The Forgotten Theatre PDF
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Uomo, […] cosa c’è di terribile se dalla Città ti espelle non un tiranno o
un giudice ingiusto ma la natura stessa? È come se il pretore allontanasse
dalla scena un attore che che aveva assunto. «Ma io non ho recitato tutti e
cinque gli atti, solo tre!» È giusto, ma nella vita tre atti sono un dramma
intero. Colui che vi pone fine è lo stesso che vi pose principio un tempo.
Tu non hai responsabilità in nessuno dei due eventi.
Parti dunque sereno. Colui che ti congeda lo è.
edited by
Luca Austa
Edizioni dell’Orso
Alessandria
The Forgotten Theatre
a cura di
Luca Austa
Edizioni dell’Orso
Alessandria
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Torino.
© 2018
Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l.
15121 Alessandria, via Rattazzi 47
Tel. 0131.252349 ‑ Fax 0131.257567
E‑mail: [email protected]
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È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la
fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171
della Legge n. 633 del 22.04.1941
ISSN 2611‑3570
ISBN 978‑88‑6274‑869‑8
Tabula gratulatoria
Milena Anfosso
Sebastiano Bertolini
Francesco Paolo Bianchi
Francesco Carpanelli
Laura Carrara
Maria Elvira Consoli
Lucia Degiovanni
Mattia De Poli
Marco Filippi
Sonia Francisetti Brolin
Maria Teresa Galli
Edoardo Giglio
Eleni Kornarou
Enrico V. Maltese
Dimitrios Mantzilas
Daniela Milo
Marcella Petrucci
Valentina Zanusso
Prolegomena
ENRICO V. MALTESE (DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO
STUDIUM, UNIVERSITÀ DI TORINO)
Se il titolo del volume (anzi, del primo volume di una serie) ammicca
garbatamente a un pubblico che apprezza le etichette brillanti, gli ingre‑
dienti restano però di sostanza chiara e genuina, e si inseriscono in una
solida tradizione scientifica. Quella che attraverso i frammenti cerca la
ricostruzione delle pièces e la loro collocazione (Carpanelli, Bianchi,
Carrara, Fiorentini…), indaga il rapporto del frammento da citazione con
il testo vettore (Milo…), ricostruisce e presenta la facies testuale del fram‑
mento (Bertolini...), verifica nei frammenti meccanismi e dinamiche di
generi e autori (Kornarou, De Poli…), recupera temi tipici (Francisetti
Brolin, Filippi…), estrae materiali per dirimere questioni filologiche
(Anfosso) o riproporre dimensioni performative (Zanusso…), segue la
feconda influenza dei “nuovi” testi frammentari sulla scena moderna
(Beta…), compie altre operazioni di scavo, ridiscutendo prospettive tradi‑
zionali e impostandone di nuove (Petrucci, Galli, Mantzilas…).
X Prolegomena
Thanks, finally, to the professors, scholars and students who shared with
us the joyful experience of conducting collaborative classical research.
1. Eschilo e il mito
Appare evidente che cinque titoli non possono essere riferiti ad una
tetralogia e la prima osservazione che possiamo fare, in base al soggetto
che lega i drammi, è che Le Baccanti e Penteo siano due titoli alternativi per
la stessa tragedia.
1
I lineamenti del mito legato a Dioniso sono in GANTZ 1993, I, 112‑119. Per un
inquadramento generale del teatro tragico classico legato alla figura del dio e ai suoi
rapporti con la sua famiglia umana cf. BIERL 1991 e CARPANELLI 2015, 11‑47.
2
I titoli si trovano nel Catalogo Mediceo. Cf. JOUAN 1992, 76‑79.
3
Cf. hyp. E. Med.
4
Per i titoli cf. schol. Ar. Thesm. 134 = TrGF III, T 68, in cui si parla esplicitamente di
una tetralogia intitolata Lycurgheia. Cf. SÉCHAN 1926, 63‑79; AÉLION 1983, 1, 254‑258;
JOUAN 1992, 72‑76; GANTZ 2007, 47.
2 Francesco Carpanelli
5
Cf. Hom. Il. 14, 325; cf. anche h. Bacch. 7, 1 ss.
6
Cf. anche Hyg. Fab. 167: Liber Iovis et Proserpinae filius a Titanis est distractus, cuius
cor contritum Iovis Semele dedit in potionem. Ex eo praegnans cum esset facta, Iuno in Beroen
nutricem Semeles se commutavit et ait: «Alumna, pete a Iove ut sic ad te veniat quemadmodum
ad Iunonem, ut scias quae voluptas est cum deo concumbere». Illa autem instigata petit ab
Iove, et fulmine est icta; ex cuius utero Liberum exuit et Nyso dedit nutriendum, unde
Dionysus est appellatus et bimater est dictus. («Libero, figlio di Giove e Proserpina, fu
dilaniato dai Titani. Giove macinò il suo cuore e lo dide da bere a Semele. Dopo che
essa rimase incinta in conseguenza di questo, Giunone prese le sembianze di Beroe, la
nutrice di Semele, e le disse: “Figlia mia, chiedi a Giove di presentarsi a te come si
presenta a Giunone, per renderti conto di quale piacere si provi a giacere con un dio”.
E quella, così indotta, lo chiese a Giove e fu colpita dal fulmine; dal suo utero fece
uscire Libero e lo diede da allevare a Niso, e per questo è stato chiamato Dioniso e si
dice che è bimadre. » (trad. di GASTI 2017).
Si tratta di una versione orfica della nascita di Dioniso‑Zagreo, dio sotterraneo e
misterico, in cui viene citato l’inganno di Era che, assunte le forme di Beroe, nutrice di
Semele, le consiglia di dire a Zeus di presentarsi, ai loro incontri d’amore, con lo stesso
aspetto con cui si presenta alla moglie.
7
CARPENTER 1997, 37, sostiene che il racconto di Apollodoro dipende sia da Eschilo
che da Euripide.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 3
voce che la sorella si era unita a un uomo mortale e aveva mentito accusando
Zeus, e per questo era stata fulminata. A tempo debito Zeus scioglie le
cuciture, fa nascere Dioniso e lo affida a Ermes8. (Apollod. Bibl. 3, 4, 3)
8
Le traduzioni di Apollodoro sono di M. G. Ciani in SCARPI 1996.
9
Cf. HERMAN 1834, 5 e 21 e MARBACH 1927, 2434, s.v. Lykurgos.
10
Impossibile, nel teatro antico, raccontare la morte di Semele. Questo particolare
in cui si dice che Zeus entra nella camera della ragazza sembra quasi un cenno al
racconto di un Messaggero. Non dimentichiamo anche che all’inizio delle Baccanti di
Euripide si dovevano vedere, sulla scena, le rovine fumanti della casa dove era stata
incenerita. Un particolare strano pensando all’abitazione di una donna non sposata,
fatto inusuale per una società in cui una donna non poteva vivere da sola.
11
Un’immagine in un certo modo più adatta al teatro ellenistico o a quello latino
repubblicano; si tratta infatti di un carro che Zeus si porterebbe dietro, quasi come un
mago, non impossibile in una rappresentazione tarda.
12
La causa della vendetta di Dioniso sulla sua famiglia, alla base delle Baccanti
euripidee.
13
Segue il racconto dell’infanzia di Dioniso bambino, adottato prima dalla zia Ino
e poi dalle ninfe.
4 Francesco Carpanelli
14
Meglio tradurre «dialaniato». Cf. GUIDORIZZI 1995, 295, n. 59.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 5
15
L’origine di questo racconto è in Omero, quando Diomede rievoca la vicenda
quale esempio di hybris contro gli dei (Il. 6, 130‑140): οὐδὲ γὰρ οὐδὲ Δρύαντος υἱὸς
κρατερὸς Λυκόοργος / δὴν ἦν, ὅς ῥα θεοῖσιν ἐπουρανίοισιν ἔριζεν· / ὅς ποτε
μαινομένοιο Διωνύσοιο τιθήνας / σεῦε κατ’ ἠγάθεον Νυσήϊον· αἳ δ’ ἅμα πᾶσαι /
θύσθλα χαμαὶ κατέχευαν ὑπ’ ἀνδροφόνοιο Λυκούργου / θεινόμεναι βουπλῆγι·
Διώνυσος δὲ φοβηθεὶς / δύσεθ’ ἁλὸς κατὰ κῦμα, Θέτις δ’ ὑπεδέξατο κόλπῳ /
δειδιότα· κρατερὸς γὰρ ἔχε τρόμος ἀνδρὸς ὁμοκλῇ. / τῷ μὲν ἔπειτ’ ὀδύσαντο θεοὶ
ῥεῖα ζώοντες, / καί μιν τυφλὸν ἔθηκε Κρόνου πάϊς· οὐδ’ ἄρ’ ἔτι δὴν / ἦν, ἐπεὶ
ἀθανάτοισιν ἀπήχθετο πᾶσι θεοῖσιν· («Neppure il figlio di Driante, il forte Licurgo,
visse a lungo dopo aver lottato contro gli dei celesti e aver inseguito sul sacro monte
Niseo le nutrici del folleggiante Dioniso; e esse tutte gettarono a terra i tirsi, incalzate
dal pungolo di Licurgo sterminatore, e Dioniso atterrito s’immerse nelle onde del mare
e atterrito lo accolse Teti nel suo seno: tremava per le urla dell’uomo. Per questa ragione
lo odiarono gli dei che hanno facile vita: il figlio di Crono lo accecò e non visse a lungo,
perché era venuto in odio a tutti gli immortali.» Traduzione di PADUANO 2007).
Per la storia di Licurgo in Omero cf. SEAFORD 1994, 444. Il dio descritto da Omero
è un bambino, seguito dalle sue nutrici (tiyÆnaw) già assimilate a sue seguaci in
quanto munite di tirso; scappa di fronte alla violenza (¶rizen) di Licurgo e si rifugia
in mare, da Teti. La scena non si svolge in Tracia ma sul mitico e sacro monte Nyseion.
La punizione riservata, infine, da Zeus a Licurgo è la cecità, una vita breve trascorsa
nell’odio degli dei. Un racconto simile a quello di Eumelo nell’Europia (= fr. 11 Bernabè).
Cf. PRIVITERA 1970, 53‑74. La narrazione omerica è in linea con quanto leggiamo
nell’Antigone (955‑965): Ζεύχθη δ’ ὀξύχολος παῖς ὁ Δρύαντος, / Ἠδωνῶν βασιλεύς,
κερτομίοις ὀργαῖς, / ἐκ Διονύσου πετρώδει κατάφαρκτος ἐν δεσμῷ. / Οὕτω τᾶς
μανίας δεινὸν ἀποστάζει / ἀνθηρόν τε μένος. Κεῖνος ἐπέγνω μανίαις / ψαύων τὸν
θεὸν ἐν κερτομίοις γλώσσαις. / Παύεσκε μὲν γὰρ ἐνθέους / γυναῖκας εὔιόν τε πῦρ,
/ φιλαύλους τ’ ἠρέθιζε Μούσας. («Anche il figlio di Driante, l’iracondo re degli Edoni,
fu incatenato da Dioniso in una prigione rocciosa, per pena degli insulti taglienti. Così
svaniva la furia rigogliosa della follia. Allora conobbe il dio che aveva provocato e
insultato, pretendendo di porre un termine all’esaltazione delle donne ed al fuoco
sacro; e aveva irritato pure le Muse amanti del flauto.» Traduzione di PADUANO 1982,
I).
6 Francesco Carpanelli
2.1. Il testo
davvero il male piomba sugli uomini con rapido piede perché contraccam‑
bia la colpa di chi viola la norma divina. (TrGF III, 22)
16
È la traduzione di «Inperfectus adhuc infans» Ov. Met. 3, 310 nella traduzione di
PADUANO 2007.
17
Cf. DODDS 1960, xxix.
18
Cf. A. Pr. 112, Su. 230 e Eu. 934.
19
La variante del plot eschileo, rispetto alle Baccanti euripidee, potrebbe nascondersi
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 7
In realtà, dunque, possiamo solo arguire dai titoli che la trilogia finisse
in maniera simile a quanto leggiamo nelle Baccanti euripidee.
Il primo dei drammi tebani eschilei era, quasi certamente, la Semele:
la triste sorte della Principessa, messa incinta da uno sconosciuto22,
come pensavano le sorelle, o da Zeus, secondo l’interessata che diventa
così fonte della gelosia di Era23. A parte un termine riferito alle Anfi‑
in quanto leggiamo nelle Eumenidi (vv. 24‑26) in cui si ricorda che le Menadi, insieme
a Dioniso, dettero la caccia a Penteo: PYTHIA. Βρόμιος δ’ ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ’
ἀμνημονῶ, / ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός, / λαγὼ δίκην Πενθεῖ
καταρράψας μόρον· («PIZIA. Bromio è il padrone del luogo – lo ricordo: da lì il dio
partì con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come
una lepre»).
È la Pizia che parla, all’inizio del dramma, delle divinità che accompagnarono Febo
sul monte Parnaso. Bromio («strepitante») è un epiteto di Dioniso che nei tre mesi di
inverno, quando Apollo andava in visita agli Iperborei, si pensava risiedesse a Delfi.
Sul Parnaso si tenevano, in suo onore, ogni due anni, feste notturne che prevedevano
rituali e danze di donne. Questo passo non implica, come intendono gli scoli, che
Penteo sia stato ucciso qui ma che da qui sia partito l’esercito di dionisiaco che poi lo
avrebbe punito con la morte. La caccia di Penteo può quindi essere un’autocitazione
di Eschilo nello stesso contesto in cui si ricorda la persecuzione delle Erinni nei
confronti di Oreste (cf. vv. 111, 147‑8, 231, 246). Una scena che trova conferma in tre
vasi dipinti ora a Ruvo, a Napoli, a Monaco, in cui si vedono le Menadi armate mentre
Penteo si difende dal loro attacco. Cf. SÉCHAN 1926, 102‑106.
20
Riporto come esempio quanto ipotizza Sommerstein: «Pentheus will have dealt
only with the arrival at Thebes of the news of Pentheus’ death on Mount Cithaeron at
the hands of the bacchants, and the reactions of his family, the Theban community and
perhaps Dionysus himself.» SOMMERSTEIN 2008, 188‑89.
21
Cf. JOUAN 1992, 78 e DI BENEDETTO 2004, 39‑40.
22
Un «caso eccezionale di donna mortale che concepisce un vero e proprio dio…e
la sua storia richiede lo sviluppo di una duratura relazione sessuale, non un incontro
occasionale con Giove, o un ruolo di pura e semplice vittima di stupro» scrive Barchiesi
(in Barchiesi‑Rosati, 2007, 164) a proposito dei versi del terzo libro delle Metamorfosi
di Ovidio (Met. 3, 253‑315).
23
Per il contenuto cf. HADJICOSTI 2006. Il confronto con le Hydrophoroi di Sofocle
(TrGF IV, 672‑674) è solo ipotetico in quanto non siamo sicuri del fatto che anche questo
dramma avesse come argomento la morte di Semele. Sono attestate anche altre tragedie
8 Francesco Carpanelli
Da qui proviene il nome a Semele, Thyone, perché Eschilo l’ha portata sulla
scena incinta e invasata; allo stesso modo risultano invasate anche quelle
che toccavano il suo grembo25.
Sembra proprio che si possa pensare alla nostra tragedia; pochi termini
che comunque dicono già qualcosa sul contenuto: Semele è dunque un
personaggio che appare sulla scena non solo incinta ma anche invasata
(ἐνθεαζομένην), così come poi lo diventano le donne (il Coro?) quando
toccano il suo grembo. Questo fa pensare ad una scena legata o al periodo
di gestazione o a quello della nascita di Dioniso: il figlio è in grado di
influenzare la madre, in questo senso la prima menade del mondo. Un
indizio per capire che il dramma, come la trilogia, era senza dubbio
impostato su una profonda valenza religiosa che si diffondeva fin dalle
prime scene. Tutte le tragedie dei due cicli, vedremo, seguono infatti un
filone dedicato al rapporto tra gli uomini e i culti misterici (anche e
soprattutto nella loro conciliazione). Dal punto di vista testuale tutto
cambia, però, se attribuiamo a questa tragedia un papiro26, pubblicato nel
194127, molto corrotto, che contiene parti di un canto corale che menziona
Semele e Cadmo, ma anche versi in esametro in cui Era, trasformatasi in
una sacerdotessa mendicante, elogia la sposa ideale, quando è casta. Un
avvertimento per Semele che, se presente sulla scena, doveva pensare alla
sua segreta relazione con Zeus. Rimane indubbio che se le Xantriai
occupavano il secondo posto della trilogia il loro plot doveva comunque
iniziare almeno dopo la nascita di Dioniso (contenuta nella Semele) e
comprendere il momento in cui Dioniso iniziava la vendetta sui suoi
nemici; il travestimento di Era come sacerdotessa ha senso solo in relazione
ad un inganno precedente la nascita del dio28 e quindi non può appartenere
a questa tragedia. Attribuirei quindi, senza dubbi sostanziali, le parti del
papiro, nel complesso di difficile lettura, alla Semele. Cerchiamo ora di
trovare gli elementi utili per la ricostruzione di parte del plot (SOMMERSTEIN
2008, 220a = TrGF III, 168):
XOPOS
φίλοισιν29 ἐν μάκεσι30 πίστις φθονερ[ὰ31 8
δόξα τ᾿ ἀεικής. Σεμέλας δ᾿ ε[ὐ‑
χόμεθ᾿ εἶναι διὰ πᾶν 10
εὐθύπορον λά[χος
leggiamo «Ninfe nate sui monti» (νύμφαι ὀρεσίγονοι), Asclepiade attribuisce i vv. 16
e 17 alle Xantriai di Eschilo, aggiungendo che li ha letti in un manoscritto da lui
consultato ad Atene; anche Platone nella Repubblica, 381d cita il verso 17 senza indicare
l’autore ma dice solo che è Era a pronunciarlo (cf. Totaro 2017, 19‑21). L’attribuzione
alle Xantriai è stata messa in forte discussione e Sommerstein (SOMMERSTEIN 2008, 226,
n. 1) riassume la questione riportando altri casi di inesatta citazione da parte di
Asclepiade: «In Birds 348 he [Asclepiades] detects parody of Euripides’ Andromeda,
which was not produced until two years after Birds; and he ascribes Frogs 1270 (= A.
Fr. 238) to Aeschylus’ Iphigeneia when another scholar, Timachidas, said it was from
Telephus (they were probably both guessing: see introductory note to Telephus ). It
should be added, too, that Frogs 1344 itself can hardly be derived from Wool‑Carders
(as Asclepiades claimed), or from any other Aeschylean play, when it forms part of a
song which is presented by the character “Aeschylus” as tipically Euripidean, and
which elsewhere parodies only Euripides». Prima di lui l’attribuzione di questo papiro
alla Semele si deve a LATTE 1948, NILSSON 1955, LLOYD‑JONES 1957, TAPLIN 1977, 427‑
428, GANTZ 1981, 25, JOUAN 1992, 77, HADJICOSTI 2006a. Fondamentale ora la lettura
del recentissimo saggio di TOTARO 2017 che è propenso ad attribuire il passo alla
Semele.
27
In sintesi METTE 1959 attribuisce i tre frammenti del papiro, con il numero 355,
alla Semele, Sommerstein (SOMMERSTEIN 2008, 220a‑c) alla Semele, Radt (TrGF III, 168 e
168a) alle Xantriai.
28
Cf. SOMMERSTEIN 2008, 226.
29
φίλοισιν (o φιλοῦσιν) Lobel.
30
Forma dorica da μῆκος, per indicare la durata, la lunghezza del tempo.
31
πίστις φθονερ[ὰ Mette.
10 Francesco Carpanelli
CORO
con i (suoi?) cari nei lunghi tempi fiducia comporta invidia
e ciò che pensano diventa nocivo32. Noi però preghiamo
che Semele abbia sempre
una sorte che proceda retta
ΗΡΑ
νύμφαι ναμερτεῖς33, κυδραὶ θεαί, αἷσιν ἀγείρω 16
᾿Ινάχου ᾿Αργείου ποταμοῦ παισὶν βιοδώροις,
αἱ τε παρίστανται πᾶσιν βροτέοισιν ἐπ᾿ ἔργ[οις
[ ]τε καὶ εὐμόλποις ὑμ[εναίοις
καὶ τ[ ν]εολέκτροις ἀρτιγάμ[ 20
ERA
Ninfe infallibili, dee illustri, per le quali io raccolgo elemosine,
figlie del fiume argivo Inaco, che date vita,
e che favorite tutte le attività degli uomini…
e i matrimoni con le loro belle musiche,
e […] le nuove spose ai talami nuziali34
32
È ciò che le sorelle pensano di Semele, anche se prima delle Baccanti di Euripide
la cattiva fama della principessa, che sarebbe stata messa incinta da uno sconosciuto e
avrebbe per questo inventato di avere una relazione con Zeus, non è attestata.
33
La forma dorica dell’aggettivo νημερτής (infallibile, che non sbaglia mai)
introduce al meglio il tono del subdolo discorso di Era che invoca le ninfe veritiere:
lei, una dea vestita sotto mentite spoglie con in mente un piano mortifero.
34
Non è molto difficile interpretare il senso di questi versi. Era vede di fronte a sé
Semele già incinta e si presenta come una sacerdotessa di ninfe che favoriscono tutte
le attività degli uomini, tra cui anche i matrimoni. Semele le dà fiducia (πίστις v. 8),
come è solita fare per carattere e questo la condurrà alla rovina. La percezione è
dunque quella di un dramma basato sulla difficoltà per gli uomini di avere un rapporto
paritario con gli dei. Anche Zeus del resto non farà niente per salvare l’amata.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 11
35
Ancora un aggettivo per convincere Semele. La finta sacerdotessa vuol farle
intendere che anche il suo animo è, come quello delle dee, dolce come il miele; è
necessario solo che Semele ascolti i suoi consigli.
36
Possiamo solo chiederci come faccia Semele a non riflettere sul fatto che Zeus ha
già una moglie, quella che è di fronte a lei sotto mentite spoglie.
37
DI MARCO 1993, 108.
38
Cf. Eu. Ba. 118‑119.
12 Francesco Carpanelli
minante con la morte di Penteo sul Citerone che qui era però menzionata,
come leggiamo negli Scolii a Eschilo, Eumenidi, 26:
ora dice che ciò che accadde a Penteo avvenne sul Parnaso; nelle Xantriai
invece sul Citerone. (TrGF III, 172 b)
Dal momento che non c’è alcun motivo per non credere alla notizia,
l’unica certa, che il Penteo eschileo avesse un plot sul quale le Baccanti di
Euripide sono state modellate, nelle Xantriae può essere stato solo annun‑
ciato, o profetizzato, lo sparagmos di Penteo. Lissa39, l’unico personaggio
del dramma che conosciamo, poteva essere il tramite mitologico della
vendetta (?) come personificazione dell’azione punitiva di Dioniso o,
meglio, guida spirituale delle menadi nel nuovo sistema di vita utopico,
alternativo, esoterico in un racconto che in qualche modo rendeva edotto il
pubblico sugli aspetti del rito dionisiaco che non tutti gli spettatori
conoscevano. Impossibile comunque parlare del contesto in questione:
***
***
39
Demone della follia legato ad Era anche nell’Eracle euripideo (vv. 843‑873).
40
Cf. Eu. Ba. 1095‑1136.
41
λύσσης Lobeck. γλώσσης codd.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 13
42
Questa è la più antica testimonianza in cui la luna viene identificata con
Artemide.
43
cf. Eu. Ba. 144‑7.
44
La stessa cosa che accade anche nelle Baccanti di Euripide.
45
Eu. Ba. 660‑786.
14 Francesco Carpanelli
46
Riporto la sintesi bibliografica di Radt su chi siano stati i primi sostenitori di
questa tesi: «Mynyeidum poenam fuisse censuit Boeckh (Gr. Tr. Princ. 29) coll. Ov. Met.
4, 32sqq. (et ad F 171 comparans Ov. Met. 4, 402sq.), prob. e.g. Wecklein, Fritzsche
(ranae 413sqq.; ubi fabulam satyricam fuisse perperam contendit: vide TRI B XI 3),
Nilsson (AC 24, 1955, 337)» Xantriae, p. 281.
47
Per il tentativo di impedire la diffusione del culto di Dioniso cf. JEAMNAIRE 1972.
48
Riporto la sintesi di Rosati (in BARCHIESI/ROSATI 2007, 243‑244) che dà modo di
riflettere anche sulle fonti : «Nella versione del mitografo Antonino Liberale (10), che
alcuni fanno risalire proprio al libro IV delle Metamorfosi di Nicandro, ma anche alla
poetessa Corinna (forse compagna di Pindaro), le tre sorelle (Leucippe, Arsippe e
Alcatoe) figlie del re Minia, «esageratamente amanti del lavoro», rifiutano di seguire
le altre Menadi sui monti e di unirsi al culto di Bacco. Questi si presenta in sembianze
di fanciulla per tentare di convincerle a non offendere il dio; al loro ostinato rifiuto si
trasforma in vari animali (toro, leone, leopardo), mentre dai montanti dei loro telai
scorre nettare e latte. Sconvolte, esse fanno a brani il figlio di Leucippe e fuggono sui
monti come baccanti, nutrendosi di edera, convolvoli e alloro, finchè Ermes le
trasforma in uccelli notturni (un pipistrello, una civetta, un gufo), e «tutte e tre
fuggirono la luce del sole» (Forbes Irving 1990, 252 sg.). Secondo un’altra versione,
attestata in Eliano, Varia historia 3, 42, e più lontana da Ovidio (anche se meno dei vaghi
cenni di Plutarco, Quaestiones Graecae 299e‑f) le donne rifiutano il dio perché «inna‑
morate dei loro mariti»; mentre sono in casa a filare, d’improvviso edera, pampini e
serpenti avvolgono i loro telai, e stillano gocce di vino e di latte. Non ancora persuase
della potenza del dio, esse sono allora indotte a dilaniare il figlioletto di Leucippe,
credendolo un cerbiatto, come le Menadi avevano fatto con Penteo, e infine trasformate
in uccelli (una cornacchia, una nottola, una civetta»).
49
Met. 4, 1‑415.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 15
50
Ovidio caratterizza così i pipistrelli, animali che cercano di sfuggire al fuoco e
alla luce.
51
I tre frammenti superstiti sono TrGF III, 246 b, c, d. Per una rassegna sia sulle
rappresentazioni della ceramografia che sul rapporto tra le Metamorfosi di Ovidio e le
Trophoi cf. DI MARCO 2013b.
52
Φερεκύδης δὲ (FGrHist. 3 F 113) καὶ Σιμωνίδης (PMG 548) φασίν ὡς ἡ Μήδεια
ἀνεψήσασα τὸν ῾Ιάσονα νέον ποιήσειεν. Περὶ δὲ τοῦ πατρὸς αὐτοῦ Αἴσονος ὁ τοὺς
Νόστους ποιήσας φησὶν οὕτως (fr. 6 Kinkel, Allen, Bethe): … . Αἰσχύλος δὲ ἐν {ταῖς
16 Francesco Carpanelli
È una società quella tardo antica che si riconosce nella vocazione allo
spettacolo, sia quello che offre una letteratura votata all’ἐνάργεια, al porre
davanti agli occhi del lettore o meglio dell’ascoltatore il mondo esterno,
molto spesso in forme già rappresentate nell’arte56
Διονύσου} Τροφοῖς ἱστορεῖ ὅτι καὶ τὰς Διονύσου τροφοὺς μετὰ τῶν ἀνδρῶν αὐτῶν
ἀνεψήσασα ἐνεοποίησεν. (TrGF III, 246a).
53
Traduzione di PADUANO 2007
54
SOMMERSTEIN 2008, 249.
55
Il più interessante testimone è forse un vaso del 460 a.C. ca. (ora al Museo
Nazionale di Ancona (3198). Cf. KPS pl. 23a, b) in cui si vede, su un lato, una donna
che conduce con sé un vecchio satiro verso un calderone (un’immagine simile a quelle
in cui la donna è Medea e il vecchio è Pelia. Cf. SOMMERSTEIN 2008, 248), sull’altro lo
stesso satiro ora vigoroso sembra avere la capigliatura scura; accanto a sé ha la moglie
ed un piccolo satiro.
56
GIGLI PICCARDI 2003, 26.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 17
del casato di Cadmo, la stirpe di Europa; la sua attenzione sarà ora rivolta
alla rivale del momento, Semele, l’ultima fiamma di Giove, da lui messa
incinta. La dea ha un piano: ingannerà la ragazza prendendo l’aspetto della
sua vecchia nutrice, Beroe; sarà facile, a quel punto, consigliarle di
pretendere una prova d’amore: che il suo amato si mostri con lo stesso
aspetto che prende quando si unisce alla sua sposa immortale. A causa di
questa richiesta Semele, morirà incenerita dal fulmine divino e dal suo
ventre Giove dovrà estrarre il frutto del loro amore, Bacco, e cucirselo nella
coscia: sarà così ultimato il tempo della gestazione. Questo il testo (3, 273‑
315):
57
posuit… canos: come un’attore Era si mette una parrucca bianca; la sua è dunque
una trasformazione che avviene tra magia e artificio teatrale. È molto importante
ricordare questi particolari per eventuali collegamenti tra poesia e dramma.
58
I thalamos… pudicos sono quelli in cui rimane minima traccia dell’Era eschilea,
apparentemente preoccupata della pudicizia delle fanciulle, facilmente preda di
uomini che le usano facendosi falsamente vanto del nome degli dei.
59
Il pignus amoris sarà un dono letale che causerà la morte dell’amata.
60
Con il termine complexus si dà una svolta evidentemente erotica alla scena e si
danno per scontati incontri di carattere sessuale.
61
Evidente nel verbo il processo di plagio psicologico operato da Era su Semele.
18 Francesco Carpanelli
62
Vv. 293‑294: Semele vuole vedere Zeus nello stesso modo in cui si presenta a Era.
63
Per levius fulmen, nel rapporto con Nonno 10, 305, cf. D’IPPOLITO 1962, 299‑300.
64
si credere dignum est «è un’espressione dubitativa e un ironico richiamo alla
tradizione, tipici della poesia euripidea ed ellenistica (cf. T. C. W. Stinton, «PCPhS»
n.s. XXII, 1976, 60‑89)» BARCHIESI/ROSATI 2007, 170.
65
Cf. Verg. Aen. 12, 791‑792.
66
Nel poema avvengono altre trasformazioni: cf. 6, 26 ss. e 14, 656. Per la scelta del
nome Beroe cf. Verg. Aen. 5, 620. Nelle Dionisiache (vv. 180‑192) di Nonno, come
vedremo, la vecchia rimane anonima.
67
«impersonando una nutrice, Giunone assume alcuni tratti stereotipi della vecchia
confidente nel teatro e nell’elegia, chiaccherona, partecipe di segreti amorosi, e pronta
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 19
a dare consigli nella sfera sessuale, sino quasi a sfumare nella tipologia della vecchia
mezzana» BARCHIESI/ROSATI 2007, 168.
68
Brusco passaggio, dalla scena del colloquio a quello dell’ennesimo incontro
amoroso in cui Semele, per niente timorosa, prende l’iniziativa.
69
Cf. Pl. Pol. 271a ss.
20 Francesco Carpanelli
si lamenta con Zeus per i mali che affliggono l’umanità (7, 1‑109) e il dio lo
consola con l’annuncio della nascita di un secondo Bacco che darà agli
uomini il vino, bevanda capace di togliere tutti gli affanni (7, 67‑109). A
questo punto inizia la storia d’amore del Cronide con Semele (7, 110‑368)
che si conclude con la vendetta di Era e la morte di Semele (canto 8).
(Canto 7) La principessa si è alzata di buon mattino, ancora presa dal
sogno che ha avuto nella notte; conduce un carro trainato da muli, come
Nausicaa nel sesto libro dell’Odissea. Il sogno era una profezia: Semele ha
visto, in un giardino, un albero carico di rami, con un frutto acerbo, bagnato
dalla rugiada di Zeus. Una fiamma caduta sull’albero lo distrugge
completamente ma il frutto, intatto, viene raccolto e portato al re degli dei
da un uccello; Zeus lo cuce nella coscia ma al suo posto sorge un uomo,
sotto forma di toro. Tiresia, consultato da Cadmo, consiglia di sacrificare a
Zeus un toro e un capro ma Semele si macchia con il sangue del sacrificio
e per purificarsi fa un bagno nell’Asopo: proprio in questa occasione il dio
la vede nuda e se ne innamora. Giunta la notte Zeus va da Semele e si
unisce a lei (vv. 319‑343), come toro, come leone, come leopardo, come
serpente.
