l’abbiamo intesa: Euneo e
Toante, infatti, avrebbero scoperto la loro identità in uno spazio extra‑
scenico, durante i giochi funebri in onore di Ofelte, grazie all’intervento di
Anfiarao, mentre Ipsipile sarebbe stata informata della scoperta
probabilmente da un messaggero. Sotto gli occhi degli spettatori, dunque,
sarebbe avvenuto solamente l’incontro fra la madre e i due figli in quella
che si configura come una scena di ricongiungimento46, paragonabile a
quella delle Fenicie. Tuttavia, una rilettura dell’esodo dell’Ipsipile, in buona
parte conservato dal papiro di Ossirinco 852 (= fr. 759a), permette di non
escludere le osservazioni finora proposte in merito ai frammenti di
tradizione indiretta, e in particolare ai frr. 762 e 765.
Il rotolo di papiro è ampiamente lacunoso per otto colonne, dalla XX alla
XXVII, corrispondenti a circa 600 versi della seconda metà della tragedia;
poi il testo ricomincia a partire dalla XXVIII colonna, all’inizio della quale

46
Cf. LOMIENTO 2005, 62.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 155

si leggono i vv. 1579‑1583. Tenderei ad escludere che essi fossero eseguiti


dal Coro: non possono appartenere a uno stasimo, perché precedono
l’uscita di Anfiarao che, insieme ad altri tre personaggi parlanti e a uno
muto, era presente in scena durante l’esecuzione di questi versi; è
improbabile che fossero versi di un amebeo fra Ipsipile e il Coro, perché in
generale il Coro ha una posizione defilata nelle scene di riconoscimento o
di ricongiungimento rispetto ai personaggi coinvolti; forse potevano
corrispondere alla conclusione di un canto corale infraepisodico, come
quello che chiude la scena di riconoscimento nell’Elettra di Euripide (585‑
595), ma nessuno dei canti di questo tipo individuati da CENTANNI 1991 si
colloca all’interno dell’esodo. Possiamo immaginare che i vv. 1579‑1583
appartenessero a un amebeo fra Ipsipile ed Euneo oppure, più probabil‑
mente, a una monodia di Ipsipile. Nei vv. 1584‑1591a Anfiarao si congeda
ricevendo un saluto benaugurante dai figli di Ipsipile47; quindi, dal v. 1591b
fino al v. 1633, dove finisce la colonna di testo, si sviluppa un amebeo lirico‑
epirrematico fra Euneo e Ipsipile. Della colonna successiva si legge solo la
nota personae «Dioniso»: il deus ex machina interveniva presumibilmente in
corrispondenza del v. 1676, mentre la tragedia terminava dopo altri 45 versi,
al v. 1720). Nella prima parte dell’amebeo lirico‑epirrematico (1591b‑1609)
Euneo chiede alla madre di raccontargli le sue disavventure: dall’allon‑
tanamento da Lemno fino al suo arrivo a Nemea. Nella parte successiva
(1610‑1633, e oltre) i ruoli si invertono e Ipsipile chiede al figlio notizie in
merito alle sue disavventure: dalla partenza per la Colchide con il padre a
bordo della nave Argo fino al ritorno a Lemno con il nonno Toante (Ipsipile
apprende così che Giasone è morto, mentre suo padre Toante è ancora
vivo). Nel dialogo fra madre e figlio i personaggi rimediano alla propria
ignoranza relativa ai fatti altrui, accaduti in passato dopo la loro
separazione: c’è sympatheia, partecipazione alle sofferenze patite, ma non
ci sono espressioni di gioia, non ci sono manifestazioni di affetto o allusioni
a un gesto come l’abbraccio. La parte di testo compresa fra i vv. 1591b‑1633
ha le caratteristiche non del ricongiungimento ma del “supplemento di
inchiesta”. I vv. 1579‑1583 potevano, dunque, essere la conclusione
dell’amebeo tipico del ricongiungimento oppure appartenere a una mono‑
dia finale di Ipsipile, analoga a quella di Ifigenia nell’Ifigenia fra i Tauri
(868‑899). In seguito, lo scambio di informazioni fra Ipsipile ed Euneo
avviene dopo l’uscita del terzo attore, come nell’Elena, e il confronto fra
madre e figlio pone le basi per lo scioglimento compiuto dal deus ex machina,
come nello Ione. L’aspetto innovativo dell’Ipsipile è dato dalla composizione

47
Sulla questione relativa all’attribuzione dei vv. 1590‑1591, cf. BOND 1963, 126‑127.
156 Mattia De Poli

lirico‑epirrematica del “supplemento di inchiesta”, di solito realizzato da


un dialogo o da una sticomitia in trimetri giambici.
I quattro frammenti dell’Ipsipile conservati dalla tradizione indiretta e
riconducibili alla scena di riconoscimento potevano trovare posto nel testo
precedente rispetto alla XXVIII colonna: già GRENFELL/HUNT 1908, 27, del
resto, avevano ipotizzato che la XXVII colonna del rotolo di papiro potesse
essere occupata interamente o in gran parte dalla scena di riconoscimento:
una scena di riconoscimento completa di inchiesta e di ricongiungimento,
in cui Anfiarao guida, almeno inizialmente, il confronto fra Ipsipile ed
Euneo, come Pilade nell’Ifigenia fra i Tauri, mentre Toante è un personaggio
muto, come nella parte successiva dell’esodo, conservata dal papiro.
Sfortunatamente, l’hypothesis dell’Ipsipile è mutila e non è d’aiuto per la
ricostruzione della scena di riconoscimento; tuttavia, sulla base di quanto
è stato illustrato è possibile ritenere che in questa tragedia essa: 1) fosse
basata su un riconoscimento reciproco; 2) coinvolgesse la madre e i due
figli gemelli, anche se di fatto uno dei due è un personaggio muto; 3) fosse
illuminata dall’intervento di Anfiarao, ma richiedesse anche un oggetto,
forse conservato all’interno di contenitore avvolto da alcune bende; 4)
rimediasse a una situazione potenzialmente mortale per Ipsipile, che
Euridice voleva punire per la morte di Ofelte, ma non è chiaro se i figli
Euneo e Toante avessero qualche ruolo nell’esecuzione della condanna a
morte della madre48; 5) si articolasse nelle due parti canoniche, l’inchiesta
e il ricongiungimento, e fosse seguita da un “supplemento di inchiesta”,
prima dell’intervento del deus ex machina: eccezionalmente il “supplemento
d’inchiesta” aveva la forma di un amebeo lirico‑epirrematico, e forse anche
l’inchiesta; 6) si collocasse nella parte finale della tragedia, in particolare
nell’esodo.

8. Altre scene di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide

Una scena di riconoscimento è ipotizzabile in almeno altre quattro


tragedie frammentarie di Euripide: il Cresfonte, la Melanippe prigioniera,
l’Antiope e l’Alcmeone a Corinto.
Nel Cresfonte Merope è intenzionata a uccidere lo straniero che sembra
essere l’assassino di suo figlio, ma un vecchio servitore riconosce nel
giovane proprio il figlio di Merope e riesce a trattenerla in tempo: in questo

48
Si noti, però, che anche in questo caso, come nell’Alessandro, i giochi atletici
favorivano l’identificazione dei gemelli.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 157

caso si tratterebbe di un riconoscimento semplice, perché Cresfonte è


conscio della propria identità fin dal principio e, tornato a casa, si presenta
sotto una falsa identità, come Oreste nelle due Elettre di Sofocle e di
Euripide. La scena di riconoscimento si colloca probabilmente nella parte
centrale del dramma, di certo non nel finale, perché deve esserci il tempo
necessario a pianificare e compiere la vendetta per la morte del padre di
Cresfonte, uccidendo Polifonte49.
Anche nella Melanippe prigioniera «une scène de reconaissance s’im‑
pose»50: nonostante i dubbi relativi alla trama di questa tragedia euripidea,
probabilmente Melanippe ritiene che i suoi figli siano morti ed essi igno‑
rano che la donna tenuta prigioniera sia la loro madre; quindi, scoprono di
essere figli di una schiava da quelli che credono essere degli zii e che sono
decisi a ucciderli ma troveranno così la morte. Il riconoscimento che si
compie in scena a questo punto è reciproco: coinvolge la madre e i due figli
gemelli, secondo modalità non del tutto chiare, e si colloca nel finale della
tragedia, dove è confermato in ultimo da Poseidone, padre dei gemelli,
come deus ex machina51.
La scena di riconoscimento dell’Antiope, come quella dell’Ipsipile, viene
spesso scomposta in due distinti momenti (prima Anfione e Zeto vengono
informati del loro legame con Antiope, poi viene riferito ad Antiope che i
due giovani sono i suoi figli) e la prima parte è dislocata in uno spazio
extra‑scenico, tutto perché una scena di riconoscimento unica, che si svolge
sotto lo sguardo degli spettatori, richiederebbe troppi personaggi in scena
contemporaneamente rispetto al limite dei tre attori disponibili52. Tuttavia,
lo scolio ad Apollonio Rodio, Argonautiche 4, 1090 … ληφθεῖσα πάλιν τοῖς
ἑαυτῆς παισὶν ἐκδίδοται. ἐνταῦθα δὲ ἐκκαλύπτει ὁ τροφεὺς βουκόλος
τὸ γεγονός. οἱ δὲ τὴν μὲν Ἀντιόπην σώζουσιν … sembra suggerire non
solo che il riconoscimento sia reso possibile dal pastore che ha cresciuto i
due gemelli, ma anche che la rivelazione di ciò che è accaduto avvenga alla
presenza di Anfione, Zeto e Antiope in un’unica circostanza, che precede

49
Per la ricostruzione della scena di riconoscimento e, in generale, della trama del
Cresfonte, cf. MATTHIESSEN 1964, 111‑114; HARDER 1985, 114‑117; COLLARD/CROPP/LEE
1995, 121‑125; JOUAN/VAN LOOY 2000, 264‑270; COLLARD/CROPP 2008, 493‑495.
50
JOUAN/VAN LOOY 2000, 370.
51
Per la ricostruzione della trama della Melanippe prigioniera, cf. COLLARD/
CROPP/LEE 1995, 240‑247; JOUAN/VAN LOOY 2000, 363‑372; COLLARD/CROPP 2008, 587‑
589.
52
Cf. HOURMOUZIADES 1975. Per la ricostruzione della trama dell’Antiope, cf.
JOUAN/VAN LOOY 1998, 223‑237; COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 262‑264; COLLARD/
CROPP 2008, 170‑175; BIGA 2015, 37‑47.
158 Mattia De Poli

la liberazione della donna, la punizione violenta di Dirce e il tentativo di


uccisione di Lico: è sufficiente immaginare che uno dei due fratelli,
presumibilmente Zeto, rimanga un personaggio muto come Toante
nell’Ipsipile. Tale scena si colloca nella seconda parte del dramma: prima
dell’esodo, è necessario ipotizzare solamente il racconto della morte di
Dirce, che avviene in uno spazio extra‑scenico.
Nell’Alcmeone a Corinto è ipotizzabile «a typical Euripidean recognition
and reunion»53 fra Alcmeone e il figlio Anfiloco, che in precedenza era stato
incaricato da Creonte di eseguire la condanna a morte del padre: a
consentire lo svelamento del loro legame è la regina, moglie di Creonte.
Rimane incerto, invece, se anche Tisifone fosse presente come personaggio
muto oppure se nella tragedia ci fosse spazio per un’altra scena
riconoscimento fra Alcmeone e la figlia: in tal caso deve essere precedente
rispetto a quella fra padre e figlio, che rimane l’unica veramente risolutiva
nella trama complessiva del dramma54.

9. Considerazioni generali, non definitive, sulla scena di riconoscimento


nel teatro attico

Prendere in considerazione solo le tragedie integrali per valutare le


caratteristiche della scena di riconoscimento nel teatro attico di V secolo
conduce a risultati necessariamente parziali, dal momento che tre delle sei
tragedie utili allo scopo (le Coefore di Eschilo, l’Elettra di Euripide e l’Elettra
di Sofocle) sono basate sullo stesso mito. Integrare i dati desumibili da altre
sette tragedie frammentarie di Euripide, qui prese in esame, consente di
delineare un quadro più complesso e completo55.
Il riconoscimento reciproco è più frequente rispetto a quello semplice. Il dato
emerge chiaramente già nelle tragedie integrali: solo nelle Coefore e
nell’Elettra di Euripide la scena di riconoscimento richiede che solo uno dei
personaggi accerti l’identità dell’altro; altri due esempi sono offerti da
altrettante tragedie frammentarie euripidee, l’Egeo e il Cresfonte, che come
l’Elettra, appartengono alla produzione più antica di questo tragediografo;
le opere più recenti di Euripide, insieme all’Elettra di Sofocle, mostrano
invece una predilezione per una situazione più complessa.

53
COLLARD/CROPP 2008, 87.
54
Per la ricostruzione della scena di riconoscimento e della trama dell’Alcmeone a
Corinto, cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 98‑100; COLLARD/CROPP 2008, 87‑89.
55
Per conclusioni ancora più complete, bisognerà considerare anche le tragedie
frammentarie di Sofocle, o almeno la sua Tyro II, che esulano da questa indagine.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 159

Riconoscimento
semplice reciproco
ESCHILO Coefore [1]
SOFOCLE Elettra [1]
EURIPIDE Egeo, Cresfonte, Elettra [3] Melanippe prigioniera, Ales‑
sandro, Ifigenia fra i Tauri,
Elena, Ione, Antiope, Ipsipile,
Alcmeone a Corinto [8]

Il riconoscimento avviene soprattutto tra madre e figlio (o figli gemelli). Nelle


tragedie integrali la scena di riconoscimento in quattro casi su sei coinvolge
un fratello e una sorella (Oreste ed Elettra oppure Oreste e Ifigenia),
facendo risultare singolari quelle in cui il processo riguarda una madre e
un figlio (Creusa e Ione) oppure un marito e una moglie (Menelao ed
Elena). Se si allarga il panorama, però, la situazione più frequente è
indubbiamente quella che riguarda la madre e il figlio (Merope e Cresfonte,
Ecuba e Alessandro, oltre a Creusa e Ione) o la madre e i due figli gemelli
(Melanippe, Beoto ed Eolo; Antiope, Anfione e Zeto; Ipsipile, Euneo e
Toante). Più rare ma presenti sono le scene tutte al maschile, che coin‑
volgono un padre e un figlio: Egeo e Teseo ovvero Alcmeone e Anfiloco56.
La situazione dell’Elena, invece, resta senza paralleli57.

ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE


madre‑figlio [3] Cresfonte, Alessandro, Ione
Melanippe prigioniera,
madre‑figli gemelli [3]
Antiope, Ipsipile
fratello‑sorella [4] Coefore Elettra Elettra, Ifigenia fra i Tauri
padre‑figlio [2] Egeo, Alcmeone a Corinto
padre‑figlia [1?] Alcmeone a Corinto (?)
marito‑moglie [1] Elena

56
Nel ristretto ambito delle tragedie integrali Euripide propone una situazione
analoga solo nella scena di pseudo‑riconoscimento fra Xuto e Ione.
57
Non meno singolare è l’eventuale scena, nell’Alcmeone a Corinto, fra Alcmeone e
Tisifone, padre e figlia, in cui il più vecchio è il personaggio maschile.
160 Mattia De Poli

La scena di riconoscimento coinvolge spesso il terzo attore … Tipicamente


euripidea è la predilezione per le scene di riconoscimento affollate, che
coinvolgono il terzo attore nel ruolo di un personaggio che favorisce o
consente l’identificazione tra i soggetti principali. Eschilo e Sofocle si
limitano a porre al fianco di Oreste un terzo personaggio, quello di Pilade,
che resta muto per tutta la scena; Euripide, invece, in una situazione
analoga introduce il vecchio pedagogo: la sua scena di riconoscimento fra
Oreste ed Elettra prevede quindi tre personaggi parlanti e uno muto. La
stessa dinamica viene replicata nelle tragedie in cui è presente una coppia
di gemelli: il riconoscimento fra loro e la madre è reso possibile da un terzo
personaggio nella Melanippe prigioniera, nell’Antiope e nell’Ipsipile. Ma
Euripide mobilita tre personaggi parlanti anche nel Cresfonte, nell’Ales‑
sandro, nell’Ifigenia fra i Tauri e nell’Elena: lo Ione e, presumibilmente, l’Egeo
costituiscono dunque dei casi eccezionali.
… e in alternativa ricorre agli oggetti di riconoscimento. Proprio nello Ione e
nell’Egeo, dove non viene coinvolto un terzo personaggio parlante,
risultano fondamentali gli oggetti di riconoscimento. Tuttavia, Euripide
nell’Elettra, nell’Ifigenia fra i Tauri e nell’Ipsipile riesce a coniugare nella stessa
scena alcuni γνωρίσματα, in forma più o meno concreta58, con il coinvol‑
gimento del terzo attore.

ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE


2 attori [2] Egeo*, Ione*
+ 1 muto [2] Coefore* Elettra*
Cresfonte, Alessandro, Ifigenia
3 attori [4]
fra i Tauri*, Elena
Elettra*, Melanippe prigioniera,
Antiope, Ipsipile*, Alcmeone a
+ 1 muto [5]
Corinto* uso di oggetti di
riconoscimento.

La scena di riconoscimento scongiura un pericolo mortale. La trama di alcune


tragedie segue, indubbiamente, la sequenza nostos‑anagnorisis‑mechanema59,
ma Euripide tende anche ad utilizzare la scena di riconoscimento con una
particolare funzione drammatica: egli la inserisce nel momento in cui uno

58
A proposito della natura dei segni di riconoscimento utilizzati in queste tragedie
euripidee, cf. DE POLI 2017, 99‑100.
59
Cf. MATTHIESSEN 1964, 93‑143. Altre considerazioni sulla scena di riconoscimento
e la struttura della trama sono proposte da AÉLION 1983, I, 111‑143; II, 89‑98.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 161

dei personaggi rischia di morire proprio a causa del suo mancato ricono‑
scimento da parte dell’altro, pericolo che viene scongiurato in extremis
grazie agli effetti di questa scena. Tale caratteristica euripidea, già
riscontrabile nell’Ifigenia fra i Tauri, nello Ione e, in qualche modo, anche
nell’Elena, è comune a tutte le tragedie frammentarie qui considerate.
La scena di riconoscimento si articola in “inchiesta” e “ricongiungimento” e
può essere seguita da un “supplemento d’inchiesta”. I dati desumibili dalle
tragedie frammentarie euripidee sembrano confermare la struttura a dittico
della scena di riconoscimento, articolata nei due momenti dell’inchiesta e
del ricongiungimento. Un’appendice della scena di riconoscimento, il
“supplemento d’inchiesta”, è comune a diverse tragedie tarde di Euripide,
oltre che all’Elettra di Sofocle. Di solito il canto interessa la fase del ricon‑
giungimento, ma nell’Ipsipile, forse, risuona già nella fase dell’inchiesta e
sicuramente si estende anche al “supplemento d’inchiesta”, dove il dialogo
fra i personaggi assume la forma di un amebeo lirico‑epirrematico.
La scena di riconoscimento tende a scivolare verso la fine della tragedia. La
posizione della scena di riconoscimento all’interno di una tragedia è
strettamente correlata alla trama ma, rispetto al caso delle Coefore di Eschilo,
in Sofocle e ancor più in Euripide si nota la tendenza a posticipare tale
scena, moltiplicando gli equivoci fra i personaggi e sfruttando ampiamente
l’ironia tragica nelle loro battute.

APPENDICE: E. Hyps. fr. 759a (= P.Oxy. 852)

[Scena di riconoscimento, conclusione di un amebeo o di una monodia]

(Ὑψ.?) τέκνα̣ τ̣ ’ ἀνὰ μίαν ὁδὸν


ἀνάπ̣ [α]λ̣ ιν ἐτρόχασεν 1580
ἐπὶ φόβον ἐπὶ {τε} χάριν
ἑλίξας· χρόνῳ δ’ ἐξέλαμψεν εὐάμερος.

(Ips.?) […] e fece correre (me) e i miei figli di nuovo su un’unica strada, dopo aver
piegato verso la paura e verso la gioia, e alla fine rifulse serena.

[Partenza di Anfiarao]

Ἀμφιάρ. τὴν μὲν παρ’ ἡ[μ]ῶν, ὦ γύναι, φέρῃ χάριν,


ἐπεὶ δ’ ἐμοὶ πρόθυμος ἦσθ’ ὅτ’ ἠντόμην, 1585
ἀπέδωκα κἀγὼ σοὶ πρόθυμ’ ἐς παῖδε σώ.
σῴζου δὲ δὴ σύ, σφὼ δὲ τήνδε μητέρα,
καὶ χαίρεθ’· ἡμε̣ [ῖ]ς δ’, ὥσπερ ὡρμήμεσθα δή,
στράτευμ’ ἄ[γ]ο̣ ν̣ τες ἥξομεν Θήβας ἔ̣ π̣ ι. 1589
οἱ Ὑψιπ. εὐδαιμονοίης, ἄξιος γάρ, ὦ ξένε.
ὑοί ‒ εὐδαιμονοίης δῆτα·
162 Mattia De Poli

Anf. Donna, ti sei procurata la nostra riconoscenza e, poiché sei stata benevola
con me quando chiedevo aiuto, anch’io ti ho mostrato benevolenza
riguardo i tuoi due figli. Ora abbi cura di te e voi due di vostra madre.
Addio! Noi giungeremo a Tebe alla testa di un esercito, proprio come ave‑
vamo cominciato.
Figli di Ipsipile (I) Buona fortuna, straniero! Te la meriti. (II) Sì, buona fortuna!

[Supplemento d’inchiesta: parte 1]

(Εὔν.) τῶν δὲ σῶν κακῶν,


τάλαινα μῆτερ, θεῶν τις ὡς ἄπληστος ἦν.
Ὑψιπ. αἰαῖ φυγὰς ἐμέθεν ἃς ἔφυγον,
ὦ τέκνον, εἰ μάθοις, Λήμνου ποντίας,
πολιὸν ὅτι πατέρος οὐκ ἔτεμον κάρα. 1595
(Εὔν.) ἦ γάρ σ’ ἔταξαν πατέρα σὸν κατακτανεῖν;
(Ὑψ.) φόβος ἔχει με τῶν τότε κακῶν· ἰὼ
τέκν’, οἷά τε Γοργάδες ἐν λέκτροις
ἔκανον εὐνέτας. 1599
(Εὔν.) σὺ δ’ ἐξέκλεψας πῶς πόδ’ ὥστε μὴ θανεῖν;
(Ὑψ.) ἀκτὰς βαρυβρόμους ἱ̣ κ̣ όμαν
ἐπί τ’ οἶδμα θαλάσσιον, ὀρνίθων
ἔρημον κοίτα̣ ν̣ .
(Εὔν.) κἀκεῖθεν ἦλθες δεῦρο πῶς τίνι στόλῳ;
(Ὑψ.) ναῦται κώπαις
Ναύπλιον εἰς λιμένα ξενικὸν πόρον
ἄγαγόν με 1606
δουλοσύ[ν]ας τ’ ἐπέβασαν, ἰὼ τέ[κ]νον,
ἐνθάδε νάϊον μέλεο̣ ν̣ ἐμπολάν.
(Εὔν.) οἴμοι κακῶν σῶν.

Eun. Ma delle tue sventure, povera madre, un dio era davvero insaziabile.
Ips. Ah, figlio mio, se tu sapessi la mia fuga dalla marina Lemno per non aver
tagliato il capo canuto di mio padre.
Eun. Davvero ti ordinarono di ammazzare tuo padre?
Ips. Provo terrore per le sventure di un tempo. Ah, figli, come Gorgoni uccisero
i mariti nei letti.
Eun. E tu, come hai sottratto il piede, senza morire?
Ips. Giunsi a scogli rimbombanti e oltre l’onda marina, desolato rifugio di
uccelli.
Eun. E da là come sei giunta qui? Con quale nave?
Ips. A forza di remi dei marinai mi condussero alla spiaggia di Nauplio,
navigando verso terre straniere, e mi costrinsero in schiavitù, figlio, qui
come misera merce da nave.
Eun. Ah, che sofferenze!
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 163

[Supplemento d’inchiesta: parte 2]

(Ὑψ.) μὴ στέν’ ἐπ’ εὐτυχίαισιν.


ἀλλὰ σὺ πῶς ἐτράφης ὅδε τ’ ἐν τίνι 1611
χειρί, τέκνον, ὦ τέκνον;
ἔνεπ’ ἔνεπε ματρὶ σᾷ.
(Εὔν.) Ἀργώ με καὶ τόνδ’ ἤγαγ’ εἰς Κόλχων πόλιν.
(Ὑψ.) ἀπομαστίδιόν γ’ ἐμῶν στέρνων.
(Εὔν.) ἐπεὶ δ’ Ἰάσων ἔθαν’ ἐμός, μῆτερ, πατήρ—
(Ὑψ.) οἴμοι κακὰ λέγεις, δάκρυά τ’ ὄμμασιν,
τέκνον, ἐμοῖς δίδως.
(Εὔν.) Ὀρφεύς με καὶ τόνδ’ ἤγαγ’ εἰς Θρᾴκης τόπον.
(Ὑψ.) τίνα πατέρι ποτὲ χάριν ἀθλίῳ
τιθέμενος; ἔνεπέ μοι, τέκνον.
(Εὔν.) μοῦσάν με̣ κι̣ θάρας Ἀσιάδος διδάσκεται,
τοῦτ[ο]ν δ’ ἐ̣ ς̣ Ἄρ̣ ε̣ ως ὅπλ’ ἐκόσμησεν μάχης.
(Ὑψ.) δι’ Αἰγαίου
δὲ τίνα πόρον ἐμ[όλ]ετ’ ἀκτὰν Λημνίαν;
(Εὔν.) Θόας [κ]ομίζει σὸς πατὴρ †δυοιν τέκνω.
(Ὑψ.) ἦ γὰ[ρ] σέσ[ω]στ[α]ι̣;
(Εὔν.) Βα[κ]χ̣[ίου] γε̣ μηχαναῖς.
(Ὑψ.) [.......]βό[....]όνων
[........... πρ]οσδοκία βιοτᾶς̣
[.............]ε ματρὶ παῖδας ἢ
[.............]μοι.
(Εὔν.) κεί[..........] Θόαντος οἰνωπὸν βότρυν

Ips. Non lamentarti nella buona sorte. Tu, piuttosto, come sei stato cresciuto?
E lui? Nelle mani di chi, figlio? Figlio, parla, dillo a tua madre.
Eun. La nave Argo condusse me e lui nella città della Colchide.
Ips. Via dal mio seno, via del mio petto.
Eun. E, madre, quando Giasone, mio padre, morì…
Ips. Ahimé, mi dici cose dolorose, figlio, che fanno piangere i miei occhi!
Eun. Orfeo condusse me e lui in un posto, in Tracia.
Ips. E quale favore ha reso mai al vostro sventurato padre? Dimmi, figlio.
Eun. A me ha insegnato l’arte della cetra d’Asia e introdusse lui alle armi di
Ares, da battaglia.
Ips. Per quale rotta attraverso l’Egeo siete giunti allo scoglio di Lemno?
Eun. Tuo padre, Toante, ha portato i tuoi due figli.
Ips. Davvero si è salvato?
Eun. Certo, grazie alle trame di Dioniso.
Ips. ……
Eun. … un grappolo d’uva di Toante …
164 Mattia De Poli

Bibliografia

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La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 165

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Una dimensione dimenticata dell’akoè:
la percezione in scena e la funzione drammaturgica
dei suoni non verbali

VALENTINA ZANUSSO (SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA)

Negli ultimi decenni la dimensione performativa del dramma è stata


uno degli aspetti più decisamente e incisivamente valorizzati dagli studiosi.
L’interesse della critica si è appuntato su diversi elementi: l’ópsis in generale
è stata il fulcro di numerosissimi studi di staging e ricostruzione dello
stagecraft, che a partire dagli anni sessanta del secolo scorso si sono molti‑
plicati sino ai nostri giorni1 e uno spazio sempre maggiore nei commenti
scientifici ai singoli drammi viene oggi riservato alla messa in scena. Per
ciò che concerne l’animazione acustica della scena ateniese, particolare
attenzione ha destato la musica, con diverse raccolte di studi e una serie di
monografie che toccano temi fondamentali come il lessico del suono e degli
strumenti musicali, la funzione mimetica della musica in tragedia,
l’orizzonte iconografico della musica e dei musici2. Accanto alla musica,
sulla scorta delle testimonianze antiche, l’attenzione si è focalizzata anche
sulla voce dell’attore3: caratteristiche, stile della recitazione e dizione
tragica. Su quest’ultima per molto tempo gli studiosi si sono schierati su

1
Gli studi sulla ricostruzione delle dinamiche sceniche nel teatro antico sono
innumerevoli e in continuo incremento. Imprescindibili i pionieristici contributi di
TAPLIN 1978 e TAPLIN 1977, il primo di tre studi sullo stagecraft dei tre grandi tragici,
seguito da SEALE 1982 e HALLERAN 1985. Sul versante italiano ancora fondamentale
DI BENEDETTO/MEDDA 1997.
2
Gli studi sulla musica nel teatro greco si sono arricchiti negli ultimi anni di una
bibliografia critica poderosa. Solo nei primi anni duemila vedono la luce ben cinque
importanti raccolte di studi: CASSIO/MUSTI/ROSSI 2000, PINAULT 2001, MURRAY/WILSON
2004, HAGEL/HARRAUER 2005, VOLPE CACCIATORE 2007.
A queste vanno aggiunte una serie di monografie che toccano temi fondamentali
come il lessico del suono e degli strumenti musicali in Grecia antica (ROCCONI 2003),
la funzione mimetica della musica in tragedia (SIFAKIS 2001), l’interazione fra attori e
musici (WILSON 2002), l’orizzonte iconografico della musica e dei musici, anche in
rapporto al teatro (CASTALDO 2000).
3
Tra gli studi sulla voce dell’attore si possono segnalare PAVLOVSKIS 1977, LANZA
1985, VETTA 1993 e RISPOLI 1996.
168 Valentina Zanusso

due fronti antitetici: alcuni ipotizzavano una dizione molto schematica e


persino epico‑straniante; altri propendevano per il realismo e per il
mimetismo della recitazione. Negli ultimi anni, tuttavia, si è affermata la
convinzione che lo stile della recitazione si sia evoluto da un misurato
formalismo delle origini ad un più spiccato mimetismo verso la fine del V
e particolarmente nel IV secolo; di un’analoga evoluzione sono stati
protagonisti altri elementi delle dinamiche sceniche (maschere, costumi,
architettura). Questa ipotesi sembra inoltre corroborata dalle testimonianze
antiche (Arist. Rhet. 3, 1404b 18‑22, Plut. Quaest. conv. 7, 711c e Ar. Ran. 823‑
29; Gell. N.A. 6, 5‑7).
Ancora in campo acustico, un aspetto meno indagato risulta essere
quello dei suoni non verbali e dei rumori. Si tratta di una dimensione di certo
sfuggente e non macroscopica, non semplice da analizzare e da valorizzare;
una dimensione che è stata fin qui del tutto trascurata oppure analizzata
in modo marginale, accessorio, di certo non sistematicamente e in una
prospettiva globale4. Da qualche tempo sto quindi conducendo un’indagine
specifica su questo elemento che rientrava a buon diritto nella messa in
scena, come si può dedurre dal testo dei drammi, sia quelli tráditi
integralmente, sia quelli che ci sono giunti in veste frammentaria. La ricerca
ha preso infatti le mosse proprio da uno spoglio testuale, completato per i
drammi integri e a buon punto per i frammenti, che ha evidenziato un
discreto numero di loci nei quali i personaggi fanno esplicito riferimento
alla percezione di un certo rumore. Questo primo gruppo di testimonianze
è stato poi arricchito dai passi nei quali è chiaro che venissero prodotti ed
uditi dei suoni non verbali, sebbene non vi si alluda tramite una menzione
diretta del suono stesso, ma vengano impiegati verbi che implicano azioni
molto rumorose o acusticamente pregnanti e oggetti dal profilo acustico
spiccato.
L’effettiva percezione della maggior parte dei suoni non verbali e dei
rumori da parte del pubblico viene spesso negata dagli studiosi. Si tratta
di una questione che si inscrive nella più generale cornice dei problemi
connessi alla convenzionalità del teatro antico, ‘massicciamente’ teorizzata
a partire da Arnott negli anni sessanta dello scorso secolo. Lo studio del
testo in prospettiva performativa ha portato ad individuare in esso – cioè
nel testo stesso – elementi investiti di un peculiare valore tecnico nelle
dinamiche di scena. Tuttavia questa tendenza si è spinta verso una peri‑
colosa deriva, a mio avviso: talvolta si sono sovra‑interpretati in chiave

4
Un solo lavoro sistematico sulle qualità dei suoni (verbali e non verbali, nonché
musicali) ha indagato anche la produzione tragica: KAIMIO 1977, da una prospettiva
eminentemente lessicale, cui si collega CUZZOLIN 1999.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 169

convenzionale elementi che viceversa si prestano a una lettura più


immediata e non tecnica, come a tornare ancora all’immagine nietzschiana
dello «spettacolo del tutto straniero e barbaro» che tanta parte ha avuto
nella storia degli studi dell’ultimo secolo. Muovendo dal principio per cui
il teatro antico utilizzava come veicolo comunicativo pressoché assoluto la
parola con la sua evidenza scenica5, si ritiene in genere che anche i suoni
che i personaggi dicevano di avvertire fossero immaginati dal pubblico:
una sorta di ‘acustica verbale’ (per richiamare il termine scenografia verbale
che esemplifica l’analogo procedimento in campo visivo).
Sembra tuttavia che questo scenario possa essere attenuato da testimo‑
nianze antiche: Platone (resp. 396b), ad esempio, lascia intravedere che in
teatro si potessero udire «cavalli che nitriscono, tori che muggiscono, fiumi
che mormorano, il mare che romba, i tuoni, e così via». Il che, appunto,
incoraggia ad approfondire il tema di cui qui mi occupo.
In vista di una sistemazione del materiale, eterogeneo e quasi poli‑
morfico, che è emerso dallo spoglio, sarà approntata una classificazione dei
suoni, che terrà conto di parametri fisici e scenici, in quest’ambito ine‑
stricabilmente legati. Per poter definire ‘fisicamente’ i suoni, si applicherà
una classificazione fondata su una gradatio, con una progressione dal suono
più semplice a quello più complesso e, in modo direttamente propor‑
zionale, con il passaggio da un massimo ad un minimo di riproducibilità.
Dei suoni avvertiti in scena, poi, due saranno le tipologie drammaturgi‑
camente realizzabili: quella dei suoni prodotti sulla scena (on stage) e quella
complementare dei suoni prodotti fuori scena (off stage).
Scelti questi criteri, il suono più semplice, e dunque più riproducibile,
sembra essere quello corporeo, ovvero quello prodotto dal solo corpo: un
battito di mani, o ancor meglio il kopetós, esemplifica bene la categoria: un
rumore che non necessita di alcun tipo di strumento ausiliario per essere
prodotto.
Lievemente più complesso sarà il suono prodotto dal contatto del corpo
con un elemento scenico. L’esempio più emblematico, e quello più comune
ad una prima indagine, è il rumore prodotto da chi bussa alla porta – i
thyrómata della skenè ovviamente – (Choe. 655; Her. 1029‑30; Ion 515‑16; IT
1307‑8; Or. 1067). Si tratta di una categoria che alcuni studiosi hanno
rubricato come «rumore prevalentemente comico»6, ma in realtà, a ben
vedere, frequente anche in tragedia.

5
Secondo il ben noto concetto di «parola scenica» teorizzato da Marzullo in diverse
sedi, tra cui MARZULLO 1986.
6
TAPLIN 1977, 58.
170 Valentina Zanusso

Ad un gradino più alto nella scala della complessità dei rumori si troverà
il suono prodotto dal corpo con l’ausilio di un oggetto di scena. Un esempio è
offerto dalla tromba di Eum. 566‑567. Viene coinvolta, in questo caso, la
categoria degli oggetti di scena, un elemento al centro di una recente
indagine che ne ha evidenziato il valore e la pregnanza, drammaturgici e
al contempo simbolici e dunque in generale comunicativi7. Un caso
particolare è rappresentato dall’articolatissima strumentazione portata in
scena nel prologo del Prometeo per l’incatenamento del protagonista, su cui
tornerò tra poco.
Al vertice di questa preliminare categorizzazione si troverà il suono non
umano. Si tratta dell’effetto acustico più complesso in termini di
riproducibilità. Il tuono (βροντή), sembra essere il rumore di questo genere
più frequente in tragedia. Se si suppone che quest’ultima tipologia potesse
essere riprodotta in teatro, dovevano essere messi in campo alcuni
strumenti meccanici che avrebbero dovuto garantire un grado di μίμησις,
accettabile. Il μηχάνημα in questione è il ben noto brontéion: la querelle
sull’utilizzo o meno delle macchine teatrali nel teatro del V secolo è, come
si sa, tutt’altro che risolta, ma per ciò che riguarda questi testi non mi
sembra secondario notare che si tratta di drammi datati all’ultima parte del
V secolo, con la sola eccezione del Prometeo per il quale proprio uno studio
di questo tipo potrebbe accumulare altri indizi a favore di una datazione
recenziore.
Una griglia strutturata in base alla classificazione proposta permetterà
di avere una visione sinottica sui rumori del teatro attico di V sec. La tabella
risulterà bipartita in base al criterio ‘scenico’ di suoni prodotti sulla scena e
fuori scena; ciascuna delle due categorie sarà a sua volta articolata nella
scala ‘fisica’ dei suoni da quello che è stato definito più semplice (e più
riproducibile) a quello più complesso (e meno riproducibile).
Anticipando una tabella sintetica (per i drammi che possiamo leggere
integralmente), si potrà avere:

Eschilo Sofocle Euripide


Suono
In scena Fuoriscena In scena Fuoriscena In scena Fuoriscena
corporeo 1 ‑ ‑ ‑ 1 ‑
con un

elemento 1 1 1 ‑ 5
prodotto dal scenico
corpo con un
oggetto di 2 5 ‑ ‑ ‑ ‑
scena
non umano 1 8 ‑ 4 1 5

7
Si tratta del recente COPPOLA/BARONE/SALVATORI 2016.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 171

Uno dei casi più rilevanti e più articolati, ma al contempo più affasci‑
nanti, che ho incontrato nel corso della mia indagine è quello del Prometeo
Incatenato. Se la vexatissima quaestio della paternità è ancora sub iudice ma
Eschilo è sempre meno quotato, una disamina degli ingredienti sonori del
dramma può mettere in luce elementi utili in questa prospettiva. Si può
innanzitutto osservare che in questa tragedia le notazioni di suoni e rumori
marcano momenti scenicamente significativi: il prologo (vv. 1‑87),
l’ingresso del coro (v. 125), il finale (vv. 1080‑87). In questa sede ho scelto
di soffermarmi sul prologo.
Il prologo del Prometeo Incatenato è uno degli elementi che ha contribuito
a gettare dubbi sulla paternità eschilea di questo dramma: esso presenta,
difatti, una struttura che è parsa anomala all’interno della produzione
eschilea superstite (duplice scena composta da un dialogo – vv. 1‑87 – e da
un monologo del protagonista, vv. 88‑127), e che viceversa mostra
significative analogie con articolazioni drammaturgiche documentate in
momenti successivi (per lo più nella produzione sofoclea e in parte in
quella euripidea)8. Questa ouverture non contiene gli elementi di scenografia
acustica della tipologia che si è definita più esplicita (riferimenti a rumori
più o meno espliciti accompagnati da verbi uditivi) ma ha un profilo
acusticamente rilevante, ed ha, a mio giudizio, un forte potere psicagogico,
determinante nel fornire un primo imprinting dell’ambientazione e
dell’atmosfera di questa tragedia. La disamina degli elementi sonori che
emergono in questi primi versi può costituire, inoltre, un utile supporto
alla ricostruzione della messa in scena di questo segmento drammaturgico,
per molti versi dubbia. Griffith (1983, 31) è tra i pochissimi che evidenzia
esplicitamente – in una cursoria notazione – le potenzialità mimetiche dei
suoni nella messa in scena del dramma (limitatamente ad alcuni versi)9;
potenzialità che sembrano meritare una valorizzazione e una focalizzazione
ulteriori attraverso una indagine più puntuale e capillare su questi versi.
La prima parte del prologo è, come si diceva, occupata da un dialogo
tra Kratos ed Efesto, alla presenza di Bia κωφὸν πρόσωπον (come si
deduce dall’allocuzione diretta del v. 12): il primo, emissario feroce di Zeus,
si assicura che il dio del fuoco esegua gli ordini del padre degli dei, pur
riluttante nella sua pietas di consanguineo, ed incateni Prometeo, reo del

8
Vd. THOMSON 1932, 15; GRIFFITH 1983, 80‑81; TAPLIN 1977, 240‑243; SUSANETTI
2010, 146.
9
«All in all, however, Prom. must have been one of the most spectacular and
visually sensational tragedies ever presented on the fifth century stage; the unexpected
sights (and sounds; cf. 64‑65, 1082‑3 nn.) provide relief and variety to a rather static and
monotonous series of scenes».
172 Valentina Zanusso

furto del fuoco e della sua clandestina consegna agli uomini, ad una rupe
della Scizia, affinché subisca la punizione che Zeus ha stabilito per lui.
Il movimento dei personaggi προλογίζοντες si intuisce dal verbo del
v. 1: ἥκομεν. Si tratta di un verbo che si può definire ‘tecnico’ in ambito
drammaturgico10, poiché compare altrove in incipit di dramma11 e costi‑
tuisce in sostanza una didascalia scenica: in un orizzonte recitativo di
impronta naturalistica, descrive un ingresso presumibilmente in movi‑
mento seguito immediatamente dalle ragioni dell’arrivo che individuano
gli antefatti. Oltre alla struttura del prologo, altro unicum nel panorama
tragico a nostra disposizione è l’ingresso contemporaneo di quattro
personaggi dotati di identità (Kratos, Efesto, Bia e Prometeo): una
singolarità di un qualche rilievo anche nell’ambito della produzione
eschilea, ove non è infrequente, nel pur ristretto numero di drammi
superstiti, una articolazione prologica del tutto peculiare: è ben noto, difatti,
che le Supplici e i Persiani si aprono con un canto del coro (e dunque con
una scena abbastanza ‘affollata’). Per cercare, forse, di attenuare, stem‑
perare questa apparente irregolarità drammaturgica, dalla metà circa dello
scorso secolo, alcuni studiosi12 hanno ipotizzato che Prometeo non facesse
effettivamente la propria comparsa sulla scena in vesti ‘umane’ ma che al
suo posto vi fosse un fantoccio ‘doppiato’ da un attore fuori scena che
veniva trascinato in catene e successivamente inchiodato al celeberrimo
πάγος (di cui si dirà in seguito). A corroborare questa ipotesi, ormai da più
parti criticata, interverrebbero altri elementi: il silenzio del protagonista nel
corso di tutta la prima sezione, l’ordine di Kratos ad Efesto di conficcare
un cuneo d’acciaio nel petto del Prometeo (vv. 64‑65), la difficoltà per un
attore in carne ed ossa di interpretare l’intero dramma incatenato ad un
supporto (di qualsivoglia natura si intenda il πάγος di v. 20). Questo
ventaglio di elementi non sembra essere, tuttavia, cogente e giustificare una
messa in scena così patentemente antirealistica. In merito al silenzio del
protagonista diverse potrebbero essere le giustificazioni e le soluzioni
sceniche mimeticamente accettabili: si potrebbe pensare innanzitutto che il
protagonista fosse portato di peso in scena, quasi privo di sensi, e che si
risvegliasse dopo l’uscita di Kratos, Bia ed Efesto.
Gli scolii inquadrano questo silenzio in una prospettiva peculiarmente
eschilea13, e lo giudicano un espediente dal precipuo valore drammatur‑

10
Cf. GRIFFITH 1983, 82; vd. anche SUSANETTI 2010, 147 .
11
Come rileva SUSANETTI 2010, 147: cf. Troad. 1, Bacch.1; ma anche Choe. 3 e OC 12.
12
TAPLIN 1977, 243‑245 ripercorre la nascita e lo sviluppo della cosiddetta ‘dummy
theory’.
13
Cf. Ar. Ra. 910 ss.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 173

gico, atto ad «acuire l’attenzione dell’uditore» (88b Herington) o finalizzato


a caratterizzare l’ἦθος di Prometeo, che attaccherebbe a parlare dopo che
gli altri dei si sono allontanati per non apparire stolto e superbo (88a
Herington). Per ciò che concerne la scena del presunto inchiodamento al
petto, nulla vieta di ipotizzare che essa fosse semplicemente mimata
(proprio la produzione di effetti acustici potrebbe averne rafforzato il
realismo) ed infine, relativamente alle difficoltà fisiche dell’attore nel
rimanere in scena in piedi legato ad un supporto, diverse messe in scena
moderne consentono di verificarne la praticabilità e la riuscita sceniche.
La scenografia e l’assetto della scena sono tra gli aspetti più problematici
del Prometeo Incatenato e su di essi si sono a più riprese sperimentate
l’acribia e le speculazioni degli studiosi, in particolare nel corso del secolo
precedente, ma più complessivamente sin dalla seconda metà dell’Otto‑
cento, quando si è fatto strada il dubbio sulla autenticità del dramma.
Elementi di scenografia verbale compaiono sin dai primi versi; Kratos
esordisce proprio con la descrizione del luogo in cui si ambienta il dramma:
si tratta della Scizia14 (2: Σκύθην οἶμον), definita un τηλουρὸν πέδον (1),
una ἄβροτος ἐρημία15 in una sorta di climax che ne sottolinea la desolazione
e la brulla asprezza. Appare immediatamente chiaro che la scenografia non
presuppone la presenza di un fondale simile a quello che sembra essere il
più ricorrente nella produzione conservata (un edificio/tempio/grotta,
rappresentato, almeno dal 458 a.C. sulla scenae frons), ma, in modo analogo
ad ad altre poche tragedie superstiti16, la scena è aperta e si svolge in un
paesaggio roccioso. La nudità selvaggia del luogo viene delineata e ribadita
a più riprese in questa prima parte: un numero elevato di riferimenti diretti
e di aggettivi danno agli spettatori una chiara idea della conformazione
dello sperone di roccia a cui sarà incatenato il titano e della solitudine del
luogo, icastico riflesso dell’isolamento del protagonista. Dopo la definizione
trimembre in apertura, al v. 4 Kratos ordina ad Efesto di legare il colpevole
πρὸς πέτραις ὑψηλοκρήμνοις; al v. 15 Efesto si arrende ad incatenare il
proprio συγγενής φάραγγι πρὸς δυσχειμέρωι, e, solo cinque versi dopo,
torna a ribadire che sarà costretto ad inchiodarlo τῶιδ’ ἀπανθρώπωι
πάγωι, sottolineandone ora, da un punto di vista meno fisico e più etico,
la desolazione; un ultimo ma ancor più pregnante ed incisivo riferimento
alla scena è nelle ultime battute della breve ῥῆσις incipitaria di Efesto, ai
vv. 30‑31: qui la roccia è definita con il frequente ἀτερπῆ, ma di essa si dice

14
Sull’annosa questione della geografia del Prometeo vd. FINKELBERG 1997.
15
Per la spinosa questione testuale vd. GRIFFITH 1983, 81‑82.
16
Cf. Supplici ma anche Edipo a Colono.
174 Valentina Zanusso

che costringerà il titano a una posizione verticale (ὀρθοστάδην), senza la


possibilità di piegare le ginocchia (οὐ κάμπτων γόνυ), e che per questo lo
renderà con ogni probabilità insonne (ἄυπνος), preziose didascalie che ci
consentono di visualizzare la probabile posizione dell’attore in scena.
Questi molteplici riferimenti – quasi martellanti nei primi trenta versi –
fanno pensare ad una scenografia che non rappresentasse in modo del tutto
realistico o illusionisticamente efficace il paesaggio, e possono forse
rientrare in quella tipologia di scenografia verbale nota per la πάροδος
dello Ione euripideo, in cui le battute degli attori aiutano lo spettatore a
mettere a fuoco in modo più preciso la scena, un’esigenza tanto più
avvertita in un caso come questo in cui l’ambientazione riveste un’impor‑
tanza del tutto particolare nel veicolare un certo tipo di contenuto. La rupe
prometeica viene definita più volte πάγος (vv. 20, 117, 130, 270), ma anche
πέτρα (come ai citati vv. 4, 31, 56) e φάραγξ (v. 15): di cosa si tratta? Gli
studiosi si sono divisi tra quanti hanno creduto si trattasse di un
complemento scenico, una struttura provvisoria, collocata davanti alla
σκηνή o anche nell’orchestra; quanti hanno immaginato l’impiego del‑
l’ἐκκύκλημα (che avrebbe avuto un ruolo cardine anche nella scena finale)
e quanti, infine, hanno supposto lo sfruttamento da parte di Eschilo di un
costone roccioso naturale, che sarebbe stato utilizzato dal poeta anche in
altri drammi (tra i più antichi tramandati a suo nome, come le Supplici17, i
Persiani, i Sette a Tebe) e che sarebbe stato livellato solo in un momento
successivo, nella seconda metà del V secolo18. L’assenza di evidenze
archeologiche o di altri elementi interni ed esterni al testo che possano
fornire ulteriori indizi sulla veridicità dell’una o dell’altra ipotesi, nonché
l’esulare della questione dallo specifico tema di cui intendo interessarmi,
scoraggiano da speculazioni ulteriori su questo aspetto, se non per un
dettaglio: qualunque fosse il supporto in gioco, a mio avviso, proprio su
questo – e anche contro questo – supporto veniva realisticamente e
sonoramente mimata la scena dell’incatenamento del protagonista; doveva
trattarsi, dunque, di un complemento scenico che si prestasse ad essere
energicamente colpito dal martello di cui era provvisto Efesto, e che facesse
così risuonare in teatro il rumore vibrante delle decise martellate del dio.
Il presupposto fondamentale da cui parte questa analisi, è, pertanto,
come si è già anticipato, quello di una messa in scena mimetica e quanto
più realistica possibile del prologo; non si tratta di un assunto infondato,

17
Salvo poi la scoperta della hypóthesis che ha portato alla sorprendente ridatazione.
18
Per una panoramica aggiornata sulle soluzioni ipotizzate dagli studiosi vd.
DAVIDSON 1994.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 175

se qualche anno fa Susanne Saïd si mostrava assolutamente convinta


dell’altissimo grado di simbolismo di questa prima scena, sulla scorta di
una lettura generale del dramma e del teatro antico nel suo insieme, in cui
alla parola scenica veniva assegnata la funzione di descrivere, compen‑
sando con le parole ciò che non avveniva nella prassi. La studiosa, facendo
tesoro di considerazioni di ordine generale sul realismo nel teatro greco
espresse da Taplin, e applicando in maniera rigorosa un principio indivi‑
duato anni prima dalla Dale19, per il quale nel teatro antico quanto più una
descrizione risulta puntuale e precisa, tanto più si riferisce a qualcosa che
non era visibile agli spettatori, sostiene che la descrizione dell’incate‑
namento di Prometeo occupava un numero elevato di versi per «compenser
l’absence de spectacle»20. Stupisce tuttavia constatare che, nonostante una
presa di posizione inizialmente così forte, la Saïd si risolva poi a concludere
che «l’acteur était sans doute simplement fixé par des liens maintenus par
desclous à une planche dressée verticalement ou à un poteau»: una sintesi
della scena che tutto sommato non sembra troppo distante da una
rappresentazione realistica dell’incatenamento e che potrebbe essere
ricostruita, io credo, seguendo mimeticamente il tracciato del testo.
In questa prospettiva utili a mettere in luce gli elementi acusticamente
pregnanti così come potevano essere percepiti dallo spettatore antico sono
le spie verbali che ci consentono di individuare gli strumenti di scena e
l’analisi lessicale dei verbi impiegati, che permette di valutarne anche
probabili risonanze e similarità con altri loci, segnatamente drammaturgici.
Fondamentale appare ripercorrere preliminarmente il prologo nel suo
svolgimento e nella sua struttura drammatica. Kratos è il primo ad entrare
in scena e, come si è detto, descrive l’ambientazione, in una pennellata
icastica (vv. 1‑2) per poi richiamare sinteticamente gli antefatti (vv. 3‑10):
Prometeo si è macchiato del furto del fuoco, che ha sottratto agli dèi per
farne dono agli uomini. Zeus ha dunque deciso di punirlo affidando ad
Efesto, al quale Kratos si rivolge direttamente, il compito di legarlo ad una
brulla rupe della desolata Scizia. Sin qui lo spettatore, pur avendo di fronte
due personaggi dall’aspetto assai truce (come si evince dalle parole di
Efesto al v. 78)21, non conosce l’identità di chi ha parlato, ma solo quella del
dio a cui è indirizzata la prima allocuzione, Efesto appunto, forse il più
familiare, dati gli attributi22 e la tipica andatura claudicante con cui presu‑

19
DALE 1969, 119.
20
SAÏD 1985, 47.
21
Vd. da ultimo WYLES 2011.
22
Cf. GRIFFITH 1983, 81.
176 Valentina Zanusso

mibilmente faceva il proprio ingresso in scena23. Segue una breve ῥῆσις del
dio (vv. 12‑35)24 che, in qualità di συγγενής25 del condannato, esprime la
propria partecipazione al dolore di Prometeo, pur vedendosi costretto ad
eseguire gli ordini del sovrano degli déi. Le prime parole di Efesto sono
un’apostrofe agli altri due personaggi in scena, grazie alla quale il pubblico
ne conosce ora con certezza l’identità. In questi versi, come si è detto, si
ritrovano svariati riferimenti all’ambientazione e descrizioni dei particolari
del supplizio intrise di συμπάθεια (vv. 21‑25; 31‑32)26; viene inoltre inserito
un verso di presentazione stilizzata quanto anfibologica del protagonista
(v. 18)27; interessante notare che il dio ripete per ben due volte l’odiato
compito che Zeus gli ha affidato (vv. 15 e 20), quasi a voler prendere
coraggio, a rassegnarvisi. Il profilo di Zeus che viene tratteggiato sin da
questi primissimi versi è stato uno degli elementi che maggiormente ha
instillato dubbi sulla paternità eschilea dell’opera perché parso in
opposizione netta con la teodicea del poeta.
Attraverso la canonica base di transizione (vv. 36‑38), prende avvio una
sticomitia che appare certamente unica nella produzione eschilea superstite
e comunque piuttosto rara, caratterizzata dal rigido e costante alternarsi
dei versi 2:1 (due versi assegnati a Kratos e uno ad Efesto) che presenta
sporadici confronti; essa occupa più di quaranta versi (39‑81)28. Da questa

23
In altre versioni del mito gli aguzzini di Prometeo sono altri: Hermes in Luciano,
Dialoghi degli dèi 5, 11; Prometeo 1‑2; Igino, Fab. 144; lo stesso Zeus in Esiodo Th. 520‑21.
Kratos e Bia sono pertanto due figure appositamente create per la scena dal
drammaturgo, che sia Eschilo oppure un poeta successivo. In Esiodo si ritrovano
accoppiati tra i figli di Stige, la cui lealtà verso Zeus è opportunamente sottolineata da
SUSANETTI 2010, 148.
24
Un discorso meticolosamente costruito come puntuale contraltare di quello di
Kratos (GRIFFITH 1983, 85), che contribuisce a polarizzare ancor di più questa coppia
scenicamente dicotomica.
25
Efesto è figlio di Era, che è nipote (perché figlia di sua figlia Rea) di Urano.
Prometeo è qui figlio di Themis, anch’essa figlia di Urano. Di qui il legame di vera e
propria συγγένεια che intercorre tra le due divinità, alla quale fa appello Efesto; si
ricordi inoltre, che Efesto e Prometeo, entrambi associati al fuoco e alle arti e tecniche,
condividevano un culto comune in Atene (cf. S. OC 56 e Paus. 1, 30, 2 cf. GRIFFITH 1983,
85 e SUSANETTI 2010, 149). In ogni caso, al di là del reale legame di parentela, la φιλία
tra dei e la συμπάθεια che lega diversi di essi a Prometeo costituisce un Leitmotiv
basilare di questo dramma.
26
Contribuisce a delineare il rapporto di συμπάθεια di Efesto nei confronti di
Prometeo la seconda persona che impiega il dio del fuoco e la terza che viceversa usa
Kratos (THOMSON 1932, 133; GRIFFITH 1983, 82).
27
GRIFFITH 1983, 81 nota che in realtà il nome viene pronunciato esplicitamente per
la prima volta solo al v. 66.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 177

disposizione delle battute del tutto peculiare deriva l’impressione di una


sostanziale prevaricazione di Kratos su Efesto; questa impressione poteva
essere altresì accresciuta dalla dizione recitativa che, come suggerisce il
contenuto (invettive e aspri rimproveri nelle parole del primo, amara
rassegnazione e risentita accondiscendenza in quelle del secondo), in un
orizzonte naturalistico, doveva essere piuttosto violenta e a voce alta per
Kratos (ve ne è esplicita conferma nel testo al v. 73 ἦ μὴν κελεύσω
κἀπιθωύξω29 γε πρός) e viceversa amareggiata e più sommessa (ma pur
sempre nei limiti dell’udibile sotto i colpi del martello) per il dio del fuoco.
Nel corso del dialogo Prometeo viene incatenato e le operazioni sono
scandite dagli ordini che Kratos impartisce imperiosamente ad Efesto e che
quest’ultimo esegue.
Come si è già detto (vedi supra), una descrizione così puntuale e
minuziosa, un così elevato numero di versi ha destato l’attenzione degli
studiosi e ha portato persino a supporre che ciò potesse compensare una
messa in scena in realtà molto più sommaria e sbrigativa. A mio avviso,
invece, l’elevato numero di versi e l’accurata scansione della scena, anche
da un punto di vista verbale, nascondono la precipua volontà del
tragediografo di indirizzare e dirigere una messa in scena che poteva risul‑
tare particolarmente complessa. Il poeta si appunta, difatti, su
un’operazione decisiva e focale per il dramma, e da un punto di vista
drammaturgico (è di fatto essenziale per costituire l’assetto che la scena
manterrà per tutta la durata dello spettacolo) e dal punto di vista del
significato e dei contenuti. Questi versi hanno dunque, a mio giudizio, un
valore pragmatico: consentono all’attore che aveva il compito di legare
Prometeo alla struttura disposta alla scopo di farlo con la dovuta calma e
con la debita attenzione. Il tragediografo funzionalizza questo brano, che
si configura dunque come una vera e propria didascalia scenica, inserendo
una serie di parole chiave che introducono i temi nodali del dramma e
rendendone protagonisti due personaggi (tre con Bia) che nella loro
opposizione manichea stigmatizzano icasticamente ed efficacemente il
confronto‑scontro di valori su cui la tragedia è imperniata.
L’incatenamento doveva occupare i versi finali della prima parte del
prologo (52‑81). In essi si trovano dense tracce testuali che possono guidare
una plausibile ricostruzione della messa in scena: riferimenti a oggetti che

28
Cf. S. Aj. 791‑802, ma qui nel Prometeo assai più prolungata e con un effetto
dunque di maggiore rigidità.
29
Sulla sfumatura ‘ferina’ del verbo cf. THOMSON 1932, 139; GRIFFITH 1983, 97;
SUSANETTI 2010, 159.
178 Valentina Zanusso

erano presenti concretamente (come suggerisce l’impiego della deissi e di


locuzioni specifiche) e che avevano un profilo acustico molto rilevante, e
verbi significativi (anche e soprattutto acusticamente) che possono rientrare
nel modulo della didascalia scenica.
Nell’ambito della più generale tendenza degli studi degli ultimi decenni
a valorizzare la dimensione performativa, l’attenzione degli studiosi si è
recentemente focalizzata anche sugli oggetti che popolavano la scena
teatrale ateniese o che venivano semplicemente evocati dai diversi
personaggi, nella loro funzione drammaturgica e comunicativa30. Nel
pionieristico volume di COPPOLA‑BARONE‑SALVADORI 2016, la seconda
parte è dedicata ad una schedatura completa del materiale tragico, per ciò
che concerne i drammi integri, curata da Francesco Puccio31. Anche in
questo caso, come avviene in questa stessa sede, lo strumento principe per
ottenere informazioni sugli oggetti è il testo delle tragedie: vengono dunque
presi in considerazione solo i riferimenti testuali espliciti ad oggetti. Il
materiale emerso viene inoltre classificato in base alla presenza più o meno
certa sulla scena, anch’essa per come può essere desunta dal testo, facendo
tesoro dell’indispensabile strumento della deissi: oggetti d’uso, che
venivano con ogni probabilità effettivamente impiegati dagli attori; oggetti
evocati, di cui si parla, ma non presenti in scena; oggetti di scena descritti
con funzione drammaturgica e di cui si ipotizza una presenza scenografica
(per lo più parti della σκηνή). Il Prometeo viene tradizionalmente collocato
tra i drammi eschilei, e trova posto tra le Supplici e l’Agamennone. Nella
sintetica introduzione alla schedatura che fa una concisa e generale
panoramica sul valore degli oggetti scenici nei tre tragici, Puccio afferma
che in Eschilo gli oggetti hanno «una loro forza materiale, un’intrinseca
pragmaticità, dettata dal fatto di essere elementi legati alla guerra (Persiani)
o a personaggi che sono stati in lotta contro gli uomini (Agamennone, Sette
contro Tebe) e contro gli dei (Prometeo)»32. Appare chiaro dunque, che la
tragedia viene considerata parte integrante della produzione eschilea a

30
Il convegno internazionale Gli oggetti sulla scena teatrale ateniese: funzione,
rappresentazione, comunicazione, svoltosi a Padova nei giorni 1 e 2 dicembre 2015, ha
prodotto un volume (COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016) che consente di ripercorrere
la funzione e il valore dell’impiego di oggetti di scena sia in ambito tragico, con
escursioni nel teatro frammentario, sia in ambito comico, attraverso contributi che si
giovano di prospettive diverse spesso integrate tra di loro (iconografia, drammaturgia,
storia). Particolarmente utile ai fini della mia ricerca la schedatura del materiale
relativo alla tragedia, a cura di Francesco Puccio, a cui faccio riferimento.
31
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 305‑391.
32
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 306.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 179

pieno titolo, e giudicata armonica nella composizione del più generale


quadro di funzionalizzazione eschilea degli oggetti di scena; viene difatti
sorprendentemente citata due volte in questa pur breve analisi generale.
Lo studioso assegna un valore fondamentale all’aspetto simbolico degli
oggetti in Eschilo. A tale proposito cita ancora il Prometeo in cui gli oggetti
di scena «evidenziano la separazione tra i destini degli uomini, la loro
volontà di potenza e la loro effettiva possibilità di azione». Come si cercherà
di dimostrare, la funzione simbolica degli oggetti impiegati nel prologo –
che a ben vedere esauriscono in sostanza la quasi totalità degli oggetti di
scena effettivamente impiegati nell’intero dramma –33, è ben evidente: si
tratta di catene e di strumenti atti ad incatenare il protagonista, che
concretano vividamente, e anche acusticamente direi, il tema cardine del
dramma (vd. infra). Tenderei altresì a sottolineare anche la reale funzione
pratica, che doveva essere esplicita nella scena dell’incatenamento: se
l’ipotesi per cui i vv. 52‑81 possono essere letti come un’unica grande
didascalia scenica coglie nel segno, la concreta funzione di questi strumenti
doveva essere rilevante tanto quanto il loro valore simbolico. È nella scelta
dell’autore di questi oggetti del tutto peculiari e fortemente connotati – come
si vedrà –, che si manifesta la felice coniugazione di queste dimensioni:
pratica e simbolica.
Il corredo degli oggetti di scena che dovevano essere concretamente
visibili agli occhi degli spettatori in questa prima sezione è piuttosto ampio
e comprende strumenti immediatamente riconoscibili e diffusi accanto a
oggetti meno comuni e legati ad ambiti specifici, primo tra tutti, come si
vedrà, quello equestre. Ai vv. 3 e ss. Kratos, nell’illustrare gli antefatti,
accenna all’ordine che Zeus ha impartito ad Efesto e che ora il dio sta per
compiere:

Ἥφαιστε, σοὶ δὲ χρὴ μέλειν ἐπιστολὰς


ἅς σοι πατὴρ ἐφεῖτο, τόνδε πρὸς πέτραις
ὑψηλοκρήμνοις τὸν λεωργὸν ὀχμάσαι
ἀδαμαντίνων δεσμῶν ἐν ἀρρήκτοις πέδαις

Efesto, ora è necessario che tu compia i comandi


che ti diede tuo padre: incatenare
questo delinquente ad una rupe vertiginosa,
in ceppi indissolubili di catene d’acciaio.

Si tratta di una azione che viene solo descritta preliminarmente ma che


ci fornisce alcuni indizi preziosi su quanto avverrà attraverso il verbo

33
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321.
180 Valentina Zanusso

(ὀχμάσαι) e quella che sembra un’enfatica perifrasi per indicare la


strumentazione (ἀδαμαντίνων δεσμῶν ἄρρηκτοι πέδαι). Il verbo, innan‑
zitutto, è qui alla sua prima attestazione nota34: rubricato dai lessicografi
per lo più come sinonimo di δέω, συνέχω, χειρόω 35 registra, nell’ambito
della produzione tragica, il maggior numero di occorrenze in Euripide ove
in due loci descrive la precisa azione di trafiggere (Cyc. 48436 e Or. 26537),
mentre in El. 81738 e in Sofocle Ant. 35139 indica propriamente il «domare
un cavallo». Viene così sottilmente introdotto un riferimento metaforico
alla dimensione della caccia e alla doma del cavallo che affiorerà a più
riprese nel corso del prologo e del dramma40. L’elaborata perifrasi con cui
si allude alle catene («ceppi indissolubili di catene d’acciaio») accumula
quattro elementi – due nomi abbastanza comuni per indicare ceppi e catene
(πέδαι e δεσμά) corredati ciascuno da un proprio aggettivo (rispetti‑
vamente ἄρρηκτος e ἀδαμάντινος41) – che producono una espressione
fortemente enfatica. Le radici della iunctura πέδη . . . ἄρρηκτος affondano
in una humus omerica42, ma che la perifrasi (con l’inclusione di δεσμά)
abbia un’allure tradizionale sembra confermato dalla forte analogia con
Sem. 7, 116‑117:

Ζεὺς γὰρ μέγιστον τοῦτ’ ἐποίησεν κακόν,


καὶ δεσμὸν ἀμφέθηκεν ἄρρηκτον πέδην.

Zeus infatti fece questo grande male


e vi pose intorno una catena, un ceppo indissolubile.

In questi primissimi versi, dunque, accanto ad una allusione generale


ad alcuni oggetti di scena (che dovevano essere già ben visibili al pub‑

34
Di nuovo nel Prometeo al v. 618, nelle parole di Io che chiede al protagonista di
rivelarle ὅστις ἐν φάραγγί σ’ ὤχμασεν, con un richiamo netto a questa prima sezione
anche nel sostantivo φάραγξ.
35
Cf. Ael., Dion., Hesych., Phot. Sud.
36
ἄγε, τίς πρῶτος, τίς δ’ ἐπὶ πρώτωι /ταχθεὶς δαλοῦ κώπην ὀχμάσαι.
37
μέθες· μί’ οὖσα τῶν ἐμῶν Ἐρινύων / μέσον μ’ ὀχμάζεις, ὡς βάληις ἐς Τάρταρον.
38
Ἓν τῶν καλῶν κομποῦσι τοῖσι Θεσσαλοῖς / εἶναι τόδ’, ὅστις ταῦρον ἀρταμεῖ
καλῶς / ἵππους τ’ ὀχμάζει.
39
κρατεῖ / δὲ μηχαναῖς ἀγραύλου / θηρὸς ὀρεσσιβάτα, λασιαύχενά θ’ / ἵππον
ὀχμάζεται ἀμφὶ λόφον ζυγῶι οὔρειόν τ’ ἀκμῆτα ταῦρον.
40
Cf. THOMSON 1932, 137; GRIFFITH 1983, 21 e 89; SUSANETTI 2010, 156‑57.
41
Per cui cf. vv. 64 e 148; sul valore di questo aggettivo – «d’acciaio» piutttosto che
«adamantino» – si veda GRIFFITH 1983, 82‑83.
42
Il. 13, 36‑37: ἀμφὶ δὲ ποσσὶ πέδας ἔβαλε χρυσείας / ἀρρήκτους ἀλύτους, come
rilevava BARONE 1915, 60.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 181

blico43) si osserva il ricorso ad una locuzione di stampo pressoché tradi‑


zionale, del tutto confacente alla sede (iniziale e narrativa).
Nella successiva risposta, Efesto (vv. 19‑20) descrive le azioni che
compirà, a ribadire gli ordini che, proprio malgrado, dovrà eseguire; egli,
però utilizza termini molto diversi rispetto all’interlocutore:

ἄκοντά σ’ ἄκων δυσλύτοις χαλκεύμασι


προσπασσαλεύσω τῶιδ’ ἀπανθρώπωι πάγωι,

contro il tuo e il mio volere, con catene di bronzo indissolubili


ti inchioderò a questo promontorio deserto di uomini.

Agli antipodi della battuta di Kratos, in quella di Efesto viene messa in


campo una iunctura inusitata, nella quale il sostantivo (χάλκευμα) è in
buona sostanza un hapax44 in questo peculiare uso al plurale, ed è in coppia
con un aggettivo (δύσλυτος) altrettanto raro in tragedia45 (e più in generale
nella letteratura classica), che conoscerà un amplissimo uso in medicina,
segnatamente nel corpus galenico. Il verbo προσπασσαλεύω46, propria‑
mente «inchiodare a qcs.», «fissare con chiodi a qcs.», denominativo da
πάσσαλος, «chiodo», è un composto di πασσαλεύω, che conta ben due
esempi in questo torno di versi (vv. 56 e 65). Si tratta, a ben vedere, di un
verbo che, nelle due forme (composta e di base) registra il maggior numero
di occorrenze e il solo insieme a θείνω che eccezionalmente si ripete in
bocca a Kratos, che altrimenti si distingue per la specificità e la varietà dei
verbi utilizzati. L’azione espressa da questo verbo appare dunque fonda‑
mentale, centrale nell’economia della scena e, a meno di non ipotizzare una
recita antirealistica, doveva essere con ogni probabilità mimata dagli attori.
L’elemento che doveva risultare determinante nella realizzazione di questa
scena, ausiliario fondamentale di una mimesi che in ogni caso non poteva
essere integrale, era proprio il rumore: l’azione descritta dal verbo implica‑

43
πέδαι e δεσμά ricorrono anche altrove (rispettivamente v. 76 e v. 52) quindi
dovevano essere in scena.
44
vd. LSJ s.v.
45
Se ne rileva l’impiego solo in due drammi euripidei, in maniera figurata: Andr.
121 (εἴ τί σοι δυναίμαν / ἄκος τῶν δυσλύτων πόνων τεμεῖν) riferito ai πόνοι della
protagonista che il coro si augura di poter «sciogliere» e Phoen. 375 (καὶ δυσλύτους
ἔχουσα τὰς διαλλαγάς / τί γὰρ πατήρ μοι πρέσβυς ἐν δόμοισι δρᾶι, / σκότον
δεδορκώς), ove pure concorda con διαλλαγή. Il locus prometeico dunque, rappresenta
il solo impiego proprio dell’aggettivo in tragedia.
46
Si tratta di un verbo che conosce un impiego per lo più in ambito comico: Cratin.
fr. 1, 3; Tim. 2, 2; Ar. Pl. 943; Men. fr. 718, 1.
182 Valentina Zanusso

va un rumore molto forte, una sonorità cadenzata e pervasiva che doveva


riecheggiare a più riprese nel corso della prima scena e che contribuiva a
impressionare il pubblico, distraendolo, forse, dai dettagli meno realistici
della messa in scena.
La presenza concreta di strumentazione atta a condurre le operazioni di
incatenamento nominata sin dai primi versi potrebbe trovare conferma nel
deittico di v. 51 (τοῖσδε): in risposta ad un’affermazione sentenziosa di
Kratos, ἐλεύθερος γὰρ οὔτις ἐστὶ πλὴν Διός, «nessuno è libero se non
Zeus», Efesto, infatti, ammette amaramente

ἔγνωκα τοῖσδε, κοὐδὲν ἀντειπεῖν ἔχω.

ho capito da questi, e non posso opporre nulla.

Il verso, nella lezione del Laurenziano e delle famiglie poziori, così come
stampato da West e da Sommerstein, può essere interpretato appunto come
un riferimento pragmatico alle catene che Efesto sta mettendo a Prometeo:
«lo so da queste [appunto: le catene], e non posso opporre nulla» (così, ad
esempio, Susanetti, che traduce: «Lo so, basta guardare queste catene»). Più
in generale alcuni studiosi sostengono che il τοῖσδε di mezzo47 si riferisca
«not to the chains only, but to the whole of the present circumstances»
(VERDENIUS 1976, 452), e che Efesto «points to the rock, the chains, and his
tools» (GRIFFITH 1983, 93).
Partendo da una lezione della famiglia μ, invece, ἔγνωκα τοῖσδε
τ’οὐδὲν, altri studiosi – tra i quali Murray e Page – pongono una pausa
dopo ἔγνωκα, e interpretano il verso in questo senso: «lo so; non posso
opporre nulla a queste cose»48: va ricordato, tuttavia, come fa West, che la
famiglia μ conosce un momento di particolare sviluppo all’interno dello
scriptorium Tricliniano49; una fase nella quale il testo è stato certamente
sottoposto a interventi dotti miranti, in questo caso, a chiarire un verso di
non facile comprensione. Il nesso ἔγνωκα τοῖσδε, in conclusione, appare
difficilior, e in tal senso potrebbe a buon diritto far riferimento agli strumenti
dell’incatenamento. Per converso, il successivo invito di Kratos:

οὔκουν ἐπείξηι τῶιδε δεσμὰ περιβαλεῖν

Non esitare dunque a gettargli attorno catene

47
Per cui cf. Hom. Il. 5, 182; E. Ion 1344.
48
Singolare il testo stampato da Mazon: ἔγνωκα· τοῖσδε κοὐδὲν …, che, per usare
le parole di THOMSON 1932, 137, «is not Greek».
49
WEST 1992, III.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 183

ove il sostantivo δεσμά appare privo di qualsiasi elemento di deter‑


minazione (ad esempio il deittico o anche l’articolo), potrebbe far pensare
che il τοῖσδε del verso precedente, che non viene in alcun modo
richiamato, non faccia riferimento a questi strumenti di scena. In altre
parole: se ἔγνωκα τοῖσδε si potesse interpretare come un’allusione diretta
agli oggetti di scena che Efesto teneva tra le mani («lo so da queste (sc.
catene)»), ci si aspetterebbe che la successiva battuta di Kratos, in cui le
catene vengono esplicitamente menzionate, richiamasse in qualche modo
il deittico del verso precedente, corredando i δεσμά menzionati di un
elemento connotativo (ad esempio: «Non esitare dunque a gettargli attorno
le tue/queste catene») che invece è assente. Constatata la presenza di
elementi contrastanti e di non univoca interpretazione, appare pertanto
preferibile sospendere il giudizio in questa sede.
Numerosi saranno, nei versi immediatamente successivi, i termini
impiegati per indicare oggetti scenici, tecnicamente ben definiti e connotati,
e altrettanto precisi i verbi. A fronte della successiva intimazione di Kratos
a darsi da fare, Efesto replica (54):

καὶ δὴ πρόχειρα ψάλια50 δέρκεσθαι πάρα

ecco: ho dei barbazzali in mano, li puoi vedere.

La locuzione rende certa la presenza in scena degli ψάλια51: il termine


ha una precipua connotazione nel lessico equestre; si tratta infatti dei
cosiddetti barbazzali o sottogola, parte fondamentale del freno del cavallo
(Xen. hipp. 7, 1; Poll. 1, 148; Ar. Pax 155; E. Herc. 381)52. Ancora dunque un
richiamo alla dimensione della doma di cui si è detto supra. Il vocabolo
conosce anche un uso più esteso nel senso di «giogo», «catena», «vincolo»
(cf. Choe. 962). La potenzialità sonora di questo elemento in ferro, facilmente
deducibile, viene altresì sottolineata dagli stessi autori antichi, in particolare
da Eliano (N.A. 6, 10, 20):

ἵππος δὲ ἄρα ὅταν ἀκούσῃ ψαλίων κρότον καὶ χαλινοῦ κτύπον . . .


φριμάττεται ἐνταῦθα

quando un cavallo sente il rumore dei barbazzali . . . allora diventa


frenetico.

50
ψάλια è lezione del Laurenziano, promossa concordemente a testo da tutti gli
editori a preferenza della varia lectio ψέλια, propriamente «braccialetti», «armille», che
pure qualche edizione datata prova a difendere, cf. BARONE 1915, 67‑68.
51
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321.
52
Cf. ANDERSON 1961, 60‑61; CASCARINO 2007, 83.
184 Valentina Zanusso

Altrettanto rumorosa doveva dunque essere la presenza degli ψάλια


sulla scena del Prometeo e particolarmente significativa, quasi un correlativo
oggettivo della condizione di sottomissione del protagonista. A tal proposito
il suono emesso da questi oggetti in ferro, così vividamente associato anche
nell’immaginario collettivo ad un’operazione di addomesticazione, doveva
risultare assai efficace e rendere la comunicazione immediata, sfruttando
anche il canale acustico.
L’aggettivo impiegato in riferimento a tale oggetto, πρόχειρος, ‑ον, vale
«sotto mano», «a portata di mano» e dunque «accessibile» e «facile» (anche
in senso deteriore)53. Nei testi tragici sono documentate diverse occorrenze
dell’attributo con accezioni sensibilmente differenti54.
A mio avviso, però, nel Prometeo l’aggettivo descrive un gesto scenico
che collima maggiormente con l’uso che ne fa Euripide. Nei drammi euripi‑

53
Vd. Chantraine s.v. χείρ; LSJ s.v.
54
In Eschilo si trova in quest’unico locus; DINDORF (1876, 315, s.v.) glossava: ante
manus positus, paratus; lo studioso, perciò, non sembra pensare ad un Efesto che
afferrasse effettivamente gli ψάλια e li scuotesse con decisione. In Sofocle si registrano
alcune occorrenze riconducibili ad un ventaglio semantico ampio. In El. 1494
l’aggettivo è riferito ad Oreste: nelle sue ultime battute, Egisto cerca provocatoriamente
di dissuadere Oreste dall’omicidio, accusandolo di non essere in realtà pronto
(πρόχειρος) a commetterlo e di cercare per questo protezione nell’oscurità della reggia:
τί δ’ ἐς δόμους ἄγεις με; πῶς, τόδ’ εἰ καλὸν τοὔργον, σκότου δεῖ, κοὐ πρόχειρος εἶ
κτανεῖν; in Phil. 747 il protagonista in preda allo strazio del dolore chiede a
Neottolemo di colpire la punta del piede se ha una spada tra le mani (πρόχειρον): πρὸς
θεῶν, πρόχειρον εἴ τί σοι, τέκνον, πάρα ξίφος χεροῖν, πάταξον εἰς ἄκρον πόδα.
Particolarmente significativo, infine, l’impiego in S. El. 1115‑1116: οἲ ’γὼ τάλαινα,
τοῦτ’ ἐκεῖν’, ἤδη σαφές· πρόχειρον ἄχθος, ὡς ἔοικε, δέρκομαι «Ahimè infelice, è
tutto chiaro ormai; io vedo questo fardello proprio qui davanti alle mie mani / a portata di
mano, a quanto sembra». Si tratta della scena in cui Oreste, nei panni del mercante
focese, annuncia la propria presunta morte e porta con sé le proprie presunte ceneri
in un’urna. Appunto a questo fondamentale oggetto di scena Elettra fa riferimento con
la locuzione metaforica πρόχειρον ἄχθος, abbinata allo stesso verbo visivo che ricorre
nel Prometeo (δέρκεσθαι ). FINGLASS 2007, 442 commenta l’aggettivo riportandone la
definizione di ELLENDT 1872 «quod presens adest, quasi in manus sumendum» che
predilige al senso di «held in the hand» proposto da CAMPBELL 1881. Appare evidente
che in questo specifico contesto πρόχειρον non indica un contatto diretto con l’oggetto,
dal momento che pochi versi dopo Elettra chiede ad Oreste(‑mercante focese) di poter
stringere l’urna tra le mani (vv. 119‑1120: ὦ ξεῖνε, δός νυν πρὸς θεῶν, εἴπερ τόδε /
κέκευθεν αὐτὸν τεῦχος, ἐς χεῖρας λαβεῖν). Che tuttavia possa esservi un’allusione
alla possibilità di toccare materialmente l’urna, che concreta agli occhi della sorella la
morte di Oreste, è ben evidenziato dalla felice traduzione di TONELLI 2013: «Ohimé
infelice! È tutto chiaro, adesso: a quanto sembra, lo vedo, qui, e posso anche toccarlo,
quel fardello doloroso».
Una dimensione dimenticata dell’akoè 185

dei (cf. Her. 726; El. 696; Hel. 156455) πρόχειρος, per lo più riferito ad armi
(τεύχη o ἔγχος), è impiegato nella duplice accezione di «impugnare» e allo
stesso tempo «tenere pronta», «a disposizione» l’arma in questione: si tratta
dunque di oggetti effettivamente afferrati e ‘branditi’ con evidenza
dall’attore. A mio giudizio dunque Efesto, rispondendo con una certa
impazienza agli ordini di Kratos, afferrava gli ψάλια con decisione e li
scuoteva, producendo un fragore ben riconoscibile e sinistro, come si è
detto, nell’immaginario acustico degli spettatori.
Un ulteriore indizio in grado di gettare luce sulla gestualità che
accompagnava questo verso è il καὶ δὴ in incipit qui e al v. 75. DENNISTON
1954, 250‑251 individua una funzione peculiarmente drammatica di questa
iunctura: «it signifies, vividly and dramatically, that something is actually
taking place at the moment»; si tratta dunque di un nesso che imprime
vividezza e che conosce un impiego estensivo nella letteratura greca56. Ap‑
pare del tutto in linea con quanto detto l’impiego in ambito segnatamente
teatrale, come marcatore dell’ingresso di un nuovo personaggio57 e come
risposta affermativa ad un’esigenza imposta dalle circostanze o da un altro
personaggio (per cui vengono riportati ad esempio da Denniston innan‑
zitutto i loci prometeici)58. L’utilizzo di questo nesso accompagna, nella mia
opinione, un gesto mimeticamente pregnante, dunque estremamente
efficace sul piano drammaturgico e comunicativo.
Il successivo ordine di Kratos ai vv. 55‑56 fornisce ulteriori dettagli su
quanto avviene in scena:

βαλών νιν ἀμφὶ χερσὶν ἐγκρατεῖ σθένει


ῥαιστῆρι θεῖνε, πασσάλευε πρὸς πέτραις

Legalo ai polsi, batti con il martello con tutta la forza possibile,


inchiodalo alla roccia.

Accanto al verbo θείνω, «colpire», che è parola poetica estremamente


diffusa, e allo iussivo πασσάλευε πρὸς πέτραις59, un pastiche con le parole
iniziali di Kratos ed Efesto (vv. 4‑5 e 19), colpisce la presenza in scena di un

55
Ove tuttavia compare tra cruces.
56
Denniston precisa che l’impiego più generale ha a che fare con verbi di
percezione, anche visiva ed uditiva: «marking vivid perception by mind, ear or eye»:
cf. e.g. E. Herc. 867; Ar. Thesm. 769.
57
S. Aj. 544; E. Med. 118; Cyc. 488; Suppl. 1114; Ar. Av. 268; Ran. 604, etc.
58
DENNISTON 1954, 252‑253.
59
Per il non comune asindeto cf. GRIFFITH 1983, 94.
186 Valentina Zanusso

ῥαιστήρ60, propriamente «distruttore», da ῥαίω, «fracassare», «distrug‑


gere», ma sin da Omero «martello»61. Callimaco descrive appieno le
potenzialità sonore di questo strumento inserendolo nel caotico frastuono
della fucina dei Ciclopi che atterrisce Artemide e le sue giovanissime
compagne nell’omonimo Inno callimacheo (Hymn. 3, 51‑60):

αἱ νύμφαι δ’ ἔδδεισαν, ὅπως ἴδον αἰνὰ πέλωρα


πρηόσιν Ὀσσαίοισιν ἐοικότα (πᾶσι δ’ ὑπ’ ὀφρύν
φάεα μουνόγληνα σάκει ἴσα τετραβοείῳ
δεινὸν ὑπογλαύσσοντα) καὶ ὁππότε δοῦπον ἄκουσαν
ἄκμονος ἠχήσαντος ἐπὶ μέγα πουλύ τ’ ἄημα
φυσάων αὐτῶν τε βαρὺν στόνον· αὖε γὰρ Αἴτνη,
αὖε δὲ Τρινακρίη Σικανῶν ἕδος, αὖε δὲ γείτων
Ἰταλίη, μεγάλην δὲ βοὴν ἐπὶ Κύρνος ἀΰτει,
εὖθ’ οἵγε ῥαιστῆρας ἀειράμενοι ὑπὲρ ὤμων
ἢ χαλκὸν ζείοντα καμινόθεν ἠὲ σίδηρον
ἀμβολαδὶς τετύποντες ἐπὶ μέγα μυχθίσσειαν.

«Ebbero paura le ninfe, come videro i mostri terribili,


simili alle balze dell’Ossa (a tutti di sotto il ciglio
lume di solitaria pupilla, come scudo di quattro pelli,
sogguardava tremendo), e quando udirono il tonfo
d’incudine echeggiante lontano, e il gran vento
dei mantici e il loro gemito grave: perché urlava l’Etna,
urlava la Trinacria sede dei Sicani, e urlava vicina
l’Italia e rispondeva Cirno con grido possente,
quando quelli, i magli sollevati sulle spalle,
il bronzo bollente dalla fornace o il ferro
a ritmo colpendo fortemente sbuffavano»
(trad. G. B. D’Alessio)

Nei versi successivi, tra gli ordini impartiti da Kratos, che, come si è
detto, imprimono una scansione ben definita e puntuale alla scena, che
ricorda de facto un ἀποτυμπανισμός62, alcuni verbi rivestono una
particolare rilevanza in prospettiva acustica. Innanzitutto ἀράσσω di v. 58;
il significato pressoché univoco è quello di «colpire», in una accezione
prettamente fisica: percuotere, battere, vibrare un colpo63. È un verbo

60
COPPOLA‑BARONE‑SALVADORI 2016, 320‑321.
61
Il. 18, 477; cf. GRIFFITH 1983, 94.
62
Un aspetto rilevato a più riprese dagli studiosi: cf. GRIFFITH 1983, 88 e 96; SAÏD
1985, 49‑50; SUSANETTI 2010, 156.
63
Cf. TLG e LSJ s.vv.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 187

estremamente materico, che in teatro registra numerose occorrenze64,


spesso legate al rituale del lamento (che costituirà un capitolo importante
nel mio lavoro sui rumori)65 e all’azione del battere/bussare alla porta, anche
in contesti comici66 (anch’esso uno dei rumori trasversalmente più diffusi).
Ancora al v. 61 πορπάω – denominativo da πόρπη / πόρπαξ. General‑
mente nel significato di «fibbia», «fermaglio»67, questo sostantivo ha una
declinazione semantica eccezionale proprio in un altro locus teatrale ([E.]
Rhes. 384), in cui indica una cinghia del finimento della testa del cavallo68.
Tradotto variamente dagli studiosi come «fissare» (Griffith), «agganciare»
(di Branco) «inchiodare» (Susanetti), «stringere» (Tonelli), viene rubricato
dai lessicografi come sinonimo di «legare con una fibbia»69. Una azione che
doveva produrre un rumore certo meno fragoroso dell’inchiodamento ma
che possedeva sicure potenzialità da evidenziare, specialmente in una
prospettiva di diversificazione dei rumori prodotti, con un effetto di
maggior realismo.
Ai versi successivi (64‑65), uno dei passaggi che, come si è accennato
supra ha fatto dubitare che Prometeo potesse essere interpretato da un
attore in carne ed ossa:

Κρ. ἀδαμαντίνου νῦν σφηνὸς αὐθάδη γνάθον


στέρνων διαμπὰξ πασσάλευ’ ἐρρωμένως.

Kr. Inchiodagli da parte a parte nello sterno


la mascella crudele di un cuneo d’acciaio.

Su questi versi, che probabilmente rappresentano il vertice di efferatezza


dell’intera scena, Wilamowitz (1914, 114) ha fondato la cosiddetta dummy‑
theory di cui si è detto supra ritenendo che la mimesi di questa azione non

64
Si ricordi che è il verbo impiegato nell’Edipo re (1276) in riferimento all’acce‑
camento del protagonista. In Euripide a formare quasi un nesso formulare con
βάλλων: una iunctura che si ripete nella stessa sede metrica in ben tre drammi della
fase matura: Andr. 1154 (τίς οὐ σίδηρον προσφέρει, τίς οὐ πέτρον, / βάλλων
ἀράσσων; πᾶν δ’ ἀνήλωται δέμας / τὸ καλλίμορφον τραυμάτων ὑπ’ ἀγρίων); Hec.
1175 (ἅπαντ’ ἐρευνῶν τοῖχον, ὡς κυνηγέτης / βάλλων ἀράσσων.): IT 310 (πᾶς ἀνὴρ
εἶχεν πόνον / βάλλων ἀράσσων.).
65
Cf. e.g. A. Pers. 1054; E. Troa. 279; 1235.
66
Cf. e.g. E. Hec. 1044; IT 1308; Ar. Eccl. 977; Herond. 1, 1. Ma vd. soprattutto le
numerose occorrenze in Menandro.
67
Cf. TLG e LSJ s.vv.
68
Un nuova allusione alla metafora di cui supra cf. SUSANETTI 2010, 157.
69
Cf. Ps.Zon. π1539: Πεπορπημένον. συνεχόμενον περόνῃ ἢ πόρπῃ; Phot. π444:
Πορποῦσθαι: φιβλοῦσθαι; Hesych. π1497: πεπορπημένη· τῆι περόνῃ συνεχομένη.
188 Valentina Zanusso

potesse essere sufficientemente realistica se Prometeo fosse stato inter‑


pretato da un essere umano. Se la ‘teoria del manichino’ non trova più
sostegno oggi tra gli studiosi, è perché a partire da Thomson (1932, 138) è
fondamentalmente prevalsa, come si è detto, la convinzione che la mimesi
di questa prima scena fosse sostanzialmente sommaria e simbolica. Tra gli
studi e i commenti che hanno dedicato spazio al realismo di questa scena
e hanno preso posizione in favore o contro di esso, solo Griffith (1983, 31 e
96 cf. n. 2 supra) ha accennato alla possibilità che i suoni e i rumori potessero
rappresentare un efficace stratagemma nella realizzazione scenica.
Un’ipotesi che, alla luce dell’analisi che ho sin qui condotto, potrebbe
trovare ulteriore conferma: se Kratos impartisce ad Efesto un ordine che
non poteva essere effettivamente compiuto, non c’è ragione di credere che
la puntualità della descrizione fosse una compensazione per ciò che il
pubblico non poteva vedere; si potrebbe viceversa immaginare che le
parole di Kratos aiutassero gli spettatori a mettere a fuoco una azione non
compiuta effettivamente, bensì mimata realisticamente anche grazie all’inter‑
vento di semplici effetti acustici.
Su questo specifico segmento si è concentrato Dyson (1994) che ha
individuato uno schema ricorrente e analogo per l’incatenamento di braccia
e gambe (comando di Kratos‑risposta accondiscendente di Efesto‑richiesta
di vincoli ancora più stretti), che subirebbe una modifica per il petto. Qui
l’ordine di conficcare un cuneo d’acciaio nello sterno di Prometeo viene
seguito, dopo le proteste di Efesto, non già dà un ordine di rinforzo come
negli altri casi, bensì da una richiesta di stringere delle cinghie intorno ai
fianchi, molto più blanda rispetto alla precedente. In altri termini, se per
braccia e gambe è possibile individuare uno schema per cui Kratos
impartisce un ordine e, ottenuta l’accondiscendenza di Efesto, richiede un
rinforzo, per il petto si assisterebbe ad un’inversione: ad un ordine
estremamente duro segue una richiesta più banale. Questa presunta deroga
ad uno schema fisso spinge Dyson a postulare una corruttela: lo studioso
crede difatti, che l’ordine relativo al cuneo fosse successivo a quello delle
bende. Per ripristinare la climax che distingue le sequenze contigue, lo
studioso tenta una redistribuzione dei versi: ipotizza (francamente con una
sorta di poco probabile saut du même au même tra la fine del v. 62 e quella
del v. 73) che i versi 72, 73, 71, in questo esatto ordine, si debbano collocare
tra il verso 62 e il verso 63 e che questi versi debbano essere espunti dalla
loro sede originaria (per cui dopo il verso 70 si collocherebbe l’attuale verso
74). Se appare di certo opportuno rilevare la meticolosità della descrizione
e l’accurata ricostruzione della scena in generale, come si è detto, sembra
tuttavia eccessivo definire una rigidità inderogabile e postulare un ordo
versuum nuovo a dispetto del consensus codicum.
Per l’assetto finale, Dyson pensa a bande metalliche semicircolari, una
sorta di morsetti (da cui l’utilizzo del termine «mascella» γνάθον), bloccati
Una dimensione dimenticata dell’akoè 189

da chiodi la cui estremità liscia è abbastanza ampia perché possano essere


chiamati cunei. Il cuneo dunque, secondo l’interpretazione di Dyson, deve
essere messo in relazione con le bande che vengono nominate in
precedenza (come i δεσμά di 52 e gli ψάλια di v. 54): esso dovrebbe fungere
da elemento di rinforzo della banda applicata al petto, seguendo lo schema
analogo individuato per braccia e gambe. Questo schema implica infatti un
primo riferimento a bande esterne (vv. 55, 71, 74) e un successivo verbo di
comando che indica una infissione, un inchiodamento (vv. 61, 64‑65, 76).
Lo studioso crede che per il petto sia stata impiegata una pericope così
esplicita e cruda con finalità patetiche; a mio avviso si può inoltre motivare
una particolare enfasi per questa parte del corpo con la vicinanza al fegato
destinato al celebre supplizio, qui non nominato ma di certo ben presente
nell’immaginario collettivo del pubblico.
Un ultimo oggetto completa la panoplia degli strumenti di scena fin qui
menzionati: al v. 71 Kratos intima ad Efesto:

ἀλλ’ ἀμφὶ πλευραῖς μασχαλιστῆρας βάλε,

Forza, gettagli le cinghie intorno ai fianchi.

Il termine impiegato è μασχαλιστήρ70 «cinghia», tutt’altro che generico


e banale. Esso designa difatti un tipo particolare di cinghia che trovava –
di nuovo – impiego in ambito equestre: si tratta della cinghia legata sotto il
petto del cavallo e connessa al giogo71. Un verbo ancora al v. 74 potrebbe
celare un rumoroso e stridente attrito di matrice ferrosa: κιρκόω,
letteralmente «legare con un cerchio», «circondare» e di qui in generale
«legare», riferito alle gambe, l’ultima parte del corpo del titano che viene
immobilizzata. Il verbo è denominativo da κίρκος, l’«anello» che rientra
nella struttura del tradizionale carro di ascendenza omerica72, l’ennesima
allusione alla dimensione equestre che ha costituito il sottile fil rouge di
questi versi.
In base a questa pur breve, parziale e circoscritta analisi, mi sembra di
poter concludere che la funzionalità e il valore psicagogico delle notazioni
sonore in questi versi siano denunciati apertis verbis e che il testo sia ancora
lo strumento principe che consenta di rintracciarli e valorizzarli. Si tratta

70
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321.
71
cf. Hdt. 1, 215; Hesych. 380, 1. Barone 1915, 69 sottolineava che l’uso del plurale
potesse essere legittimato dal fatto che lo strumento era composto da più parti
d’acciaio; vd. anche GRIFFITH 1983, 97 e SUSANETTI 2010, 156‑157.
72
cf. Il. 24, 272.
190 Valentina Zanusso

di un exemplum da inserire in una prospettiva globale e comparativa.


Proprio la comparazione, io credo, una volta ultimato lo spoglio di tutto il
materiale offertoci dal teatro tragico, potrà fornirci ulteriori utili elementi
di valutazione ed eventualmente di conferma. Resta fermo il principio cui
si ispira e continuerà a ispirarsi la nostra ricerca: la costante aderenza
dell’analisi al dato testuale e alle evidenze della prassi scenica.

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Il fr. adesp. 681 Kn. – Sn.: Meleagro euripideo
o un dramma satiresco?
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco

SONIA FRANCISETTI BROLIN (SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA)

Il presente intervento* concerne un frammento talora attribuito negli


studi al Meleagro di Euripide; si tratta del fr. adesp. 681 Kn. – Sn., tràdito dal
P. Oxy. 2436, édito per la prima volta nel 1959 da Turner1. Mentre il verso
contiene un testo magico, vergato nel II‑III secolo d.C., nel recto è traman‑
data, senza alcuna nota di attribuzione, una monodia con notazione
musicale, databile, da un punto di vista paleografico, al I‑II secolo d.C.
Rimangono porzioni di due colonne, delle quali la prima non è ricostrui‑
bile, poiché restano soltanto le lettere finali di sei linee, precedute da un
vacuum di almeno una riga, mentre della seconda sono conservate le parti
iniziali (circa 26 lettere su 38) di otto righe con un’estensione di circa 10,5‑
11,5 cm, molto inferiore rispetto alla lunghezza delle linee dei papiri
musicali2. Il testo è scritto in una minuscola informale libraria ad asse

* Tante sono le persone a cui sono grata per avermi fornito suggerimenti e indica‑
zioni utili per l’elaborazione di questa nota; in particolare, tale analisi vede la sua
genesi iniziale durante gli anni del dottorato all’Università di Roma “la Sapienza”,
quando, studiando il Meleagro euripideo, la Prof. ssa Anna Maria Belardinelli, mia
tutor, mi ha saggiamente spinto ad approfondire un possibile frammento papiraceo,
per la cui interpretazione mi sono avvalsa della fondamentale consulenza del Prof.
Raffaele Luiselli e della Dott. ssa Daniela Colomo. Dopo una presentazione delle prime
ipotesi a “Semi di Sapienza” 2016, che sono stati una proficua occasione di approfon‑
dimento, lo studio è proseguito, in vista della pubblicazione della tesi, sotto la guida
del Prof. Gian Franco Gianotti, a cui rivolgo uno speciale ringraziamento per il
continuo pungolo, fin dai tempi della laurea, nello spronarmi a proseguire le ricerche.
Ringrazio, inoltre, il Prof. Francesco Carpanelli per avere accettato questo lavoro nel I
Convegno Internazionale sul Dramma Antico The Forgotten Theatre e per averne accolto
la pubblicazione in questo volume.
1
Cf. LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 113‑122.
2
Per tali aspetti, cf. EITREM/AMUNDSEN/WINNINGTON‑INGRAM 1955, 1‑29; GENTILI
1961, 341.
194 Sonia Francisetti Brolin

verticale, abbastanza rispettosa della bilinearità. La scrittura è tonda,


tracciata con un ductus posato, anche se talvolta alcune forme sono corsive.
Si alternano lettere a modulo ampio (μ, ν, π, ω) e a modulo stretto (θ, ο, ε)
con una tendenza a unire i grafemi mediante tratti di congiunzione,
soprattutto in orizzontale, tanto che talora si ha l’impressione di una linea
superiore passante per il rigo. Nel complesso, il manoscritto è accurato, ma
privo di punteggiatura e di divisione colometrica, benché si noti, come in
altri papiri musicali, la presenza di raggruppamenti di parole o di gruppi
di parole. La colonna II non è giustificata, ma la l. 6, seguita poi da due righi
in eisthesis3, è in ekthesis, per mostrare un cambiamento ritmico, accompa‑
gnato anche da un intensificarsi delle note. Tale notazione è stata aggiunta
da una seconda mano più corsiva, che per la l. 5 non procede in modo
perfettamente allineato con il testo. La melodia è abbastanza rispettosa
dell’accento di parola, se si escludono μνημονεύσατ (col. II 5) e μαινάδες
(col. II 8). Tuttavia, la musica4 ritmicamente tratta il testo in modo diverso
da come era stato concepito, poiché, per esempio, la scriptio plena
ηὐτέκνησα ἐγώ (col. II 3) prevede una nota sulla vocale α, metricamente
elidibile. Inoltre, a col. II 7, lo iato λάσσεται· ἤν, con nota musicale, segno
di lunga e punto sopra αι, potrebbe indicare la fine di un periodo metrico,
mentre la sillaba δες è trattata non quale breve, bensì come lunga. Il testo
deve essere, quindi, più antico della melodia, che non fornisce nessuno
spunto utile per l’attribuzione.
Tutte le note, appartenenti alla serie vocale, sono ascrivibili al modo ipo‑
lidio, lidio. Oltre alla notazione melodica, come ben emerge nell’edizione
di Turner, sono presenti tutti i segni ritmici descritti dalla trattatistica antica,
il cui numero aumenta alle ll. 6‑8, dove lo schema metrico diventa più
difficile, in quanto nell’andamento ritmico giambico‑trocaico sono inserite
alcune sequenze cretiche. Nello specifico, possiamo notare nel P. Oxy. 2436
l’impiego di:
1. l’hyphén (per esempio, in col. II 5), una curva posta sotto due o tre note
per marcare un legame stretto;
2. il bikolon (per esempio, in col. II 6), cioè un due punti davanti a un

3
Sull’utilizzo dell’eisthesis nei papiri per evidenziare le ripartizioni strutturali del
dramma, vd. SAVIGNAGO 2008; per il suo impiego nel P. Oxy. 2436, cf., nello specifico,
PÖHLMANN/WEST 2001, 122.
4
Per la musica nella drammaturgia greca, vd. MONRO 1894; WINNINGTON‑INGRAM
1936; SOLOMON 1977; PINTACUDA 1978; COMOTTI 1989; HUYS 1993; ROCCONI 2003;
MURRAY/WILSON 2004. Per un’analisi specifica della melodia del P. Oxy. 2436, cf., oltre
a LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 113‑122, PÖHLMANN 1970, 126‑129;
COMOTTI 1991, 119; WEST 1992, 310‑311; PÖHLMANN/WEST 2001, 120‑124.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 195

gruppo di due o tre note da collegare, il che rende poco perspicua la


differenziazione rispetto all’hyphén;
3. il disema o makrà díchronos (per esempio, in col. II 7), ossia un trattino
sopra il segno melodico, a significare, in riferimento alle sillabe e non
alle note, una lunga in due tempi. Tra l’altro, in col. II 5 il disema è
utilizzato in due casi metricamente escludibili a vicenda, cioè su
sillaba breve e su consonante, il che dimostra ulteriormente come la
melodia non sia coeva al testo;
4. la stigmé (per esempio, in col. II 6), un punto sopra la nota musicale
per contrassegnare i tempi in arsi;
5. il leimma (per esempio, in col. II 6), un Λ, spesso definito come segno
di pausa, ma qui impiegato, al pari che per gli inni di Mesomede, per
l’allungamento della nota stessa, tanto da essere associato al disema
(per esempio, in col. II 8) per una lunga in tre tempi.
Tale melodia è importante per la discussione sull’utilizzo di questo
papiro, poiché è chiaro che il passo non è stato copiato solo per essere letto
o conservato, ma per essere musicato. Si tratta, quindi, di una copia
professionale utilizzata nei concerti vocali e strumentali molto diffusi a
partire dall’età ellenistica, quando virtuosi cantori cominciarono a proporre
pubbliche esecuzioni da repertori classici5.
La mia analisi a questo punto si è concentrata sul testo, al fine di capire
se la monodia tramandata potesse essere inserita nel Meleagro euripideo o
fosse ascrivibile a un altro dramma. Sono così partita dal testo della coll. II
stampato da Turner:

[..]ι̣ ον̣ α̣ . τ̣ α̣ [........]η..η ψαύω δὲ λ̣ [


[.]ν· ὁ δὲ μο[.].[..]ν̣ ι̣ [..]α̣ ις ῎Αρεως ῾Υμησ̣ [σ Πριά‑]
μου μᾶλ̣ λ̣ ο̣ ν ηὐτέ̣κνησ’ ἐγώ σπευσο[
ἀπαλλα[γὴν τ]ῶν κακῶν χορεύσατε· .[
5 καὶ μὴ [..].[.]μ̣ άθητε μνημονεύσατ̣ [ε·
εἴ τις κατὰ στέγα̣ ς π̣ υρσὸς̣ ἔτι λείπεται, πυρί, παῖ[δες
λάσσεται· ἢν, π̣ [α]ῖ̣δες α̣ ἰ̣ πόλων καὶ ν̣έ̣α̣ς ο[
πης ποι[μένε]ς βουκόλοι μαινάδες δ̣ ο̣ [

Ho evidenziato con il grassetto alcuni termini, poiché, come si vedrà


infra si tratta di parole di fondamentale importanza nella discussione sulla

5
Per tali aspetti, vd. GUARDUCCI 1927‑1929; EITREM/AMUNDSEN/WINNINGTON‑
INGRAM 1955; TURNER 1963, 120‑128; TEDESCHI 2011, 12‑14. Cf., inoltre, LATTE 1954,
125, che ha pubblicato un’iscrizione, nella quale si parla di Gaio Elio Themison, un
citaredo che mise in musica per la prima volta drammi di Sofocle ed Euripide, i cui
testi erano riproposti con talentuose rielaborazioni meliche.
196 Sonia Francisetti Brolin

collocazione del frammento. In particolare, per π̣ υρσὸς̣ e ν̣ έ̣ α̣ ς già Turner6


pose in rilievo gli aspetti problematici, commentando per l. 6 «initial letter
of .υρσὸς̣ cannot be identified [...] πυρσὸς is to be preferred to θύρσος in
view of the accent and of πυρί», mentre per l. 7 «at end after και an
alteration, perhaps to ν̣ έ̣ α̣ ς ο[.». Quanto alla provenienza del lacerto, lo
studioso ha prospettato tre ipotesi, pensando a una scena musicale di età
ellenistica‑romana, a un ditirambo del tardo classicismo oppure a un pezzo
lirico preellenistico di un dramma satiresco. Le prime due ricostruzioni
sono state escluse, l’una perché, appunto, il testo è precedente alla musica,
mentre l’altra in quanto nei versi domina un elemento drammatico, in
contrasto con la teoria del ditirambo. Turner propendeva, dunque, per la
terza ipotesi, alla luce del confronto metrico con altri passi corali di drammi
satireschi. In particolare, integrando Πριά‑], l’editore pensava a una
monodia di Sileno, intento a vantarsi della propria prole, maggiore dei figli
di Priamo. Tuttavia, nell’edizione menzionava una lettura proposta da Amy
Marjorie Dale, la quale sosteneva che i versi fossero collocabili nel Meleagro
e, nello specifico, nella monodia di Altea in procinto di vendicarsi. In questa
interpretazione, viene posto in rilievo ηὐτέ̣ κνησ’ a col. II 3, giacché questo
verbo è un conio euripideo, presente proprio nel fr. 520 Kannicht del
Meleagro, ove Meleagro, contrapponendo il proprio ideale femminile al
modello di donna incarnato dalla madre Altea, afferma:

ἡγησάμην οὖν, εἰ παραζεύξειέ τις


χρηστῷ πονηρὸν λέκτρον, οὐκ ἂν εὐτεκνεῖν,
ἐσθλοῖν δ’ ἀπ’ ἀμφοῖν ἐσθλὸν ἂν φῦναι γόνον.

Penso dunque che, se si congiungesse


un letto di poco conto a uno di valore, non si genererebbe una bella prole,
mentre da due nobili entrambi nascerebbe una nobile prole.

Inoltre, a col. II 6 il termine π̣ υρσὸς̣ , con il valore semantico di fiaccola,


si riferirebbe al tizzone fatale, a cui è legata la vita di Meleagro, accostabile
alla fiaccola sognata da Ecuba quando era incinta di Paride, come nella
Fabula 249 di Igino:

(Faces sceleratae) Facem quam sibi visa est parere Hecuba Cissei filia sive Dymantis.
Nauplii ad saxa Capharea, cum naufragium Achivi fecerunt. Helenae quam de
muris ostendit et Troiam prodidit. Althaeae quae Meleagrum occidit.

6
Cf. LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 121.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 197

(Le fiaccole scellerate) La fiaccola che apparve in sogno a Ecuba, figlia di


Cisseo oppure Dimante. I fuochi che Nauplio accese alle rupi Cafaree,
quando gli Achei naufragarono. La fiaccola che Elena fece brillare dalle
mura quando tradì Troia. Il tizzone di Altea, che uccise Meleagro.7

Tra l’altro, questo nome richiama l’aggettivo πυρσός, usato nel fr. 537
Kannicht del Meleagro, ove una divinità ex machina, a conclusione del
dramma, profetizza:

εἰς ἀνδροβρῶτας ἡδονὰς ἀφίξεται


κάρηνα πυρσαῖς γένυσι Μελανίππου σπάσας

Arriverà a piaceri cannibali


lacerando con fauci rosso sangue la testa di Melanippo.

Il senso del frammento papiraceo risulterebbe, dunque, il seguente:

[..]ι̣ ον̣ α̣ . τ̣ α̣ [........]η..η ma tocco λ̣ [


[.]ν· ὁ δὲ μο[.].[..]ν̣ ι̣ [..]α̣ ις di Ares Imetto
io ho avuto più prosperità nella prole di Priamo; affrettarsi
celebrate con la danza la fine dei mali; .[
5 e non [..].[ .]apprendete ricordate;
se in casa rimane ancora, sul fuoco, un tizzone, figli
λάσσεται; ecco, figli di caprai e giovani ο[
πης pastori, bovari, menadi δ̣ ο̣ [.

Così, a col. II 2, se si legge π]αῖς ῎Αρεως, come suggeriva Turner stesso,


si farebbe riferimento proprio a Meleagro; del resto Plutarco (Paralleli
minori, 26A, 312A) afferma che Ἄρης ᾿Αλθαίᾳ συνῆλθε καὶ Μελέαγρον
ποιήσας <…> ὡς Εὐριπίδης ἐν Μελεάγρῳ8. Quanto all’Imetto, situato in
Attica, la menzione di questo monte non creerebbe problemi con
l’ambientazione dell’opera a Calidone, se si pensa al valore proverbiale di
un’espressione come “il miele dell’Imetto”9.
Siffatta interpretazione ha convinto sia Gentili10 sia Lesky11; tra l’altro,
entrambi gli studiosi hanno posto in rilievo la metrica stessa, poiché l’alter‑

7
Trad. di GUIDORIZZI 20052, 144‑145.
8
Ares si unì ad Altea e, dopo aver generato Meleagro, <…> così scrive Euripide nel
Meleagro (trad. di DE LAZZER 2000, 264‑265).
9
Per tale espressione proverbiale, cf., per esempio, A.P. 7, 36, 4; Luc. Vit. Pud. 11.
10
Cf. GENTILI 1961, 341.
11
Cf. LESKY 19642, 244.
198 Sonia Francisetti Brolin

nanza tra giambi e cretici è tipica dell’ultima fase della produzione euri‑
pidea, a cui risale anche il Meleagro12. Dunque, Altea, mentre il tizzone arde
sul fuoco, si rivolgerebbe al coro per denunciare il dolore che sta vivendo
rispetto alla felicità passata. Tuttavia, la problematica interpretativa è
strettamente connessa alle difficoltà di lettura del papiro stesso, sottolineate,
come si è visto supra già nell’editio prior.
Negli studi successivi13 viene sempre accolto il testo di Turner, talvolta
senza l’integrazione Πριά‑] a col. II 2, ma si comincia a rifiutare l’attri‑
buzione al Meleagro, evidenziando la probabile ambientazione in Attica,
proprio alla luce della menzione del monte Imetto, situato nella campagna
intorno ad Atene, ove certo potevano trovarsi caprai, pastori e bovari. A tal
proposito, Borthwick14 ha riportato due frammenti della commedia
archaia15, dove si parla di una fonte di Afrodite sull’Imetto, la cui acqua
aiutava le donne a concepire. In tal senso, il lacerto papiraceo sarebbe
ascrivibile a una monodia di una donna che, superata la sterilità grazie alla
sorgente, si gloria della propria prole, invitando il coro a danzare per lei. Il
π]α̣ ις ῎Αρεως a col. II 2 potrebbe essere identificato con Eros, mentre, per
quel che concerne col. II 6, lo studioso ha rammentato la testimonianza di
Pausania (cf. Periegesi, 7, 23, 5‑6):

Αἰγιεῦσι δὲ Εἰλειθυίας ἱερόν ἐστιν ἀρχαῖον, καὶ ἡ Εἰλείθυια ἐς ἄκρους ἐκ


κεφαλῆς τοὺς πόδας ὑφάσματι κεκάλυπται λεπτῷ […] καὶ ταῖς χερσὶ τῇ
μὲν ἐς εὐθὺ ἐκτέταται, τῇ δὲ ἀνέχει δᾷδα. Εἰλειθυίᾳ δὲ εἰκάσαι τις ἂν
εἶναι δᾷδας, ὅτι γυναιξὶν ἐν ἴσῳ καὶ πῦρ εἰσιν αἱ ὠδῖνες· ἔχοιεν δ’ ἂν
λόγον καὶ ἐπὶ τοιῷδε αἱ δᾷδες, ὅτι Εἰλείθυιά ἐστιν ἡ ἐς φῶς ἄγουσα τοὺς
παῖδας.

A Egio c’è un antico santuario di Ilizia, la cui statua è coperta dalla testa ai
piedi con un drappo finemente lavorato […] Una delle mani è stesa in avanti,
mentre con l’altra tiene una fiaccola. Si potrebbe ipotizzare che Ilizia abbia

12
Per la datazione del dramma, cf. HARTUNG 1843, 140‑153; ZIELIŃSKI 1925, 237‑
239; WEBSTER 1967, 3‑5; CROPP/FICK 1985, 20; 66; 76; 84; JOUAN/VAN LOOY 2000, 405;
COLLARD/CROPP 2008, XXX‑XXXII.
13
Cf. LLOYD‑JONES 1961, 20; BORTHWICK 1963, 225; PÖHLMANN 1970, 126‑129.
14
Cf. BORTHWICK 1963, 226.
15
Cf. Cratin. fr. 110 K.‑A. = Phot. p. 185, 21 = Sud. κ 2672: Κυλλοῦ πήραν· ἡ Πήρα
χωρίον πρὸς τῶι ῾Υμηττῶι, ἐν ᾧ ἱερὸν ᾿Αφροδίτης καὶ κρήνη, ἐξ ἧς αἱ πιοῦσαι
εὐτοκοῦσι καὶ αἱ ἄγονοι γόνιμοι γίνονται. Κρατῖνος δὲ ἐν Μαλθακοῖς Καλλίαν
(Phot. καλιὰν) αὐτήν φησιν, οἱ δὲ Κυλλουπήραν (Phot. κoλλοπηραν); Ar. fr. 283 K.‑
A. = Hesych. κ 4521: κύλλου πήρα. ζητοῦσι διὰ <τί> τὸ πορνεῖον Κύλλου πήραν
᾿Αριστοφάνης εἴρηκεν ἐν Δράμασιν ἢ Κενταύρωι· ‘τὸ δὲ πορνεῖον Κύλλου πήρα’.
ἔστι γὰρ χωρίον ᾿Αθήνησιν ἐπηρεφὲς καὶ κρήνη.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 199

le fiaccole perché per le donne i dolori del parto sono simili al fuoco; le
fiaccole, tuttavia, potrebbero trovare una spiegazione anche nel fatto che
Ilizia è colei che porta alla luce i bambini.16

Tuttavia, Borthwick, pur propendendo per siffatta interpretazione, non


ha collocato la monodia in una determinata opera o in un certo genere;
infatti, ha commentato «a fifth century source for the new monody is by no
means impossible, whether it be satyr play or comedy, and the editors may
be right in their view that it formed part of a collection of classical extracts
to which music was set»17. Inoltre, nella sua ricostruzione le μαινάδες di
col. II 8 pongono un problema interpretativo, poiché la follia orgiastica delle
menadi non è propria di una donna che ringrazia per la prole. Così, lo
studioso ha avanzato tre possibili ipotesi, cioè si tratterebbe di donne
ateniesi o di ninfe di Dioniso che celebrano Dioniso sull’Imetto oppure di
prostitute. Nondimeno, in merito alle prime due ricostruzioni, è bene
rammentare che il culto bacchico ad Atene aveva luogo sul Citerone e non
sull’Imetto, mentre l’identificazione della fonte di Afrodite, di solito
chiamata Kyllupera, con un πορνεῖον si basa solo sul fr. 283 K.‑A. di
Aristofane.
L’articolo di Borthwick apre nuovamente la discussione interpretativa,
ma per il momento vengono lasciate in secondo piano le questioni testuali,
fino all’edizione di Kannicht – Snell18, ove il frammento è proposto così
come è riportato infra con una mia traduzione, al fine di evidenziare, anche
con il grassetto, le diversità rispetto al testo stampato precedentemente:

col. II . .]ι̣ ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ψαύω δὲ λ̣ [


8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις ῎Αρεως ῾Υμησ̣ [σ
μου μᾶλλο̣ ν̣ ηὐτέκνησ’ ἐγώ· σπευσο[
ἀπαλλα[γὴν ἐμ]ῶν κακῶν· χορεύσατε .[
κ̣ α̣ ὶ μὴ . [.].[. .].άθητε μνημονεύσατ[ε
12 εἴ τις κατὰ στέγας θ̣ ύρσος ἔτι λείπεται πυρὶ παι[
λάσσεται· ἤν, π̣ [α]ῖδες α̣ ἰ̣ πόλων καὶ ….σο[
πης ποι[μένε]ς βουκόλοι μαινάδες ⟦δ̣ ο̣ ⟧[

. .]ι̣ ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ma tocco λ̣ [


8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις di Ares Imetto
μου io ho avuto più prosperità nella prole di; affrettarsi
la fine dei miei mali; danzate.[

16
Testo e trad. di MOGGI/OSANNA 2000, 142‑143.
17
Cf. BORTHWICK 1963, 243.
18
Cf. KANNICHT/SNELL 1981, 270‑272.
200 Sonia Francisetti Brolin

e non . [.].[. .].άθητε ricordate


12 se in casa rimane ancora sul fuoco un tirso παι[
λάσσεται; ecco, figli di caprai e ….σο[
πης pastori bovari menadi ⟦δ̣ ο̣ ⟧[.