(Canto 8) I primi 33 versi dell’ottavo canto sono una ekphrasis sulla
gravidanza di Semele70 dopodiché inizia la narrazione della vendetta di Era
e della morte della ragazza, la parte di cui abbiamo traccia nel testo
eschileo. Phthonos, geloso di Dioniso, ancora nel grembo materno, assume
le sembianze di Ares, per fare ingelosire Era; la tecnica da lui usata è simile
a quella di un qualsiasi attore71 (8, 34‑44):
70
Difficile provare quanto ricordato da GIGLI PICCARDI 2003, 574, a proposito di
eventuali riflessi tra questa Semele, influenzata al dionisismo dal bambino che cresce
in lei, e la Semele di Eschilo.
71
Cf. GIGLI PICCARDI 2003, 519.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 21
72
Per l’immagine del veleno che infonde la Gelosia cf. A. Ag. 834.
73
Tutto il passo ci porta nel camerino di un attore pronto a truccarsi. Dopo aver
assunto l’aspetto di un falso Ares, Phtonos passa a truccare le sue armi con finte
striature di sangue e colora lo scudo con schizzi da lui disegnati.
74
«Il fiore che produce un liquido rosso simile al sangue ricorda “i fiori tessali” con
cui in 39, 40 Dioniso secondo Deriade ha provocato la metamorfosi dell’Idaspe in vino;
su questo episodio e il possibile riecheggiamento del mito egiziano antico che vede
come protagonisti Ra e Hathor vd. Gigli Piccardi, «Prometheus» 24, 1998, 80 sg.» GIGLI
PICCARDI 2003, 577.
75
«Il minio veniva usato in tal senso (cf. schol. Ad Ar. Av. 230, II) ed era altresì
considerato simbolo magico del sangue (PMG VII 223 e XII 98; per un’analisi
antropologica di questa simbologia anche in ambito dionisiaco vd. G. Casadio 1999,
62 sgg.). Anche i Sileni in D. 34, 141‑4 si servono dello stesso stratagemma per
terrorizzare il nemico» GIGLI PICCARDI 2003, 577.
76
Le traduzioni del libro ottavo delle Dionisiache di Nonno di Panopoli sono di
GIGLI PICCARDI 2003.
77
Apate è l’Inganno per eccellenza che compare solo qui nel poema. È chiaro che
Nonno vuole ricordare il canto quindicesimo dell’Iliade. Richiami come questi erano
frequenti fin dalla tradizione ellenistica, come abbiamo già accennato: basta pensare a
quanto leggiamo nelle Metamorfosi di Ovidio, filtro di tutti questi procedimenti poetici.
Minerva va dall’Invidia (Ov. Met. 2, 760 ss.), Giunone scende nell’Ade a trovare
Tisifone (Ov. Met. 4, 432 ss.), Cerere manda Oreade da Fame (Ov. Met. 8, 788 ss.).
22 Francesco Carpanelli
78
Per le problematiche testuali del passo cf. CHUVIN 1992, 192‑193.
79
I tre termini riferiti a Era che finge un ruolo non suo, con un corpo che è finto,
all’apparenza, come quello di un attore, insistono su un’immagine che sembra davvero
voler rimandare a un testo teatrale in cui Era era truccata da vecchia. Al v. 182 Nonno
aveva già detto che il suo «corpo» (δέμας) appariva «come quello di una vecchia
melliflua. (Μελιγλώσσῳ δὲ γεραιῇ)» (v. 181); l’insistenza è indizio di un rapporto con
un testo conosciuto e quindi probabilmente un dramma.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 23
80
Cf. Hom. Od. 14, in cui Eumeo ricorda cosa il padrone abbia fatto per lui.
81
Il tema delle chiacchere fatte dalla gente sulle ragazze giovani risale a Omero (a
proposito di Nausicaa, Od. 6, 273‑285) ma qui sembra più vicino a quanto scrive
Apollonio Rodio (3, 771‑801) nel monologo in cui Medea parla del suo amore per
Giasone. Cf. Chuvin 1992, 194.
24 Francesco Carpanelli
82
«Ap. 237. Tampa, Tampa Bay Museum of Art, 87. 36 (già Basilea, mercato anti‑
quario). Cratere a volute. A. Collo. Amazzonomachia. Corpo. R. s.: satiro e due donne
in movimento verso d.; due donne in movimento verso d.; due donne in atto di
sostenere una donna (Semele) nuda, seduta su un mantello; in alto, nimbo radiato,
fulmine e astri; donna e giovane satiro in fuga verso d. R. i.: tre donne (ninfe di Nysa),
ammantate e stanti; Ermes e donna (ninfa) che accorrono verso il piccolo Dioniso,
seduto su un prato fiorito sotto un tralcio di grappoli; papposileno in movimento verso
sin. […]».
A. Corpo. Eschilo, Semele o Le portatrici d’acqua (Kosatz‑ Deissmann 1994c). Pittore
di Arpi. 315‑305» TODISCO 2003, 490.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 25
3.1. Il testo
83
«Il problema è se la furia bacchica sia stata determinata dal comportamento ostile
dei pastori e in particolare dall’atto aggressivo del Messaggero. Chi dà a questa
domanda una risposta affermativa include la tragedia di Euripide nei parametri
concettuali eschilei, in quanto orientati verso la messa in atto della sequenza col‑
pa\punizione» Di Benedetto 2004, 125.
84
È la traduzione dei vv. 134‑135 delle Donne alle Tesmoforie di Aristofane (tradu‑
zione di Del Corno, in PRATO 2001): «Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei, come
Eschilo nel dramma di Licurgo (καί σ᾿, ὦ νεανίσχ᾿, ἥτις εἶ, κατ᾿ Αἰσχύλον ἐκ τῆς
Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι)».
26 Francesco Carpanelli
stata un grande successo85, perché per la prima volta86, al posto del solito
dio barbuto della tradizione, appariva sulla scena un’androgina figura
vestita con la tunichetta gialla messa sopra il lungo chitone delle donne87;
il titolo che ho dato al gruppo di drammi dedicato al rapporto impossibile
tra il re Licurgo e il dio Dioniso nasce da questa immagine.
Alcuni versi anapestici, cantati dal coro di Traci (anziani sudditi di
Licurgo?), che annunciavano l’arrivo di Dioniso e dei suoi seguaci sono i
primi a noi rimasti. La descrizione di quanto avveniva per le strade della
città doveva essere particolarmente accurata88, come leggiamo in TrGF III,
5789 in cui sono citati gli strumenti e i suoni da essi prodotti, nonché la
paura o la follia da essi generati; dopo una lacuna sono salve alcune parti
che descrivono, nei particolari, l’atmosfera creatasi all’arrivo del corteo
dionisiaco:
***
ὁ μὲν ἐν χερσὶν
βόμβυκας ἔχων, τόρνου κάματον,
δακτυλόθικτον91 πίμπλησι μέλος, 4
μανίας ἐπαγωγὸν ὁμοκλάν,
ὁ δὲ χαλκοδέτοις κοτύλαις ὀτοβεῖ
85
Lo dice un epicureo del primo sec. a.C., Demetrio Lacone (cf. TrGF III, T69) e le
parodie della commedia lo confermano (cf. Cratin. fr. 40 K. A. e Ar. Av. 276, Ra. 47, frr.
181, 307 K. A.).
86
Ricordiamo comunque che, per quanto riguarda il soggetto, non è escluso che
Eschilo seguisse le orme di Polifrasmone che aveva portato sulla scena una Lycurgheia
nel 467 a.C. La data di composizione può essere fissata tra il 470 e il 460 a.C. cf. DI
MARCO 1993, 146‑148.
87
Cf. PRATO 2001, 179‑180.
98
cf. XANTHAKIS‑KARAMANOS 2005.
89
Cf. Sommerstein 57.
90
Cotito è una divinità tracia i cui riti non dovevano essere particolarmente diversi
da quelli dionisiaci, ed erano forse menzionati nella parte che non leggiamo. Lo dice
Strabone stesso nel riportare la citazione (10, 16 : « Presso i Traci i culti orgiastici
corrispondono a quelli di Cotito e di Bendide».
91
Θικτον Jacobs: δεικτον codd.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 27
***
ψαλμὸς δ᾿ ἀλαλάζει·
ταυρόφθογγοι δ᾿ ὑπομυκῶνταί
ποθεν ἐξ ἀφανοῦς φοβεροὶ μῖμοι,
ἠχὼ τυπάνου δ᾿92, ὥσθ᾿ ὑπογαίου
βροντῆς, φέρεται βαρυταρβής
Segue uno scontro con Licurgo che, come Penteo nelle Baccanti cerca di
ridicolizzare l’aspetto del dio silenzioso al suo cospetto. I pochi versi che
abbiamo anticipano quanto leggiamo in Euripide94:
92
ἠχὼ τυπάνου δ᾿ F. W. Schmidt.
93
Si è dato scarso rilievo, in passato, all’importanza che hanno queti suoni indefiniti
e indefinibili, soprattutto perché non sappiamo quanto essi fossero realmente ricreati
(nel retroscena?) per gli ascoltatori; un recentissimo studio di Sahara Nooter (NOOTER
2017, 78‑79) si sofferma proprio su questo frammento che commenta così: «Here we
can perceive the fearsome qualities of musical sounds that arise not from a martial
setting, as in Persians, but from orgiastic rites. Much time is spent in this passage
detailing the unsettling sounds that announce the presence of Dionysus. In a play that
tells of Dionysus’ destruction of Lycurgus, these sounds likely connoted the menace
of the divine world. Aeschylus is not alone in characterizing Bacchic sounds as fearful,
nor can we know the dramatic use to which Aeschylus puts this description and how
the dramatic use to which Aeschylus puts this description and how it differs from, for
example, Euripides’ description of bacchants’ sound of worship in his later play on
the destructive power of Dionysus. But what we can see is how swiftly and explicity
Aeschylus links the sounds of Bacchic worship to inhuman voices, unseen origins, and
the fear these sites of ignorance inspire in listeners. In Aeschylean tragedy, these
sounds and voices draw the audience into a recognition of mortal fragility, whether
by showing the vulnerabity heard in a utterance or felt in the act of hearing».
94
cf. Ba. 576‑603.
28 Francesco Carpanelli
Uno che porta chitoni e pelli di volpe lidie lunghe fino ai piedi95
(TrGF III, 59)
***
***
ΛΥΚΟΥΡΓΟΣ
ποδαπὸς ὁ γύννις; τίς πάτρα; τίς ἡ στολή;
LICURGO
Di quale paese è questo effeminato, qual è il suo paese, che veste
indossa?98
(TrGF III, 61)
***
95
Probabilmente una considerazione di Licurgo che descrive Dioniso.
96
ἀβροβάτης Hermann, Friebel.
97
Il fatto che qui si faccia riferimento ad un secondo effeminato del gruppo di
iniziati, ha fatto pensare ad Orfeo anche perché, sempre seguendo questa linea, il
secondo dramma, Le Bassaridi, sarebbe incentrato sulla figura del vate‑poeta. Cf. DI
MARCO 1993.
98
Ar. Thesm. 136.
Nel testo di Aristofane ci sono nove versi (136‑145) che dovrebbero venire dalla
Lykurgheia, come attesta lo scoliaste al v. 135: Mnesiloco dice ad Agatone che desidera
interrogarlo usando le stesse parole usate da Eschilo nella Lycurgheia. È impossibile
distinguere (come molti cercano di fare, cf. e.g. SOMMERSTEIN 2008, 67, n. 1) le aggiunte
non eschilee in quanto i riferimenti ad Agatone, adatti ad un ambito comico, non si
adattano assolutamente, per la volgarità, ad un contesto tragico: ΚΗΔΕΣΤΗΣ: Καί σ’,
ὦ νεανίσκ’, εἴ τις εἶ, κατ’ Αἰσχύλον / ἐκ τῆς Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι. /
Ποδαπὸς ὁ γύννις; Τίς πάτρα; Τίς ἡ στολή; / Τίς ἡ τάραξις τοῦ βίου; Τί βάρβιτος /
λαλεῖ κροκωτῷ; Τί δὲ δορὰ κεκρυφάλῳ; / Τί λήκυθος καὶ στρόφιον; Ὡς οὐ ξύμφορα.
/ Τίς δαὶ κατόπτρου καὶ ξίφους κοινωνία; / Σύ τ’ αὐτός, ὦ παῖ, πότερον ὡς ἀνὴρ
τρέφει; / Καὶ ποῦ πέος; Ποῦ χλαῖνα; Ποῦ Λακωνικαί; / Ἀλλ’ ὡς γυνὴ δῆτ’; Εἶτα ποῦ
τὰ τιτθία; / Τί φῄς; Τί σιγᾷς; Ἀλλὰ δῆτ’ ἐκ τοῦ μέλους / ζητῶ σ’, ἐπειδή γ’ αὐτὸς οὐ
βούλει φράσαι; («PARENTE: Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei, come
Eschilo nel dramma di Licurgo. Da dove viene l’uomo femmina? Qual è la sua patria?
Cos’è questo disordine della vita? Cos’ha da dire la cetra alla gonna? E la lira alla
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 29
cuffia? E l’olio da atleta e la fascia del seno? Che stonatura! E poi, lo specchio e la spada
cos’hanno in comune? E tu, figliolo, sei proprio un uomo? Dov’è l’uccello? Dov’è il
mantello? E le scarpe alla spartana? Sei una donna, dunque? E allora, dove sono le
tette? Cosa dici? Perché taci? Devo capire chi sei dal tuo canto, poiché tu stesso non
vuoi dirlo?» Ar. Thesm. 134‑145. Traduzione di Del Corno in PRATO 2001).
99
Un’altra descrizione di Dioniso da parte di Licurgo.
100
La liberazione di Dioniso è accompagnata dal suo manifestarsi, come precisa
nella sua citazione Longino (De subl. 15, 6): «In Eschilo la reggia di Licurgo quando il
dio si manifesta è incredibilmente scossa (παρὰ…Αἰσχύλω παραδόξως τὰ τοῦ
Λυκούργου βασίλεια κατὰ την ἐπιφάνειαν τοῦ Διονύσου θεοφορεῖται)»
101
Cf. WEST 1990, 64‑70.
102
KANNICHT 1957; cf. TrGF III, p. 139.
103
«The double nature of Dionysus as god and animal and his thiasos as human
beings and animals in Aeschylus’ ‘Dionysiac’ plays and Euripides’ Bacchae show that
Dionysiac religion revolves around the peculiar god, at once superman and ‘sub‑man’,
beast and stranger» XANTHAKI‑KARAMANOU 2012, 335. Cf. E. Ba. 100; 920‑922; 1017‑
1018; 1159.
104
Cf. ROSENMEYER 1983, 376.
30 Francesco Carpanelli
sembra che il toro stia per attaccarmi con le corna; in quali vetta,
in quale riva, in quale selva potrò fuggire? Dove posso andare?
…
in fretta balzerà su di lui per portare a termine l’azione.
105
Riporto il testo elaborato da WEST 1990, 34; si tratta di un «working text» nato
dal confronto tra il codice Vat. Gr. 1087 (T) e la vulgata: …διὰ δὲ τὴν γυναῖκα εἰς
῞Αιδου καταβὰς καὶ ἰδὼν τὰ ἐκεῖ οἷα ἧν τὸν μὲν Διόνυσον οὐκέτι ἐτίμα, ὑφ᾿ οὗ ἧν
δεδοξασμένος, τὸν δὲ ῞Ηλιον μέγιστον τῶν θεῶν ἐνόμισεν, ὃν καὶ ᾿Απόλλωνα
προσηγόρευσεν. ἐπεγειρόμενός τε τὴν νύκτα ἓωθεν κατὰ τὸ ὄρος τὸ καλούμενον
Πάγγαιον προσέμενε τὰς ἀνατολάς, ἵνα ἵδῃ τὸν ῞Ηλιον πρῶτος. ὅθεν ὁ Διόνυσος
ὀργισθεὶς αὐτῷ ἔπεμψε τὰς Βασσάρας, ὥς φησιν Αἰσχύλος ὁ τῶν τραγῳδιῶν
ποιητής, αἳ διέσπασαν αὐτὸν καὶ τὰ μέλη ἔππιψαν χωρὶς ἔκαστον … («Egli (scil.
Orfeo) dopo escere sceso nell’Ade per sua moglie ed aver visto qual era la situazione
laggiù, non onorava più Dioniso, dal quale egli era stato reso famoso, ma riteneva che
il più grande degli dei fosse Elios, cui si rivolgeva anche con il nome di Apollo. E
svegliandosi, di notte, all’alba saliva sul monte chiamato Pangeo e e si poneva in
direzione di oriente per essere il primo a vedere il sole. Allora Dioniso, adiratosi, inviò
contro di lui le Bassaridi, come dice il tragediografo Eschilo. Queste lo fecero a pezzi
e dispersero le sue membra in parti differenti»).
106
Per la discussione concernente il valore che si debba dare al verbo greco «dice»,
cioè se si riferisca realmente al contenuto della tragedia eschilea cf. DI BENEDETTO 2004,
108‑110.
107
Leggiamo il nome del monte Pangeo anche in uno dei frammenti delle Bassaridi
(TrGF III, 23a). È lo stesso monte sul quale sarebbe morto anche Licurgo.
108
Dalla parola anaria βασσάρα, «volpe», gli scoliasti pensano che il nome sia da
leggere in riferimento alle pelli di volpe con cui queste menadi si agghindavano.
109
Fondamentale per questa ipotesi l’intervento di DI MARCO 1993. Cf. anche
MARCACCINI 1995 e SEAFORD 2005.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 31
110
WEST 1990, 64‑70.
111
RAMELLI 2009, test. 84, 229‑231: «Scolii V ad Euripide, “Reso”, 916. 922 (ed. H. Rabe,
“Rheinisches Museum” 63, 1908, 420‑421: “[…] Presso Eschilo, invece, i fatti di Tamiri
e delle Muse si trovano narrati in modo un po’ diverso. Ebbene, Asclepiade, nelle Trame
delle tragedie, riguardo a queste storie dice così: “Dicono che Tamiri, quanto all’aspetto,
suscitasse meraviglia; degli occhi, ne aveva uno bianco, il destro, e l’altro, il sinistro,
invece nero e, quanto a competenza nel canto, si distingueva fra tutti quanti gli altri.
Ebbene, quando le Muse giunsero in Tracia, Tamiri fece la proposta, rispetto a loro, di
abitare insieme con tutte, dicendo ai Traci ripetutamente che era legittimo che un uomo
stesse insieme con molte. Esse, allora, lo invitarono, su questo, a svolgere una gara di
canto, con il seguente patto: qualora a vincere fossero state loro, egli avrebbe fatto
quello che esse avessero voluto; qualora invece fosse stato lui a vincere, avrebbe potuto
prendersi in moglie tutte quante egli avesse voluto. Si trovarono d’accordo su questi
patti. E vinsero le Muse, e gli cavarono gli occhi. Omero, invece, dice che i fatti relativi
a Tamiri accaddero presso Dorio: …e Steleo <ed Elo> e Dorio, e dove le Muse si
scontrarono con il tracio Tamiri e lo fecero desistere dal canto. “Pangeo con strumenti”]
†…†. Dicono che vicino al Pangeo le Muse abbiano gareggiato con Tamiri. Omero dice
che fu presso Dorio. “dalle auree zolle”] ha chiamato così il Pangeo (v. 921), in quanto
lì ci sono miniere d’oro. Eschilo, per parte sua, nelle Bassaridi, afferma che vi siano
miniere d’argento. Similmente, anche lo stesso Euripide, un pochino sotto, dice (v. 970):
nascosto in questi antri di una terra che sotto l’argento…ed Eschilo dice così:…del
Pangeo, infatti, illuminò le altezze ricche d’argento, la luce acuta di un lampo». Lo
scoliaste unirebbe dunque il nome di Tamiri (poeta che si vantava di essere superiore
alle Muse e per questo era stato da quelle privato di vista, memoria e voce) con la
montagna del Pangeo, citando anche le Bassaridi di Eschilo.
112
Cf. TrGF III, 23.
32 Francesco Carpanelli
113
Cf. EDMONDS III 2013.
114
cf. SEAFORD 2005, 606 e SEAFORD 2012, 281‑292.
115
«Ancor meno si sa del terzo dramma; i Fanciulli (Neanískoi) del titolo ovviamente
costituivano il coro e presumibilmente «rappresentano il prototipo di un’organiz
zazione efebica» (West): «neanískoi indica specificamente gli iniziati, superate le prove
che trasformano un essere umano da bambino a uomo; sospetto che i Neanískoi non
fossero altro che gli Edoni dopo la conversione». È possibile che la trilogia si
concludesse con la conciliazione tra Dioniso e Apollo‑Helios e con lo stabilirsi del culto
solare in Tracia, in conformità a un dato culturale ben noto anche a Eschilo» AVEZZÙ
2003, 80. Cf. JOUAN 1992, 75‑76.
116
Cf. WEST 1990, 47 e SEAFORD 2005, 606.
117
Cf. ultra la breve rassegna sulle testimonianze della ceramografia.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 33
e dopo di ciò beveva del mosto che aveva fatto concentrare col
tempo e faceva vanto di questo fatto nella stanza degli uomini.122
118
Una tesi questa riassunta così da JOUAN 1992, 75: «Les Néaniskoi devaient tirer
leur nom des jeunes Édoniens qui formaient le choeur, sans doute un groupe
éphebique de sectateurs de Dionysos (plutôt que d’Apollon, comme le suggère West).
À notre avis, c’est dans ce drame que s’accomplissait le châtiment de Lycurgue. Un
moment désarmé, le roi reprenait ses persecutions nocturne. Il y a sans doute plusiers
souvenirs de la pièce dans un stasimon de l’Antigone de Sophocle où le choeur
énumère des précédents à l’emprisonnement de l’héröine dans un caveau».
119
«Come nella trilogia tebana, il satiresco Licurgo doveva comportare la regressione
a una fase precedente della storia, forse al momento della liberazione di Satiri e
Baccanti dalla prigionia loro inflitta dal re degli Edoni» AVEZZÙ (2003, 80).
120
È un riferimento che leggiamo in Nonno di Panopoli (Dion. 20, 226‑227 e 248‑
250) come ricorda anche SOMMERSTEIN 2008, 127.
121
«Se l’ipotesi di una conclusiva conversione di Licurgo alle dionisiache gioie del
vino coglie nel segno, possiamo ragionevolmente credere, mettendo ancora una volta
a frutto le indicazioni offerteci dal frammento di Timone, che nel comporre il dramma
satiresco Eschilo abbia voluto riprendere, con un’operazione di rovesciamento
speculare, uno dei motivi fondamentali svolti in precedenza dalla trilogia tragica: colui
che nel σατυρικόν finale mostrava di gustare gli effetti inebrianti del vino era lo stesso
Licurgo che la scena tragica ci aveva mostrato feroce persecutore di Dioniso e della
vite; e gli stessi avvinazzati compagni del dio contro cui nella trilogia tragica si era
abbattuta la furia del re tracio diventavano infine – nelle persone dei satiri – suoi allegri
compagni di bevuta» DI MARCO 2013a, 210.
122
Traduzione di MORANI 1987.
34 Francesco Carpanelli
***
123
Per le ipotesi di ciò che può essere stato scritto dopo Eschilo e prima di Nevio
cf. LATTANZI 1994, 191‑202.
124
Le baccanti in preda dell’invasamento dionisiaco sono avvolte da serpenti.
125
Le traduzioni di TRF3 sono di LATTANZI 1994.
126
C’è qui un errore da ricondurre all’archetipo.
127
Scil. i seguaci di Dioniso (Libero).
128
«L’uso di corpus unito in perifrasi ad un genitivo o, come in questo caso, ad un
aggettivo denominativo ricalca quello di δέμας nella lingua della tragedia attica,
soprattutto euripidea» LATTANZI 1994, 213.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 35
***
con ampie vesti, frange dorate, crocotule, morbide gramaglie (TRF3 43)131
***
Dì, in che modo lo avete preso: con la lotta o con l’inganno? (TRF3 34)
***
129
Le baccanti, fatte prigioniere, sperano di essere rilasciate.
130
Un abito giallo e trasparente indossato nelle feste dionisiache oppure da Dioniso
stesso nella sua rappresentazione teatrale (cf. Ar.Ra. 46 e Cratin. Fr. 40 K.‑A.). Crocota
è un termine molto importante perché nel v. 138 delle Tesmoforiazuse di Aristofane, la
parte della Lycurgheia eschilea parodiata dal poeta comico, c’è il termine κροκωτός:
una piccola prova del testo cui Nevio ha guardato.
131
Le vesti delle baccanti.
36 Francesco Carpanelli
Certo egli [subirà] l’aspra violenza del mio fiero carattere e del mio
animo (TRF3 35)
***
Bada invece, per favore, di non mettere a confronto la tua ira con
quella di Libero (TRF3 36)
***
come vanno alla morte per la forza di mani disarmate gli animali
domestici (TRF3 44)
g ‑Libero, ora rivelatosi nella sua essenza divina, ordina di portargli Licur‑
go (dopo che un Messaggero aveva annunziato l’assassinio dei familiari
compiuto dal re?):
Del finale non abbiamo traccia ma gli studiosi concordano, come per il
resto del plot132, su quanto riassume Lattanzi133: «A questo punto forse il
dio annuncia al re che dovrà morire, perché una carestia colpirà il suo
132
Cf. RIBBECK 1875, 55 ss.; WARMINGTON 19572, 122 ss.; MARMORALE 19502, 191 ss.;
PASTORINO 1957, 35 ss.
133
1994, 265.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 37
popolo e potrà avere fine solo con la sua morte. Nella parodo infine gli
edoni, ormai conquistati dal nuovo dio e convertiti al suo culto, escono di
scena portando via Licurgo»
134
Cf. Diod. Sic. 3, 65, 7.
135
«1) sceglie l’ambientazione presso la Nisa araba […] 2) fa poi di Licurgo un figlio
di Ares […]; 3) gli attribuisce i caratteri di un feroce predone omicida; 4) inserisce un
intervento diretto di Era ostile a Dioniso […]; 5) unisce inoltre nel c. 21 due tipi di
vendetta contro Licurgo: quella operata da Ambrosia metamorfosizzata in vite insieme
ad altre Baccanti (21, 33 sgg.) e, come in Omero, l’accecamento a opera di Zeus (21,
165‑169); 6) a questa punizione accompagna un’ulteriore rappresaglia divina dei
sudditi di Licurgo (21, 90‑123) […] Del mito di Licurgo risulta così trascurato solo
l’elemento che invece era piaciuto ai tragici, vale a dire la sua follia, mandatagli come
punizione e in conseguenza della quale aveva ucciso la moglie e il figlio. Nemmeno
questo aspetto però manca del tutto; solo che esso è stato, per così dire, spostato da
Licurgo ai suoi sudditi, i quali divengono uccisori e cannibali dei propri figli (21, 110
sgg.). » GONNELLI 2003, 412‑413.
38 Francesco Carpanelli
136
«La scena dell’incontro fra i dionisiaci e Licurgo sembra turbata da una lacuna,
ma probabilmente di non più di un verso, dopo il v. 304 […] nella parentesi si è tradotto
un senso ragionevole simile a quello proposto da Hopkinson (cf. D. 44, 15 sgg.: Penteo
irritato dal rumore dei baccanali)» GONNELLI 2003, 446.
137
La traduzione è di GONNELLI 2003.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 39
138
Cf. CARPANELLI 2011, 36‑49.
139
Cf. il v. 304 («il gridare di quella banda» ἀλάλαγμα χορείης) e il v. 306 («della
siringa stridula» καναχῆς σύριγγος).
140
Cf. SUTTON 1975. Si pensa che dietro questa produzione ci sia una fonte comune:
i dipinti ispirati alla storia di Licurgo nel tempio di Dionisio Eleutereo di cui parla
Pausania (1, 20, 3).
141
Cf. SÉCHAN 1926, 63‑79; LIMC 6, 1, 309‑319.
142
Riporto di seguito la descrizione dei due prodotti:
‑ «Ap 48. Ruvo di Puglia, Museo Nazionale Jatta, 36955 (n. i. 32). Cratere a
colonnette. Da Ruvo di Puglia. A. Guerriero stante che porta la mano al volto; accanto
a lui, cane; in alto scudo; tempio dorico in cui è un uomo (Licurgo), armato di doppia
ascia, che minaccia un giovane nudo (Driante), aggrappato alle sue gambe; in alto, sul
frontone: busto di donna (Lyssa); donna panneggiata e col capo velato, in fuga verso
d., che lascia cadere una phiale con offerte. B. Due sileni, Dioniso e cane, tutti in
movimento verso sin. Eschilo, Licurgia (Huddilston 1898; Séchan 1926; Pickard‑
Cambridge 1946); Eschilo, Edoni (Webster 1967a); autore ignoto, Licurgo (influenzato
dall’Eracle di Euripide: Sutton 1975). Pittore cdi Boston 00. 348. 380‑360.» Todisco 2003,
418‑419. Cf. anche Taplin 2007, 68‑70. L’episodio non poteva essere rappresentato, come
sappiamo dalle regole non scritte della drammaturgia classica e da tutti rispettate nei
contesti cruenti, ma doveva essere raccontato in una rhesis : «è al teatro che con ogni
evidenza rinviano le strutture architettoniche (un edificio a colonne e un palazzo dalla
cui porta si slancia Licurgo) che compaiono in due di queste raffigurazioni e che sono
del tutto analoghe ad altre numerose stilizzazioni vascolari della skene teatrale» DI
MARCO 2013, 203.
‑ «Ap 96. Londra, British Museum, F 271 (49. 6‑23. 48, 1434) (già Napoli, Collezione
Steuart). Cratere a calice. Da Ruvo di Puglia. A. In alto: donna stante, in conversazione
con un giovane nudo con lancia, seduto su uno sgabello; Furia (Lyssa), nimbata, in
40 Francesco Carpanelli
Il nostro excursus nella Lycurgheia dimostra ancora una volta che, come
in altri casi del teatro eschileo, di una intera trilogia resta soltanto un
dramma i cui frammenti sono in qualche modo di aiuto per la ricostruzione
scenica: in questo caso si tratta degli Edoni.
Gli Edoni. Siamo nella Tracia meridionale e gli avvenimenti riguardano
comunque, anche in ambito satirico, l’incontro‑scontro tra il re Licurgo e il
dio Dioniso: dopo l’arrivo di quest’ultimo, nei confini del regno, il sovrano
avutone notizia, manda i suoi soldati a catturare lo strano corteo che si
aggira per il paese. La descrizione degli strumenti e dell’abbigliamento di
questi iniziati rende magica l’atmosfera; segue l’apparizione del dio
effemminato, stigmatizzata dal re con parole di scherno. L’arresto di
Dioniso e delle menadi, la loro successiva liberazione per intervento
metafisico (?), con un fenomeno tellurico simile a quello, reale o illusorio,
che a Tebe riduce in rovina il palazzo di Penteo nelle Baccanti, dà il vero
avvio all’azione drammatica. In una eventuale ricostruzione scenica non
possiamo essere sicuri che il corteo dionisiaco venga catturato per volontà
di Licurgo visto che, come nelle Baccanti, il gruppo potrebbe essere arrivato
spontaneamente in città, con una parodo che avrebbe dato inizio all’azione.
Se partiamo da un confronto con ciò che Dioniso farà fare a Penteo nelle
Baccanti e la sua uccisione da parte della madre Agave, qui, a ruoli invertiti,
volo verso d.; Apollo seduto; Ermes stante. Al centro: idria accanto ad un altare su cui
arde un fuoco. In basso: vecchio con bastone (pedagogo) e giovane nudo che
trasportano il cadavere di un giovane nudo (Driante). Nel campo: rosette […] A.
Eschilo, Licurgia […] A. Eschilo, Bassaridi; A. Eschilo, Edoni (Webster 1967a; Trendall,
Webster 1971 Trendall, Cambitoglou; Palagia 1984). Pittore di Licurgo. 335‑345»
TODISCO 2003, 434.