Per le lettere dopo καὶ al v. 1319 il commento di Kannicht20 non è ben


chiaro, ma al v. 12 lo studioso ha stampato θ̣ ύρσος. In questo modo, il
frammento viene collocato tra gli Adespota (fr. 681) con il titolo ΣΑΤΥΡΟΙ?;
infatti, la menzione diretta del tirso si addice a una monodia di Sileno,
intento a rivolgersi a un coro di satiri danzanti in un clima dionisiaco, ove
trovano un’ottima collocazione le menadi del v. 14.
Eppure, in Pöhlmann – West21, anche se viene rifiutata l’ipotesi della
monodia di Altea, poiché sarebbe difficile collocarvi i caprai, i pastori, i
bovari e le menadi menzionati a col. II 7‑8, il testo è nuovamente stampato
con π̣ υρσὸς̣ a col. II 6, mentre per col. II 7 è ricostruito κι’σ̣ ’..σ̣ ο.
Mi è parso, dunque, di fondamentale importanza cercare di chiarire i
loci di difficile lettura del papiro. Pertanto, ho consultato il Professor
Raffaele Luiselli dell’Università di Roma “la Sapienza”, il quale mi ha fatto
notare, in merito a π̣ υρσὸς/θ̣ ύρσος (col. II 6), la difficoltà nell’inserire un
π, in quanto, se si esclude il grafema iniziale di πυρί in col. II 6, π ha un
modulo troppo ampio per lo stretto spazio prima di υρσος. Siccome
l’immagine fotografica (figura 1) non permette una valutazione precisa
come la visione autoptica, ho scritto al Prof. Peter Parsons dell’Università
di Oxford, ponendo due quesiti relativi alla lettera iniziale di .υρσος a col.
II 6 e a quanto si legge a col. II 7 dopo καὶ. I dubbi paleografici sono stati
risolti dalle gentili indicazioni della Dott. ssa Daniela Colomo, collaboratrice
del Prof. Parsons. La dottoressa ha pulito e restaurato il papiro, di cui ora
l’immagine è molto più nitida (figura 2). Così a col. II 6 si discerne
abbastanza chiaramente la parte inferiore di una lettera tonda, quindi un θ
per θ̣ ύρσος, mentre a col. II 7 è visibile la sequenza κι, derivata da una
correzione currente calamo di ν, uno iota, poi σ aggiunto nell’interlinea sopra
lo iota, di cui è probabilmente una correzione, un altro σ, probabilmente
un altro σ e ο, ossia κι{ι}’σ’σ{σ̣ }ο[.
Propongo, dunque, seguendo per la numerazione l’edizione di Kannicht
– Snell, il seguente testo con relativa traduzione:

19
Si segnala che la numerazione è differente rispetto a Turner, poiché sono
numerate come versi consecutivi le linee della col. I e della col. II.
20
Cf. KANNICHT/SNELL 1981, 272: «Post KAI corr. obscur. : N in KI corr. pot. qu. K
in N (vix ⟦N⟧), sequi vid. ‘Σ’ΣO, i. e. KAINΣOΣ in KAI KI’Σ’ΣOΣ corr.? καὶ ⟦κ⟧νέας
ed. pr. non legitur».
21
Cf. PÖHLMANN/WEST 2001, 120‑124.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 201

col. II . .]ι̣ ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ψαύω δὲ λ̣ [


8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις ῎Αρεως ῾Υμησ̣ [σ
μου μᾶλλο̣ ν̣ ηὐτέκνησ’ ἐγώ· σπευσο[
ἀπαλλα[γὴν ἐμ]ῶν κακῶν· χορεύσατε .[
κ̣ α̣ ὶ μὴ . [.].[. .].άθητε μνημονεύσατ[ε
12 εἴ τις κατὰ στέγας θ̣ύρσος ἔτι λείπεται πυρὶ παι[
λάσσεται· ἤν, π̣ [α]ῖδες α̣ ἰ̣ πόλων καὶ κι{ι}’σ’σ{σ̣}ο[
πης ποι[μένε]ς βουκόλοι μαινάδες ⟦δ̣ ο̣ ⟧[

. .]ι̣ ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ma tocco λ̣ [


8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις di Ares Imetto
μου io ho avuto più prosperità nella prole di affrettarsi
la fine dei miei mali; danzate.[
e non . [.].[. .].άθητε ricordate
12 se nelle stanze rimane ancora sul fuoco un tirso παι[
λάσσεται; ecco, figli di caprai ed edera[
πης pastori bovari menadi ⟦δ̣ ο̣ ⟧[

Certo, la presenza del tirso al v. 12 e poi al v. 13 di un aggettivo come


κισσοειδής, κισσοκόμης, κισσόπλεκτος, κισσοστέφανος o κισσοφόρος,
tutti termini composti sul sostantivo κισσός, cioè l’edera, pianta
tradizionalmente associata a Dioniso, induce a sostenere la provenienza
del frammento da un dramma satiresco. In particolare, nei vv. 10‑11 Sileno
o un personaggio affine si rivolge al coro (χορεύσατε al v. 10) perché, nel
clima orgiastico della prosperità dei sensi, vengano dimenticate le
sofferenze della vita. L’ambientazione del frammento è chiaramente
dionisiaca anche alla luce dei personaggi nominati al v. 14, ossia pastori,
bovari e menadi. Infatti, βούκολος può essere utilizzato nel senso di
«adorador de Dioniso (por su aparición con aspecto de toro)» (vd. DGE s.v.
βούκολος; cf. inoltre LSJ s.v. βούκολος), come si ricava sia dal titolo di una
commedia di Cratino (frr. 17‑22 K.‑A.) sia, per esempio, da E. fr. 203
Kannicht dall’Antiope o da Luc. Salt. 79. Nello specifico, il termine durante
il V secolo a.C. inizia ad assumere un valore sacrale fino a specializzarsi,
con il tempo, quale appellativo tecnico‑cultuale dell’orfismo.22 E soprattutto
le μαινάδες sono le seguaci di Dioniso, dominate dalla mania per il dio.
Dunque, poiché l’ambientazione è dionisiaca, κατὰ στέγας (cf. LSJ s.v.
στέγη) al v. 12 non significa “in casa”, giacché appunto i riti bacchici non
avevano luogo dentro le mura domestiche. L’espressione potrebbe alludere
proprio a un tempio di Dioniso, come mi è stato utilmente suggerito dal

22
Per tali riflessioni, in relazione ai Cretesi e alle Baccanti di Euripide, cf. CASADIO
1990, 279‑289; COZZOLI 1993, 162‑164; COZZOLI 2001, 86‑87.
202 Sonia Francisetti Brolin

Prof. Luca Bettarini durante i seminari di “Semi di Sapienza” 2016. Se


appunto κατὰ στέγας indica un santuario di Dioniso, dove si svolgono i
rituali del dio, forse π̣ [α]ῖδες α̣ ἰ̣ πόλων, ποι[μένε]ς, βουκόλοι e μαινάδες
potrebbe riferirsi al corteo dei seguaci di Bacco. Peraltro, qualora sia corretta
la lettura di Borthwick relativamente a un santuario di Afrodite sull’Imetto,
si potrebbe ipotizzare un culto congiunto di Dioniso e Cipride. Del resto,
già in Anacreonte (fr. 357 Page), per la prima volta, compare l’associazione
di Dioniso con Eros e Afrodite; infatti, Dioniso deve indurre Cleobulo ad
amare il poeta, il che implica un’evoluzione della tradizione letteraria, se si
considera che per un’analoga preghiera Saffo (fr. 1 Voigt) si rivolge soltanto
alla dea dell’amore. Così nel rituale simposiaco descritto da Paniassi (fr. 13
Kinkel) la seconda libagione è in onore di Dioniso e Afrodite, mentre in
Prassilla (fr. 752 Page), che rispecchia forse una tradizione mitologica
sicionia, Dioniso è addirittura figlio di Afrodite.23 Inoltre, se si esaminano
gli Inni Orfici, sempre tenendo conto della datazione tarda dell’opera, nella
sezione centrale della raccolta, l’inno 55 è dedicato ad Afrodite quale
augusta compagna di Bacco, a cui è assimilato, come nell’inno 56, Adonis,
il fanciullo amato dalla dea. E con la divinità dell’amore, secondo la
testimonianza di Pausania (cf. Periegesi, 7, 25, 9), Dioniso era venerato in
Acaia nel tempio di Bura24, che potrebbe essere proprio affine al santuario
ipotizzato sull’Imetto, dedicato a rituali sincretici per i due numi.

23
Per questi aspetti, cf. PRIVITERA 1970, 113‑120.
24
Riguardo a siffatto tempio, cf. PIRENNE‑DELFORGE 1994, 247.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 203

Figura 1. P. Oxy. 2436 (prima della pulitura)


(Courtesy of the Egypt Exploration Society and Imaging Papyri Project, Oxford)
204 Sonia Francisetti Brolin

Figura 2. P. Oxy. 2436 (dopo la pulitura)


(Courtesy of the Egypt Exploration Society and Imaging Papyri Project, Oxford)
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 205

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206 Sonia Francisetti Brolin

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Da Ossirinco a Parigi: i Segugi di Sofocle nel
melodramma La naissance de la lyre di Albert Roussel

SIMONE BETA (UNIVERSITÀ DI SIENA)

Se da parecchi anni ormai spopola nelle librerie il genere letterario


dell’instant book (il libro ispirato a un recente fatto di cronaca che viene
scritto in genere da un personaggio famoso soprattutto per le sue frequenti
comparse in televisione), nei secoli passati non godeva di grande successo
quella che potremmo scherzosamente chiamare instant opera (il melo‑
dramma composto su una trama che non proveniva da una storia antica
ma da un evento più o meno contemporaneo).
La Traviata di Giuseppe Verdi, composta nel 1853, un anno esatto dopo
che Alexandre Dumas figlio aveva scritto la versione teatrale del suo
romanzo autobiografico La signora delle camelie, è senz’altro la più famosa
tra questo genere di opere. Ma si tratta di un esempio più unico che raro,
perché, quando si trattava di scegliere l’argomento per un libretto, i mu‑
sicisti dell’Ottocento preferivano in genere soggetti più antichi, ambientati
nel Rinascimento, nel Medioevo, nell’età classica o nel mondo senza tempo
del mito.
Ed è proprio nella dimensione sostanzialmente atemporale del mito che
si colloca il lavoro oggetto di questo intervento – lavoro che, per le curiose
modalità della sua nascita, può essere a tutti gli effetti considerato una sorta
di instant opera.
Fino al 1912, degli Ichneutai di Sofocle, il dramma satiresco il cui titolo
viene solitamente tradotto con I Segugi o I cercatori di tracce, si sapeva
pochissimo. Non soltanto tutto quel che ci era rimasto erano solo tre
minuscoli frammenti, ma se Giulio Polluce, nel citarne uno, non avesse
aggiunto al titolo l’aggettivo ‘satiresco’, avremmo probabilmente pensato
che si trattasse di una tragedia. A partire da quell’anno, tuttavia, le cose
cambiarono radicalmente.
Il merito di questo cambiamento spetta ai papirologi Arthur S. Grenfell
e Bernard P. Hunt, che nel 1912 pubblicarono nel nono fascicolo dei Papiri
di Ossirinco un lungo frammento papiraceo scritto nel II secolo d.C. che
conteneva i primi 458 versi del dramma satiresco (un frammento che i due
studiosi inglesi avevano sottratto alle sabbie dell’Egitto nel 1907)1.

1
Cf. HUNT 1912. Altri frustuli estremamente frammentari provenienti dal mede‑
simo papiro furono pubblicati in seguito da HUNT 1927.
208 Simone Beta

La pubblicazione del frammento (alla quale collaborò tra gli altri anche
Wilamowitz) suscitò, come era lecito aspettarsi, un notevole dibattito
critico; i nuovi versi vennero subito inseriti dal Pearson nella sua edizione
dei frammenti sofoclei pubblicata cinque anni dopo2.
Anche per quel che riguarda le scene teatrali, i registi di mezza Europa
non si lasciarono sfuggire l’occasione di mettere in scena un dramma antico
ancora inedito: i più veloci furono i tedeschi, perché i Segugi andarono in
scena a Halle, una città della Bassa Sassonia, l’anno immediatamente
successivo alla prima pubblicazione, vale a dire il 21 giugno 1913; poi
vennero i cechi, che li misero in scena nel 1921 a Praga insieme alla Medea
di Euripide; poi gli italiani, che nel 1927 fecero rappresentare I satiri alla
caccia nella traduzione di Ettore Romagnoli (datata 1925) a Siracusa3. Il sito
dell’APGRD (Archive of Production of Greek and Roman Drama), curato
dall’Università di Oxford, consente di farsi un quadro dettagliato di tutte
le rappresentazioni successive del dramma, compresi spettacoli estrema‑
mente interessanti come la commedia del drammaturgo inglese Toni
Harrison intitolata The trackers of Oxyrhynchus, rappresentata per la prima
volta allo stadio di Delfi nel 1988, dove i protagonisti sono proprio i due
papirologi Grenfell e Hunt4.
Ma prima della messinscena siracusana (che vide in una sera l’altro
dramma satiresco, il Ciclope di Euripide, rappresentato dopo la Medea, e
nella sera successiva I satiri alla caccia preceduti dalle Nuvole di Aristofane),
bisogna segnalare uno spettacolo diverso da tutti quelli che ho appena
ricordato – perché si tratta, per l’appunto, di un instant opera, dal momento
che si basa su un testo teatrale molto antico per quel che riguarda la sua
‘nascita’, ma molto recente per quel che concerne la sua ‘rinascita’.
Il primo luglio 1925 venne rappresentata per la prima volta a Parigi, sotto
la direzione di Philippe Gaubert, un’opera (per la precisione, un conte
lyrique) che racconta l’invenzione della lira da parte del piccolo Hermes: La
naissance de la lyre. L’autore del libretto, il celebre grecista Théodore Reinach,
non si basò soltanto sul quarto inno omerico a Hermes che racconta la
stessa storia, ma anche sulla recente scoperta dei due papirologi inglesi.
Chi erano i due autori che, unendo i loro diversi talenti, diedero vita a
questo lavoro così singolare? Dei due, Reinach – che nel 1925 aveva già

2
Cf. PEARSON 1917. I frammenti sono stati pubblicati in seguito anche da STEFFEN
1952, RADT 1977 e KRUMEICH/PECHSTEIN/SEIDENSTICKER 1999. Per un’edizione del
dramma satiresco, cf. MALTESE 1982.
3
Sui ‘segugi’ di Romagnoli cf. TREU 2006.
4
Sulla fortuna scenica dei Segugi a partire dal ritrovamento dei due papirologi
inglesi cf. BETA 2017. Sul lavoro di Harrison, cf. anche MARSHALL 2012.
Da Ossirinco a Parigi 209

sessantacinque anni – era sicuramente il più conosciuto: dottore di ricerca


in giurisprudenza e in lettere, dopo un periodo di apprendistato come
archeologo a Costantinopoli aveva insegnato per parecchi anni alla
Sorbona, all’École des Hautes Etudes e al Collège de France un numero
impressionante di discipline, dalla storia antica alla storia delle religioni,
dall’epigrafia alla numismatica5. Appassionato di musica antica (nel 1926
pubblicò presso l’editore parigino Payot il libro La musique grecque), Reinach
mantenne sempre ottimi rapporti con i principali musicisti del suo tempo:
quando era più giovane, dopo aver trascritto il testo di un antico inno ad
Apollo ritrovato a Delfi e provvisto di notazioni musicali, l’aveva dato a
Gabriel Fauré perché lo mettesse in musica – cosa che Fauré aveva fatto nel
1894, scrivendo l’Hymne à Apollon per canto, arpa, flauto e due clarinetti
(op. 63 bis).
Oltre al libretto sofocleo, per un altro compositore francese meno cono‑
sciuto che si chiamava Maurice Emmanuel, anch’egli appassionato di
musica antica (si era laureato alla Sorbona scrivendo due dissertazioni
sull’educazione dei danzatori greci e sulle tecniche coreutiche della danza
greca), Reinach scrisse il libretto di un’opera derivata dai Persiani di Eschilo:
la Salamine, composta dall’Emmanuel in due fasi distinte (1921‑1923 e 1927‑
1928), venne rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1929, quando
Reinach era scomparso da un anno6.
Reinach fu anche uno dei primi traduttori del papiro appena scoperto:
nell’agosto del 1912 pubblicò nella Revue de Paris una prima traduzione
francese (in prosa) col titolo Les traqueurs7. Fu proprio lui a ricevere nel 1920
da Jacques Rouché, il direttore dell’Opera di Parigi, l’incarico di scrivere
un libretto.
Poco noto esattamente come Emmanuel era anche, almeno in quegli
anni, Albert Roussel, un compositore francese nato nel 1869 vicino a Lille,
destinato a diventare famoso soltanto a partire dagli anni Trenta grazie al

5
Su Reinach, cf. la recente biografia di STEVE 2014.
6
Su Maurice Emmanuel, cf. CORBIER 2011; i titoli delle due dissertazioni sono
Education du danseur grecque e Orchestique grecque. Per la Salamine, Emmanuel fu
insignito della Legion d’Onore. Gli altri suoi lavori basati su testi classici sono le 3
Odelettes anacreontiques per voce, flauto e pianoforte (op. 13), composte nel 1911; il
Prométhée enchaîné, una tragédie lyrique d’après Eschyle (op. 16), composto tra il 1916 e il
1918; l’Amphitryon, una comédie musicale d’après Plaute (op.28) composta nel 1936, due
anni prima della sua morte.
7
REINACH 1912. Il 21 giugno di quello stesso anno Reinach aveva presentato il
dramma in una conferenza all’Académie des Inscriptions et Belles‑Lettres, che fu
pubblicata, sotto il titolo Les Satyres Limiers, in una rivista di politica e letteratura (la
Revue Bleue).
210 Simone Beta

successo del balletto Bacchus et Ariane, rappresentato a Parigi nel 1931 con
le scene di Giorgio De Chirico.
Personaggio decisamente singolare (era stato ufficiale di marina, ma
aveva abbandonato la carriera militare a 25 anni per dedicarsi completa‑
mente alla musica), tra il 1922 e il 1923 Roussel mise in musica il libretto di
Reinach8.
Ma qual è la struttura del libretto di Reinach? I protagonisti sono quattro:
Apollon è un tenore, Hermès un soprano, Silène un baritono, mentre la
ninfa Cyllène ha solo un ruolo parlato9. I cori erano due, uno di satiri e uno
di ninfe.
Nel primo dei tre quadri, ambientato in una lande fleurie, dopo un
preludio musicale arriva Apollo, scendendo da una nuvola di fuoco, alla
ricerca delle sue vacche, disposto a ricompensare con oro e pietre preziose
chi lo aiuterà a ritrovare la sua mandria, misteriosamente scomparsa.
Questa scena, così come anche quelle immediatamente successive, si
rifanno al dramma satiresco di Sofocle.
Gli si fa incontro Sileno, che si dichiara dispiaciuto per quel che è
successo. Se fosse ancora giovane, il bestiame lo cercherebbe lui; ma, dal
momento che ormai è vecchio, propone al dio di chiedere aiuto ai suoi figli,
a patto che essi in cambio ricevano, oltre all’oro, anche la libertà. Dopo che
Apollo ha accettato, arrivano i satiri, che si mettono subito alla ricerca del
bestiame, seguendo i consigli di Sileno10.
Giunti davanti a una grotta, i satiri sentono improvvisamente il suono
della lira uscire dalla caverna. Mentre si domandano chi mai produca
questo suono misterioso, la ninfa Cillene, madre di Ermes, esce dalla grotta.
Poiché i satiri vogliono entrare nella grotta, Cillene chiama in suo aiuto le
ninfe. La lotta tra i satiri e le ninfe viene interrotta da Apollo, che chiede a
Cillene di spiegare ai presenti l’origine di quel suono meraviglioso.

8
Su Albert Roussel, cf. TOP 2000 e 2016. Oltre al Bacchus et Ariane, che è uno dei
suoi lavori più famosi, le altre composizioni di Roussel basate su opere classiche sono
il balletto Aeneas (op. 54), composto nel 1935, e l’opera incompiuta Elpénor, ou la Flûte
de Circé (op. 59), datata 1937 (l’anno della sua morte, avvenuta a Royan, sulle coste
atlantiche dell’Aquitania). Come Emmanuel, anche Roussel mise in musica alcune
poesie attribuite ad Anacreonte: nel 1926 compose le Odes anacréontiques (op. 31‑32),
su testi tradotti da Charles Leconte de Lisle.
9
I cantanti furono Edmond Rambaud (Apollo), Marcelle Denya (Hermes) e Henri
Fabert (Sileno); il ruolo parlato della ninfa fu interpretato da Jeanne Delvair, una
celebre attrice francese che fu anche una stella del cinema.
10
I nomi dei satiri (Drachis, Grapis, Krokias) provengono dal papiro e riflettono,
in alcune scelte testuali, le integrazioni proposte dai primi editori.
Da Ossirinco a Parigi 211

A questo punto si passa, senza soluzione di continuità, al secondo


quadro, nel quale Reinach comincia a seguire la trama dell’inno omerico.
Cillene ordina alle ninfe di aprire la grotta dove, nella sua culla, appare il
piccolo Ermes, con in mano la lira. Il suono dello strumento commuove
non solo i satiri e le ninfe, ma anche Apollo, che prende lo strumento, lo
accorda e comincia a suonarlo a sua volta, cantando quella che è l’unica
vera aria dell’opera:

O siringa di Pan, o canne rustiche,


soffiate dal pastore solitario,
la voce di questo strumento vi condanna al silenzio:
se parlate voi, deve tacere lui.
O lira, che hai dentro di te i trilli degli uccelli,
il suono profondo degli animali,
il mormorio del vento che accarezza i roseti,
il tumulto delle tempeste!11.

Poi, montato su un carro guidato da due cigni bianchi, invita Ermes a


salire con lui sull’Olimpo. Dopo aver salutato, su un tema musicale che
riprende il preludio dell’opera, la grotta e Cillene, Ermes è ormai sul punto
di seguire il fratello quando – con un nuovo cambio di scena, che segna
l’inizio del terzo quadro, dove ritroviamo l’ambientazione agreste del
primo – Sileno li blocca, chiedendo ad Apollo la ricompensa pattuita. Il dio
dona al vecchio un tripode d’oro e l’opera si conclude con un canto corale
dei satiri e delle ninfe, i quali, dopo aver ballato al suono della lira,
celebrano la potenza di Apollo. Mentre il cielo si fa scuro, compare in alto
la costellazione della Lira.
L’opera – diciamolo subito – non fu un successo. A venire criticato fu
soprattutto il libretto: il giornalista Henry Malherbe, che nel 1917 aveva
vinto il premio Goncourt con il romanzo La flamme au poing, lo definì un
«divertissement d’archéologue pâle et froid».
La Grecia evocata dal filologo classico era in effetti il riflesso di una
concezione molto tradizionale: una Grecia idilliaca, arcadica, pastorale,
molto diversa da quella che, con personaggi che pure erano molti simili,
aveva abitato qualche anno prima i palcoscenici francesi. Mi riferisco al
primitivismo selvaggio del ‘fauno’ (la divinità romana dai piedi e dalle

11
«Ô Syringe de Pan, ô rustiques pipeaux, qu’enfle le pâtre solitaire, dès qu’il
chante, sa voix vous condamne au repos. Si vous parlez, il doit se taire. Lyre, toi qui
contiens les trilles des oiseaux, la basse profonde des bêtes, le murmure du vent
caressant les roseaux, et le tumulte des tempêtes!».
212 Simone Beta

corna di capra che corrisponde grosso modo al satiro greco) di Stéphane


Mallarmé e Claude Debussy che, nel poema sinfonico Prélude à l’après‑
midi d’un faune, aveva debuttato esattamente trent’anni prima a Parigi,
aprendo la strada verso altri spettacoli innovativi che sono rimasti nella
storia del teatro musicale, come per esempio Le sacre du printemps, il bal‑
letto di Igor Stravinskij messo in scena al Théâtre des Champs‑Élysées nel
1913 dai Balletti russi di Sergej Diagilev per la coreografia di Vaslav
Nijinskij12.
Fu proprio la sorella di quest’ultimo, Bronislava Nijinska, a ricevere da
Jacques Rouché l’incarico di scrivere le coreografie del conte lyrique di
Reinach e Roussel – con esiti non del tutto convincenti, perché i movimenti
concepiti dalla Nijinska furono considerati troppo arditi da chi, aderendo
alle concezioni letterarie e musicali neoclassiche dei due autori, avrebbe
voluto una gestualità più trattenuta, e troppo rigidi da chi, al contrario,
avrebbe preferito una coreografia più moderna, sulla falsariga dei balletti
ai quali aveva lavorato il ben più celebre fratello13.
La raggelata freddezza è peraltro uno degli aspetti più evidenti del
libretto di Reinach, che in questo senso costituisce il perfetto pendant del
lavoro (non necessariamente letterario) per il quale il nome del filologo è
ancora oggi famoso: mi riferisco a Villa Kérylos, la spettacolare costruzione
neoclassica che egli fece costruire tra il 1902 e il 1908 dall’architetto
Emmanuel Pontremoli sulla Costa Azzurra, a Beaulieu‑sur‑Mer, vicino al
promontorio di Cap Ferrat – una villa, oggi monumento nazionale, che
cerca di riprodurre, tanto nella struttura esterna quando nelle decorazioni
interne, una costruzione greca del secondo o del primo secolo a.C.14.
È molto probabile che l’opera di Reinach e Roussel non abbia soddisfatto
pienamente le aspettative di Rouché. Tra tutti gli spettacoli ispirati al
mondo classico che egli fece rappresentare all’Opéra Garnier a partire dal
primo dopoguerra (ricordiamo l’Hélène di Camille Saint‑Saëns e la Pénélope

12
Sulla presenza dei ‘satiri’ sulla scena musicale francese, cfr. Corbier 2008: l’anno
prima del debutto del Sacre, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1912, al tea‑
tro dello Châtelet erano andati in scena prima un balletto tratto dal Prelude di
Debussy (proprio con la coreografia di Nijinskij) e poi il balletto di Maurice Ravel
Daphnis et Chloé, ispirato al romanzo greco di Longo Sofista, dove lo stesso Nijinskij
aveva ricoperto il ruolo di Dafni.
13
Grazie a CORBIER 2008, 345, sappiamo che, come coreografo, Roussel avrebbe
preferito Léo Staats, decisamente più classico della Nijinska, con il quale aveva già
collaborato nel 1912 al tempo della prima rappresentazione del suo balletto Le festin
de l’araignée. Per chi fosse interessato alle sfumature musicali del lavoro di Roussel, il
saggio di Corbier è fondamentale.
14
Sulla villa, cf. ARNOLD 2003.
Da Ossirinco a Parigi 213

di Gabriel Fauré, che avevano debuttato a Montecarlo ma che Rouché aveva


voluto fossero messe in scena a Parigi rispettivamente nel 1919 e nel 1923),
La naissance de la lyre non fu di certo quello che suscitò l’eco più profonda.
Ma, nonostante l’opera sia caduta nell’oblio (la recente riscoperta della
produzione di un autore eclittico come Roussel non ha toccato la Naissance,
della quale non esiste al momento ancora alcuna registrazione), essa è pur
sempre non solo la preziosa testimonianza del gusto di un’epoca, ma anche
la dimostrazione che tutto quello che è strettamente legato al mondo antico,
come per esempio un papiro scoperto per caso tra le sabbie dell’Egitto, può
trovare nuova vita – e nuove forme di vita – anche ai nostri giorni.

Bibliografia

ARNOLD 2003 = A. Arnold, Villa Kerylos. Das Wohnhaus als Antikenrekonstruktion,


München 2003.
BETA 2017 = S. Beta, The trackers, in R. Lauriola and K. N. Demetriou (edd.), Brill’s
Companion to the Reception of Sophocles, Leiden/Boston 2017, 561‑572.
CORBIER 2008 = C. Corbier, La Naissance de la Lyre d’Albert Roussel et Théodore
Reinach: des satyres à l’Opéra, in J.‑C. Branger et V. Giroud (edd.), Figures de
l’Antiquité dans l’opéra français: des Troyens de Berlioz à Oedipe d’Enesco. Actes
du Colloque du IXème Festival Massenet (Saint‑Étienne, 9 et 10 novembre
2007), Saint‑Étienne 2008, 311‑346.
CORBIER 2011 = C. Corbier, Poésie, musique et danse: Maurice Emmanuel et l’hellénisme,
Paris 2011.
HUNT 1912 = A.S. Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, vol. IX, 90 ss., London 1912.
HUNT 1927 = A.S. Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, vol. XVII, 72 ss., London 1927.
KRUMEICH/PECHSTEIN/SEIDENSTICKER 1999 = R. Krumeich, N. Pechstein, B.
Seidensticker (edd.), Das griechische Satyrspiel, Darmstadt 1999.
MALTESE 1982 = E.V. Maltese, Sofocle. Ichneutae, Firenze 1982.
MARSHALL 2012 = H. R. Marshall, Tony Harrison’s The Trackers of Oxyrhynchus,
in K. Ormand (ed.) A Companion to Sophocles, London 2012, 557‑571.
PEARSON 1917 = A.C. Pearson, The Fragments of Sophocles, Cambridge 1917.
RADT 1977 = S. Radt, Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. IV, Göttingen 1977.
REINACH 1912 = T. Reinach, Un drame inédit de Sophocle, “Revue de Paris” 19 (1912),
449‑467.
STEFFEN 1952 = V. Steffen, Satyrorum Graecorum Fragmenta, Poznan 1952.
STEVE 2014 = M. Steve, Théodore Reinach, Nice 2014.
TOP 2000 = D. Top, Albert Roussel (1869‑1937): un marin musicien, Paris 2000.
TOP 2016 = D. Top, Albert Roussel, Paris 2016.
TREU 2006 = M. Treu, Satira futurista e satiri siciliani, “QS” 63 (2006), 345‑370.
Il silenzio e la voce di Iole:
dalla scena antica al teatro contemporaneo

LUCIA DEGIOVANNI (UNIVERSITÀ DI BERGAMO)

Iole fa il suo ingresso nella letteratura teatrale con le Trachinie di Sofocle,


dove, pur facendo da motore alla vicenda drammatizzata, è un κωϕὸν
πρόσωπον. Figlia di Eurito, re di Ecalia, dopo che Ercole ne ha espugnato
la città e sterminato la famiglia, è divenuta sua schiava e concubina. Giunge
a Trachis, la città dove risiede la famiglia di Ercole, come parte del corteo
di prigioniere di Ecalia, scortato da Lica, ed entra in scena nel I episodio
delle Trachinie. Iole attira l’attenzione di Deianira1, che, provando pietà per
lei più che per ogni altra (τῶνδε πλεῖστον ᾤκτισα, 312), e intuendone
dall’aspetto la nobile origine (γενναία δέ τις, 309), l’apostrofa direttamente,
chiedendole chi ella sia (307). Poiché la fanciulla rimane in silenzio,
Deianira domanda a Lica se ne conosca l’identità (310‑312). La risposta
negativa dell’araldo induce Deianira a interrogare di nuovo Iole (320‑321);
ma Lica interviene dicendo che la prigioniera, da quando ha lasciato la sua
città, non ha mai proferito parola (οὐδαμὰ / προὔφηνεν οὔτε μείζον’ οὔτ’

Il presente studio è stato svolto nell’ambito del progetto di ricerca SIR 2014 «A
commentary on the Hercules Oetaeus, a tragedy attributed to Seneca, with introduction,
critical text, and an appendix on the history of its reception»; PI: Lucia Degiovanni,
Università degli Studi di Bergamo.
1
L’incontro tra le due donne sembra essere un’innovazione di Sofocle; nella breve
rievocazione di Bacchilide (Ditirambo 16 MAEHLER = 2 IRIGOIN), cronologicamente
vicina al dramma (la datazione relativa è discussa: con MARCH 1989, 62‑66 e MAEHLER
2004, 166‑167 propenderei per l’anteriorità sofoclea), è detto soltanto che Deianira
venne a sapere che Eracle stava per inviare Iole a casa come sua sposa: Ἰόλαν ὅτι
λευκώλενον / Διὸς υἱὸς ἀταρβομάχας ἄλοχον λιπαρὸ[ν] / ποτὶ δόμον πέμ[π]οι, 27‑
29 («il figlio di Zeus, impavido combattente, inviava nella ricca dimora, come sua
sposa, Iole dal candido braccio», trad. GIUSEPPETTI 2015); al v. 29, a πέμποι è preferibile
attribuire il significato di ‘inviare’, come in S. Trach. 366: Καί νιν, ὡς ὁρᾷς, ἥκει δόμους
/ ὡς τούσδε πέμπων οὐκ ἀϕροντίστως, γύναι, / οὐδ’ ὥστε δούλην, 365‑367 («Ed ecco
che, sulla strada del ritorno, manda la fanciulla, come vedi, in questa casa, non senza
una precisa intenzione, o donna, e non certo come schiava», trad. PATTONI 1990). Al
riguardo cf. BECK 1953, 12 ss.
216 Lucia Degiovanni

ἐλάσσονα, 323‑324) e non fa che piangere (αἰὲν … δακρυρροεῖ, 325‑326),


oppressa dal peso del dolore (ὠδίνουσα συμφορᾶς βάρος).
Le modalità registiche di questa scena sono oggetto di divergenze
interpretative: è discusso, in particolare, il modo in cui Iole si differenzi
dalle altre prigioniere, tanto da infondere particolare curiosità e compas‑
sione in Deianira (ἐπεί νιν τῶνδε πλεῖστον ᾤκτισα / βλέπουσ’, ὅσῳπερ
καὶ ϕρονεῖν οἶδεν μόνη, 312‑313). Due sono state le principali linee di
lettura. Secondo la prima, rispetto alle altre prigioniere che s’abbandonano
a gesti di disperazione o quantomeno esibiscono sconforto, Iole si
distinguerebbe per un portamento sostenuto e impassibile in cui Deianira
vede un segno di compostezza: quest’interpretazione presuppone che al v.
313 φρονεῖν abbia il significato di σωφρονεῖν, in riferimento alla capacità
di autocontrollo di chi sa vincere le proprie reazioni emotive. Leggono in
questo modo la scena, tra i vari, Kamerbeek e Longo2, che di conseguenza
ritengono false le parole di Lica ai vv. 323 ss. circa il pianto ininterrotto di
Iole. Inoltre, per coerenza interpretativa, al v. 326 Kamerbeek al presente
δακρυρροεῖ preferisce l’imperfetto (senza aumento) δακρυρρόει,
«piangeva sempre»3; diversamente si sarebbe costretti a considerare
δακρυρροεῖ come un praesens historicum oppure, secondo Longo, come un
«presente retorico»4, ovvero, in sostanza, a ignorarne il valore letterale di
indicazione scenica.
Secondo l’ipotesi contraria, avanzata da Jebb5 e fatta propria da Kapso‑
menos, Mastronarde e Davies, che rimandano alla scena di Cassandra
nell’Agamennone di Eschilo6, Iole esibirebbe maggiore dolore o coinvol‑
gimento emotivo rispetto alle altre prigioniere, relativamente apatiche, o
comunque meno coinvolte di lei nelle manifestazioni di cordoglio. In
questo caso il φρονεῖν οἶδεν μόνη del v. 313 indicherebbe che lei sola
sembra avere la consapevolezza dell’infelicità del suo destino7, e
δακρυρροεῖ al v. 326, al tempo presente, descriverebbe una reale situazione
scenica, una nota di regia interna al testo.

2
KAMERBEEK 1959, 89: «we must imagine the other captives lamenting without
restraint in contrast to Iole’s self‑control»; LONGO 1968, 134: «il ϕρονεῖν οἶδεν …
implica il sapersi vincere, dominare».
3
KAMERBEEK 1959, 91.
4
LONGO 1968, 139.
5
JEBB 1892, 51.
6
KAPSOMENOS 1963, 76 e n. 3; MASTRONARDE 1979, 76‑77; DAVIES 1991, 115, n. ai vv.
307 ss.; sul confronto tra il silenzio della Iole sofoclea e l’atteggiamento della Cassandra
eschilea in Ag. 1035‑1071 cf. anche CRISCUOLO 2016, 151‑153.
7
Jebb traduce «she alone shows a due feeling for her plight», e commenta:
Il silenzio e la voce di Iole 217

La soluzione drammaturgica che vorrebbe Iole inspiegabilmente immota


e impettita in mezzo a un gruppo di prigioniere affrante – in una sorta di
anacronistica apatheia stoica – mi sembra che non riceva alcun appoggio dal
testo, e renda anzi meno efficace la scena. Anzitutto cancella il parallelismo
tra Iole e Deianira giovane, che emerge in più punti del dramma. Nel
prologo, rievocando la propria angoscia di fronte alla prospettiva delle
nozze con l’Acheloo, Deianira ricordava come fosse colpita da un dolore
tremendo, quale mai nessun’altra donna d’Etolia: νυμφείων ὄκνον /
ἄλγιστον ἔσχον, εἴ τις Αἰτωλὶς γυνή, 7‑8 (all’intenso coinvolgimento
emotivo di Deianira, tale da suscitare pietà, accennava anche il Coro nel I
stasimo, 527‑528, nella sua narrazione della lotta tra Eracle e Acheloo). E ai
vv. 463‑465 Deianira dirà a Lica, retrospettivamente, di aver provato per
Iole la più grande pietà perché la sua bellezza le ha distrutto la vita (ἐπεί
σφ’ ἐγὼ / ᾤκτιρα δὴ μάλιστα προσβλέψασ’, ὅτι / τὸ κάλλος αὐτῆς τὸν
βίον διώλεσεν): Deianira vede dunque in Iole una vittima della propria
avvenenza, così come aveva detto di se stessa ai vv. 24‑25: «ero colpita dalla
paura che la mia bellezza finisse per portarmi sventura» (ἐγὼ γὰρ ἥμην
ἐκπεπληγμένη φόβῳ / μή μοι τὸ κάλλος ἄλγος ἐξεύροι ποτέ). D’altra
parte, l’espressione φρονεῖν οἶδεν μόνη, se intesa nel senso «lei sola mostra
piena coscienza della sua sorte», si arricchisce di un’ironia tragica
tipicamente sofoclea: non si tratta solo della consapevolezza di un destino
di schiavitù in luogo della precedente condizione libera e nobile, come
crede Deianira, ma della consapevolezza di essere la causa della distruzione
della città e della morte dei suoi, unita alla vergogna e all’imbarazzo di
trovarsi di fronte alla moglie di Eracle.
Appare dunque più aderente ai suggerimenti che provengono dal testo
la rappresentazione di una Iole che – in una qualche forma – esprima
mestizia, probabilmente con il capo chino in segno di pudore, o velato in
segno di sofferenza, oppure con una maschera che esibisca un’espressione
sofferta, tale comunque da comunicare a Deianira l’impressione di un
intimo e consapevole turbamento8.
È interessante che questa stessa modalità di presentazione di una
prigioniera di stirpe regale compaia anche in un passo delle Historiae
Alexandri Magni di Curzio Rufo (6, 2, 5‑9), a proposito di un gruppo di
prigioniere persiane costrette ad allietare con i loro canti i banchetti di

«φρονεῖν here denotes that fine intelligence which is formed by gentle breeding, and
which contributes to delicate propriety of behaviour».
8
Circa l’associazione tra dolore e consapevolezza si veda quanto Deianira dice al
Coro ai vv. 141‑152.
218 Lucia Degiovanni

Alessandro e della sua corte. Tra queste Alessandro ne scorge una più
mesta delle altre (maestiorem quam ceteras) e molto bella (excellens erat forma);
il pudore le conferiva un senso di nobiltà (formam pudor honestabat): infatti
la donna, tenendo gli occhi abbassati al suolo (deiectis in terram oculis) e
avendo il volto, per quanto possibile, velato (quantum licebat, ore velato),
suscitò nel sovrano il sospetto che fosse troppo nobile (suspicionem praebuit
regi nobiliorem esse) perché la si dovesse esporre tra le attrazioni di un
banchetto. Interrogata sulla sua origine, la prigioniera confermò i sospetti
di Alessandro, il quale, «rispettando la sorte di colei che discendeva da una
stirpe regale» (fortunam regia stirpe genitae … reveritus), ordinò di rimetterla
in libertà.
Sia o no questa la chiave di lettura corretta della scena sofoclea relativa
a Iole, è così che anche l’Autore dell’Hercules Oetaeus interpretava il
personaggio della captiva. E probabilmente così doveva leggere la scena
sofoclea Ovidio nella IX Eroide, l’epistola di Deianira a Ercole, anche se poi
egli opta per l’operazione di consapevole e sistematico rovesciamento
dell’ipotesto sofocleo: agli occhi di una Deianira gelosissima uxor, qui
presentata fin dall’inizio come perfettamente consapevole dell’identità
della rivale e tutt’altro che simpatetica, Iole non ha l’aspetto che ci si
attenderebbe da una prigioniera: «non viene con i capelli incolti alla
maniera delle prigioniere, confessando nel volto la sua condizione» (nec
venit incultis captarum more capillis, / fortunam vultu fassa tacente suam, 125‑
126)9; al contrario, «avanza in ampio spazio splendida per il molto oro»
(ingreditur late lato spectabilis auro, 127), e «mostra il volto alla folla, superba
come se Ercole fosse stato vinto» (dat vultum populo sublimis ut Hercule victo,
129): «penseresti che Ecalia stia ancora in piedi e che suo padre sia
ancora vivo» (Oechaliam vivo stare parente putes, 130), osserva indispettita
Deianira.
Quanto all’Hercules Oetaeus, la novità principale è che nella prima
sezione lirica si dà voce al lamento di Iole con una monodia in anapesti
(173‑224), che fa seguito al coro cantato dalle prigioniere di Ecalia. Iole
dunque si distacca dal corteo di schiave e, nell’incipit della monodia,
dichiara l’unicità del proprio dolore (nullum querimur commune malum, 177),
che è superiore a quello delle altre prigioniere in quanto ella ha perduto
famiglia, patria e rango regale, ed è lei stessa – cioè la sua bellezza, che ha
acceso il desiderio di Ercole – la causa di tutto (219‑223). Nel dar voce al

9
Al v. 126 il tràdito (ametrico) tacendo è probabilmente da emendare in tacente,
secondo la proposta di Melissus: Ovidio farebbe dunque allusione al silenzio della Iole
sofoclea (cf. DELVIGO 1990 e CASALI 1995, 174‑175).
Il silenzio e la voce di Iole 219

personaggio di Iole – che, come personaggio ‘parlante’, mancava di un


precedente letterario preciso10 – l’A. ricorre a vari topoi tratti da effusioni
trenodiche sia di eroine sia di Cori tragici, presenti in Seneca e già tutti
ampiamente documentati nel dramma attico: complessivamente, il ritratto
di Iole torna nel solco della tradizionale rappresentazione della prigioniera
di guerra, in linea con i celebri personaggi delle tragedie, greche e latine,
di argomento troiano11.
Queste fonti classiche (Sofocle, Ovidio e l’Hercules Oetaeus) a loro volta
offrono molteplici spunti tematici e drammaturgici alle riscritture teatrali
della morte di Ercole che vanno dal Seicento all’inizio del Novecento, in un
inesauribile gioco di riprese, contaminazioni, innovazioni, che lasciano
tuttavia intravedere alcune linee di sviluppo comuni.
In primo luogo, un elemento presente nella maggior parte delle
riscritture è il fatto che Ercole intende veramente ripudiare Deianira per
fare di Iole la sua legittima moglie. Questa eventualità non è mai
contemplata dalla Deianira sofoclea, che, come espressamente dichiara ai
vv. 550‑551, teme semmai di rimanere moglie solo nominalmente12. È invece
la Deianira dell’Eroide ovidiana a ventilare l’ipotesi del proprio ripudio e
del matrimonio di Ercole con Iole13; questo stesso timore è alla base della
violenta reazione della Deianira dell’Hercules Oetaeus, che nell’Atto II
pianifica addirittura di uccidere Ercole e/o la rivale Iole nel giorno del loro
matrimonio, su modello della Medea di Seneca14. Il ripudio, da semplice
timore di Deianira (peraltro probabilmente infondato, almeno secondo
l’opinione della Nutrice dell’Oetaeus)15, nelle riscritture moderne diviene

10
In Ov. Met. 9, 278 ss. Iole compare in dialogo con Alcmena in una situazione
diversa, dopo l’apoteosi di Ercole e il matrimonio con Illo.
11
Non mi soffermo, in questa sede, su tale aspetto e mi limito a rimandare a
DEGIOVANNI 2017, 95‑100.
12
S. Trach. 550‑551 ταῦτ’ οὖν ϕοβοῦμαι μὴ πόσις μὲν ‘Ηρακλῆς / ἐμὸς καλῆται,
τῆς νεωτέρας δ’ ἀνήρ («e temo che Eracle sarà il mio sposo soltanto di nome, in realtà
l’uomo di lei, della più giovane»); cf. anche 539‑540 καὶ νῦν δύ’ οὖσαι μίμνομεν μιᾶς
ὑπὸ / χλαίνης ὑπαγκάλισμα («ora siamo in due sotto una coltre sola ad attendere
l’amplesso»).
13
Ov. Her. 9, 131‑134 forsitan et pulsa Aetolide Deianira / nomine deposito paelicis uxor
erit, / Eurytidosque Ioles atque Aonii Alcidae / turpia famosus corpora iunget Hymen («forse
anche, una volta cacciata l’Etolide Deianira, deporrà il nome di concubina e sarà
moglie, e un vergognoso imeneo unirà i corpi impudichi di Iole, figlia di Eurito, e
dell’Aonio Alcide», trad. ROSATI 1989).
14
DEGIOVANNI 2017, 76‑77; 103‑105.
15
[Sen.] Herc. O. 351‑357; 379; 407; 409.
220 Lucia Degiovanni

un dato oggettivo. Si dà così una più solida giustificazione alle veementi


esternazioni di gelosia di Deianira, ispirate all’Oetaeus, che vengono per lo
più sviluppate sia in una scena in cui ella si confida con un personaggio
subalterno (corrispondente alla Nutrice dell’Oetaeus), sia in un confronto
diretto con Ercole, in una tipologia di scena innovativa rispetto alle
drammaturgie antiche, nelle quali Deianira ed Ercole non si incontravano
mai sulla scena. I modelli classici per queste soluzioni drammatiche sono
– talora in modo evidente – gli agoni verbali tra Medea e Giasone nelle
Medee di Euripide e Seneca.
In alcune opere16 il matrimonio di Ercole e Iole ha luogo nel corso
dell’azione scenica, ed è per questa occasione festiva (e non per il sacrificio
a Giove Ceneo, come nella tradizione classica) che Ercole indossa la veste
affatturata inviata in dono da Deianira. È quanto si verifica anche
nell’Hercule di J.F. Juvenon de La Tuillerie (rappresentato a Parigi nel 1681),
che contamina il modello di base dell’Hercules Oetaeus con la Medea di
Euripide. Vi compaiono infatti due scene dialogiche Deianira‑Ercole: nella
prima (Atto II, sc. 3)17 Deianira, trattata con freddezza da Ercole che, già
dedito ai preparativi per le nozze con Iole, tenta di allontanarla, reagisce
con veemenza, proferendo minacce contro il marito traditore e la rivale
(l’autore riprende qui alcuni temi svolti nella scena della gelosia di Deianira
nell’Atto II dell’Oetaeus). Nel secondo incontro18, invece, l’atteggiamento di
Deianira è del tutto mutato. La donna medita ormai di riconquistare il
marito con il presunto filtro magico di Nesso e desidera premurarsi che
Ercole accetti in dono da lei la veste affatturata e che la indossi nell’immi‑
nente cerimonia delle nozze con Iole. A questo scopo, Deianira si finge
rassegnata al suo destino, al punto da offrirsi di rimanere a vivere, in
condizione di sottomissione, presso la coppia novella, tentando di com‑
piacere la nuova sposa di Ercole. L’atteggiamento di Deianira corrisponde
a quello della Medea euripidea nel suo secondo dialogo con Giasone, nel
IV episodio; lo scopo della finta sottomissione è il medesimo: far sì che il
dono della veste affatturata venga accettato dal destinatario senza sospetto.
La Deianira francese, nella propria finzione, giunge addirittura a far propria
la proposta che il Giasone euripideo aveva avanzato nel II episodio: vivere
tutti insieme in armonia, la prima e la seconda moglie nella medesima
casa19.

16
Mi riferisco ad es. ai drammi lirici di BUTI 1662 (musica di F. Cavalli), CAMPISTRON
1705 (musica di L. Lully e M. Marais), GALLET/SAINT‑SAËNS 1910 (musica di C. Saint‑
Saëns) e alla tragicommedia di RICCOBONI 1718.
17
LA TUILLERIE 1682, 15‑19.
18
LA TUILLERIE 1682, 29‑31.
Il silenzio e la voce di Iole 221

Un secondo aspetto che accomuna la maggior parte delle riscritture


moderne è che Iole respinge le avances di Ercole e non si concede a lui.
Questo dato è assolutamente innovativo rispetto alla tradizione mitica
antica, nella quale Iole, una volta divenuta preda di guerra, è la concubina
di Ercole (nell’Hercules Oetaeus è addirittura già incinta)20, e, in quanto
schiava, è inimmaginabile che possa respingere il padrone. Trasposta in
contesto moderno, la situazione di Iole muta: la fanciulla è sì prigioniera
di guerra, privata della propria libertà, ma rimane pur sempre una
principessa e rispecchia il proprio status anche nel comportamento,
costantemente improntato a grande dignità, fermezza e coraggio. La
determinazione di Iole nel respingere Ercole (che pure, come si è detto, le
offre un regolare matrimonio, non una condizione di concubinato) è dovuta
al fatto che le ripugna unirsi all’uomo che le ha sterminato la famiglia, ma
a questo si aggiunge spesso un’altra motivazione: Iole è innamorata
(ricambiata) di un altro, che in alcuni drammi è Illo21 (l’uomo che, secondo
la tradizione mitica, è destinata a sposare), in altri Filottete22, oppure un
personaggio inventato ex novo (come l’Arcas di Rotrou)23. Questa scelta è
anzitutto motivata da ragioni moralistiche: in questo modo, infatti, non
consumando alcun rapporto adulterino con Ercole, Iole può giungere
illibata al matrimonio che costituisce il ‘lieto fine’ della vicenda. D’altro
canto, questa soluzione drammaturgica consente anche di sviluppare
ampiamente il tema amoroso, diversificando le tipologie di ‘pene d’amore’
che i vari personaggi soffrono. (a) Ercole è un innamorato respinto,
rappresentato come il tradizionale amante elegiaco che spasima per una
donna irraggiungibile. (b) Deianira è la moglie tradita: ama ancora il marito
e deve soffrire l’umiliazione di essere messa da parte per una donna più
giovane; le sue esternazioni variano dal lamento elegiaco della donna
abbandonata alle truci meditazioni di efferate vendette contro il marito
fedifrago e la rivale. (c) Iole e Illo (o chi per esso) sono la coppia di giovani
innamorati il cui sentimento è contrastato da fattori esterni, ma che alla fine
riescono a coronare il loro amore con il matrimonio. Nel caso in cui

19
E. Med. 559‑565.
20
[Sen.] Herc. O. 1492‑1496; S. Trach. 1225‑1227.
21
Vd. ad es. i drammi per musica di BUTI 1662, FRIGIMELICA ROBERTI 1696 (musica
di C.F. Pollarolo), MARMONTEL 1761 (musica di A. Dauvergne), SCHMIDT 1819
(musica di S. Mercadante) e le tragedie di BENEDETTI 1822 (opera postuma) e di
SCHMIDT 1835.
22
Così ad es. in LA TUILLERIE 1682, CAMPISTRON 1705, COMELLA 1796, GALLET/
SAINT‑SAËNS 1910.
23
ROTROU 1636.
222 Lucia Degiovanni

l’innamorato di Iole sia Illo, si aggiunge il tema della rivalità padre‑figlio


per il possesso della donna, tema che nel teatro antico è tipico della
commedia; trasposto in un contesto tragico, costituisce la base per l’innesto
di un ulteriore nucleo drammatico: il dilemma di Illo tra passione amorosa
e obbedienza filiale. Ed è solo la morte di Ercole che, rimuovendo
concretamente l’ostacolo, consente la risoluzione del nodo tragico. Si ha
dunque nel finale una doppia lysis: la morte di Ercole con successiva
apoteosi (che può essere rappresentata sulla scena oppure evocata a parole)
e il matrimonio dei due giovani.
Tra queste sottotrame amorose è naturalmente quella riguardante il
protagonista a ricevere maggiore spazio. Assumono di conseguenza
rilevanza le scene di corteggiamento di Ercole nei confronti di Iole, con un
profondo mutamento della caratterizzazione dei due personaggi rispetto
alle fonti antiche. Per quanto riguarda Ercole, giunge a compimento la sua
trasformazione da eroe epico‑tragico a personaggio elegiaco, un percorso
iniziato in età ellenistica e completato dalla poesia latina. Il modello
dominante è costituito dalla IX Eroide di Ovidio. Degno di nota è che sono
ora messi in bocca allo stesso Ercole quei motivi che erano enunciati dalla
Deianira ovidiana come recriminazioni contro l’infedele consorte. Mentre
nei drammi antichi Ercole non fa mai parola del suo amore per Iole
(menziona la sua relazione con la prigioniera solo in punto di morte, nel
dare a Illo la disposizione di sposarla), e sono gli altri personaggi che
parlano della sua profonda passione per la principessa di Ecalia, in molti
drammi moderni è invece Ercole stesso a dichiarare il proprio amore
incoercibile per Iole. Emblematico, sotto questo aspetto, è il monologo
d’entrata dell’eroe nel dramma lirico Ercole amante, musicato da F. Cavalli
su libretto di F. Buti, rappresentato a Parigi nel 1662 (sin dal titolo risulta
evidente l’enfasi attribuita al tema amoroso). L’avvio della vicenda
drammatica, come nell’Hercules Oetaeus, è affidato a un assolo di Ercole, ma
il suo contenuto è del tutto mutato: non più un’orgogliosa rivendicazione
dei propri meriti come giustificazione della richiesta dell’apoteosi, ma un
lamento di innamorato respinto (Atto I, sc. 1):

ERCOLE
Come si beffa Amor del poter mio!
A me cui cede il mondo
farà contrasto una donzella? (oh dio!)
Come si beffa Amor del poter mio!
Dunque chi tanti mostri
vide esangui trofei di sua fortezza
scempio sarà di femminil fierezza,
e trafitto cadrà da un van desio?
Come si beffa Amor del poter mio!
Il silenzio e la voce di Iole 223

Ercole fa proprio il rimprovero che gli veniva rivolto dalla Deianira


ovidiana: lui, vincitore in tante imprese, è ora vinto dall’amore per Iole (Ov.
Her. 9, 1‑12):

Gratulor Oechaliam titulis accedere nostris;


victorem victae succubuisse queror.
Fama Pelasgiadas subito pervenit in urbes
decolor et factis infitianda tuis,
quem numquam Iuno seriesque inmensa laborum 5
fregerit, huic Iolen inposuisse iugum.
[…]
Plus tibi quam Iuno, nocuit Venus: illa premendo 11
sustulit, haec humili sub pede colla tenet.