Cf. anche TAPLIN 2007, 70‑71. Il Pedagogo poteva essere un carattere drammatico
di cui però non abbiamo alcun riscontro testuale: cf. TRENDALL/WEBSTER 1971, 51 e
GREEN 1999.
143
Cf. Hyg. Fab. 132, 2. (e al riguardo Sutton 1975, 360).
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 41
144
L’Eracle euripideo in cui l’eroe stermina tutta la sua famiglia, sotto la guida di
Lyssa, può fornire molti suggerimenti per relizzare questo tipo di scena.
145
L’altro finale, per il quale non propendiamo, simile forse a quello della Niobe del
42 Francesco Carpanelli
Bibliografia
nostro autore, vedrebbe Licurgo inflessibile nella sua hybris; la sua condanna a morte,
annunciata nell’esodo da Lyssa o da Dioniso ex machina, sarebbe avvenuta per mezzo
dello smembramento del corpo del re Licurgo ad opera di cavalli diretti in opposta
direzione, la punizione di cui parla Apollodoro.
Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 43
ROSENMEYER 1983 = T.G. Rosenmeyer, Tragedy and religion: The Bacchae, in E. Segal
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Aeschylus and Euripides’ Bacchae: Reaffirming Traditional Cult in Late Fifth Century,
in A. Markantonatos, B. Zimmermann (edd.), Crisis on Stage, Berlin/Boston 2012,
323‑342.
Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato di Eschilo
nei papiri di Ercolano
PIERO TOTARO (UNIVERSITÀ DI BARI)
1
Cf. DORANDI 2017.
46 Piero Totaro
2
Ma pubblicata in «Cronache Ercolanesi» 1988. Cf. SCHOBER 1988.
Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 47
3
Colgo qui l’occasione per ringraziarlo della sua pazienza e generosità, e della
straordinaria competenza sui papiri ercolanesi.
Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 49
] υἱοὺς [
] Κρόν[ος εἰς δεσ‑
μω]τήριον κα[τέβαλε. 20
. . ΚΑΤΑΧ Αἰσχύλος
ἐν τῶι λυομ[έ]ν[ωι
Προ]μη[θ]εῖ [φησιν
ὑπ]ὸ Διὸς δεδ[έσθαι.
καὶ πάντες [καταταρ‑ 25
τα]ρωθέντες [ἤδη πρὶν
ὑπ᾽] Οὐρανοῦ κ[αταδέ‑
δεντ]αι· Διόσκουροι
δὲ] ἄρα ὑπ᾽ ἀ[φαρειδῶν
ἐ[οί]κασιν ἐν 30
nel Prometeo liberato (Eschilo dice che Zeus) era innamorato di Teti. E dicono
… e l’autore dei Canti ciprî che ella, per compiacere Era, fuggì le nozze con
Zeus; e che costui, adirato, giurasse che l’avrebbe data in matrimonio a un
mortale. Anche in Esiodo si trova più o meno la stessa storia. Pisandro,
invece, riguardo Climene (narra) che quello essendo innamorato …
(Fr. 202b Lucas de Dios = 12 Amarante; Philodem. De piet. P.Herc. 1602 V)
ἐν Π]ρομηθε[ῖ δὲ
τῷ] λυομέ[ν]ω[ι φη‑
σι Θέτ]ιδος ε[ 5
τι τὸ λ]όγιον ἐμή‑
νυσε]ν τὸ περὶ Θέ‑
τιδο]ς ὡς χρε[ὼ]ν εἴ‑
η] τὸν ἐξ αὐτῆς γεν‑ 10
ν]ηθέντα κρείτ‑
τ]ω κατασ[τῆν]αι
τ]οῦ πατρός· [ὅθεν
κ]αὶ θνητ[ῶι συνοι‑
κί]ζουσιν α[ὐτή]ν. 15
Zeus voleva avere una relazione con Teti ma Prometeo glielo impedì; poi
ritenne opportuno darla in matrimonio a Peleo. La storia si ripete presso
prosatori e poeti, ed è trattata dettagliatamente anche in Eschilo nel Prometeo
incatenato.
(Schol. D Pi. Isthm. 8, 57b, III p. 273, 21‑25 Drachmann)
Bibliografia
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52 Piero Totaro
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SCHOBER 1988 = A. Schober, Philodemi De pietate Pars prior, “CErc” 18 (1988), 67‑
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Mass./London 2008.
WILAMOWITZ 1914 = U. von Wilamowitz‑Moellendorff, Aeschyli tragoediae, Berolini
1914.
I Frigi nell’universo tragico greco:
intorno ad una tragedia perduta di Eschilo1
MILENA ANFOSSO (SORBONNE UNIVERSITÉ –
UNIVERSITY OF CALIFORNIA, LOS ANGELES)
1. Introduzione
1
Questo contributo è frutto delle ricerche di una tesi di dottorato in corso di
redazione sui complessi rapporti linguistici tra i Greci e i Frigi, diretta dal Professor
M. Egetmeyer, Sorbonne Université, e dal Professor B. Vine, University of California,
Los Angeles. Mi sento in dovere di ringraziare il Professor B. Vine per aver letto e
commentato la stesura preliminare del capitolo della tesi da cui è stato tratto questo
intervento, così come i Professori F. Carpanelli e P. Totaro, e la Dottoressa L. Carrara,
per i loro utilissimi suggerimenti e spunti di riflessione in sede di discussione al
Convegno. Resto la sola responsabile degli eventuali errori contenuti in questo lavoro.
54 Milena Anfosso
Σικελίαν δὲ ἔθνη τοσάδε οἰκεῖ· Σικανοί τε καὶ Σικελοὶ καὶ Φρύγες, οἱ μὲν
ἐξ Ἰταλίας διαβεβηκότες ἐς αὐτήν, Φρύγες δὲ ἀπὸ τοῦ Σκαμάνδρου
ποταμοῦ καὶ χώρας τῆς Τρῳάδος.
I popoli che abitano la Sicilia sono i seguenti: i Sicani, i Siculi e i Frigi, i primi
essendovi giunti dall’Italia, mentre i Frigi dal fiume Scamandro e dalla
regione della Troade.
È opinione comune che Pausania indicasse con questo nome non dei veri
Frigi, ma i Troiani scampati alla guerra contro gli Achei che, secondo la
tradizione mitica, avrebbero dato origine al popolo degli Elimi3. Ciò è
desumibile dal fatto che la loro regione di provenienza è identificata con la
Troade e con il fiume che bagna Troia, lo Scamandro. Nel II sec. d.C.,
dunque, l’uso indifferenziato, sinonimico, di «Frigi» e «Troiani» doveva
essere pienamente ammesso anche in un contesto storiografico. Pertanto,
vista la portata del problema, se seguiamo l’indicazione di Strabone, ci
sembra molto interessante procedere a ritroso, nel tentativo di dare un
nome al primo poeta responsabile di una tale confusione Troia‑Frigia.
Quale poeta, dunque?
2
Su questo argomento, si veda in particolare SAMMARTANO 2000, con riferimenti
bibliografici.
3
Sugli Elimi, si vedano, ad esempio, DE VIDO 1997 e SAMMARTANO 2003.
I Frigi nell’universo tragico greco 55
della guerra di Troia (Il. 3, 184‑9). La stessa casa reale troiana risulta essere
legata alla Frigia per via dell’unione matrimoniale tra il re Priamo e la
regina Ecuba, figlia, secondo Omero, del re frigio Dimante (Il. 16, 715).
Ettore si lamenta, infine, in maniera anacronistica per i tempi della guerra
di Troia, ma in consonanza con la realtà storica dell’epoca di composizione
dell’Iliade4, di aver dovuto vendere alla Frigia e alla Meonia numerosi tesori
artistici per poter sopperire alle ingenti spese dovute alla guerra (Il. 18, 289‑
92). Infine, l’Inno Omerico ad Afrodite5, risalente al VII sec. a.C., ci informa,
attraverso le parole della dea stessa, che Troiani e Frigi parlano due lingue
che appaiono ben diverse all’orecchio dei Greci, «troiano»6 e frigio7, e che
li identificano pertanto come due popoli geograficamente vicini, ma etni‑
camente distinti (vv. 111‑6).
4
La Frigia del re Mida era davvero una grande potenza tra il IX e il VII sec. a.C.,
egemone in Asia Minore, e dotata di ricchezze sufficienti per importare opere d’arte e
oggetti di grande valore dalle terre vicine (anche dalla Grecia continentale), cosa che
giustificherebbe in pieno l’affermazione di Ettore. Si veda MUSCARELLA 2013, con
bibliografia.
5
Si veda la bella edizione di FAULKNER 2008.
6
Linguisticamente parlando, il «troiano» non esiste; il primo a tentare di
identificare la lingua parlata a Troia con una lingua del ceppo anatolico, il luvio, fu
Calvert Watkins, al cui articolo fondatore, WATKINS 1986, sembra utile rimandare in
questo contesto.
7
Lingua attestata frammentariamente, ma apparentata al greco e all’armeno, e
pertanto di origine balcanica: per un’utile introduzione, si veda BRIXHE 2004.
56 Milena Anfosso
ὅτι οἱ νεώτεροι τὴν Τροίαν καὶ τὴν Φρυγίαν τὴν αὐτὴν λέγουσιν, ὁ δὲ
Ὃμηρος οὐχ οὕτως. Αἰσχύλος δὲ συνέχεεν.
Riguardo al fatto che gli autori più recenti dicano che Troia e la Frigia siano
la stessa cosa, per Omero non è così. È Eschilo ad averli unificati.
Secondo Edith Hall9, pertanto, «there is a prima facie case for believing
that it was Aeschylus, the innovator and reworker of the old myths, with
his enormous interest in βαρβαρικά, who first Phrygianised the Trojan
royal house».
8
E. HALL 1988.
9
E. HALL 1988, 16.
I Frigi nell’universo tragico greco 57
2.2. L’Achilleide
10
Per un’analisi dell’evoluzione della figura di Achille dall’epica alla tragedia, si
vedano MICHELAKIS 2002 e DESCHAMPS 2010.
11
In realtà, l’Achilleide in quanto tale non è attestata da nessuna parte: WELCKER
1824, 415‑30, fu il primo ad ipotizzare l’esistenza di tale trilogia sulla base della
congruenza dei titoli e dei soggetti. Da allora, tale ipotesi si è trasformata in certezza
per la critica, ma non bisogna tralasciare di sottolineare che, malgrado l’elevato grado
di probabilità, si tratta pur sempre di un’ipotesi: a tale proposito, si veda RADT 1986,
172.
12
WEST 2000, 340‑2.
13
Come CARRARA 2014, 51, ha ben sottolineato, è possibile datare con certezza
soltanto i drammi frammentari di Eschilo messi in scena con una delle tragedie
conservate di cui sia nota la data di rappresentazione. La maggior parte dei drammi
frammentari di Eschilo non datati per questa via dovrebbe essere attribuita, su base
statistica, alla prima fase della carriera del poeta, tra l’inizio del V sec. e il 472 a.C., per
un totale di cinquanta o sessanta tragedie perdute, a seconda che si fissi ad ottanta o
novanta opere l’ammontare della produzione totale del poeta. Il Κατάλογος τῶν
Αισχύλου δραμάτων elenca un totale di 73 titoli, ma mancano almeno 8 titoli noti da
altre fonti; la Suida cita 90 drammi; la Vita di Eschilo 70 o 75 drammi. Per una discussione
di questi dati, si veda MÜLLER 1984, 76‑7.
14
SOMMERSTEIN 2008, 135.
15
Il Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων è riprodotto in RADT 1985, 58‑9 e GANTZ
1980, 211; sulla sua origine si veda MONTANARI 2009, 395.
16
In RAMELLI 2009 si trovano le traduzioni in italiano dei frammenti, degli scolii, e
dei testi in cui si fa riferimento ai frammenti di Eschilo in altri autori secondo l’edizione
METTE 1959.
17
Per un’analisi dei frammenti, si veda GARZYA 1995b. Per il tema dell’amore
omosessuale, caro agli ideali aristocratici, tra Achille e Patroclo nella tragedia, ma mai
58 Milena Anfosso
23
TAPLIN 1972.
24
GARZYA 1995a.
60 Milena Anfosso
25
MOREAU 1996, 11.
26
Nella pittura vascolare attica, a figure nere così come a figure rosse, viene
utilizzato uno schema figurativo particolare che ricorre, con variazioni minime, in tutti
gli esemplari. Achille è rappresentato banchettante, con un pezzo di carne e un coltello
in mano, disteso su un lettino, mentre Priamo, in gesto di supplica, tende le braccia
verso l’eroe. Il tavolo è imbandito e sotto il tavolo si trova il cadavere di Ettore. Spesso
compaiono i servi che accompagnano Priamo, Ermes, e le ancelle o i servi di Achille.
Per una lista completa delle rappresentazioni attiche del VI e del V sec. a.C. si vedano
KOßATZ‑DEIßMAN 1983, 148‑52; VISCONTI 2008‑2009, 35‑59.
27
CARRARA 2014, 53.
28
GRUBER 2009, 53‑4. Lo studioso cita, oltre ai Frigi, i titoli seguenti: Argive, Carii,
Cretesi, Edoni, Eleusinii, Lemniadi, Misii, Perraibides, Salaminie. Esiste tuttavia un caso,
quello delle Tracie, in cui l’etnonimo del titolo non corrisponderebbe all’ambientazione
geografica suggerita.
I Frigi nell’universo tragico greco 61
Sulla base dei dati cronologici del Marmor Parium (FGrHist 239 A 589) il
decesso di Eschilo è collocabile nel 456/455 a.C. L’Achilleide era stata messa
in scena per la prima volta all’inizio della sua carriera, tra il 490 e il 480 a.C.,
e quando Aristofane era in attività, egli doveva essere morto da diversi
anni. Tuttavia, varie fonti antiche29 attestano che le tragedie eschilee
avevano ottenuto il privilegio di potere essere rappresentate anche dopo la
morte del poeta. Pertanto, il frammento di Aristofane in questione potrebbe
a ragione riferirsi ad una replica postuma dell’Achilleide, come la formu‑
lazione «τοὺς Φρύγας οἶδα θεωρῶν» sembrerebbe indicare, ma questo non
sminuirebbe in nulla il suo valore di testimonianza sulla drammaturgia
della tragedia, anzi lo accrescerebbe. Infatti, i Frigi dovevano esibirsi in
coreografie orientalizzanti piuttosto elaborate, destinate a stupire lo
spettatore e a fissarsi indelebilmente nella sua memoria, se è vero che
Aristofane poteva farvi riferimento in questa maniera diversi anni dopo in
una battuta della commedia.
Maria Staltmayr30 aveva osservato che solo un coro di stranieri, di Frigi
in questo caso, poteva svolgere tutte le funzioni richieste dalla dramma‑
29
Si veda quanto citato in RADT 1985, 56‑8.
30
STALTMAYR 1991, 370.
62 Milena Anfosso
turgia della tragedia, poiché tale condizione rendeva possibile per loro un
lamento funebre in grado di essere una via di mezzo tra l’espressione di un
dolore smodato per la morte di Ettore e una riflessione distante sulla
caducità del genere umano in generale. In quanto gruppo anonimo, essi
potevano restare sullo sfondo durante l’incontro decisivo tra Priamo e
Achille. Inoltre, i Frigi del coro dovevano essere schiavi, servitori della
famiglia reale di Troia. Dal punto di vista di Eschilo era infatti logico
pensare che egli vi andasse con un corteo di servitori per aiutarlo a
trasportare l’ingente riscatto. Cosa di più naturale per un uomo del
V sec. a.C., ateniese, immaginare che il re di Troia avesse schiavi di origine
straniera e, più in particolare Frigi, come era la norma per il pubblico
ateniese dell’epoca?
Una tale identificazione sembrerebbe anacronistica e, allo stesso tempo,
in completa opposizione rispetto alla narrazione omerica. Secondo la
celebre definizione di Ateneo (8, 347), Eschilo era il tragico:
che diceva che le sue tragedie erano fette dei grandi pranzi di Omero.
Ad una prima lettura non vi sarebbe alcun motivo di pensare che Eschilo
avrebbe distorto la narrazione omerica trasformando in schiavi i Frigi, gli
alleati per eccellenza dei Troiani dai tempi della lotta contro le Amazzoni
(Il. 3, 184‑9), e legati alla famiglia reale troiana per via delle origine frigie
della regina Ecuba (Il. 16, 715). In una prospettiva omerica essi avrebbero
potuto essere degli anziani della generazione di Priamo, dei notabili, forse
membri della famiglia di Ecuba, e non avrebbero dovuto limitarsi ad un
ruolo di sfondo, ma anche partecipare agli eventi dal punto di vista
emotivo. Questa posizione31 non può essere condivisa in questo caso.
Eschilo amava piegare i miti per assecondare le proprie necessità sceniche:
se era riuscito a trasformare il fiero Achille omerico in un νεκροπέρνας,
un «venditore di cadaveri» senza scrupoli32, secondo l’icastica definizione
licofronea33, perché non avrebbe dovuto «cancellare» l’omerica alleanza tra
Troiani e Frigi e aggiungere, seppur anacronisticamente, un tocco esotico
alla tragedia con le danze di un coro orientalizzante?
31
Si veda SAMMARTANO 2000, 172.
32
STAMA 2015, 71‑2.
33
Licofrone, Alessandra, 276.
I Frigi nell’universo tragico greco 63
5. Un sistema complesso
34
Secondo Dominique Lenfant (LENFANT 2004, 79), forse furono proprio dei Greci,
quelli che gravitavano intorno alla corte achemenide, come i Pisistratidi, o lo spartano
Demarato, a suggerire a Serse una tale mossa.
64 Milena Anfosso
rese omaggio ad Atena Iliaca con un sacrificio di mille buoi e i suoi Magi
offrirono libagioni agli eroi. Dal momento che anche la Troade faceva parte
dell’impero achemenide al momento del passaggio di Serse, il Gran Re
poteva facilmente adottare le tradizioni locali per puro pragmatismo
politico.
Sarebbe più logico pensare che una tale equivalenza Persiani‑Troiani si
fosse presentata alla mente dei Greci fin dall’inizio del conflitto; e invece
non ve n’è alcuna traccia fino alla fine della Seconda Guerra Persiana (480‑
479 a.C.). Fino a quando, cioè, i Greci, uniti in una coalizione, esattamente
come avvenne a Troia, non ebbero la percezione esatta della vittoria, di aver
annientato il nemico persiano, così come avevano fatto con il nemico
troiano35. Entrambi asiatici, ed entrambi meritevoli di essere sconfitti per
un atto di hybris. Dal punto di vista politico, inoltre, l’identificazione dei
Persiani con i Troiani non faceva che legittimare ancora di più le mire
espansionistiche di Cimone, della Lega Delio‑Attica, e i conseguenti
attacchi in suolo asiatico.
Come sottolinea Dominique Lenfant36, fu proprio in questo contesto di
affermazione della propria identità greca in opposizione all’identità dei
propri nemici persiani che bisogna inquadrare l’elaborazione del concetto
di barbaro, non‑Greco, addirittura anti‑Greco, e la conseguente confusione
Troia‑Frigia che ci interessa in questo intervento. I contesti privilegiati per
una tale operazione furono, ovviamente, la letteratura e l’iconografia, in
quanto fruitori di un codice simbolico che si serviva naturalmente delle
figure del mito. Se si esclude il solo esempio interamente conservato dei
Persiani37 di Eschilo, dramma storico che non contiene alcuna allusione al
modello troiano, di fatto i Persiani si reincarnano in figure mitiche, i Troiani,
che vengono a loro volta profondamente modificati rispetto al modello
epico originario.
Nell’Iliade, infatti, non vi è alcuna differenza fra Troiani ed Achei, né
alcuna opposizione binaria fra loro: essi condividono apparentemente la
stessa lingua38, le stesse divinità, gli stessi valori eroici, pressoché gli stessi
35
MILLER 1995, 460.
36
LENFANT 2004, 83.
37
I Persiani dell’omonima tragedia sono sicuramente caratterizzati dal lusso, ma
non presentano gli altri tratti denigranti tipici nelle tragedie degli autori successivi.
Eschilo non li disprezza né si prende gioco di loro; semplicemente li presenta, con
grande dignità, nella loro differenza. A tale proposito, si veda J. HALL 2002, 175‑6.
Invece, E. HALL 1989, 117‑21, spiega bene i procedimenti messi in atto da Eschilo per
produrre l’effetto di un accento straniero nella tragedia.
38
Si vedano LEJEUNE 1948, 53; MACKIE 1996.
I Frigi nell’universo tragico greco 65
usi e costumi. Non solo, secondo Il. 3, 184‑9, i Frigi di Migdone e Otreo e il
re troiano Priamo condividono con l’eroe greco civilizzatore per eccellenza,
Eracle39, la lotta contro l’incarnazione del mondo barbaro, le Amazzoni, e
si inscrivono, dunque, nella stessa volontà di civilizzazione in un momento
storico in cui i Troiani e i loro amici e alleati Frigi sono ancora rappresentati
in una funzione strettamente anti‑barbarica. Dal punto di vista simbolico,
non sembra fuori luogo ricordare che addirittura sui fregi dell’Amazzono‑
machia del lato occidentale del Partenone, veicolo principale della
propaganda ateniese, non sono i Troiani ad essere rappresentati in costumi
orientalizzanti, ma proprio le Amazzoni40.
39
Apollonio Rodio (2, 775‑810) racconta che l’eroe Eracle, nell’ambito delle Dodici
Fatiche e, nella fattispecie, della nona (consegnare a Euristeo la cintura della regina
delle Amazzoni Ippolita), aveva sottomesso numerosi popoli mentre attraversava
l’Anatolia. Tra questi popoli, vi erano anche i Frigi Migdoni, che furono affidati a
Dascilo, evidentemente l’eroe eponimo di Daskyleion in Frigia Ellespontica, re dei
Mariandini. Ora, secondo una versione attribuita allo storico Timeo di Tauromenio,
ma riportata da Diodoro Siculo (4, 32), Eracle stesso fu il responsabile dell’installazione
di Priamo sul trono di Troia. Egli era stato, infatti, il solo dei figli di Laomedonte ad
opporsi alla volontà del proprio padre di non consegnare all’eroe i cavalli che gli erano
stati promessi, un gesto che gli permise di conservare allo stesso tempo la vita e il
trono.
40
MILLER 1995, 457.
41
MANOLEDAKIS 2016.
42
BRIXHE 2004.
43
Si veda, ad esempio, ROSE 2013.
44
Per la storia dell’impero persiano, si veda BRIANT 1996.
66 Milena Anfosso
45
Si veda KERSCHNER 2005.
46
Erodoto (3, 90) non distingue tra Grande Frigia e Frigia Ellespontica. La prima
menzione esplicita di una bipartizione della Frigia appare forse in Xanthos di Lidia,
citato da Strabone (1, 49), e in maniera più precisa nella Ciropedia di Senofonte (1, 1, 4;
7, 4, 8; 7, 4, 16). La descrizione più completa delle due Frigie si trova proprio in
Strabone (12, 8, 1), ma presenta la situazione al suo tempo, cioè nel I sec. d.C., in epoca
romana.
47
Tre tumuli monumentali scavati durante l’ultimo decennio hanno restituito una
serie di sarcofagi in marmo riccamente decorati, collocabili cronologicamente tra il VI
e l’inizio del IV secolo a.C., in stile «greco‑persiano». Nel primo tumulo, detto
Kizöldün, sono stati trovati due sarcofagi in marmo e resti del carro funebre che
avrebbe trasportato il corpo del defunto per la sepoltura. Il sarcofago più antico,
risalente al 500 a.C. circa, è il più antico esemplare lapideo con scene figurate mai
trovato in Asia Minore: due di esse sono dedicate ad un episodio mitico della fine della
guerra di Troia, l’uccisione di Polissena da parte di Neottolemo, al cospetto della madre
Ecuba, che si accascia a terra per il dolore. Cf. DUSINBERRE 2013, 171‑5.
48
Già nel VI sec. a.C. Ipponatte citava la vendita di schiavi provenienti dalla Frigia
a Mileto (fr. 27 West = 38 Degani): καὶ τοὺς σολοίκους ἢν λάβωσι περνᾶσι, / Φρύγας
μὲν ἐς Μίλητον ἀλφιτεύσοντας, «e se li catturano i barbari li vendono, Frigi a Mileto,
per macinare orzo».
49
Schiavi frigi sono menzionati da Aristofane come oggetto di insulti e punizioni
fisiche in Uccelli, 1244‑1245 e 1326‑1329; per quanto riguarda la marchiatura come
punizione degli schiavi, si veda Platone, Leggi, 9, 854d; Eronda 2, 100; 5, 27‑28; 65‑66.
I Frigi nell’universo tragico greco 67
frigio Manes si trasformò ben presto nel sinonimo esatto per «schiavo»50.
Come Senofonte (Poroi, 2, 3) ci informa, anche una buona percentuale di
meteci, tra cui schiavi resi liberi, doveva essere di origine frigia. Non
doveva stupire, dunque, un coro di servitori frigi per il re di Troia, anzi si
allineava, seppur anacronisticamente, alle aspettative del pubblico ateniese
dell’epoca per un sovrano come Priamo. Tuttavia, come Erodoto (7, 73) ci
fa notare, anche un contingente di Frigi era stato arruolato nell’imponente
esercito di Serse durante la Seconda Guerra Persiana. Pertanto, uno scenario
come quello descritto da Timoteo di Mileto nel suo ben noto nomo, i
Persiani, in cui un pavido soldato frigio51 implora, in un greco stentato a
patina ionica, un soldato greco di risparmiargli la vita durante la battaglia
di Salamina, non doveva essere del tutto inverosimile.
Essi vengono utilizzati nelle case: Vespe, 433, Lisistrata, 908; nelle fattorie: Pace, 1146‑
1148; e anche come minatori. Ermippo (fr. 63 Kock, v. 18) cita, insieme ad altri beni, gli
schiavi frigi, ἀνδράποδ’ ἐκ Φρυγίας, «schiavi dalla Frigia», come uno dei vantaggi
portati dal commercio e dalla navigazione.
50
Si veda BÄBLER 1998, 158‑9, in particolare il commento all’epigramma 733
dell’Antologia Graeca: Μάνης οὗτος ἀνὴρ ἦν ζῶν ποτέ νῦν δέ τεθνηκώς ἶσον Δαρείῳ
τῷ μεγάλῳ δύναται, «Quest’uomo era Manes in vita; ma ora, in morte, è Dario, il più
potente dei re».
51
Nel terzo dei quattro discorsi diretti introdotti nel nomo per descrivere la
battaglia navale di Salamina, con un notevole sforzo mimetico, e rendendo il livello
stilistico proporzionale alla persona loquens, Timoteo decide di dare la parola ad un
soldato frigio di Celene, una città della Frigia sud‑occidentale. Il contesto del dialogo
è descritto nei versi che precedono il discorso diretto, attraverso l’introduzione
dell’avversario greco (vv. 140‑9), a cui il soldato frigo si rivolge poi in greco (vv. 150‑
61). Si vedano HORDERN 2002; LAMBIN 2013; il mio intervento «Un soldat phrygien qui
parle grec dans l’armée perse: Timothée de Milet, Perses, 140‑161», tenuto nell’ambito
del Convegno Internazionale «Beyond all Boundaries: Anatolia in the Ist Millennium
BC», Ascona, Conference Center Monte Verità, 17‑22 giugno 2018 (prossima
pubblicazione).
68 Milena Anfosso
ἀλλὰ ναυβάτην
φορτηγόν, ὅστις ῥῶπον ἐξάγει χθονός
ma come un mercante
che va per mare ed esporta merce dal suo paese
doveva restare un re troiano nel senso omerico del termine, non persiano,
come le fonti iconografiche testimoniano, almeno fino alla fine del
V sec. a.C.
Margaret C. Miller53 ha sottolineato come l’orientalizzazione del re Pria‑
mo nell’arte greca sia piuttosto tardiva, e collocabile solo verso la fine del
V sec. a.C., proprio in virtù della simpatia di cui godeva questo personag‑
gio. Più in particolare54, si può assistere ad una parziale persianizzazione
di Priamo a partire dal 440 a.C. circa, per passare ad una totale persianizza‑
zione a partire dal 400 a.C. circa. Invece, personaggi più sgradevoli, come
Paride in particolare, assumono attributi orientali quali armi, gioielli e abiti,
già nel corso del VI sec. a.C. Se l’Achilleide fu rappresentata per la prima
volta indicativamente tra il 490 a.C. e il 480 a.C., cioè all’inizio del
V sec. a.C., vi sono allora buone ragioni di credere che sulla scena il re
Priamo non fosse trattato diversamente.
Nel Commento a Omero di Eustazio a Iliade 24, 162 (fr. 243b Mette),
leggiamo che la figura di Priamo velato e affranto, quale è descritta in Iliade
24, 162‑165, avrebbe ispirato il pittore Timante di Sicione, o meglio, di
Citno55 (attivo, probabilmente, fra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C.)
52
Una prova di quanto appena detto si trova, ad esempio, nel Panegirico (§159) di
Isocrate, in cui l’oratore, per spronare i Greci ad unirsi in una spedizione contro i
Persiani nel 380 a.C., considera la poesia di Omero come il mezzo per inculcare nei
giovani l’odio per il barbaro, categoria nella quale si fondono i Troiani, antichi nemici,
e i Persiani, nuovi nemici.
53
MILLER 1995, 449.
54
Dati comunicati da Margaret C. Miller in un intervento dal titolo «The
Persianization of Greek Myth», tenuto nell’ambito del Simposio Internazionale
«Ancient Persia and the West», University of California, Los Angeles, 25 aprile 2018.
55
Quintiliano (Inst. Orat. 11, 13, 12) definisce Timante, con maggior verosimi‑
I Frigi nell’universo tragico greco 69
[…] ὅπερ καὶ Αἰσχύλος μιμησάμενος τήν τε Νιόβην καὶ ἄλλα πρόσωπα
ὁμοίως ἐσχημάτισε, σκωπτόμενος μὲν ὑπὸ τοῦ Κωμικοῦ, ἐπαινούμενος
δὲ ἄλλως διὰ τὸ τῆς μιμήσεως ἀξιόχρεων.
5.2.2. I bassorilievi
Se si considerano le fonti iconografiche legate in qualche modo ai Frigi,
la prima rappresentazione della pesatura del cadavere di Ettore su di una
bilancia compare su di un rilievo melio57 risalente al 450‑440 a.C.: su di essa
il re Priamo si trova a destra della bilancia, mentre due personaggi vi
appoggiano sopra gli oggetti preziosi del riscatto. La figura del re Priamo
non presenta alcun tratto orientalizzante: ha il capo coperto in segno di
lutto, e mentre guarda il figlio morto che giace nudo, per terra, davanti alla
bilancia, porta la mano sul volto in segno di dolore. La rappresentazione
sul rilievo è inedita, e non presenta punti in comune né con la tradizione
58
Bassorilievo su cratere in ceramica da Egnazia. Riproduzione di un originale
antico. Krater F 3884, Berlin, Staatlische Museen zu Berlin, Antikensammlung.
WUILLEUMIER 1930, 92, n. 7; KOSSATZ‑DEISSMANN 1978, 25, 30‑1.
59
Cratere a volute apulo. S.Pietroburgo, Ermitage Mus. B1718. Datato al 350 a.C.;
attribuito al Pittore di Licurgo. TRENDALL‑CAMBITOGLOU 1978‑1982, 424.
60
I nomi dei vari personaggi sono letteralmente incisi sul vaso, cosa che ne agevola
notevolmente l’identificazione.
61
La forte somiglianza con la tragedia eschilea ha fatto ipotizzare a GARZYA 1995a,
47, che possa trattarsi di una prova della presenza nel dramma di Atena, in quanto
protettrice di Achille, insieme all’altra divinità, Ermes, anche se forse, come MOREAU
1996, 8, sottolinea, il pittore doveva essere «infidèle à la lettre, mais fidèle à l’esprit»,
nel senso che forse era stato in grado di cogliere il parallelismo del ruolo conciliatore
delle due divinità, l’una nei Frigi, l’altra nelle Eumenidi.
I Frigi nell’universo tragico greco 71
5.3.1. Eschilo
Non si può condividere un’interpretazione sbrigativa secondo la quale
fu proprio Eschilo l’autore responsabile della confusione Troia‑Frigia e
dell’uso dei due etnonimi in qualità di sinonimi, come si può osservare
invece negli autori tragici successivi. Ripercorrendo il corpus eschileo
conservato, infatti, la Frigia e i Frigi sono nominati da Eschilo solo due
volte:
62
Frammento di cratere. New York, Metropolitan Museum 20.195. Datato al 390
a.C. TRENDALL‑CAMBITOGLOU 1978‑1982, 166.
63
Frammento di cratere. New York, Metropolitan Museum 10.210.17A. Datato al
350 a.C. e messo in relazione con il Pittore di Konnakis. KOßATZ‑DEIßMANN 1978, 23‑
32, tav. 3, num. 2.
64
Lekythos. Ginevra, Collection Musée d’art et d’histoire, HR 134. Datata al 340‑330
a.C. e attribuita al Pittore di Dario. AELLEN‑CAMBITOGLOU‑CHAMAY 1986, 136‑49.
72 Milena Anfosso
Addirittura, il fr. 252 Mette (= P.Oxy. XX 2256 fr. 85) è stato attribuito dal
filologo al coro e, secondo la sua lettura, conterebbe esplicitamente
l’etnonimo «Troiani», Τρώων, cosa che sarebbe davvero utile ai fini di
questo studio, in quanto menzionerebbe gli abitanti di Troia in quanto
«Troiani», e non «Frigi». Tuttavia, se si guarda allo stato lacunoso del papiro
in questione, risulta abbastanza difficile, almeno per quanto mi riguarda,
esprimere un giudizio insindacabile in merito67.
65
BOTHE 1844.
66
SOMMERSTEIN 2008, 263‑5.
67
Per questo frammento di tradizione diretta papiracea si è consultata la fotografia
I Frigi nell’universo tragico greco 73
<Coro:>… animi
La molto lacrimevole sorte dei Troiani
[…]
5.3.2. Sofocle
Se guardiamo ai tragici successivi, invece, la situazione cambia. Per
quanto riguarda Sofocle, i Frigi sono nominati in una sola tragedia
conservata interamente, l’Aiace (Αἴας), rappresentata tra il 450 e il 440 a.C.,
probabilmente nel 445 a.C., ai vv. 210, 488, 1054, 1292. Per il resto, li tro‑
viamo citati nei frammenti delle seguenti tragedie: nel fr. 364 Radt di Kophoi
Satyroi (Κωφοί Σάτυροι), nel fr. 412 Radt dei Misii (Μυσοί), nel fr. 368 Radt
delle Lakainai (Λάκαιναι), nel fr. 373 Radt del Laocoonte (Λαοκόων). I Frigi,
però, risultano confusi con i Troiani soltanto tre volte in totale:
• nel fr. 368 Radt: […] ἄρξασι Φρυξὶ τὴν κατ’ Ἀργείους ὕβριν […],
«quando i Frigi diedero inizio all’oltraggio nei confronti degli Argivi»;
Sappiamo, inoltre, che Sofocle avrebbe scritto una tragedia dallo stesso
titolo di quella di Eschilo, i Frigi, Φρύγες, alla quale sono stati attribuiti
soltanto due frammenti (frr. 724‑725 Radt), e la cui trama doveva essere
ispirata verosimilmente a quella della tragedia dell’illustre predecessore,
se è vero quanto si legge in uno scolio al Prometeo (schol. ad Prom. 436), cioè
che Achille restava in silenzio anche nella tragedia sofoclea, benché il mo‑
tivo addotto risultasse essere la sua caparbietà (αὐθάδεια). Nei frammenti
conservati di questa tragedia non ci sono tracce, purtroppo, dell’uso
sinonimico dei due etnonimi Frigi e Troiani.
5.3.3. Euripide
In Euripide, invece, la nuova tendenza che vede l’uso sinonimico dei
due etnonimi «Frigi» e «Troiani» e l’identificazione concettuale con i Per‑
siani, trova il proprio punto di arrivo. Nelle tragedie conservate e nei
frammenti restanti, dal 429 a.C. (se si accetta la datazione più alta per
l’Andromaca) al 405 a.C., i Frigi e la Frigia sono nominati per un totale di
122 volte, di cui 101 per fare riferimento ai Troiani, a Troia, o alla Troade,
nelle tragedie ispirate alla saga troiana, fino a un massimo di 25 volte
rilevato nelle Troiane (415 a.C.). I sinonimi per Troia che Euripide utilizza
più spesso sono del tipo Φρυγῶν πόλις, Φρυγῶν γαῖα, Φρυγῶν χθών.
Tuttavia l’utilizzo dell’etnonimo per identificare realtà genuinamente frigie
coesiste, in particolare modo nelle Baccanti (405 a.C.). Ecco la lista dei dati:
• nell’Ecuba (424 a.C.), ai vv. 4, 350, 492, 776, 827, 1063, 1111, 1141;
• nelle Troiane (415 a.C.), ai vv. 7, 18, 24, 64, 338, 391, 418, 432, 476, 531,
563, 567, 575, 709, 716, 754, 773, 926, 960, 974, 994, 1164, 1208, 1210,
1288, ma con le seguenti eccezioni: al v. 151, musica frigia; v. 545,
melodie frigie; v. 1075, festività sacre di Frigia; v. 1220, abito frigio;
• nell’Elettra (413 a.C.), ai vv. 314, 336, 457, 681, 917, 1001, 1281;
• nell’Elena (412 a.C.), ai vv. 39, 42, 109, 229, 369b, 573, 608, 928;
• nell’Oreste (408 a.C.), ai vv. 888, 1382, 1434, 1480b, 1484, 1515, 1518,
1614, 1640, ma ai vv. 1111, 1367, 1417, 1447, 1473, si fa esplicitamente
riferimento agli schiavi frigi, mentre al v. 1351 alla codardia
proverbiale dei Frigi e al v. 1426 (2x) ai costumi frigi;
• nell’Ifigenia in Aulide (405 a.C.), ai vv. 71, 92, 662, 672, 682, 773, 788,
970, 1053, 1197, 1284, 1290, 1379, 1476, 1511, 1525, 1628, ma i flauti del
v. 576 sono davvero frigi; nel dramma satiresco Il Ciclope (forse del
427 a.C.), ai vv. 200, 284, 295;
• nelle Baccanti (405 a.C.), invece, ai vv. 14, 58, 86, 127, 140, 159, è più
probabile che si faccia realmente riferimento alla Frigia;
I Frigi nell’universo tragico greco 75
• troviamo infine i Frigi nominati al posto dei Troiani nel fr. 43, v. 36 e
probabilmente nel fr. 23, v. 14 dell’Alessandro; nel fr. 899 Nauck = fr.
10 Page, v. 95; nel fr. 48, v. 101 dell’Antiope; nel fr. 9c Page, v. 25 si fa
invece riferimento ad uno schiavo frigio.
68
Sulla figura dello schiavo frigio nell’Oreste si veda PORTER 1994, 173‑250.
69
Il passaggio, che va dal v. 1369 al v. 1502, è interrotto soltanto da sei interventi
del coro in trimetri giambici, e la varietà di metri e ritmi offriva una buona opportunità
per l’attore che interpretava la parte dello schiavo frigio di presentare al pubblico un
vero e proprio pezzo di bravura. Nella tragedia, le monodie come quella dello schiavo
frigio erano normalmente riservate ai personaggi femminili più importanti, non agli
schiavi anonimi, e soprattutto mai per esporre fatti di cui gli spettatori non erano già
a conoscenza, come in questo caso. Soprattutto in questo caso, diremmo, dal momento
che i fatti raccontati dallo schiavo sono ben lontani dalla tradizione e completamente
frutto della fantasia dell’autore. Lo schiavo frigio è poi ancora protagonista di una
scena comica che, per diversi motivi, è stata considerata frutto di interpolazione da
parte della critica, in cui Oreste e lo schiavo frigio si affrontano faccia a faccia. Per una
discussione approfondita sull’ipotesi dell’interpolazione della scena, si veda PORTER
1994, 215‑50.
76 Milena Anfosso
a) in Eschilo (inizio del V sec. a.C.) non abbiamo alcuna prova certa
dell’uso deliberato di «Frigi» e «Troiani» in quanto sinonimi, ed essi
non sono, purtroppo, presenti in nessuno dei frammenti conservati
dei Frigi o il Riscatto di Ettore;
b) in Sofocle (metà del V sec. a.C.) ne troviamo tre, uso che potremmo
definire sporadico, parallelamente alla parziale persianizzazione del re
Priamo nell’arte greca a partire dal 440 a.C. (cf. supra § 5.2.1.);
Va sottolineato poi che i citati scolii A ad Il. 2, 862 e BCE ad Il. 2, 862 sono
gli unici che esplicitamente fanno il nome di Eschilo quale autore della
confusione Troia‑Frigia. Tutti gli altri scolii che commentano l’equazione
tra Frigi e Troiani, cioè A ad Il. 3, 184 (= I 392 Erbse), T ad. Il. 10, 431 (= III 92
Erbse), BCE ad Il. 10, 431 (= III 92 Erbse), AT ad Il. 20, 216‑7 (= V 35 Erbse),
A ad Il. 24, 545 (= V 610 Erbse), mettono in evidenza il fatto che questa,
70
WEST 1987, 277.
I Frigi nell’universo tragico greco 77
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80 Milena Anfosso
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Sofocle, fr. 871 Radt
ΜΕΝΕΛΑΟΣ
ἀλλ᾽οὑμὸς ἀεὶ πότμος ἐν πυκνῷ θεοῦ3
τροχῷ κυκλεῖται4 καὶ μεταλλάσσει φύσιν,
ὥσπερ σελήνης ὄψις εὐφρόνας5 δύο
στῆναι6 δύναιτ᾽ ἂν οὔποτ᾽ ἐν μορφῇ μιᾷ,
ἀλλ᾽ ἐξ ἀδήλου πρῶτον ἔρχεται νέα, 5
πρόσωπα καλλύνουσα7 καὶ πληρουμένη,
1
Cf. RADT 1977.
2
I vv. 5‑8 sono tramandati da Plutarco anche in De curiositate 5, 517 d, e in
Quaestiones Romanae 76, 282 a.
3
Θεοῦ è da intendere femminile, in riferimento a Τύχη (cf. LLOYD‑JONES 1996, 381
e già HEADLAM 1907, 291 ss.), come confermano le parole introduttive alla citazione:
ἣν οὖν ὁ Σοφοκλέους Μενέλαος εἰκόνα ταῖς αὑτοῦ τύχαις παρατίθησιν. PADUANO
1982, 1029, intende invece in riferimento al Sole («il mio destino si volge nella corsa
veloce del Sole»).
4
Cf. Pi. P. 2, 22: ἐν πτερόεντι τροχῷ … κυλινδόμενον.
5
εὐφρόνας Grotius: εὐφρόναις codd., che non si concilia con δύο. εὐφρόνη
designa, come è noto, la notte già in Esiodo (op. 560) e Eschilo (Pers. 221). Cf. anche Pi.
N. 7, 3; Hdt. 7, 12, 1 e al. In Sofocle è presente in Tr. 149, El. 19 e 259.
6
RUPPRECHT 1922, 393, proponeva senza necessità μεῖναι in luogo di στῆναι
(«permanere», in luogo di «star fisso»).
7
Il riferimento alla bellezza e alla pienezza della luna è di ascendenza saffica
(ringrazio Tiziana Drago per lo spunto): cf. il fr. 34 Voigt (trad. di ALONI 1997: «le stelle
intorno alla bella luna di nuovo celano lo splendente aspetto, quando piena brilla più
forte, sopra <tutta la terra> *** argentea», ma per il motivo della luna in contesti erotici
vd. anche frr. 96, 154 e 168 B, su cui ALONI 1997, 68‑69, 158‑161, 252‑253, 264‑265): in
cui la poetessa varia un modulo già omerico (come osservato pure da FERRARI 1998,
84 Daniela Milo
Gira incessante il mio destino sulla ruota salda della dea e cambia natura,
come il volto della luna, che non può mai conservare per due notti lo stesso
aspetto, ma dall’oscurità dapprima spunta, nuova, abbellendo e riempiendo
il suo volto, poi, ogni qualvolta appare più luminosa, di nuovo scompare e
torna nel nulla10.
Egli, dopo aver governato per sette anni sulla Macedonia e aver perso
poi il potere, si rifugiò a Cassandrea; a questi eventi seguirono il suicidio
della moglie, la partenza per la Grecia con l’intento di ricompattare i suoi
fautori, strateghi e amici ivi dimoranti. In questo contesto è inserita la
menzione dei versi di Sofocle. Plutarco si avvale ancora di altre citazioni
129: cf. Il. 8, 555‑559): il riferimento alla luna nel nostro frammento è tuttavia in contesto
completamente diverso, e il richiamo saffico – in particolare per quanto concerne
l’elemento ‘nuovo’ della bellezza della luna –, si limita al livello lessicale: nel fr. 871
Radt la luna bella e piena allude a uno stato di prosperità, che proprio nel momento
del suo culmine – cui corrisponde il massimo splendore dell’astro – precipita nel nulla.
8
εὐγενεστάτη in alcuni codici plutarchei, il cui senso appare qui improprio. È
probabile che ambedue le lezioni siano erronee e che εὐγενεστάτη nasconda
εὐαγεστάτη (così anche M. Pohlenz), di cui εὐπρεπεστάτη potrebbe essere glossa.
9
κἀπί Radt ex Plu. quaest. Rom. e curios. (vd. infra); in Dem. è scritto κεἰς τό, lezione
già ritenuta potior da Nauck. Naturalmente, le due lezioni omologhe rinviano a due
diversi excerpta, fonti di Plutarco.
10
Trad. di MARASCO 1994, 113.
11
Trad., qui e in avanti, di C. Carena in AMANTINI/CARENA/MANFREDINI 1995.
Sofocle, fr. 871 Radt 85
12
Riporto il frammento secondo l’ed. RADT 1977 («tu mi ha generato, e sembra che
tu mi distruggerai»), al cui apparato rinvio per le questioni di carattere testuale (fr. 359
Radt = 699 Mette). Questo verso eschileo è citato da Plutarco anche in Mor. 827 c (tribus
rei publ. gener.).
13
Cf. anche Mor. 950 e‑f (frig.); 1070 a (adv. Stoic.).
14
Trad., per le Questioni romane, di CARLÀ‑UHINK 2017.
86 Daniela Milo
φαμὶ γὰρ οὐκ ἀποτρύειν / ἐλπίδα τὰν ἀγαθὰν / χρῆναί σ᾽· ἀνάλγητα γὰρ
οὐδ᾽/ ὁ πάντα κραίνων βασιλεὺς / ἐπέβαλε θνατοῖς Κρονίδας· / ἀλλ᾽ἐπὶ
πῆμα καὶ χαρὰ / πᾶσι κυκλοῦσιν, οἷον Ἄρ‑ / κτου στροφάδες κέλευθοι. /
μένει γὰρ οὔτ᾽αἰόλα / νὺξ βροτοῖς οὔτε Κῆρες οὔτε πλοῦτος, / ἀλλ᾽ἄφαρ
βέβακε, τῷ δ᾽ἐπέρχεται / χαίρειν τε καὶ στέρεσθαι.
Affermo che non devi stancare la speranza buona. Neanche il sovrano che
regge tutto, il figlio di Crono, ha destinato sorti senza dolore ai mortali. La
pena e la gioia si alternano per tutti, come le vie dell’Orsa che muovono
ruotando. Ai mortali non restano né la notte screziata né le sventure, e
neanche la ricchezza: no, svaniscono in fretta, e già toccano a un altro la gioia
e la privazione16.
15
Trad. di INGLESE 1996.
16
Traduzione, qui e in avanti, per le Trachinie, di RODIGHIERO 2004. Vd. anche fr.
879a Radt (incertae sedis): οὐ χρή ποτ᾽ ἀνθρώπων μέγαν ὄλβον ἀπο‑ / βλέψαι·
τανυφλοίου γάρ ἰσαμέριος / ὅστις αἰγείρου βιοτὰν ἀποβάλλει: «non bisogna
guardare alla grande prosperità dell’uomo; con la stessa durata delle foglie del pioppo,
così si consuma la vita»: trad. PADUANO 1982, 1031; cf., per il commento al fr. 879a,
MILO 2008, 120‑124. Il concetto tuttavia, anche quando non è esplicitamente formulato,
è alla base della tragicità sofoclea, in linea con la visione erodotea (1, 32) che la vita
dell’uomo, se felice o meno, vada giudicata nel suo ultimo giorno (vd., p. es., Tr. 1‑3:
Λόγος μέν ἐστ᾽ ἀρχαῖος ἀνθρώπων φανεὶς / ὡς οὐκ ἂν αἰῶν᾽ἐκμάθοις βροτῶν,
πρὶν ἂν / θάνῃ τις, οὔτ᾽εἰ χρηστὸς οὔτ᾽εἴ τῳ κακός: «Esiste un detto antico, fra i
mortali: che non si può conoscere la vita di un uomo prima che costui sia morto, se gli
è stata propizia o sfavorevole»; OT 1527‑1530 εἰς ὅσον κλύδωνα δεινῆς συμφορᾶς
ἐλήλυθεν, / ὥστε θνητὸν ὄντ᾽ ἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα
μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών: «e allora
fissa il tuo occhio al giorno estremo e non dire felice uomo mortale, prima che abbia
varcato il termine della vita senza aver patito dolore.» Trad. di FERRARI 1994).
Sofocle, fr. 871 Radt 87
concetti vicini a quelli espressi nel nostro frammento; si veda, p. es., lo Ione
(1512‑1517):
Welcker (ap. RADT 1977, 565) ipotizzò che il fr. 871 appartenesse alla
Richiesta di Elena (Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης). In questa tragedia, della quale
restano pochi frammenti18, Sofocle raccoglieva dai Κύπρια un episodio del
mito troiano, rielaborato su alcuni luoghi iliadici19, collocato nelle prime
17
Trad. di GUIDORIZZI 2001.
18
frr. 176‑180a Radt. Il fr. 176 presenta un riferimento alla lingua spartana (176: καὶ
γὰρ χαρακτὴρ αὐτὸς ἐν γλώσσῃ τί με / παρηγορεῖ Λάκωνος ὀσμᾶσθαι λόγου); nel
fr. 177, lacunoso, si legge di una donna che viene presa e che tormenta la sua guancia:
γυναίκα δ᾽ ἐξελόντες ἣ θράσσει γένυν / † τε ὡς τοῦ μὲν ἕωλον γραφίοις
ἐνημμένοις †; il fr. 178 è costituito dalle parole di un personaggio, probabilmente
Elena, che afferma che sarebbe preferibile bere sangue di toro, notoriamente mortale,
piuttosto che avere cattiva fama: ἐμοὶ δὲ λῷστον αἷμα ταύρειον πιεῖν / καὶ μὴ ᾿πὶ
πλεῖον τῶνδ᾿ἔχειν δυσφημίας; il fr. 179 è un verbo che allude all’atto di opporsi:
ἀναχαιτίζει (ἀπειθεῖ καὶ ἀντιτείνει); il fr. 180 è un riferimento all’oracolo dato a
Calcante e alla contesa tra Calcante e Mopso in Cilicia, fatti attribuiti da Strabone (14,
1, 27; 14, 5, 16) alla Richiesta di Elena. Su 180a, Παμφυλία, vd. infra n. 23. Non trova
consenso l’ipotesi di Hermann (ap. RADT 1977, 178), basata su fr. 177, che la Ἀπαίτησις
fosse un dramma satiresco.
19
L’ambasceria di Menelao e Odisseo a Troia per il recupero di Elena agli inizi della
guerra è ricordata anche in Iliade 3, 203‑224 (τειχοσκοπία) dal vecchio Antenore, che
in avanti (7, 348‑352) propugna all’assemblea dei Troiani la restituzione di Elena e della
sua dote pur di risolvere la guerra, ma è contestato da Paride; da 11, 138‑142 appare
che Antenore, in occasione dell’ambasceria, avrebbe ospitato i due Greci, salvandoli
dalla morte sollecitata dal troiano Antimaco (Il. 11, 138‑142, in cui parla Agamennone
che si accinge a uccidere i due figli di Antimaco: εἰ μὲν δὴ Ἀντιμάχοιο δαΐφρονος
υἱέες ἐστόν, / ὅς ποτ᾽ ἐνὶ Τρώων ἀγορῇ Μενέλαον ἄνωγεν, / ἀγγελίην ἐλθόντα
σὺν ἀντιθέῳ Ὀδυσῆϊ, / αὖθι κατακτεῖναι μηδ᾽ ἐξέμεν ἂψ ἐς Ἀχαιούς, / νῦν μὲν δὴ
τοῦ πατρὸς ἀεικέα τείσετε λώβην: «se davvero siete figli del bellicoso Antimaco, che
nell’assemblea dei Troiani un giorno dava consiglio su Menelao, venuto in ambasceria
con Odisseo divino, di ammazzarlo lì stesso e non rimandarlo agli Achei, ora sì che
88 Daniela Milo
sconterete l’offesa indegna di vostro padre!» [trad., qui e in avanti, per l’Iliade, di CERRI
1999]). L’ambasceria dei Greci per la richiesta di Elena si pone dopo lo sbarco a Lemno,
l’abbandono di Filottete e la morte di Protesilao, quindi dopo l’approdo degli Achei a
Troia ma prima dell’assedio alle mura, come si evince dall’argumentum dei Cypria,
tramandato da Proclo nella Chrestomathia (IV, 84, 152‑154 Severyns; cf. Cypr. arg. 1, 42,
rr. 55‑57 Bernabé; cf. anche SCAIFE 1995, 167). Tuttavia secondo [Ps.] Apollod. epit. 3,
28 (vd. GANTZ 1993, 595‑596; cf. anche lo scolio a Il. 3, 205 [I, 396, 69‑70 Erbse]),
l’ambasceria di Menalo si sarebbe mossa da Tenedo, quindi ancor prima dell’arrivo
dei Greci a Troia.
20
Cf. JOUANNA 2007, 623‑624.
21
Cf. PADUANO 1982, 1029, n. 337.
22
I figli e i discendenti di Antenore e della moglie Teano, ricordata da Omero come
sacerdotessa di Atena (Il. 6, 297‑299: αἱ δ’ ὅτε νηὸν ἵκανον Ἀθήνης ἐν πόλει ἄκρῃ, /
τῇσι θύρας ὤιξε Θεανὼ καλλιπάρῃος, / Κισσηΐς, ἄλοχος Ἀντήνορος ἱπποδάμοιο:
«quando giunsero al tempio d’Atena sull’alto della rocca, aprì la porta Teano dalle
belle gote, figlia di Cisse, sposa d’Antenore domatore di cavalli»).
23
L’ipotesi doveva trovare fondamento nel dith. 15 Maehler di Bacchilide, benché
molto lacunoso, dal titolo Ἀντηνορίδαι ἢ Ἑλήνης ἀπαίτησις: in questa composizione
veniva evocata, in incipit, Teano e indi i componenti dell’ambasceria greca (Odisseo e
Menelao) venuti per la trattativa della proposta restituzione di Elena; dopo un’ampia
lacuna, Antenore presentava a Priamo e ai suoi figli la proposta dei Greci; veniva
convocata l’assemblea dei guerrieri troiani, davanti alla quale Menelao teneva un
discorso. Nel fr. 180a Radt pare che Sofocle faccia menzione dell’oracolo secondo il
quale Calcante sarebbe morto in Panfilia, dopo aver incontrato un indovino di lui più
valente (cf. anche Strabone 14, 1, 27 e 5, 16, su cui supra n. 18). Doveva essere questo
un dettaglio estraneo all’azione drammatica, riferito forse da un deus ex machina,
espediente che pare che Sofocle abbia utilizzato anche in altre sue tarde tragedie.
Sofocle, fr. 871 Radt 89
24
Per aver ricevuto e protetto Odisseo e Menelao quando vennero in ambasceria
per la richiesta di Elena, la casa, la famiglia e i beni di Antenore non conobbero il
saccheggio nell’ultima notte di Troia: su ordine di Agamennone, la porta della casa
del nobile troiano fu ricoperta da una pelle di leopardo (o pantera) a segno della sua,
per così dire, extraterritorialità (cf. lo scolio a Il. 3, 205a [1, 396 Erbse] e S. Aj. Locr. fr.
11 Radt; questo celebre dettaglio sarebbe stato raffigurato da Polignoto, amico di
Sofocle, a Delfi: cf. Pausania 10, 26, 7). L’argomento del dramma è presente nel dith. 15
di Bacchilide (cf. supra n. 23); che Sofocle, unico fra i tragici, avesse trattato l’argomento
negli Antenoridi è detto da Strabone 13, 1, 53, secondo il quale, e in conformità alla
tradizione mitica, gli Antenoridi trovarono un primo rifugio in Tracia, per indi
spostarsi, col gruppo degli Eneti, sulle coste adriatiche e precisamente nel Veneto, dove
Antenore avrebbe fondato Padova (vd. anche Liv. 1, 1 e i frammenti di Accio di una
tragedia omonima). Degli Antenoridi restano solo tre frammenti (137‑139 Radt).
25
Per un’ampia e accurata descrizione del Cratere Astarita e delle problematiche
artistico‑letterarie connesse, cf. la trattazione di IOZZO 2012, 27‑40.
26
Cf. supra n. 19.
27
Non mancano altre ipotesi: i gradoni potrebbero raffigurare una scalinata verso
le mura di Troia (BEAZLEY 1958, discusso in IOZZO 2012, 37‑40 che, sulla base dell’analisi
dell’iconografia di Teano, è convinto che i gradoni siano quelli dell’altare del santuario
di Atena Poliade sull’acropoli di Ilio e che il contesto sia quello della supplica; Iozzo
evidenzia altresì l’importanza del ruolo svolto da Teano nella scena, e rimanda a Bacch.
dith. 1 [IOZZO 2012, 40]). Per il contesto dell’ambasceria, cf. DAVIES 1977; BÉRARD 1977.
28
BÉRARD 1977, 16, non vede nella raffigurazione delle tre figure maschili un
atteggiamento da supplici, sia sulla base di considerazioni di natura iconografica, sia
per il contesto, e ritiene invece che i gradoni fossero quelli di una tribuna, posta a lato
di una piazza, ipotizzando dunque per l’ambasceria una scena assembleare (cf. la
discussione in IOZZO 2012, 38‑40).
29
Cf. DAVIES 1981, in part. 812 e 815.
30
Cf. BEAZLEY 1958, in part. 234‑238; DAVIES 1977, 73‑85; IOZZO 2012, 29‑30, che
90 Daniela Milo
Bacchilide (dith. 15, cf. n. 23)31, e non è da escludere che una scena simile
fosse anche nel dramma sofocleo. Il particolare poi del discorso di Menelao
ai Troiani nella situazione di difficoltà in cui si trovava, testimoniato anche
in Il. 3, 203 ss. (cf. n. 19), dove Antenore rileva i limiti della retorica
dell’Atride rispetto a quella di Odisseo32, tenuto conto dell’impronta
dimessa del nostro frammento, potrebbe confortarne l’appartenenza
proprio alla Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης.
osserva nello specifico (30): «L’elegante e coloratissima cavalcata si svolge lungo tutta
la circonferenza del vaso, procedendo al passo, lenta e solenne, e rivelando la tensione
latente dell’incontro».
31
Cf. BEAZLEY 1958 e DAVIES 1977, in part. 76‑77 (quest’ultimo, a n. 23, non esclude
la possibile dipendenza del Pittore Astarita e di Bacchilide da un poema di Arione di
Lesbo. Cf. anche IOZZO 2012, p. 37 e n. 108). Alla stessa situazione potrebbero far
riferimento anche le raffigurazioni di altri vasi corinzi: cf. AMYX 1988, 376, n. 75 e 633,
n. 40; IOZZO 2012, 34‑35, che ipotizza che la scena di ambasceria raffigurata su un
kantharos attico a figure rosse da Gravina, attribuito al Pittore di Eretria, sia collegabile
alla Richiesta di Elena o agli Antenoridi di Sofocle.
32
Il. 3, 209‑224: «quando poi s’incontrarono con i Troiani riuniti, se ne stavano in
piedi, Menelao sovrastava con le sue ampie spalle, se invece sedevano entrambi, il più
imponente era Odisseo; ma quando poi formulavano in pubblico discorsi e pensieri,
Menelao allora parlava conciso, poche battute, ma con grande efficacia, ché non era di
molte parole né si lasciava sfuggire sciocchezze; del resto era anche più giovane.
Quando invece s’alzava a parlare Odisseo scaltrito, se ne stava in piedi a lungo,
guardava all’ingiù, fissando gli occhi a terra, non agitava lo scettro né avanti né
indietro, ma lo teneva immobile, alla maniera di un inesperto: avresti detto che era
imbronciato o addirittura fuori di sé. Ma quando svolgeva dal petto la sua voce
possente e le parole, dense come fiocchi di neve d’inverno, con Odisseo allora nessuno
si sarebbe messo in gara: non stavamo più come prima a stupirci di lui, per il suo
aspetto».
33
Cf. A. Ag. 104 ss. È dubbio che vi sia allusione a lui a Ch. 1041 (cf. CRISCUOLO
2016a, 106‑110). Per quanto riguarda l’Eschilo frammentario, lo si cita in fr. 180a, 5
Sommerstein = 451k Radt (cf. SOMMERSTEIN 2008, 183‑185), del Palamede, a proposito
del rapimento di Elena e del suo desiderio di vendetta.
Sofocle, fr. 871 Radt 91
34
Aj. 1077‑1080: ἀλλ᾽ ἄνδρα χρή, κἂν σῶμα γεννῄσε μέγα, / δοκεῖν πεσεῖν ἂν
κἂν ἀπὸ σμικροῦ κακοῦ. / δέος γὰρ ᾧ πρόσεστιν αἰσχύνη θ᾽ ὁμοῦ, / σωτηρίαν
ἔχοντα τόνδ᾽ ἐπίστασο («un uomo deve sapere, anche se ha avuto da natura un corpo
immane, che può soccombere, sia pur per lieve colpa; chi invece possiede insieme il
senso del timore e del rispetto – sappilo – troverà salvezza»). 1087‑1090: ἕρπει παραλ‑
λὰξ ταῦτα. πρόσθεν οὗτος ἦν / αἴθων ὑβριστής, νῦν δ᾽ ἐγὼ μέγ᾽ αὖ φρονῶ («tali
cose procedono con alterna vicenda. Prima costui era focoso, un violento; ora sono io
ad insuperbire» [trad. di PATTONI 1997]).
35
Nella contesa per la sepoltura di Aiace, è stata vista una eco della questione
riguardante Temistocle, il vincitore di Salamina, che, ostracizzato nel 472‑471 e morto
nel 459 a Magnesia (riabilitato poi da Pericle), fu sepolto clandestinamente in Attica,
in quanto traditore (cf. Thuc. 1, 138 e Plu. Them. passim).
36
Cf. CRISCUOLO 1998.
37
Cf. CRISCUOLO 2016b, 473‑502.
38
Parallelismi tra questi due drammi, in particolare in relazione al gioco tra
92 Daniela Milo
illusione e realtà nel teatro, e alle figure di Elena e Ifigenia, sono stati istituiti da ZEITLIN
2010, 263‑282 (per il riferimento all’Oreste, cf. in part. 269, 278‑282). Per quanto riguarda
il nostro frammento, sembra potersi escludere l’influenza su Sofocle del personaggio
quale trattato nell’Oreste.
39
Tragedia per lo più valutata molto negativamente dalla critica. Cf., p. es.,
BLAICKLOCK 1952, 85‑93; BIFFI 1961, 94; KATSOURIS 1975, 80‑81; FUSILLO 1997, 13. Cf.
anche PODLECKI 1970, 401‑408, che ridimensiona la figura di Menelao dai tratti ‘comici’;
SEGAL 1971, 553‑614, che attribuisce a Menelao l’emblema della crisi dei valori bellici
da lui rappresentati; KANNICHT 1969, II, 121‑122. Una rivalutazione del personaggio è
in BELARDINELLI 2003, in part. 173‑177, sulla base dell’analisi della struttura della scena
del riconoscimento: alla creazione della ‘nuova’ immagine che il poeta offre di Elena
nella tragedia omonima avrebbe contribuito anche il ‘nuovo’ Menelao (175). Già DIRAT
1976, 3‑17, metteva in luce la vicinanza del Menelao dell’Elena al modello omerico (7
s.).
40
Così, in modo deciso, BELARDINELLI 2003, 172.