Mi compiaccio che Ecalia si aggiunga ai nostri titoli di gloria; ma che il vin‑


citore abbia ceduto alla vinta, lo deploro. È giunta all’improvviso, alle città
pelasge, una notizia sconveniente e che le tue azioni dovrebbero smentire:
che colui che mai Giunone e l’infinita serie di fatiche hanno spezzato, lo ha
soggiogato Iole. […] Più di Giunone a te ha nociuto Venere; quella op‑
primendoti ti ha innalzato, questa tiene il tuo collo sotto il suo piede che
umilia.24

E la ‘vittoria’ di Iole su Ercole è resa ancora più evidente, nei drammi


moderni, dal fatto che, quando l’eroe tenta di sedurla, la prigioniera lo
respinge con fierezza. Un esempio rappresentativo del modo con cui
vengono resi il rapporto Ercole‑Iole e la caratterizzazione dei personaggi è
la scena del corteggiamento di Iole da parte di Ercole nell’Hercule mourant
di Jean de Rotrou, una tragedia rappresentata a Parigi nel 1634 che riscosse
un notevole e duraturo successo, tanto da costituire a sua volta un modello
per le successive riscritture drammatiche del mito25.
A livello di impianto generale, l’opera di Rotrou segue piuttosto da
vicino l’Hercules Oetaeus, con numerose ed estese riprese letterali26. Per
quanto riguarda la rappresentazione di Iole, il drammaturgo francese si è
chiaramente ispirato alla monodia della prigioniera in Herc. O. 173‑224.
Nella terza scena del primo Atto la fanciulla attende al lavoro della
tessitura, mansione servile che il personaggio dell’Oetaeus immaginava

24
Trad. it di ROSATI 1989.
25
ROTROU 1636; il testo è citato secondo l'edizione di MONCOND’HUY 1999.
26
Cf. in part. MOREL 1964; WATTS 1971, xi ss.; MONCOND’HUY 1999, 26 ss.; ROSSI
2001.
224 Lucia Degiovanni

come propria occupazione presso la padrona Deianira27. Nel rievocare


l’uccisione del padre Eurito da parte di Ercole evidenzia, con insistita
anafora del verbo «vidi», il fatto che questa è avvenuta sotto i suoi stessi
occhi28; all’Oetaeus risale inoltre il motivo della sepoltura del padre, da
Rotrou unito al tema del rimpianto di Iole di non essere morta insieme ai
familiari29, così come l’imprecazione alla propria bellezza, causa di rovina
per sé, per la famiglia e per la patria30.
Se per il lamento di Iole Rotrou ha attinto all’Oetaeus, per quanto
riguarda l’atteggiamento con cui ella risponde alle avances di Ercole si è
invece ispirato alla scena dell’Hercules furens di Seneca in cui l’usurpatore
Lico tenta di convincere Megara, la prima moglie di Ercole, a sposarlo. Le
situazioni di Iole e di Megara sono in effetti parzialmente sovrapponibili:
sia Lico sia Ercole ambiscono a unirsi a una donna di cui hanno conquistato
la patria con le armi e di cui hanno ucciso il padre e i fratelli. Megara e Iole
aborrono dunque quest’uomo, causa della rovina della loro famiglia, e non
sono affatto tentate dalla prospettiva di migliorare, attraverso il matrimonio
con lui, la propria condizione di prigioniere di guerra: Lica offre a Megara
di condividere il potere regale da lui usurpato (Sen. Herc. f. 369‑370), Ercole
offre a Iole la prospettiva di diventare «nuora di un dio» (Rotrou, Hercule
mourant 184: fille d’un Dieu). Agisce inoltre a rafforzare la determinazione
delle due donne il fatto che entrambe sono sentimentalmente legate a un

27
[Sen.] Herc. O. 218‑8b iam iam dominae captiva colus / fusosque legam («ben presto
io, prigioniera, raccoglierò le conocchie e i fusi di una padrona»).
28
Rotrou Hercule mourant 163‑166 «J’ai vu cruel, j’ai vu ce cher corps que je plains /
Tomber dessous l’effort de vos barbares mains; / Je l’ai vu sous vos coups étendu sur
la terre, / Finir ses tristes jours et cette injuste guerre»; [Sen.] Herc. O. 207‑209 Vidi, vidi
miseranda mei / fata parentis, / cum letifero stipite pulsus / tota iacuit sparsus in aula («Ho
visto, ho visto la sorte miserevole di mio padre, quando, colpito dalla clava mortale,
giacque a pezzi sparso per tutta la reggia»).
29
Rotrou Hercule mourant 167‑168 «Heureuse si nos corps, n’eussent eu qu’un
cercueil, / Si nous n’eussions tous deux causé qu’un même deuil»; [Sen.] Herc. O. 210‑
211 pro, si tumulum fata dedissent, / quotiens, genitor, quaerendus eras! («ahimè, se il fato
ti avesse concesso una sepoltura, quante volte, padre, avremmo dovuto cercarti!»);
215‑216 Quid vestra queror fata, parentes, / quos in tutum mors aequa tulit? («Ma perché
lamento il vostro destino, parenti miei, che una morte arrivata al momento giusto ha
messo al sicuro?»).
30
Rotrou Hercule mourant 177‑180 «Ô cruelle beauté! trompeuse! image vaine! / Que
le Ciel m’a vendue au prix de tant de peine; / Quelle misère encor me dois‑tu procurer?
/ Et combien de malheurs ai‑je encor à pleurer»; [Sen.] Herc. O. 219‑221 Pro saeve decor
formaque mortem / paritura mihi, / tibi cuncta domus concidit uni («O crudele bellezza e
aspetto destinato a procurarmi la morte, per te sola è caduta l’intera mia casa»).
Il silenzio e la voce di Iole 225

altro uomo: Megara spera ancora che Ercole faccia ritorno dall’impresa
negli Inferi, mentre la Iole del dramma francese è innamorata di Arcas, un
personaggio inventato dallo stesso Rotrou. Alle analogie di situazione
drammatica si uniscono puntuali echi testuali. (a) A un tentativo di
approccio dell’uomo (Lico chiede a Megara di stringergli la mano, Ercole
chiede a Iole almeno di guardarlo), la donna risponde, inorridita, di non
poter ammettere alcun contatto con l’uomo che le ha ucciso il padre:
Rotrou, Hercule mourant 159‑162 «[HE.] Cruelle? Hercule ici réclame ton
pouvoir, / Et tes yeux inhumains dédaignent de le voir; / Qu’un regard
seulement. [IO.] Ô requête sévère! / De quel œil puis‑je voir le meurtrier de
mon père?»; Sen. Herc.f. 369‑373 [LY.] Particeps regno veni; / sociemur animis;
pignus hoc fidei cape: / continge dextram. Quid truci vultu siles? / [ME.] Egone
ut parentis sanguine aspersam manum / fratrumque gemina caede contingam31?
(b) Iole, come Megara, mostra di avere un carattere indomito e coraggioso
e di non lasciarsi intimidire dalle conseguenze che può patire a causa del
suo rifiuto; afferma che nemmeno se messa in catene cederà: Rotrou Hercule
mourant 189‑192 «Troublez ces yeux d’effroi, chargez ces mains de chaînes,
/ Et que chaque moment renouvelle mes peines; / Après un siècle entier,
d’ennuis et de prison, / Ordonnez‑moi le fer, la flamme et le poison»; Sen.
Herc. f. 419‑421 Gravent catenae corpus et longa fame / mors protrahatur lenta:
non vincet fidem / vis ulla nostram; moriar, Alcide, tua32. (c) A fronte
dell’incalzante pressione di Ercole, Iole risponde che non può essere
costretta a unirsi a lui, perché le resta sempre aperta una via di libertà, data
dalla morte: Rotrou Hercule mourant 213‑220 «[IO.] Le plus fier ennemi
quelque ardeur qui l’enflamme, / Dompte malaisément ce qui dépend de
l’âme; / Un tyrannique empire, et d’injustes efforts / Ont soumis à vos lois
ce misérable corps: / Mais sous quelque tyran que ce captif respire / Un
heureux désespoir en peut ôter l’empire; / Mourant, il peut franchir cette
barbare loi, / Et s’il ne s’aime pas, il est maître de soi». L’idea positiva della
morte come liberazione dalla tirannia è tipicamente stoica e ricorre
numerose volte nelle opere di Seneca; nella forma concisa della sentenza, è
espressa anche da Megara, in risposta a Lico: Herc. f. 426 [LY.] Cogere. [ME.]
Cogi qui potest nescit mori33.

31
«[LI.] Vieni a condividere con me il regno; uniamo le nostre anime; accetta questo
come pegno di lealtà: toccami la destra. Perché taci con volto minaccioso? [ME.] Io
dovrei toccare la mano bagnata del sangue di mio padre e dell’assassinio dei miei due
fratelli?».
32
«Catene gravino pure sul mio corpo e una prolungata fame mi porti a una lenta
morte: nessuna forza vincerà la mia fedeltà: morirò tua, Alcide».
33
«[LI.] Sarai costretta. [ME.] Chi può essere costretto non sa morire».
226 Lucia Degiovanni

In contrasto con una Iole dal carattere forte e determinato, Ercole è


rappresentato come totalmente soggiogato dall’amore per lei, pronto a
prostrarsi – letteralmente – ai suoi piedi: accoccolato alle ginocchia di Iole
(come recita la didascalia: «HERCULE, appuyé sur les genoux d’Iole qui
travaille en tapisserie»), l’eroe la aiuta nel lavoro di tessitura, sperando di
riuscire a sedurla nel mentre attendono insieme a questa occupazione34. La
mansione femminile che Ercole si trova a svolgere richiama alla memoria
la tradizionale descrizione della sua schiavitù presso Onfale, e l’allusione è
confermata da un richiamo specifico. L’eroe sottolinea infatti il contrasto
tra le proprie mani possenti e la leggerezza e delicatezza dell’ago che esse
maneggiano (152 «Ton aiguille à mes doigts est un faix bien léger»), facendo
proprio un motivo topico delle rappresentazioni elegiache di Ercole presso
Onfale35, ripreso anche nell’Hercules Oetaeus (371‑373).
L’equiparazione di Iole a Onfale, che in Rotrou è solamente allusa,
attraverso l’atteggiamento assunto da Ercole, in altre riscritture successive
è invece resa più esplicita36. Ed è questo uno degli elementi in cui risulta
più evidente l’influsso del genere elegiaco: alla relazione amorosa Ercole‑
Iole sono attribuiti i caratteri peculiari della relazione Ercole‑Onfale, nella
maniera in cui questa è tradizionalmente descritta nell’elegia romana, che
la rilegge come un supremo esempio di servitium amoris (nelle Trachinie di
Sofocle, invece, l’anno di schiavitù di Ercole presso Onfale era privo di ogni
connotazione erotica)37.
Il fatto che, in molte delle riscritture moderne, Iole respinga Ercole porta
a una ridefinizione del suo rapporto con Deianira: la moglie dell’eroe, dopo
aver dato sfogo, in modo spesso verbalmente violento, alla propria gelosia,
attaccando sia il marito sia la rivale, comprende che Iole tiene veramente a
distanza Ercole e che quindi gli interessi propri e quelli della prigioniera

34
Rotrou Hercule mourant 151‑156 «Si je gâte ces fleurs, tu les peux corriger; / Ton
aiguille à mes doigts est un faix bien léger: / Mais ne t’oppose point à ce jeune caprice,
/ Qu’ils aient avec tes mains un commun exercice; / Ou si ce passe‑temps (mon coeur)
t’est importun, / Que nos yeux aient au moins un passe‑temps commun».
35
Cf. Ov. Her. 9, 79‑80 A, quotiens digitis dum torques stamina duris, / praevalidae fusos
conminuere manus! («Ah, quante volte, nel torcere il filo con le tue rozze dita, le mani
troppo robuste hanno spezzato i fusi!»).
36
Il tema è diffuso nel melodramma: cf. BUTI 1662 (Atto III, sc. 3), FRIGIMELICA
ROBERTI 1696 (Atto III, sc. 4), PASSARINI 1712 (Atto III, scc. 1‑2).
37
Per quanto riguarda il tema della sovrapposizione Iole‑Onfale, che ha origine da
un fraintendimento del testo della IX Eroide diffuso in commenti e volgarizzamenti
medievali di Ovidio ed è ampiamente sviluppato da Boccaccio in più opere (in part.
in De mulieribus claris 23), rinvio a un mio saggio in corso di stampa (Iole, Onfale ed
Ercole innamorato: da Ovidio al teatro sei‑settecentesco).
Il silenzio e la voce di Iole 227

di fatto coincidono. Segue dunque, in più drammi, una scena in cui


Deianira si riconcilia con Iole, riconoscendo di essersi sbagliata sul suo
conto: così avviene, ad es., nell’Hercules musicato da Haendel, su libretto
inglese di T. Broughton, rappresentato a Londra nel 1745 (Atto II, sc. 8).
La riscrittura che maggiormente sviluppa il tema dell’‘alleanza’
Deianira‑Iole è il dramma barocco seicentesco dello spagnolo Francisco
López de Zárate Hércules Furente y Oeta38. Qui Iole è una figura ieratica, del
tutto anerotica: respinge fermamente le profferte amorose di Ercole, per
volontà di mantenersi illibata, e lo esorta a spogliarsi delle passioni umane
per elevarsi alla condizione divina, e replica con pacata dignità alle irose e
malevole parole di Deianira, che, folle di gelosia, la accusa – ingiustamente
– di ipocrisia39. Le due donne, poi, una volta chiarito il fatto che tra loro
non c’è rivalità, divengono ‘alleate’, e Iole riveste un ruolo fondamentale
nel salvare Deianira dalla vendetta di Ercole, dopo che l’eroe ha indossato
la veste avvelenata e ha ucciso Lica, latore del dono. In questo momento di
massima tensione drammatica è Iole che, coraggiosamente, interviene ad
affrontare Ercole, facendo scudo a Deianira con il proprio corpo. Alla
caratterizzazione ieratica di Iole è conferita particolare rilevanza (anche
scenica): Ercole si prosterna devotamente al suo cospetto e, su incoraggia‑
mento della stessa Iole, si riconcilia con la moglie, alla quale chiede di
continuare a vivere40. L’eroe quindi muore e assurge al cielo con a fianco
entrambe le donne. In questa tragedia, dunque, Iole assume un ruolo
salvifico, fondamentale per la lysis positiva del dramma (Deianira qui non
si suicida).
Talora la riconciliazione delle due donne giunge ad autentica compli‑
cità nel far uso del presunto filtro magico per ‘riconvogliare’ gli affetti di
Ercole sulla legittima moglie: così avviene nell’Ercole amante di Buti, musi‑
cato da Cavalli, nell’Hercule di La Tuillerie e nella Déjanire di Gallet, musi‑
cata da Saint‑Saëns, dove è Iole stessa, su indicazione di Deianira, a porta‑
re la veste ad Ercole, perché egli la indossi al matrimonio41. Nell’Ercole
amante questa soluzione drammaturgica è sfruttata in funzione del tema
della vendetta di Iole per l’uccisione del padre Eurito (qui chiamato Euty‑
ro). Iole, su istigazione di Giunone, che intende servirsi di lei per colpire

38
LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 260‑338; edizione più recente: SIMÓN DÍAZ 1947, II, 279‑
462. Riguardo al rapporto tra questa tragedia e il modello senecano (Hercules furens ed
Hercules Oetaeus) vd. MORBY 1962 e la scheda di Corrado Cuccoro, di prossima
pubblicazione sul sito del progetto SIR (vd. n. iniziale).
39
LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 304‑308.
40
LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 334‑335.
41
Riguardo al matrimonio di Ercole e Iole cf. quanto detto supra p. 220 e n. 16.
228 Lucia Degiovanni

l’odiato figliastro (Atto III, sc. 5)42, tenta addirittura di uccidere con un pu‑
gnale Ercole addormentato43, come una novella Giuditta con Oloferne (sc.
6; Iole è tuttavia trattenuta da Illo, che le sottrae l’arma). Successivamente,
quando Iole, sotto ricatto (Ercole minaccia di uccidere il proprio figlio Illo,
suo rivale in amore), accetta a malincuore di sposare Ercole, le appare
l’ombra del padre, che la rimprovera duramente perché ha ceduto al ne‑
mico e dichiara che perseguirà di persona la propria vendetta (Atto IV, sc.
7). Segue (Atto V, sc. 1) una scena ultraterrena in cui l’ombra di Eutyro,
negli Inferi, raduna le anime di coloro che sono stati uccisi da Ercole e li
esorta a provocare, tutti insieme, la morte dell’eroe, assalendolo come «fu‑
rie invisibili»44. Viene così rifunzionalizzato il tema antico della vendetta
post mortem di una vittima di Ercole: non più Nesso, ma Eurito, per mano
della figlia Iole, latrice inconsapevole della veste avvelenata. Il motivo
della preterintenzionalità dell’uccisione di Ercole, già presente nell’Hercu‑
les Oetaeus in riferimento a Deianira, viene qui attribuito a Iole: se nell’Oe‑
taeus Deianira, in preda al furor della gelosia, aveva ipotizzato di assassi‑
nare il marito per vendicarsi del tradimento, nell’Ercole amante Iole aveva
realmente provato, senza successo, a uccidere l’eroe. Alla fine le due don‑
ne, in complicità, portano a reale compimento il proposito iniziale, pur
conservandosi innocenti, perché inconsapevoli dell’effetto letale del pre‑
sunto filtro d’amore. L’alleanza tra le due rivali, che condividono il fatto
di avere entrambe motivi di risentimento contro Ercole, estremizza, in un
certo senso, il motivo dell’equiparazione Deianira‑Iole nel comune desti‑
no di dolore, del quale si è detto all’inizio a proposito delle Trachinie.
Pur con sfumature diverse, ciò che contraddistingue le riletture moderne
del personaggio di Iole è il fatto che la principessa prigioniera è rappre‑

42
Buti rende effettiva, attribuendola a Iole, l’alleanza con Giunone contro Ercole
auspicata dalla Deianira dell’Hercules Oetaeus, che esortava la dea a servirsi di lei per
annientare l’eroe (256‑275).
43
Buti Ercole amante, Atto III, sc. 6: «[IOLE] D’Eutyro anima grande / a questo core,
a questo braccio imbelle / tanto furor, tanto vigor comparti / che possa or qui sacrarti,
/ con insigne vendetta / (universal di cui desio rimbomba) / vittima sì dovuta alla tua
tomba. / Prendi o mio genitor dall’arso lido / di Flegetonte, il sangue / di quest’empio
tiranno, / che nel tuo nome uccido».
44
Ercole amante, Atto V, sc. 1: «[EUTYRO] Su, su dunque ombre terribili / su voliam
tutte in Eocalia, / nuova in ciel schiera stimfalia / contra il reo furie invisibili, / e con le
vipere / onde Tesifone / tormenta l’anime / flagellamogli il cor; / fin ch’immenso dolor
/ con angoscie rabbiose il renda esanime». L’azione dell’ombra di Eutyro ricorda quella
dello spettro di Clitemnestra, che nel prologo delle Eumenidi di Eschilo sobilla le Erinni
a perseguitare il proprio assassino, Oreste (cf. in part. 137‑139).
Il silenzio e la voce di Iole 229

sentata come una donna ‘forte’ (tanto da tenere testa allo stesso Ercole),
sempre costante nei suoi affetti e nei suoi proponimenti, razionale nelle
proprie scelte d’azione, in contrasto con Deianira che, su modello del
personaggio latino, è rappresentata come fortemente emotiva, dominata
dalle passioni (in particolare dalla gelosia e dall’ira), impulsiva nelle
decisioni. Alla fine l’irrazionalità di Deianira porterà alla morte lei stessa e
il marito, mentre la costanza di Iole sarà premiata con il ‘lieto fine’ della
propria vicenda personale (per lo più con il coronamento, nel matrimonio,
del suo amore per Illo).
Se fino all’inizio del Novecento l’orientamento dominante era la libera
contaminazione di più fonti classiche45, in tempi più recenti, a cavallo del
nuovo millennio, prevale la tendenza a richiamarsi direttamente alle
Trachinie, nell’intento di trasporne la vicenda in un contesto contempo‑
raneo46. Come si è detto, uno dei temi più diffusi nelle rivisitazioni moderne
è l’amore dei due giovani, Iole e Illo, dapprima contrastato dalla rivalità di
Ercole e infine coronato nelle agognate nozze. La base di partenza è
naturalmente il mito classico, che prevedeva il matrimonio di Illo e Iole,
dal quale sarebbe disceso il glorioso genos degli Eraclidi. Le riscritture
contemporanee ribaltano questa lieta katastrophè, tipica piuttosto della
commedia o del romanzo, nella prefigurazione di una catena d’odio
destinata a perpetuarsi nelle future generazioni, come conseguenza della
violenza della guerra che ha introdotto Iole, a forza, nella famiglia di Ercole.
Lo spunto per questa rilettura ‘tragica’ proviene dalla scena dell’esodo delle
Trachinie in cui Ercole impone al figlio il matrimonio con Iole47. Illo
dapprima protesta vivacemente contro l’ordine paterno: non ha alcuna
intenzione di prendere in moglie colei «che ha più in odio», «la sola
responsabile della morte di sua madre e dello stato in cui suo padre si
trova» (Trach. 1233‑1237); alla fine, tuttavia, per obbedienza filiale, si
sottomette alla volontà paterna. È proprio questo snodo – la duplice
violenza esercitata sia su Iole che su Illo – a suggerire innovative chiavi
interpretative del mito classico.
Il dramma contemporaneo che più ampiamente sviluppa questo tema è
Dianeira di Timberlake Wertenbaker, che appartiene al genere del radio play,
ovvero un testo teatrale appositamente concepito non per la messa in scena

45
Sofocle, Ovidio e l’Hercules Oetaeus, oltre a tragedie che presentano linee
tematiche comuni, come l’Hercules furens di Seneca e le Medee di Euripide e di Seneca.
46
Per una rassegna delle rivisitazioni moderne delle Trachinie cf. MILLS 2017.
47
Per una riflessione sull’anomala pretesa di Ercole cf. PRALON 1996, 75 n. 38 e
PÒRTULAS 2010.
230 Lucia Degiovanni

ma per la trasmissione radiofonica (è andato in onda nel 1999 sulla BBC


Radio 3)48. Si tratta di un’esplicita riscrittura delle Trachinie, di cui riprende
in libera traduzione ampi passi, in un contesto di generale reinvenzione. A
livello strutturale, la maggiore innovazione, legata al genere del radio play,
è l’inserimento del personaggio di Irene, una vecchia cantastorie cieca –
moderna rivisitazione dell’aedo arcaico – che funge da voce narrante,
introducendo e commentando le diverse scene49. Partendo dal dialogo
Ercole‑Illo dell’esodo sofocleo, l’autrice, nelle battute finali del dramma, dà
un’inedita conclusione alla vicenda drammatica50. Parafrasando i vv. 1233‑
1237 delle Trachinie, Illo oppone un deciso rifiuto all’ordine di sposare Iole:

HYLLOS Father: Iole’s presence caused my mother’s death, your unendurable


pain now. Who would ask me to marry her but someone whose mind was
beset with poisoning spirits or by the avenging hounds of Hell. I would
rather die than share a house, a bed with my most hated enemy.

Alla fine tuttavia, come l’omologo personaggio sofocleo, per obbedienza


filiale Illo si piega alla volontà paterna e accetta l’imposizione delle nozze
aborrite. E la voce narrante così commenta la violenza esercitata dal padre
sul figlio:

IRENE It could go on, this argument, but in the end, fathers do eat their sons
if they can, there is no other myth that rings so true. […] And now the long
arm of Heracles bows down the head of his son and turns this young man
full of hope and life and possible love into a man overflowing with
resentment, anger. And so it continues.

Ma l’elemento più innovativo di questa rivisitazione contemporanea è


la ricomparsa in scena di Iole nel finale. Come evocata dalle parole di
Ercole, Iole esce dalla casa:

HYLLOS You can’t see any more, Father, but she’s coming out of the house
now, as if summoned by her hated name. And I can see from here triumph
on her face. Don’t forget you killed her father, burned her city, took her by
violence.
HERACLES I loved her.
HYLLOS Strange manifestation of love, Father, but now you’re dying,
writhing in agony, and she gloats on your pain, on my mother’s death. What
I see is a curl of pleasure on her cold lips. Don’t ask me to marry such malice.

48
WERTENBAKER 2002, 321‑374.
49
Sulla funzione drammaturgica del personaggio di Irene cf. WILSON 2008, 210 ss.
50
WERTENBAKER 2002, 369‑374.
Il silenzio e la voce di Iole 231

Iole si mostra compiaciuta («gloats») per la rovina in cui, per causa sua,
è caduta la casa di Ercole: agli occhi di Illo appare addirittura “trionfante”
(«I can see from here triumph on her face»), perché vede realizzata la
vendetta per la violenza subita51.
Il tema della vendetta di Iole è poi sviluppato tramite la rivisitazione del
“silenzio” del personaggio sofocleo: la donna, come spiega la voce narrante,
rimarrà in silenzio per tutta la sua vita matrimoniale con Illo:

Iole never said a word. She never said a word when she married Hyllos. She
never said a word to her children. What was there to say? the bitterest anger
is silent. And so anger threads its way through generations.

A nulla valgono i tentativi di Illo, in parte benevoli in parte anche


maneschi, di sbloccare la situazione: Iole, a suo modo, trae piacere dal
rovinare la vita a Illo e ai figli avuti da lui:

She has suckled her children with her anger, she is her anger, how can she
relinquish the anger that she is? Anger is her life, her identity, and even a
not too unpleasant habit.

Questa è dunque la storia di Ercole, Deianira, Illo e Iole: «a story of


anger», come aveva detto la cantastorie nell’esordio del racconto, esau‑
dendo la richiesta del suo uditorio52. E la giovane coppia che nasce da una
storia di violenza non può avere un lieto fine: nella sensibilità contem‑
poranea di deprecazione della guerra, dalla violenza non può derivare la
ricostituzione dell’oikos, ma solo un inarrestabile perpetuarsi della distru‑
zione.

51
L’atteggiamento di Iole ricorda l’esultanza di Cassandra nelle Troiane di Euripide
e nell’Agamennone di Seneca per essere lo strumento della rovina della casa di
Agamennone. In entrambi i casi la prigioniera di guerra, attraverso l’unione con il
nemico vincitore, porta a compimento la vendetta per la distruzione della patria e
l’uccisione del padre e dei familiari: cf. in part. E. Tro. 458‑461, Sen. Ag. 1004‑1011 e
DEGIOVANNI 2004, 386‑389.
52
Nella cornice narrativa che contestualizza la performance della cantastorie, la
Timberlake stessa e i suoi amici, in vacanza ad Atene, si recano nel villaggio di
Kafeneion appositamente per ascoltare la cantastorie cieca: «She [scil. the storyteller]
asked us what kind of story we wanted. I wanted one about love, but my friends said
they’d heard lots of those, they wanted adventure. We settled on anger. This is what
we heard» (WERTENBAKER 2002, 327).
232 Lucia Degiovanni

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Il poeta protagonista del suo dramma:
sulla ricostruzione della Pytinē di Cratino

FRANCESCO PAOLO BIANCHI


(ALBERT‑LUDWIGS‑UNIVERSITÄT FREIBURG)

[A]i migliori anni della nostra vita

ἀτὰρ ἐννοοῦμαι δῆτα τὰς μοχθηρίας


τῆς † ἠλιθιότητος τῆς ἐμῆς

Verba Cratini resipiscentis

1. Nel 424 a.C., in occasione degli agoni lenaici, Aristofane ottenne il primo
posto nel concorso, davanti ai Satyroi di Cratino e agli Ylophoroi di
Aristomene1, con la messa in scena dei Cavalieri, la più estesa rappresen‑
tazione a noi nota di quella che è stata definita la Demagogenkomödie2, con
bersaglio, nel caso specifico, il politico Cleone; nel corso del violento e
serrato attacco, alla metà circa dell’azione drammatica (498‑610), l’illusione
scenica è temporaneamente interrotta dall’esecuzione della parabasi, al cui
interno, nell’arco di una ventina di versi (520‑540), è tracciato «un breve ma
denso capitolo di storia della commedia attica antica»3, nel quale sono
ricordate le alterne fortune che il pubblico ateniese aveva riservato a tre dei
commediografi della generazione precedente ad Aristofane stesso: Magnete
(520‑525)4, Cratino (526‑536) e Cratete (537‑540)5.

1
Arg. Α5 (VEΓΘVatLh) Ar. Eq. 3, 10‑12 Jones‑Wilson = arg. II.4, 66, 20‑22 WILSON
2007 = Cratin. test. 7b K.‑A. ἐδιδάχθη τὸ δρᾶμα ἐπὶ Στρατοκλέους ἄρχοντος (425/4
a.C.) δημοσίᾳ (VEL: om. ΓΘ) εἰς Λήναια δι᾽ αὐτοῦ <τοῦ> Ἀριστοφάνους. πρῶτος ἦν·
ἐνίκα (πρῶτος ἦν· ἐνίκα Vvat: πρῶτον ἐνίκα ΕΓΘ: ἐνίκα Lh) δεύτερος Κρατῖνος
Σατύροις· τρίτος Ἀριστομένης Ὑλοφόροις. Per la notazione δημοσίᾳ «a spese
pubbliche» e l’impiego del verbo νικάω per indicare l’ottenimento del secondo o del
terzo posto, cf. BIANCHI 2017, 301‑2 (commento a Cratin. test. 7b K.‑A.).
2
V. LIND 1990, in part. 235‑252.
3
IMPERIO 2004, 187.
4
Magn. test. 7 K.‑A., PCG V, 627, v. BAGORDO 2014b, 82‑84.
5
Cratet. test. 6 K.‑A., PCG IV, 84.
236 Francesco Paolo Bianchi

Di questi tre poeti, Cratino era l’unico verisimilmente ancora in vita nel
424 a.C.; nel suo ritratto (526‑536) sono chiaramente opposte la gloria del
passato (526‑530) e la miseria del presente (531‑536) e il fatto che questa
rappresentazione occupi oltre la metà del totale dei versi (11 su 20) rivela,
come è stato più volte notato, da un lato la particolare importanza che il
più giovane commediografo tributava al suo predecessore, dall’altro
l’accesa polemica letteraria che tra i due poeti si era instaurata da quando
Aristofane aveva iniziato la propria carriera6. Il ritratto di Cratino un tempo
glorioso, ma ormai ‘vaneggiante’ (531 παραληροῦντα, cf. 536 ληρεῖν),
‘autore di musiche stonate’ (533 τῶν θ᾽ ἁρμονιῶν διαχασκουσῶν),
‘vecchio e errabondo’ (533 γέρων ὢν περιέρρει) e, soprattutto, ‘morto di
sete’ (534 δίψῃ δ’ ἀπολωλώς), un palese riferimento alla φιλοινία di cui vi
è traccia in diverse fonti7, doveva rappresentare la supremazia oramai
consolidata del più giovane Aristofane sull’anziano commediografo, la
quale era stata certamente sancita dal trionfo nel precedente anno 425 a.C.
degli Acarnesi sui Cheimazomenoi8 e che sarebbe stata ulteriormente
confermata, in quello stesso anno 424 a.C., dalla vittoria, sperata, ma anche
certo attesa, dei Cavalieri.
Cratino, però, non aveva esaurito la propria vis comica e nei successivi
agoni dionisiaci del 423 a.C. rispose alle accuse di Aristofane componendo
un dramma, la Pytinē, con il quale ottenne un clamoroso successo,
riuscendo infatti vincitore dinanzi al Konnos di Amipsia e alle Nuvole prime
di Aristofane, che si classificarono solamente in terza posizione9.

6
Per la cronologia di Cratino e il suo ritratto nei Cavalieri, v. BIANCHI 2017, 13‑15 e
308‑316.
7
Cratin. testt. 1, 9, 10, 11, 14, 16, 45 e forse anche 15 K.‑A., v. BIANCHI 2017, 12 e
passim (cf. Indice, 473 s.v. Cratino, φιλοινία).
8
Arg. I (RΦ[AΓΕ] c [Vp3c]Lh) Ar. Ach. 2, 3‑5 Wilson = arg. I, 4, 37‑40 Wilson 2007 =
arg. I, p. 1 s., 32‑34 Olson 2002 ἐδιδάχθη ἐπὶ Εὐθύνου ἄρχοντος (426/5 a.C.) ἐν
Ληναίοις διὰ Καλλιστράτου· καὶ πρῶτος ἦν· δεύτερος Κρατῖνος Χειμαζομένοις. οὐ
σῴζονται. τρίτος Εὔπολις Νουμηνίαις. Per οὐ σῴζονται v. PFEIFFER 1968, 288
(Addenda): «le note οὐ σῴζεται ο οὐ σῴζονται ai titoli dei drammi, il cui testo non
raggiunse ‘il porto della salvezza’ in Alessandria, sono probabilmente attinte ai Pinakes
nelle hypothesis di Aristofane» (la traduzione del passo citato proviene dall’edizione
italiana del 1973 [215 n. 35] di PFEIFFER 1968).
9
Arg. A 6 (VERs) Ar. Nub. 4, rr. 12‑17 Holwerda = arg. V, 134, 1‑6 Wilson 2007 αἱ
πρῶται Νεφέλαι ἐδιδάχθησαν (post ἐν ἄστει V) ἐν ἄστει ἐπὶ ἄρχοντος Ἰσάρχου
(424/3 a.C.), ὅτε Κρατῖνος μὲν ἐνίκα Πυτίνῃ, Ἀμειψίας δὲ Κόννῳ. διόπερ
Ἀριστοφάνης ἀπορριφθεὶς (ἀπορριφεὶς E) παραλόγως ᾠήθη δεῖν ἀναδιδάξας
(ἀναδιδάξαι V) τὰς Νεφέλας τὰς δευτέρας καταμέμφεσθαι (ἀπομεμφ‑ V) τὸ
θέατρον. ἀτυχῶν δὲ πολὺ μᾶλλον καὶ ἐν τοῖς ἔπειτα οὐκέτι τὴν διασκευὴν
εἰσήγαγεν (ἐπήγ‑ Rs).
Il poeta protagonista del suo dramma 237

2. La Pytinē, con la quale Cratino ottenne l’ultimo dei suoi sei successi
dionisiaci, è un’opera assolutamente singolare nel panorama dell’intera
produzione comica antica: si tratta, infatti, dell’unico caso a noi noto in cui
protagonista della commedia sia il poeta stesso e l’intero dramma si possa
interpretare come una «dramatized parabasis»10, fosse, cioè, dedicato tutto
alla discussione poetica; come ha efficacemente scritto B. Zimmermann11:

in letzten Stück, der Flasche (Pytine) […] entfaltet der ältere Dichter in
unmittelbarer Auseinandersetzung mit dem jüngeren Rivalen sein
poetologisches Programm – und dies unüberhörbar, da er sich selbst zum
komischen Helden des Stücks machte […] Man kann geradezu sagen, daß
Kratinos, durch den aristophanischen Spott herausgefordert, die beiden
Dominanten seiner komischen Dichtung, das dionysische und satirische
Element, in seiner letzten Komödie zu seiner Komödienpoetik
zusammenführt, dies jedoch nicht in der Form der darstellende Rede – etwa
in einem Agon oder der Parabase – tut, sondern indem er das poetische
Programm in eine komische Bühnenhandlung umsetzt.

Come per la parte maggiore della rimanente produzione comica, anche


la Pytinē ci è nota solamente per tradizione indiretta, il che obbliga
senz’altro a valutare con accortezza ogni inferenza che si voglia ricavare
dalla lettura e dall’interpretazione dei frammenti e a non sopravvalutare
la portata di quanto a nostra disposizione, nell’ottica di un tentativo di
comprendere da pochi resti quale fosse il corso di un dramma e di fornirne
una ipotetica ricostruzione; come ha, però, rilevato Olson12, la Pytinē
rappresenta, insieme a pochi altri drammi (il Dionysalexandros dello stesso
Cratino, i Babylōnioi di Aristofane, i Dēmoi, il Marikas e i Taxiarchoi di Eupoli)
una parziale eccezione alla nostra limitata conoscenza, perché, se anche
molto rimane oscuro, un certo numero di frammenti e le altre informazioni

10
La definizione è di BILES 2011, 281 (indice del volume), con il rimando alle
discussioni presenti alle pagine 30‑31 e 146.
11
ZIMMERMANN 2011, 728 e 730 (da: «man kann geradezu sagen» usw.).
12
OLSON 2007, 80: «Cratinus’ The Wineflask (frr. 193‑217) and Dionysalexandros (frr.
39‑51) are important exceptions to the rule that little can be said about the plots of
individual fragmentary fifth‑century comedies. Much remains obscure about both
plays. But the fragments […] offer a sense of what an ‘Old Comedy’ by someone other
than Aristophanes looked like, and preserve traces of many of the genre’s standard
structural elements […] Other late fifth‑century comedies whose plots can be at least
partially reconstructed include Aristophanes’ Babylonians (frr. 67‑100; first place at the
City Dionysia in 426) and Eupolis’ Demes (frr. 99‑146; mid‑ to late 410s.), Marikas (frr.
192‑217 […]), and Taxiarchs (frr. 268‑285; undated)».
238 Francesco Paolo Bianchi

di cui disponiamo consentono di avere un quadro, parziale certamente, ma


almeno in alcuni punti abbastanza chiaro dello svolgimento dell’azione
drammatica.
Dell’intero corpus originario di drammi composti da Cratino, almeno 24
ma forse anche 29, possediamo in totale 504 frammenti per poco più di 450
versi; la Pytinē è la commedia di cui si è conservato il numero maggiore di
versi (42), la seconda per numero di frammenti noti (25) e la terza per
numero complessivo di citazioni (39)13. A ciò si aggiunge un’importante
testimonianza presente in uno scolio ai Cavalieri di Aristofane (400a, v.
infra), che offre una sintesi del dramma di Cratino14. Di conseguenza, ogni
tentativo di comprensione e di ricostruzione della Pytinē si basa, anzitutto,
sul testo di questo scolio e, quindi, sulla falsariga delle informazioni in esso
presenti, sulla possibilità di ascrivere i frammenti di tradizione indiretta
alle singole scene originarie del dramma in base a possibili indizi dei
frammenti stessi.

3. Lo scolio al v. 400 dei Cavalieri di Aristofane15 conserva, come accennato,


un sintetico riassunto della trama della Pytinē:

παροξυνθεὶς ἐκεῖνος, καίτοι τοῦ ἀγωνίζεσθαι ἀποστὰς καὶ συγγράφειν,


πάλιν γράφει δρᾶμα, τὴν Πυτίνην, εἰς αὑτόν τε καὶ τὴν μέθην (Μέθην),
οἰκονομίᾳ τε κεχρημένον τοιαύτῃ. τὴν Κωμῳδίαν ὁ Κρατῖνος ἐπλάσατο
αὑτοῦ εἶναι γυναῖκα καὶ ἀφίστασθαι τοῦ συνοικεσίου τοῦ σὺν αὐτῷ
θέλειν, καὶ κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν, φίλους δὲ παρατυχόντας
τοῦ Κρατίνου δεῖσθαι μηδὲν προπετὲς ποιῆσαι καὶ τῆς ἔχθρας ἀνεῶτᾶν
τὴν αἰτίαν, τὴν δὲ μέμφεσθαι αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι
δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ)16.

13
Per i dati qui riportati, v. BIANCHI 2017, 53 e 284‑285 (comm. a Cratin. test. 1 K.‑
A., Sud. κ 2334) per l’oscillazione delle testimonianze sul numero complessivo dei
drammi cratinei.
14
Altre notizie sulla composizione della Pytinē sono in: schol. ad Ar. Eq. 531a, latore
del fr. 213 K.‑A., su cui v. p. 254 s. e cf. BILES 2002, 182 e 2011, 147; Plut. quaest. conv. 2,
3, 12 (634d) il cui testo è incerto, v. KASSEL/AUSTIN PCG IV, 219. Infine risale a Kaibel
apud KASSEL/AUSTIN PCG IV, 219 la possibilità che il Δὶς κατηγορούμενος di Luciano
(29) potesse avere avuto a modello il dramma di Cratino: «cuius dialogi altera pars (26)
manifesto ad Cratini fabulae exemplum instituta est. Rhetorica enim Luciani tamquam uxor
maritum accusat quod rupta coniugii fide cum Dialogo puero rem habet, cf. 28, 29».
15
V. n. 17.
16
«E quello adiratosi, sebbene si fosse ritirato dal gareggiare e dal comporre, di
nuovo scrisse un dramma, la Pytinē, riguardo se stesso e l’ubriachezza (o Ubriachezza),
Il poeta protagonista del suo dramma 239

Lo scolio è relativo in particolare al nesso Κρατίνου κῴδιον ‘pelliccetta


di Cratino’: la spiegazione offerta è che κῴδιον era la pelle preparata
insieme alla lana e che, con questa espressione, veniva attaccatto Cratino
in quanto ubriacone e affetto da enuresi, motivo questo per cui avrebbe
avuto bisogno del κῴδιον, la cui funzione, è detto più avanti, era quella di
una specie di ‘pannolino’ per ovviare, appunto, al problema fisico17. Subito
dopo lo scoliaste informa che Cratino, adiratosi (παροξυνθείς) per questa
rappresentazione e nonostante si fosse ritirato dalle competizioni (καίτοι
τοῦ ἀγωνίζεσθαι ἀποστὰς καὶ συγγράφειν) – una notizia certamente
erronea e dedotta per autoschediasma dal testo di Aristofane18 –, compose
un dramma, di cui viene dato il titolo, Pytinē, e quindi alcune importanti
informazioni sul contenuto:

in cui è stata seguita questa disposizione: Cratino immaginò che Commedia fosse sua
moglie e che volesse rinunciare al matrimonio con lui e intentargli una causa per
maltrattamento; e che gli amici di Cratino, sopraggiunti, (le) chiedessero di non fare
nulla di avventato e le domandassero il motivo del suo odio e che quella (rispondesse)
che lo biasimava perché non aveva più cura di Commedia, ma passava il suo tempo
ad ubriacarsi (con Ubriachezza)».
17
Schol. vet. (VEΓ3ΘΜ) Ar. Eq. 400a (I) εἴ σε μὴ μισῶ, γενοίμην ἐν Κρατίνου
κῴδιον = Sud. κ 2216 ~ Cratin. PCG IV, test. 14 K.‑A. ~ Pytinē test. ii K.‑A. Κρατίνου
κῴδιον: κῴδιόν ἐστι τὸ ἅμα τοῖς ἐρίοις δέρμα σκευαζόμενον. ὡς ἐνουρητὴν δὲ καὶ
μέθυσον διαβάλλει τὸν Κρατῖνον. ὁ δὲ Κρατῖνος καὶ αὐτὸς ἀρχαίας κωμῳδίας
ποιητής, πρεσβύτερος Ἀριστοφάνους, τῶν εὐδοκίμων ἄγαν (segue il riassunto della
trama citato sopra. Questa parte dello scolio corrisponde alla test. 14 K.‑A. di Cratino,
la sintesi del dramma alla test. ii K.‑A. della Pytinē) «Pelliccetta di Cratino: kōdion è la
pelle preparata insieme alla lana. Attacca Cratino come uno che se la fa sotto e
ubriacone. E Cratino (era) anche lui poeta della commedia antica, più anziano di
Aristofane, di quelli molto rinomati». L’enuresi è caratteristica comune degli uomini
di età avanzata (cf. ad es. il coro degli anziani in Ar. Lys. 402 e 450) ed è possibile che
a ciò si riferisca l’impiego del verbo ῥεύσας nella parabasi dei Cavalieri di Aristofane,
v. 526, cf. BIANCHI 2017, 311 ad Cratin. test. 9 K.‑A. L’espressione ἐν Κρατίνου si può
intendere genericamente come ‘in casa di Cratino’ (cf. schol. Ar. Eq. 400a εἰς τὴν οἰκίαν
τοῦ Κρατίνου e v. SOMMERSTEIN 1981, 49, HENDERSON 1998, 281, HENDERSON 2011,
177, STOREY 2011, 245), ma forse, più specificamente, ‘nel letto di Cratino’ come
intendono CANTARELLA 1953, 295 e MASTROMARCO 1983, 245 (che traduce κῴδιον
‘pannolino’), cf. anche EDMONDS 1957, 17 («may I be Cratinus’ bed»).
18
Che si tratti di una notizia dedotta autoschediasticamente dal testo di Aristofane,
lo mostra il fatto che lo stesso anno dei Cavalieri (424 a.C.) Cratino concorse agli agoni
con i Satyroi (Cratin. PCG IV, test. 7b K.‑A.) e che potrebbe essere stato attivo ancora
dopo la rappresentazione della Pytinē, con i Seriphioi (BAKOLA 2010, 60 n. 139) e forse
anche i Lakōnes (questa l’ipotesi di MASTROMARCO 2002, in part. 398‑403, cf. BIANCHI
2017, 318 s. e n. 432).
240 Francesco Paolo Bianchi

1) εἰς αὐτόν τε καὶ τὴν μ(/M)έθην: il dramma era relativo a Cratino


stesso19 e a μ(/M)έθη, l’u(/U)briachezza.
Un problema particolare è rappresentato dall’interpretazione del
sostantivo μ(/M)έθη, che può:
a) indicare l’idea dell’ubriachezza in maniera astratta;
b) essere una personificazione, Μέθη, con la lettera iniziale maiuscola.
La seconda possibilità venne avanzata in maniera implicita già da
Meineke20, che nello stampare il testo dello scolio scriveva Μέθη, e, quindi,
esplicitata da Kock21, il quale a commento dello stesso passo riportava:
«Comoediam igitur et Ebrietatem fabulae personas esse voluit»; in epoca più
recente hanno sostenuto questa ipotesi in particolare Luppe22, Rosen23 e
Ruffell24. A suo favore, si potrebbero richiamare i confronti con le
personificazioni di Πόλεμος, Εἰρήνη, Ὀπώρα e Θεωρία nella Pace di
Aristofane e di Στάσις e Καταπυγοσύνη rispettivamente nei frr. 258 e *259
K.‑A. dei Cheirōnes dello stesso Cratino, anche se in questo caso è probabile
che si trattasse non di effettivi personaggi del dramma, ma di astrazioni
personificate semplicemente evocate nei due frammenti25.
Tuttavia, questa possibilità non può essere argomentata con alcun dato
di fatto e la semplice informazione dello scoliaste non fornisce alcuna

19
A proposito della presenza di Cratino stesso, opportuna la notazione di OLSON
2007, 80‑81: «Hellenistic scholars regularly mined literary texts for biographical
information about the author, and we cannot be sure that the poet who appeared on
the stage in The Wineflask was actually called ‘Cratinus’; and even if he was, the
character cannot simply be identified with the historical author of the play». V. anche
RUFFELL 2014, 280‑289.
20
MEINEKE FCG I, 48, II.1, 116.
21
KOCK CAF I, 68.
22
LUPPE 2000, 17.
23
ROSEN 2000, 26.
24
RUFFELL 2002, 156.
25
Nel fr. 258 K.‑A. «Cratino […] assimilava beffardamente Pericle a Zeus, con una
frase densa di allusioni diverse, nella quale tramite il riferimento alla mitologia
teogonica, veniva denunciato il carattere tirannico del suo potere e, nello stesso tempo,
era messa alla berlina la forma irregolare, eccessivamente allungata, della sua testa»
(CERRI 1975, 119), mentre nel fr. 259 K.‑A., Aspasia era detta figlia di Era e Katapygosynē
e, se si accetta la pertinenza a questo stesso frammento della testimonianza di uno
scolio a Platone (TW ad Pl. Menex. 235e, 183 Greene = 3, 270 Cufalo), era inoltre
chiamata anche Omfale, dal nome della figlia di Iardano, regina dei Lidi presso la
quale Eracle fu venduto come schiavo e dovette servire per espiare la colpa
dell’uccisione di Ifito. Su questi frammenti v. in part. FARIOLI 2001, 416‑419, NOUSSIA
2003, DI MARCO 2005, OLSON 2007, 207 s. Per le personificazioni in commedia, v.
DEUBNER 1908, in part. 2105‑2107, STÖSSL 1937, in part. 1050, ZIMMERMANN 2012.
Il poeta protagonista del suo dramma 241

indicazione in merito26; come ha argomentato Bakola27, è possibile che le


due possibilità coesistessero e rispecchiassero i differenti punti di vista dei
personaggi, ossia è possibile che μ(/Μ)έθη non fosse una dramatis persona
con ruolo attivo e che la sua caratterizzazione risultasse talora quella di una
donna personificata con cui Cratino commetteva adulterio, talora, invece,
semplicemente un concetto astratto;

2) οἰκονομία τε κεχρημένον τοιαύτῃ: nel dramma era seguito un tale


intreccio. Si tratta di una pericope molto importante, perchè afferma espli‑
citamente che quanto ricorre subito di seguito è la trama della commedia;
«il termine οἰκονομία, infatti, se riferito alla produzione letteraria, rivela
un uso “tecnico” e può indicare la struttura interna di un’opera»28, come
appare chiaramente da alcuni passi paralleli, in particolare uno di Cicerone
e uno di Dionigi di Alicarnasso29;

3) τὴν Κωμῳδίαν ὁ Κρατῖνος ‑ κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν:


Cratino immaginò (ἐπλάσατο) che Commedia fosse sua moglie, che inten‑
desse abbandonare il tetto coniugale e volesse intentargli una κακώσεως
δίκη.
Poiché queste sono le prime informazioni sul contenuto della commedia
addotte dallo scoliaste, appare verisimile che esse riassumano il contenuto
del prologo; particolarmente significative sono due frasi che rimandano a
una dimensione legale che doveva caratterizzare questa scena e definiscono
le intenzioni di Commedia:
a) ἀφίστασθαι τοῦ συνοικεσίου τοῦ σὺν αὐτῷ θέλειν. Il verbo
ἀφίστημι ha, tra gli altri, un valore tecnico che indica la perdita di una
condizione legale30, mentre συνοικέσιον è connesso con συνοικεῖν «the

26
V. in part. HEATH 1990, 150: «some have thought of a mistress called Drink;
unfortunately, when our source describes Comedy as complaining that ‘he no longer
writes comedy but devotes himself to drink (σχολάζοι δὲ μέθῃ)’, we cannot tell
whether μέθη is to be construed as a personification, parallel to Comedy herself».
27
BAKOLA 2010, 282‑285.
28
QUAGLIA 1998, 25 (corsivo dell’autore).
29
Cic. Att. VI, 1: Accepi tuas litteras a. d. V Terminalia Laodiceae; quas legi libentissime
plenissimas amoris, humanitatis, offici, diligentiae. iis igitur respondebo, * * * (sic enim
postulas), nec οἰκονομίαν meam instituam sed ordinem conservabo tuum. Dion. Hal. Pomp.
IV 2 (Ξενοφῶν) οὐ μόνον δὲ τῶν ὑποθέσεων χάριν ἄξιος ἐπαινεῖσθαι [ζηλωτὴς
Ἡροδότου γενόμενος], ἀλλὰ καὶ τῆς οἰκονομίας. V. anche LSJ s.v. οἰκονομία 3 «of a
literary work, arrangement»; GE s.v. οἰκονομία «rhet. distribution, disposition, of themes,
of material».
30
LSJ s.v. ἀφίστημι Β.1 «ὧν εἷλεν ἀποστάς giving up all claim to what he had won
242 Francesco Paolo Bianchi

accepted term for living together in legitimate union»31 e che dal II sec. a.C.
circa diventa di uso comune in formule tipo συνοικεσίου συγγραφή ‘causa
di divorzio’ (Pap. Teb. 809.5, cf. P.Oxy 266.11). L’intera espressione ἀφίστα‑
σθαι τοῦ συνοικεσίου potrebbe, quindi, alludere alla cosiddetta
ἀπόλειψις32, una procedura per la quale una donna che volesse separarsi
dal marito si presentava dinanzi all’arconte e chiedeva di registrare un
cambio di stato33;
b) κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν. L’espressione δίκην λαγχάνειν
è di impiego comune per indicare un’azione processuale e ricorre, ad
esempio, in due passi della Ἀθηναίων πολιτεία dello pseudo‑Aristotele
(53, 1 δίκας λαγχάνουσιν, 56, 6 δίκαι λαγχάνονται)34; nel secondo di essi
(56, 6), inoltre, sono elencate le γραφαὶ κακώσεως, che possono riguardare
il maltrattamento dei genitori, degli orfani e dell’erede35. Come ha, dunque,
rilevato Biles36 «the scholiast’s detail conform to Athenian divorce
procedures, and his description is too unified and its implications too
extensive to be a product of his imagination». Meno certa appare, invece,
l’interpretazione proposta da Bakola37: delle possibili γραφαί κακώσεως,
l’unica che sembra adattarsi alla situazione scenica della Pytinē sarebbe la
ἐπικλήρου κάκωσις38, il che è certamente verisimile; da ciò, inoltre, si
potrebbe stabilire un riferimento a una delle leggi di Solone: τρὶς ἑκάστου
μηνὸς ἐντυγχάνειν πάντως τῇ ἐπικλήρῳ τὸν λάβοντα39. La mancata
ottemperanza a tale dovere coniugale poteva portare al divorzio; di
conseguenza:

(at law), D. 21, 181; τῶν αὑτῆς Id. 19, 147, cf. 35, 4; ἀφίστασθαι τῶν τοῦ ἀδελφοῦ ib.
44»; GE s.v. «to be deprived, lose», con il richiamo al medesimo passo di Demosth. 21,
181.
31
HARRISON 1968, 2.
32
L’ipotesi è di BILES 2011, 159‑160.
33
Per la ἀπόλειψις e, in particolare, per le diverse condizioni alle quali era soggetta
una donna che volesse divorziare, v. HARRISON 1968, 40‑44, COHN‑HAFT 1995, 4‑7, 11‑
13.
34
V. LSJ s.v. e RHODES 1981, 587 s., 2017, 381 ad [Aristot.] Ath. Pol. 53, 1.
35
[Aristot.] Ath. Pol. 56, 6 γραφαὶ δ[ὲ καὶ δ]ίκαι λαγχάνονται πρὸς αὐτόν, ἃς
ἀνακρίνας εἰς τὸ δικαστήριον εἰσάγει, [γο]νέων κακώσεως (αὗται δ’ εἰσὶν ἀζήμιοι
τῷ βουλομένῳ δ[ι]ώκειν), ὀρφανῶν κ[ακώ]σεως (αὗται δ’ εἰσὶ κατὰ τῶν
ἐπιτρόπων), ἐπικλήρου κακώσε[ως (αὗτ]αι δ’ εἰσὶ κατὰ [τῶν] ἐπιτρόπων καὶ τῶν
συνοικούντων), οἴκου ὀρφανικοῦ κακώσεως (εἰσὶ δὲ καὶ [αὗται κατὰ τῶν]
ἐπιτρόπων), cf. RHODES 1981, 629‑630, 2017, 399‑400.
36
BILES 2011, 160.
37
BAKOLA 2010, 276‑277.
38
Cf. HARRISON 1968, 117‑119, RHODES 1981, 630.
39
Sol. F 51a Ruschenbusch (p. 88) = 434 Martina (p. 217). La fonte per questa legge
è Plut. Sol. 20, 4.
Il poeta protagonista del suo dramma 243

it seems, that, in the Pytine Comedy was presented as an ἐπίκληρος given


in wedlock to Cratinus, who thus come under a legal obligation to
consummate the marriage regularly […] Making Comedy an heiress was a
stroke of self‑eulogy on the poet’s part. The point is that she has inherited a
rich poetic tradition which only he is entitled to access […] Comedy thus
sought to divorce the poet because of an alleged […] neglect of his conjugal
duties40.

La connessione con la legge di Solone non è, però, in alcun modo


dimostrabile e l’ipotesi, per quanto suggestiva, non ha alcun possibile
riscontro; l’unico dato che sembra rimanere certo nel testo dello scolio è il
riferimento al lessico legale e a una situazione processuale, mentre una sua
più precisa individuazione appare esclusa;

4) φιλοὺς δὲ παρατυχόντας τοῦ Κρατίνου ‑ τῆς ἔχθρας ἀνερωτᾶν τὴν


αἰτίαν. Compaiono gli amici di Cratino, cercano di dissuadere Commedia
dal suo proposito e le chiedono le ragioni della sua ostilità (ἔχθρα). Di
particolare importanza è la pericope φιλοὺς δὲ παρατυχόντας τοῦ
Κρατίνου, che si riferisce a un evento successivo a quelli descritti nelle righe
precedenti; è possibile che l’arrivo degli amici di Cratino coincidesse con
la parodo e che essi fossero, quindi, i componenti del coro del dramma41.
Opportuna, però, la notazione di Biles42 su una certa difficoltà relativa a
questa identificazione: «one wonders what characters would be recognized
as friends of Cratinus»43;

40
BAKOLA 2010, 277 (corsivo dell’autrice).
41
Questa ipotesi è ascritta sia da ROSEN 2000, 26 che da BILES 2002, 181, n. 40 a
RUNKEL 1827 (il riferimento preciso è assente in entrambi gli studiosi, si tratta
verisimilmente di p. 50) e a MEINEKE FCG I, 48 (il numero di pagina è dato dal solo
Rosen), dai quali dipenderebbe, poi, HEATH 1990, 150. In realtà tanto Runkel quanto
Meineke parlano solo in maniera generica, rispettivamente, di «amici poetae» e di
«Cratini familiares», senza specificare nulla sulla possibile scena del dramma, mentre
più specificamente risale a HEATH 1990, 150 l’ipotesi della parodo: «I take it that this
is the entry of the Chorus».
42
BILES 2002, 181 n. 40.
43
A proposito dei componenti del coro, interessante la notazione di QUAGLIA 1998,
26 n. 8: «lo scolio non dice se tra gli amici di Cratino figurasse un interlocutore
privilegiato, cioè un vero e proprio personaggio, o se Commedia si rivolgesse,
genericamente, ai coreuti. All’esistenza di un vero e proprio attore (e non semplice‑
mente del Corifeo) fa pensare il fr. 199 K.‑A. in cui un terzo personaggio (maschile,
come provato dal participio σποδῶν al v. 4) progetta di distogliere Cratino dal vizio
del bere».
244 Francesco Paolo Bianchi

5) τὴν δὲ μέμφεσθαι αὐτῷ ‑ τῇ μέθῃ (Μέθῃ). In seguito alla richiesta


degli amici di Cratino, Commedia spiega le ragioni del suo biasimo
(μέμφεσθαι); come ha indicato Bakola44 la pericope μὴ κωμῳδοίη μηκέτι,
σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ) si può intendere in due modi, a seconda che
si ammetta la possibilità che μ(/Μ)έθη fosse o meno una personificazione:
«‘he does not make comedies, but it is only concerned with drinking’ and
‘he does not sleep with me, but is constantly with her’».

Sulla base, quindi, delle informazioni verisimilmente deducibili dal testo


dello scolio ai Cavalieri, nella Pytinē è possibile supporre le seguenti scene
della parte iniziale della commedia:
1) un prologo in cui Commedia, moglie di Cratino, si lamentava del
trattamento subito dal poeta e annunciava di voler abbandonare il tetto
coniugale e intentare una causa contro il marito;
2) una parodo in cui entrava in scena il coro, composto dagli amici di
Cratino, che si prefiggeva come obiettivo quello di aiutare il poeta e
dissuadere Commedia dai suoi propositi;
3) una scena successiva alla parodo in cui Commedia, sotto richiesta
degli amici stessi di Cratino, spiegava le ragioni della propria ostilità nei
confronti del poeta.

4. Una questione particolare è se l’ultima di queste tre scene, successiva alla


presunta parodo, si possa identificare con l’agone della commedia, il quale,
in questo caso, avrebbe quindi avuto come suo tema la γραφὴ κακώσεως
di Commedia nei confronti di Cratino di cui parla lo scolio, ossia una scena
di processo che aveva Commedia e Cratino come contendenti. Questa
ipotesi è stata avanzata da Heath45 ed è possibile sia per il fatto che un
simile tema sarebbe perfettamente adatto a un agone; sia perché, per quello
che possiamo osservare dalla prassi di Aristofane, l’agone si colloca di
norma nella prima parte della commedia, dopo la parodo e prima della
parabasi, mentre quando è presente dopo quest’ultima scena ciò sembra
sempre rispondere a precise esigenze drammaturgiche46.

44
BAKOLA 2010, 281.
45
ΗΕΑΤΗ 1990, 150: «there followed a debate in which Comedy set out her
complaints and Cratinus defended himself».
46
PICKARD‑CAMBRIDGE 19622, 200, GELZER 1960, in part. 11‑37, DOVER 1972, 66.
Nelle commedie di Aristofane l’agone si situa prima della parabasi nelle Vespe (526‑
724), negli Uccelli (451‑638) e nella Lisistrata (476‑613); dopo la parabasi nei Cavalieri
(756‑940), nelle Nuvole (950‑1104) e nelle Rane (858‑1098). Nei Cavalieri si ha un agone
Il poeta protagonista del suo dramma 245

Un problema è, invece, rappresentato dal fatto che tutti i frammenti


della Pytinē che sembrano adattarsi a questo tema e potrebbero, quindi,
essere collocati nell’agone, sono in trimetri giambici e non nei metri
recitativi tipici di questa sezione, tetrametro giambico catalettico e
tetrametro anapestico catalettico; l’ipotesi addotta per spiegare questa
singolarità è che «in questo agone ampie sezioni in trimetri giambici
“sostituivano” i più comuni epirremi in tetrametri, perché il poeta intese
parodiare […] le rheseis tenute in tribunale»47. Un indizio di ciò sarebbe nel
fr. 197 K.‑A.: τὴν μὲν παρασκευὴν ἴσως γιγνώσκετε «forse conoscete il
complotto»48; questo trimetro giambico è tràdito da Clemente Alessandrino
(VI 20, 3) nella sezione dedicata ai furti degli scrittori e il contesto di
citazione con gli altri esempi addotti da passi di oratori49, mostra che
παρασκευή debba intendersi nel senso di ‘intrigo’, ‘macchinazione’50. Di
conseguenza questo frammento potrebbe essere l’inizio della «Cratini
criminibus uxoris responsuri oratio»51; il poeta inizierebbe così a denotare «di
fronte alla giuria la falsità delle accuse mosse contro di lui dalla donna,
alludendo all’«apparato» di menzogne che, dal suo punto di vista, la donna
gli ha opposto»52.

anche nella prima parte, prima della parabasi (303‑460), ma su scala minore rispetto
al secondo. L’agone manca in Acarnesi, Pace e Tesmoforiazuse; se ne ha testimonianza
nelle Ecclesiazuse (571‑709) e nel Pluto (487‑726), ma la nota mancanza della parabasi
in queste commedie le esclude da un termine di confronto.
47
QUAGLIA 1998, 27. HEATH 1990, 150 affermava, genericamente: «The fragments
indicate that this exchange was in iambic trimeters, rather than the recitative metres
we generally associate with a comic agon (although there is always a margin of
uncertainty about the assignment of fragments to any particular scene)», ma parlava
anche (ibid.) di parodia di un «cliché of legal oratory» a proposito del fr. 197 K.‑A. (v.
supra).
48
Trad. BETA 2009, 247.
49
Κρατίνου ἐν Πυτίνῃ εἰπόντος· τὴν μὲν παρασκευὴν ἴσως γινώσκετε,
Ἀνδοκίδης ὁ ῥήτωρ λέγει (1, 1)· «τὴν μὲν παρασκευήν, ὦ ἄνδρες δικασταί, καὶ τὴν
προθυμίαν τῶν ἐχθρῶν τῶν ἐμῶν σχεδόν τι πάντες εἴσεσθε». Ὁμοίως καὶ Λυσίας
ἐν τῷ πρὸς Νικίαν ὑπὲρ <παρα>καταθήκης (fr. 190 Sauppe) «τὴν μὲν παρασκευὴν
καὶ τὴν προθυμίαν τῶν ἀντιδίκων ὁρᾶτε, ὦ ἄνδρες δικασταί,» φησίν, καὶ μετὰ
τοῦτον Αἰσχίνης λέγει (3, 19)· «τὴν μὲν παρασκευὴν ὁρᾶτε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι,
καὶ τὴν παράταξιν».
50
«Intrigue, cabal» LSJ s.v. nr. 3, «intrigue, plot, trick» GE s.v., con i richiami,
esemplificativi, oltre ai passi citati alla nota precedente e dedotti dal passo di Clemente
Alessandrino, anche a Antiph. 5, 79, Lys. 12, 75, Demosth. 43, 32, Lycurg. 20.
51
KASSEL/AUSTIN PCG IV, 222.
52
QUAGLIA 1998, 51.
246 Francesco Paolo Bianchi

Il fatto che l’agone potesse avere forme strutturali differenti da quelle di


Aristofane, nello specifico delle rheseis in trimetri giambici, può essere
argomentata con la considerazione che nello stesso Cratino il fr. 6 K.‑A.
degli Archilochoi53, in esametri, è generalmente e convincentemente inter‑
pretato come la sphragis dell’agone, una possibilità questa dalla quale
potrebbe anche derivare l’ipotesi che questa intera sezione fosse in
esametri, in modo del tutto differente dalla prassi di Aristofane; bisogna,
però, rilevare che l’ipotesi di un agone basato su rheseis giudiziarie nella
Pytinē, non ha altri indizi che l’informazione dello scolio, in sé generica e il
discusso fr. 197 K.‑A. e rimane, quindi, dubbia.
Ad essa si oppone, d’altra parte, la possibile interpretazione di due
frammenti, il 20854 e il 20955 K.‑A., in genere intesi come parole di
Commedia che istruirebbe Cratino su come comporre correttamente un
dramma e sull’opportunità di inserirvi riferimenti a personaggi dell’attua‑
lità, nello specifico Clistene e Iperbolo; entrambi sono stati ascritti
all’agone56 e ciò è possibile per l’utilizzo del metro, il tetrametro giambico

53
Cratin. fr. 6 K.‑A.: εἶδες τὴν Θασίαν ἅλμην, οἱ᾽ ἄττα βαΰζει; / ὡς εὐ καὶ ταχέως
ἀπετείσατο καὶ παραχρῆμα. / οὐ μέντοι παρὰ κωφὸν ὁ τυφλὸς ἔοικε λαλῆσαι «Hai
visto la salamoia di Taso, quanto abbaia? / Come si è vendicata bene e in fretta e lì per
lì. / Non sembra certo che il cieco chiacchieri vicino a un sordo» (trad. BIANCHI 2016,
62). L’ipotesi di un’attribuzione del frammento alla sphragis dell’agone e la conseguente
possibilità di un intero agone omeoritmico in esametri è di PRETAGOSTINI 1982, 45‑47,
che sviluppa l’idea di una generica ascrizione all’agone già di ZIELIŃSKI 1887, 10‑11,
cf. BIANCHI 2016, 66‑67.
54
Cratin. fr. 208 K.‑A.: ληρεῖς ἔχων· γράφ᾽ αὐτόν / ἐν ἐπεισοδίῳ· γελοῖος ἔσται
Κλεισθένης κυβεύων / † ἐν τῇ τῇ κάλλους ἀκμῇ «Stai dicendo un sacco di
stupidaggini: / scrivilo nell’episodio. Il pubblico riderà / quando vedrà Clistene giocare
a dadi / nel fulgore della sua bellezza» (trad. BETA 2009, 249). Il testo di questo
frammento è stato talora sospettato: secondo MARZULLO 1959, 145 «γράφ(εται)
ταῦτ(α) ἐν ἐπεισοδίῳ, quale è lecito desumere dai codici, potrebbe considerarsi
annotazione marginale, poi intrusa nel frammento di Cratino. Dell’originario
compendio fanno fede le diverse lezioni: offrono anzi il maggiore indizio», ma non
sembra esserci motivo di dubitare del sostantivo ἐπεισόδιον del v. 2, v. MEINEKE FCG
II.1, 126 che confrontava Metag. fr. 15 K.‑A. (Philothytēs) κατ᾽ ἐπεισόδιον μεταβάλλω
τὸν λόγον κτλ., su cui v. PELLEGRINO 1998, p. 327 s., ORTH 2014, 468‑471; per la metrica,
inoltre, un inizio con due anapesti (ἐν ἐπεισοδίῳ), è raro, ma attestato in Ar. Eq. 414‑
415 e Ran. 920.
55
Cratin. fr. 209 K.‑A.: Ὑπέρβολον δ᾽ ἀποσβέσας ἐν τοῖς λύχνοισι γράψον
«spegni Iperbolo e scrivilo nel mercato delle lampade», trad. BETA 2009, 249.
56
Per il fr. 208 K.‑A., v. ZIELIŃSKI 1931, 87: «aut poeta lagaena orbatus inutilis
ostendebatur ad comoediam scribendam aut lagaena recuperata egregiam scribens fabulam
inducebatur», GELZER 1960, 182. Per il fr. 209 K.‑A., v. CRUSIUS 1889, 39: «Comoediam
Il poeta protagonista del suo dramma 247

catalettico. Questa ipotesi, però, è in contrasto con quella appena discussa


che l’agone contenesse uno scontro in trimetri giambici con parodie di
rheseis giudiziare, a meno di non pensare, ovviamente, che entrambe le
forme – le rheseis in trimetri giambici e sezioni in tetrametri giambici – e
entrambe le tematiche – confronto giudizario e precetti di composizione di
Commedia –, coesistessero nell’agone in forme che a noi non è possibile
ricostruire.
Data l’incertezza e i dati almeno apparentemente contraddittori, le
differenti possibilità restano in ogni caso ugualmente valide e non si può
giungere a una più precisa scelta su questo punto, così come su altri.

5. Dal testo dello scolio si ricava che all’inizio del dramma, nel prologo,
Commedia dichiarava di voler abbandonare il tetto coniugale e intentare
una causa a Cratino; nella scena successiva alla parodo, poi, la stessa
Commedia sotto richiesta degli amici di Cratino esponeva le ragioni della
propria ostilità. Se quest’ultima sezione del dramma coincideva con l’agone
(v. supra) allora i trimetri giambici che si possono attribuire a Commedia
saranno stati parte della sua rhesis giudiziaria; in caso contrario, essi si
potranno intendere come ciò che rimane di una scena episodica precedente
l’agone (perduto, tranne, forse, alcuni versi, cf. supra per i frr. 208 e 209 K.‑
A).
In più di un caso, comunque, il contenuto dei frammenti è coerente con
ciascuna di queste due scene e non risulta possibile un’ascrizione certa
all’una o all’altra; di ciò sono esemplificativi i frr. 193 K.‑A.: ἀλλ’ †
ἐπαναστρέψαι βούλομαι εις † τὸν λόγον. / πρότερον ἐκεῖνος πρὸς
ἑτέραν γυναῖκ’ ἔχων / τὸν νοῦν, κακὰς εἴποι πρὸς ἑτέραν· ἀλλ’ / ἅμα

audimus in agone nova quaedam poetae inventa corripientem atque veras τοῦ κωμῳδεῖν vias
monstrans», GELZER 1960, 182. Per il richiamo a personaggi dell’attualità politica, al
medesimo contesto dell’agone potrebbero forse rimandare anche le menzioni di
Antifonte, Licone e Cherefonte rispettivamente nei frr. 212, 214 e 215 K.‑A., sebbene la
loro genericità non escluda un qualsiasi altro riferimento, anche soltanto incidentale,
nel corso del dramma. Secondo HEATH 1990, 151 i due frammenti si collocano in una
scena successiva alla riconciliazione tra Cratino e Commedia e sono pronunciati da
quest’ultima; ciò è senz’altro possibile, ma se si tratta di una scena episodica non è
agevole capire il perché dei metri utilizzati. D’altra parte, se non si accetta
l’identificazione dell’agone con lo scontro verbale tra Cratino e Commedia, non
possiamo sapere se esso precedesse o meno la riappacificazione tra i due coniugi; data
la normale collocazione dell’agone (cf. n. 46), è possibile che fosse precedente, in una
fase iniziale della commedia, quando, di conseguenza, i contrasti tra i due coniugi
248 Francesco Paolo Bianchi

μὲν τὸ γῆρας, ἅμα δέ μοι δοκεῖ +< / † οὐδέποτ’ αὐτοῦ πρότερον57 e 194
K.‑A.: γυνὴ δ’ ἐκείνου πρότερον ἦ, νῦν δ’ οὐκέτι58. Il lessico è simile e in
entrambi la persona loquens è generalmente e con verisimiglianza
identificata in Commedia59, la quale nel primo frammento sosteneva che
quello (ἐκεῖνος, v. 2), cioè, con ogni verisimiglianza Cratino, rivolgeva le
sue attenzioni a un’altra donna (πρὸς ἐτέραν γυναῖκα ἔχων / τὸν νοῦν, v.
2 s., cf. v. 3 πρὸς ἑτέραν); nel secondo, in maniera simile, affermava che un
tempo lei stessa era stata la donna (γυνή) di quello, di nuovo il pronome
ἐκεῖνος, ma ora non lo era più (νῦν δ᾽ οὐκέτι)60.
Le affermazioni, generiche, di questi versi potevano trovare spazio
ugualmente sia nel prologo sia nella scena successiva alla parodo61. Ad
analoga conclusione porta, d’altra parte, un’analisi del contesto di citazione
del fr. 193 K.‑A.62: latore ne è il medesimo scolio che tramanda il riassunto

dovevano essere ancora lontani da una soluzione, ma ciò non esclude che i frr. 208 e
209 K.‑A. fossero parte dell’agone e venissero pronunciati da Commedia, che indicava
al marito come scrivere una commedia, senza, però, sortire effetti su questi che pensava
solamente al vino.
57
«Ma voglio riprendere da capo il mio discorso: / costui, prima, poichè aveva il
pensiero rivolto / a un’altra donna, … / ora, forse per la vecchiaia, forse … a me sembra
/ che non si comporti più come faceva un tempo», trad. BETA 2009, 245.
58
«Prima ero sua moglie, ma ora non lo sono più», trad. BETA 2009, 245.
59
Questa ipotesi risulta fin da RUNKEL 1827, 51 e, poi, da MEINEKE FCG I 48 ed è
generalmente accolta. Nel caso del fr. 193 K.‑A., come lo stesso Runkel (ibid.) rileva, il
fatto che si possa trattare di parole di Commedia è possibilmente deducibile dal testo
dello scolio ad Ar. Eq. 400a latore del frammento: subito dopo il riassunto della
commedia, infatti, che si conclude con la notazione τὴν δὲ (i.e. Κωμῳδίαν) μέμφεσθαι
αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ), lo scoliaste annuncia
di voler riportare αὐτὰ τὰ ἐπιτήδεια τῶν ἱάμβων ἐκλέξαντα; per quanto la
formulazione sia generica, l’interpretazione più ovvia appare quella che si tratti di
parole tratte dal discorso di Commedia stessa (cf. supra), il che sembra confermato dal
contenuto dei versi.
60
Anche il fr. 204 K.‑A. (ἀλλ’ οὐδὲ λάχανον οὐδὲν οὐδ’ ὀστοῦν ἔτι / ὁρῶ) in cui
qualcuno lamenta una condizione di povertà, potrebbe essere appartenuto alle accuse
di Commedia al marito, cf. FRITZSCHE 1835, 267: «Comoedia marito egestatem quoque
criminis loco obiecerat» e HEATH 1990, 150: «it is possible that another ground of
complaint was poverty». Secondo QUAGLIA 1998, 27: «il tenore di questa rimostranza,
in cui Commedia parrebbe lamentare di essere ridotta a fare la fame, senza vedere più
verdura e nemmeno gli ossi della carne, è tutto sommato inadatta ad un’arringa di
accusa in tribunale e può essere assegnata al prologo. Così pure il fr. 194 K.‑A. […] ha
il tono di un’amara constatazione più che di un’accusa».
61
Al prologo i due frammenti sono ascritti, ad esempio, da OLSON 2007, 81, mentre
le due alternative (prologo e scena successiva alla parodo) sono considerate equivalenti
da BETA 2009, 245, nn. 211‑212.
62
Il fr. 194 K.‑A. è tràdito per un motivo grammaticale, l’attestazione di ἦ
Il poeta protagonista del suo dramma 249

della commedia (cf. supra), nel quale, subito dopo questa sezione ricorrono
le parole οὐδὲν δὲ χεῖρον πολυμαθίας ἕνεκεν αὐτὰ τὰ ἐπιτήδεια τῶν
ἰάμβων ἐκλέξαντα θεῖναι ταῦτα63, cui segue immediatamente la citazione
del frammento. Dal momento che la pericope οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι
ταῦτα e i cinque versi del fr. 193 K.‑A.64 ricorrono dopo la fine del riassunto,

monosillabico, in Porph. ad Hom. E 533 (quaest. hom. ad Il. pert. p. 83, 32 s. Schrader) (rr.
20‑24): τῶν δὲ Ἀττικῶν οἱ μὲν ἀρχαῖοι μονογράμματον αὐτὸ προεφέροντο, οἱ δὲ
νεώτεροι σὺν τῷ καθάπερ τῶν πρεσβυτέῶν τινές. χρῆται δὲ τούτῳ ὁ ποιητὴς ποτὲ
μὲν εἰς δύο συλλαβὰς διαιρῶν αὐτὸ καὶ δύο γράμματα βραχέα [… rr. 29‑33] τὸ δὲ
μονοσύλλαβον οὐχ εὑρίσκομεν παρ’ αὐτῷ κατὰ τῆς δυνάμεως ταύτης ἀλλὰ κατὰ
τὴν ἑτέραν <τῆς ἑτέρας L> μόνον. τῶν δὲ Ἀττικῶν ἐστι παρὰ Κρατίνῳ ἐν Πυτίνῃ·
γυνὴ ‑ οὐκέτι (seguono gli ulteriori esempi di S. fr. 447 Radt [Niobē], OT 1123, Pl. Rp.
1, 328c 7).
63
«E non è male per la polymathia scegliere queste parti appropriate dei giambi e
riportarle», cf. LUPPE 1968, 189: «keineswegs aber ist es schlecht, um vielseitiger
Kenntnis willen das Geeignete der Iamben selbst herauszugreifen und dieses
anzuführen». Per questa formulazione, lo stesso LUPPE 1968, 188 riporta il confronto
con uno scolio di Giovanni Logoteta a Hermog. Meth. 28, p. 144 s. Rabe (Aus Rhetoren‑
Handschriften. 5. Des Diakonen und Logotheten Johannes Kommentar zu Hermogenes Περὶ
μεθόδου δεινότητος, “RhM” 63 (1908), 127‑151), dove si legge: οὗτος ὁ στίχος [Ζεύς,
ὡς λέλεκται τῆς ἀληθείας ὕπο, citato da Ermogene) ἐν δυσὶν εὗρηται δρἀμασιν
Εὐριπίδου, ἔν τε τῷ λεγομένῳ Πειρίθῳ [= Crit. TrGF 43 F 1, v. 9 Snell‑Kannicht] καὶ
ἐν τῇ Σοφῇ Μελανίππῃ [TrGF V.1, fr. 481, v. 1 Kannicht], ὧν καὶ τὰς ὑποθέσεις καὶ
τὰ χωρία οὐκ ἄκαιρον ἐκθεῖναι τοῖς ἀσπαζομένοις τὴν πολυμάθειαν.
64
Un problema particolare è rappresentato da ἀλλ’ † ἐπαναστρέψαι βούλομαι εις
† τὸν λόγον, in genere considerato (fin da RUNKEL 1827, 50‑51) il primo dei cinque
versi del fr. 193 K.‑A. Secondo un’ipotesi proposta da LUPPE 1968, non si tratterebbe,
invece, di ipsissima verba del commediografo, ma dopo οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι ταῦτα
si deve intendere una lacuna nella quale erano presente la citazione di alcuni versi del
discorso di Commedia; quindi lo scoliaste avrebbe aggiunto qualche nota e, di seguito,
con la frase ἀλλ᾽ ‑ τὸν λόγον introduceva una nuova citazione del discorso di
Commedia. Di conseguenza, la citazione vera e propria di Cratino inizierebbe
dall’attuale v. 2. Ciò permetterebbe, secondo lo stesso Luppe, di ovviare ai problemi
testuali, metrici e di significato del v. 1 (di cui è dato uno status quaestionis a p. 191) e
tale ipotesi sarebbe, inoltre, confermata dal confronto con prassi di citazioni analoghe
di altri scoli, in particolare quello di Giovanni Logoteta a Hermog. Meth. 28, 30 e 36
Rabe (cf. n. 63), in cui la formulazione è molto simile a quella dello scoliaste ai Cavalieri:
«man könnte fast glauben, daß unser Aristophanesscholion letzlich auf denselben
Mann zurückgeht, der den betreffenden Hermogeneskommentar verfaßte, welchen
Johannes und Gregor ausschreiben. Ein Geistesverwandter ist es gewiß» (LUPPE 1968,
189). Recentemente, OLSON 2007, 81‑2 ascrive il verso a Cratino e sottolinea la valenza
specifica di λόγος «the story […], i.e. the plot of the play, the speaker having gone off
momentarily on a tangent, perhaps as part of the process of warming up the audience
at the very beginning of the action», mentre BAKOLA 2010, 282 e n. 139 è incline a
pensare che si tratti di parole dello scoliaste. Se si ammette l’ipotesi di Luppe sul v. 1,
250 Francesco Paolo Bianchi

si potrebbe supporre che il riferimento fosse alla scena dopo la parodo in


cui Commedia spiegava le ragioni della sua ostilità, e il contenuto stesso
dei versi sembra adattarsi alle immediatamente precedenti parole dello
scoliaste τὴν δὲ μέμφεσθαι αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ
τῇ μέθῃ; d’altra parte, però, la frase οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι ταῦτα è
generica e, poiché la tematica del prologo era simile, non si può escludere
una collocazione anche in questa sezione.
A differenza di questi due casi, una maggiore probabilità di collocazione
sembra essere possibile per il frammento 196 K.‑A.: τὸν δ’ ἴσον ἴσῳ
φέροντ’· ἐγὼ δ’ ἐκτήκομαι65; la presenza esplicita, infatti, del tema del vino
lascia verisimilmente supporre un’ascrizione alla scena successiva alla
parodo, in cui Commedia si lamentava che il marito passasse il tempo con
μ(/Μ)έθη (σχολάζοι δὲ τῇ μ(/Μ)έθῃ). Tràdito da Ateneo (X 426b) per
documentare l’impiego dell’espressione ἴσον ἴσῳ, il verso potrebbe essere
stato pronuciato da Commedia, la quale esprimeva il proprio dolore
(ἐκτήκομαι) per il fatto di non essere amata da Cratino, i cui pensieri erano
rivolti al vino66.
Una possibilità analoga si ha anche per il fr. *195 K.‑A.: νῦν δ’ ἢν ἴδῃ
Μενδαῖον ἡβῶντ’ ἀρτίως / οἰνίσκον, ἕπεται κἀκολουθεῖ καὶ λέγει, / οἴμ’
ὡς ἁπαλὸς καὶ λευκός. ἆρ’ οἴσει τρία;67, la cui appartenza alla Pytinē è
però dubbia; il frammento è, infatti, tràdito in forma anepigrafa da Ateneo68

lo scoliaste avrebbe riportato due parti di un discorso di Commedia, la seconda delle


quali introdotta dalla frase ἀλλ᾽ ‑ τὸν λόγον e, quindi, i vv. 2‑5 del fr. 193 K.‑A.
sarebbero il seguito di un discorso iniziato in precedenza; se, invece, si attribuisce a
Cratino anche il v. 1, con esso Commedia annuncerebbe di voler riepilogare il proprio
discorso (ma† ἐπαναστρέψαι è dubbio in questo valore e in connessione con λόγον,
cf. LUPPE 1968, 190 s. in part. 190 n. 2) cosa che farebbe nei versi successivi.
65
«Il vino che può essere mescolato a metà con l’acqua: e io mi struggo di dolore»,
trad. BETA 2009, 245.
66
«Loquitur Comoedia […] Dum Cratinus nihil nisi vinum cogitet, se dicit inrito poetae
amore tabescere», KOCK CAF I, 69. Lo stesso Kock (ibid.) commentava con «perperam, si
quid video» l’ipotesi già di DOBREE Adversaria II, 326 e poi di MEINEKE FCG II.1, di
leggere ἔγωγ᾽ ἐκτήκομαι in luogo di ἐγὼ δ᾽ἐκτήκομαι «ut sint ipsius Cratini verba vini
ad dimidiam partem aqua mixti desiderio se tabescere confitentis»; una tale modificazione
del testo non appare, infatti, in alcun modo necessaria.
67
«Ora, se vede un vinello di Mende appena stappato, / lo segue, gli sta alle
calcagna e gli dice / ‘Quanto sei delicato e pallido … Se ti mescolo / con tre parti
d’acqua, riuscirai a resistere?’», trad. BETA 2009, 245.
68
Athen. epit. I 29d. La citazione dei tre versi serve a documentare l’attestazione
del vino di Mende (Μενδαῖος); per analogo motivo sono menzionati, subito di seguito,
Ermippo (fr. 77 K.‑A., inc. fab.) e Fania di Ereso (fr. 40 Wehrli). Le ultime parole del
terzo verso di Cratino (ἆρ’ οἴσει τρία;) sono, con ogni verisimiglianza, il lemma di
Il poeta protagonista del suo dramma 251

e una sua ascrizione alla Pytinē fu proposta per primo da Runkel69, poi
generalmente seguito. Il tema dei versi, nei quali appare descritta una
relazione di natura omosessuale in cui il vinello di Mende (Μενδαῖον … /
οἰνίσκον) è associato a un ragazzo adolescente (ἡβῶντ᾽(α)) definito poi
ἁπαλός e λευκός70, è senz’altro coerente con quello che sappiamo dell’argo‑
mento di questo dramma ed è stato più volte evidenziato un parallelo con
il già discusso frammento 196 K.‑A. (v. infra); tuttavia, nulla permette di
escludere con certezza che questi versi ricorressero in un’altra delle
commedie di Cratino, in una scena in cui un personaggio veniva additato
per la sua vinolenza, descritta come un rapporto omoerotico71. Se si
ammette l’attribuzione alla Pytinē, il personaggio di cui si parla in terza
persona (1, ἴδῃ; 2, ἕπεται κἀκολουθεῖ καὶ λέγει) e di cui si riferiscono le
parole (3) può essere con ogni probabilità proprio Cratino; la persona loquens
potrebbe, invece, essere Commedia72, la quale direbbe che Cratino «ha in
testa ora solo il vino e prova per il liquore di Bacco lo stesso trasporto
erotico che gli Ateniesi adulti provavano per i giovani dalla pelle liscia e
dalla carnagione pallida»73 e, poi, nel fr. 196 K.‑A., aggiungerebbe che egli
«ama non solo i vini che hanno poco corpo (come il vino giovane di Mende
[…]), ma anche quelli che possono essere miscelati fifty‑fifty con l’acqua,
causando[le] terribili pene d’amore»74.
É possibile, però, anche una differente ipotesi, valida per tutti e due i
frammenti: a parlare potrebbe essere in entrambi uno degli amici di
Cratino75 che ne descriverebbe la vinolenza e le conseguenti sofferenze che

Hsch. α 7384 (nel quale non è presente alcun richiamo al commediografo), poiché tale
espressione non ha altre ricorrenze almeno nella documentazione a noi nota. V.
KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221 e BIANCHI 2017, 47 per i frammenti di Cratino tràditi in
Ateneo e in Esichio.
69
RUNKEL 1827, 84.
70
Questa interpretazione è già di MEINEKE FCG II.1, 117: «loquitur autem de elumbi
οἰνίσκῳ tamquam de delicatulo νεανίσκῳ, quorum mollities sollenniter significatur ἀπαλὸς
καὶ λευκός», cf. anche KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221, OLSON 2007, 82‑83, BAKOLA 2010,
282‑283, STOREY 2011, I, 369.
71
Opportunamente, KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221 notano, a proposito della
ricorrenza di analoghe scene: «simili iocandi genere indulget Aristophanes Equ. 1390 sq.,
cf. et Ach. 994».
72
FRITZSCHE 1835, 269.
73
BETA 2009, 244‑245, n. 213.
74
BETA 2009, 244‑245, n. 214. Nella citazione originale: «causando in Commedia».
75
Per il frammento *195 K.‑A. questa ipotesi era avanzata da RUNKEL 1827, 84: «Hoc
fragmentum e Πυτίνη forsan petitum est, ita ut amicus Cratini haec de eo loquatur». Gli amici
di Cratino dovevano verisimilmente costituire il coro del dramma, cf. p. 243.
252 Francesco Paolo Bianchi

essa causa (ἐκτήκομαι); poiché un’analoga identificazione del locutore è


proposta anche per il fr. 199 K.‑A., in cui si discute del modo di liberare il
poeta dalla sua passione per il vino (v. infra), si potrebbe allora supporre
una collocazione dei frr. *195 e 196 K.‑A. anziché nella scena dopo la
parodo, in un momento dell’azione drammatica precedente, con ogni
verisimiglianza, quello fr. 199 K.‑A.

6. I frammenti finora discussi si attribuiscono, in genere, alle scene iniziali


del dramma, quelle di cui è data notizia nel riassunto dello scolio. Nel caso,
però, dei frr. *195 e 196 K.‑A., come si è visto, si potrebbe pensare anche ad
una loro ricorrenza in un differente contesto, a noi non noto, lo stesso del
fr. 199 K.‑A.; inoltre, i frr. 208 e 209 K.‑A. potevano forse essere parte del
perduto agone della commedia, se esso non era, in maniera del tutto
peculiare, in trimetri giambici o se parti in trimetri e parti in tetrametri
coesistevano in forme che non possiamo spiegare (v. pp. 244‑247). Per altri
frammenti della Pytinē si deve, poi, pensare a momenti dell’azione
drammatica non deducibili dal testo dello scolio e che si possono, quindi,
congetturare solamente ex silentio.
1) Nel fr. 199 K.‑A.: πῶς τις αὐτόν, πῶς τις ἂν† / ἀπὸ τοῦ πότου
παύσειε, τοῦ λίαν πότου; / ἐγᾦδα. συντρίψω γὰρ αὐτοῦ τοὺς χόας, / καὶ
τοὺς καδίσκους συγκεραυνώσω σποδῶν, / καὶ τἄλλα πάντ’ ἀγγεῖα τὰ
περὶ τὸν πότον, / κοὐδ’ ὀξύβαφον οἰνηρὸν ἔτι κεκτήσεται76, la persona
loquens è senza dubbio un uomo (σποδῶν, v. 3) e si può, quindi,
probabilmente pensare a uno degli amici di Cratino componenti il coro
come proposto da Runkel e Meineke77, il quale afferma la propria inten‑
zione di volere liberare il poeta, che andrebbe identificato nell’αὐτόν di v.

76
«Ma come, come si potrebbe, / fargli passare il vizio di bere, di bere troppo? / Io
lo so: fracasserò le sue coppe, fulminerò / riducendole in polvere le sue bottiglie / e
tutti i recipienti che usa per bere: / non avrà più nemmeno una scodellina per il vino!»,
trad. BETA 2009, 247.
77
RUNKEL 1827, 51: «amici de Cratino a vinositate liberando colloquuntur»; MEINEKE
FCG II.1, 122: «Colloquuntur Cratini familiares […] de medenda poetae vinositate consilia
agitantes». V. anche FRITZSCHE 1835, 272‑273: «deliberat iam unus ex amici de Cratino, quem
ex homine vinolento reddi sobrium capit»; KOCK CAF I, 70: «loquitur unus ex amici Cratini
sibique ipse interroganti respondet, ante pacem inter poetam et Comoediam, ut videtur,
restitutam»; OLSON 2007, 83: «spoken by a male character (note 4 σποδῶν), presumably
one of ‘Cratinus’’ friends, who is eager to put an end to his drinking and reconcile him
to Comedy». A Hermes il frammento è ascritto, invece, da ZIELIŃSKI 1931, 6, ma non
vi è nessun indizio della presenza del dio in questa commedia, cf. KASSEL/AUSTIN PCG
IV, 224.
Il poeta protagonista del suo dramma 253

1 e nell’αὐτοῦ di v. 3, dalla sua eccessiva dipendenza del vino; a questo


scopo, la soluzione proposta è quella di distruggere ogni tipo di orcio
esistente, in modo che non rimanga più alcun contenitore per il vino. Come
suggerito da Heath78, l’agone non aveva risolto il contrasto tra Cratino e
Commedia, il poeta non era ancora libero dalla propria dipendenza e, per
questo, veniva ora espresso il proposito di distruggere tutti i recipienti;
l’enunciazione di tale proposito poteva, comunque, trovare luogo in un
momento imprecisato dell’azione drammatica, certamente successivo a
quelli descritti nello scolio, ma non necessariamente connesso con l’agone.
2) A un contesto analogo al precedente potrebbe essere attribuito anche
il fr. 201 K.‑A.: ὄψει γὰρ αὐτὴν ἐντὸς οὐ πολλοῦ χρόνου / παρὰ τοῖσι
δεσμώταισι καταπιττουμένην79, di incerta interpretazione80, che richiama
l’atto di ricoprire le damigiane con la pece e menziona i carcerieri
(δεσμώται); secondo l’interpretazione proposta da Kock81: «videtur uxor
Cratini lagenam furtim abstulisse quaerentemque maritum consolari refici eam
dicens apud carceris custodes».
3) Nel fr. 202 K.‑A.: ἆρ᾽ ἀραχνίων μεστὴν ἔχεις τὴν γαστέρα82, è forse
possibile vedere le conseguenze della distruzione dei contenitori e
dell’astinenza forzata dal vino alla quale Cratino era costretto; la domanda
«hai il ventre pieno di ragnatele?» potrebbe infatti essere rivolta proprio
dal poeta alla sua damigiana, la πυτίνη, vuota e per questo piena di
ragnatele: «videntur haec Cratini verba esse, lagenam suam dilectissimam sed pro
dolor! vino vacuam compellantis»83.

78
HEATH 1990, 150‑151.
79
«La vedrai, infatti, tra non molto tempo / ricoperta di pece dai carcerieri», trad.
di chi scrive.
80
Una valenza erotica del verbo καταπιττόω è proposta da HENDERSON 1991, 145
«πίττα, pitch or resin, indicates the female secreta at V 1375 […] καταπισσόω, to smear
with pitch, indicates sexual aggressiveness, to render wet through intercourse, as at E
1108 f, Cratin. 189 [= 201 K.‑A.]» (analogo valore è proposto anche per ὑπεπίττουν in
Ar. Plut. 1093) e un valore erotico era già stato proposto da Hemsterhuis nel 1744 sulla
base del già citato passo del Pluto (in: Aristophanis comoedia Plutus. Adiecta sunt
scholia vetusta. Recognovit ad veteres membranas, variis lectionibus ac notiis instruxit,
et scholiastas locupletavit Tiberius Hemsterhuis, Editio nova, Appendice aucta, Lipsiae
1811 [1a: Harlingae, ex officina Volkeri van der Plaats 1744]. La proposta nel commento
al v. 1094 della sua edizione, p. 411, di entrambe le edizioni), mentre un significato
letterale del verbo, riferito all’atto di ricoprire con pece le damigiane, è sostenuto da
MEINEKE FCG II.1, 127‑129 (cf. BILES 2002, 183‑184 e v. anche BAKOLA 2010, 283 e n.
144).
81
Kock CAF I, 71.
82
«Hai il ventre pieno di ragnatele?», trad. BETA 2009, 247.
83
MEINEKE FCG II.1, 129.
254 Francesco Paolo Bianchi

4) Nel fr. 200 K.‑A.: ἀτὰρ ἐννοοῦμαι δῆτα τὰς μοχθηρίας / τῆς †
ἠλιθιότητος τῆς ἐμῆς84 chi parla esprime chiaramente il suo rammarico
per gli errori (μοχθηρίας) dovuti alla propria sciocchezza (ἡλιθιότητος)
di cui ora si rende conto (ἐννοοῦμαι); appare verisimile l’interpretazione
di Runkel che si tratti dei «verba Cratini resipiscentis»85.
5) Il fr. 211 K.‑A.: ὦ λιπερνῆτες πολῖται, τἀμὰ δὴ ξυνίετε86, contiene
una citazione esplicita di un celebre verso di Archiloco (fr. 109 W.2): < ὦ >
λιπερνῆτες πολῖται, τἀμὰ δὴ ξυνίετε / ῥήματα87. Questo stesso verso è
citato in forma simile anche in Ar. Pac. 603‑604: ὦ σοφώτατοι γεωργοί,
τἀμὰ δὴ ξυνίετε / ῥήματ᾽, dove si ha γεωργοί in luogo di πολῖται, e in
Eupol. fr. 392, 1 s. K.‑A. (inc. fab.): ἀλλ’ ἀκούετ’, ὦ θεαταί, τἀμὰ καὶ
ξυνίετε / ῥήματ’· εὐθὺ γὰρ πρὸς ὑμᾶς πῶτον ἀπολογήσομαι, in cui è
preceduta da un’allocuzione (ἀλλ᾽ ἀκούετ᾽, ὦ θεαταί) che in Aristofane
ricorre in forme simile sempre all’inizio della parabasi88; il frammento
cratineo poteva, allora, provenire proprio da questa sezione e, in questo
caso, il vocativo iniziale ὦ λιπερνῆτες πολῖται sarebbe stata un’allocuzione
diretta al pubblico, ma, come mostra il già citato passo della Pace, il verso
di Archiloco poteva anche essere semplicemente utilizzato nel corso di uno
degli episodi da parte di uno dei personaggi, con una funzione che non ci
è possibile determinare. Per un’ascrizione alla parabasi, secondo Heath89,
in particolare, questo frammento «criticized the citizens for neglecting the
navy» e si può inserire nel medesimo contesto del fr. 210 K.‑A.: οὐ δύνανται
πάντα ποιοῦσαι νεωσοίκων λαχεῖν, / οὐδὲ κάννης, nel quale «one can
detect an echo of the personified triremes of the second parabasis of
Knights»90.
6) Il fr. 213 K.‑A.: (ex schol. vet. [VEΓΘΜ] Ar. Eq. 531a) ταῦτα ἀκούσας ὁ
Κρατῖνος ἔγραψε τὴν Πυτίνην, δεικνὺς ὅτι οὐκ ἐλήρησεν· ἐν ἧ κακῶς
λέγει τὸν Ἀριστοφάνην ὡς τὰ Εὐπόλιδος λέγοντα91 potrebbe provenire

84
«Ora capisco finalmente i disastri / provocati dal mio stupido comportamento»,
trad. BETA 2009, 249.
85
RUNKEL 1827, 52.
86
«O miserabili cittadini, ascoltate dunque le mie…», trad. di chi scrive.
87
«O cittadini miserabili, ascoltate dunque / le mie parole», trad. RUSSELLO 1993,
115.
88
V. OLSON 2014, 148‑150.
89
HEATH 1990, 151.
90
Ar. Eq. 1300‑1315, versi dell’antepirrema della seconda parabasi (1264‑1315). Sulla
base del confronto con questi versi di Aristofane, il fr. 210 K.‑A. di Cratino era già stato
assegnato alla parabasi da KASSEL/AUSTIN PCG IV, 230: «ex parabasi. Cf. Ar. Eq.
1300sqq.».
91
«Cratino, quando ebbe udite queste parole […], compose la Damigiana, indicando
Il poeta protagonista del suo dramma 255

ancora dalla parabasi; come riporta lo scolio latore del frammento,


dall’accusa di vaneggiare, farneticare (Ar. Eq. 531: παραληροῦντ᾽(α), 536
ληρεῖν) Cratino «si era difeso accusando Aristofane, il giovane poeta
emergente, di essere un plagiario di Eupoli»92. Una tale formulazione
poteva chiaramente trovare luogo nella parabasi93, il momento privilegiato
per questo tipo di discussioni, ma, poiché l’intera Pytinē era una risposta
di Cratino al ritratto del rivale, è senz’altro possibile che questa accusa
potesse ricorrere anche altrove nel corso dell’azione drammatica.
7) I frr. 198 e *203 K.‑A. sono tra i più celebri di Cratino. Il fr. 198 K.‑A.:
ἄναξ Ἄπολλον,τῶν ἐπῶν τoῦ ῥεύματος, / καναχοῦσι πηγαί·
δωδεκάκρουνον <τὸ> στόμα, / Ἰλισὸς ἐν τῇ φάρυγι· τί ἂν εἴποιμ’ <ἔτι>; /
εἰ μὴ γὰρ ἐπιβύσει τις αὐτοῦ τὸ στόμα, / ἅπαντα ταῦτα κατακλύσει
ποιήμασιν94, è citato in uno scolio ai Cavalieri di Aristofane a proposito del
ritratto qui presente del commediografo e, in particolare, dell’espressione
πολλῷ ῥεύσας ποτ᾽ ἐπαίνῳ e del fatto che Cratino nella Pytinē avesse
grandemente esaltato con questi versi la propria poetica (περὶ αὑτοῦ
μεγαληγορῶν; ἑαυτὸν ἐπῄνεσεν)95; secondo un’interpretazione di
Kaibel96 «audita Cratini defensione, incertum Comoediae haec verba fuerint an
chori» e, quindi, questi versi potrebbero essere stati parole o di Commedia
stessa o del coro dopo che Cratino aveva pronunciato la propria difesa nel
confronto con Commedia97. Rispetto a questa ipotesi, possibile, si deve

che non parlò a vanvera. In questo dramma sparla di Aristofane come di uno che dice
le cose di Eupoli», trad. SONNINO 1998, 26.
92
SONNINO 1998, 26‑27. V. lo stesso contributo di Sonnino per le polemiche tra i
commediografi e i relativi scambi di accuse.
93
Così HEATH 1990, 151.
94
«O signore Apollo, che torrente di parole! / Le fonti risuonano, la bocca ha dodici
sorgenti, / nella sua gola c’è il fiume Ilisso. Che altro potrei dire? / Se nessuno gli
tapperà la bocca, / inonderà ogni cosa con le sue poesie», trad. BETA 2009, 247.
95
Schol. [VEΓ3Θ] et Tricl. [Lh] Ar. Eq. 526a δοκεῖ δέ μοι Ἀριστοφάνης ἀφ’ ὧν εἶπε
Κρατῖνος περὶ αὑτοῦ μεγαληγορῶν, ἀπὸ τούτων καὶ αὐτὸς τὴν τροπὴν εἰληφέναι·
ὁ γὰρ Κρατῖνος οὕτω πως ἑαυτὸν ἐπῄνεσεν ἐν τῇ Πυτίνῃ). Chiaramente erronea la
notazione dello scoliaste che «capovolge il rapporto tra Cavalieri e Πυτίνη,
prospettando la Priorität di Cratino», CONTI BIZZARRO 1999, 66, cf. OLSON 2007, 86; lo
scolio ad Ar. Eq. 400, che riporta un riassunto della Pytinē (v. supra), indica chiaramente
la corretta cronologia (confermata, d’altra parte, dall’argumentum alle Nuvole prime,
Arg. A 6 (VERs) Ar. Nub. 4, rr. 12‑17 Holwerda = arg. V, 134, 1‑6 Wilson 2007, cf. BIANCHI
2017, 302‑303) e il fatto che il dramma di Cratino fosse una reazione a quello di
Aristofane.
96
KAIBEL apud KAßEL/AUSTIN PCG IV, 223.
97
Così, ad es., anche HEATH 1990, 150 e OLSON 2007, 86‑87.
256 Francesco Paolo Bianchi

rilevare che se, come visto, tale confronto coincideva con l’agone, l’utilizzo
del metro, anche in questo caso il trimetro giambico, obbligherebbe a
pensare a una forma strutturale differente da quella nota da Aristofane.
Il fr. *203 K.‑A.: ὕδωρ δὲ πίνων οὐδὲν ἂν τέκοι σοφόν98, è una delle più
famose enunciazioni dell’ispirazione poetica derivante dal vino, destinato
a divenire, nella tradizione successiva, esemplificativo della polemica «fra
i sostenitori della lucida e fredda raffinatezza poetica dei contemporanei, i
cosiddetti aquae potores, e coloro che vagheggiavano la sanguigna
ispirazione degli antichi, cioè i bevitori di vino»99; il verso è tràdito in forma
anepigrafa e la sua attribuzione alla Pytinē risale a Meier negli anni venti
dell’Ottocento, poi seguito praticamente senza eccezioni100. Come ha
rilevato Biles, il fatto che in questo dramma «Cratinus notoriously made
his alcoholism and poetic activity the centerpiece of the action […] would
explain why the statement does not take the form of an anapestic tetrameter
or another long‑line verse better suited to a self‑reflexive poetic assertion
in a parabasis»101; secondo, però, quanto opportunamente evidenziato in
precedenza dallo stesso Biles «one must admit that with its Archilochean
resonance this fragment would be appropriate in any place where Cratinus
clarified his poetics»102. A ciò Bakola103 ha aggiunto la possibilità, teorica,
che negli Archilochoi, ad esempio, potesse essere proprio il giambografo di
Paro, che sappiamo essere stato una della dramatis personae104, a pronunciare
questo verso, coerente con enunciazioni analoghe che si trovano nella sua
opera, ad es. il celebre fr. 120 W.2: ὡς Διωνύσου ἄνακτος καλὸν ἐξάρξαι
μέλος / οἶδα διθύραμβον οἴνωι συγκεραυνωθεὶς φρένας105. Il fatto che,
quindi, il metro, il trimetro giambico, ne precluda un’ascrizione alla
parabasi non implica, allora, che tale affermazione di poetica non potesse
ricorrere nel corso dell’azione drammatica di una qualsiasi delle opere di
Cratino, tra cui, ovviamente, ma non necessariamente, anche la Pytinē
stessa.

98
«Se bevi acqua non potrai creare nulla di saggio», trad. BETA 2009, 249.
99
TOSI 1991, 347 n. 741 con ulteriore bibliografia. Cf. anche IMPERIO 2004, 210‑213.
100
M.H.E. MEIER, Der Attische Process, Halle 1824, III, 289. Per ulteriore bibliografia
sull’ascrizione del verso alla Pytinē, v. la documentazione in BIANCHI 2017, 400 e nn.
552‑553, cf. in gen. 397‑402 ad Cratin. test. 45 K.‑A. per Nic. epigr. 5 G.‑P. (AP XIII 29),
fonte principale del frammento, nel cui epigramma anche il v. 1 (οἶνός τοι χαρίεντι
πέλει ταχὺς ἵππος ἀοιδῷ) è stato talora considerato di paternità cratinea.
101
BILES 2014, 4.
102
BILES 2002, 173.
103
Bakola 2010, 56‑57.
104
V. Cratin. fr. 6 K.‑A. su cui cf. BIANCHI 2016, 62‑71.
105
«Come so dare inizio al bel canto del signore Dioniso, / il ditirambo, con la mente
folgorata dal vino», trad. RUSSELLO 1993, 119.
Il poeta protagonista del suo dramma 257

Da rilevare, infine, che, ammessa un’appartenenza del fr. *203 K.‑A. a


questa commedia di Cratino, secondo un’ipotesi già di Meineke106 poi
ripresa, ad esempio, da Heath107 esso poteva collocarsi, così come i cinque
versi del fr. 198 K.‑A. (v. supra), all’interno del discorso di replica di Cratino
nel confronto di tono giudiziario con Commedia che potrebbe aver
costituito l’agone della commedia108.

7. La Pytinē fu il trionfale canto del cigno dell’ormai anziano Cratino109; un


successo clamoroso e probabilmente anche inatteso, che relegò a un misero
e cocente terzo posto le Nuvole prime di Aristofane; una sconfitta che al
giovane commediografo bruciò tanto di più per l’alta considerazione in cui
egli teneva questa sua commedia, ritenuta da lui stesso la sua migliore (Ar.
Nub. 521 s. ἡγούμενος … / ταύτην σοφώτατ’ ἔχειν τῶν ἐμῶν κωμῳδιῶν),
e di quella disfatta si doleva con vivo astio nella parabasi della διασκευή,
la versione rielaborata, mai messa in scena, ma l’unica che noi oggi
possiamo leggere110. Ad Aristofane la rivalsa venne, in certo senso, dai
posteri: undici delle sue commedie sono giunte a noi per tradizione
manoscritta e tra di esse le Nuvole, anche se non l’edizione originale ma il
suo rifacimento, assieme alle Rane e al Pluto costituirono la triade bizan‑

106
MEINEKE FCG I, 48.
107
HEATH 1990, 150.
108
Un problema particolare è se, come potrebbe essere verisimile, alla Pytinē e a
uno dei momenti di più acuta polemica con Aristofane, si possa ascrivere il celebre
frammento incertae sedis 342 K.‑A. τίς δὲ σύ; κομψός τις ἔροιτο θεατής. / ὑπολεπτο‑
λόγος, γνωμιδιώκτης, εὐριπιδαριστοφανίζων «“E tu chi sei?”, chiederebbe uno
spettatore colto e raffinato. / Un uomo sottile, che ama le sentenze lambiccate, un mix
di Euripide e di Aristofane», trad. BETA 2009, 93, sulla cui interpretazione v. da ultimo
MASTROMARCO 2017.
109
Dopo il 423 a.C. è incerto se Cratino avesse proseguito ancora per qualche anno
la propria carriera drammaturgica, non c’è testimonianza certa di sue partecipazioni
agli agoni, ma sembra che una sua attività possa collocarsi ancora subito prima della
Pace di Aristofane (421 a.C.), cf. n. 18.
110
Sulla questione delle due versioni delle Nuvole, v. da ultimi MUREDDU/NIEDDU
2015, 58‑62 con bibliografia precedente. Per gli attacchi di Aristofane a seguito della
sua sconfitta, v. schol. E Ar. Nub. 525 dove del verso ταῦτ’ οὖν ὑμῖν μέμφομαι viene
data la spiegazione ἐπεὶ οὐ Κρατίνου, ἀλλ’ Ἀμειψίου δεύτερος ὤφθη e fornita,
quindi, l’informazione che le critiche al pubblico erano non tanto per aver preferito
Cratino, quanto Amipsia con il Konnos, una commedia che poteva avere una tematica
almeno in parte simile a quella delle Nuvole, cf. ORTH 2013, 177‑178 e 213‑248 per la
commedia di Amipsia (PCG II, frr. 7‑11 K.‑A.).
258 Francesco Paolo Bianchi

tina111, a prova certa del successo che, a differenza di quanto avvenne nel
423 a.C., arrise in seguito a questo ‘dramma’. Di Cratino, invece, non sono
conservati che frustoli sparsi dell’intera opera, la maggior parte dei quali
da tradizione indiretta; e anche quando, come in questo caso, l’insieme di
ciò che si possiede sembra rendere possibile recuperare almeno in parte la
trama originaria – «Pytinae autem argumentum multo est apertius; nam, forte
fortuna, non solum haec plane perspicueque scripta habemus, Schol. Ar. Eq. 400
[…] verum etiam […] fragmenta multum lucis de eadem re nobis afferunt»,
scriveva Baker nel 1904112 – l’analisi delle testimonianze e dei singoli testi
mette una volta di più davanti all’evidenza di dubbi, incertezze, problemi
di esegesi, difficoltà di ascrizione, ai limiti che l’interpretazione di testi noti
solo per via frammentaria pone; e se un’idea generale è allora certamente
possibile, preclusi restano, invece, inevitabilmente, molti dei dettagli di
quell’ultimo, trionfale successo, messo in scena da Cratino «ut iniquas
criminationes vulge sibi conflatas dilueret ostenderetque, quantum vel in senectute
valeret ingenio»113.

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111
Cf. ZIMMERMANN 2011, 795.
112
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113
BERGK 1838, 202.
Il poeta protagonista del suo dramma 259

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260 Francesco Paolo Bianchi

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27.
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.)*

LEONARDO FIORENTINI (UNIVERSITÀ DI FERRARA)

Le brevi riflessioni che seguono si inseriscono nello studio di una


commedia frammentaria, I Chironi, di un autore comico famoso, Cratino, e
non hanno altro scopo che quello di contribuire al dibattito accesosi attorno
a esempi controversi: si tratta di casi in cui un atteggiamento prudente,
tanto nell’esegesi quanto in parte nella costituzione testuale, credo possa
essere di qualche utilità in attesa di eventuali dati più certi e definitivi1.
Così Kassel e Austin rispetto al fr. 258:

Στάσις δὲ καὶ πρεσβυγενὴς


Χρόνος ἀλλήλοισι μιγέντε
μέγιστον τίκτετον τύραννον,
ὃν δὴ κεφαληγερέταν
θεοὶ καλέουσιν

* Ho potuto discutere le seguenti osservazioni con Angela Maria Andrisano, Alberta


Lorenzoni, Vinicio Tammaro e Piero Totaro, che ringrazio.
1
Edipo, protagonista dell’estrema tragedia colonea di Sofocle, con l’espressione
φωνῇ γὰρ ὁρῶ (138) segnalava sulla scena la propria condizione di cecità e definiva,
evidentemente, il proprio status che ne determinava le azioni in scena; per certi versi
si tratta di un’espressione che delinea non già la condizione dello spettatore antico, se
non in presenza di una deissi fantasmatica, ma l’atteggiamento ecdotico ed erme‑
neutico dinanzi a qualunque testo teatrale antico in un qualunque momento del suo
destino postscenico. Testo concepito per una visione e un ascolto, talora una sola
visione e un solo ascolto, trasmesso dai corpi vivi di danzatori e attori, secondo un
continuum visivo e sonoro che si dissolve già al momento stesso dell’esecuzione, il testo
teatrale si potrà dire preservato nella componente verbale, talora interamente, più
spesso invece consegnato in frammenti al Medioevo. Questa considerazione generale,
che non deve scoraggiare da tentativi di interpretazione, può comunque esser utile
per assumere un atteggiamento prudente se non scettico dinanzi a quanto conservato
dalla tradizione, diretta e indiretta. Tale scetticismo non dovrebbe indurre a ricavare,
come talora avviene, spunti esegetici che il testo in sé non autorizza, spunti sorretti
solo dalla convinzione che in generale i testimoni, i loro copisti che all’occorrenza
furono copisti‑filologi, poco cogliessero e sapessero dell’originaria Grundgestalt del
testo, come del suo contesto.
264 Leonardo Fiorentini

Il testo si trova in Plut. Per. 3, 42, che illustra come una malformazione
congenita della testa di Pericle fu oggetto di attenzione artistica, per così
dire: gli scultori nascondendo il difetto grazie a un elmo posto sul capo
dello statista nei loro ritratti, i commediografi deridendolo con mirati
calembours. Ne consegue che il nucleo della citazione sta in κεφαληγερέταν
‒ un hapax comico calcato sull’omerico νεφεληγερέτα ‒ e in null’altro, in
questo testo, poiché da nessun altro elemento se non dalle parole di
Plutarco combinate con l’hapax si capisce che si parla qui di Pericle.
La colometria stabilita da Kassel e Austin3 non segue nessuna di quelle
sinora adottate dagli editori principali: Στάσις—— μέγιστον / τίκτετον
τύραννον / ὃν——καλοῦσιν4; Στάσις—— μιγέντε / μέγιστον——
τύραννον / ὃν—— καλοῦσιν5. Rispetto al nuovo testo stabilito da Kassel
e Austin, proporrei invece una sequenza riconducibile ai kat’enoplion
epitriti, che mi sembra avere più sicuri riscontri in commedia, secondo le
indicazioni antiche. Tenterei dunque epitria, prosc (cho ionmin), prosc (cho
ionmin), ithyph, prosa (ionma cho), reizc:

Στάσις δὲ καὶ
πρεσβυγενὴς Κρόνος ἀλλή‑
λοισι μιγέντε μέγιστον
τίκτετον τύραννον,
ὃν δὴ κεφαληγερέταν
θεοὶ καλέουσιν

Nella seconda parabasi dei Cavalieri (1264‑1273 = 1290‑1299)6 si possono


riscontrare forme metrico‑ritmiche simili a quella proposta, e altrettanto
vale per la parodo delle Vespe (273‑280 = 281‑290)7, per non dire della
parabasi della Pace (775‑795 = 796‑818). Da notare che, con la sistemazione
suggerita, l’aprosdoketon del v. 4 coincide col passaggio al ritmo trocaico,
per poi riprendere, più solennemente, col ritmo ionma cho del v. 5, speculare

2
Per. 3, 3‑5: αὕτη (Ἀγαρίστη) κατὰ τοὺς ὕπνους ἔδοξε τεκεῖν λέοντα, καὶ μεθ᾽
ἡμέρας ὀλίγας ἔτεκε Περικλέα, τὰ μὲν ἄλλα τὴν ἰδέαν τοῦ σώματος ἄμεμπτον,
προμήκη δὲ τῇ κεφαλῇ καὶ ἀσύμμετρον. ὅθεν αἱ μὲν εἰκόνες αὐτοῦ σχεδὸν ἅπασαι
κράνεσι περιέχονται, μὴ βουλομένων ὡς ἔοικε τῶν τεχνιτῶν ἐξο νειδίζειν. οἱ δ᾽
Ἀττικοὶ ποιηταὶ σχινοκέφαλον αὐτὸν ἐκάλουν· τὴν γὰρ σκίλλαν ἔστιν ὅτε καὶ
σχῖνον ὀνομάζουσι. τῶν δὲ κωμικῶν ὁ μὲν Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (fr. 258 K.‑A).
3
Che si lascerebbe interpretare come epitria cho, 2an^, ba ithyph, prosa (ionma cho),
c
reiz .
4
MEINEKE 1839, 147, cf. BERGK 1838, 236.
5
KOCK 1880, 86, già di RUNKEL 1827, 64.
6
Cf. TOTARO 1999, 35s.
7
Cf. BRAVI 2002 e 2017.
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 265

e inverso rispetto a quello dei vv. 2s. Considerato che il testo di Cratino,
nella tradizione del suo testimone, ha una mise en page ovviamente
prosastica, il ricorso alla tradizione di Aristofane e a una sistemazione
metrica asseverata dai lacerti di Eliodoro negli scolî di Aristofane, secondo
le ipotesi di Bravi (cf. n. 7), può essere una soluzione praticabile anche per
suggerire un’ipotesi colometrica in Cratino.
Il v. 2 è stato investito da una secolare discussione che coinvolge il tràdito
Χρόνος, emendato, con alterne fortune, in Κρόνος fin da prima del 1599,
allorché tale intervento, però anonimo, si trova menzionato in un’edizione
di Plutarco8. L’emendamento fu indipendentemente avanzato da Bergk
(1838, 236) in quanto l’assimilazione di Pericle a Zeus imporrebbe
(«legendum est») la discendenza da Crono. E Κρόνος quale «Anonymi …
emendatio» accettava Meineke (1839, 147), per le medesime ragioni di Bergk,
assunte poi da Kock (1880, 86) e da Edmonds (1957, 110), ma non da Kassel
e Austin che accolgono il testo tràdito, come già faceva il Grotius (1626,
493), visto che rendeva la lectio con «Tempus longum» (492); analoga
posizione del Grotius si trova quindi in Runkel (1827, 64)9, in Emperius
(1847, 218), in Bothe (1855, 47, che riporta la versione del Grotius), in Luppe
(1963, 220), e, di recente, in Rusten (2010, 212). Il testo tràdito è stato difeso,
ultimamente, dalla Noussia (2003), in quanto la tirannide richiederebbe
qualche tempo per manifestarsi, secondo una concezione ben nota agli
Ateniesi fin dai componimenti di Solone (e.g. fr. 14 G.‑P.). E Olson ha
ritenuto preferibile il testo tràdito per queste ragioni: «perhaps the point is
that Pericles had exercised enormous political power for years and seemed
likely to go on doing so ‘for ever’»10. Kassel e Austin avevano inoltre
argomentato che l’età di Crono è tradizionalmente collegata all’idea di un
tempo felice, ciò che mal si addirebbe a questo contesto (rimandano
pertanto a Cratin. fr. 176). Difendono il testo tràdito, inoltre, attraverso il
richiamo a Pherecyd. Syr. 7 B 1 (Ζὰς μὲν καὶ Χρόνος ἦσαν ἀεὶ καὶ Χθονίη·
Χθονίηι δὲ ὄνομα ἐγένετο Γῆ, ἐπειδὴ αὐτῆι Ζὰς γῆν γέρας διδοῖ): si tratta
di un passo di ordine filosofico a sua volta gravato da una sostanziale
incertezza di dettato, oltre che da un’assenza di riferimenti alla genealogia
di Zeus che invece in Cratino sarebbe evocata11. L’accettazione di Χρόνος,

8
L’emendamento appare in coda (p. 98c) a tale edizione (nel tomo I, dedicato alle
Vite), che uscì in quell’anno a Francoforte apud Andreae Wecheli heredes.
9
Tuttavia possibilista rispetto a un eventuale Κρόνος.
10
OLSON 2007, 207.
11
Cf. tuttavia 7 A 9, che raccoglie le interpretazioni antiche del frammento, dove si
stabilisce una qualche equivalenza fra Κρόνος e Χρόνος, ma dove, soprattutto, si
direbbe che un ramo della tradizione leggesse in Ferecide Κρόνος.
266 Leonardo Fiorentini

che conferisce una nota orfica alla comica teogonia concepita da Cratino,
viene sostenuta da Kassel e Austin anche attraverso il richiamo a Pind. O.
2, 17, in cui Χρόνος è ὁ πάντων πατήρ, ma si potrà segnalare perlomeno
che nel medesimo componimento Radamanti è, singolarmente rispetto alla
sinossi mitografica più diffusa, figlio di Κρόνος (76). Sempre Kassel e
Austin, a difesa di Χρόνος, ribadiscono come il Tempo abbia una propria
adeguata collocazione «in theogoniae imitatione», per cui rimandano anche
ad Ar. Av. 685‑722, per stare alla commedia. Eppure, nel passo aristofaneo
Χρόνος non compare, anche se vi trovano spazio Caos, Notte, Erebo e
Tartaro (cf. Dunbar 1995, 438), cosa che porta a non escludere l’influenza,
oltre a Esiodo (cf. Ar. Av. 693s.), di una teogonia orfica esametrica nella
parabasi (694‑697), specialmente per alcune qualifiche di Eros (cf. Dunbar
1995, 443s.). Considerato l’esiguo lacerto di Cratino, simili paralleli non
sono esattamente rintracciabili nel frammento. Si può notare invece che il
testo di Cratino non ha un esplicito richiamo a Zeus, e che il testimone,
Plutarco, sembrerebbe consapevole (dalla sua fonte?) dell’assimilazione
Pericle‑Zeus, in quanto è questo uno degli aspetti che egli richiama più
avanti, sempre ricordando Cratino (fr. 73 K.‑A.) nella Vita di Pericle (13, 10).
Ma il testo di Cratino non permette un’accettabile assimilazione di Pericle
a Zeus, senza accogliere l’emendamento Κρόνος, per le ragioni addotte da
Bergk (cf. supra). Tammaro (1978/1979, 208)12 ha osservato, esattamente
come poi Kassel e Austin ma al fine di intraprendere una via ermeneutica
opposta, come in commedia (cf. e.g. Ar. Av. 469) il vecchio Crono sia
normalmente associato alla «nozione di un passato ormai lontano» e felice,
statutariamente. Il che non può esser trascurato, anche perché nel testo di
Cratino non appare in nessun punto l’idea per cui l’età di Crono
preannunciasse già i tratti negativi dell’età presente. A ciò si aggiunga che,
mantenuta l’identificazione Zeus‑Pericle, e sottratta la tradizionale madre
di Zeus qui sostituita per l’occasione con un’ipostasi, la Discordia, non si
capisce, secondo quanto annota Tammaro (l.c.), come l’assimilazione fra
Zeus e Pericle sarebbe comprensibile a tutto il pubblico se fosse travolta
anche la linea maschile di parentela, con la sostituzione di Crono col
Tempo: non sembra potersi ritenere che il solo hapax κεφαληγερέταν fosse
sufficiente a rendere intelligibile (e accettabile) per il pubblico ateniese
l’allusione a Pericle.
Difficile dunque sostenere che il testo di Cratino avesse Χρόνος, poi
mantenutosi in Plutarco e specialmente nella sua tradizione; né appare

12
Cf. SCHWARZE 1971, 54 e TAMMARO 1984‑1985, 42, quindi LUISELLI 1990, 97,
FARIOLI 2000, 421‑423, FARIOLI 2001, 48‑50, DI MARCO 2005, 198.
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 267

probabile che il testimone del frammento, Plutarco, potesse aver commesso


un errore fra Χρόνος e Κρόνος: piuttosto, Χρόνος sarà errore d’archetipo
della biografia periclea.
Stabilita dunque un’ipotesi di testo, sarà da valutare il senso del fram‑
mento stesso nel dettaglio. Tra le varie esegesi, appare significativa la
proposta di Di Marco (2005), di accogliere Κρόνος in quanto l’emenda‑
mento favorirebbe l’evocazione di una genealogia diretta fra Pisistrato e
Pericle, in nome di una comune propensione tirannica, e in forza di
un’affinità somatica e di atteggiamenti, anche nell’oratoria, segnalate da
Plut. Per. 7, 1; e sempre Plutarco aveva indicato come i componenti della
cerchia di Pericle fossero definiti nuovi Pisistratidi (Per. 16, 1 = Com. adesp.
fr. 703 K.‑A.). Nell’àmbito di una distorsione comica, Cratino, secondo la
proposta di Di Marco, avrebbe dunque sfruttato in modo parodico la
«propaganda favorevole a Pisistrato, la quale tendeva appunto a esaltare il
periodo in cui il tiranno era stato al potere come una seconda “età
dell’oro”»13, complici anche alcune idee circolanti al tempo di Cratino circa
una presunta affinità elettiva fra Pisistrato e Pericle (cf. Arist. Ath. 16, 7).
Questa proposta di Di Marco potrebbe trovare conforto in un elemento
sovente trascurato che consiste nella presenza, in qualche modo, di Solone
nei Chironi (cf. fr. 246), utile a giustificare una qualche allusione, magari
non dichiarata, a Pisistrato nella commedia. Si potrebbe inoltre considerare
Arist. Ath. 22, 3 ‑ 22, 4, dove di Pisistrato si segnala che δημαγωγὸς καὶ
στρατηγὸς ὢν τύραννος κατέστη, il che potrebbe contribuire all’identi‑
ficazione suggerita da Di Marco, ma da un ambiente politico per alcuni
aspetti diverso. A un’identificazione fra Κρόνος come lezione ristabilita nel
testo e un personaggio rilevante della politica ateniese è addivenuta la
Farioli, che ha ipotizzato che dietro il mitico padre di Zeus vada intravvista
la figura di Cimone: «poiché Cratino era un estimatore di Cimone, egli avrà
inteso dire che l’età dell’oro di Atene era coincisa col governo cimoniano e
che la στάσις che l’aveva abbattuta corrispondeva all’ascesa di Efialte e di
Pericle» (2000, 421), confortata in ciò dal paragone fra l’età di Cimone e
quella di Crono, secondo Plut. Cim. 10, 1 e 7, ammesso che il paragone non
sia plutarcheo anziché della sua fonte14. Per quanto possibili ambedue le
identificazioni, non sarei incline ad accoglierle, come in generale non mi
spingerei, per ora, verso qualunque identificazione storica di Κρόνος, per
le seguenti motivazioni:
1. è nota l’identificazione fra Zeus e Pericle in commedia, cf. Cratin. frr.
73 e 118 K.‑A., Herm. fr. 42 K.‑A., Telecl. fr. 18 K.‑A., Ar. Ach. 530, Com.