41
A 386 Menelao peraltro entra in scena con un monologo che è ‘speculare’ a quello
di Elena a 1‑67 e che funge quasi da secondo prologo (cf. KANNICHT 1969, II, 10‑13;
BELARDINELLI 2003, 165ss. e n. 17 e, per uno studio globale sulla problematica del
secondo prologo, CRISCUOLO 1998, 67‑83, in cui è la disamina anche del caso dell’Oreste
[75‑76]).
42
Cf. PODLECKI 1970, 404: “Menelaus’ lament for ‘the robes of time past, the
gleaming luxurious clothes which the sea took’ (423‑424) is not meant to tickle our
risibility, but rather to show us how deeply he feels his loss of kingly status”.
Sofocle, fr. 871 Radt 93
ora per lui, errabondo per il mare, senza approdo in patria43. Il Menelao
dell’Elena è insomma un derelitto: gli stracci che indossa stridono con il
passato splendore delle vesti di un tempo, portate via dal mare44. Nel suo
secondo monologo (483‑514), appresa la presenza a corte di un’altra Elena,
valuta diverse possibilità di azione, e considera l’eventualità di dover
chiedere di necessità sostentamento al re del luogo; è ormai al culmine dei
mali. Questa consapevolezza tuttavia non lo getta nello sconforto più di
tanto, perché egli sa bene di non avere alternative e di dover escogitare
nuovi mezzi per vivere (514 δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον). Un
Menelao, dunque, derelitto ma fondamentalmente disincantato, che riesce
a mettere riparo al suo patire nell’accettazione della ἀνάγκη; è insomma
un Menelao ben diverso da quello arrogante e sprezzante dell’Aiace.
Probabilmente il Menelao del fr. 871 è accostabile al Menelao dell’Elena, ma
43
Hel. 397‑403 (si riporta per l’Elena il testo di KANNICHT 1969): καὶ τοὺς μὲν οὐκέτ᾽
ὄντας ἀριθμῆσαι πάρα, / τοὺς δ᾽ ἐκ θαλάσσης ἀσμένους πεφευγότας, / νεκρῶν
φέροντας ὀνόματ᾽ εἰς οἴκους πάλιν. / ἐγὼ δ᾽ἐπ᾽οἶδμα πόντιον γλαυκῆς ἁλὸς / τλή‑
μων ἀλῶμαι χρόνον ὅσονπερ Ἰλίου / πύργους ἔπερσα, κἀς πάτραν χρῄζων μολεῖν
/ οὐκ ἀξιοῦμαι τοῦδε πρὸς θεῶν τυχεῖν («ora posso contare quelli che non ci sono
più, e quelli che sono sfuggiti felici alle insidie del mare e tornano a casa dopo essere
stati dati per morti. Io invece no: continuo a vagare infelice sul mare azzurro e
tempestoso da quando ho espugnato la rocca di Troia; vorrei tanto raggiungere la mia
patria, ma gli dei non mi ritengono degno di questa gioia» [trad., qui e in avanti per
l’Elena, di FUSILLO 1997]). Il tema della vana peregrinazione e del naufragio in Egitto
è in certa misura il Leit Motiv del suo monologo: cf. anche 404‑410: Λιβύης τ᾽ ἐρήμους
ἀξένους τ᾽ ἐπιδρομὰς / πέπλευκα πάσας· χὥταν ἐγγὺς ὦ πάτρας, / πάλιν μ᾽
ἀπωθεῖ πνεῦμα, κοὔποτ᾽ οὔριον / ἐσῆλθε λαῖφος ὥστε μ᾽ ἐς πάτραν μολεῖν. / καὶ
νῦν τάλας ναυαγὸς ἀπολέσας φίλους / ἐξέπεσον ἐς γῆν τήνδε· ναῦς δὲ πρὸς
πέτρας / πολλοὺς ἀριθμοὺς ἄγνυται ναυαγίων («ho navigato lungo tutti gli approdi
deserti e inospitali della Libia; e ogni volta che mi avvicinavo alla mia terra, i venti mi
spingevano di nuovo indietro: nessun vento favorevole è durato tanto da portarmi in
patria. Ora ho persino fatto naufragio: ho perso i miei compagni e sono finito su questa
terra, mentre la nave sbattuta sugli scogli si è fatta in mille pezzi»). 414‑415: ὄνομα δὲ
χώρας ἥτις ἥδε καὶ λεὼς / οὐκ οἶδα («non conosco il nome di questa terra, né che
popolo la abita»). 417‑419: ὅταν δ᾽ ἀνὴρ / πράξῃ κακῶς ὑψηλός, εἰς ἀηθίαν / πίπτει
κακίω τοῦ πάλαι δυσδαίμονος («quando un uomo di alto rango cade nella disgrazia,
l’inesperienza lo fa soffrire di più rispetto a chi è sempre vissuto nella miseria»).
44
Hel. 420‑424: χρεία δὲ τείρει μ᾽· οὔτε γὰρ σῖτος πάρα / οὔτ᾽ἀμφὶ χρῶτ᾽ἐσθῆτες·
αὐτὰ δ᾽εἰκάσαι / πάρεστι ναὸς ἐκβόλοις ἃ ἀμπίσχομαι. / πέπλους δὲ τοὺς πρὶν
λαμπρά τ᾽ἀμφιβλήματα / χλιδάς τε πόντος ἥρπασ᾽ («ma ora il bisogno mi incalza:
non ho cibo, non ho vesti; basta guardare gli stracci strappati alla nave con cui mi sono
coperto; i pepli e gli splendidi mantelli di un tempo, tutto il mio sfarzo se l’è rubato il
mare»).
94 Daniela Milo
dai pochi versi superstiti non appare in lui una prospettiva di reazione e di
salvezza.
Nell’Elena, la lunga scena che porta al riconoscimento vede ‘cadute’ di
Menelao nella disperazione: egli si definisce «l’uomo più sfortunato della
terra» (565: ἔγνως γὰρ ὀρθῶς ἄνδρα δυστυχέστατον); manifesta la
consapevolezza dei suoi guai (589: μέθες με, λύπης ἅλις ἔχων ἐλήλυθα),
consapevolezza acuita dalle parole del servo che nell’accingersi a rivelargli
la vera storia di Elena (605‑621) gli ricorda di aver sopportato infiniti mali
invano (λέγω πόνους σε μυρίους τλῆναι μάτην).
La scena successiva a quella del riconoscimento vede la richiesta di Elena
a Menelao di raccontare le sue vicende, richiesta che l’eroe cerca di eludere:
raccontare significherebbe ripercorrere nuovamente i suoi mali e raddop‑
piare il suo dolore (669‑771), dolore che si acuisce (804: οὕτως ἂν εἴην
ἀθλιώτατος βροτῶν) nel momento in cui viene a sapere dalla moglie che
non può portarla via e che lì dove è giunto lo attende non il suo letto, bensì
una spada (802‑803: οὐδ᾿ ἄρα πρὸς οἴκους ναυστολεῖν <σ᾿> ἔξεστί μοι; /
{Ελ.} ξίφος μένει σε μᾶλλον ἢ τοὐμὸν λέχος). Anche nel successivo
colloquio con Teonoe, Menelao non manca di sottolineare il suo essere
ormai avvezzo alla disgrazia (957‑958: ἐγὼ μὲν οὐ νῦν πρῶτον ἀλλὰ
πολλάκις / ἄθλιος ἂν εἴην, σὺ δὲ γυνὴ κακὴ φανῇ)45. Le ultime parole in
cui egli fa riferimento al suo destino di sventura vengono pronunciate
nell’àmbito della piena messa in atto della μηχανή, perché ormai
Teoclimeno è caduto nell’inganno e acconsente che il falso ospite straniero
si rechi al mare con la donna per libare le offerte al primo marito di Elena:
è nel momento cruciale dunque che Menelao rivolge una sorta di preghiera
a Zeus per ricevere la sua attenzione, essere liberato dai mali dopo tante
sofferenze e poter vivere finalmente felice, perché non sempre tutto può
andare male (1441‑1450). Ancora una volta, dunque, un messaggio di
speranza.
Dai pur esigui versi pervenutici di un perduto dramma sofocleo in cui
il personaggio di Menelao insiste sui rivolgimenti della fortuna e la
precarietà della sua esistenza, è possibile collegare il fr. 871 alla proble‑
matica del Menelao dell’Elena. Se questo è vero, probabilmente Sofocle avrà
subito nella tarda fase della sua produzione l’influenza di Euripide. Il che
non sorprende: l’Edipo Coloneo è inconcepibile senza il precedente delle
Fenicie di Euripide; tematiche euripidee (o almeno lo spirito di queste)
doverono animare altre tarde tragedie, quali, per esempio, il Tereo, la (o le)
Tyro e forse la Niobe.
45
Nel discorso con Teonoe Menelao appare caratterizzato da una certa premura
per l’onore, espressa in una sorta di ‘eloquenza virile’, nonché da razionalità (cf. DIRAT
1976, 11‑12).
Sofocle, fr. 871 Radt 95
Bibliografia
Debate scenes (agones) between two opposing characters have often been
regarded as one of the most distinctive features of Euripidean drama, and
their characteristic aspects as well as the influence of sophistic rhetoric on
them have often attracted the interest of scholars.2 In this paper I intend to
discuss Pasiphae’s apology in Euripides’ fragmentary Cretans (fr. 472e K),3
the longest surviving fragment of this play, where Pasiphae attempts to
defend herself against the accusations of Minos of her sexual intercourse
with the bull Poseidon had sent to him and the subsequent birth of the
monster Minotaur.4
The question whether Pasiphae’s rhesis constitutes the second part of a
symmetrically structured agon replying to the accusations raised in its
first half by Minos5 is debatable. Most scholars argue that this is the
1
I would like to thank Mr B. Gredley for his comments on an earlier draft of this
article. Some parts of it (in a primary form) were included in my paper entitled: «Η
Πασιφάη στους Κρήτες του Ευριπίδη», which was presented at the 10th International
Cretological Congress (Chania, 1‑8 October 2006) and published in its Proceedings (cf.
KORNAROU 2011).
2
Cf. STROHM 1957, 3‑49; DUCHEMIN 1968; COLLARD 1975; LLOYD 1992; DUBISCHAR
2001; BARKER 2009, 267‑365; MASTRONARDE 2010, 207‑245.
3
For the text, I refer to the edition of KANNICHT 2004, unless otherwise stated.
4
The version of the myth Euripides follows in Cretans is attested in Apollodorus
(Bibl. 3, 1, 3‑4) as follows: Minos prayed to Poseidon to send him a bull as a
confirmation of his reign in Crete, vowing that he would sacrifice it to the god in
return. Yet the bull that appeared from the sea was so handsome that Minos decided
to keep him in his herd and sacrificed another animal to Poseidon. In order to punish
Minos, the god afflicted his wife Pasiphae with an irresistible sexual infatuation for
the bull. Daedalus, then, with his art helped the Queen to fulfill her lust by constructing
an artificial wooden cow inside which Pasiphae was hidden and so she consummated
her passion for the bull. The result of this union was the Minotaur, a monster with a
bull’s head and a man’s body, who, in accordance with a divine order, was secluded
by Minos in the Labyrinth, constructed by Daedalus.
5
Cf. the pattern of the agones in E. Med. 465‑575 and Hipp. 936‑1035. As LLOYD (1992,
98 Eleni Kornarou
case,6 while others assert that the lyric verses of the chorus preceding
Pasiphae’s speech, where they advise Minos to conceal his wife’s shameful
deed, are unexampled in the context of an agon where the two speeches are
normally separated by an iambic distich delivered by the coryphaeus;7
hence much discussion has been made on the function of these verses.8 In
any case one should take into account the variability of the agon’s structure
emphasized by various scholars,9 as well as the fact that Cretans is an early
play,10 when the formal conventions of the agon may not have been yet
1) defines it, despite the great variation of its form, «[t]he agon basically consists of a
pair of opposing set speeches of substantial, and about equal, length». On a broad
definition of the agon as the opposition of two competing speeches, cf. also DUBISCHAR
2001, 53‑56.
6
Cf. CANTARELLA 1964, 117; WEBSTER 1967, 90; DUCHEMIN 1968, 90; COZZOLI 2001
passim, e.g. 12, 26, 102; PADUANO 2005, 135‑137.
7
Cf. LUCAS 1965, 455‑456; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 72‑73, on 472e. LUCAS (1965,
456) points out in addition that Pasiphae does not enumerate the charges to which she
is replying, a usual technique in the Euripidean agones (e.g. Med. 548‑549, Hipp. 991,
1021, Hec. 1199, Tro. 919‑920).
8
So WEBSTER (1967, 90) claims that this choral lyric, unusual between two speeches
of an agon, may be justified by the chorus’ horror at Minos’ revelation and parallels it
to the choral strophe intervening between the revelation of Phaedra’s secret and her
self‑defence in Hipp. 362‑372 (similarly COZZOLI (2001, 102, 104, on 1‑3) asserts that
these verses were probably in responsion with another section in the part of the agon
now lost, bringing out as parallel the choral section in Hipp. 362‑372 corresponding to
Phaedra’s verses at 669‑679). DI BENEDETTO (2001, 227) also argues that the three verses
preceding Pasiphae’s rhesis constitute part of a choral comment on Minos’ preceding
speech. On the other hand COLLARD/CROPP/LEE (1995, 73, on 2‑3), who, unlike most
editors, give the first verse (an iambic trimeter) to Minos and the subsequent lyric ones
to the chorus, suppose that these three verses constitute the end of a short epirrhematic
system functioning as a prelude to Pasiphae’s rhesis (like the epirrhematic dialogue
between the chorus and Iphis preceding Iphis’ monologue in E. Supp. 1080‑1113, 1072‑
1079).
9
E.g. DUCHEMIN 1968, esp. 156‑166; COLLARD 1975; LLOYD 1992, 1‑36; DUBISCHAR
2001, 56‑80.
10
Based on metrical evidence scholars argue for an early date, almost certainly
before 430: cf. WEBSTER 1967, 4; CROPP/FICK 1985, 70, 82; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 58;
CANTARELLA (1964, 103‑107) dates it more precisely around 433, a date which COZZOLI
(2001, 9‑11) also regards as the most probable. In any case the play is dated before
Hippolytus (428) and probably also before the First Hippolytus (dating disputed) –
Phaedra’s allusion to Pasiphae’s infatuation for the bull in Hipp. 337 (with the
implication that her illicit love for Hippolytus may have been inherited from her
mother’s fatal passion) most likely points to the earlier drama Cretans (cf. WEBSTER
1967, 86).
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 99
11
Cf. CANTARELLA 1964, 111‑120; LUCAS 1965, 455‑456; WEBSTER 1967, 87‑92;
COLLARD/CROPP/LEE 1995, 54‑55; JOUAN/VAN LOOY 2000, 309‑318; COZZOLI 2001, 12‑
13; COLLARD/CROPP 2008, 530‑532; PEROTTI 2008‑2009, 251‑254.
12
Cf. Antigone’s apology (S. Ant. 443) or that of Orestes (A. Eum. 463, 588).
13
Cf. LLOYD (1992, 29), who points out that it is especially frequent in Antiphon’s
and Lysias’ forensic speeches, in Gorgias’ Palamedes as well as in the Euripidean agones.
On the use of probability argument, cf. also the extensive discussion in GAGARIN 1994.
To present the weaker view as the stronger (τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν) was one
of the major aims of sophistic rhetoric in accordance with its claim that there were two
opposed arguments for each issue (cf. the Protagorean δισσοὶ λόγοι). LLOYD (1992, 43)
regards Jason’s speech in the agon of Medea as «the outstanding example in Euripides
of rhetoric being used to promote the weaker case». On verbal performance as the
weapon of the weak, cf. SCODEL 1999‑2000, 140‑144.
14
Some editors print εἰκός in verse 19 as well (cf. AUSTIN 1968, 56; JOUAN/VAN LOOY
2000, 330).
15
In Tro. 987‑992 Hecuba accuses Helen of being fascinated by Paris’ glittering
appearance. PADUANO (2005, 142) shows that the terms by which male beauty is
defined in the above passage, e.g. beautiful clothes, brilliant eyes, are topoi in erotic
language, serving to underline the difference between a human and a bestial lover and
thus to emphasize Pasiphae’s exceptional, pathological case (cf. SANSONE 2013, 59). On
bestiality in Greek mythology, see ROBSON 1997.
16
In Hipp. 1009‑1015 and Tro. 946‑947 the defendant (Hippolytus and Helen
respectively) also emphasizes the lack of plausible motives against a charge of sexual
offence.
17
Phaedra expresses a similar condemnation of adultery in Hipp. 407ff.
100 Eleni Kornarou
have been god‑inflicted (9), and therefore she is not to blame for it. Pasiphae
proceeds to use the rhetorical device of ἀντικατηγορία (counter‑attack),18
that is, from being the defendant she becomes the accuser, blaming Minos
for her misfortune (21‑41)19 and abusing him as the worst of men (32 ὦ
κάκιστ’ ἀνδρῶν φρονῶν).20 She accuses him of breaking his vow to
Poseidon to sacrifice the bull, thus attracting the god’s anger upon him and
his wife, while also referring to an obscure divine force, δαίμων (cf. 21, 30),
which has brought about her own and Minos’ destruction.21 Thus Pasiphae
presents herself as a victim of divine vengeance suffering because of Minos’
impiety.22 And whereas she did the right thing in concealing her god‑
inflicted misfortune from people’s eyes as the chorus have also advised
Minos to do (2‑3),23 he proclaims it shamefully to everybody, considering
her responsible (30‑33). The picture of the cruel, savage Minos with which
Pasiphae concludes her apology, proudly challenging his authority to kill
her, is emphatically contrasted with her own innocence and constitutes the
climax of her counter‑attack (35‑41).24
Throughout her rhesis Pasiphae ascribes her misfortune to divine cause
(9, 21, 25‑26, 30), asserting her innocence (29 κοὐδὲν αἰτία, 40 κοὐδὲν
18
On this rhetorical device, see DOLFI 1984, 130‑133; LLOYD 1992, 101‑102. On the
technical and stylistic techniques of sophistic rhetoric, cf. also DUCHEMIN 1968, 167‑
216, and on the relationship between tragedy and rhetoric in general, BERS 1994.
19
Cf. her direct attacks on Minos (34‑35 σύ τοί μ’ ἀπόλλυς, σὴ γὰρ ἡ ’ξαμαρτία, /
ἐκ σοῦ νοσοῦμεν, 41 τῆς σῆς ἕκατι ζημίας – most editors supplementing θανούμε‑
θα). Similarly in Troades Helen shifts responsibility to Hecuba and Priam for giving
birth to Paris and then allowing him to survive (919‑922; cf. Andr. 293ff) as well as to
Menelaus for going away while Paris was visiting Sparta and leaving her alone with
him (943‑944; cf. Andr. 592ff). Phaedra acts in a similar way in Hippolytus: when her
secret is revealed, she commits suicide, yet, in order to preserve her good fame and
honour (419‑423, 716‑721, 1310‑1312) and to take revenge on Hippolytus for his pride
and rejection of her (728‑731), she accuses him, in the tablet she leaves to Theseus, of
attempting to rape her.
20
Such characterizations are frequent in agon‑scenes (e.g. Med. 465 ὦ παγκάκιστε,
Hec. 1199, Tro. 943 ὦ κάκιστε).
21
On the notion of δαίμων in the play, see CANTARELLA 1964, 71‑72, on 21, 129‑132,
and more extensively on the role of divine element in it, PEROTTI 2008‑2009.
22
Offence against impiety was a frequent case in fifth‑century Athenian courts and
Euripides often speculated on its consequences as in Hippolytus and Bacchae (cf.
FLETCHER 2017, 485).
23
Phaedra also attempted to conceal her passion for Hippolytus (Hipp. 394).
24
On the structure of Pasiphae’s rhesis, cf. CANTARELLA 1964, 77. Judging from
Pasiphae’s final words, WEBSTER (1967, 90) argues that «Minos must, therefore, before
this have told the story and have threatened to kill her».
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 101
25
Phaedra uses similar phraseology in Hipp. 319 φίλος μ’ ἀπόλλυσ’ οὐχ ἑκοῦσαν
οὐχ ἑκών; cf. Artemis’ words at 1305 διώλετ’ οὐχ ἑκοῦσα.
26
Cf. Hecuba’s prayer to Zeus before the debate (884‑888) where she states that it
is difficult to understand Zeus’ nature, wondering whether he is the law of nature or
the mind of man – views influenced by fifth‑century philosophical thought (cf. SCODEL
1980, 93‑95; LLOYD 1992, 107‑108).
27
Similar is Cassandra’s claim at 373 ἑκούσης κοὐ βίᾳ λελῃσμένης.
28
The theme of Helen’s responsibility is also treated in Gorgias’ Encomium of Helen.
On the possible relations between the agon of Troades and Gorgias’ Encomium, see
SPATHARAS 2002.
29
Cf. DOLFI 1984, 122‑123; LLOYD 1992, 104.
30
Cf. LESKY 1966, 250‑252; DOLFI 1984, 124‑128; VERNANT/VIDAL‑NAQUET 1988, 46.
31
Cf. LESKY 1966, 247‑248; LLOYD‑JONES 1971, 150‑151.
32
LLOYD‑JONES (1971, 150‑151) emphasizes that the Homeric Helen is conscious of
102 Eleni Kornarou
her guilt (cf. Il. 3, 171‑180), stating that by Homeric standards, in the agon of Troades
both Helen and Hecuba are right as gods work through human passions.
33
Cf. CANTARELLA 1964, 127‑128; SANSONE 2013, 59.
34
RIVIER (1960) shows that in Sophocles’ and Euripides’ plays before 428 eros is
frequently presented as both a human and a divine (i.e. ‘demonic’) impulse.
35
Most editors print νόσον at the end of verse 26 as well (e.g. COLLARD/CROPP/LEE
1995, 64; DIGGLE 1998, 118; COZZOLI 2001, 65; COLLARD/CROPP 2008, 548).
36
On Euripides’ use of clinical terminology in the context of the theoretical
discussions of the era about medical themes, the origins of various illnesses and the
ways of curing them, see COZZOLI 2001, 35‑39.
37
As PADUANO (2005, 139, n. 20) points out, the word ἔρως is not mentioned in
Pasiphae’s apology.
38
BATES (1930, 241) also agrees that Pasiphae «is…suffering from a form of
insanity».
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 103
39
On a summary of the views concerning the prologue of the play, cf. JOUAN/VAN
LOOY 2000, 310.
40
So Deianeira excuses Heracles and Iole on the grounds that Eros is invincible
(Trach. 441‑449), Phaedra’s Nurse, shocked by the revelation of her mistress’s secret,
declares that Aphrodite is not a deity but even mightier (Hipp. 359‑360), while Helen
states that even Zeus, whom all gods obey, is enslaved to this goddess (Tro. 948‑950),
implying that if Zeus cannot resist her, how could she. On this topos in Greek tragedy,
see ROMILLY 1976.
41
In fr. 680 R of S. Phaedra it is also asserted that one should bear god‑sent
misfortunes (νόσους δ’ ἀνάγκη τὰς θεηλάτους φέρειν).
42
Pasiphae has always been presented as a less complex and tormented figure than
Phaedra (e.g. DI BENEDETTO 1971, 80; DOLFI 1984, 127; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 56‑
57), yet that may be due to the different dramatic context (cf. COLLARD/CROPP 2008,
532), perhaps the first in a series of ‘bad/unhappy women’ (cf. WEBSTER 1967, 77, 86)
motivated by their passions such as Medea, Phaedra, Stheneboea (cf. CANTARELLA
1964, 136; COZZOLI 2001, 9).
43
Cf. RECKFORD 1974. According to BARRETT (1964, 11) in the First Hippolytus
104 Eleni Kornarou
above taking into account that Euripidean agones are frequently simple
rhetorical exercises, detached from their dramatic context, which are not
always in accordance with the character the speaker exhibits in other parts
of the play (as happens in the case of Hippolytus in the name‑play or of
Hecuba in Troades).44 Furthermore the fragmentary nature of the play does
not allow us to draw safe conclusions about Pasiphae’s role in it or about
Euripides’ attitude towards this myth, a very debatable issue. Opinions
differ from the view that Euripides uses myth in its literal sense, i.e. to show
that Pasiphae is an innocent victim of divine wrath, to the belief that he
shows a critical attitude towards myth as a means of covering up human
irrationality and misdeeds45 or even that the poet aims at parodying
mythology.46 Yet the fact that Pasiphae accepts to be sentenced to death
may indicate that she is not meant to be regarded as a totally corrupt,
unscrupulous character and that her case should be taken more seriously.
In any case what Euripides is mainly interested in his use of the myth is to
explore the psychology and reactions of his heroes/heroines in extreme
situations.47 As Lloyd (1992, 104) argues, «Euripides confronts…mythology
with a human and realistic treatment of events», pointing out the clash
between the rhetorical, intellectual style and the mythical content of the
Euripidean agones.48
Although Pasiphae does not seem to strive like Phaedra to remain a
faithful wife, both mother and daughter are aware that their passionate
feelings are opposed to reason.49 At the beginning of her speech to the
chorus where Phaedra analyses her situation, she reflects on the causes of
human fallible behaviour (Hipp. 373ff), declaring that «we understand what
is right, yet we fail to carry it out» (380‑381). Scholars usually contrast this
passage with the Socratic view equating virtue with knowledge.50 The
optimism of the Socratic doctrine that good judgment/understanding leads
to right behaviour is refuted by the above passage: men know what is good,
yet they fail to do it, led to ruinous actions by their emotions/desires. A
notable example in this respect is the passage in Medea 1078‑1080: the
heroine recognizes the evil she is about to accomplish, yet her wrath
(θυμός) overcomes her right judgment (βουλεύματα). In the context of
Socrates’ teaching that no one commits injustice of his own free will (οὐδεὶς
ἑκὼν ἁμαρτάνει) but because he is unaware of the right thing to do, and
of the relevant philosophical discussions of the era, the involuntariness of
an offence becomes the object of discussion in the second half of the fifth
century and was a frequent argument of defence in contemporary trial
cases51. This is also the basic argument of Pasiphae’s apology, that she acted
involuntarily, driven by divine madness because of Minos’ impiety.
Yet despite her rhetorical ability Pasiphae’s attempts to defend herself
fail much as Hippolytus’ employment of rhetoric in his agon with Theseus
in Hippolytus proves unable to save him.52 As Lloyd (1992, 15‑18, 110‑112)
points out, unlike real court cases, rarely does a character achieve his/her
goal by means of the agon and thus rarely do tragic debate scenes have any
impact on the action of the play.53 Minos orders Pasiphae to be shut together
with her accomplice (47 τὴν ξυνεργὸν τήνδε), most probably her Nurse,
in an underground prison to die,54 rejecting the chorus’ attempts to
case her state of mind could be indeed paralleled to that of Ajax and Heracles who
realize their abominable deeds only after they have recovered their sanity (cf.
PADUANO 2005, 139).
50
Cf. esp. Plato, Protagoras 345d‑e, 352bff, Meno 78a, and CROISET 1915, 224‑225;
LESKY 1966, 254‑255; DI BENEDETTO 1971, 5‑23; ROMILLY 1991, 107‑109; CONACHER 1998,
35‑36; COZZOLI 2001, 31‑35, as well as the discussion in GUTHRIE 1969, 459‑462.
51
Notable examples are Antiphon’s 2nd and 3rd Tetralogies, Gorgias’ Encomium of
Helen. Cf. also RIVIER 1975, 57‑60; DOLFI 1984, 129‑133. As VERNANT/VIDAL‑NAQUET
(1988, 46) note: «In its attempts at distinguishing the different categories of crime that
fall within the competence of different courts, the phonos dikaios, akousios, hekousios, the
law…lays emphasis on the ideas of intention and responsibility. It raises the problem
of the agent’s different degrees of commitment in his actions».
52
On the power and abuses/limits of rhetoric, cf. CONACHER 1998, 58, n. 13; SCODEL
1999‑2000.
53
On the dramatic relevance of tragic rhetorical speeches/debates, cf. DUCHEMIN
1968, 124‑135; CONACHER 1981.
54
On this usual punishment for tragic heroines, Sophocles’ Antigone being the most
106 Eleni Kornarou
notable example, cf. SEAFORD 1990. COZZOLI (2001, 40‑41) demonstrates that the
punishment inflicted on Pasiphae by Minos – according to COLLARD/CROPP/LEE (1995,
54) Euripides’ innovation in Pasiphae’s myth – is extremely severe compared with
contemporary Athenian legal practice (cf. Dem. Against Neaera 87), yet it is attested in
mythical tradition (in Tro. 1031‑1032 Hecuba, addressing Menelaus, also claims that
adulterous women should be killed by law). Some scholars have argued that
Pasiphae’s condemnation would come at the end of the play and place the agon in its
final part (e.g. CROISET 1915, 226; DUCHEMIN 1968, 90; COZZOLI 2001, 102), yet opinions
diverge widely on this matter (e.g. CANTARELLA (1964, 116) places the agon early in the
play, a view shared by JOUAN/VAN LOOY 2000, 312, and PEROTTI 2008‑2009, 253), while
according to a possible reconstruction of the plot Pasiphae was later miraculously freed
by a god (cf. WEBSTER 1967, 91‑92; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 54‑55; JOUAN/VAN LOOY
2000, 317, n. 37).
55
The role of the chorus in this scene and in the play in general would be to advise
the king as they were summoned precisely to interpret the portent of the monstrous
birth (cf. COZZOLI 2001, 102‑103).
56
Cf. RIVIER 1975, 51‑52.
57
Cf. COLLARD/CROPP/LEE 1995, 67.
58
One may be reminded of Oedipus’ impious behaviour towards Teiresias in S. OT
PADUANO (2005, 135) suspects further that the chorus’ invitations to prudence may
reveal a disagreement which they do not dare express openly, as in S. Antigone. In this
fragment Minos is portrayed as a violent ruler, characterized by all the negative
qualities of a typical tragic tyrant such as hybris, impiety, injustice (cf. COZZOLI 2001,
110). On Minos’ harsh portrayal on the tragic stage, sharply contrasted with the picture
of the pious, just king as presented in Homer and Hesiod, cf. [Plato], Minos 318d‑321a,
Strabo 10, 4, 8, Plut. Theseus 16.
59
One may think of Med. 576‑578 where the chorus’ condemnation of Jason’s
rhetorical ability to defend his unjust behaviour against his wife (reinforced by Medea
herself at 579ff) guides the audience’s sympathy towards her.
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 107
60
Yet this order is reversed in some cases: in the agones of the Electra‑plays and of
Troades Clytemnestra and Helen respectively speak first, despite being the defendants,
as the accusations against them are already known (cf. LLOYD 1992, 17; CROALLY 1994,
137).
61
E.g. SCHLESINGER 1937, 69‑70; DALE 1954, 106, on 697; STROHM 1957, 44; COLLARD
1975, 62; PADUANO 2005, 135‑137. In the agon of Hecuba Agamemnon, who acts as the
judge, pronounces a verdict clearly favourable to Hecuba (1240‑1251), speaking
second, while Polymestor grumbles that he has been ‘beaten’ by a slave woman (1252‑
1253).
62
Notable is the example of Jason who speaks second in the agon of Medea. Cf.
further LLOYD 1992, 17.
63
Cf. DUCHEMIN 1968, 189‑190; LLOYD 1992, 15‑17. Characteristic in this respect is
the agon of Troades where Hecuba seems to be in a stronger position, speaking second.
Yet, as RABINOWITZ (2017, 208) points out, on a narrative level Hecuba wins but in fact
she loses since, as the spectators are well aware, Helen is not finally to be killed by
Menelaus as the Old Queen desires. On the ambivalence of the result of the agon of
Troades, cf. also SCODEL 1980, 93‑100; LLOYD 1992, 110‑112; CROALLY 1994, 137‑138, 157‑
160.
64
Similarly in the agon of Hippolytus Theseus accuses his son of charlatanism (1038
ἐπῳδὸς καὶ γόης) without attacking his defence. Minos’ violent reaction refuting the
chorus’ recommendation to prudence may also be paralleled to Theseus’ explosion of
anger against Hippolytus after the revelation of Phaedra’s tablet while the chorus
vainly try to restrain him (Hipp. 882‑898).
65
Cf. COLLARD 1975, 62; PADUANO 2005, 135.