13
DI MARCO 2005, 199.
14
Così LOMBARDO 1934, 165.
268 Leonardo Fiorentini

adesp. fr. 701 K.‑A. Come accennato, l’hapax κεφαληγερέταν costituisce poi
l’aprosdoketon che suggerisce l’identificazione e, direi, favorisce anche l’idea
che Pericle fosse esclusivamente evocato in questo modo nel contesto
immediato del frammento di Cratino, senza esser nominato esplicitamente,
sicché risulterebbe difficile per il pubblico, che fruiva oralmente del testo,
cogliere, peraltro in modo retroattivo, un altro richiamo a un ulteriore
personaggio della politica ateniese;
2. se il fr. 259 K.‑A. appartiene alla medesima commedia e probabilmente
allo stesso canto del fr. 258, ci si potrebbe chiedere come mai a Crono‑
Pisistrato o Crono‑Cimone si alluda quale padre di Era‑Aspasia, cosa invece
perfettamente comprensibile se si ammette che nessun personaggio del
passato politico ateniese si celi dietro il padre di Zeus ed Era.
Si potrebbe, en passant, segnalare un ulteriore esempio per sostenere
come, nel caso dell’esegesi del fr. 258 K.‑A., sia necessaria una certa
prudenza di principio. Nel fr. 254 K.‑A. si legge: Κλειταγόρας ᾄδειν, ὅταν
Ἀδμήτου μέλος αὐλῇ. L’interpretazione più probabile del testo resta quella
di Bergk (1838, 228), il quale segnalava come «reprehendere videtur
negligentiam illam et contemtionem artis cum solerent Athenienses, si
tibicen modos cantilenae in Admetum praeierit, canere scolium Clitagorae»
(cf. Ar. Lys. 1237 ᾄδοι Τελαμῶνος, Κλειταγόρας ᾄδειν δέον, menzionato
da tutti gli interpreti del testo di Cratino). Che vi possa essere anche
un’ipotesi esegetica di ordine politico non si può escludere, ma solo se si
resta su un piano squisitamente speculativo.
Nel finto banchetto evocato nella lezione di bon ton che Bdelicleone
impartisce al padre Filocleone si immagina che i cleoniani (fra cui Cleone
stesso, Teoro, Eschine) insieme a Filocleone si trovino a consumare il rito
laico e aristocratico, però da democratici radicali, di una catena simposiale
di scolia. Nell’ordine si canta l’Armodio (PMG 893‑896) dalla voce di Cleone
(Ar. Ve. 1225), nell’Admeto (PMG Praxil. 749 = 897) si cimenta Teoro (Ar. Ve.
1238), il Clitagora (PMG 912) è intonato da Eschine (Ar. Ve. 1245). Se
l’Armodio ha un’evidente patente democratica, non si potrà dire lo stesso
dell’Admeto, attribuito, secondo le testimonianze antiche, a Saffo, ad Alceo
o a Prassilla di Sicione (PMG 749), secondo Eust. Il. 326, 39 (sulla scorta del
ricostruito Paus. Att. a 25 E.), oppure a Prassilla, secondo schol. Ar. Ve. 1238;
e solo secondo Bowra da ricondursi a un àmbito pisistratico (1973, 554), in
séguito all’episodio di Pisistrato e Anchimolio (cf. Hdt. V 63, 3). L’ipotesi
di Bowra non poggia su nessuna testimonianza antica, e non escluderei
l’idea per cui un canto precedente e non epicorico possa esser stato
impiegato poi presso la cerchia dei Pisistratidi. Quanto al Clitagora,
certamente non senza un procedimento autoschediastico, l’esegesi antica
pensa a un’origine tessala (schol. Ar. Ve. 1245), oppure laconica (schol. Ar.
Lys. 1237), oppure lesbia (Hesych. κ 2913 L.). La presenza dell’Admeto e del
Clitagora potrebbe spiegarsi con l’ipotesi per cui con questi canti i cleoniani
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 269

non autodenuncino già una conversione aristocratica (perlomeno di Teoro


che intona l’Admeto)15, ma, seguendo Vetta (1983, 128), una linea politica
filotessala, perseguita a più riprese dalla diplomazia ateniese e inaugurata
da Pisistrato, ma che costituì una risorsa della politica di alleanze di Atene,
cui probabilmente ricorse anche Cimone16. Di Pisistrato o di Cimone, ad
esempio, nel passo delle Vespe non si fa cenno né, mi pare, vi si allude.
In definitiva, il testo del fr. 258 K.‑A., la sua specificità drammaturgica,
il rapporto col fr. 259 e più in generale con la prassi comica e non solo
aristofanea di impiegare disinvoltamente la tradizione letteraria prece‑
dente, mi paiono consigliare al v. 2 di leggere Κρόνος ma contestualmente
mi paiono anche sconsigliare, pur sempre provvisoriamente, l’indivi‑
duazione di un profilo storico‑politico nell’evocazione di Κρόνος, perché
l’oggetto del calembour sono Pericle come tiranno e il suo difetto fisico,
evocato più facilmente in una parodo che in una parabasi.

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BRAVI 2002 = L. Bravi, Il canto della seconda parabasi dei Cavalieri: manoscritti e scoli
metrici. (Equ. 1264‑1273=1290‑1299), “QUCC” n. s. LXX (2002), 41‑46.
BRAVI 2017 = L. Bravi, La parodo delle Vespe, “RCCM” LIX (2017), 109‑119.
DI MARCO 2005 = M. Di Marco, Un’allusione a Pisistrato nei Chironi di Cratino (fr.
258 K.‑A.), “SemRom” VIII2 (2005), 197‑204.
DUNBAR 1995 = N. Dunbar, Aristophanes. Birds, Oxford 1995.
EDMONDS 1957 = J.M. Edmonds, The Fragments of Attic Comedy, Leiden 1957.
EMPERIUS 1847 = A. Emperius, Opuscula philologica et historica, Gottingae 1847.
FARIOLI 2000 = M. Farioli, Mito e satira politica nei Chironi di Cratino, “RFIC” 128
(2000), 406‑431.

15
Rimando alle precise osservazioni di MACDOWELL 1971, 289 e di BILES/OLSON
2015, 439‑445 (in particolare cf. pp. 443s.).
16
Cf., con tutte le cautele del caso, Dem. 13, 23, che ricorda un aiuto ottenuto a
vantaggio degli Ateniesi da parte di Menone di Farsalo in termini di cavalieri e di
risorse economiche, durante l’assedio di Eione. Tale contributo potrebbe spiegarsi a
séguito della linea politica a protezione dei Tessali tenuta da Temistocle nell’Anfizionia
delfica (Plut. Them. 20).
270 Leonardo Fiorentini

FARIOLI 2001 = M. Farioli, Mundus alter. Utopie e distopie nella commedia greca, Milano
2001.
GROTIUS 1626 = H. Grotius, Excerpta ex tragoediis et comoediis Graecis tum quae extant,
tum quae pereunt, Parisiis 1626.
KOCK 1880 = T. Kock, Comicorum Atticorum Fragmenta, vol. I, Lipsiae 1880.
LOMBARDO 1934 = G. Lombardo, Cimone. Ricostruzione della biografia e discussioni
storiografiche, Roma 1934.
LUISELLI 1990 = R. Luiselli, Cratino, fr. 258, 2 Kassel‑Austin (= 240, 1 Kock): Χρόνος o
Κρόνος?, “QUCC” n. s. 36 (1990), 85‑99.
LUPPE 1963 = W. Luppe, Fragmente des Kratinos. Text und Kommentar, 1963.
MACDOWELL 1971 = D.M. MacDowell, Aristophanes. Wasps, Oxford 1971.
MEINEKE 1839 = A. Meineke, Fragmenta Comicorum Graecorum, vol. II1, Berolini
1839.
NOUSSIA 2003 = M. Noussia, The Language of Tyranny in Cratinus, PCG 258, “PCPhS”
49 (2003), 74‑88.
OLSON 2007 = S.D. Olson, Broken Laughter. Select fragments of Greek comedy, Oxford
2007.
RUNKEL 1827 = M.M. Runkel, Cratini veteris comici Graeci fragmenta, Lipsiae 1827.
RUSTEN 2010 = J. Rusten, The Birth of Comedy. Texts, documents, and arts from Athenian
comic competitions, 486‑280, Baltimore 2010.
SCHWARZE 1971 = V.J. Schwarze, Die Beurteilung des Perikles durch die attische Komödie
und ihre historische und historiographische Bedeutung, München 1971.
TAMMARO 1978/1979 = V. Tammaro, Note a Cratino, “MCr” 13‑14 (1978/1979), 203‑
209.
TAMMARO 1984/1985 = V. Tammaro, Note a Cratino, “MCr” 19‑20 (1984/1985), 39‑
42.
P. TOTARO, Le seconde parabasi di Aristofane, Stuttgart‑Weimar 1999.
VETTA 1983 = M. Vetta, Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica,
Roma/Bari 1983.
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone.
Considerazioni testuali ed esegetiche

SEBASTIANO BERTOLINI (UNIVERSITY OF EDINBURGH)

Il fr. 2 K.‑A. del poeta della Commedia Nuova Filemone presenta


molteplici questioni di natura filologica ed esegetica. In questo contributo
intendo offrire una disamina generale del frammento, discutendo il titolo
della commedia di appartenenza (Ἀγύρτης), analizzandone i punti
filologicamente più dibattuti e dimostrando, tramite un breve commento
dello stesso, come esso sia caratterizzato da una forte terminologia
filosofica.
Riporto, per iniziare, una personale edizione critica del frammento e una
traduzione sulle quali baserò le successive considerazioni.1

ὦ πῶς πονηρόν ἐστιν ἀνθρώπου φύσις


τὸ σύνολον· οὐ γὰρ ἄν ποτ’ἐδεήθη νόμου

Oh, com’è malvagia la natura umana,


nel complesso: poiché allora non avrebbe avuto bisogno della legge

1 ὦ πῶς ABr : ὢ πῶς Mac. : πῶς Md : καί πως Zedelius : φεῦ ὡς Schow
: ὄντως Dobree : ὡς παμ‑ Deubner : ἁπλῶς susp. Bothe : πάντως Hermann
: πῶς οὐ Hirschig : οἴμ’ ὡς Naber, prob. Kock, Blaydes : ἦ που Schenkl:
ὅλως vel δεινῶς susp. Blaydes : οὔ πω Edmonds | ἀνθρώπου φύσις codd.
: ἄνθρωπος φύσει Naber

1
Il frammento è riportato da un’ecloga di Stobeo tramandata da tutta la tradizione
manoscritta del capitolo Περὶ κακίας (cioè dai codici M, A, Br e Mac) dell’Anthologion:
cf. HENSE 1894, I, 178, 183, cui si rimanda anche per una panoramica generale sulla
tradizione manoscritta del testo di Stobeo 1894, 7‑67. Nella tradizione manoscritta,
stando all’apparato di HENSE 1894, I, 183, l’ecloga in questione è attestata in punti
diversi a seconda dei codici. M riporta l’ecloga nella posizione seguita da Hense, A
dopo Stob. III 2, 8 H., Mac. dopo Stob. 3, 2, 5 H., Br. dopo Stob. 3, 2, 17 H.
272 Sebastiano Bertolini

1. Titolo

Intendo considerare dapprima il titolo della commedia, Ἀγύρτης, di cui


il distico costituisce l’unico frammento.2 La traduzione del titolo, come
esporrò in séguito, è dubbia sulla base dell’ambiguità semantica del termine
ἀγύρτης, il cui significato oscilla fra quello di ‘mendicante’ e quello di
‘ciarlatano’, ‘sacerdote’, ‘indovino’.3 Che il termine abbia progressivamente
sofferto di un ‘indebolimento’ semantico di stampo negativo, già nel V
secolo, è dimostrato del resto da numerosi passi fra cui e.g. S. OT 388, in
cui Edipo insulta Tiresia definendolo un δόλιον ἀγύρτην (‘ingannevole
sacerdote’).4 In [E.] Rh. 503, Ettore descrive Odisseo come un ἀγύρτης
πτωχικὴν ἔχων στολήν (‘un accattone vestito da mendicante’) e,
ugualmente, il Coro (715) presenta l’eroe con l’espressione βίον δ’ ἐπαιτῶν
εἷρπ’ ἀγύρτης τις λάτρις (‘un servo accattone arrivò mendicando cibo’).5

2
Il lemma corretto dell’ecloga, φιλήμονος ἀγύρτου, è testimoniato da A e da Mac,
laddove Br riporta solamente φιλήμονος ed M λυκούργου. Meineke 1841, 3 ha
erroneamente ritenuto λυκούργου una corruzione derivante da ἀγύρτου, ma HENSE
1894, 183 (cf. anche RUPPRECHT 1925, 207) ha giustamente notato che l’errore deriva
dal fatto che nell’archetipo esso si trovava vicino al lemma dell’ecloga 30, la quale
riporta un frammento dell’oratore Ateniese Λυκούργου (fr. 96 Sauppe = fr. 11*
Conomis). Come per molte commedie di Filemone, non abbiamo elementi che ci
permettano di datare l’opera e, data la scarsità del materiale e dei paralleli a
disposizione, è impossibile trarre conclusioni certe sulla trama della commedia. Gran
parte della bibliografia inerente al frammento appartiene a brevi note filologico‑
testuali, per lo più incluse in edizioni critiche di frammenti comici, cui si rimanda in
bibliografia. Per un profilo di Filemone e sulle sue opere, cf. BRUZZESE 2011.
3
Il termine è, infatti, formazione nominale dal verbo ἀγείρω, cioè ‘raccogliere’,
‘radunare’, attestato già in Omero (cf. e.g. Od. 17, 362) nel significato di ‘questuare’,
‘mendicare’: cf. e.g. DELG 9, EDG 10, LfgE I 55‑58, LSJ9 s.v. II 2. Il termine ἀγύρτης è
prolifico in greco ed ha generato formazioni secondarie, quali e.g. il verbo ἀγυρτάζω
(cf. e.g. SMYTH GG #867, 246), già attestato in Omero con significato analogo: cf. e.g. Od.
19, 284. Come ha giustamente sintetizzato Liapis (2012, 209), «the word may be used
of itinerant beggars, fortune‑tellers, or mountebanks, although originally it seems to
have denoted a person attached to a god’s cult (such a priest or a prophet) who
wandered about collecting donations for the god – and no doubt for himself too». Non
si può, comunque, escludere uno sviluppo semantico di direzione contraria, cioè che
il termine avesse originariamente il significato meno connotato di ‘mendicante’, ‘colui
che va in giro a raccogliere (offerte)’, e che in séguito esso sia stato utilizzato in
relazione a sacerdoti.
4
L’indebolimento semantico, del resto, è palesato da Hsch. α 866‑868, dove il
termine generico συρφετώδης, cioè ‘persona volgare’, viene citato come sinonimo.
Nel passo in questione, Tiresia viene definito poco prima (387), dispregiativamente,
μάγον, un ‘santone’ (su cui cf. RIGSBY 1976), poi (389) un cieco (τυφλός) in grado di
vedere solamente quando c’è di mezzo un possibile guadagno (ἐν τοῖς κέρδεσιν).
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 273

Alla luce dei paralleli citati e delle interpretazioni del termine ἀγύρτης, è
plausibile individuare tre possibili interpretazioni per la traduzione del
titolo della commedia, con il quale, verosimilmente, avrebbe coinciso il
protagonista della stessa.

Se si legge il termine nel significato generico di ‘mendicante’, la com‑


media potrebbe ricalcare i numerosi paralleli rappresentati dalle commedie
chiamate ‘πτωχοί’ vel simm.6 Nonostante questo possa considerarsi un
argumentum ex silentio, resta tuttavia inspiegabile il motivo per cui Filemone
non avrebbe intitolato la propria commedia in questo modo, data la
presenza di tale tradizione onomastica. In questo caso, non è da escludere
che, data la solida presenza di parodia epico‑mitologica nelle commedie di
Filemone, il protagonista potesse essere Odisseo, figura ricorrente, per il
suo travestimento da povero mendico, in numerose rappresentazioni comi‑
che e teatrali.7 A (debole) sostegno di questa ipotesi, Gobara fa notare che
Odisseo utilizza proprio il termine ἀγυρτάζω in Hom. Od. 19, 284 (hapax
omerico) e che il verbo αἰτίζω (di significato simile a quello di ἀγείρω) è
spesso riferito, in Omero, all’eroe itacese.
Una seconda possibile accezione, quella di ‘sacerdote’, identificherebbe
il protagonista (o personaggio chiave) della commedia in un sacerdote
mendicante e cialtrone, come il titolo e il contenuto di altre commedie
frammentarie sembra confermare.8 Anche se il titolo Ἀγύρτης è attestato
solamente in relazione alla commedia di Filemone, infatti, siamo a
conoscenza di titoli paralleli. Antifane compose una commedia tramandata
sotto il nome di Μηναγύρτης o Μητραγύρτης (cf. frr. 152‑153 K.‑A.), il cui
protagonista era verosimilmente un sacerdote mendicante della dea Rea o

5
Per altre accezioni negative del termine, solitamente indicanti un ‘ciarlatano’, un
‘impostore’ cf. e.g. Pl. Resp. 634b e Hipp. Morb. 1, 4. Il termine indica talvolta i sacerdoti
di Cibele, cf. AP VI 218, 1 (Alceo), Clearc. fr. 49, 6 Wehrli ap. Ath. 12, 614d, Babr. 141, 1.
Il termine, inoltre, poteva indicare il gioco dei dadi, come testimoniato da Eub. fr. 57,
5 (cf. e.g. anche Suid. β 329), su cui cf. HUNTER 1983, 145 e BAGORDO 2014, 60‑63. Fra le
numerose occorrenze lessicografiche che citano il termine, cf. e.g. Hsch α 866‑868, Phot.
Lex α 280‑281, Suid. α 388‑389. Per un’analisi del termine cf. anche BAGORDO 2014, 60‑
63 e BIANCHI 2016, 381‑382.
6
Cf. e.g. la commedia di Chionide (frr. 4‑7) su cui BAGORDO 2014, 51.
7
GOBARA 1986, 202‑203.
8
Per la critica ai ‘venditori di oracoli’, si considerino e.g. Ar. Pax. 1043‑1126, Av. 958
dove, allo stesso modo, dei ‘ciarlatani’ cercano invano di assicurarsi qualche profitto
tramite le loro profezie. Per il passo degli Uccelli, cf. e.g. ΚΑΚΡίΔΗ 1974, 181, ZANETTO
1987, 256, SOMMERSTEIN 1987, 261, DUNBAR 1995, 552ff. Per il passo della Pace cf. e.g.
OLSON 1998, 268‑283. La letteratura sugli indovini è assai ampia: cf. e.g. ARGYLE 1970
e, per gli oracoli in Aristofane, MUECKE 1998 e MILANI 1993.
274 Sebastiano Bertolini

di Cibele.9 Menandro scrisse una commedia chiamata Μηναγύρτης (cf. frr.


234‑235), anch’essa probabilmente incentrata sulla figura di un sacerdote
della dea Rea.10 Non vanno dimenticati, inoltre, i paralleli rappresentati
dall’Οἰωνιστής di Antifane (forse ispirazione del Δεισιδαίμων di
Menandro, cf. frr. 106‑109 K.‑A. ed Euseb. Praep. Ev. 3, 13, il Μάντεις di
Alessi (fr. 150 K.‑A‑), gli Augur composti da Pomponio e Afranio (autore
anche di un Omen), nonché l’omonimo mimo di Laberio.11
Infine, nel significato di ‘ciarlatano’, ‘impostore’, il protagonista della
commedia potrebbe corrispondere a un filosofo o a una qualunque
categoria di figure notoriamente criticate per la loro cialtroneria e la loro
povertà già a partire dalla Commedia Antica.

Per quanto ci si debba astenere dal trarre conclusioni definitive in


mancanza di prove certe, la seconda interpretazione sembra a mio avviso
la più verosimile, in considerazione dei frequenti paralleli riscontrati in
altre commedie e della connotazione religiosa che il termine ἀγύρτης
sembra rivestire in molti di essi.12

2. Testo e contesto

Circa il suo contesto, il frammento è tramandato, come già espresso,


nella sezione ‘Περὶ κακίας’ del terzo libro (il cosiddetto Florilegium) dell’An‑
thologion di Stobeo, dedicato ad argomenti di natura etico‑morale e
strutturato secondo la classificazione binaria virtù‑vizi (ἀρεταί‑κακίαι).13

9
Cf. e.g. SANCHIS LLOPIS et all. 2007, 372‑373 e ORTH 2014, 1019.
10
Un Ariolus di Nevio (cf. frr. 20‑24 R.3), di cui ci rimangono quattro versi,
presumibilmente aveva come soggetto un indovino ed era basato sulla versione di
Filemone. Questa la posizione e.g. di LEGRAND 1910, 21 ma, come espresso da
MARMORALE 1953, 164, «[…] se e fino a qual punto Nevio si sia ispirato ad essi o ad
uno di essi non è possibile dire: i frammenti di Nevio non ci dànno appigli a riguardo,
né ci lasciano indovinare quale dovesse essere la trama della commedia, se mai essa
fu una palliata, non una togata». Ad ogni modo, siccome siamo certi che i poeti latini
trassero spunto dalle commedie di Filemone (e in generale dalla Nea), la possibilità
non può essere scartata a priori. Per l’Ariolus (o Hariolus) di Nevio, cf. e.g. MARMORALE
1953, 164‑165, 208 e PAPONI 2005, 89‑91.
11
Per la commedia di Alessi, cf. ARNOTT 1996, 440‑444.
12
Attenendoci all’interpretazione del titolo sopracitata, si può dunque ipotizzare
che la commedia fosse incentrata sulla figura di un sacerdote ciarlatano ed accattone
e sui suoi vacui vaticini che avrebbero potuto dare adito a gag comiche.
13
Per una panoramica sulla figura e l’opera di Stobeo, cf. HENSE 1916, PICCIO‑
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 275

Il frammento viene citato in questa sezione per l’esplicita considerazione


gnomica sulla malvagità della natura umana. Sul piano strutturale, cioè dal
punto di vista del (caotico e ancora oggi discusso) principio di lemmatiz‑
zazione della raccolta di Stobeo, l’ecloga che riporta il frammento rientra
nella modalità di catalogazione caratterizzata dal «nome dell’autore citato,
di solito in genitivo, da solo o accompagnato dal titolo dell’opera, quest’ul‑
timo in nominativo o in altri casi».14 Poiché testimoniato subito dopo da
Stobeo senza soluzione di continuità (oggi Stob. 3, 2, 25 H.), il frammento
è stato a lungo riportato insieme al fr. dubium 195 K.‑A. di Filemone, che
parimenti offre un giudizio critico sulla natura umana tramite la sua
comparazione con quella animale.15 Si deve a Meineke l’ipotesi di separa‑
zione dei due frammenti, che è stata accolta, pur con qualche eccezione,
dagli editori e dagli studiosi successivi.16 Resta comunque aperta la
questione circa la possibilità che i due testi vadano considerati come un
unico frammento con una lacuna mediana, oppure come due frammenti
separati, forse appartenenti a commedie distinte.17 La seconda ipotesi – cioè

NE/RUNIA 2001 e PICCIONE 2003, 243‑245. Per un’aggiornata panoramica storica delle
edizioni e dei manoscritti di Stobeo, cf. CURNIS 2008.
14
PICCIONE 1999, 144. Sulla lemmatizzazione della raccolta di Stobeo, cf. già HENSE
19092, XVI.
15
Philem. fr. 195: οἴει τι τῶν ἄλλων διαφέρειν θηρίων / ἄνθρωπον; οὐδὲ μικρὸν
ἀλλ’ ἢ σχήματι· / πλάγι’ ἐστὶ τἄλλα, τοῦτο δ’ ὀρθὸν θηρίον («credi che ci sia una
qualche differenza fra uomini ed animali? Non ce n’è nessuna a parte la forma:
l’animale è orizzontale, l’uomo è verticale»).
16
Meineke 1841, 3‑4. Pace BOTHE 1844, 70 e KOCK 1884, 478.
17
Da questo punto di vista la tradizione di Stobeo non garantisce alcuna certezza,
dal momento che, come sostenuto da PICCIONE 1999, 145, «il metodo di descrizione
lemmatica e di inserimento nel tessuto antologico dei passi citati è estremamente
variabile, e risponde ad elementi esterni al testo e solo di rado codificabili». PICCIONE
1999 ha analizzato le ecloghe di Stobeo che si presentano senza una caratterizzazione
lemmatica, cioè «successioni di estratti uniti fra di loro, stando ai codici, senza alcuna
caratterizzazione lemmatica intermedia, vale a dire casi in cui si abbia un solo lemma
che introduce la prima sentenza, seguita da altri passi dalla medesima opera o soltanto
dallo stesso autore, o persino da autore differente, noto o meno, tutti rigorosamente
senza descrizione lemmatica». Piccione ha giustamente sottolineato la differenza fra
la successione di passi ‘non‑consecutivi’ in cui si presenta tuttavia una continuità di
senso – la cui agglutinazione dipende pertanto verosimilmente dal «[…] desiderio o
[dal]la necessità di costituire un unico prodotto di riduzione» – e la successione di
passi ‘non‑consecutivi’ in cui non si presenta alcuna continuità logica, per cui si deve
presumere invece una «coalescenza meccanica, causata dalla caduta di un lemma
durante la trasmissione o forse anche, in qualche circostanza, dall’unione di passi
caratterizzati da un unico lemma comprensivo, iniziale o verticale a latere, con il nome
dell’autore».
276 Sebastiano Bertolini

che due frammenti di due commedie distinte siano stati uniti – non è da
escludere alla luce del potenziale parallelo in Stob. 2, 1, 5a‑5c H; contraria‑
mente, Edmonds e Gobara propendono per la prima ipotesi.18 In
particolare, Gobara suggerisce che nel primo distico (fr. 2 K.‑A.) la persona
loquens esprima considerazioni generali a proposito della cattiveria della
natura umana, laddove i tre versi successivi includerebbero il commento e
lo sviluppo della gnomē introduttiva. Pertanto, Gobara ipotizza una lacuna
di uno o due versi, che fungerebbero da collegamento fra il contenuto di
carattere generale del primo frammento e quello più specifico del secondo,
incentrato sul leitmotiv del confronto fra uomini e animali, motivando tale
lacuna con la venatura ‘etica’ dell’Anthologion di Stobeo: attirato solo dalla
descrizione delle idee che lo interessavano, Stobeo avrebbe tralasciato la
parte mediana del frammento.19 A questo proposito, Gobara riporta il
parallelo del fr. 7 K.‑A. di Filemone, tratto dalla commedia Σάρδιος, dove
Stobeo sembra utilizzare la stessa tecnica epitomatrice. L’ipotesi non va
scartata, soprattutto perché altrimenti ci troveremmo davanti all’anomala
mancanza del lemma dell’ecloga del fr. 195 K.‑A.
Come messo in luce già da Bernhardt, la correttezza testuale dei
frammenti trasmessi da Stobeo è spesso discutibile, dal momento che lo
studioso era solito rielaborare i testi citati per ragioni di varia natura, ad
esempio ai fini di un loro adattamento a specifiche fisionomie testuali o
finalità letterarie (la Gebrauchsliteratur), che potevano facilmente dare adito
ad alcune modifiche dei passi citati.20 Il frammento, pertanto, ha stimolato
numerose congetture su vari aspetti della sua ricostruzione testuale. Gli

18
EDMONDS 1961, 6 e GOBARA 1986, 203. Nel passo in questione, cinque versi
impropriamente attribuiti a Filemone, che si ritrovano come corpo unico anche nel
secondo ‘testo’ della Comparatio Menandri et Philistionis II 77‑81 J. (intitolato Μενάνδρου
καὶ Φιλιστίωνος σύγκρισις), sono stati correttamente divisi in tre diversi lemmi poiché
difficilmente essi potevano essere consecutivi.
19
Cf. i frr. 89 e 93 K.‑A. e la bibliografia in GOBARA 1986, 204. Del resto, come ben
sintetizzato da CAMPBELL 1984, 54, «Stobaeus compiled the work, as he said in his
prefatory letter, to be an aide‑memoire for his son, who had difficulty in remembering
what he had read. Although his avowed purpose is not moral instruction, he will have
been unwilling to introduce material that might lead the youth astray».
20
Le ipotesi di Bernhardt 1861 sono ribadite e.g. in DIELS 1875, 180 n. 2 e LURIA 1929.
Cf. anche PICCIONE 1994a, 1994b, 1999, 2004, CAMPBELL 1984 e KONSTAN 2011. Del
resto, come hanno giustamente messo in luce MANSFELD e RUNIA 1996, 223, «The aim
of the anthologist is not to preserve an old book but to make a new one. It gives him
pleasure to rearrange his material in a novel and attractive way. Textual modification
is bound to occur on a small scale in order to facilitate the arrangement of the
material».
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 277

studiosi hanno espresso molti dubbi, in particolare, circa l’incipit del


frammento, che i codici tramandano in tre differenti lezioni: ὦ πῶς (‘oh,
come’, tramandato da A e Br), ὢ πῶς (di significato uguale al precedente,
tramandato da Mac) e πῶς (‘come’, attestato in Md)21; quest’ultimo darebbe
luogo a una versione metricamente monca di una sillaba, laddove la
particella esclamativa sottolineerebbe il contenuto del frammento, cioè il
biasimo della natura umana. Sebbene stampata (non senza perplessità)
dalla maggior parte degli editori (da ultimi gli stessi K.‑A.), la tradizione
testuale dell’incipit è stata per lungo tempo oggetto di critiche e perplessità
per l’inusuale costruzione πῶς + aggettivo (cf. e.g. Kock 1884, 78, «quod ne
graecum quidem est»), difesa, al contrario, da Rupprecht sulla base di
numerosi passi paralleli e da Gobara, che non senza buone motivazioni
difende la tradizione manoscritta alla luce del fatto che Filemone, talvolta,
si discosta dalla cifra linguistica di altri autori.22 Numerose le congetture
vòlte al (presunto) risanamento del testo. Dobree, che attribuisce erronea‑
mente il frammento alla commedia Ἄγροικος, propone timidamente
(malim) ὄντως (‘veramente’, ‘certamente’).23 La congettura convince sul
piano paleografico, specialmente qualora si considerasse l’omega riportata
da ABrMac alla stregua di un riempitivo metrico aggiunto da Stobeo (o
dalla sua fonte): il semplice πῶς tramandato da Md sarebbe potuto
facilmente derivare da una corruzione del tau. L’avverbio proposto, inoltre,
è pertinente sul piano metrico, dal momento che non mancano attestazioni
in cui compare a inizio di trimetro in commedia (cf. e.g. Anax. fr. 39, 2,
Antiph. frr. 210, 6 e 270, 2).24 Convince, infine, sul piano semantico: ci
troveremmo davanti a un avverbio vòlto ad enfatizzare la caratura gnomica
del frammento.25 Deubner, seguendo i tre codici riportati da Schow,
appoggiato timidamente da Meineke, ipotizza l’insoddisfacente Φεῦ / ὡς
παμπόνηρον, relegando l’esclamazione fuori dal verso.26 L’ipotesi, però,
non convince poiché Φεῦ dovrebbe ricoprire l’ultimo metron di un ipotetico

21
La sigla Md rappresenta la collatio ad opera di Dindorf del codex Escurialensis
LXXXX, cioè M cf. HENSE 1958, I XXIX, LXVII.
22
RUPPRECHT 1925, 207‑208.
23
DOBREE 1833, 286.
24
Nel frammento di Anassila l’avverbio introduce una domanda, ed ha il valore di
‘sul serio…?’. Non si può escludere (cf. supra) che anche nel frammento di Filemone
in questione ci potesse essere una simile costruzione sintattica. Su Antiph. fr. 270 cf.
ARNOTT 1996, 848.
25
Sull’uso di ὄντως cf. anche CASSIO 1975. Si noti, comunque, che altri avverbi
potrebbero sostituire ὄντως nella sequenza metrica indifferens + ὡς.
26
DEUBNER 1838, 107, MEINEKE 1841, 3.
278 Sebastiano Bertolini

verso precedente, secondo un uso decisamente raro (cf. S. Tr. 1017 e Ar. Lys.
256) e non in linea con l’usuale modus citandi di Stobeo, che avrebbe
originariamente citato la sola ultima sillaba di un verso precedente.27 Bothe
giudica la lezione ὦ πῶς ‘ungewöhnlich’ e suppone che essa altro non sia
che un possibile riempitivo del verso.28 Lo studioso propone pertanto
ἁπλῶς (‘schlechthin’), in séguito proposto anche da Schenkl (1895, 474):
l’avverbio è attestato a inizio trimetro (cf. e.g. [Eur]. Rh. 851) e trova riscontro
anche in Filemone (fr. 114), ma la congettura non sembra risolutiva.
Hermann corregge il testo in πάντως (‘del tutto, affatto’), ma, come sottoli‑
neato da Arnott, l’avverbio «at a clause’s opening emphasises a following
negative, although the degree of emphasis may vary from ‘not to all’ to ‘not
entirely’ according to the context, speaker and tone»:29 l’assenza di una frase
negativa in questo frangente spinge ad accantonare la congettura. Per
Hirschig (1849, 18), in incipit di verso «videtur legendum πῶς οὐ πονηρόν
ἐστιν κτἑ. quod adhibetur sicuti εἶτ’οὐ seguente γάρ», ma l’aggiunta della
negazione nel primo verso sembra contraddire in toto il significato della
seconda pericope, che non si presenta come un’affermazione ma come una
possibilità incompiuta introdotta da ἄν, implicante pertanto un desiderio
e non una descrizione dello stato delle cose.30 Naber ha proposto οἴμ’ ὡς,
una congettura che ha riscosso un certo successo (cf. e.g. Kock II 478 «quod
frequentissimum est apud comicos») grazie al buon numero di passi comici
paralleli.31 Naber (1880, 407‑408), inoltre, non si limita a modificare l’incipit
del verso, ma interviene anche sull’explicit, che a suo avviso sarebbe da
correggere in ἄνθρωπος φύσει, sulla base del fatto che il dativo φύσει è
attestato, insieme al neutro, in numerosi passi comici. Schenkl ha proposto
l’insoddisfacente ἦ που, mentre Blaydes, pur giudicando corretta l’ipotesi
di Naber (οἴμ’ ὡς), non esclude la presenza degli avverbi ὅλως o δεινῶς a
inizio verso.32

27
Cf. PICCIONE 2003, 247‑248.
28
BOTHE 1844, 70.
29
HERMANN 1847, 608, ARNOTT (1996, 662‑663 ad Alex. fr. 235).
30
Secondo questa prospettiva, proprio il γάρ che viene portato da Hirschig a
sostegno della sua ipotesi sembra confermare il tono pessimistico della prima frase.
L’unica possibilità per salvare la congettura di Hirschig sarebbe quella di sostituire al
punto in alto il punto interrogativo. In tal caso, l’espressione significherebbe ‘forse che
non è malvagia la natura umana, nel complesso?’, con πῶς οὐ (come suggerito dallo
studioso) nel significato esclamativo in domanda retorica che εἶτ’οὐ presenta in e.g.
Dem. 1, 24. La correzione testuale, tuttavia, non sembra giustificata ed è perciò da
rigettare. L’ipotesi di Hirschig non viene esclusa da SCHENKL 1895, 474.
31
NABER 1880, 408.
32
SCHENKL 1895, 474, BLAYDES (1896, II, 182).
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 279

3. Il contenuto filosofico del frammento

Nel frammento, la persona loquens sembra biasimare la malvagità della


natura umana, che altrimenti farebbe a meno della legge. L’identità del
parlante è ignota, ma l’uso di alcune espressioni che ricorrono nel lessico
filosofico ci spinge all’identificazione del personaggio con l’agyrtēs possibile
protagonista della commedia. La prospettiva hobbesiana dell’homo homini
lupus e del bellum omnium contra omnes non è nuova al pensiero greco, come
dimostrato da numerose pubblicazioni.33 Nel frammento sembra evidente
un influsso filosofico, che si manifesta sia a livello esegetico che linguistico,
basato in primis sull’alternanza nomos‑physis.34
ὦ πῶς: In questa specifica configurazione (ammesso che essa sia
fededegna, cf. supra), l’esclamazione è hapax fino al IV secolo a.C. Tale
scarsità di paralleli sembra supportare la posizione di chi considera corrotto
l’incipit del testo. Non mancano, però, attestazioni simili nella struttura ὦ
+ invocazione, + πῶς + proposizione (spesso interrogativa), come e.g. Hom.
Od. 10, 337, E. Andr. 1036.
πονηρόν: Il termine, attestato fin da Esiodo, presenta una vasta gamma
di significati e assume diverse accezioni (politica, filosofica, morale etc.) a
seconda del contesto in cui è impiegato. Dato il riferimento alla legge e alla
tradizionale contrapposizione φύσις / νόμος in cui si inserisce il frammen‑
to, il valore dell’aggettivo, verosimilmente, corrisponde a ‘cattivo’,
‘malvagio’ (cf. e.g. A. Ch. 1045, Ar. Eq. 336‑337, Lys. 350), come del resto
sembra essere in molti passi paralleli, dove l’aggettivo è riferito alla φύσις
(cf. e.g. Dem. 18, 131, A. 3, 147). Non si può escludere del tutto, comunque,
una sorta di compatimento della persona loquens verso la natura umana
(nel qual caso, il significato sarebbe piuttosto quello di ‘sfortunato’
con una connotazione compassionevole, cioè ‘sciagurato’, cf. e.g. Ar. Nub.
102).
ἀνθρώπου φύσις: Il dualismo legge‑natura, φύσις / νόμος, rappre‑
senta uno dei cardini filosofico‑teorici del pensiero antico (e non solo). È
interessante che non si abbiano collegamenti testuali così espliciti e
ravvicinati in commedia prima del IV secolo. La contrapposizione ricorre

33
L’immensa tematica del cosiddetto ‘contratto sociale’ è stata oggetto di numerosi
studi, anche alla luce della pervasività del tema nella letteratura antica e dei
collegamenti che essa intrattiene con altre tematiche, quali e.g. il concetto di progresso
umano a partire da una condizione ‘primitiva’. Sul tema cf. e.g. GOUGH 19572, GUTHRIE
1969, 1971, MULGAN 1979, KAHN 1981, KELLY 1992, PANI 2007.
34
Dal punto di vista stilistico, il frammento rappresenta un tipico esempio di gnomē,
su cui cf., in particolare, CONCA 1973.
280 Sebastiano Bertolini

in un altro frammento di Filemone (fr. 96 K.‑A.) che ricorda, dal punto di


vista tematico, il fr. 2.35 Non mancano simili dichiarazioni anche in
Menandro (Epitr. 1123 e fr. 844, 12‑13). Il primo passo (ἡ φύσις ἐβούλεθ’,
ἧι νόμων οὐδὲν μέλει, ‘lo volle la natura, a cui non importa nulla delle
leggi’) rappresenta una citazione dell’Auge di Euripide (cf. e.g. Martina
2000, 582‑584, Furley 2009, 253‑254); nel secondo (ἀγωνίαι, δόξαι,
φιλοτιμίαι, νόμοι, / ἅπαντα ταῦτ’ ἐπίθετα τῇ φύσει κακά, ‘gare, opinioni,
ambizioni, leggi, / tutte queste sono cattive aggiunte alla vita’), ancora una
vòlta la vita degli animali viene preferita a quella degli uomini, e le leggi
altro non sono che cattive ‘aggiunte’ alla natura.
τὸ σύνολον: Il termine, che va qui inteso nel significato di ‘nel com‑
plesso’ (cf. e.g. Pl. Sph. 220b, Lg. 654b), non ha altre attestazioni in commedia
prima di Menandro (cf. e.g. fr. 395, 2 K.). Se non si vuole considerare
l’espressione una sorta di colloquialismo (tuttavia parzialmente ingiusti‑
ficato nel passo in questione data la natura gnomica del distico), il buon
numero di attestazioni del nome avverbiale nel lessico filosofico (cf. e.g.
Democr. fr. 53 D.‑K., Pl. Sph. 220b, Lg. 654b, Arist. De an. 409b, Metaph. 995b,
Thphr. CP 2. 3. 3) potrebbe suggerire l’identità del personaggio in
questione, e cioè un ciarlatano che si riempie la bocca di espressioni
filosofiche.
οὐ γὰρ ἄν ποτ(ε): A livello stilistico risalta l’accumulo di particelle che
introducono la seconda pericope, la quale costituisce una sorta di apodosi
di una protasi implicita. La sequenza οὐ γὰρ ἄν + tempo storico
dell’indicativo è attestata già nel V secolo (cf. e.g. Thuc. 1, 68, 4, 2). La
sequenza inclusiva anche della particella ποτε (seppur talvolta in ordine
diverso) è ben attestata in generi teatrali (cf. e.g. E. Andr. 1283, Hec. 1269,
Herc. 264, IT 201, Ar. V. 927) e filosofici (cf. e.g. Pl. Phaed. 91b, 98a, Lach. 186d,
1).
ἐδεήθη νόμου: Alla luce delle considerazioni precedentemente espresse
circa il riscontro, nel frammento, di una possibile influenza filosofica,
sembra indicativo che il nesso δέω + νόμος ricorra in Platone (Leg. 875c) e
in Aristotele (EN. 1180a). In Platone, in particolare, troviamo sintetizzato
un concetto simile a quello espresso nel frammento, dove ancora una volta
(mutatis mutandis) lo stato di natura si contrappone a quello delle leggi (ἐπεὶ
ταῦτα εἴ ποτέ τις ἀνθρώπων φύσει ἱκανὸς θείᾳ μοίρᾳ γεννηθεὶς
παραλαβεῖν δυνατὸς εἴη, νόμων οὐδὲν ἂν δέοιτο τῶν ἀρξόντων ἑαυτοῦ·
‘ma se per grazia di un qualche dio un giorno nascesse un uomo per natura
in grado di superare le suddette difficoltà, questi non avrà in alcun modo

35
Cf. e.g. HEINIMANN 1945, 147 n. 74.
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 281

bisogno di leggi’) e dove non è da escludere che il verbo δέω associ al suo
significato proprio di ‘essere necessario, aver bisogno’ quello metaforico e
più espressivo di ‘essere legato, essere vincolato’.36

Come ho tentato di dimostrare, il fr. 2 K.‑A. di Filemone presenta, pur


nella sua brevità, numerose questioni di natura filologico‑esegetica degne
di considerazione. Mi auguro che quanto espresso in questo contributo
possa contribuire a stimolare, in futuro, la ricerca su uno dei più importanti
autori della Commedia Nuova spesso troppo ignorato dalla critica.

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36
Per considerazioni simili espresse tramite lo stesso nesso, cf. anche Men. Sent. 17,
1 Jäkel e Theophr. fr. 106, 1 Wimmer.
282 Sebastiano Bertolini

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Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 283

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Frammenti di follia.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria

MARCO FILIPPI (UNIVERSITÀ DEL MOLISE)

L’idea di affrontare il tema della follia nella tragedia latina in frammenti


nasce da alcune osservazioni effettuate, al tempo della tesi di dottorato, sui
drammi latini di argomento bacchico (Lycurgus di Nevio, Pentheus di
Pacuvio, Bacchae di Accio)1. Tuttavia, una più accurata indagine del pur
scarno materiale a disposizione permette di rilevare che la follia ispirata
dall’estasi dionisiaca – la cosiddetta follia telestica o rituale – non è che una
delle varie forme di μανία individuabili nel teatro tragico latino ad oggi
pervenuto. Attraverso un’analisi a più ampio raggio dei frammenti latini
che sembrano trattare l’argomento, e grazie al confronto con gli studi già
compiuti in ambito greco sia filosofico che storico‑letterario, sarà possibile
gettare le basi per un discorso nuovo, che mi auguro possa rivelarsi utile ai
fini della comprensione della percezione che gli autori latini di teatro
dovevano avere della follia nelle sue varie manifestazioni2.
Una prima classificazione dei vari tipi di follia nell’antichità è quella
fornita da Platone nel Fedro. Nel dialogo sull’amore tra Socrate e Fedro
all’ombra del grande platano, il primo dichiara (Phaedr. 265ab):

Μανίας δέ γε εἴδη δύο, τὴν μὲν ὑπὸ νοσημάτων ἀνθρωπίνων, τὴν δὲ ὑπὸ
θείας ἐξαλλαγῆς τῶν εἱωθότων νομίμων γιγνομένην. […] Τῆς δὲ θείας
τεττάρων θεῶν τέτταρα μέρη διελόμενοι, μαντικὴν μὲν ἐπίπνοιαν
Ἀπόλλωνος θέντες, Διονύσου δὲ τελεστικήν, Μουσῶν δ’αὖ ποιητικήν,
τετάρτην δὲ Ἀφροδίτης καὶ Ἔρωτος, ὲρωτικὴν μανίαν ἐφήσαμέν τε
ἀρίστην εἶναι.

1
Gli Stasiastae vel Tropaeum dello stesso Accio, benché a lungo classificati fra i
drammi bacchici, soprattutto in virtù dell’integrazione Tropaeum <Liberi> risalente a
SCRIVERIUS 1620, 143 oggi per lo più respinta, devono essere ancora ritenuti di argo‑
mento incerto.
2
Sul tema della follia presso i Greci sono essenziali gli studi di FOUCAULT 1961,
MATTES 1970 e GUIDORIZZI 2010. Cf. inoltre, tra gli altri, HARRIES 1891; VAUGHAN 1919;
O’BRIEN‑MOORE 1924; KOEHM 1928; WALDMANN 1962; MOSS 1967, 709‑722; CIANI 1974,
70‑110; SIMON 1978; CIANI 1983; PADEL 1995; GILL 1996, 249‑267; LÓPEZ SACO 2006, 185‑
206; GARCIA 2011, 211‑222; HARRIS 2013; LÓPEZ SACO 2014, 1‑21; THUMIGER 2017.
286 Marco Filippi

Ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l’altra che
nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. […] Distinguendo
quattro parti di quella divina in relazione a quattro dei, abbiamo attribuito
l’ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania
amorosa è la migliore3.

Dopo aver accennato a quella forma di follia causata da una malattia, e


quindi di origine umana, Socrate introduce una quadripartizione della
follia di origine divina, distinguendo le quattro parti in relazione a quattro
divinità – o gruppi di divinità – differenti.

Follia ispirata dalla divinità:


a. mantica (Apollo);
b. telestica (Dioniso);
c. poetica (Muse);
d. erotica (Eros/Afrodite).

A ognuno di questi quattro tipi di follia possiamo ricollegare esempi


tratti dalla tragedia greca, come in parte è già stato evidenziato dalla critica
più e meno recente; quello che invece finora – che io sappia – non sembra
esser stato notato è che è possibile utilizzare la quadripartizione platonica
anche per la tragedia latina ricollegando agli stessi quattro tipi di follia qui
distinti altrettante e determinate situazioni presenti nei drammi latini in
frammenti.
Il risultato di questo procedere può tradursi nello schema che segue:
follia mantica: Cassandra, sacerdotessa di Apollo in grado di prevedere
il futuro, non ricambia l’amore del dio e per questo, quando invasata, è
destinata a non essere creduta;
follia telestica: Licurgo re degli Edoni e Penteo re di Tebe non riconosco‑
no l’autorità di Bacco; fatti impazzire dal dio, sono destinati a una fine
orrenda;
follia poetica: Ennio, poeta latino, non fa poesia se non è pervaso dall’e‑
stro ispiratogli dalle Muse;
follia erotica: Tereo, folle d’amore per la cognata Filomela, la stupra e le
strappa la lingua; sarà punito da lei e dalla moglie. Medea, folle d’amore
per Giasone, fa a pezzi il fratello Absirto; poi, ripudiata dall’uomo amato,
ne uccide la nuova moglie e il padre di lei, e infine anche i propri figli.

3
Trad. it. CACCIA 1997, 491. Le traduzioni dei passi greci e latini riportati nel
presente articolo sono di chi scrive salvo dove diversamente indicato.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 287

Fedra, folle d’amore per il figliastro Ippolito e da questi respinta, lo calunnia


e determina la sua rovina, per poi suicidarsi.

Ciascuno dei casi sopra riportati – salvo quello di Fedra – sembra avere
precisi riscontri nel panorama tragico latino in frammenti. Vediamone
alcuni più da vicino.

1. La profezia di Cassandra

Enn. TrRF II inc. F 151 = trag. 39‑53 R.3 (Alexander)

(Hecuba)
Sed quid oculis rabere4 visa est derepente ardentibus?
Ubi illa paulo ante sapiens virginali’ modestia?

(Cassandra)
Mater, optumatum multo mulier melior mulierum,
missa sum superstitiosis hariolationibus:
namque me Apollo fatis fandis dementem invitam ciet.

Adest adest fax obvoluta sanguine atque incendio.
Multos annos latuit; cives, ferte opem et restinguite5.

(Ecuba)
Ma perché sembra improvvisamente adirarsi, con occhi ardenti? Dov’è
quella modestia verginale fino a poco fa assennata?

(Cassandra)
Madre, di gran lunga migliore di tutte le donne, sono trasportata da vaticinî
profetici; infatti Apollo mi spinge, contro la mia volontà, a rivelare i fati da
folle. … Eccola, eccola la fiaccola avvolta di sangue e fuoco; è stata nascosta
per molti anni. Cittadini, aiutatemi e spegnetela!

4
Rabere, lezione dei deteriores accolta già da Lambinus e Muretus e poi da RIBBECK
1852, 17; 1871, 20; 1897, 23, sembra adattarsi meglio, a mio avviso, al contesto del
frammento, e si contrappone significativamente a sapiens del verso successivo
(maggiori dettagli in SKUTSCH 1967 = 1968, 183).
5
Qui e in seguito le parti da me sottolineate hanno lo scopo di evidenziare i termini
o le espressioni che specificamente appartengono al cosiddetto «lessico della follia» e
che si dimostreranno ricorrenti nei frammenti tragici.
288 Marco Filippi

Dalle parole di Ecuba si evince chiaramente come l’invasamento della


figlia sia contraddistinto dalla repentinità (derepente; altri esempi dello
stesso tipo sono riportati in Acc. trag. 169 R.3 eccos e trag. 156 subiti). Gli oculi
ardentes sono un chiaro sintomo di follia (cf. Enn. TrRF II F 13, 1 = trag. 32
R.3 [Alcumeo] oculorum aspectu; Plaut. Capt. 594; Men. 829; in altri passi, in
letteratura greca, si parla degli occhi sanguinanti delle Erinni o di quelli,
strabuzzati, del malato di mente o dell’Oreste euripideo); vediamo, inoltre,
come l’ardor del folle torni espresso sotto forma di fuoco e fiamme in molti
casi: cf., ancora qui, fax obvoluta… incendio (la fax naturalmente è
Paride/Alessandro, rovina di Troia e protagonista del dramma omonimo)
e il frequente ricorrere della metafora in Enn. TrRF II F 13, 2‑10 = trag. 25‑
31 R.3 (unde haec flamma oritur?; flammiferam… vim; igni incedunt; ardentibus
taedis); cf. anche Acc. trag. 637 R.3 amore… flammeo, ecc.
Le parole di risposta di Cassandra alla madre sono rese concitate dalla
forte allitterazione della nasale liquida (mater, optumatum multo mulier
melior mulierum) e dall’asindeto (adest adest), che pure ricorre spesso in
situazioni in cui è un folle a esprimersi (Alcmeone in Enn. TrRF II F 12 morbo
exilio atque inopia e TrRF II F 13, 3 incedunt incedunt adsunt, me expetunt). Allo
stesso modo ritorna anche altrove il semantema demens, qui appellativo
tipico di colui che è fuori di sé (cf. ancora Acc. trag. 638 R.3 dementia [dal
Tereus] in riferimento allo stato di follia di Tereo, e Acc. trag. 450 R.3 amentia
[dal Meleager] ma anche Acc. trag. 69 R.3 tarditudine [dall’Alcimeo] e praet.
32 R.3 hebetem [dal Brutus]).

2. La follia bacchica6

Serv. ad Verg. Aen. 4, 469

Pentheus autem secundum tragoediam Pacuvii furuit etiam ipse.

Penteo secondo la tragedia di Pacuvio impazzì anche lui stesso.