108 Eleni Kornarou
Bibliography
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DI BENEDETTO 2001= V. di Benedetto, Cozzoli: Euripide, Cretesi, “RFIC” 129 (2001),
210‑230.
66
Rather they highlight them as in the agon between Medea and Jason in Medea (cf.
DUBISCHAR 2017, 371; ROSELLI 2017, 397).
Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 109
* Lo spunto originario per questo contributo è sorto nel corso delle ricerche sui testi
dei due riceventi tardo‑antichi del mito di Edipo menzionati in queste pagine – la
Cronaca di Giovanni Malala e la Teosofia di Tubinga – che conduco presso la Accademia
delle Scienze di Heidelberg e l’Università di Tubinga con i professori Mischa Meier ed
Irmgard Männlein‑Robert, che desidero ringraziare in questa sede per la loro guida
in questi anni. Ringrazio, inoltre, gli organizzatori del convegno di cui qui si
raccolgono gli Atti, in particolare il dott. Luca Austa, per l’invito e l’ospitalità a Torino.
La citazione e discussione della – altrimenti sterminata – bibliografia su Edipo sarà
necessariamente selettiva. Le traduzioni dei passi greci citati sono mie.
1
Panoramiche ad es. in MARCH 1987, 121‑154; GANTZ 1993, 492‑502; EDMUNDS 2006,
11‑55; FINGLASS 2018, 13‑40.
2
Svariati frammenti superstiti paiono essere riconducibili alla Sfinge o a Giocasta,
il che concorda con la preminenza data a queste due figure nel brevissimo sunto dell’E‑
dipo euripideo presente nella Cronaca di Giovanni Malala: Ioh. Mal. Chronographia II
17 (p. 38, 3‑5 Thurn) ὁ γὰρ σοφώτατος Εὐριπίδης ποιητικῶς ἐξέθετο δρᾶμα περὶ τοῦ
Οἰδίποδος καὶ τῆς Ἰοκάστης καὶ τῆς Σφίγγος. Per l’Edipo euripideo in Malala vd.
COLLARD 2005, 59; D’ALFONSO 2006, 25‑31; per il trattamento razionalizzante riservato
al mito di Edipo nella Chronographia vd. REINERT 1981, 341‑344, 396‑403.
112 Laura Carrara
1. Testo e testimoni
3
Oltre alle prime ipotesi ricostruttive di Welcker, Hartung, Robert e Séchan (vd.
infra n. 8) vd. più di recente (fa da spartiacque, nel 1962, la pubblicazione a cura di Eric
Turner di P.Oxy. 2459, latore dei frr. 540, 540a e 540b K.) VAIO 1964; WEBSTER 1967, 241‑
246; DINGEL 1970; DI GREGORIO 1980; AÉLION 1986, 42‑61; HOSE 1990; GANTZ 1993,
499‑500; HUYS 1997, 17‑18; VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 436‑444; COLLARD in
COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 105‑132; COLLARD 2005, 57‑62; EDMUNDS 2006, 41‑43;
COLLARD/CROPP 2008, 2‑7; LIAPIS 2014 (con la tesi estrema che l’Edipo rifugga da
sempre ad ogni ricostruzione coerente poiché molti dei frammenti gnomici assegnativi
sono in realtà spuri, provenienti da un tardo esercizio retorico); FINGLASS 2017 (per‑
suasiva confutazione di Liapis).
4
Vd. infra n. 16 per πρὸς τὴν δίκην ed a testo per una varia lectio al v. 4.
5
AUSTIN 1968, 64 (fr. 98); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 457 (fr. 15);
KANNICHT 2004, 581; COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 122; COLLARD/CROPP
2008, 24.
Edipo all’altare? 113
sempre noti6. I quattro versi che lo compongono sono tràditi, insieme e nella
sequenza sopra stampata, da Giovanni Stobeo nel quarto libro dell’Antho‑
logion nella sezione περὶ ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὀποῖον χρὴ εἶναι τὸν
ἄρχοντα, «Sul governo e su come debba essere il governante» (Stob. 4, 5,
11 = 4, 199, 13‑17 Hense); essi sono là accompagnati dal solo nome d’autore,
Εὐριπίδου, non anche dal titolo del dramma. Per questa ragione, nelle
ottocentesche edizioni di riferimento (quelle di August Nauck) questi quat‑
tro trimetri compaiono tra i fragmenta incertae sedis di Euripide,
rispettivamente come fr. 1036 nell’edizione del 1856 e come fr. 1049 nella
riedizione del 18897. Di conseguenza, essi restarono esclusi dalle
pionieristiche ricostruzioni otto‑ e primonovecentesche della trama
dell’Edipo8. Chiarezza sul loro dramma di provenienza, per la verità, fu fatta
nello stesso 1889, senza tuttavia che Nauck, parrebbe, ne avesse notizia in
tempo utile. In quell’anno, Karl Buresch pubblicava in sede abbastanza
nascosta (in appendice alla sua Habilitationsschrift sull’oracolo apollineo di
Claro) sotto il titolo Χρησμοὶ τῶν Ἑλληνικῶν θεῶν (Oracoli degli dei greci)
un breve escerto bizantino di un’opera cristiana tardoantica in lingua greca
intitolata Θεοσοφία (Teosofia)9. In sintesi, questa Teosofia era, nella sua
versione originale oggi perduta, una raccolta in quattro libri comprendente
oracoli degli dei del pantheon greco, esametri orfici, vaticini sibillini, motti
ed aneddoti sapienziali di e su saggi pagani allestita dal suo autore – un
per noi anonimo teologo cristiano con tutta probabilità di origine orientale
attivo intorno al 500 d.C. – con lo scopo di dimostrare che anche divinità
ed autori della grecità pagana avevano avuto nozione ante litteram della
Verità cristiana10. Ebbene, nell’escerto bizantino di questa Teosofia pubbli‑
6
Noti cioè da quando si cominciò a collezionare i resti dei drammi classici perduti,
nel Tardo Rinascimento. La prima raccolta di frammenti drammatici greci mai allestita
fu quella, rimasta inedita, di Theodorus (Dirk) Canter (1545‑1616), fratello minore
dell’editore eschileo Willem Canter (1542‑1575), vd. COLLARD 1995, 243‑251; GRUYS
1981, 277‑309.
7
NAUCK 1856, 538; NAUCK 1889, 683, entrambe le edizioni con testo identico a
quello stampato qui sopra.
8
WELCKER 1839, 537‑553; HARTUNG 1843, 244‑254; ROBERT 1915, 305‑331; SÉCHAN
1926, 434‑441, tutti (tranne Hartung) con rimando alla bibliografia precedente.
9
BURESCH 1889, 89‑126.
10
Su problemi autoriali e presupposti teologico‑culturali della Teosofia così come
sul complesso processo di tradizione che ha portato alla sopravvivenza di copia
dell’escerto bizantino nel manoscritto tardo‑rinascimentale e miscellaneo di Tubinga
vd. almeno BEATRICE 2001, xi‑lviii (che propone come autore della Teosofia Severo di
Antiochia) e le introduzioni alle due recentissime traduzioni commentate della Teosofia
di Tubinga di TISSI c.d.s. e CARRARA/MÄNNLEIN‑ROBERT 2018, con ricca bibliografia.
114 Laura Carrara
11
Testo del passo della Teosofia di Tubinga secondo ERBSE 1995, 55; vd. anche ERBSE
1941, 201; BEATRICE 2001, 36 (Theos. II, 26). Sia Erbse sia Beatrice ritengono sospetto il
pronome αὐτοῦ (αὑτοῦ?). È anche pensabile che sia l’intero nesso τῷ δράματί αὐτοῦ
glossa esplicativa da espungere, entrata secondariamente nel testo in coda al titolo
Οἰδίπους («nell’Edipo, [il suo dramma]»): il complemento ἐν Οἰδίποδι è già sufficiente
alla localizzazione della citazione.
12
Altrimenti detto, sarebbe una rimarchevole coincidenza se il risultato del processo
di riduzione fosse, in ogni caso, una citazione mono‑ o bilineare. Sul finale della Teosofia
di Tubinga (§§ 84‑91 Erbse), che fa seguire detti di autori greci pagani alla sezione
sibillina (§§ 75‑83 Erbse), e sulla sua posizione nella Teosofia vd. CARRARA c.d.s.
Edipo all’altare? 115
13
Cf. Mantissa Proverbiorum 1, 83 = CPG II, 757, 3 Leutsch (da Stobeo, con πάσχειν
nel testo).
14
BURESCH 1889, 124‑125.
15
SNELL 1964, 10. NESTLE 1901, 120 ed ancora SOLMSEN 1975, 75 citano il frammento
come nr. 1049 incertae sedis, vd. infra n. 76.
16
Così LIAPIS 2014, 354 nel quadro della sua tesi generale per cui vd. supra n. 3. Per
l’argomento contenutistico di Liapis, vd. infra § 3.2. La sua obiezione linguistica (vd.
anche le sue pp. 334, 343) si appunta sull’articolo determinativo in πρὸς τὴν δίκην
(ἄγοιμ’): idiomatico è, a suo parere, πρὸς δίκην (ἄγειν). Invero la formula ‘a processo’
è εἰς δίκην, vd. LSJ s.v. ἄγω I 4 e cf. Pl. Lg. 767b6 ἄγων εἰς δίκην; nelle stesse Leggi e
negli oratori attici εἰς δίκην compare anche con altri verbi come ‘andare’ o ‘chiamare’;
per πρὸς τὴν δίκην cf. invece Pl. Lg. 936e7 ὁ δὲ κληθεὶς ἀπαντάτω πρὸς τὴν δίκην e
fr. adesp. 498 K.‑Sn. (data incerta, testimoni tardi) ἄγει τὸ θεῖον τοὺς κακοὺς πρὸς
τὴν δίκην (quest’ultimo citato anche da FINGLASS 2017, 25, il quale elenca, inoltre, altre
occorrenze tragiche di τὴν δίκην al posto di δίκην con verbi ‘legalistici’, ad es. δίδωμι).
La lingua del brano non è altrimenti problematica: cf. anzi per βωμὸν προσίζει al v. 2
in identico contesto A. Supp. 189 πάγον προσίζειν τόνδ᾽ ἀγωνίων θεῶν; E. Hec. 935
(lyr.) σεμνὰν … προσίζουσι Ἄρτεμιν.
17
Tant’è che SEECK 1981, 240‑241 stampa πάσχειν ma traduce πράσσειν («denn
einem schlechten Mann sollte es stets auch schlecht ergehen»). Errata è la resa attiva
di VAN KASTEEL 2011, 269 («un homme méchant agira etc») del testo della Teosofia di
116 Laura Carrara
mente a porsi presso l’altare o nella sede sacra di un dio (e dunque sotto la
sua tutela) per tutto il tempo della sua permanenza in quel luogo20. Un caso
antico celebre e spesso citato di questa pratica è quello del generale
spartano Pausania, il vincitore della battaglia di Platea: accusato pochi anni
dopo quella vittoria (intorno al 470 a.C.) di μηδισμός dai suoi concittadini,
Pausania si rifugiò nel tempio di Atena Chalkioikos sull’Acropoli di Sparta,
da dove nessuno per timore e reverenza della dea osava strapparlo21.
Questo principio cardine della religione greca trovò ampia ricezione nel
teatro tragico, venendo a costituire il nucleo di numerose scene e di intere
tragedie, organizzate anche visivamente intorno alla presenza di uno o più
rifugiati presso un altare o un tempio (si pensi alle Supplici eschilee)22. Nel
dramma attico, e più precisamente nella produzione euripidea, s’incon‑
trano però di questo principio anche messe in discussione, sorte forse in
conseguenza di reali casi storici di abuso del diritto del santuario23 e/o sulla
scia di un dibattito contemporaneo che tendeva a relativizzare l’automa‑
tismo dell’applicazione a favore di un approccio più sfaccettato. Anche da
testi non drammatici di tardo quinto secolo pare, infatti, di dover dedurre
che in quegli anni si fosse sviluppata una maggiore sensibilità per il
carattere potenzialmente a‑sociale del diritto del rifugio all’altare: l’esten‑
sione della protezione divina tanto sui rifugiati innocenti quanto su quelli
colpevoli veniva da più parti percepita – e/o strumentalmente presentata –
come destabilizzante per il corpo civico, poiché sottraente i criminali alla
20
Vd. GOULD 1973, 77‑78; PARKER 1983, 182‑183; MIKALSON 1991, 69‑70; SINN 1990,
71‑83; SINN 1993; CHANIOTIS 1996; MARTIN 2018, 478‑479. Se il fenomeno in questione
sia più propriamente da definirsi ἀσυλία (CHANIOTIS 1996, 66‑67) o ἱκετεία (GOULD
1973, 77; SINN 1990, 71‑73; SINN 1993, 90‑91; vd. anche GÖDDE 2000, 31‑32) o sia una
combinazione tra le due, è materia di controversia: qui basterà averne richiamato le
caratteristiche. La concreta dimensione ritualistica della supplica, con i suoi segni
esteriori, la formulazione di aperta richiesta di aiuto da parte del rifugiato,
l’accoglimento della stessa etc., è per la presente discussione di rilevanza secondaria.
21
Secondo Tucidide (1, 133‑134) i persecutori di Pausania credettero di aver trovato
il modo di aggirare l’ostacolo senza macchiarsi di empietà: essi sprangarono il tempio
e bloccarono i rifornimenti a Pausania, tirando fuori il generale appena prima che
questi morisse di fame, ed impedendo così che fosse la sua morte per fame (una forma
di decesso considerata particolarmente impura dai greci, cf. e.g. S. Ant. 775‑776) a
contaminare il suolo sacro, vd. GOULD 1973, 82 con n. 45.
22
MIKALSON 1991, 70‑77, con altri esempi; SINN 1993, 89. Sulle Supplici vd. GÖDDE
2000; DREHER 2003; GÖDDE 2003; in generale sul motivo della supplica nel teatro antico
vd. KOPPERSCHMIDT 1967; per gli aspetti scenici e visuali, soprattutto della supplica
personale (tra due attori), vd. TELÒ 2002.
23
OWEN 1939, 60: «the tirade may have been inspired by contemporary abuses of
the right of sanctuary».
118 Laura Carrara
punizione24. Oltre al fr. 554a K., tocca questo delicato tema nel corpus
euripideo il seguente passo dello Ione (1312‑1319, ed. Diggle)25:
Ἴων· φεῦ·
δεινόν γε θνητοῖς τοὺς νόμους ὡς οὐ καλῶς
ἔθηκεν ὁ θεὸς οὐδ’ ἀπὸ γνώμης σοφῆς·
τοὺς μὲν γὰρ ἀδίκους βωμὸν οὐχ ἵζειν ἐχρῆν
ἀλλ’ ἐξελαύνειν· οὐδὲ γὰρ ψαύειν καλὸν 1315
θεῶν πονηρᾶι χειρί, τοῖσι δ’ ἐνδίκοις·
ἱερὰ καθίζειν <δ’> ὅστις ἠδικεῖτ’ ἐχρῆν,
καὶ μὴ ’πὶ ταὐτὸ τοῦτ’ ἰόντ’ ἔχειν ἴσον
τόν τ’ ἐσθλὸν ὄντα τόν τε μὴ θεῶν πάρα.
Ione: Ohimè
Tremendo davvero come agli uomini le leggi non rettamente
abbia posto il dio né sulla base di un’opinione saggia.
Bisognerebbe che gli ingiusti non sedessero agli altari,
ma (bisognerebbe) cacciarli; infatti non è bello 1315
per mano malvagia toccare gli dei; per i giusti invece –
presso i luoghi sacri bisognerebbe sedesse chiunque abbia subito ingiustizia
e non che, trovandosi nello stesso stato, ottenga lo stesso
da parte degli dei chi è virtuoso e chi non lo è.
24
PARKER 1983, 183; CHANIOTIS 1996, 68, 84‑87; MARTIN 2018, 479, gli ultimi due
con rimando a Thuc. 4, 98, 6 (καὶ γὰρ τῶν ἀκουσίων ἁμαρτημάτων καταφυγὴν εἶναι
τοὺς βωμούς, «è possibile rifugiarsi presso gli altari per le colpe compiute
involontariamente»), un passo che pare restringere il diritto al rifugio presso gli altari
ai colpevoli involontari; vd. anche GOULD 1973, 101.
25
Su lingua e testo del passo vd. il commento di MARTIN 2018, 479‑480, che espunge
i vv. 1315‑1317 (in questo già parzialmente preceduto da Diggle) in ragione di una loro
presunta incoerenza sintattica e contenutistica con il resto del brano; diverse possibilità
di costruzione sono però illustrate nel commento di OWEN 1939, 160. Una decisione in
merito non è comunque rilevante ai fini dell’interpretazione ideologica e logica del
brano, per la quale vd. BURNETT 1962, 99 n. 36; MIKALSON 1991, 75‑76; CHANIOTIS 1996,
65‑66; MARTIN 2018, 478‑479; anche SINN 1993, 108 n. 11; BOLKESTEIN 1939, 90‑91, 128,
247‑248 (in particolare sulla concezione ‘legalistica’ di ἀδικούμενοι).
Edipo all’altare? 119
ἔχειν), Ione condivide, in linea di principio, le stesse premesse del fr. 554a
K., anche se – ed è differenza non da poco – non la stessa prontezza ad agire
che la persona loquens del frammento rivendica per sé26 (quantomeno per
via di ipotesi, ἄγοιμ’ ἂν al v. 3 del frammento è condizionale: «condurrei a
giudizio», vd. su questo infra § 3.2); con la ‘tirata’ dei versi 1312‑1319 Ione
pare, infatti, finire per ammettere la superiore forza della legge divina e
limitarsi ad esprimere un desiderio utopico, ed in partenza frustrato, che
le cose stiano diversamente (al v. 1314 ἐχρῆν è condizionale: Ione non è
dunque violento, ma blasfemo)27. A sciogliere l’impasse arriva la Pizia, che
frena Ione (1320 ἐπίσχες, ὦ παῖ) ed avvia il riconoscimento28.
Un’ulteriore attestazione euripidea del medesimo motivo, cronolo‑
gicamente precedente29 e stavolta dialogica, offrono gli Eraclidi, 254‑260 (ed.
Diggle):
Dem: Come può esser giusto portar via con la forza il supplice?
Ar.: Questo sarà per me un disonore, ma per te non è un danno? 255
Dem.: Sì, se ti permetto di trascinarli via.
Ar.: Tu mandali fuori dai confini, e poi da là li porteremo via.
Dem.: Sei sciocco se pensi di saperne più del dio.
Ar.: Invero questo, così pare, è rifugio ai malvagi.
Dem.: A tutti è comune baluardo l’altare degli dei. 260
26
LIAPIS 2014, 354.
27
SOLMSEN 1975, 72 e 75, seguito da MARTIN 2018, 478.
28
La Pizia non trattiene quindi Ione dallo strappare Creusa dall’altare con le proprie
mani, ma da nuove avventate affermazioni sul divino, vd. MARTIN 2018, 481 nelle note
vv. 1320‑1325 e v. 1320.
29
Gli Eraclidi sono datati intorno al 430 a.C., lo Ione tra il 414 ed il 411/410 a.C. (vd.
rispettivamente WILKINS 1993, xxxiii‑xxxv e MARTIN 2018, 24‑32), l’Edipo intorno al 415
a.C. (su questo vd. infra n. 43). Non è dunque vero che sia lo Ione a contenere «the
earliest attack against the institution of asylia in the Greek literary tradition»
(CHANIOTIS 1996, 66): lo precedono gli Eraclidi, e forse lo stesso Edipo.
120 Laura Carrara
30
Su questo stratagemma per liberarsi di supplici molesti o difficili da trattare vd.
SINN 1990, 79‑80; SINN 1993, 92‑93.
31
MIKALSON 1991, 76; CHANIOTIS 1996, 67.
32
NESTLE 1901, 120.
33
SCHMID/STÄHLIN 1940, 554 («einer der dem Euripides so beliebten Weltverbes‑
serungsvorschläge»); SOLMSEN 1975, 75‑77 (E. Ion 1312‑1319 e fr. 554a K. [per lui an‑
cora fr. 1049] sono esternazioni ‘illuministiche’, vagheggiamenti di una situazione
utopica da parte di uno spirito libero ed avanzato come Euripide).
Edipo all’altare? 121
punito Creusa per l’attentato ai suoi danni, avrebbe finito per macchiarsi
di uno dei peggiori crimini immaginabili, il matricidio34. Allo stesso modo,
anche l’altro sostenitore della medesima opinione, l’Araldo argivo in
Eraclidi v. 259, non è certamente modello di pietà positiva, come risulta dalla
lettura dell’intera tragedia35. Soltanto se fossero ridotti allo status di
frammenti privi di contesto, Ion. 1312‑1319 e Heracl. 254‑260 potrebbero
esser presi come esternazioni ‘progressiste’ della voce del poeta miranti a
fare proseliti tra il pubblico – ma frammenti essi non sono36.
Sullo sfondo costituito dall’analisi dei due loci similes di Ione ed Eraclidi,
si affronterà ora lo studio di fr. 554a K. nella sua dimensione intra‑ (cioè in
rapporto con il resto della tragedia, ancorché oggi perduta, che lo
conteneva) ed inter‑drammatica (cioè in eventuale relazione con altri
drammi più o meno contemporanei).
Per cominciare da questo secondo aspetto, non mi pare sia mai stato
osservato che il fr. 554a K. dall’Edipo di Euripide è concettualmente
prossimo ad uno dei motivi portanti dell’Edipo a Colono sofocleo, la
permanenza di Edipo nello spazio sacro delle Eumenidi a Colono. Le scene
iniziali di questa tragedia, compresa la parodo commatica, fino alla
comparsa di Ismene (324) ruotano intorno alla questione se sia lecito per
Edipo fermarsi nel χῶρος ἱερός (16) o se egli debba, invece, andarsene
subito37. È la sua entrata ‘non autorizzata’38 in un’area che gli indigeni
considerano intoccabile (37 χῶρον οὐκ ἁγνὸν πατεῖν; 39 ἄθικτος οὐδ’
οἰκητός) anche solo con il pensiero, lo sguardo o la parola (126‑134 ἀστιβὲς
ἄλσος … ἀδέρκτως, ἀφώνως, ἀλόγως) a scatenare il primo conflitto della
tragedia, quello che oppone Edipo all’Abitante di Colono ed al Coro. Il
Coloniate ed i coreuti fanno ogni tentativo di persuaderlo a lasciare la sacra
34
FRIEDRICH 1953, 23; BURNETT 1962, 99, 103 n. 36; CHANIOTIS 1996, 86.
35
Sull’assoluta negatività dell’Araldo argivo FITTON 1961, 450.
36
Sull’uso dei frammenti euripidei da parte di Nestle come base della sua
interpretazione generale del poeta e gli ovvi problemi che ciò comporta vd. MIKALSON
1991, 6‑7.
37
εἰ χρὴ σε μίμνειν ἤ πορεύεσθαι πάλιν, per formulare l’alternativa con le parole
dell’Abitante di Colono (80).
38
Sulla portata esatta dell’illiceità del gesto di Edipo (e di Antigone, che lo
accompagna) agli occhi dell’Abitante di Colono e del Coro, vd. infra a testo.
122 Laura Carrara
sede (ad es. 36‑37 ἐκ τῆσδ’ ἕδρας ἔξελθ’; 162 μετάσταθ’, ἀπόβαθι; 166
ἀβάτων ἀποβάς); essi però non osano, anzi nemmeno mai pensano di
allontanarlo a forza con le proprie mani. Al contrario, dopo che Edipo ha
fondato la richiesta di permanenza con una supplica di accoglienza alle dee
epicoriche (44‑45 ἱκέτης … οὐχ ἕδρας … ἄν ἐξελθοιμ’), il Coloniate
esplicitamente esclude il ricorso all’iniziativa personale (47‑48).
Il rapporto tra i due testi mi pare potersi descrivere così: se il frammento
euripideo 554a K. mette sul tavolo la questione del ‘supplice all’altare’ ed
espone, qualora si dia il caso che questi sia portatore di colpe nei confronti
dei propri Mitmenschen, il comportamento da adottare (consegnarlo alla
giustizia umana senza timore degli dei), l’Edipo a Colono prende le mosse
dalla rappresentazione scenica del motivo della supplica e vi fa interagire
uno dopo l’altro concreti Mitmenschen (non solo il Coloniate ed il Coro, ma
anche Teseo e Creonte). Le differenze tra i due testi sono, ovviamente,
evidenti: non solo nell’Edipo a Colono non compare mai il termine βωμός a
proposito dello spazio sacro in cui si muove Edipo39; anche orientamento
e presupposti del dibattito sulla liceità del soggiorno in luogo sacro sono
diversi. Mentre lo speaker euripideo di fr. 554a K., ed anche Ione nella
tragedia omonima, si rifanno ai concetti di giustizia ed ingiustizia, colpa e
conseguente punizione per distinguere tra chi abbia diritto alla protezione
dell’altare e chi ne abusa, gli Abitanti di Colono ragionano secondo altre
categorie. La ragione primigenia per cui essi – il Coloniate prima ed i
coreuti poi – vogliono allontanare Edipo dal suolo sacro alle Eumenidi
risiede nel fatto che egli vi si è introdotto da semplice mortale, senza
l’adeguata preparazione e protezione rituale; il timore che la presenza di
Edipo attiri su di loro le maledizioni (ἀραί, 154) delle dee è ben precedente
alla, e del tutto indipendente dalla, scoperta delle sue colpe.
39
Si parla piuttosto di una ‘pietra non polita’ (ἐπ’ ἀξέστου πέτρου, 19), più volte
vagamente di ‘sede’ (ἕδρα), di uno o più gradini (βάθρον: 101; 263), il tutto all’interno
di un bosco (ἄλσος: 10; 98; 114; 126), descritto prima dal Coloniate (52‑63) e poi dal
Coro (156‑160): manca, insomma, l’intera dimensione della costruzione templare man‑
made. Sulla conformazione del luogo sacro di OC vd. GÖDDE 2000, 113‑115 (in un
capitolo efficacemente intitolato «Steine, Schwelle und Stufen»); al di là della
topografia precisa resta valida l’osservazione di GOULD 1973, 90: «nowhere else in
Greek tragedy does the primitively mysterious power of boundaries and thresholds,
the ‘extraterritoriality’ of the sacred, make itself felt with the force and precision that
Sophocles achieves in the parodos of Oedipus at Colonus». Sullo spazio di OC vd. anche
DI BENEDETTO 2003, 110‑113.
Edipo all’altare? 123
non appena questi si dichiara ἱκέτης (44). Il Coro, che nulla sa di questa
richiesta di ἱκεσία e per il quale Edipo non è esteriormente riconoscibile
nelle vesti di supplice (egli non ne porta i segni religiosi consueti)40, fa ogni
sforzo per spingerlo fuori dallo spazio (più?)41 sacro del bosco delle
Eumenidi nell’articolata scena dei vv. 165‑204 come precondizione per poter
avere un contatto verbale‑dialogico con lui (165‑169; 203‑204) e dunque ben
prima di iniziare l’indagine sulla sua identità (204‑206). Che Edipo poi nel
corso della parodo venga allo scoperto come parricida ed incestuoso (203‑
227) non può che peggiorare la sua posizione e conferma il Coro nel suo
timore di conseguenze divine (256 τὰ ἐκ θεῶν τρέμοντες)42 – ma il divieto
di stare nello spazio sacro alle Eumenidi era già stato espresso dal Coro
preventivamente.
40
Vd. GÖDDE 2000, 113, che definisce Edipo «ein unrechtmäßiger Eindringling»;
anche GOULD 1973, 100. Il Coro non lo dimentica, e più avanti esorterà Edipo a
recuperare la purezza rituale con un sacrificio ‘riparatore’ (464‑492, vd. SEIDENSTICKER
1972, 263 con n. 2), nuovamente come precondizione per essergli al fianco (490‑492).
Edipo stesso è consapevole di questa sua trasgressione rituale, compiuta solo per
‘cause di forza maggiore’ (per dar compimento alla profezia di Apollo sul luogo della
sua ultima dimora), cf. vv. 98‑101.
41
Sui diversi gradi e confini di sacralità che paiono esistere nel bosco delle
Eumenidi, vd. GÖDDE 2000, 114 n. 320, con bibliografia.
42
Sul miasma che emana da Edipo quale parricida ed incestuoso vd. PARKER 1983,
318‑321.
43
La data di rappresentazione dell’Edipo euripideo non è nota da fatti esterni, ma
è stata posta dalla critica con buona approssimazione negli anni intorno al 415 a.C.,
vd. AUSTIN 1968, 59; CROPP/FICK 1985, 70, 85; VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022,
435‑436. Sulla data postuma di rappresentazione dell’Edipo a Colono (402/401 a.C.)
informa la Hypothesis II manoscritta al dramma (rr. 1‑3), vd. KAMERBEEK 1984, 3.
44
Va comunque osservato che la declinazione della vicenda edipica in direzione di
una ἱκεσία non è attestata con certezza prima dell’ultimo quarto del quinto secolo a.C.:
della saga eroica locale comunemente ritenuta preesistere l’OC facevano parte la morte
e/o sepoltura di Edipo a Colono, non anche una tradizione dettagliata su un suo esilio
124 Laura Carrara
Spesso passato sotto silenzio (perché non ancora conosciuto, vd. supra §
1) o lasciato per prudenza nel vago45, il fr. 554a K. è stato per la prima volta
valorizzato dal punto di vista drammaturgico da T.B.L. Webster nel 1967,
con attribuzione a Creonte (personaggio la cui presenza nell’Edipo
euripideo è assunto comune e condivisibile della critica, per quanto, è bene
ribadirlo, di essa manchi testimonianza esterna sicura)46. Con la posizione
indifferente a scrupoli religiosi e basata solo sulla più angusta etica umana
del fr. 554a K., Creonte verrebbe ad essere, nell’economia del dramma,
antitetico ad Edipo, per parte sua portatore di più alti sentimenti (ad es.
quelli del fr. 542 K.: «il bianco argento e l’oro non sono l’unica valuta, ma
anche la virtù è moneta di scambio a disposizione di tutti gli uomini, di cui
bisogna far uso»; cf. anche fr. 547 K.). Il conflitto verbale ed ideologico
dominante in scena vedrebbe dunque opposti Creonte attivo Realpolitiker
ed Edipo inerme idealista (cf. fr. 552, 2 K. συνετὸν ἄτολμον [Edipo] ἢ
θρασὺν κἀμαθῆ [Creonte])47. Procedendo nella stessa direzione di
e rifugio sacralmente connotato in Attica; sulla saga attica di Edipo vd. KAMERBEEK
1984, 2‑6; MARCH 1987, 139‑148 (a favore della presenza dell’esilio di Edipo in Attica
già nel perduto Edipo di Eschilo sulla base di Androzione, FGrHist 324 F 62); KEARNS
1989, 208‑209; MASTRONARDE 1994, 24‑25 (con ulteriore bibliografia); EDMUNDS 1996,
95‑100 ed EDMUNDS 2006, 51‑52 (anche con analisi di Androzione); sull’esilio di Edipo,
più volte evocato, sempre senza connessione con Atene, ma lasciato infine in sospeso
nell’Edipo Re vd. anche SEIDENSTICKER 1972, 260; FINGLASS 2018, 38‑40.
45
CHANIOTIS 1996, 68: «an anonymous speaker in an unknown context»; MIKALSON
1991, 259 n. 33; FINGLASS 2017, 25.
46
Paragonabile a quella di Malala per Giocasta per cui vd. supra n. 2; tale potrebbe
essere forse la cd. ‘Urna di Volterra’, su cui vd. ROBERT 1915, 307; COLLARD in
COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 111. Per l’opposizione politica tra Edipo e Creonte come
germe della vicenda dell’Edipo vd. già ROBERT 1915, 306.
47
WEBSTER 1967, 243, vd. anche AÉLION 1986, 51 con n. 125, VAN LOOY in JOUAN/VAN
LOOY 20022, 442.
Edipo all’altare? 125
48
AÉLION 1986, 51.
49
Ciò è stato espressamente notato solo da KANNICHT 2004, 582 e COLLARD in
COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 131. Il brano più simile a fr. 554a K. proveniente da
tragedia conservata (quindi controllabile) citato da Stobeo nello stesso capitolo è
pronunciato da, e riferito a, un regnante (Stob. 44, 5, 13 = E. Suppl. 875‑880: Adrasto a
Teseo su Eteoclo).