Serv. Dan. ad Verg. Aen. 4, 469

Pentheus autem furuisse traditur secundum tragoediam Pacuvii. De quo fabula


talis est. …

6
Sebbene i frammenti del Lycurgus di Nevio siano numerosi, non siamo ancora in
grado di appurare con sicurezza quale variante del mito il poeta latino avesse adottato
per il finale del suo dramma. Non si rilevano in questa tragedia riferimenti
inequivocabili a stati di follia, delle menadi o del re.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 289

Si tramanda d’altronde secondo la tragedia di Pacuvio che Penteo sia


impazzito. Su questo la storia è…

Acc. trag. 259 R.3 (Bacchae)

quanta in venando affecta est7 laetitudine

Quanta gioia ha provato nel cacciare.

Acc. trag. 260 R.3 (Bacchae)

splendet saepe, ast idem nimbis interdum nigret.

Spesso splende, e talvolta si oscura di nubi8.

L’unico elemento certo del Pentheus di Pacuvio – del quale, come è noto,
non è pervenuto alcun frammento – è proprio lo stato di follia del
protagonista, come si rileva dall’uso del verbo furio nel commentario
serviano al passo dell’Eneide sopra menzionato; quanto segue nella
testimonianza del Danielino, invece, non è riconducibile con sicurezza alla
trama del dramma pacuviano, poiché quo potrebbe riferirsi al personaggio
di Penteo e non al titolo della tragedia.
Meglio informati siamo sulle Bacchae di Accio, delle quali sono pervenuti
numerosi frammenti la cui analisi e la cui ricostruzione riconducono, come
di consueto, a evidenti ascendenze euripidee.

7
I codici di Non. 191 L. riportano la lezione corrotta affectio est, corretta in vario
modo dagli studiosi. Fra gli altri, MÜLLER 1869, 240; 1885, 52; 1888, I, 188; 1890, 25 ha
proposto di leggere affecti est, vedendo in affecti un genitivo dello stesso tipo di aspecti,
exerciti, lucti, e ha ritenuto plausibile che il copista, non riconoscendolo, abbia mutato
affecti in affectio per conservare un soggetto all’interno della frase. La correzione di
Müller ha il vantaggio, rispetto ad altre, di permettere un riferimento diretto ad Agave
e quindi di ricollegarsi più strettamente al contesto euripideo presumibilmente qui
tenuto in considerazione da Accio, cioè E. Bacc. 1144‑1145, dove è proprio Agave il
soggetto della frase. Tuttavia è forse preferibile la correzione di RIBBECK 1852, 143; 1871,
170; 1897, 195 in affecta est perché, oltre a implicare un riferimento pure diretto ad
Agave, allo stesso tempo non comporta la particolarità dell’uso di un genitivo affecti,
risultando quindi più economica.
8
Anche un curioso frammento tratto dalle Nuptiae Bacchi (o Nuntii Bacchi?) di
Santra, poeta tragico ed erudito del I sec. a.C., sembra far riferimento al furor bacchico:
TrRF I F 1 = trag. 1‑2 R.3 … ita obpletum sono / furenter ab omni parte bacchatur nemus («così
riempito del suono il bosco da ogni parte furiosamente rimbomba di grida bacchiche»).
290 Marco Filippi

Se per Acc. trag. 259 R.3, come credo, il parallelo con E. Bacc. 1144‑1145
va inteso in senso stretto, non si dovrà pensare che il frammento latino
contenga semplicemente la gioia delle baccanti o di Agave nell’andare a
caccia né, come ipotizza Ribbeck, parole rivolte a Penteo da Bacco, il quale
chiederebbe al re se voglia vedere le baccanti nel bosco e quanto sia
soddisfatta sua madre della caccia (cf. E. Bacc. 811; 916)9. Piuttosto, si dovrà
ritenere che il frammento contenga parole di qualcuno, forse un
messaggero, che descriverebbe come Agave, sotto l’effetto del furor bacchico
(cf. affecta est), abbia dato la caccia a suo figlio senza riconoscerlo e in seguito
lo abbia smembrato con l’aiuto delle altre menadi e si sia rallegrata della
sua preda, portandone la testa conficcata su un tirso.
L’ipotesi secondo la quale Acc. trag. 260 R.3 appartenga a un contesto di
follia è invece più fragile; qui è forse presente un richiamo ad E. Bacc. 1264‑
1267 dove, in una serrata sticomitia, Cadmo si assume il compito di
riportare Agave alla ragione e lo fa esortandola ad alzare gli occhi al cielo
e domandandole se vi noti qualche mutamento, e lei risponde che è più
limpido di prima. Presumibilmente, secondo quest’interpretazione, a
questo punto Cadmo risponderebbe che spesso il cielo è sereno ma che
talora si copre di nubi, e così preparerebbe l’animo di Agave al macabro
riconoscimento del cadavere del figlio10. Altri tentativi di interpretazione
sono tuttavia possibili; si è pensato, ad esempio, a un’allusione al monte
Citerone11 o a un accenno alla mutevolezza della sorte umana, paragonata
ai fenomeni atmosferici12.

3. L’ispirazione poetica di Ennio

La «follia» poetica, in realtà, non può essere definita come una forma di
follia vera e propria; essa è estro, ispirazione.
Riporto qui il caso di Ennio, poeta a tutti noto per l’autoconsapevolezza
del proprio ruolo di alter Homerus, il quale, soprattutto nei proemi al I e al
VII libro degli Annales, si appella alle Muse come fonti della propria
ispirazione.
Quello che qui pure interessa evidenziare è la curiosa dichiarazione di
poetica presente in un frammento probabilmente appartenente alle Saturae,
ma di non facile collocazione:

9
Cf. RIBBECK 1875, 573‑574.
10
Cf. RIBBECK 1875, 574.
11
Cf. BOTHE 1823, 189.
12
Cf. MÜLLER 1890, 25.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 291

Enn. sat. 64 V2.

numquam poetor nisi si podager.

Non faccio mai poesia se non sono affetto da podagra.

Il poeta in prima persona specifica di non far poesia se non quando è


colpito dalla podagra; si è quindi supposto che, potendo la podagra
derivare dall’eccessivo bere, il poeta scrivesse poesia solo sotto l’effetto
dell’alcool13. Alla circostanza fa scherzosamente riferimento anche Orazio
in epist. 1, 19, 6‑8, dando adito a molte discussioni14; il Venosino, in pratica,
riconosce ad Ennio anche un certo estro «dionisiaco» (per il quale v. supra).

4. L’amore come follia (Tereo, Medea)

La quarta e ultima tipologia di follia, quella derivante da Eros/Afrodite,


è considerata da Platone la «migliore» poiché, a differenza delle altre
(specialmente le prime due), in un certo senso «migliora» le condizioni
dell’individuo. La tragedia tuttavia presenta anche – e soprattutto – esempi
di follia amorosa contraddistinti da connotazioni negative.
È il caso del re barbaro Tereo che si invaghisce della cognata (nel Tereus
di Accio, derivante a sua volta, con ogni probabilità, dal Tereo di Sofocle);
qui non si può neanche parlare di «amore», ma casomai di una forma di
bramosia sfrenata, che può ricordarci, se si pensa ancora al Fedro di Platone,
il cavallo nero simbolo di sfrenatezza che traina la biga alata di Amore
assieme a quello bianco simbolo di moderazione. Dell’amore – se di amore
si può parlare – qui s’intende mettere in evidenza l’aspetto negativo.

Acc. trag. 636‑639 R.3 (Tereus).

Tereus indomito more atque animo barbaro


conspexit ut eam, amore vecors flammeo,
depositus facinus pessimum ex dementia
confingit…

Tereo, sfrenato e con cuore barbarico la guarda. Dissennato per l’amore


ardente, spacciato, prepara il peggior crimine dalla follia…

13
Cogliamo esempi affini nella letteratura di ogni tempo e luogo, dal Coleridge
oppiomane di Kubla Khan al Baudelaire bevitore, soprattutto di assenzio.
14
Cf. GRILLI 1978, 34‑38; PRINZEN 1998, 250‑251; TIMPANARO 2002, 678.
292 Marco Filippi

Il re trace è distrutto (depositus) dalla passione ardente per la cognata;


tornano a manifestarsi, come si è già notato, da un lato la varia terminologia
appartenente al lessico dei folli (amore… flammeo; dementia); dall’altro, la
repentinità che contraddistingue questo genere di follia (conspexit ut…). In
più si accenna a un facinus, ossia al risultato dell’azione della follia, in
questo caso la glossotomia di Filomela (cf. anche Ov. met. 6, 561). L’accenno
a tale risultato torna almeno in un altro caso, che molto ha in comune con
quello di Tereo, essendone in un certo senso ispirato: quello del mito di
Atreo (cf. Acc. trag. 201 R.3 maius miscendumst malum, per cui v. infra).

Ov. TrRF I F 2 = trag. 2 R.3 (Medea)

Feror huc illuc ut plena deo!

Sono trasportata qua e là come invasata dal dio!

Medea, come Tereo, è pervasa dalla follia amorosa. È plena deo,


letteralmente «invasata» dal dio, come Cassandra, e non più padrona di sé
stessa, ma trascinata da una parte all’altra; feror, qui termine‑chiave come
altrove in riferimento a Medea (soprattutto in Ov. epist. 12 e nella Medea di
Seneca) e ancora ad Atreo nel Thyestes senecano, denota formidabilmente
l’impossibilità di reagire del mortale di fronte a qualcosa di molto più
grande e potente di lui.

***

C’è di più. Premesso che ognuno dei casi di follia finora esaminati
appare ispirato da una divinità in qualche modo adirata con il personaggio
che sarà soggetto a follia o vittima di un personaggio che sarà soggetto a
follia (o entrambe le cose: cf. il caso di Penteo già esaminato e quello di Ino
infra), qualora ci si voglia allontanare dalla quadripartizione platonica
finora utilizzata per l’analisi degli esempi presi dal teatro latino frammen‑
tario e si voglia tentare un’altra via di classificazione che tenga conto
comunque di casi di follia ispirati da un dio, ci si accorgerà che un elemento
comune alla maggior parte delle vicende di follia presenti nel teatro tragico
latino è quello del parenticidio, ossia l’uccisione di un familiare (un figlio,
un genitore, un fratello, ecc.). In parole povere, si può notare come spesso
il parenticidio sia connesso a episodi di follia, figurando nel mito come
causa o conseguenza di quest’ultima.

Traduco quanto detto, per comodità, nello schema che segue.


1) Follia come causa di un parenticidio: Atamante e Ino, genitori
adottivi di Bacco figlio di Semele e Giove e per questo inviso a Giunone,
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 293

vengono fatti impazzire da quest’ultima; Atamante uccide il figlio maggiore


Learco; Ino uccide l’altro figlio, Melicerte, e si getta dalla finestra del
palazzo reale. Ercole, figlio di Alcmena e Giove e per questo inviso a
Giunone, viene fatto impazzire da quest’ultima; uccide la moglie Megara
e i figli.
2) Follia come conseguenza di un parenticidio: Oreste, su istigazione
di Apollo, uccide sua madre Clitemnestra per vendicare l’assassinio del
padre Agamennone e impazzisce perseguitato dalle Erinni. Alcmeone, su
istigazione del padre Anfiarao, uccide sua madre Erifile per vendicare il
padre stesso, condotto da lei a morte certa, e impazzisce anch’egli perse‑
guitato dalle Erinni.

Se sulle vicende di Ino e Atamante abbiamo tracce sicure nella tragedia


latina arcaica15, meno informati siamo sul modo in cui tale vicenda venisse
trattata; anche se dobbiamo ritenere molto probabile la presenza dell’epi‑
sodio di follia nella trama di almeno uno dei drammi pervenuti su questo
mito, sfortunatamente non abbiamo resti che possano dimostrarla16.
Diverso è il discorso sui miti, spesso l’un l’altro correlati, di Oreste e
Alcmeone, che nella tragedia e in generale nella letteratura latina hanno
avuto maggior fortuna, tanto da far assurgere i loro protagonisti a vittime
esemplari dell’azione della follia. Il mito di Oreste è più noto, grazie
soprattutto alla trattazione che ne dà Eschilo nell’Orestea, rielaborata poi
con ogni probabilità da Ennio nelle Eumenides e, forse, da Pacuvio in un
Orestes17 e da Accio in uno dei drammi sullo stesso argomento (Aegisthus?
Clytaemestra?). Se però in Eschilo le Erinni, demoni più antichi dello stesso

15
Cf. l’Athamas di Ennio e l’Athamas di Accio, a tacere della controversa Ino di Livio
Andronico.
16
Si noti però l’indubbia presenza dell’elemento bacchico nell’unico frammento
superstite dell’Athamas di Ennio: TrRF II F 42 = trag. 107‑11 R.3 <his> erat in ore Bromius,
his Bacchus pater, / illis Lyaeus vitis inventor sacrae, / tum pariter †euhan euhium† / ignotus
iuvenum coetus alterna vice / inibat alacris Bacchico insulta<n>s modo («questi avevano
sulla bocca Bromio, questi Bacco padre, quelli Lieo inventore della sacra vite. Allora
ugualmente tutto il gruppo delle vergini e tutto quello dei giovani in coro alternato
intonava: ‘Evan, Evio, Evoé!’ freneticamente danzando alla maniera bacchica» [trad.
TRAGLIA 1986, 295]).
17
Cf. Serv. ad Verg. Aen. 4, 473 a Pacuvio Orestes inducitur Pyladis admonitu propter
vitandas Furias ingressus Apollinis templum, unde cum vellet exire, invadebatur a Furiis («da
Pacuvio Oreste è indotto dall’avvertimento di Pilade a entrare nel tempio di Apollo
per evitare le Furie; volendo uscire da questo, è assalito dalle Furie»). Il frammento
appartiene probabilmente all’Hermiona o a un Orestes di Pacuvio. Sui problemi legati
all’esistenza di quest’ultimo cf. D’ANNA 1965, 47‑69; REGGIANI 1990, 21‑32 e, più
recentemente, DEGIOVANNI 2011, 256‑284.
294 Marco Filippi

Apollo, sono caratterizzate da una nota di oggettività e si mira a mettere in


evidenza gli aspetti rituali che possano garantire una sorta di rimedio alla
realizzazione dell’azione cruenta, è solo con Euripide, che riprende il mito
nell’Oreste e, en passant, nell’Ifigenia Taurica (281‑319), che l’Erinni è sotto‑
posta a un processo di disoggettivazione e diviene un elemento proprio
della coscienza interiore del personaggio, sotto forma di senso di colpa18.
Pertanto in Euripide, poeta razionale e «illuminista», la follia diviene una
sorta di malattia mentale dettata dal rimorso e l’Erinni la rappresentazione
di questo rimorso, dal quale è ancor più difficile liberarsi che se si trattasse
di una semplice purificazione a seguito di un atto sanguinario presso un
particolare luogo di culto e attraverso un particolare procedimento rituale19.
Le mani pulite non bastano, dev’essere puro anche il cuore (E. Or. 1602‑
1604)20.
La tragedia latina arcaica, come per molti altri rispetti, anche per questo
si rifà, evidentemente, al modello euripideo; lo possiamo rilevare ad un
esame più attento dei frammenti tramandati sulla vicenda di Alcmeone:

Enn. TrRF II F 12 = trag. 20‑4 R.3 (Alcumeo)21.

multis sum modis circumventus, morbo exilio atque inopia;


tum pavor sapientiam omnem mi exanimato expectorat.
Mater22 terribilem minatur vitae cruciatum et necem;
quae nemo est tam firmo ingenio et tanta confidentia,
quin refugiat timido sanguen atque exalbescat metu.

18
Un’anticipazione del concetto è però già in S. Antig. 603, dove si parla di «Erinni
della mente».
19
Su tali luoghi e procedimenti rituali in riferimento al mito di Oreste, istruttivo
Paus. 2, 31, 4; 2, 31, 8‑9; 8, 34, 1‑3. Cf. anche DELCOURT 1959, 94‑95 e fig. 7.
20
Sulla follia di Oreste cf. HEIBERG 1927, 1‑44; HALLIDAY 1936, 277‑294; FLASHAR
1966; MOSS 1967, 709‑722; PIGEAUD 1981; GARZYA 1992, 25‑32; GRAVER 2003, 40‑54. Sulle
affinità tra la concezione euripidea della follia e la definizione clinica della malattia
mentale nel Corpus Hippocraticum cf. GREGORY 1974; DONADI 1975, 115‑128;
THEODOROU 1993, 32‑46; DETIENNE 1996, 23‑38; GUTIÉRREZ CADAVID 2015, 178‑183.
21
Non mi soffermo qui sul possibile confronto del frammento enniano con E. fr.
88a Kn., la cui attribuzione è tuttora controversa (KANNICHT 2005, 223‑224 lo inserisce
tra i frammenti dell’Alcmena, ma gli editori precedenti e buona parte della critica
ritengono piuttosto appartenga a un Alcmeone euripideo).
22
Accolgo la correzione mater di RIBBECK 1852, 15 (a intendere Erifile) di alter della
maggior parte dei codici (V O P U R, om. A H E) e posto tra cruces da GROTIUS 1828,
160; tra gli altri emendamenti mi limito a ricordare qui tetrum di MÜLLER 1884, 113 e
ultor di VAHLEN 1888‑1889 (= 1907, 401).
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 295

In molti modi sono oppresso dal male, dall’esilio e dalla povertà. Poi la
paura ha cacciato via dal mio petto a me, esausto, ogni pensiero assennato.
Mia madre minaccia la mia vita di terribile tormento e morte. Nessuno c’è
con un carattere così forte e con una tale fermezza che non si senta rifluire
il sangue per la paura e non impallidisca per lo spavento23.

Qui Alcmeone è angosciato dalle terribili immagini che infestano la sua


mente e lamenta la propria condizione di malato, povero ed esule coatto
(morbo exilio atque inopia, sostantivi qui equiparabili alle Furie che,
proverbialmente nel numero di tre, lo perseguitano24); egli è contaminato
e per questo motivo deve tenersi lontano dai santuari, dalle piazze e da
qualunque luogo di raduno sociale, smettendo di prender parte a tutto ciò
che costituisce la vita socio‑politica di un cittadino. Tutto ciò, oltre
naturalmente alla follia che lo assale, è fonte di tormento (cruciatum et
necem), e la paura è caratterizzata dal tipico pallore (exalbescat metu).
La migliore caratterizzazione della follia, non solo di questa tragedia ma
di tutta la letteratura tragica frammentaria sia per la forma che per la
precisione delle descrizioni, è però nel frammento che segue, ove è ancora
Alcmeone a parlare:

Enn. TrRF II F 13, 2‑10 = trag. 25‑31 R.3 (Alcumeo).

unde haec flamma oritur?

Incedunt incedunt adsunt, me expetunt.

Fer mi auxilium, pestem abige a me,


flammiferam hanc vim, quae me excruciat;
caeruleae incinctae igni incedunt,
circumstant cum ardentibus taedis.

23
Nel caso dell’Alcumeo enniano riporto in nota anche alcuni dei passi ciceroniani
che tramandano i frammenti, in quanto utili ai fini dell’indagine. In Cic. de orat. 3, 217‑
219 sono evidenziati i toni con cui le parole di Alcmeone sono pronunciate: aliud (scil.
vocis genus sibi sumat) metus, demissum et haesitans et abiectum: ‘multis… metu’
(«diverso sarà il tono della paura, basso, esitante, avvilito…» [trad. NARDUCCI 2001,
731]). In Cic. Tusc. 4, 18‑19 sono elencate le varie passioni che contraddistin‑
guono il passo enniano in esame: quae autem subiecta sunt sub metum, ea sic definiunt:
pigritiam…, terrorem…, timorem…, pavorem metum mentem loco moventem (ex quo illud
Enni: ‘tum pavor… expectorat’), exanimationem…, conturbationem…, formidinem («per
quanto riguarda le passioni che rientrano nell’ambito della paura, le definizioni sono
le seguenti: pigrizia… terrore… timore… Lo spavento è la paura che fa uscire di senno,
come risulta dal passo di Ennio: …, smarrimento… sconvolgimento… ansia…» [trad.
NARDUCCI 2000, 374‑375]).
24
La suggestione è di JOCELYN 1967, 191.
296 Marco Filippi

Intendit crinitus Apollo


arcum auratum luna innixus,
Diana facem iacit a laeva.

Da dove viene fuori questa fiamma? Avanzano, avanzano; sono qui, si


rivolgono verso di me. … Aiutami, allontana da me questo male, questa
forza portatrice di fiamma che mi tortura. Avanzano cerulee cinte di fuoco
(o «avanzano cinte di serpenti cerulei» se si accoglie nel testo la correzione
caeruleo angui), mi circondano con le fiaccole ardenti. … Apollo chiomato
tende il suo arco d’oro appoggiato alla luna (?)25, Diana getta una fiaccola
da sinistra26.

v. 2. incedunt incedunt Ribb.1: incede incede vel incaede incaede vel in caede
in caede vel incaede in caede (vel sim.) codd. (incede incede prob. Vahlen 1887‑
1888 = 1907, 380; 383) // v. 4. caeruleae codd. plerr.: caerulea cett. codd., caeruleo
Columna in app. // igni codd.: angui Columna in app. // v. 8. luna innixus codd.:
lunata micans vel luna nictans Ribb.2, Coroll. XVIII, lunat nixus Bergk 1874 =
1884, 352, alii alia.

Anche qui, come in parte si è già visto, è possibile evidenziare gli


elementi che ricorrono nelle descrizioni degli attacchi di follia, come la loro
repentinità (messa in luce dall’uso del verbo oritur) e l’agitazione che
provocano nel soggetto (riflessa nell’uso degli asindeti al v. 3 e nella
cadenza del metro anapestico ai vv. 4‑10), o anche la presenza costante
dell’elemento igneo, con lessico pure affine, se non identico, a quello di altri
esempi già esaminati (v. 2 flamma; v. 5 flammiferam… vim; v. 6 igni; v. 7
ardentibus taedis; v. 10 facem). Anche qui, come nel frammento precedente,

25
Secondo VAHLEN 1887‑1888 (= 1907, 380) Apollo tende l’arco in modo che la luna,
cioè la curvatura dell’arco, si tenda in modo che le corna siano più unite, ma
l’espressione risulta tuttora alquanto oscura.
26
Cf. Cic. acad. 2, 89 quid loquar de insanis: …; quid ipse Alcmeo tuus, qui negat ‘cor sibi
cum oculis consentire’, nonne ibidem incitato furore ‘unde… oritur’ et illa deinceps ‘incede…
expetunt’; quid cum virginis fidem implorat: ‘fer… taedis’, num dubitas quin sibi haec videre
videatur? Itemque cetera ‘intendit… laeva’: qui magis haec crederet si essent quam credebat
quia videbantur; apparet enim iam ‘cor cum oculis consentire’ («che dirò dei pazzi? … il tuo
stesso Alcmeone, che nega che ‘il suo cuore consenta coi suoi occhi’, forse non grida
nello stesso luogo per un furore concitato ‘da dove viene fuori questa fiamma?’ e
quindi ancora ‘vengono… si rivolgono verso di me…’; e che, quando implora la pietà
della figlia: ‘aiutami… con le fiaccole ardenti’, forse dubiti che non gli sembri di vedere
queste cose? E allo stesso modo il resto ‘Apollo chiomato… da sinistra’: chi crederebbe
più a queste cose se fossero vere rispetto a quello che vi credeva poiché gli sembravano
vere; appare infatti ormai che ‘il suo cuore consentiva con gli occhi’»).
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 297

torna il lessico del tormento (v. 5 excruciat ~ Enn. TrRF II F 12 cruciatum) e,


in particolare, il riferimento alle «torce ardenti» (v. 7), che ricorda la fax
obvoluta… incendio dell’Alexander, e che tornerà più volte anche al di fuori
del genere tragico ma sempre a richiamare contesti di follia27.
Se istituire un confronto diretto tra questi frammenti dell’Alcumeo
enniano e alcuni frammenti dei drammi greci su Alcmeone (l’Alcmeone di
Sofocle e i due Alcmeone di Euripide, per non parlare dei drammi omonimi
dei tragici greci minori) è arduo per vari motivi, come lo stato frammentario
e l’esiguità di questi testi e la complessa questione, tutta euripidea,
dell’identificazione e distinzione delle trame dell’Alcmeone a Psofide e
dell’Alcmeone a Corinto e del possibile inserimento dell’episodio di follia in
uno dei due, merito di Medda è stato, di recente, quello di istituire dei
paralleli con alcuni passi sull’episodio di follia di Oreste nell’Oreste
euripideo, a dimostrazione, ancora una volta, del fatto che le vicende dei
due eroi sono affini e che Ennio, anche in questo caso, ha tenuto presente
come principale modello di riferimento Euripide28:

27
Cf. Cic. Rosc. Am. 67 nolite enim putare, quemadmodum in fabulis saepenumero videtis,
eos, qui aliquid impie scelerateque commiserunt, agitari et perterreri Furiarum taedis
ardentibus. Sua quemque fraus et suus terror maxime vexat, suum quemque scelus agitat
amentiaque adficit, suae malae cogitationes conscientiaeque animi terrent; hae sunt impiis
assiduae domesticaeque Furiae quae dies noctesque parentium poenas a consceleratissimis filiis
repetant («non pensate però che, come vedete spesso nelle tragedie, i protagonisti di
empie e scellerate azioni siano veramente perseguitati e terrorizzati dalle fiaccole
ardenti delle Furie. Ma ognuno è torturato dal male che ha commesso e dallo spavento
che porta dentro di sé, ognuno è tenuto in folle agitazione dal sangue che ha versato
ed è ossessionato dalla sua follia, ognuno si sente inseguito e atterrito dai suoi tristi
pensieri e dai suoi rimorsi. Queste sono per gli empi le Furie che non li abbandonano
mai e vivono dentro di loro, e sempre, giorno e notte, domandano ai figli giunti al
fondo della scelleratezza l’espiazione del sangue di chi li ha generati» [trad. LONGI
1964, 198; 200]); leg. 1, 40 sed eos agitant insectanturque Furiae, non ardentibus taedis sicut
in fabulis, sed angore conscientiae fraudisque cruciatu («ma li perseguitano e li incalzano
le Furie, non già con fiaccole ardenti come nelle tragedie, ma con i rimorsi della
coscienza e il tormento della colpa»); Pis. 46‑47 nolite enim ita putare, patres conscripti,
ut in scaena videtis, homines consceleratos impulsu deorum terreri furialibus taedis ardentibus;
sua quemque fraus, suum facinus, suum scelus, sua audacia de sanitate ac mente deturbat; hae
sunt impiorum Furiae, hae flammae, hae faces. Ego te non vaecordem, non furiosum, non mente
captum, non tragico illo Oreste aut Athamante dementiorem putem… («non vogliate ritenere
infatti, senatori, così come vedete in scena, che gli uomini scellerati su impulso degli
dei siano atterriti dalle fiaccole ardenti delle Furie; la loro colpa, il loro crimine, la loro
empietà, la loro audacia li distolgono dalla sanità mentale; queste sono le Furie degli
empi, queste le fiamme, queste le fiaccole. Io non riterrei te pazzo, non furioso, non
fuori di testa, non più stupido di quel famoso tragico Oreste o Atamante…»).
28
Cf. MEDDA 2004, 68‑73.
298 Marco Filippi

E. Or. 255‑257

ὦ μῆτερ, ἱκετεύω σε, μὴ’πίσειέ μοι


τὰς αἱματωποὺς καὶ δρακοντώδεις κόρας.
Αὗται γὰρ αὗται πλησίον θρῴσκουσί μου

Madre, ti supplico, non aizzarmi contro le vergini dall’aspetto di serpi e dallo


sguardo iniettato di sangue! Eccole, eccole, mi balzano accanto!

E. Or. 260‑261

ὦ Φοῖβ’, ἀποκτενοῦσί μ’αἱ κυνώπιδες


γοργῶπες, ἐνέρων ἱέρεαι, δειναὶ θεαί.

O Febo, mi ammazzeranno, le dee terribili dal volto di cagne, dallo sguardo


tremendo, le sacerdotesse dei morti!

E. Or. 268‑270

Δὸς τόξα μοι κερουλκά, δῶρα Λοξίου,


οἷς μ’εἶπ’Ἀπόλλων ἐξαμύνασθαι θεάς,
εἴ μ’ἐκφοβοῖεν μανιάσιν λυσσήμασιν.

Dammi l’arco di corno, dono del Lossia, col quale Apollo mi disse di
difendermi dalle dee se mi avessero terrorizzato con deliranti accessi di
follia29.

***

29
Qui e precedentemente trad. it. MEDDA 2004, 175‑177. Cf. anche Schiller, Die
Jungfrau von Orléans, Act. II, sc. 6 «wohin entrinn’ich? Schon ergreift sie mich mit ihren
Feueraugen!» («dove fuggo? Già mi afferrano con i loro occhi di fuoco!»). È infine
curioso constatare come nel J‑Horror affermatosi a partire dalla fine degli anni Novanta
con prodotti quali Ring e Ju‑On la caratterizzazione nipponica dell’Erinni abbia
notevoli corrispondenze con quella greco‑latina; nel caso di Ju‑On, ad esempio, a
seguito di un uxoricidio e di un infanticidio i fantasmi di donna e bimbo, novelle
Erinni, imperversano e contaminano coloro che vengono a contatto con il luogo
dell’assassinio. Essi sono raffigurati con capelli lunghi, occhi pieni di sangue, colorito
diafano, sguardo e membra distorti, ed emanano lamenti raccapriccianti; le loro vittime
muoiono o impazziscono.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 299

Il discorso potrebbe continuare, e a lungo, poiché non mancano esempi


di follia che esulino da ogni tentativo di classificazione finora proposto e il
cui elemento comune non consista che nella sua mera origine divina. Posso
accennare, ad esempio, a quello, caratterizzato dall’ira, di Aiace fatto
impazzire da Minerva a seguito del verdetto per l’assegnazione delle armi
di Achille:

Acc. trag. 156 R.3 (Armorum iudicium).

Bene facis: sed nunc quid subiti mihi febris civit mali?

Fai bene; ma ora la febbre che sorta di male mi ha provocato?

Enn. TrRF II F 9 (Aiax) = inc. fab. 336‑337 R.3

lumen – iubarne? – in caelo cerno

Una luce – forse l’alba? – vedo nel cielo.

Pacuv. inc. fab. 382 R.3 (Armorum iudicium?)

voce suppressa, striato fronte, voltu turgido

Con voce sommessa, fronte solcata dalle rughe, volto gonfio.

TrRF I inc. F 21 = inc. inc. trag. 47‑48 R.3 (Armorum iudicium di Accio?)

Video te, video: vive, Ulixes, dum licet;


oculis postremum lumen radiatum rape!

Ti vedo, ti vedo; vivi, Ulisse, finché è lecito; cattura con lo sguardo l’ultimo
raggio di luce!30.

30
Un dubbio caso di frammento di follia dettata dall’ira è anche Enn. inc. 18 V.2
citato da Cic. Tusc. 4, 52 an est quicquam similius insaniae quam ira? Quam bene Ennius
initium dixit insaniae («c’è forse qualcosa di più simile alla follia dell’ira? Essa, come
dice Ennio, è inizio di follia [trad. NARDUCCI 2000, 407]»). Per motivi metrici è
improbabile si tratti di un’espressione scandibile in esametri, mentre è probabile che
ira, initium insaniae sia clausola trocaica o giambica e quindi costituisca parte di un
verso tragico; cf. TIMPANARO 1948, 12.
300 Marco Filippi

Oppure a quello, caratterizzato da un furor freddo e determinato, di


Atreo nei confronti del fratello Tieste, causato, secondo una delle numerose
varianti del mito, dalla maledizione incombente su entrambi a causa
dell’uccisione dell’auriga Mirtilo, figlio di Mercurio, perpetrata dal loro
padre, Pelope:

Acc. trag. 199‑202 R.3 (Atreus).

Iterum Thyestes Atreum adtractatum advenit,


iterum iam adgreditur me et quietum exsuscitat:
maior mihi moles, maius miscendumst malum,
qui illius acerbum cor contundam et comprimam.

Di nuovo Tieste è venuto ad attaccare Atreo, di nuovo già mi attacca e mi


provoca, mentre sono tranquillo. Un peso più grande, un male maggiore si
deve progettare, affinché io colpisca e schiacci il suo cuore crudele.

~ E. Or. 11‑14.

οὗτος (scil. Tantalus) φυτεύει Πέλοπα, τοῦ δ’Ἀτρεὺς ἔφυ


ᾧ στέμματα ξήνασ’ἐπέκλωσεν θεὰ
Ἔρις Θυέστῃ πόλεμον ὄντι συγγόνῳ
θέσθαι.

Costui (scil. Tantalo) generò Pelope, e da Pelope nacque Atreo, cui la dea
Discordia, filando i bioccoli di lana, assegnò il destino di combattere Tieste,
suo fratello31.

Var. TrRF I F 1 = trag. 1‑2 R.3 (Thyestes)

… iam fero infandissima,


iam facere cogor32.

Ormai porto cose abominevoli, ormai sono spinto a compierle.

31
Trad. MEDDA 2004, 147.
32
Cf. assieme ai passi sopra riportati, e per ragioni strettamente lessicali, Acc. trag.
450 R.3 (Meleager) heu! Cor ira fervit caecum, amentia rapior ferorque («ahimè! Il cuore arde
accecato dall’ira, sono preso e trascinato dalla follia»).
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 301

5. La follia simulata

Oltre ai casi di follia reali, è stato rilevato anche, nel mito, almeno un
caso di follia simulata (o Schwachsinn)33. Si tratta dell’episodio di Ulisse che
si finge pazzo per non essere costretto a partecipare alla guerra di Troia,
salvo poi essere smascherato da un altro personaggio parimenti astuto,
Palamede, sul quale in seguito, proprio per questo motivo, si vendicherà34.
Ulisse, l’uomo razionale κατ’ἐξοχήν, è dunque l’unico che può opporsi
simbolicamente e di fatto alla follia in quanto irrazionalità, e addirittura
farsi beffe di essa35.
Un accenno alla vicenda lo abbiamo anche nella tragedia latina:

TrRF I inc. F 82 = inc. inc. trag. 55‑60 R.3 (Armorum iudicium di Pacuvio?
Di Accio?).

Cuius ipse princeps iuris iurandi fuit,


quod omnes scitis, solus neglexit fidem.
Furere adsimulare, ne coiret, institit.
Quod ni Palamedi perspicax prudentia
istius percepset malitiosam audaciam,
fide sacratae ius perpetuo falleret.

Egli solo, com’è noto, non tenne fede a quel giuramento, di cui era stato il
promotore. Finse di essere pazzo e decise di non unirsi a noi: e se Palamede
con la sua acutezza non ne avesse compresa la maliziosa audacia, costui
avrebbe per sempre eluso il sacro vincolo del giuramento36.

L’esistenza stessa di questo riferimento è la dimostrazione del fatto che


anche i Latini conoscevano questa versione del mito e ne facevano uso,
magari qui di passaggio all’interno della contesa «a colpi di retorica» tra
Ulisse e Aiace.

33
Cf. MATTES 1970 e GUIDORIZZI 2010.
34
La vicenda è presente, oltre che diffusamente nella letteratura greca, forse anche
in uno dei drammi tragici intitolati a Palamede, di cui sono pervenuti solo frammenti.
35
Non è un caso quanto scrive Erasmo, Elogio della Follia 35 (e si badi che è la Follia
a parlare!): «Omero… mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati, e a più
riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo
termine parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille. Perché mai? Soltanto perché
quell’astuto inventore di trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade e, quanto mai
sordo a ogni richiamo della natura, era tutto cervello» (traduzione di GARIN 1992, 53).
36
Trad. NARDUCCI 2001b, 399.
302 Marco Filippi

L’altro celebre esempio tragico di follia simulata, a tutti noto, è quello


dell’Amleto shakespeariano, che si finge pazzo per vendicarsi dell’assassi‑
nio di suo padre da parte di suo zio.
Ma, ai fini del nostro discorso, colpisce la notevole presenza di un altro
caso di follia simulata, tanto più interessante in quanto, stavolta,
esclusivamente romano e quindi sfuggito finora alla critica che si è occupata
dell’argomento oggetto del presente studio; si tratta del caso di Bruto, la
cui vicenda è simile ancor più a quella di Amleto che non a quella di Ulisse
ed è probabile fonte d’ispirazione per il dramma inglese. Bruto si finge
pazzo (brutus, aggettivo con il significato di «stupido», è qui nome parlante)
per spodestare Tarquinio il Superbo e fondare la Repubblica:

Acc. praet. 29‑38 R.3 (Brutus)

Rex, quae in vita usurpant homines, cogitant curant vident,


quaeque agunt vigilantes agitantque, ea si cui in somno accidunt,
minus mirum est, sed di rem tantam haut temere inproviso offerunt.
Proin vide, ne quem tu esse hebetem deputes aeque ac pecus,
is sapientia munitum pectus egregie gerat
teque regno expellat: nam id quod de sole ostentum est tibi,
populo commutationem rerum portendit fore
perpropinquam. Haec bene verruncent populo! Nam quod dexterum
cepit cursum ab laeva signum praepotens, pulcherrume
auguratum est rem Romanam publicam summam fore.

O re, le cose che nella vita gli uomini sogliono fare, le cose che pensano,
curano, vedono, e che da svegli compiono e alle quali s’affaccendano, non
c’è da meravigliarsi se accadono a qualcuno in sogno; ma in una circostanza
così straordinaria non senza motivo le visioni si presentano. Sta’ dunque
attento, che colui che tu stimi sciocco al pari di una bestia, non abbia una
mente munita di ingegno, al di sopra del gregge, e non ti sbalzi dal trono.
Ché quello che ti è apparso riguardo al sole dimostra che avverrà per il
popolo un mutamento assai vicino nel tempo. Possa tutto ciò volgersi in
bene per il popolo! Il fatto che l’astro più potente abbia intrapreso il suo
corso verso destra da sinistra è un faustissimo augurio che lo Stato romano
sarà eccelso!37

Inutile ricordare, tra l’altro, quanto quest’episodio debba esser caro alla
memoria dei Romani di ogni tempo.

37
Trad. TIMPANARO 2001, 39.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 303

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Tieste dimenticato.
Nuove possibilità per il teatro di Seneca

MARCELLA PETRUCCI
(LICEO “UGO FOSCOLO” ALBANO LAZIALE)

«Vi sono storie simili a certi alberi


dei quali è necessario conoscere le radici
per meglio comprendere
la morbosa contorsione dei rami,
l’afflusso del sangue nelle foglie,
il veleno nella linfa»

Bertrand Tavernier, La passion Béatrice

La lettura in ambito scolastico del teatro senecano si concentra preferibil‑


mente, e direi quasi esclusivamente, su quei drammi, quali la storia di
Medea e di Fedra, che consentono un facile richiamo al testo euripideo di
riferimento immediato, ma molto dell’opera drammaturgica di Seneca
viene abbandonato e trascurato, anche per la formazione scolastica e reto‑
rica dell’autore che non poco avrebbe influenzato la funzione comunicativa
delle sue tragedie.
Senza voler in alcun modo entrare nel merito dell’annosa questione
intorno all’effettiva natura delle tragedie del filosofo, se fossero state
concepite e destinate alla rappresentazione scenica oppure per piccoli
auditoria, inaugurando una forma di teatro sperimentale, in questa sede
vorrei percorrere l’idea di una rappresentabilità del teatro senecano, in un
quadro sicuramente altro rispetto alla prosa morale.
Tieste, una fabula scaenica senza luce e senza speranza, per la quale è
impossibile recuperare il modello greco, sembra, invece, costruita «con
attenzione registica, perché immediatamente teatrale»1. Tieste è una
tragedia torbida e raccapricciante. La vicenda come è noto ruota attorno ad
una vendetta familiare: Atreo, a cui suo fratello Tieste anni prima aveva
sottratto il regno e la moglie, tornato poi in possesso di quanto perduto con
l’inganno, uccide crudelmente i nipoti, appunto i figli di Tieste, e imban‑

1
NENCI 2002, 10.
308 Marcella Petrucci

disce una tavola con le loro carni per il fratello ignaro, che acquisisce
consapevolezza di quanto ha mangiato solo dopo l’orrendo pasto. È una
tragedia senza redenzione dove dominano soltanto furia e malvagità. La
parola di Seneca, potente e visionaria, esce fuori dagli stretti confini della
cornice storica e, parlando un linguaggio che sembra senza tempo, mette
in scena passioni umane smisurate e violente. Seneca apparirebbe dunque
costruire il suo dramma superando la notoria lotta manichea tra Bene e
Male (ratio e furor) poiché la nuova prospettiva del tragico è riconoscere che
il Male è un meccanismo che funziona perfettamente. L’universo tragico
senecano sembra disegnarsi dunque come un mondo parallelo dove ad
animare la scena sono i principia proludentia adfectibus2, ovvero le quasi‑
passioni simulate dagli attori, e dove il Logos sconfitto lascia il posto ad un
meccanismo comunque perfettamente razionale. Il Tieste senecano è un
dramma che esplora l’abisso della coscienza, si fa teatro dell’inferno, della
crudeltà e dell’assurdo, porta sulla scena lo spettacolo del ‘Male Assoluto’
senza redenzione: un’opera moderna e visionaria da confrontare, per tale
natura, con molte esperienze teatrali del Novecento.
Ci si soffermerà sulla oggettiva presenza in Tieste di una forte compo‑
nente visiva spettacolare e sull’assiduo ricorso all’espediente meta‑teatrale.
Gli elementi specificamente performativi del Tieste si muovono nella
direzione di quello che è già stato definito spettacolo della parola a cui
aggiungerei del Male Assoluto. Nelle tragedie di Seneca il dramma è tutto
nella parola, come afferma Eliot3, la parola senecana è il centro «è dramma
essa stessa e spettacolo, messaggio e commento, assolve a quel docere di chi
è si è proposto di iuvare alios, e promuove un movere espressionisticamente
proteso verso immagini suggestionanti»4 che sul versante del macabro, per
la necessità di rappresentare un mondo che viene sovvertito e rovesciato,
trasgrediscono il ben noto precetto oraziano per cui «non deve cuocere il
crudele Atreo umane viscere in pubblico».5
Il teatro come spectaculum, immenso specchio che deforma e moltiplica
le immagini dunque, un teatro della crudeltà lo avrebbe definito Antonin
Artaud, in cui la deissi ostensiva è insistente e spinge nella direzione di un
dire che fa vedere e verso una drammatizzazione oggi che potrebbe essere
pensata per grandi quadri scenografici. Dovere del saggio è di trasmettere
le verità afferrate traducendo in modo fedele la realtà compresa: il sapiente
dovrà trovare dunque un discorso capace di riprodurre le condizioni di

2
Sen. De ira. 2, 2.
3
ELIOT 1932, 65.
4
GAZICH 2000, 95‑96.
5
Hor. Ars. 1, 186 Ne […] humana palam coquat exta nefarius Atreus.
Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 309

immediatezza e di evidenza, «se fosse possibile, preferirei mostrare più che


dire che cosa sento» dice Seneca all’amico Lucilio6.
L’analisi e la successiva terapia della passione non possono essere
affidate ad astratti precetti, e neanche affidarsi ad adhortationes più o meno
efficaci, per essere riconosciuti, e quindi controllabili, i processi interiori
devono essere fatti vedere: A che giova mostrare l’evidenza? Giova
moltissimo7. Dal punto di vista cognitivo ostendere, come l’aristotelico eikòs
si richiama alla natura e all’esperienza comune e può indicare anche un
acquisto di conoscenza. Atreo ama l’immagine mostruosa di se stesso, ma
soprattutto sente il desiderio di avere un pubblico, l’imago performativa di
se stesso richiede un ulteriore soggetto osservante, uno spettatore. E così
reclama il nunzio, il quale dice di avere impressa negli occhi l’immagine
dell’atto terribile, la trucis imago facti, al coro che chiede di raccontare
velocemente in quanto ciò che ha visto ha l’urgenza di essere fatto a sua
volta vedere8. Il messaggero, pensando a Tieste e al momento in cui
apprenderà il misfatto, sollevato all’idea che le tenebre oscureranno l’atroce
misfatto, afferma che tutto si dovrà vedere e che ogni misfatto si svelerà.9
Tra il vedere immediatamente e direttamente le cose e il grado succes‑
sivo del dirle, Seneca sviluppa un grado ulteriore di comunicazione: un dire
che fa vedere data l’urgenza di rappresentare un mondo sconvolto dal male,
in cui la ratio è inesistente e che non può essere solo raccontato ma va
rappresentato. Gli atroci resoconti di questi personaggi, i dettagli grotteschi
ai limiti del ripugnante resi attraverso l’impiego di vocaboli specifici che
nulla risparmiano all’immaginazione del lettore/spettatore (brechtiano/cri‑
tico direbbe Marta Nussbaum), aggrediscono letteralmente gli occhi (teste
recise, mani strappate), vivificano la visione, conferiscono concretezza al
racconto tanto da trasformarlo in azione scenica. Una deissi ostensiva dun‑
que che fa vedere gli oggetti stessi, i corpi e le membra che li compongono,
affinché sulla scena siano corpi e membra, con una sensibilità tutta
moderna che arriva a destrutturare il corpo stesso (Ippolito, Edipo, Eracle,
i figli di Medea). Significativo è a questo proposito l’impietoso racconto
particolareggiato delle atrocità di cui è autore Atreo nel racconto del
messaggero che Seneca spinge oltre la sua funzione originaria, attraverso
quel processo di materializzazione delle immagini per cui la parola si
trasforma in visione e si sostanzia. Diversa la morte dei figli di Polimestore
nell’Ecuba euripidea dove il poeta descrive solo con rapidi tratti la morte

6
Sen. Ep. 75, 1 si fieri posset, quid sentiam ostendere quam loqui mallem.
7
Sen. Ep. 94, 25 Quid prodest aperta monstrare? Plurimum.
8
Sen. Thy. 640 ocius effare.
9
Sen. Thy. 788 tamen videndum est. Tota patefient mala.
310 Marcella Petrucci

dei giovani («prese le spade, uccisero i figli»10) indugiando invece sul


quadro riconoscibile dall’immaginario collettivo delle assassine come cagne
macchiate di sangue e di Polimestore come un cacciatore.
È in questo compiere l’immagine che si arriva, a mio avviso, a parlare
di codici teatrali più moderni quali la meta teatralità. Atreo, regista si è
detto, aggiungerei attore e ancor più spettatore, ama l’immagine mostruosa
di se stesso in azione e vuole, a sua volta, vedere il macabro spectaculum,
(«non voglio vederlo quando sarà già infelice, ma mentre diventa infelice»11
– dice di suo fratello) così come il nunzio che vede – racconta – e fa vedere.
Sorprende l’attenzione di Seneca per il comportamento, le espressioni
facciali: icastica e propria di un espressionismo pittorico alla Munch la
bocca di Tantalo vuota12, spalancata13, che comprime le labbra14 e Tantalo
che volge lo sguardo15 o trattiene la fame nei denti serrati16, o poggia il volto
sulla mano sinistra dopo il pasto che compie Tieste; ancora espressivi sono
i movimenti del corpo dei singoli personaggi: Tantalo dapprima sta in
piedi17, agita poi a vuoto le mani18 e si drizza cercando con la bocca le onde
che gli vengono incontro19; Tieste incede riluttante20, le sue membra
vacillano21, esorta il figlio a procedere con passo sicuro22; significativo il
corpo rigido per lo spavento del messaggero23; terribili infine gli effetti
fonici nel racconto dell’orrendo pasto narrato dal messaggero, per cui
sembra di udire il moto dei denti e delle mandibole24, o il rotolare a terra
del capo di uno dei figli25. Lo spettatore di teatro viene turbato e solo la
ratio potrà correggere le passioni negative e i giudizi che stanno alla loro
base. Bisognerà abbandonare il teatro e passare alla filosofia, lasciare la
poesia e dedicarsi alla prosa filosofica.

10
E. Hec. 1162.
11
Sen. Thy. 907 Miserum videre nolo, sed dum fit miser.
12
Sen. Thy. 152 vacuo gutture.
13
Sen. Thy. 157 patulis hiatibus.
14
Sen. Thy. 160 ora comprimit.
15
Sen. Thy. 160 obliquat oculos
16
Sen. Thy. 161 inclusis dentibus.
17
Sen. Thy. 151 stat lassus.
18
Sen. Thy. 165 irritas / exercere manus.
19
Sen. Thy. 172 fluctus ore petens.
20
Sen. Thy. 420 moveo nolentem gradum.
21
Sen. Thy. 436 labant.
22
Sen. Thy. 490 non dubio gradu.
23
Sen. Thy. 634‑635 metu corpus rigens / remittet artus.
24
Sen. Thy. 778‑779 lancinat natos pater / artusque mandit ore funesto suos; isolato in
incipit 911 Eructat.
25
Sen. Thy. 728‑729 truncus in pronum ruit / querulum cucurrit murmure incerto caput.
Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 311

La natura sconvolta in Tieste, così come in altre tragedie senecane, si offre


anche essa come spectaculum. Affreschi sconvolgenti, manifestazione di una
natura pericolosa ed ambigua che nasconde ma anche come natura che
subisce la violenza dell’uomo. In una parola i luoghi scenici diventano essi
stessi luoghi simbolici del mondo emotivo.
A sconvolgere lo spettatore non è solo la natura rovesciata ma anche il
lugubre banchetto, la ultrix daps. Ancora un rovesciamento spettacolare:
nella topica simposiaca l’atto di mangiare e il momento conviviale del bere
insieme sono un mezzo per consolidare lo spirito di gruppo dei suoi
membri. Qui invece Atreo sfrutta la riconciliazione per la sua vendetta e
definitiva rottura. Questa mensa, di cui Atreo non è il magister convivii ma
uno spectator che divora cibi e gusta la vendetta, è ultrix.
Antonin Artaud il 16 dicembre 1932, in una lettera a Jean Paulhan
scriveva:

Caro amico, sto leggendo Seneca; mi sembra una follia che sia possibile
confonderlo con il moralista di non so quale tiranno della decadenza […]
Chiunque sia questi mi sembra il maggior poeta tragico della storia, un
iniziato ai Misteri e che ha saputo trasfonderli in parola meglio di Eschilo.
Piango leggendo il suo teatro ispirato, e sotto la lettera delle sillabe sento
crepitare nel modo più atroce il ribollire trasparente delle forze del caos.
Non è possibile trovare nessun esempio scritto più efficace di tutte le
tragedie di Seneca per mostrare ciò che si può intendere per crudeltà in
teatro, soprattutto nei personaggi di Atreo e Tieste.

Grande attrazione esercitò su Antonin Artaud il teatro senecano, ma


ancora più che l’influsso di Seneca su Artaud è ravvisabile nella vita
drammatica di quest’ultimo, che Fumaroli considera un eroe di Seneca: «il
vit, il écrit et il parle come si sa biographie tout entière était un rôle
sénéquien»26. Artaud aveva scritto l’Atreo e Tieste (divenuto poi Il supplizio
di Tantalo), un testo mai rappresentato, ispirato al Tieste di Seneca che il
regista Luigi Squarzina mise in scena nel 1953 e definì «uno spettacolo
dimenticato ma fondamentale» soprattutto perché per la prima volta si era
tentato di fare un teatro crudele, alla Artaud. In una lettera inviata a Jean
Luis Barrault (6 luglio 1934) Artaud annunciava la messa in scena del testo
Atreo e Tieste, con un adattamento ed un allestimento che ne intendevano
fare un’opera di estrema attualità. Ma l’opera non fu mai allestita.
Sorprende la somiglianza con I Cenci di Artaud, messa in scena al Théâtre
des Folies. Il conte Cenci, colpevole di un delitto, riesce ad ottenere dal papa

26
FUMAROLI 1975.
312 Marcella Petrucci

l’impunità per intercessione del cardinale Camillo. Travolto dal Male, però,
e per nulla proiettato verso la redenzione, il conte esulta per la morte di
due dei figli, violenta la figlia Beatrice da cui, con la complicità di alcuni
sicari, verrà assassinato. Colpisce la somiglianza fra i due drammi
soprattutto l’incipit e l’episodio del banchetto. Proviamo a leggere la scena
del banchetto ne I Cenci di Artaud; numerose sono le somiglianze sia nella
costruzione dell’episodio stesso, sia nel linguaggio. Siamo nella scena terza.
Il Conte Cenci, riuscito ad evitare il carcere per un omicidio, grazie
all’intervento del cardinale Camillo, ha organizzato un ricevimento nel
corso del quale dimostrerà la sua natura orrendamente votata alle forze del
Male: di fronte agli invitati esterrefatti annuncia la morte di due dei propri
figli disobbedienti e ribelli27. Le parole della figlia Beatrice, sgomenta e
incredula, sembrano riecheggiare quelle di Tieste che invoca le forze
cosmiche e le interroga su un delitto così efferato:

BEATRICE: Si sarebbero già squarciati i cieli, se non fosse una menzogna.


Non si può sfidare così impunemente la giustizia divina.

Analogo adynaton aveva espresso il coro dei Micenei nella tragedia


senecana: i demoni si risvegliano, il sole si nasconde atterrito, le stelle non
vogliono sorgere, lo zodiaco è impazzito28.
E il Conte Cenci, allo stesso modo di Atreo che chiamava come testimoni
gli dei protettori dei vincoli matrimoniali violati dal fratello, esclama con
un adynaton:

CENCI: Mi piombi sulla testa la folgore divina se dico il falso. La giustizia


che invochi, vedrai, è dalla mia parte.

E di nuovo come Atreo chiede un brindisi con quel vino orrendo dal
sapore di sangue umano

CENCI: Chi può dunque impedirmi di credere che sto bevendo il sangue
dei miei figli?29

L’esordio del Tieste è spettrale, come quello de I Cenci di Artaud. Paesaggi


da incubo e delirio fanno da scenario inquietante di numerose tragedie
senecane: la cima del polo glaciale nell’Herculens furens, il Citerone dalle
cime scoscese nelle Phoenissae, il caos dell’eterna notte in Medea, le selve

27
A. Artaud, I Cenci, Atto secondo, scena terza (in MARCHI 1993).
28
Sen. Thy. 789‑884.
29
Qui e sopra A. Artaud, I Cenci, Atto secondo, scena terza.
Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 313

ombrose e gli alti gioghi del monte attico nella Phaedra, la luna che sorge
mesta in Oedipus, gli spazi tenebrosi di Dite infernale e la profonda spelonca
del Tartaro in Agamemnon, prossimi al teatro e al cinema visionario del
Novecento30. E visionario fino alla follia fu Artaud.
Di fronte allo scempio di Atreo gli dei fuggono, dice Tieste. La natura
impallidisce, è rimasto solo un albero nudo. Sotto un albero secco e spoglio
Vladimiro ed Estragone attendono Godot. Pallescit omnis arbor ac nudus
stetit31 dice la Furia nel dialogo con l’ombra di Tantalo.
Forse anche nella tragedia di Seneca si attendeva Godot?

Bibliografia

ELIOT 1932 = T.S. Eliot, Seneca in Elisabethan Translation, in ID. Selected essays, London
1932.
FUMAROLI 1975 = M. Fumaroli, À propos d’Antonin Artaud et de Sénèque: tradition
cicéronienne, Actes du IX Congrès de l’Association G. Budé, vol. II, Paris 1975.
GAZICH 2000 = R. Gazich, Il potere e il furore: giornate di studio sulla tragedia di Seneca,
Brescia 2000, 95‑96.
MARCHI 1993 = G.Marchi, A. Artaud. I Cenci, Torino 1993.
NENCI 2002 = F. Nenci, Seneca. Tieste, Milano 2002.

30
Significativa è a tale proposito la Medea per la regia di Lars Von Trier andato in
onda per la tv danese nel 1988. Lars von Trier elimina il coro dalla scena e sposta
l’ambientazione dalla Grecia al paesaggio brumoso del nord Europa, con particolare
attenzione all’elemento acquatico. L’infanticidio viene realizzato con una conturbante
forza drammatica: la sequenza inizia con un’inquadratura spettrale; Medea trasporta
su un carro i due figli, come se stesse arando la terra, e raggiunge alla fine un albero
isolato al centro di uno sconfinato campo di grano, su cui splende una luna sinistra.
Ai due lunghi rami impiccherà i due bambini. Spettrale è anche l’albero di Tantalo nel
Tieste senecano.
31
Sen. Thy. 1110.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario:
damnatio memoriae di una tragedia fuori dagli schemi

MARIA TERESA GALLI


(UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO)

1. Introduzione

Non più lontano del 1982, la Medea di Osidio Geta, dramma composto
assemblando emistichi virgiliani, veniva deliberatamente esclusa da
Shackleton Bailey dalla sua edizione teubneriana dell’Anthologia Latina
insieme all’intera silloge centonaria con cui essa è tràdita.
Opprobria litterarum, «vergogna della letteratura»: questa la definizione
– ormai celeberrima – con cui lo studioso nella Praefatio decretava la
condanna dei centoni virgiliani1.

Centones Vergiliani (Riese 7‑18), opprobria litterarum, neque ope critica multum
indigent neque is sum qui vati reverendo denuo haec edendo contumeliam imponere
sustineam.

I centoni virgiliani (Riese 7‑8), vergogna della letteratura, né necessitano


molto di assistenza critica, né sono io tale da sopportare di arrecare offesa
al vate reverendo [scil. Virgilio] pubblicando di nuovo questi testi.

Un giudizio gravoso, questo, ma certamente non nuovo, che affondava


anzi le proprie radici in secoli e secoli di avversione nei confronti di questi
particolari testi, prolungandone così una damnatio memoriae che perdurava
ormai da tempo memorabile. Ma perché così tanta ostilità verso questi
curiosi componimenti?
Partendo da questo interrogativo, dopo una breve presentazione del
testo di Osidio Geta, il presente contributo si propone in un primo
momento di ripercorrere le motivazioni che hanno condotto a un suo simile
clamoroso rifiuto, e successivamente di indagare le possibili ragio‑
ni a monte del cambio di tendenza che si è verificato a partire dagli anni
’80‑’90 del secolo scorso. Infine, si cercherà di mostrare come proprio la

1
SHACKLETON BAILEY 1982, iii.
316 Maria Teresa Galli

tecnica centonaria, che ha costituito a lungo la principale ragione della


diffidenza nei confronti di questo dramma, ne possa costituire in realtà un
punto di forza.