50
In S. OT 629 l’ἄρχειν è (ancora) di Edipo, questi e Creonte sono chiamati ἄνακτες
dal Coro (631); nell’Antigone il campo semantico dell’ἀρχή è (auto‑)riferito interamente
a Creonte (ad es. 736; 739; 744).
51
Vd. WEBSTER 1967, 288‑289: «another common element in the late plays is the
‘contest of lives’», con diversi esempi tra cui il dibattito tra ‘vita contemplativa’ e ‘vita
attiva’ di Anfione e Zeto nell’Antiope.
52
Vd. l’editio principes di KASSER/AUSTIN 1969, 48‑49.
126 Laura Carrara
Nel quinto ed ultimo episodio la scena, che finora aveva avuto luogo a Tebe
e rappresentava il palazzo di Laio, doveva con ogni probabilità cambiare,
come sembra richiedere il P. Bodmer 25: il teatro dell’azione diventava
Atene. (…) [Ne]i vv. 325‑326 della Samia menandrea (…) è da vedere
verosimilmente il saluto di Edipo alla terra di Cecrope55.
Per spiegare questo approdo di Edipo ad Atene non si vede altro modo
che scorgervi l’esito del suo esilio da Tebe. Se tale ipotesi cogliesse nel
segno, bisognerebbe ammettere che una delle colonne portanti della trama
di OC – l’esilio risolutore in terra attica –, finora ritenuta invenzione o
comunque elaborazione personale di Sofocle (vd. supra n. 44), si troverebbe
anticipata56, anzi già concretamente inscenata nell’Edipo euripideo.
Davanti ad una conseguenza di tale portata, altri studiosi hanno
preferito sminuire l’implicazione ‘ateniese’ di fr. 554b K. Martin Cropp e –
in maniera apparentemente indipendente – Herman van Looy hanno
proposto di modificare il Κεκροπίας tràdito dai papiri della Samia in
53
Che fossero nessi dal sapore tragico gli studiosi avevano già visto prima della
scoperta del Papiro Bodmer XXV con la rivelatrice nota marginale (i trimetri erano già
noti dall’inizio del Novecento, perché presenti su un altro testimone papiraceo della
Samia, il cd. Papiro Cairense: edizione in LEFEBVRE 1911, i due versi in esame a p. 37),
vd. la discussione in BARIGAZZI 1965, 121‑122. Per il dettato della prima apostrofe vd.
infra n. 58; per ταναὸς αἰθήρ cf. E. Or. 322 (lyr.) τὸν, ταναὸν αἰθέρ᾽.
54
GOMME/SANDBACH 1973, 577: «It seems then that ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός
κτλ. is a quotation from Euripides’ Oedipus, and that the latter part of that play dealt
with Oedipus’ refuge in Athens after his blinding (cf. perhaps frag. 98 Austin = Stob.
iv. 5. 11, frag. 1049 Nauck [è il fr. 554a K., vd. infra n. 63 N.d.A])»; in questa direzione
e con rimando a questa nota anche KANNICHT 2004, 582 nel suo apparato ad loc.:
«Oedipodis refugium Atheniense respici videtur».
55
DI GREGORIO 1980, 53 («cambiamento di scena»), 70, 88 e 91 (da qui la citazione).
56
L’altra possibile anticipazione euripidea di questo motivo, Ph. 1703‑1707, è
oggetto di un annoso dibattito sull’autenticità (vd. ad es. KAMERBEEK 1984, 2 n. 2;
KEARNS 1989, 208; GANTZ 1993, 296, 502; MASTRONARDE 1994, 626‑627, tutti con la
bibliografia rilevante precedente); vd. anche supra n. 44.
Edipo all’altare? 127
57
CROPP in CROPP/FICK 1985, 85(b); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY, 20022, 444
seguiti da LIAPIS 2014, 315, con riassunto dei possibili speakers e contesti: «Oedipus –
assuming that he went into exile – would perhaps be bidding farewell to his native
Thebes, or addressing it in his distress or reproachfully (…). Alternatively, another
speaker (Creon?) could be apostrophizing the city of Thebes, perhaps in a call for
Oedipus’s punishment»; vd. anche COLLARD 2005, 61 n. 23.
58
Cf. rispettivamente E. Tr. 243 (lyr.) πόλιν … Καδμείας χθονός, Ph. 1101 ἄστυ
Καδμείας χθονός; 287 πύργωμα Θηβαίας χθονός, 776 τῇδε Θηβαίᾳ χθονί e vd.
DIGGLE 1994, 443, con raccolta di tutti i passi rilevanti, a sostegno della propria tesi che
Euripide prediliga l’aggettivo singolare con χθών, il genitivo plurale del popolo con
πόλις o ἄστυ.
59
Cf. E. Hipp. 34 Κεκροπίαν … χθόνα; Ion 1571 Κεκροπίαν χθόνα, vd. anche infra
n. 69.
60
AÉLION 1986, 52‑53 con n. 127 (Aélion pare ritenere genuini Ph. 1703‑1707, su cui
vd. supra n. 56); COLLARD 2005, 61‑62 e vd. anche COLLARD/CROPP 2008, 6 («fr. 554b …
may allude to Oedipus’ expectation of refuge in Athens») e 25 n. 1; menziona questa
soluzione, senza favorirla, LIAPIS 2014, 315; più possibilista LIAPIS 2014, 356: «Oedipus
(following an oracle?) may have set out to seek refuge in Athens (fr. 554b = A3 above?)».
61
Vd. COLLARD 2005, 62: «one would have to consider if Euripides was quite
128 Laura Carrara
In cerca di altre tracce lasciate dal supposto finale ateniese nei frammenti
superstiti dell’Edipo è andato il più convinto assertore di questa tesi,
Lamberto Di Gregorio. Probanti sarebbero, a suo avviso, i frammenti 549
K. ἀλλ’ ἦμαρ <ἕν> τοι μεταβολὰς πολλὰς ἔχει («un giorno solo davvero
porta molti mutamenti») e 554 K. πολλάς γ’ ὁ δαίμων τοῦ βίου
μεταστάσεις / ἔδωκεν ἡμῖν μεταβολάς τε τῆς τύχης («molti rivolgimenti
di vita ha dato a noi il dio, e mutamenti del destino»): il radicale
cambiamento di vita in essi alluso riguarderebbe il protagonista Edipo e
sarebbe da identificare con il suo esilio ateniese62. Probante sarebbe anche
il fr. 554a K., che secondo Di Gregorio verrebbe da una scena ateniese in
cui «un personaggio (…) rivolge la parola all’eroe rifugiatosi presso l’altare,
e gli dice che, se non è giusto, lo trascinerà via e lo punirà senza alcun
timore degli dei»63 – viene spontaneo pensare alla turbolenta accoglienza
riservata ad Edipo rifugiato nello ἱερὸς χῶρος dalle genti del luogo
nell’Edipo a Colono. Anche a Collard il fr. 554a K. impone, o almeno
suggerisce una scena di supplica all’altare, ambientata però a Tebe, con
Creonte che starebbe minacciando Edipo seduto presso il βωμός di
condurlo a processo64.
La discussione sul finale ateniese dell’Edipo euripideo – inscenato, proiet‑
tato nel futuro extra‑drammatico oppure solo abbaglio della critica dovuto
al pastiche menandreo? – non può dirsi ancora interamente esaurita65.
Né può essere esaurita nello spazio di questo inserto, che si limita a qualche
stringata considerazione sui due aspetti da cui a me pare dipendere la
deliberately playing for applause, using the myth version which Sophocles was later
to exploit so fully in Oedipus at Colonus». Per l’altra possibile anticipazione euripidea
di questo motivo, Ph. 1703‑1707, vd. supra n. 56.
62
DI GREGORIO 1980, 89‑90. La percezione che l’Edipo euripideo avrebbe dell’esilio
(sia o non sia lui lo speaker dei due frammenti) è dunque positiva, paragonabile a quella
dell’Edipo di OT (per cui la permanenza a Tebe, teatro del neo‑scoperto incesto, è
divenuta insopportabile) ma opposta a quella dell’Edipo di OC (che invece ne soffre
l’imposizione).
63
DI GREGORIO 1980, 91; vd. anche supra n. 54 a proposito del commento di Gomme
e Sandbach.
64
COLLARD/CROPP 2008, 6 e 25 n. 1: «Perhaps Creon insisting on summary justice
and exile for the already blinded Oedipus ( n o w a c t u a l l y i n s a n c t u a r y ? )
[enfasi mia, N.d.A], after his revelation as a parricide. For the general idea cf. Ion 1314‑
9»; vd. anche COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 110 («Creon trying … to
punish Oedipus further»), 131. Vd. anche MIKALSON 1991, 259 n. 33: «someone
probably say this of Oedipus»; LIAPIS 2014, 353.
65
Nei due più recenti contributi sulla tragedia essa ha comunque perso di attualità:
LIAPIS 2014, 315 n. 31 liquida l’ipotesi di Di Gregorio come ‘unwarranted’, FINGLASS
2017 non ne fa menzione.
Edipo all’altare? 129
66
Altri argomenti come la lettura in chiave ‘avvenuto esilio ad Atene’ dei frr. 549 e
554 K. (così Di Gregorio, vd. supra n. 62) sono destinati a restare ancillari, perché non
immuni dal rischio del circolo vizioso: tali brani gnomici ammettono svariate
collocazioni e non è lecito estrarre (solo) da loro quod demonstrandum est.
67
Rispettivamente COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 110 e COLLARD 2005,
61.
68
Vd. POLI PALLADINI 2001, 289‑296. In A. Eu. 235 le prime parole di Oreste neo‑
arrivato ad Atene sono un’invocazione alla dea epicorica (ἄνασσ’ Ἀθάνα), a far subito
chiarezza sul nuovo setting: ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός in fr. 554a K. avrebbe
analoga funzione. Sul cambio di scena in tragedia vd. le analisi di DI BENE‑
DETTO/MEDDA 1997, 90‑91, 93, 103‑105, 115.
69
Oltre ai già citati (vd. supra n. 59) Hipp. 34 e Ion 1571 (con χθών), cf. per il genitivo
Κεκροπίας in uso quasi sostantivato Supp. 658, El. 1289, fr. 481, 10 K. (Melanippe Sophé)
nonché Ion 936 Κεκροπίων πετρῶν (‑ίας πέτρας L); per il preciso referente geografico
vd. DIGGLE 1994, 73: «Cecropia was felt to be limited to Athens, as centered on the
Acropolis». Fuori dal corpus euripideo Κεκρόπιος è scarsamente attestato (cf. quasi
solo Strab. 9, 1, 20, 5 Κεκροπία Τετράπολις).
130 Laura Carrara
70
Non vede in ciò invece difficoltà LIAPIS 2014, 353: «It is even possible that he [scil.
Creon] is attempting to justify (γάρ) his dragging the suppliant off the altar at which
the latter had taken refuge».
71
A meno di non credere che il primo ad incontrare Edipo supplice ad Atene fosse,
nell’Edipo di Euripide, l’ἄρχων di quella terra in persona, un ‘diversamente pio’
(rispetto al suo omonimo di OC) Teseo – ma ci si perde in speculazioni.
72
Contra LIAPIS 2014, 353: «The fragment e v i d e n t l y c o m e s f r o m a s c e n e
Edipo all’altare? 131
governativa (vd. supra) oppure anche (le due cose non si escludono) di
arroganza religiosa di uno speaker sinceramente convinto di non dover aver
alcun timore gli dei perché giuste sono le sue opere75.
4. Conclusioni
Le osservazioni qui offerte su testo e contesto di fr. 554a K., seppur non
conclusive, avranno avuto almeno il merito di attirare l’attenzione su una
pluralità di scenari ed aspetti diversi, contribuendo così all’abbandono di
quell’approccio tardo‑romantico che voleva udire in ogni brano
frammentario soltanto la ‘voce del poeta’ in conflitto insanabile con la
75
Così secondo un’idea di Martin Cropp riportata da FINGLASS 2017, 24 n. 33 e
basata su S. Ant. 280‑289. Nel Creonte dell’Antigone convivono entrambe le dimensioni,
anzi l’una trova sostegno nell’altra.
Edipo all’altare? 133
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76
Così NESTLE 1901, 120: «Von der bloß theoretischen Betrachtung dieser
Einrichtung [scil. la critica alla supplica in Ion 1312‑1319] erhebt sich der Dichter zu
fast revolutionären Auflehnung gegen dieselbe im Fr. 1049»; SOLMSEN 1975, 75:
«Elsewhere (fr. 1049) a less inhibited speaker is willing to take justice into his own
hands by removing the guilty person from the altar. Evidently, in a conflict between
morality and established religion, the latter must give way».
77
Così, correttamente, MIKALSON 1991, 259 n. 33: «since we know nothing of the
speaker or the context, we cannot take this as Euripidean criticism of popular religion.
It may well, as in the Ion, turn out to be exactly the opposite».
78
Così LIAPIS 2014, 355.
79
GANTZ 1993, 500.
134 Laura Carrara
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La scena di riconoscimento
nelle tragedie frammentarie di Euripide
1
Cf. TAPLIN 1977, 49‑60.
2
Arist. Po. 1450a 33‑35, 1452a 12‑22, 1452a 30‑1452b 8, 1453b 27‑1454a 9, 154b 19‑
1455a 21.
138 Mattia De Poli
3
In grassetto sono indicate le tragedie euripidee, che verranno trattate in seguito.
La cronologia delle opere è discussa da CARPANELLI 2005 (per Euripide) e da AVEZZÙ
2003 (in generale), nonostante la datazione di alcuni drammi resti particolarmente
controversa, come mostrano le edizioni dei testi frammentari e alcuni studi specifici.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 139
4
Questo compito è affidato al vecchio Pedagogo nell’Elettra di Euripide, a Pilade
nell’Ifigenia fra i Tauri e a un Servo nell’Elena.
5
Pilade è spettatore silenzioso della scena di riconoscimento anche nelle Coefore di
Eschilo e nell’Elettra di Sofocle.
6
Fanno eccezione solamente le Coefore di Eschilo, dove i vv. 233‑245 sono ancora
trimetri giambici recitati, e l’Elettra di Euripide, in cui l’iniziale scambio di battute fra
Elettra e Oreste in trimetri giambici recitati (578b‑584) cede il posto anche in questo
caso al canto, ma la voce che canta è quella del Coro (585‑595).
7
Questa spia lessicale del ricongiungimento è assente nella scena di riconoscimento
delle Coefore di Eschilo.
140 Mattia De Poli
8
Qualcosa di analogo si verifica anche nella scena di riconoscimento delle Coefore,
nel corso della quale Oreste e Pilade escono dal nascondiglio da cui, senza essere visti,
hanno osservato e ascoltato Elettra (212).
9
Un’espansione della scena di riconoscimento, simile a questa, si trova anche
nell’Elettra di Sofocle, in seguito all’uscita dal palazzo del Vecchio pedagogo, di cui la
protagonista ignora l’identità.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 141
10
I frammenti delle tragedie di Euripide sono citati secondo l’edizione di KANNICHT
2004. Per i frammenti delle tragedie di Sofocle, si fa riferimento all’edizione di RADT
1999.
142 Mattia De Poli
teca di Apollodoro (Epit. 1, 4‑6) e uno della Vita di Teseo di Plutarco (12, 2‑6)
– che per certi aspetti sono fra loro discordanti. D’altra parte, è noto che
anche Sofocle compose una tragedia sulla stessa vicenda di quella
euripidea.
Lo scolio a Omero, Iliade 11, 741, attribuito al grammatico Didimo11,
presenta alcuni fatti precedenti l’arrivo di Teseo ad Atene, che riguardano
in particolare il personaggio di Medea: «Medea era figlia di Eeta e moglie
di Giasone. Dopo aver ucciso i figli, giunse esule ad Atene e visse insieme
ad Egeo, figlio di Pandione». In questo contesto si colloca la vicenda
ateniese di Teseo, «figlio di Etra e di Egeo, giunto là da Trezene per il
riconoscimento del padre»: Medea inizia a tessere le sue trame criminali
contro di lui e «convince Egeo a dare a Teseo un veleno mortale, asserendo
che egli era venuto per cospirare contro il suo regno». Il progetto di Medea
si sta per compiere ma la morte del giovane viene scongiurata dal suo
riconoscimento da parte del padre: «proprio quanto Teseo si accingeva a
bere», Egeo riconobbe «la spada e i calzari, che aveva lasciato a Trezene
come oggetti per il riconoscimento (del figlio)»: allora «rovesciò il veleno e
scacciò Medea dall’Attica». Nel raccontare la vicenda, dunque, lo scoliasta
aggiunge un’altra informazione sull’antefatto, ricordando con una breve
analessi, non più di un inciso, che Egeo aveva lasciato a Trezene alcuni
oggetti (γνωρίσματα) che gli avrebbero consentito di riconoscere l’even‑
tuale figlio partorito da Etra. D’altra parte, l’espressione ἐπὶ τὸν τοῦ πατρὸς
ἀναγνωρισμὸν può essere intesa in due modi diversi, a seconda che si
attribuisca al genitivo τοῦ πατρὸς un valore soggettivo («perché il padre
lo riconoscesse») oppure oggettivo («per riconoscere suo padre»): nel primo
caso si può supporre che Teseo conosca fin dall’inizio l’identità del padre,
mentre nel secondo caso si tratterebbe inevitabilmente di un ricono‑
scimento reciproco.
È stato notato che, rispetto a questa versione dei fatti, il testo di Apollo‑
doro12 presenta almeno una variante significativa. Seguendo i consigli di
11
Schol. in Hom. Il. 11, 741 ἣ τ ό σ α φ ά ρ μ α κ α ᾔ δ η : Μήδεια ἐγένετο Αἰήτου
μὲν θυγάτηρ, Ἰάσονος δὲ γυνή. αὕτη μετὰ τὴν ἀπεργασθεῖσαν τεκνοκτονίαν
φυγὰς εἰς Ἀθήνας ἀφίκετο καὶ συνῴκησεν Αἰγεῖ τῷ Πανδίονος. κἀκεῖ Θησέα τὸν
ἐξ Αἴθρας γενόμενον τῷ Αἰγεῖ, ἐπὶ τὸν τοῦ πατρὸς ἀναγνωρισμὸν ἐκ Τροιζῆνος
ἀφικόμενον, πείθει τὸν Αἰγέα φάρμακον αὐτῷ δοῦναι θανάσιμον, ἐπίβουλον
αὐτοῦ τῆς βασιλείας εἰποῦσα παραγίνεσθαι. πεισθεὶς δὲ Αἰγεὺς φάρμακον ἔδωκε
παραγενομένῳ τῷ παιδί· μέλλοντος δὲ καταπίνειν ἐπιγνοὺς τό τε ξίφος καὶ τὰ
ὑποδήματα (ταῦτα γὰρ ἐν Τροιζῆνι γνωρίσματα κατέλιπεν) τὸ μὲν φάρμακον
ἀφείλετο, τὴν δὲ Μήδειαν ἐξέβαλε τῆς Ἀττικῆς. οἰκήσασα δὲ αὕτη τὴν πλησίον
Ἤλιδος Ἔφυραν πολυφάρμακον ἐποίησεν αὐτὴν ἐπονομασθῆναι. ἱστόρηται παρὰ
Κράτητι (fr. 84 M.) AT.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 143
Medea, infatti, Egeo tenta di far morire Teseo due volte, in due modi
diversi: prima «lo mandò ad affrontare il toro di Maratona» e, «dopo che
Teseo lo ebbe ucciso, gli porse un veleno». La vicenda poi prevede il
riconoscimento del figlio da parte di Egeo, che fa cadere la coppa dalle mani
di Teseo, e il conseguente allontanamento di Medea, colpevole delle insidie
ordite. Inoltre, nonostante le parole «riconosciuto dal padre» forniscano
solo il punto di vista di Egeo, il racconto di Apollodoro sembra implicare
un riconoscimento reciproco fra padre e figlio: Etra, tenendo fede alle
disposizioni di Egeo13, si sarebbe limitata a consegnare a Teseo «il coltello
e i sandali» (3, 15, 7 μάχαιραν καὶ πέδιλα) trovati sotto un macigno e, senza
rivelargli l’identità del padre, ad inviarlo ad Atene, dove Egeo avrebbe
riconosciuto il figlio grazie alla sola «spada» (τὸ ξίφος)14.
Generalmente, si ritiene che questa “versione secondaria”, o “variante”,
dipenda da una fonte tragica: così lascia supporre l’uso dell’avverbio
αὐθημερινόν, che colloca entrambi i tentativi «nello stesso giorno» in
ossequio all’unità di tempo che di solito caratterizza la tragedia attica. Lo
scarto rispetto alla vicenda narrata dallo scolio omerico, indicata anche
come “versione standard”, di solito viene attribuito dalla critica moderna
all’originalità di Euripide15, ma nell’Egeo di Sofocle il fr. 25 κλωστῆρσι
χειρῶν ὀργάσας κατήνυσε [Theseus] σειραῖα δεσμά, «dopo averli resi
flessuosi (scil. dei ramoscelli) avvolgendoli come una matassa intorno alle
mani, fece dei legacci da usare come una fune» descriverebbe la cattura del
toro di Maratona da parte del protagonista: così queste parole vengono
spiegate da Fozio16. Al contrario, nulla impedisce di supporre, in base agli
12
Apollod. Epit. 1, 4‑6 καθάρας οὖν Θησεὺς τὴν ὁδὸν ἧκεν εἰς Ἀθήνας. Μήδεια
δὲ Αἰγεῖ τότε συνοικοῦσα ἐπεβούλευσεν αὐτῷ, καὶ πείθει τὸν Αἰγέα φυλάττεσθαι
ὡς ἐπίβουλον αὐτοῦ. Αἰγεὺς δὲ τὸν ἴδιον ἀγνοῶν παῖδα, δείσας ἔπεμψεν ἐπὶ τὸν
Μαραθώνιον ταῦρον. ὡς δὲ ἀνεῖλεν αὐτόν, παρὰ Μηδείας λαβὼν αὐθημερινὸν
προσήνεγκεν αὐτῷ φάρμακον. ὁ δὲ μέλλοντος αὐτῷ τοῦ ποτοῦ προσφέρεσθαι
ἐδωρήσατο τῷ πατρὶ τὸ ξίφος, ὅπερ ἐπιγνοὺς Αἰγεὺς τὴν κύλικα ἐξέρριψε τῶν
χειρῶν αὐτοῦ. Θησεὺς δὲ ἀναγνωρισθεὶς τῷ πατρὶ καὶ τὴν ἐπιβουλὴν μαθὼν
ἐξέβαλε τὴν Μήδειαν.
13
Cf. Apollod. 3, 15, 7 Αἰγεὺς δὲ ἐντειλάμενος Αἴθρᾳ, ὰν ἄρρενα γεννήσῃ,
τρέφειν, τίνος ἐστὶ μὴ λέγουσαν.
14
Non si dice nulla in merito al ruolo del dio Poseidone nella vicenda, dopo che
egli si accostò ad Etra la stessa notte in cui Egeo giacque con la giovane donna: cf.
Apollod. 3, 15, 7.
15
Così ad esempio ancora LLOYD‑JONES 1996; JOUAN/VAN LOOY 1998; GUÉRIN 2015.
16
Phot. α 808: […] Σοφοκλῆς δὲ ἐν Αἰγεῖ <φησι> (fr. 25 R.) τὸν Θησέα στρέφοντα
καὶ μαλάττοντα τὰς λύγους ποιῆσαι δεσμὰ τῷ ταύρῳ. Λέγει δὲ οὕτως· κλωστῆρσι
χειρῶν ὀργάσας κατήνυσε σειραῖα δεσμά. L’allusione al toro di Maratona, presente
nell’Egeo di Sofocle è stata rilevata da HAHNEMANN 1999 e 2003.
144 Mattia De Poli
17
Cf. HAHNEMANN 2003, 213; COLLARD/CROPP 2008, 4, seppure con cautela.
18
Plut. Thes. 12, 2‑6 κατελθὼν δ’ εἰς τὴν πόλιν εὗρε τά τε κοινὰ ταραχῆς μεστὰ
καὶ διχοφροσύνης, καὶ τὰ περὶ τὸν Αἰγέα καὶ τὸν οἶκον ἰδίᾳ νοσοῦντα. Μήδεια γὰρ
ἐκ Κορίνθου φυγοῦσα φαρμάκοις ὑποσχομένη τῆς ἀτεκνίας ἀπαλλάξειν Αἰγέα
συνῆν αὐτῷ. προαισθομένη δὲ περὶ τοῦ Θησέως αὕτη, τοῦ δ’ Αἰγέως ἀγνοοῦντος,
ὄντος δὲ πρεσβυτέρου καὶ φοβουμένου πάντα διὰ τὴν στάσιν, ἔπεισεν αὐτὸν ὡς
ξένον ἑστιῶντα φαρμάκοις ἀνελεῖν. ἐλθὼν οὖν ὁ Θησεὺς ἐπὶ τὸ ἄριστον, οὐκ
ἐδοκίμαζε φράζειν αὑτὸν ὅστις εἴη πρότερος, ἐκείνῳ δὲ βουλόμενος ἀρχὴν
ἀνευρέσεως παρασχεῖν, κρεῶν παρακειμένων σπασάμενος τὴν μάχαιραν ὡς
ταύτῃ τεμῶν ἐδείκνυεν ἐκείνῳ. ταχὺ δὲ καταμαθὼν ὁ Αἰγεύς, τὴν μὲν κύλικα τοῦ
φαρμάκου κατέβαλε, τὸν δ’ υἱὸν ἀνακρίνας ἠσπάζετο καὶ συναγαγὼν τοὺς
πολίτας ἐγνώριζεν, ἡδέως δεχομένους διὰ τὴν ἀνδραγαθίαν. λέγεται δὲ τῆς
κύλικος πεσούσης ἐκχυθῆναι τὸ φάρμακον ὅπου νῦν ἐν Δελφινίῳ τὸ περίφρακτόν
ἐστιν· ἐνταῦθα γὰρ ὁ Αἰγεὺς ᾤκει, καὶ τὸν Ἑρμῆν τὸν πρὸς ἕω τοῦ ἱεροῦ καλοῦσιν
ἐπ’ Αἰγέως πύλαις.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 145
inoltre, c’è spazio per un aition, simile ad altri presenti nelle tragedie di
Euripide: il luogo dove Egeo ha rovesciato a terra il veleno è il Delfinio, un
santuario di Apollo in cui storicamente ad Atene si giudicavano ed
eventualmente venivano purificate le persone colpevoli di omicidio, che
sostenevano di aver agito legittimamente.
Purtroppo, i pochi frammenti noti dell’Egeo di Euripide non presentano
alcun legame evidente con la scena di riconoscimento. Secondo alcuni
studiosi, il fr. 6 τί γὰρ πατρῴας ἀνδρὶ φίλτερον χθονός; («un uomo, che
cosa ha di più caro della patria?») esprimerebbe la gioia di Teseo in seguito
al riconoscimento da parte del padre, verosimilmente nella fase del
ricongiungimento20. In effetti, considerazioni simili a questa sono presenti
nel primo episodio delle Fenicie, dopo che Giocasta e Polinice si sono
ritrovati21, ma il loro incontro avviene all’inizio della tragedia e il figlio fa
19
Si noti che, in modo speculare, nel racconto di Apollodoro si menziona una
μάχαιρα tra gli oggetti lasciati a Trezene da Egeo e uno ξίφος come oggetto
effettivamente utile al riconoscimento. Nel testo di Plutarco il riconoscimento è
strettamente legato al pasto offerto da Egeo all’ospite straniero: se si accetta che egli
abbia basato il suo racconto sulla trama di una tragedia, bisogna ammettere che non è
usuale che i personaggi tragici mangino in scena; d’altra parte, non è necessario
immaginare che gli spettatori vedessero qualcuno banchettare, ma è sufficiente
ipotizzare che l’ἄριστον venisse preparato e interrotto ancor prima di iniziare, come
accade nel Ciclope, appena Polifemo si accorge dei nuovi arrivati, oppure nell’Alcesti,
quando Eracle biasima il servo per la sua tristezza scoprendo così della morte della
padrona di casa. Sarebbe sufficiente suggerire la circostanza attraverso alcuni oggetti
di scena: possiamo supporre che Egeo facesse preparare un pasto in onore del suo
ospite e che Teseo, appena arrivato in scena, accingendosi a tagliare la carne, mostrasse
la spada, o meglio il coltello, la μάχαιρα lasciata da Egeo a Trezene. Cf. anche E. El.
493‑500, all'inizio della scena di riconoscimento. In alternativa, questa parte della
vicenda poteva svolgersi in uno spazio extra‑scenico, come nello Ione, ma dobbiamo
immaginare che poi, per qualche motivo, Egeo e Teseo arrivassero in scena. Per
l’espressione ὡς ξένον ἑστιῶντα, cf. E. Alc. 765. Sul significato di ἄριστον, cf. E. Cyc.
214 e cf. USSHER 1978, 79‑80; O’SULLIVAN/COLLARD 2013, 160.
20
Cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 7.
21
Cf. E. Ph. 358‑360 Πο. ἀλλ’ ἀναγκαίως ἔχει / πατρίδος ἐρᾶν ἅπαντας· ὃς δ’
ἄλλως λέγει, / λόγοισι χαίρει, τὸν δὲ νοῦν ἐκεῖσ’ ἔχει (Polinice: «è inevitabile che
chiunque ami la propria patria: chi dice altrimenti, si compiace di dirlo, ma la sua
mente corre là»), 388‑389 Ιο. […] τί τὸ στέρεσθαι πατρίδος; ἦ κακὸν μέγα; / Πο.
μέγιστον· ἔργῳ δ’ ἐστὶ μεῖζον ἢ λόγῳ (Giocasta: «Com’è essere privati della patria?
Una grande rovina?», Polinice: «Una rovina enorme! Più grande di quanto dicano le
parole»), 406‑407 Ιο. ἡ πατρίς, ὡς ἔοικε, φίλτατον βροτοῖς. / Πο. οὐδ’ ὀνομάσαι δύναι’
ἂν ὡς ἐστὶν φίλον (Giocasta: «A quanto sembra, gli uomini hanno molto a cuore la
loro patria», Polinice: «Non si possono trovare parole per dire quanto l’abbiano a
cuore!»).
146 Mattia De Poli
tali affermazioni appena rimette piede nella sua città, nella sua patria. La
trama dell’Egeo di Euripide sembra essere diversa: Teseo, quando arriva in
Attica, sa che quella è la terra su cui regna suo padre ed è plausibile che il
fr. 6 debba essere collocato all’inizio della tragedia, in una battuta pronun‑
ciata verosimilmente dal giovane molto prima del suo riconoscimento da
parte del re di Atene.
Accettare la Vita di Teseo di Plutarco come fonte principale per ricostruire
la trama dell’Egeo di Euripide implica che in questa tragedia, databile agli
anni ’30 del V secolo, non solo era presente una scena di riconoscimento,
una tra le più antiche almeno nella produzione euripidea, ma anche che
essa aveva queste caratteristiche: 1) era basata su un riconoscimento
semplice, perché Teseo sa fin dal principio che Egeo è suo padre22; 2)
coinvolgeva padre e figlio; 3) sfruttava un oggetto, la μάχαιρα; 4) rimediava
a una situazione potenzialmente mortale per Teseo; 5) si articolava in due
momenti: l’inchiesta e il ricongiungimento, sottolineato dall’abbraccio; 6)
si inseriva nella trama in prossimità del finale, anche se non è possibile
stabilire con sicurezza la sua posizione all’interno della tragedia23.
22
Cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 7.
23
Secondo WELCKER 1839, 394, il testo di Plutarco, non facendo alcun riferimento
alla cacciata di Medea, potrebbe conservare solo una parte della trama euripidea, che
poteva prevedere anch’essa l’allontanamento di Medea da Atene.
24
Nel ricostruire la scena di riconoscimento, DI GIUSEPPE 2012, 172‑175, non si
sofferma sul fr. 62, mentre riconduce il fr. 50 δούλων ὅσοι φιλοῦσι δεσποτῶν γένος,
/ πρὸς τῶν ὁμοίων πόλεμον αἴρονται μέγαν («gli chiavi che amano la genia dei
padroni si attirano un’avversione grande da parte dei compagni») «all’interrogatorio
del padre adottivo di Alessandro», da parte di Ecuba: il pastore si giustificherebbe così
per il fatto di aver nascosto l’identità di Alessandro; tuttavia, sia JOUAN/VAN LOOY 1998,
63, che KANNICHT 2004, 186, ritengono che questo frammento sia riconducibile ad un
agon logon. A proposito dell’originale proposta interpretativa di Di Giuseppe, cf.