2. La Medea di Osidio Geta

Tra tutti i centoni virgiliani a noi giunti, la Medea di Osidio Geta è l’unico
in forma di tragedia e il più antico2; secondo una testimonianza di
Tertulliano3 – l’unica, tra l’altro, che ci permette di ricostruire, seppure in
forma congetturale, il nome dell’autore – esso infatti risalirebbe circa al 200
d.C., mentre il culmine della produzione centonaria tardoantica si colloca
presumibilmente nel V secolo d.C.
Il segmento del mito riguardante la donna della Colchide che Osidio
Geta sviluppa nella sua opera non è dissimile da quello preso in
considerazione prima di lui da Euripide e da Seneca nei rispettivi drammi:
dall’abbandono di Medea da parte di Giasone fino alla conclusione della
vendetta compiuta dall’eroina, coronata dall’uccisione dei due figli. Nel
testo si distinguono delle parti caratterizzate da esametri interi, e altre
costituite invece da metà esametro, solitamente identificate le une come
scene e le altre come cori, per un totale di sette scene più il prologo e tre
cori.
Da un punto di vista strutturale, mentre non emergono particolari punti
di contatto con il testo euripideo, sono eclatanti le somiglianze con quello
senecano, in cui già il Burman4 identificò infatti il modello letterario seguito
dall’autore, pur con alcune differenze e innovazioni; su queste ultime non
ci si dilungherà in questa sede, ma si accennerà almeno al fatto che Geta
per esempio aggiunge dei personaggi non presenti in Seneca, quali il

2
Per una più ampia e dettagliata presentazione dell’opera si rinvia a SALANITRO
1981, LAMACCHIA 1981 e GALLI 2017. Per ulteriore bibliografia recente sui centoni
virgiliani, e pluribus si vedano BAŽIL 2009, PAOLUCCI 2015, AUDANO 2014, GALLI 2014.
Sull’Anthologia Latina si vedano i numerosi lavori di Loriano Zurli, tra cui ZURLI 2004,
2005 e 2010.
3
Praescr. 39, 3‑4: vides hodie ex Virgilio fabulam in totum aliam componi, materia
secundum versus et versibus secundum materiam concinnatis. Denique Hosidius Geta Medeam
tragoediam ex Virgilio plenissime exsuxit («vedi che oggi viene composto, (traendolo) da
Virgilio, un dramma totalmente diverso, essendo stata disposta la materia secondo i
versi, e i versi secondo la materia. In breve, Osidio Geta ha ricavato la tragedia Medea
interamente da Virgilio»).
4
Cf. BURMAN 1759, 149‑150.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 317

Satelles di Giasone e l’ombra di Absirto che prende la parola per istigare la


sorella all’infanticidio, e inoltre distribuisce diversamente alcuni fatti, come
l’uccisione dei due figli.
Tuttavia, ciò che rende quest’opera diversa dal suo celebre antecedente,
è senz’altro la particolare tecnica compositiva con cui essa è stata ideata.
Per illustrarla in modo efficace, si è ricorsi via via a vari paragoni: Ausonio,
primo e unico centonatore della tarda antichità che accompagna la sua
opera, il Cento nuptialis, ad una trattazione teorica, ricorre alla similitudine
con lo stomachion, un gioco non dissimile dal moderno tangram, che rende
l’idea della realizzazione di immagini diverse pur utilizzando sempre le
stesse tessere5. Più di recente, la tecnica centonaria è stata paragonata a
quella musiva, o ancora a quella del puzzle. Infine, Scott McGill, nel suo
saggio Virgil Recomposed6, è ricorso più volte all’immagine del patchwork,
rifacendosi così all’arte del cucito: una similitudine, quest’ultima, che ha
avuto particolare fortuna, anche perché conserva la metafora ‘sartoriale’
insita nella parola cento una volta trasferita in àmbito letterario.
All’interno della grande messe di testi che, a vario titolo, e talvolta a
piena ragione talvolta meno, sono stati via via identificati come centoni,
l’opera di Geta è definibile come un centone stricto sensu. Naturalmente non
è possibile compiere una distinzione fra centoni in senso stretto e centoni
in senso lato che sia netta e applicabile a tutti i casi: a questo proposito
mancano, infatti, delle norme precise, fatte salve quelle di Ausonio, che
tuttavia intendeva riferirsi al proprio testo, e che dunque devono essere
applicate con cautela agli altri patchwork poems. Inoltre, anche prendendo
queste come punto di riferimento, ci si rende conto che la realtà è molto
più variegata, e i dubbi che sorgono non sono pochi. Tuttavia, si può
ragionevolmente parlare di centone stricto sensu quando siamo in presenza
di un testo composto esclusivamente agglutinando segmenti tratti da un
unico modello, senza l’aggiunta di parti scritte dall’autore, e senza che le
fonti subiscano mutamenti sostanziali. Sembra più congruo parlare invece
di centoni lato sensu nei casi in cui le fonti combinate provengano non da
uno bensì da più auctores, e il patchwork poet modifichi fortemente la facies
originaria di tali fonti e aggiunga inoltre parti scritte di proprio pugno.
Il testo di Geta si può ragionevolmente ricondurre alla prima delle due
grandi categorie, dal momento che l’autore da cui vengono tratti i verba è
unicamente Virgilio e le fonti non vengono mai modificate in modo
sostanziale. Si registrano infatti solo adattamenti di scarso rilievo, come ad

5
Aus. cento, praef.
6
MCGILL 2005, passim.
318 Maria Teresa Galli

esempio un singolare anziché un plurale (es.: 354, iram7 anziché il virgiliano


iras8), un caso sostituito con un altro (es.: 330 casiaque crocoque rubenti in
luogo del virgiliano casiamque crocumque rubentem9) o un nome proprio
inadatto al nuovo contesto rimpiazzato da un’altra parola (es.: 250
l’esclamazione heu per il virgiliano Turne10, inconciliabile con il mito di
Medea). Si aggiunge, inoltre, una serie di minuscole modifiche inspiegabili
con ragioni grammaticali, metriche e semantiche, la cui origine potrebbe
essere dovuta a un lapsus di memoria del centonatore o del copista11.
Nessuno di questi cambiamenti, in ogni caso, inficia la riconoscibilità
degli emistichi, che costituisce la vera conditio sine qua non del gioco
centonario: il lettore infatti, perché il lusus sia efficace, deve essere posto
innanzitutto nelle condizioni di riconoscere la fonte. Potrà così notare lo
scarto creato dalla collocazione nel nuovo contesto e apprezzare la fitta
trama di richiami tra il modello e il centone. In alcuni casi Geta gioca
sull’analogia situazionale tra i due testi, ma il suo lavoro è ancor più
ingegnoso quando crea un contrasto, ovvero quando le parole della fonte
suonano del tutto straniate nella loro nuova collocazione.

3. Le ragioni del rifiuto

Riprendendo ora il quesito iniziale, perché rifiutare un simile testo, fino


ad escluderlo dall’edizione dell’Anthologia Latina? Come risulta evidente
dalle parole di Shackleton Bailey, la ragione risiede nel fatto che si tratta di
un centone. Il seme dell’avversione nei confronti di questo tipo di compo‑
nimento si annida, d’altra parte, già nell’antichità. Lo stesso contesto cui
appartiene la testimonianza di Tertulliano, alla quale dobbiamo l’associa‑
zione della nostra Medea, pervenutaci adespota, al nome di Osidio Geta,
non lascia dubbi. Nel trentanovesimo capitolo del De praescriptione
haereticorum12, l’autore infatti cita l’opera di Geta per disapprovare l’attività
di alcuni esegeti della Bibbia che ne riorganizzano i passi in modo disonesto.

7
Le citazioni e le relative traduzioni del testo di Osidio Geta sono tratte da GALLI
2017.
8
Verg. Aen. 7, 445. Le citazioni del testo dell’Eneide sono tratte da CONTE 2009,
mentre quelle delle Bucoliche e delle Georgiche da OTTAVIANO/CONTE 2013.
9
Verg. Geo. 4, 182.
10
Verg. Aen. 7, 421.
11
Per una raccolta e discussione di questi casi e di ulteriori esempi tratti da altri
centoni si rinvia a GALLI 2015.
12
Tert. praescr. 39, 4, 7.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 319

La critica nei confronti della tecnica centonaria non è esplicita, anche perché
non costituisce il focus del discorso, ma emerge chiaramente grazie al
paragone e grazie al contesto generale.
D’altra parte anche Ireneo in modo simile stigmatizza l’esegesi selettiva
degli Gnostici paragonandola ai centoni omerici13.
Il seme del rifiuto per i centoni sembra restare per così dire assopito nel
Medioevo, in cui pare tuttavia che la stessa parola cento in senso letterario
non venga più capita, tant’è che difficilmente si troveranno in quei secoli
degli esemplari definibili come centoni in senso stretto.
La prassi centonaria, e con essa l’avversione di molti nei suoi confronti,
rifiorisce invece nel Rinascimento14. Tra la fine del 1400 e soprattutto nel
1500, quando la questione della imitatio si ripropone per assumere talvolta
toni accesi, il termine ‘centone’ viene utilizzato dagli intellettuali con
un’accezione negativa, assai vicina al concetto di plagio. Prova ne è il fatto
che Michel de Montaigne (1533‑1592), che nelle proprie opere utilizza qua
e là frasi altrui, incastonate more centonario, negli Essais si sente in dovere
di specificare che a suo parere la pratica da demonizzare è il plagio, ovvero
la citazione ‘rubata’; non è scorretto invece a suo parere ricorrere a citazioni
di altri autori, purché si dichiari il proprio prestito. La critica contro l’abuso
dei verba altrui, sostiene Montaigne, non deve essere applicata dunque ai
suoi scritti, in cui egli incastona delle frasi ideate da altri per spiegare
meglio i concetti che vuole esprimere («de ma part il n’est rien qui ie vueille
moins faire. Ie ne dis les autres, sinon pour d’autant plus me dire»)15.
Si potrebbero aggiungere altri esempi16, ma questi cenni possono già
essere indicativi per spiegare l’attitudine negativa che si riscontra verso i
centoni tra il 1800 e il 1900 come una sorta di continuazione di un processo
già ben consolidatosi nei secoli precedenti. Nel contesto di tale quadro
diacronico collocheremo dunque le parole di Domenico Comparetti, che in
Virgilio nel Medio Evo sostenne che «l’idea di questi Centoni poteva nascere
soltanto fra gente, che avendo meccanicamente appreso Virgilio, non
sapeva qual migliore utilità ricavare da tutti quei versi di cui si era
ingombrata la mente.»17

13
Iren. adv. Haer. 1, 9, 4; cf. 2, 2, 14.
14
Sui centoni rinascimentali si vedano i numerosi contributi di G. Hugo Tucker, tra
cui TUCKER 1977.
15
MONTAIGNE 1595, 81.
16
Si veda per es. lo scarso entusiasmo nei confronti del centone di Proba che
traspare dalle parole di Erasmo da Rotterdam in una sua lettera al Canter: cf. ALLEN
1906, 127: Quod ubi lectitare coepi, simulque Probae esse comperi, non me magnopere cepit.
17
COMPARETTI 1937, 64‑65.
320 Maria Teresa Galli

Ricorderemo poi Giorgio Pasquali, che nelle sue Stravaganze quarte e


supreme preferì omettere simili testi dicendo: «dei centoni omerici e
virgiliani della tarda antichità, esercizi scolastici inferiori, qui vogliamo
tacere».18 Analogamente, Françoise Desbordes parlò di «ingéniosité
virtuose mais stérile […]. Négation de la création littéraire originale […].
Désolant témoignage de ce que la tête peut faire quand le coeur n’y est
pas.»19

4. Le ragioni della ‘riabilitazione’

Ma in che misura tutto ciò è ancora condivisibile? Dopo aver ripercorso


le ragioni dell’‘ostracizzazione’ dei centoni, e della Medea di Geta con essi,
si analizzeranno ora i motivi che, a partire dagli anni ’80‑’90 del secolo
scorso20, hanno portato prima ad una loro riabilitazione, e negli ultimi anni
a una particolare fortuna degli studi centonari.
Quali sono i punti di interesse offerti da questi componimenti? Il primo
degli aspetti cui è stato rivolto lo sguardo consiste nel potenziale contributo
portato da tali testi all’esegesi virgiliana, quali testimoni indiretti dell’ipo‑
testo. L’analisi condotta emistichio per emistichio sui 461 versi della Medea
e sulle rispettive fonti di questo centone porta ad ogni modo ad essere
molto cauti a tale riguardo. Le modifiche cui il testo virgiliano va incontro
nei centoni, seppure lievi nei centoni stricto sensu, non si possono tuttavia
ignorare.
Nella Medea si riscontrano almeno dodici casi in cui il testo di Geta
differisce da quello virgiliano senza una ragione per noi ricostruibile21. In
molti di questi casi si tratta di slittamenti dal singolare al plurale o
viceversa, che potrebbero essere semplicemente imputabili, prima ancora
che alla presenza di una variante, ad un errore memonico di un copista o
del centonatore. La memoria infatti giocava un ruolo fondamentale nella
composizione dei patchwork poems, dunque scambi di questo tipo, come
anche la sostituzione di un sostantivo con un suo sinonimo isometrico,
possono essere dovuti semplicemente a dei lapsus prima ancora che alla
presenza di una variante virgiliana a noi altrimenti ignota, la cui esistenza

18
PASQUALI 1951, 12.
19
DESBORDES 1979, 88.
20
Negli anni ’80, un nuovo impulso agli studi della Medea di Geta venne dato
dall’uscita delle edizioni di Rosa Lamacchia (LAMACCHIA 1981) e di Giovanni Salanitro
(SALANITRO 1981).
21
GALLI 2017, 427 (appendice 12).
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 321

ad ogni modo non possiamo escludere: spesso ci si deve fermare dunque


al piano delle ipotesi.
Non per questo risultano sminuite tuttavia l’ingegnosità e il fascino di
questi testi, oggi universalmente riconosciute, ma in parte ancora da
scoprire, vista la ricchezza degli stimoli offerti da questi bizzarri puzzle
linguistici.
Un effetto interessante, realizzabile proprio grazie alla tecnica cento‑
naria, è la diversa interpretazione che l’autore riesce a dare ai propri
personaggi tramite l’utilizzo dei verba virgiliani. La sua Medea infatti, se
dal punto di vista dello svolgersi dell’azione ricalca le mosse del personag‑
gio senecano, tramite le parole virgiliane, mutuate da quelle di Didone,
assume le vesti dell’eroina abbandonata. Ma, andando più a fondo, il
quadro che si delinea è ancora più articolato, se si pensa che, come è noto,
a monte della Didone virgiliana è possibile leggere in filigrana la presenza
del personaggio di Medea stessa. Geta, in un certo senso, ‘chiude il cerchio’
aperto da Virgilio, ma allo stesso tempo lo riapre, dal momento che molte
movenze presenti nel suo testo destano nella memoria del lettore la Medea
della dodicesima eroide ovidiana, che contribuisce a conferire al personag‑
gio un tono elegiaco. La rete dei richiami intertestuali risulta dunque
particolarmente fitta ed articolata.
Un altro aspetto che nei centoni appare molto accattivante e che è
strettamente legato alla loro particolare tecnica compositiva è inoltre la
possibilità, abilmente sfruttata dai compositori, di alludere ad un evento
futuro sfruttando la potenza evocatrice del contesto virgiliano, il cui ricordo
viene sollecitato nella memoria del lettore. Un esempio significativo è ai vv.
104‑108 del secondo coro:

VOX O digno coniuncta viro, | dotabere, virgo! |


Ferte facis propere, | thalamo deducere adorti, | 105
ore favete omnes et cingite tempora ramis. |
<CHOR.> Velamus fronde per urbem |
votisque incendimus aras. |

Voce O tu, vergine, unita ad un uomo degno, riceverai la tua dote!


Portate in fretta le fiaccole, o voi che vi accingete a
condur(la) al talamo, 105
fate tutti silenzio e cingete le tempie di fronde.
< Coro > Per la città orniamo gli altari di fronde
e li accendiamo con i voti.

Le prime tre righe vengono pronunciate da una misteriosa vox, che


apparentemente sta augurando il meglio alla sposa (Creusa) prima delle
sue nozze con Giasone, che nella versione di Geta del mito non hanno
ancora avuto luogo. I due versi successivi vengono pronunciati dal secondo
322 Maria Teresa Galli

coro e, all’orecchio di un ipotetico lettore non consapevole dell’ipotesto


virgiliano, potrebbero suonare come parole rituali, coerenti con l’augurio
della vox. Ma il dotto lettore presupposto dal centonatore noterà invece una
serie di indizi che portano in tutt’altra direzione: digno coniuncta viro (104)
è tratto da Ecl. 8, 32, dove il verso è pronunciato dall’affranto Damone;
coniuncta si riferisce a Nisa, che lo ha tradito per sposare Mopso (digno viro).
Il frammento dotabere virgo (104) è tratto da Aen. 7, 318. Giunone è piena
d’ira e scaglia una maledizione contro Lavinia (virgo): se il fato vuole che
sia lei la moglie di Enea, che la sua dote consista nel sangue dei Troiani e
dei Rutuli.
Al v. 105 (ferte facis propere), l’effetto dell’ombra dell’ipotesto è ancora una
volta inquietante: facis consiste nelle torce usate dai Troiani durante l’attacco
militare contro Laurentum (Aen. 12, 573); o ancora, thalamo deducere adorti
(105) è tratto dalle parole del traghettatore infernale, Caronte (Aen. 6, 397).
Ore favete omnes et cingite tempora ramis (106) originariamente faceva parte
degli atti rituali che precedevano il funerale di Anchise (Aen. 5, 71): un
contesto che contribuisce a creare una Stimmung decisamente sinistra, se
sovrapposto a quello delle imminenti nozze.
Velamus fronde per urbem (107) fa riaffiorare alla memoria l’immagine dei
poveri Troiani che, inconsapevoli della loro imminente rovina, si danno
tutta la notte ai festeggiamenti e ringraziano gli dei per il dono del cavallo
di legno (Aen. 2, 249): la ‘cecità’ dei Troiani nel frangente di riferimento non
può che infittire le ombre già numerose che caratterizzano il nuovo contesto
centonario. Infine, votisque incendimus aras (108) è tratto dall’episodio delle
terribili Arpie (Aen. 3, 279), la cui spaventosa immagine corona quelle
precedenti e fa presagire la prossima rovina.
Questi pur brevi esempi rivelano l’adozione, da parte di Geta, di criteri
ben precisi in base ai quali ha scelto e abbinato fra loro determinati
emistichi. In ognuno dei versi riportati, i segmenti virgiliani sono stati
selezionati non solo in base alla somiglianza con il nuovo contesto o alle
parole particolarmente adatte sotto il profilo semantico, metrico e
grammaticale, ma anche per il loro potere ‘evocativo’, che consente al
patchwork poet di anticipare in maniera sottile e sotterranea gli sviluppi della
vicenda centonaria, e nella fattispecie il dramma imminente di Creusa.
È evidente dunque il motivo per cui l’idea di ‘furto’ tout court o di casuale
affastellamento di versi sottratti meccanicamente a Virgilio, per lunghi
secoli alla base dell’avversione nei confronti dei centoni, risulta ormai
superata. Il testo di Geta, così come quello degli altri centoni, si è rivelato,

22
HARDIE 2007.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 323

al contrario, ricco di stimoli, e l’originale prodotto di un lavoro minuzioso


e di un’arte erudita e sofisticata.
Il compito dell’editore che è chiamato a misurarsi con un componimento
centonario non è semplice. La tentazione di uniformare, da un lato, le
anomalie tornando al testo virgiliano oppure, sul versante opposto, di
accettarle in quanto tipiche dei testi centonari, è sempre dietro l’angolo.
Armandosi di equilibrio e di pazienza, le fatiche vengono ripagate tuttavia
dal fascino di un testo ‘polifonico’ – felice espressione suggerita da Philip
Hardie22 – che, ogni volta che viene sollecitato, sorprende con nuove
allusioni e svariati livelli di lettura.

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324 Maria Teresa Galli

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Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura»

DIMITRIS MANTZILAS (UNIVERSITY OF THE PELOPONNESE)

Dopo Seneca e prima del dramma Neo‑Latino sono state scritte alcune
opere non più destinate al teatro, almeno nella sua forma tradizionale. Sono
una serie di testi soprattutto del III o del IV secolo d.C., il cui genere
letterario non è chiaro. Questo succede perché all’epoca il fenomeno del
sincretismo, cioè il mischiare generi letterali diversi, era quasi la regola.
Queste poesie sono in forma di epyllion, cioè un poema dai 100 ai 1000 versi,
che trae il suo soggetto dalla mitologia e dai cicli epici, con particolare
interesse per le storie d’amore e per i crimini.
Dato che molti di questi poemi contengono gli ingredienti base della
tragedia, negli ultimi anni c’è stato un tentativo di ridefinire il loro genere.
Analiticamente si trova una lista dei personaggi drammatici, l’azione viene
completata in un giorno e addirittura la moralità, la passione, la miseri‑
cordia, la paura e la catarsi sono più che evidenti. La scuola italiana ritiene
che non siano stati scritti solo per la lettura, ma anche per la rappresen‑
tazione: appartengono, cioè, alla pantomima tragica1, che si presentava
come uno spettacolo durante cene e banchetti (poetici apud mensam) in cui
un narratore leggeva il poema e gli attori‑danzatori recitavano ogni
avvenimento (dromenon) con movimenti specifici.
Queste opere riassumono una tragedia greca o anche un’intera trilogia
e come tali sono state caratterizzate dagli studiosi tedeschi come «drammi
di recitazione in miniatura»2. Vorrei introdurre il termine più semplice di
«tragedia‑miniatura» come le opere di Seneca, che sono state destinate alla
recitazione pubblica e si caratterizzano come tragedie senza esserlo. Inoltre,
esiste anche il termine “epico‑miniatura” o “poesia epica in miniatura”3,
con l’esempio più accentuato l’opera Ilias Latina, che aspira a riassumere
l’Iliade di Omero4.

1
Cf. GIANOTTI 1991, 144; BURLANDO 2000, 17‑25; SALANITRO 2007, 71‑76.
2
SCHETTER 1986, 127‑128 (= 1994, 182‑183): «Rezitationsdrama en miniature» e
«Theatralishce Wirkung»; cf. GIANOTTI 1991, 144‑145.
3
Si veda WASYL 2011.
4
Cf. SCAFFAI 1997.
326 Dimitris Mantzilas

Per quanto riguarda la composizione dei poemi, i poeti – come succe‑


deva anche precedentemente – seguivano il processo di imitazione (imitatio)
ed emulazione (aemulatio): inizialmente copiavano i Greci e dopo cercavano
di superarli. Perché ciò avvenisse, trasformavano i miti già noti e affermati,
sia con l’introduzione di nuovi elementi creati con la loro fantasia e abilità
poetica, sia seguendo le varianti meno comuni dei miti. Il loro obiettivo non
era solo quello di essere migliori, ma di provocare l’interesse degli
ascoltatori/lettori ai quali i miti – tante volte ascoltati – rischiavano di
apparire noiosi.
Il processo è il seguente: i poeti conservano alcuni elementi delle opere
greche, ma anche di quelle romane e li abbelliscono con elementi
essenzialmente «romani» (motivi letterari, percezioni, ideali, virtù, pratiche
di culto) più familiari al proprio pubblico. In questo modo attribuivano ad
eroi ed eroine del mondo classico nuovi elementi tratti dalla loro società,
rendendoli molto più simili a patrizi e matrone romane.
Le influenze da opere precedenti sono molte, non solo da opere mito‑
logiche o tragedie, ma anche da altre specie, come l’epica e l’elegia erotica.
Questi poeti, rinnovando la tradizione con nuovi ingredienti, rispettarono
il passato e allo stesso tempo si allontanarono da esso, riuscendo a
riaccendere l’interesse degli ascoltatori/lettori e assicurare la diffusione
della mitologia. Vediamo quali sono queste opere:

Alcestis Barcinonensis5 (L’Alcesti di Barcellona) è il nome convenzionale


dato al testo latino scoperto a Barcellona (da cui deriva l’aggettivo
Barcinonensis). Il poemetto venne probabilmente scritto nella seconda metà
del IV secolo, fu trovato nel 1979 in un papiro egiziano e pubblicato nel
19826. Comprende 124 versi esametri e si occupa del sacrificio eroico di
Alcesti per salvare suo marito e re di Fere, Admeto.
Si tratta di una combinazione di ethopoeia7, cioè di un discorso retorico
pronunciato da un personaggio storico o mitologico, e di narrazione
mitologica8, in forma di epyllion9, che combina temi romantici e mitici con

5
Le più importanti edizioni appartengono a MARCOVICH 1988, NOSARTI 1992 e
NOCCHI MACEDO 2014. Per una bibliografia addizionale e un’analisi del testo, si veda
MANTZILAS 2011, 61‑90.
6
La prima edizione (Editio princeps) è stata realizzata dal papirologo catalano ROCA‑
PUIG 1982.
7
È frequentemente confusa con la prosopopoeia, cioè il discorso retorico pronunciato
da relatori impersonali e con la eidolopoeia, cioè il discorso retorico pronunciato da un
defunto. Per questi termini retorici, si veda LAUSBERG 1998.
8
È il termine usato da PARSONS/NISBET/HUTCHINSON, 1983, 31‑33.
9
Questa è l’opinione di LEBEK 1989, 19‑26, accettata anche da GIANOTTI 1991, 142,
che lo caratterizza come «poemetto mitologico».
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 327

elementi di esercizi (che si chiamavano θέματα) come appaiono nelle


scuole retoriche10. Tuttavia, questo poemetto è molto differente dalla
sperimentale e meccanicistica tecnica del centone (cento)11, il cui nome
significa “punto”, dove lo studente prende in prestito testi parola per
parola, in particolare da Virgilio e dq altri poeti che ha studiato a scuola, e
li adatta ad un tema scelto dal professore.
Poiché gli elementi di copia, di modifica, di collage e di parodia sono
intensi, molti classificano queste opere nella poesia marginale. Invece
l’anonimo bardo di questo carme utilizza una tecnica semi‑centonica:
assorbe idee, parole, frasi, formule, personaggi dall’Alcesti di Euripide da
una parte e dall’altra parte dai poeti romani (soprattutto Virgilio, Properzio,
Lucano, Stazio e molti altri), li mescola abilmente con la più antica
tradizione mitologica e folcloristica e, grazie alla sua viva fantasia, crea una
squisita opera.
Admeto consulta l’oracolo di Delfi per sapere dal suo dio‑protettore
Apollo per quanto tempo vivrà, come morirà e quale sarà il futuro della
sua immagine dopo la morte. La prima domanda è presente anche
nell’opera di Euripide, le altre due sono invenzioni del poeta romano.
Apollo risponde a questo quesito rivelando che morirà prematuramente, a
meno che qualcuno della famiglia non venga offerto come vittima
sostitutiva. Modello questo che risale, secondo l’ipotesi dell’opera
euripidea, ad una versione perduta del mito, ma anche ad un’elegia famosa
di Properzio dove Cornelia, quando muore, offre il resto del tempo che
avrebbe potuto vivere a suo marito Paulo12.
L’azione viene trasferita al palazzo reale di Fere, un ambiente adatto alla
tragedia. I genitori di Admeto si rifiutano di aiutarlo, indicando vari
argomenti filosofici o scuse. Suo padre, Ferete, si presenta come un epicureo
ed edonista che ama la vita ed i beni materiali, gli offre solo pochi anni o
un membro del suo corpo, ma non tutta la sua vita, mentre sua madre, Cli‑
mene, come un filosofo stoico, sostiene che l’estensione della sua vita non
gli garantirà l’immortalità né potrà assolverlo dal suo destino.
Alcesti, da parte sua, propone argomenti pertinenti a varie teorie
filosofiche: ritiene che il sacrificio le garantirà la fama e la gloria eterna,

10
Si veda CRIBIORE 2001, 230.
11
Per informazioni addizionali, si veda BRIGHT 1984, 79‑90; MCGILL 2005; BAžIL
2009; PRIETO DOMÍNGUEZ 2010; GALLI, MORETTI 2014. Sedici testi sono sopravvissuti
(la metà di loro sono anonimi), scritti tra il 200 e il 534 a.C., di cui sette hanno contenuto
mitologico, cinque secolare e quattro cristiano.
12
Prop. 4, 11, 95. LECHI 1984, 18‑28, rileva nell’Alcestis Barcinonensis l’accoppiamento
tra la moralità aristocratica di Properzio e la passione erotica di Euripide; cf. PADUANO
1958, 21‑28; REITZENSTEIN 1969, 126‑145. Cornelia è ritratta come una bella donna, ma
Alcesti è considerata simile a una dea.
328 Dimitris Mantzilas

potrà alleviarla dal dolore delle vedove e soprattutto sarà la prova della
sua pietà (pietas) nei confronti della patria, della religione e della famiglia;
pietà che si presenta come un valore puramente romano e che costituisce il
motivo di lettura (leit‑motiv) di tutto il carme. Alcesti sarà una meritevole
moglie per Admeto: infatti preparerà il suo funerale, dando ordini chiari
ai suoi servitori. Inoltre, gli darà la sua benedizione per trovare una nuova
moglie e avere dei figli, purché lui continui ad amare i suoi due figli, ad
adornare la sua tomba con le rose ed abbracciare la sua urna con amore;
altrimenti lei – come fantasma – lo spaventerà durante la notte, nel sonno.
Tutti questi motivi sono sconosciuti al pubblico greco, ma intimi a quello
romano attraverso la poesia elegiaca, gli elogi per le donne (laudationes
mulierum), le iscrizioni funerarie e la religione romana privata, riflettendo
praticamente le pratiche della società romana. Il poemetto finisce
drammaticamente con la morte lenta e dolorosa dell’eroina e le ultime
parole che scambia con il marito sul letto di morte, mentre sta per trovare
la beatitudine eterna. È una transizione dalla vita alla morte e dalla luce
all’oscurità.
Il poeta anonimo omette alcuni elementi del mito consolidato e ne
introduce altri.
Gli elementi mancanti sono:
a) Il motivo fiabesco della bella principessa, dove i giovani che vogliono
sposarla devono passare tre prove imposte dal padre (qui Pelia per dare in
sposa Alcesti),
b) la storia d’amore tra Admeto e Apollo, quando il primo lavora come
pastore, sotto la supervisione del secondo, perché punito per un omicidio
che aveva commesso,
c) l’insulto ad Artemide, che Admeto aveva dimenticato di comme‑
morare il giorno del suo matrimonio ed altri elementi ancora.
La differenza principale con la tragedia di Euripide, è che Ercole,
compagno di Admeto durante la campagna degli Argonauti, combatte con
il Dio Thanatos e riporta Alcesti al mondo superiore.
Il bardo anonimo evita il lieto fine (che troviamo anche in altre tragedie,
vale a dire nell’Ifigenia in Tauride, nello Ione e nell’Elena), per il quale
avevano accusato Euripide già dall’antichità. Ricordiamo che l’Alcesti è stata
presentata al posto di un dramma satiresco, cioè subito dopo una trilogia
e persino senza un unico tema. Così a volte è stata indicata con numerosi
termini dispregiativi come «pseudo‑dramma», «tragicommedia», «comme‑
dia tragica», «quasi tragedia», «opera pre‑satirica» ecc.13. Dunque il poeta

13
Si veda DALE 1954, xviii; SUTTON 1973, 384‑391; PARKER 2007, 19‑24.
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 329

romano, volendo superare Euripide, non volle però rompere con il tradi‑
zionale esito nefasto proprio di ogni tragedia.
Allo stesso tempo presenta Alcesti non come un’eroina mitologica greca,
ma come una matrona romana, con le caratteristiche che la governano,
come esse sono note da varie fonti: lei supporta il marito, l’unico uomo che
sposa nella sua vita (è l’ideale dell’univira), ama i suoi figli, è onesta, leale,
modesta, buona casalinga, bella ma non provocante, dirige la casa e,
soprattutto, pia come abbiamo già detto.
Il carme ha una struttura composta da dodici blocchi (o passaggi),
suddiviso in cinque parti (2 + 2 + 3 + 3 + 2)14, di dimensioni variabili da sette
a tredici versi. Ci sono anche cinque personaggi‑ruoli15, come è indicato
nelle notae personarum scritte a margine del papiro (APOLLO, ADMET[US],
PAT[ER], MATER, Alcesti bis), insieme a quella del narratore (POET[A])16.
I personaggi sono Admeto, re di Fere in Tessaglia, la moglie Alcesti, il padre
Ferete, la madre Climene e il suo protettore il dio Apollo17. In verità non
c’è alcuna menzione effettiva del nome dei genitori18, mentre Alcesti è
menzionata solo una volta con il suo nome e una volta con il suo patroni‑
mico19.
Per alcuni studiosi, principalmente italiani, questa è una forte evidenza
che il poema era stato composto per potenziali scopi scenici, che essi
definiscono come una tragica pantomima20, un genere di prestazione. Si

14
MARCOVICH 1988, 4‑5: A. Il prologo in forma di dialogo tra Admeto e Apollo (1‑
20, 2 blocchi), B. Il dialogo (diverbium) tra Admeto e Ferete (21‑42, 2 blocchi), C. La
rhesis di Climene (42‑70, 3 blocchi), D. L’anti‑rhesis (71‑103, 3 blocchi) di Alcesti, E.
L’ultimo giorno e la morte di Alcesti (102‑124, 2 blocchi). Le Parti C e D formano l’Agon
tra Climene e Alcesti. Per la struttura del carme, si veda anche ZEHNACHER 1998, 361;
SCHÄUBLIN 1984, 175.
15
LEBEK 1989, 20, n. 4. Per ulteriori dettagli sulla presenza di questi eroi nella
mitologia, si veda GRIMAL 1951, 10‑11, s.v. Admète; 25, s.v. Alceste; 366, s.v. Phérès.
16
SMOLAK 1993, 290, la tratta come un’aggiunta errata nelle sezioni narrative. Su
questo argomento, si veda GIANOTTI, 1995, 271‑283, che spiega come questo siglum è
stato attribuito dal primo editore al narratore, ma in seguito altri editori attribuiscono
i due testi contenenti «Poeta» all’argomentazione di Climene. Non siamo d’accordo,
come è ovvio, c’è un narratore nascosto sotto la persona narrativa di vates, il cui nome
non viene mai rivelato.
17
Una differenza importante rispetto alla tragedia euripidea è che Apollo e
Thanatos hanno un ruolo nella trama, mentre Climene è assolutamente assente.
18
GIANOTTI 1991, 144. Per quanto riguarda Climene, il suo nome è frequentemente
scritto come Periclimene.
19
Alc. Barc. 71 Peleia; 107 Alcestis.
20
Cf. Juv. 6, 652‑654, che menziona la presenza di Alcesti in pantomima.
330 Dimitris Mantzilas

trattava forse di un’azione drammatica21, accompagnata da musica e danze


mimiche di attori e di balletto, forse una riedizione scenica della vita di
Alcesti nota al pubblico romano dall’omonima tragedia scritta da Lucio
Accio22, da una pantomima di Batillo23 oppure da un erotopaegnion di
Levio24.
Questi testi, che sono stati presentati come ἀκροάματα durante le cene
e nei banchetti25, a cui appartiene anche il Querolo (Querolus) anonimo del
V secolo, adattazione dell’Aulularia di Plauto, sono chiamati “poesie sul
tavolo” (poetici apud mensam). Forse in questa categoria appartiene anche
La danza (Περὶ ὀρχήσεως / De saltatione) di Luciano di Samosata, che ci
informa di figure mitiche adottate nell’arte di orchestes in Tessaglia26. Questi
spettacoli sopravvissero all’epoca cristiana, anche se le autorità vi si erano
opposte, perché li consideravano come una forma di comunicazione di
massa e di scolarizzazione popolare.
Anche se pensiamo che l’Alcesti Barcinonensis sia di gran lunga superiore
ad una pantomima popolare, un genere spesso menzionato da scrittori
antichi come inferiore al teatro, le sue condizioni drammaturgiche e gli
elementi teatrali (in abbinamento con il suo aspetto religioso) sono
innegabili, rafforzando l’ipotesi italiana e rendendo difficile il suo rifiuto27.
Forse il dubbio potrebbe essere eliminato se accettiamo che non si tratta di
una semplice pantomima popolare, ma di una tragedia‑miniatura.
Un secondo testo, di valore e di significato letterario molto minore, ma
che si occupa della stessa leggenda, è Alcesta28: un “centone” di un poeta
anonimo, molto più vicino alla tradizione dell’Alcestis Barcinonensis29.
Questa è una copia dei versi virgiliani. La più grande somiglianza fra i due

21
Cf. GIANOTTI 1991, 144.
22
Accius (57 R², un verso rimane) ap. Priscian. p. 165 RIBBECK.
23
Juv. 6, 63‑66.
24
Laev. 7‑9 TRAGLIA ap. Gell. 19, 7‑8; cf. PASTORE POLZONETTI 1985, 59‑77;
MANTZILAS 2013, 53‑89.
25
Cf. Plut. Quaest. Conv. 7, 8, 711a‑713; Gell. 19, 7, 2 sq.
26
Luc. De salt. 52.
27
In generale, gli studiosi italiani condividono lo stesso parere e cioè che Alcestis
Barcinonensis e Alcesta (vedi sotto) sono state tragedie o pantomime scritte per essere
rappresentate; cf. BURLANDO 2000, 17‑25, che descrive un moderno adattamento
teatrale a Firenze; SALANITRO 2007b, 71‑76, che cita e segue l’opinione di GIANOTTI; cf.
LÓPEZ SILVA 2011. Lui condivide lo stesso parere che sia una pantomima. Un lavoro
importante del genere popolare di pantomima è quello di HALL/WYLEs 2008.
28
Codex Parisinus Latinus 10318 (Salmasianus). Due importanti edizioni sono
quelle di SALANITRO 2007a e di PAOLUCCI 2015.
29
MCGILL 2005, 88‑89, LINGUANTI 2013, 227‑256, PAOLUCCI 2014a, 11‑48 e WAsYL
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 331

testi è l’essere ricordato dopo la morte attraverso il sacrificio eroico. La più


grande differenza riguarda il nuovo matrimonio di Admeto, un motivo
assente dall’Alcesta. Anche qui c’è un narratore (il poeta stesso) e la
medesima scena con Admeto che chiede ad Apollo informazioni sul suo
futuro, mentre in una parte dell’opera in cui ci sono influenze della poesia
bucolica si trova il tema del loro rapporto sentimentale.
Al contrario, mancano le questioni filosofiche, le avversioni drammati‑
che, l’unità di tempo (vi è una lacuna in questo poema) e Climene come
personaggio del dramma. Una volta che Admeto chiede al padre di
sacrificarsi immediatamente, Alcesti offre se stessa. Il poema di 162 versi
termina con il monologo emotivo dell’eroina, l’ultimo saluto dei coniugi e
la morte della dona. Quindi questo poeta romano si differenzia anche dal
lieto fine euripideo. Segni comuni di entrambe le opere sono la presenza
di varie divinità del mondo sotterraneo, i ripetuti riferimenti alla morte e i
suoi sintomi (paura, sudore…), l’aldilà e il ruolo del destino, che supera il
potere degli dei.
«La tragedia di Oreste» (Orestis o Orestes Tragoedia)30 è consegnata senza
il nome dell’autore, ma è assegnata a Draconzio, di origine africana, vissuto
nel IV secolo d.C. Si tratta di una composizione particolare31, una miscela
di epyllion32, di epico sceneggiato33 o addirittura di un poema epico in
miniatura che potrebbe però essere diviso in cinque atti, come se fosse una
tragedia autentica34, con elementi derivati dal romanzo ma anche con
influenze intense nel primo livello dell’Agamennone di Seneca35 e nel

2018, confrontano le opere Alcesta e Alcestis Barcinonensis a tutti i livelli. Per il suo
«genus mixtum», si veda PAOLUCCI 2014b, 49‑66.
30
La prima edizione è stata fatta nel 1858 da MüLLER in Rudolstadt. Il titolo è dato,
senza nome di poeta, dal codice B (Bernensis Bongarsianus 45), del IX secolo. Un altro
titolo, Horestis fabula, è dato dal codice A (Ambrosianus O 74 sup.) del XV o XVI secolo.
Lo studioso (e poi cardinale) ANGELO MAI, 1871, 12‑17, basandosi su elementi
linguistici e morali, ha identificato Draconzio come creatore dell’opera, basandosi
anche sulle stupefacenti somiglianze con le restanti opere sopravvissute. L’edizione
più recente è stata fatta da GRILLONE 2008.
31
Cf. WASYL 2011, 254 sq., che non riesce a definire il suo genere letterario e parla
di «non‑genere».
32
Questa é l’opinione di BOUQUET/WOLFF 1995, 37‑45.
33
È l’opinione di GALLI MILIĆ 2010, 191, basata sul fatto che circa il 50% della
narrazione è viva grazie al discorso diretto, un’osservazione che aveva già fatto
QUARTIROLI 1947, 30.
34
Cf. BRIGHT 1987, 203; invece STOEHR‑MONJOU 2009, 1‑20, argomenta che
Draconzio rifiuta ogni connessione del suo poema con la tragedia.
35
Cf. TRILLITZSCH 1981, 268‑274.
332 Dimitris Mantzilas

secondo livello di tutte le tragedie greche che sono ereditate dai miti del
ciclo argolico.
Come una «tragedia‑miniatura», quest’opera concentra la trilogia Orestea
(Agamennone, Coefore, Eumenidi) di Eschilo in 874 esametri (cioè la metrica
dell’epos), aggiungendo alcuni episodi dall’Elettra di Sofocle, così come tre
tragedie di Euripide (Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride e Oreste), oltre ad
elementi tratti da altri poeti romani (soprattutto Ovidio, Lucano, Stazio,
Giovenale e Virgilio).
È stato sostenuto36 che grazie a Seneca, che ha eliminato l’esagerazione
delle persone drammatiche di Eschilo e ha introdotto l’analisi morale e
psicologica, il mito si è diffuso fino ai giorni di Draconzio, il quale diede ai
personaggi dimensioni più umane, scrivendo un dramma appassionato.
Tuttavia, altre due tragedie erano state scritte: Egisto di Livio Andronico e
Clitennestra di Lucio Accio37, che dovrebbero averlo influenzato in larga
misura.
Il suo scopo38 sembra essere la presentazione in una singola forma
integrata del mito di Oreste, concentrando in un’opera tutti gli episodi
autonomi che rispondono alla vecchia tradizione. Inoltre, Draconzio
introduce nella sua narrazione rilassata i suoi episodi: delle peripezie
fantastiche39 che sarebbero più adatte in un romanzo che in un epyllion o
tragedia. Si tratta di toccanti episodi inter familiari, dove il mito passa ad
un secondo piano e sono piuttosto sottolineati la passione, l’emozione ed i
conflitti.
I più caratteristici sono l’incontro fra Ifigenia e Agamennone al tempio
di Artemide in Tauride e la narrazione del naufragio di Oreste al suo
insegnante Dorilas, una persona che appare anche in un’altra scena
fondamentale: nel sonno di Oreste e di Pilade allo stesso tempo, allo scopo
di far vendicare l’uccisione di Agamennone.
L’opera, quindi, è costituita da autonome scene quasi consecutive40 in
cui sono mescolati elementi retorici e momenti drammatici in tonalità e
sfumature diverse. L’obiettivo finale è quello di scrivere un’opera più
accattivante e più breve di quella di Eschilo, seguendone tuttavia le linee
base: l’assassinio di Agamennone, il matricidio di Oreste, la follia del
protagonista e il processo presso la Corte Suprema all’Areopago. Ma ci

36
Cf. BOUQUET 1989, 43‑59.
37
Cf. STACKMANN 1949, 180‑221.
38
Cf. QUARTIROLI 1947, 28.
39
È il termine introdotto da BOUQUET/WOLFF 1995, 30: «Péripéties romanesques».
40
Cf. BOUQUET/WOLFF 1995, 42: «Tableaux juxtaposés».
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 333

sono differenze: in Eschilo la stessa Clitennestra uccide suo marito, mentre


Draconzio (che segue Seneca) fa commettere ad Egisto il crimine.
Inoltre Oreste nell’opera di Eschilo è assente al momento dell’omicidio,
mentre nelle opere latine (che seguono l’Elettra di Sofocle) Elettra salva suo
fratello dalla furia materna. Ancora più innovative sono le scene intercalanti
che Draconzio introduce tra l’omicidio di Clitennestra ed il processo di
Oreste: è l’omicidio di Pirro da parte di Oreste, un episodio ben noto in
Virgilio41, nonché la riunione di Ifigenia e di Oreste in Tauride che segue il
famoso riconoscimento dell’Ifigenia in Tauride42.
Opposta alla pia (pia) Ifigenia, che è stata sacrificata involontariamente
per la patria e la sua famiglia e serve la religione come la sacerdotessa di
Artemide, si trova l’empia (impia), spietata, quasi mostruosa, adultera
Clitennestra. Vive un amore pazzo per Egisto, pieno di lussuria, che non è
menzionato da Eschilo per motivi di vergogna. Il significato predominante
è che il fato (fatum), governa gli dei ed i mortali e la libertà individuale è
inesistente.
Influenzato dalla religione cristiana, che a quell’epoca era fiorente (non
è fortuito che gli dei pagani siano quasi assenti dall’opera), Draconzio
inconsciamente porta i suoi eroi a peccare e ad essere puniti43, cercando di
trarre conclusioni etiche sul loro comportamento. Come Alcesti, Ifigenia
mantenne la sua purezza mentale44 e persino la sua purezza fisica, cioè la
sua verginità, mentre si dedicava alla religione.
Dei restanti tre epyllia di Draconzio45, Ila (Hylas) ha un forte carattere
retorico, Il rapimento di Elena (De raptu Helenae) è una miniatura epica e solo
Medea (Medea) ha ricevuto dalla tragedia un’epiclesi che si trova anche nella
Tragedia di Oreste come dimostra l’invocazione alla Musa Melpomene, la
musa di questo genere letterario. Medea secondo Draconzio riassume quasi
tutta la precedente produzione letteraria (Euripide, Ennio, Ovidio, Seneca,
Lucano, Apollonio Rodio e Valerio Flacco), che è stata dedicata a questa
eroina.
Il poema è costituito da due parti separate: la prima (1‑365) si svolge in
Colchide e la seconda (366‑601) a Tebe. Il tema centrale, attorno al quale

41
Verg. Aen. 3, 330‑332; cf. Hyg. Fab. 123.
42
E. IT. 800‑840.
43
Su questo tema, si veda BOUQUET/WOLFF 1995, 43‑45.
44
Radicalmente diversa è stata l’immagine data da Levio nella sua opera
Erotopaegnia, da cui vengono salvati solo 100 testi. Lì, diversi personaggi di mitologia,
anche i più seri, si presentavano con un umorismo giocoso e sessuale; si veda
MANTZILAS 2013, 53‑89.
45
Per ulteriori informazioni, si veda BOUQUET/WOLFF 1995, 37‑46.
334 Dimitris Mantzilas

ruotano tutti gli episodi, è l’effetto dell’amore in tutte le sue manifestazioni:


Medea tradisce il padre Eeta, anche se lui la ama; l’affetto di Creonte per la
figlia Glauce, la rivale di Medea, causando la morte di entrambe; la
passione smodata di Medea per Giasone, per amore del quale ha lasciato
la patria e ha ucciso il fratello Apsirto e più tardi i suoi figli, per farlo
soffrire, quando lui la sostituisce con una compagna più giovane.
Non mancano di questo poema l’emozione, la moralità ed il rispetto per
la religione, la cui mancanza provoca dei disastri. L’invenzione di
Draconzio è la collocazione del matrimonio di Giasone e di Medea in
Colchide e di una chiusura inaspettata in cui il narratore, dopo una
preghiera ad Afrodite, Eros e Dioniso, li maledice perché li considera
responsabili delle sofferenze causate da Medea.
Da Seneca, Draconzio ha preso in prestito il dualismo emotivo46 della
protagonista, che si manifesta in binomi manichei: ragione‑follia, passione‑
virtù, amore‑odio, vita‑morte. Influenzato dalle Metamorfosi di Ovidio47, il
poeta osserva la trasformazione dell’eroina da donna che perde poco a poco
la sua femminilità48 a strega blanda che utilizza la magia bianca, a strega
spietata che prepara veleni (venefica) ed alla fine a essere criminale
(malefica)49; una rappresentazione della protagonista come specialista in
magia nera che è quasi assente in Euripide.
Anteriore alla Medea di Draconzio è la Medea di Osidio Geta50,
probabilmente di origine africana51, scritta verosimilmente poco prima del

46
Cf. BIONDI 1989, 37‑41.
47
Si veda MANTZILAs 2017, 9‑46.
48
È l’opinione di GASCARD 1993, di VEGA VEGA 2005, 537‑544 e di altri ricercatori.
Medea ha smesso di essere una semplice donna ed è diventata una strega spietata, ma
anche un uccisore‑mostro, quando uccide i suoi figli, che simboleggiavano la sua
femminilità.
49
Il primo a vedere, nella sua trasformazione, qualcosa di più di una mutazione
naturale fu ANDERSON 1963, 1‑27. GALINSKY 1975, 210‑217, ha aggiunto un’altra
dimensione, quella della trasformazione psicologica. Molto interessante è l’analisi di
ROSNER‑SIEGEL 1982, 231‑243, che descrive in dettaglio l’evoluzione (e la depressione
mentale) dell’eroina; cf. anche la contribuzione di WASYL 2007, 81‑99.
50
Edizioni di SALANITRO 1981; LAMACCHIA 1981; WOLFF 2006; GASTI 2016; GALLI
2017; cf. i vari contributi di DANI 1950, 75‑78; SALANITRO 1997, 2314‑2360; MCGILL
2001–2002, 143‑161; MCGILL 2005, 31‑52; HARDIE 2007; RONDHOLZ 2012.
51
Se l’ipotesi che l’Alcestis Barcinonensis sia stata scritta in Egitto è corretta, è il terzo
caso (insieme a quello di Draconzio) di poesie di simile stile non ortodosso e
multiformato scritto nel continente africano, dove le facoltà retoriche fiorivano in centri
come Alessandria e Cartagine. Per le somiglianze tra la Medea di Osidio Geta ed il
cento Alcesta, si veda PAOLUCCI 2014c, 165‑170.
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 335

203 d.C. quando è menzionata da Tertulliano52 e viene tramandata da un


unico manoscritto53. Si tratta di una «tragedia‑miniatura» composta da 462
versi in esametri e paremiaci54. È infatti un primo esempio di centone
virgiliano55, ma senza molto successo, dal momento che non mancano gli
errori metrici, l’incoerenza della narrazione e diverse ambiguità di
significato, perciò tanti descrivono il suo stile come “oscuro”56, anche se
certamente è stato molto difficile regolare i versi dalla poesia epica ad un
altro genere letterario, la tragedia57.
Il poema, in cui le didascalie sceniche sono assenti, manca di originalità
e finzione poetica e sembra essere più una costruzione, quindi
probabilmente non era destinato per il teatro o per uno spettacolo. Nella
copia di Draconzio è particolarmente evidente dove vengono utilizzati gli
stessi versi che usa Virgilio nel quarto libro dell’Eneide per Didone:
entrambe le principesse (Didone e Medea) hanno tradito la loro famiglia e
la loro casa, si sono innamorate follemente del bello sconosciuto e quando
sono state abbandonate da lui, dopo un tentativo disperato di trattenerlo
con incantesimi, sono arrivate alla follia. L’una si è suicidata gettandosi nel
fuoco, l’altra ha ucciso i suoi figli ed è fuggita su un carro volante.
Ci sono alcune influenze di altri autori che scrissero opere concernenti
la figura di Medea ma la caratteristica più evidente è quella che è stata
descritta come «intertestualità triangolare»58: utilizzando versi di Virgilio,
il poeta imita Ovidio59 e Seneca in diversi episodi, ad esempio, l’epithala‑
mion, la canzone di nozze per il matrimonio di Giasone con Creusa; gli
elementi magici; l’Agon retorico di Medea e di Giasone; l’infanticidio sul
palco e lo scontro finale tra gli ex coniugi; mentre le influenze di altri
scrittori su Euripide sono molto deboli. Dove Osidio Geta differisce dai
poeti precedenti, è nel fatto che introduce il valore di otium: è l’inazione, la
tranquillità, l’astinenza dalla vita pubblica, un valore che si adatta all’uomo
saggio e che diverse scuole filosofiche hanno considerato come l’ideale
supremo per i Romani60.

52
Tert. Praescr. Haeret. 39.
53
Codex Salmasianus Parisinus 10318 (AL 17 R).
54
Invece del trimetro giambico utilizzato dalla tragedia romana, alternato a varie
metriche liriche (nei canti corali).
55
SALANITRO 1984, 321‑327.
56
Si veda la critica fortemente negativa di KRÖLL 1913, col. 2489, s. v. Hosidius.
57
Come tale la caratterizza DANE 1950, 75, che segue MOONEY 1919.
58
È il termine di MCGILL 2005, 46: «Triangulated intertextuality».
59
Le assunzioni dalle Metamorfosi di Ovidio sono evidenti. C’è un sospetto valido
che Osidio Geta abbia copiato in gran parte la perduta Medea di Ovidio.
60
Cf. ANDRÉ 1966.
336 Dimitris Mantzilas

C’è anche un testo greco antico simile61, più vecchio dei corrispondenti
latini di datazione incerta (tra il IV e il II secolo a.C.), che si concentra sulla
maggior parte del primo episodio (446‑637) della tragedia Le Fenicie di
Euripide. Si trova nella parte posteriore (verso) di un papiro di Ossirinco.
Si tratta dell’Agon retorico tra Eteocle e Polinice, che si trovano in
disaccordo davanti alla madre Giocasta, che – assumendo il ruolo di arbitro
– cerca di dare un verdetto e soprattutto di evitare il fratricidio imminente.
Il genere di questo poema, scritto in trimetri giambici, è difficile da
determinare. Potrebbe essere un esercizio di scuola62 o un tentativo di un
poeta esperto63 o anche di un poetastro64 che ha voluto scrivere qualcosa
di diverso da Euripide, anche se si differenzia dalla tragedia greca solo nei
dettagli (es: Polinice dà la sua spada a Giocasta, promette che rispetterà il
suo verdetto e si rivolge a Eteocle con il suo nome, elementi mancanti in
Euripide). I giudizi dei filologi sono contraddittori sul tema: potrebbe
trattarsi di un episodio di una tragedia perduta65, forse l’Edipodia di Meleto,
il padre del famoso accusatore di Socrate’66; il poema contiene persone che
dialogano e non un narratore, proprio come i poemi discussi in precedenza.
Da quello che abbiamo visto è evidente che i poeti del periodo tardo
antico hanno cercato di adattare la tradizione letteraria e mitologica alle
nuove circostanze del loro tempo, trasformando i miti classici, stabiliti
secoli fa, in condizioni sociali, politiche e culturali differenti e con
l’introduzione di nuovi elementi, per renderli più attraenti e familiari ad
un nuovo pubblico di lettori/uditori.
Nessuno di questi lavori ha raggiunto il livello delle opere originali, ma
il tentativo di rinnovarli dà loro un valore letterario in misura variabile.
L’unica cosa certa è che la mitologia rimane affascinante ed è stata un punto
di riferimento non solo per gli scrittori di tragedie o di “tragedie‑minia‑
ture”, ma in generale per la maggior parte degli scrittori.

61
Prima edizione da NORSA/VITELLI 1935, 14‑16, poi unita con i Papyri della Società
Italiana (PSI 1303 = TrGF Ad. F 665 KANNICHT/SNELL); cf. NORSA 1949, 57‑60; MEDDA
2007, 13‑18, che riassume la ricerca filologica.
62
Cf. NORSA/VITELLI 1935, 14‑15; NORSA 1949, 60.
63
È l’opinione di GARZYA 1952, 389‑398 (= 1997, 335‑346).
64
Questo è supportato da KANNICHT/SNELL 1981, 252: «nos quidem versificatorem
potius quam poetam audimus»; cf. KANNICHT ET AL. 1991, 264‑267.
65
Cf. PAGE 1942, 172‑181, che pensa sia parte di una tragedia perduta.
66
Cf. TrGF 48 F 1. L’identificazione appartiene a WEBSTER 1954, 297‑298. Lo segue
con cautela XANTHAKIS‑KARAMANOS 1997, 1038‑1039.
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 337

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Indice

Tabula gratulatoria p.  VII

Prolegomena
ENRICO V. MALTESE IX

Prefazione
FRANCESCO CARPANELLI XI

Introduction
LUCA AUSTA XIII

Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo


FRANCESCO CARPANELLI 1

Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato di Eschilo nei papiri


di Ercolano
PIERO TOTARO 45

I Frigi nell’universo tragico greco: intorno ad una tragedia perduta


di Eschilo
MILENA ANFOSSO 53

Sofocle, fr. 871 Radt


DANIELA MILO 83

Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans


ELENI KORNAROU 97

Edipo all’altare? Per una lettura ed interpretazione di Euripide,


fr. 554a K. (Edipo)
LAURA CARRARA 111

La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide


MATTIA DE POLI 137
342 Indice

Una dimensione dimenticata dell’akoè: la percezione in scena e la


funzione drammaturgica dei suoni non verbali
VALENTINA ZANUSSO 167

Il fr. adesp. 681 Kn. – Sn.: Meleagro euripideo o un dramma satiresco?


Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco
SONIA FRANCISETTI BROLIN 193

Da Ossirinco a Parigi: i Segugi di Sofocle nel melodramma La naissance


de la lyre di Albert Roussel
SIMONE BETA 207

Il silenzio e la voce di Iole: dalla scena antica al teatro contemporaneo


LUCIA DEGIOVANNI 215

Il poeta protagonista del suo dramma: sulla ricostruzione della Pytinē


di Cratino
FRANCESCO PAOLO BIANCHI 235

Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.)


LEONARDO FIORENTINI 263

Il fr. 2 K.‑A. di Filemone. Considerazioni testuali ed esegetiche


SEBASTIANO BERTOLINI 271

Frammenti di follia. Il tema della follia nella tragedia latina


frammentaria
MARCO FILIPPI 285

Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca


MARCELLA PETRUCCI 307

La Medea di Osidio Geta, dramma centonario: damnatio memoriae


di una tragedia fuori dagli schemi
MARIA TERESA GALLI 315

Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura»


DIMITRIS MANTZILAS 325
Il carro di Tespi
Testi e strumenti del teatro greco‑latino

Collana diretta da Francesco Carpanelli

1. Francesco CARPANELLI, Da Eschilo a Seneca. Legami pericolosi e scena classica.


Il connubio tra sacro e profano, 2015, pp. VI‑194, € 25,00. 978‑88‑6274‑615‑1
2. Massimiliano ORNAGHI, Dare un padre alla commedia. Susarione e le tra‑
dizioni megaresi, 2016, pp. X‑534, € 40,00. 978‑88‑6274‑694‑6
3. Gunhv, Mulier e Madonna. Donne di teatro, devozione e poesia, a cura di Luca
AUSTA, 2016, pp. X‑194, € 22,00. 978‑88‑6274‑701‑1
4. Pietro DE SARIO, L’arte del parodiare. Ricerche sulla parodia in Aristofane,
2017, pp. X‑150, € 22,00. 978‑88‑6274‑744‑8
5. “Né la terra, né la sacra pioggia, né la luce del sole”, a cura di Luca AUSTA,
2018, pp. X‑290, € 22,00. 978‑88‑6274‑826‑1
6. Frammenti sulla scena. Studi sul dramma antico frammentario, volume 1, a
cura di Luca AUSTA, 2017, pp. X‑210, € 20,00. 978‑88‑6274‑851‑3
Finito di stampare nell’ottobre 2018
da DigitalPrint Service s.r.l. in Segrate (Mi)
per conto delle Edizioni dell’Orso

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