MAGNANI 2014, 151. Forse, tali parole alludono alla ὑπερήφανος συμβίωσις di
Alessandro: in questo caso potrebbero essere pronunciate nel prologo da un
personaggio che descrive l’antefatto della tragedia, oppure in un momento successivo
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 147
28
Il confronto fra questi passi è suggerito da HUYS 1986, 34‑35, che tuttavia omette
E. Ph. 310‑311 e non considera le occorrenze di ἀδόκητος.
29
A questa situazione sono in parte assimilabili le parole di Lico nel finale
dell’Antiope: fr. 223c, 133 ὦ πόλλ’ ἄελπτα … . L’aggettivo ἄελπτος ricorre anche nel
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 149
ἄελπτα τῶν ἐμῶν φίλων τινὶ / πέμψω πρὸς Ἄργος, ὃν μάλιστ’ ἐγὼ φιλῶ
…)30 si inserisce in una scena di poco precedente rispetto a quella di
riconoscimento, focalizzata sulla lettera che Ifigenia vorrebbe affidare a uno
dei due Greci e che favorirà la sua identificazione da parte di Oreste, anche
se ciò non avverrà nei tempi e nei modi previsti dalla giovane donna. Infine,
il v. 783 dell’Elena (Ελ. ἥκεις ἄελπτος ἐμποδὼν ἐμοῖς γάμοις) si trova nella
sezione immediatamente successiva alla scena di riconoscimento, quella
che ho proposto di chiamare “supplemento di inchiesta” e che, pur
introducendo il problema della salvezza e della fuga, insiste ancora sull’i‑
dentità dei personaggi e sulla loro storia.
In generale, comunque, si può osservare che nelle tragedie di Euripide:
1) ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος sono utilizzati in varie forme ma si
specializzano come spie lessicali della scena di riconoscimento, in
particolare del ricongiungimento, proprio come l’espressione ἔχω σε che
segnala l’abbraccio; 2) nelle tragedie con scena di riconoscimento o ricon‑
giungimento ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος esprimono una sorpresa
positiva. Ciò invita a respingere l’interpretazione del fr. 62 dell’Alessandro
come una consolazione o una minaccia.
Inoltre, il vocativo Ἑκάβη porta ad escludere un’attribuzione del fr. 62
ad Alessandro, perché un figlio, quando riconosce o ritrova la madre, la
apostrofa con il vocativo μῆτερ, a sottolineare il legame affettivo e di
parentela appena ristabilito, mentre la formulazione sentenziosa e l’analo‑
gia con i vv. 1510‑1511 dello Ione invitano a ritenere che anche il fr. 62
corrispondesse al distico con cui il Corifèo chiudeva la scena di ricono‑
scimento31.
32
Queste espressioni sono state accostate anche ad un altro verso sofocleo (S. Ant.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 151
43
Cf. AP 3, 10, 1 Βάκχοιο φυτὸν τόδε (prima dell’epigramma si legge: …
ἀναγνωριζόμενοι τῇ μητρὶ καὶ τὴν χρυσῆν δεικνύντες ἄμπελον, ὅπερ ἦν αὐτοῖς
τοῦ γένους σύμβολον …); cf. JOUAN/VAN LOOY 2002, 158‑159; HARTUNG 1844, 438.
44
Cf. BOND 1963, 138; HARTUNG 1844, 439.
45
Per l’uso di εὔφημος riferito a cose, cf. E. Andr. 1144; per κατεσφραγισμένα, cf.
A. Supp. 947.
154 Mattia De Poli
46
Cf. LOMIENTO 2005, 62.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 155
47
Sulla questione relativa all’attribuzione dei vv. 1590‑1591, cf. BOND 1963, 126‑127.
156 Mattia De Poli
48
Si noti, però, che anche in questo caso, come nell’Alessandro, i giochi atletici
favorivano l’identificazione dei gemelli.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 157
49
Per la ricostruzione della scena di riconoscimento e, in generale, della trama del
Cresfonte, cf. MATTHIESSEN 1964, 111‑114; HARDER 1985, 114‑117; COLLARD/CROPP/LEE
1995, 121‑125; JOUAN/VAN LOOY 2000, 264‑270; COLLARD/CROPP 2008, 493‑495.
50
JOUAN/VAN LOOY 2000, 370.
51
Per la ricostruzione della trama della Melanippe prigioniera, cf. COLLARD/
CROPP/LEE 1995, 240‑247; JOUAN/VAN LOOY 2000, 363‑372; COLLARD/CROPP 2008, 587‑
589.
52
Cf. HOURMOUZIADES 1975. Per la ricostruzione della trama dell’Antiope, cf.
JOUAN/VAN LOOY 1998, 223‑237; COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 262‑264; COLLARD/
CROPP 2008, 170‑175; BIGA 2015, 37‑47.
158 Mattia De Poli
53
COLLARD/CROPP 2008, 87.
54
Per la ricostruzione della scena di riconoscimento e della trama dell’Alcmeone a
Corinto, cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 98‑100; COLLARD/CROPP 2008, 87‑89.
55
Per conclusioni ancora più complete, bisognerà considerare anche le tragedie
frammentarie di Sofocle, o almeno la sua Tyro II, che esulano da questa indagine.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 159
Riconoscimento
semplice reciproco
ESCHILO Coefore [1]
SOFOCLE Elettra [1]
EURIPIDE Egeo, Cresfonte, Elettra [3] Melanippe prigioniera, Ales‑
sandro, Ifigenia fra i Tauri,
Elena, Ione, Antiope, Ipsipile,
Alcmeone a Corinto [8]
56
Nel ristretto ambito delle tragedie integrali Euripide propone una situazione
analoga solo nella scena di pseudo‑riconoscimento fra Xuto e Ione.
57
Non meno singolare è l’eventuale scena, nell’Alcmeone a Corinto, fra Alcmeone e
Tisifone, padre e figlia, in cui il più vecchio è il personaggio maschile.
160 Mattia De Poli
58
A proposito della natura dei segni di riconoscimento utilizzati in queste tragedie
euripidee, cf. DE POLI 2017, 99‑100.
59
Cf. MATTHIESSEN 1964, 93‑143. Altre considerazioni sulla scena di riconoscimento
e la struttura della trama sono proposte da AÉLION 1983, I, 111‑143; II, 89‑98.
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 161
dei personaggi rischia di morire proprio a causa del suo mancato ricono‑
scimento da parte dell’altro, pericolo che viene scongiurato in extremis
grazie agli effetti di questa scena. Tale caratteristica euripidea, già
riscontrabile nell’Ifigenia fra i Tauri, nello Ione e, in qualche modo, anche
nell’Elena, è comune a tutte le tragedie frammentarie qui considerate.
La scena di riconoscimento si articola in “inchiesta” e “ricongiungimento” e
può essere seguita da un “supplemento d’inchiesta”. I dati desumibili dalle
tragedie frammentarie euripidee sembrano confermare la struttura a dittico
della scena di riconoscimento, articolata nei due momenti dell’inchiesta e
del ricongiungimento. Un’appendice della scena di riconoscimento, il
“supplemento d’inchiesta”, è comune a diverse tragedie tarde di Euripide,
oltre che all’Elettra di Sofocle. Di solito il canto interessa la fase del ricon‑
giungimento, ma nell’Ipsipile, forse, risuona già nella fase dell’inchiesta e
sicuramente si estende anche al “supplemento d’inchiesta”, dove il dialogo
fra i personaggi assume la forma di un amebeo lirico‑epirrematico.
La scena di riconoscimento tende a scivolare verso la fine della tragedia. La
posizione della scena di riconoscimento all’interno di una tragedia è
strettamente correlata alla trama ma, rispetto al caso delle Coefore di Eschilo,
in Sofocle e ancor più in Euripide si nota la tendenza a posticipare tale
scena, moltiplicando gli equivoci fra i personaggi e sfruttando ampiamente
l’ironia tragica nelle loro battute.
(Ips.?) […] e fece correre (me) e i miei figli di nuovo su un’unica strada, dopo aver
piegato verso la paura e verso la gioia, e alla fine rifulse serena.
[Partenza di Anfiarao]
Anf. Donna, ti sei procurata la nostra riconoscenza e, poiché sei stata benevola
con me quando chiedevo aiuto, anch’io ti ho mostrato benevolenza
riguardo i tuoi due figli. Ora abbi cura di te e voi due di vostra madre.
Addio! Noi giungeremo a Tebe alla testa di un esercito, proprio come ave‑
vamo cominciato.
Figli di Ipsipile (I) Buona fortuna, straniero! Te la meriti. (II) Sì, buona fortuna!
Eun. Ma delle tue sventure, povera madre, un dio era davvero insaziabile.
Ips. Ah, figlio mio, se tu sapessi la mia fuga dalla marina Lemno per non aver
tagliato il capo canuto di mio padre.
Eun. Davvero ti ordinarono di ammazzare tuo padre?
Ips. Provo terrore per le sventure di un tempo. Ah, figli, come Gorgoni uccisero
i mariti nei letti.
Eun. E tu, come hai sottratto il piede, senza morire?
Ips. Giunsi a scogli rimbombanti e oltre l’onda marina, desolato rifugio di
uccelli.
Eun. E da là come sei giunta qui? Con quale nave?
Ips. A forza di remi dei marinai mi condussero alla spiaggia di Nauplio,
navigando verso terre straniere, e mi costrinsero in schiavitù, figlio, qui
come misera merce da nave.
Eun. Ah, che sofferenze!
La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 163
Ips. Non lamentarti nella buona sorte. Tu, piuttosto, come sei stato cresciuto?
E lui? Nelle mani di chi, figlio? Figlio, parla, dillo a tua madre.
Eun. La nave Argo condusse me e lui nella città della Colchide.
Ips. Via dal mio seno, via del mio petto.
Eun. E, madre, quando Giasone, mio padre, morì…
Ips. Ahimé, mi dici cose dolorose, figlio, che fanno piangere i miei occhi!
Eun. Orfeo condusse me e lui in un posto, in Tracia.
Ips. E quale favore ha reso mai al vostro sventurato padre? Dimmi, figlio.
Eun. A me ha insegnato l’arte della cetra d’Asia e introdusse lui alle armi di
Ares, da battaglia.
Ips. Per quale rotta attraverso l’Egeo siete giunti allo scoglio di Lemno?
Eun. Tuo padre, Toante, ha portato i tuoi due figli.
Ips. Davvero si è salvato?
Eun. Certo, grazie alle trame di Dioniso.
Ips. ……
Eun. … un grappolo d’uva di Toante …
164 Mattia De Poli
Bibliografia
JOUAN/VAN LOOY 2000 = F. Jouan, H. van Looy, Euripide. Tragédies, vol. VIII/2, Paris
2000.
JOUAN/VAN LOOY 2002 = F. Jouan, H. van Looy, Euripide. Tragédies, vol. VIII/3, Paris
2002.
KANNICHT 2004 = R. Kannicht, Tragicorum Graecorum fragmenta, vol. V, Göttingen
2004.
KOSTER 1962 = W.J.W. Koster, Scholia in Aristophanem, IV/3, Groningen 1962.
LLOYD‑JONES 1996 = H. Lloyd‑Jones, Sophocles. Fragments, vol. III, Cambridge
Mass./London 1996.
LOMIENTO 2005 = L. Lomiento, Lettura dell’Ipsipile di Euripide, in R. Danese, M.R.
Falivene, L. Lomiento, R. Raffaelli (edd.), Vicende di Ipsipile. Da Erodoto a
Metastasio, Urbino 2005, 55‑69.
MAGNANI 2014 = M. Magnani, In margine a un nuovo studio sull’Alessandro di
Euripide, “AOFL” 9.2 (2014), 146‑166.
MATTHIESSEN 1964 = K. Matthiessen, Elektra, Taurische Iphigenie und Helena.
Untersuchungen zur Chronologie und zur dramatischen Form im Spätwerk des
Euripides, Göttingen 1964.
O’SULLIVAN/COLLARD 2013 = P. O’Sullivan, C. Collard, Euripides. Cyclops and Major
Fragments of Greek Satyric Drama, Oxford 2013.
RADT 1999 = S. Radt, Tragicorum Graecorum fragmenta, vol. IV, Göttingen 1999.
TAPLIN 1977 = O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus: The Dramatic Use of Exits and
Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977.
TIMPANARO 1996 = S. Timpanaro, Dall’Alexandros di Euripide all’Alexander di
Ennio, “RFIC” 124/1 (1996), 5‑70.
USSHER 1978 = R.G. Ussher, Euripides. Cyclops, Roma 1978.
WELCKER 1839 = F.G. Welcker, Die Griechischen Tragödien mit Rücksicht auf den
epischen Cyclus, Bonn 1839.
Una dimensione dimenticata dell’akoè:
la percezione in scena e la funzione drammaturgica
dei suoni non verbali
1
Gli studi sulla ricostruzione delle dinamiche sceniche nel teatro antico sono
innumerevoli e in continuo incremento. Imprescindibili i pionieristici contributi di
TAPLIN 1978 e TAPLIN 1977, il primo di tre studi sullo stagecraft dei tre grandi tragici,
seguito da SEALE 1982 e HALLERAN 1985. Sul versante italiano ancora fondamentale
DI BENEDETTO/MEDDA 1997.
2
Gli studi sulla musica nel teatro greco si sono arricchiti negli ultimi anni di una
bibliografia critica poderosa. Solo nei primi anni duemila vedono la luce ben cinque
importanti raccolte di studi: CASSIO/MUSTI/ROSSI 2000, PINAULT 2001, MURRAY/WILSON
2004, HAGEL/HARRAUER 2005, VOLPE CACCIATORE 2007.
A queste vanno aggiunte una serie di monografie che toccano temi fondamentali
come il lessico del suono e degli strumenti musicali in Grecia antica (ROCCONI 2003),
la funzione mimetica della musica in tragedia (SIFAKIS 2001), l’interazione fra attori e
musici (WILSON 2002), l’orizzonte iconografico della musica e dei musici, anche in
rapporto al teatro (CASTALDO 2000).
3
Tra gli studi sulla voce dell’attore si possono segnalare PAVLOVSKIS 1977, LANZA
1985, VETTA 1993 e RISPOLI 1996.
168 Valentina Zanusso
4
Un solo lavoro sistematico sulle qualità dei suoni (verbali e non verbali, nonché
musicali) ha indagato anche la produzione tragica: KAIMIO 1977, da una prospettiva
eminentemente lessicale, cui si collega CUZZOLIN 1999.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 169
5
Secondo il ben noto concetto di «parola scenica» teorizzato da Marzullo in diverse
sedi, tra cui MARZULLO 1986.
6
TAPLIN 1977, 58.
170 Valentina Zanusso
Ad un gradino più alto nella scala della complessità dei rumori si troverà
il suono prodotto dal corpo con l’ausilio di un oggetto di scena. Un esempio è
offerto dalla tromba di Eum. 566‑567. Viene coinvolta, in questo caso, la
categoria degli oggetti di scena, un elemento al centro di una recente
indagine che ne ha evidenziato il valore e la pregnanza, drammaturgici e
al contempo simbolici e dunque in generale comunicativi7. Un caso
particolare è rappresentato dall’articolatissima strumentazione portata in
scena nel prologo del Prometeo per l’incatenamento del protagonista, su cui
tornerò tra poco.
Al vertice di questa preliminare categorizzazione si troverà il suono non
umano. Si tratta dell’effetto acustico più complesso in termini di
riproducibilità. Il tuono (βροντή), sembra essere il rumore di questo genere
più frequente in tragedia. Se si suppone che quest’ultima tipologia potesse
essere riprodotta in teatro, dovevano essere messi in campo alcuni
strumenti meccanici che avrebbero dovuto garantire un grado di μίμησις,
accettabile. Il μηχάνημα in questione è il ben noto brontéion: la querelle
sull’utilizzo o meno delle macchine teatrali nel teatro del V secolo è, come
si sa, tutt’altro che risolta, ma per ciò che riguarda questi testi non mi
sembra secondario notare che si tratta di drammi datati all’ultima parte del
V secolo, con la sola eccezione del Prometeo per il quale proprio uno studio
di questo tipo potrebbe accumulare altri indizi a favore di una datazione
recenziore.
Una griglia strutturata in base alla classificazione proposta permetterà
di avere una visione sinottica sui rumori del teatro attico di V sec. La tabella
risulterà bipartita in base al criterio ‘scenico’ di suoni prodotti sulla scena e
fuori scena; ciascuna delle due categorie sarà a sua volta articolata nella
scala ‘fisica’ dei suoni da quello che è stato definito più semplice (e più
riproducibile) a quello più complesso (e meno riproducibile).
Anticipando una tabella sintetica (per i drammi che possiamo leggere
integralmente), si potrà avere:
7
Si tratta del recente COPPOLA/BARONE/SALVATORI 2016.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 171
Uno dei casi più rilevanti e più articolati, ma al contempo più affasci‑
nanti, che ho incontrato nel corso della mia indagine è quello del Prometeo
Incatenato. Se la vexatissima quaestio della paternità è ancora sub iudice ma
Eschilo è sempre meno quotato, una disamina degli ingredienti sonori del
dramma può mettere in luce elementi utili in questa prospettiva. Si può
innanzitutto osservare che in questa tragedia le notazioni di suoni e rumori
marcano momenti scenicamente significativi: il prologo (vv. 1‑87),
l’ingresso del coro (v. 125), il finale (vv. 1080‑87). In questa sede ho scelto
di soffermarmi sul prologo.
Il prologo del Prometeo Incatenato è uno degli elementi che ha contribuito
a gettare dubbi sulla paternità eschilea di questo dramma: esso presenta,
difatti, una struttura che è parsa anomala all’interno della produzione
eschilea superstite (duplice scena composta da un dialogo – vv. 1‑87 – e da
un monologo del protagonista, vv. 88‑127), e che viceversa mostra
significative analogie con articolazioni drammaturgiche documentate in
momenti successivi (per lo più nella produzione sofoclea e in parte in
quella euripidea)8. Questa ouverture non contiene gli elementi di scenografia
acustica della tipologia che si è definita più esplicita (riferimenti a rumori
più o meno espliciti accompagnati da verbi uditivi) ma ha un profilo
acusticamente rilevante, ed ha, a mio giudizio, un forte potere psicagogico,
determinante nel fornire un primo imprinting dell’ambientazione e
dell’atmosfera di questa tragedia. La disamina degli elementi sonori che
emergono in questi primi versi può costituire, inoltre, un utile supporto
alla ricostruzione della messa in scena di questo segmento drammaturgico,
per molti versi dubbia. Griffith (1983, 31) è tra i pochissimi che evidenzia
esplicitamente – in una cursoria notazione – le potenzialità mimetiche dei
suoni nella messa in scena del dramma (limitatamente ad alcuni versi)9;
potenzialità che sembrano meritare una valorizzazione e una focalizzazione
ulteriori attraverso una indagine più puntuale e capillare su questi versi.
La prima parte del prologo è, come si diceva, occupata da un dialogo
tra Kratos ed Efesto, alla presenza di Bia κωφὸν πρόσωπον (come si
deduce dall’allocuzione diretta del v. 12): il primo, emissario feroce di Zeus,
si assicura che il dio del fuoco esegua gli ordini del padre degli dei, pur
riluttante nella sua pietas di consanguineo, ed incateni Prometeo, reo del
8
Vd. THOMSON 1932, 15; GRIFFITH 1983, 80‑81; TAPLIN 1977, 240‑243; SUSANETTI
2010, 146.
9
«All in all, however, Prom. must have been one of the most spectacular and
visually sensational tragedies ever presented on the fifth century stage; the unexpected
sights (and sounds; cf. 64‑65, 1082‑3 nn.) provide relief and variety to a rather static and
monotonous series of scenes».
172 Valentina Zanusso
furto del fuoco e della sua clandestina consegna agli uomini, ad una rupe
della Scizia, affinché subisca la punizione che Zeus ha stabilito per lui.
Il movimento dei personaggi προλογίζοντες si intuisce dal verbo del
v. 1: ἥκομεν. Si tratta di un verbo che si può definire ‘tecnico’ in ambito
drammaturgico10, poiché compare altrove in incipit di dramma11 e costi‑
tuisce in sostanza una didascalia scenica: in un orizzonte recitativo di
impronta naturalistica, descrive un ingresso presumibilmente in movi‑
mento seguito immediatamente dalle ragioni dell’arrivo che individuano
gli antefatti. Oltre alla struttura del prologo, altro unicum nel panorama
tragico a nostra disposizione è l’ingresso contemporaneo di quattro
personaggi dotati di identità (Kratos, Efesto, Bia e Prometeo): una
singolarità di un qualche rilievo anche nell’ambito della produzione
eschilea, ove non è infrequente, nel pur ristretto numero di drammi
superstiti, una articolazione prologica del tutto peculiare: è ben noto, difatti,
che le Supplici e i Persiani si aprono con un canto del coro (e dunque con
una scena abbastanza ‘affollata’). Per cercare, forse, di attenuare, stem‑
perare questa apparente irregolarità drammaturgica, dalla metà circa dello
scorso secolo, alcuni studiosi12 hanno ipotizzato che Prometeo non facesse
effettivamente la propria comparsa sulla scena in vesti ‘umane’ ma che al
suo posto vi fosse un fantoccio ‘doppiato’ da un attore fuori scena che
veniva trascinato in catene e successivamente inchiodato al celeberrimo
πάγος (di cui si dirà in seguito). A corroborare questa ipotesi, ormai da più
parti criticata, interverrebbero altri elementi: il silenzio del protagonista nel
corso di tutta la prima sezione, l’ordine di Kratos ad Efesto di conficcare
un cuneo d’acciaio nel petto del Prometeo (vv. 64‑65), la difficoltà per un
attore in carne ed ossa di interpretare l’intero dramma incatenato ad un
supporto (di qualsivoglia natura si intenda il πάγος di v. 20). Questo
ventaglio di elementi non sembra essere, tuttavia, cogente e giustificare una
messa in scena così patentemente antirealistica. In merito al silenzio del
protagonista diverse potrebbero essere le giustificazioni e le soluzioni
sceniche mimeticamente accettabili: si potrebbe pensare innanzitutto che il
protagonista fosse portato di peso in scena, quasi privo di sensi, e che si
risvegliasse dopo l’uscita di Kratos, Bia ed Efesto.
Gli scolii inquadrano questo silenzio in una prospettiva peculiarmente
eschilea13, e lo giudicano un espediente dal precipuo valore drammatur‑
10
Cf. GRIFFITH 1983, 82; vd. anche SUSANETTI 2010, 147 .
11
Come rileva SUSANETTI 2010, 147: cf. Troad. 1, Bacch.1; ma anche Choe. 3 e OC 12.
12
TAPLIN 1977, 243‑245 ripercorre la nascita e lo sviluppo della cosiddetta ‘dummy
theory’.
13
Cf. Ar. Ra. 910 ss.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 173
14
Sull’annosa questione della geografia del Prometeo vd. FINKELBERG 1997.
15
Per la spinosa questione testuale vd. GRIFFITH 1983, 81‑82.
16
Cf. Supplici ma anche Edipo a Colono.
174 Valentina Zanusso
17
Salvo poi la scoperta della hypóthesis che ha portato alla sorprendente ridatazione.
18
Per una panoramica aggiornata sulle soluzioni ipotizzate dagli studiosi vd.
DAVIDSON 1994.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 175
19
DALE 1969, 119.
20
SAÏD 1985, 47.
21
Vd. da ultimo WYLES 2011.
22
Cf. GRIFFITH 1983, 81.
176 Valentina Zanusso
mibilmente faceva il proprio ingresso in scena23. Segue una breve ῥῆσις del
dio (vv. 12‑35)24 che, in qualità di συγγενής25 del condannato, esprime la
propria partecipazione al dolore di Prometeo, pur vedendosi costretto ad
eseguire gli ordini del sovrano degli déi. Le prime parole di Efesto sono
un’apostrofe agli altri due personaggi in scena, grazie alla quale il pubblico
ne conosce ora con certezza l’identità. In questi versi, come si è detto, si
ritrovano svariati riferimenti all’ambientazione e descrizioni dei particolari
del supplizio intrise di συμπάθεια (vv. 21‑25; 31‑32)26; viene inoltre inserito
un verso di presentazione stilizzata quanto anfibologica del protagonista
(v. 18)27; interessante notare che il dio ripete per ben due volte l’odiato
compito che Zeus gli ha affidato (vv. 15 e 20), quasi a voler prendere
coraggio, a rassegnarvisi. Il profilo di Zeus che viene tratteggiato sin da
questi primissimi versi è stato uno degli elementi che maggiormente ha
instillato dubbi sulla paternità eschilea dell’opera perché parso in
opposizione netta con la teodicea del poeta.
Attraverso la canonica base di transizione (vv. 36‑38), prende avvio una
sticomitia che appare certamente unica nella produzione eschilea superstite
e comunque piuttosto rara, caratterizzata dal rigido e costante alternarsi
dei versi 2:1 (due versi assegnati a Kratos e uno ad Efesto) che presenta
sporadici confronti; essa occupa più di quaranta versi (39‑81)28. Da questa
23
In altre versioni del mito gli aguzzini di Prometeo sono altri: Hermes in Luciano,
Dialoghi degli dèi 5, 11; Prometeo 1‑2; Igino, Fab. 144; lo stesso Zeus in Esiodo Th. 520‑21.
Kratos e Bia sono pertanto due figure appositamente create per la scena dal
drammaturgo, che sia Eschilo oppure un poeta successivo. In Esiodo si ritrovano
accoppiati tra i figli di Stige, la cui lealtà verso Zeus è opportunamente sottolineata da
SUSANETTI 2010, 148.
24
Un discorso meticolosamente costruito come puntuale contraltare di quello di
Kratos (GRIFFITH 1983, 85), che contribuisce a polarizzare ancor di più questa coppia
scenicamente dicotomica.
25
Efesto è figlio di Era, che è nipote (perché figlia di sua figlia Rea) di Urano.
Prometeo è qui figlio di Themis, anch’essa figlia di Urano. Di qui il legame di vera e
propria συγγένεια che intercorre tra le due divinità, alla quale fa appello Efesto; si
ricordi inoltre, che Efesto e Prometeo, entrambi associati al fuoco e alle arti e tecniche,
condividevano un culto comune in Atene (cf. S. OC 56 e Paus. 1, 30, 2 cf. GRIFFITH 1983,
85 e SUSANETTI 2010, 149). In ogni caso, al di là del reale legame di parentela, la φιλία
tra dei e la συμπάθεια che lega diversi di essi a Prometeo costituisce un Leitmotiv
basilare di questo dramma.
26
Contribuisce a delineare il rapporto di συμπάθεια di Efesto nei confronti di
Prometeo la seconda persona che impiega il dio del fuoco e la terza che viceversa usa
Kratos (THOMSON 1932, 133; GRIFFITH 1983, 82).
27
GRIFFITH 1983, 81 nota che in realtà il nome viene pronunciato esplicitamente per
la prima volta solo al v. 66.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 177
28
Cf. S. Aj. 791‑802, ma qui nel Prometeo assai più prolungata e con un effetto
dunque di maggiore rigidità.
29
Sulla sfumatura ‘ferina’ del verbo cf. THOMSON 1932, 139; GRIFFITH 1983, 97;
SUSANETTI 2010, 159.
178 Valentina Zanusso
30
Il convegno internazionale Gli oggetti sulla scena teatrale ateniese: funzione,
rappresentazione, comunicazione, svoltosi a Padova nei giorni 1 e 2 dicembre 2015, ha
prodotto un volume (COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016) che consente di ripercorrere
la funzione e il valore dell’impiego di oggetti di scena sia in ambito tragico, con
escursioni nel teatro frammentario, sia in ambito comico, attraverso contributi che si
giovano di prospettive diverse spesso integrate tra di loro (iconografia, drammaturgia,
storia). Particolarmente utile ai fini della mia ricerca la schedatura del materiale
relativo alla tragedia, a cura di Francesco Puccio, a cui faccio riferimento.
31
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 305‑391.
32
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 306.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 179
33
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321.
180 Valentina Zanusso
34
Di nuovo nel Prometeo al v. 618, nelle parole di Io che chiede al protagonista di
rivelarle ὅστις ἐν φάραγγί σ’ ὤχμασεν, con un richiamo netto a questa prima sezione
anche nel sostantivo φάραγξ.
35
Cf. Ael., Dion., Hesych., Phot. Sud.
36
ἄγε, τίς πρῶτος, τίς δ’ ἐπὶ πρώτωι /ταχθεὶς δαλοῦ κώπην ὀχμάσαι.
37
μέθες· μί’ οὖσα τῶν ἐμῶν Ἐρινύων / μέσον μ’ ὀχμάζεις, ὡς βάληις ἐς Τάρταρον.
38
Ἓν τῶν καλῶν κομποῦσι τοῖσι Θεσσαλοῖς / εἶναι τόδ’, ὅστις ταῦρον ἀρταμεῖ
καλῶς / ἵππους τ’ ὀχμάζει.
39
κρατεῖ / δὲ μηχαναῖς ἀγραύλου / θηρὸς ὀρεσσιβάτα, λασιαύχενά θ’ / ἵππον
ὀχμάζεται ἀμφὶ λόφον ζυγῶι οὔρειόν τ’ ἀκμῆτα ταῦρον.
40
Cf. THOMSON 1932, 137; GRIFFITH 1983, 21 e 89; SUSANETTI 2010, 156‑57.
41
Per cui cf. vv. 64 e 148; sul valore di questo aggettivo – «d’acciaio» piutttosto che
«adamantino» – si veda GRIFFITH 1983, 82‑83.
42
Il. 13, 36‑37: ἀμφὶ δὲ ποσσὶ πέδας ἔβαλε χρυσείας / ἀρρήκτους ἀλύτους, come
rilevava BARONE 1915, 60.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 181
43
πέδαι e δεσμά ricorrono anche altrove (rispettivamente v. 76 e v. 52) quindi
dovevano essere in scena.
44
vd. LSJ s.v.
45
Se ne rileva l’impiego solo in due drammi euripidei, in maniera figurata: Andr.
121 (εἴ τί σοι δυναίμαν / ἄκος τῶν δυσλύτων πόνων τεμεῖν) riferito ai πόνοι della
protagonista che il coro si augura di poter «sciogliere» e Phoen. 375 (καὶ δυσλύτους
ἔχουσα τὰς διαλλαγάς / τί γὰρ πατήρ μοι πρέσβυς ἐν δόμοισι δρᾶι, / σκότον
δεδορκώς), ove pure concorda con διαλλαγή. Il locus prometeico dunque, rappresenta
il solo impiego proprio dell’aggettivo in tragedia.
46
Si tratta di un verbo che conosce un impiego per lo più in ambito comico: Cratin.
fr. 1, 3; Tim. 2, 2; Ar. Pl. 943; Men. fr. 718, 1.
182 Valentina Zanusso
Il verso, nella lezione del Laurenziano e delle famiglie poziori, così come
stampato da West e da Sommerstein, può essere interpretato appunto come
un riferimento pragmatico alle catene che Efesto sta mettendo a Prometeo:
«lo so da queste [appunto: le catene], e non posso opporre nulla» (così, ad
esempio, Susanetti, che traduce: «Lo so, basta guardare queste catene»). Più
in generale alcuni studiosi sostengono che il τοῖσδε di mezzo47 si riferisca
«not to the chains only, but to the whole of the present circumstances»
(VERDENIUS 1976, 452), e che Efesto «points to the rock, the chains, and his
tools» (GRIFFITH 1983, 93).
Partendo da una lezione della famiglia μ, invece, ἔγνωκα τοῖσδε
τ’οὐδὲν, altri studiosi – tra i quali Murray e Page – pongono una pausa
dopo ἔγνωκα, e interpretano il verso in questo senso: «lo so; non posso
opporre nulla a queste cose»48: va ricordato, tuttavia, come fa West, che la
famiglia μ conosce un momento di particolare sviluppo all’interno dello
scriptorium Tricliniano49; una fase nella quale il testo è stato certamente
sottoposto a interventi dotti miranti, in questo caso, a chiarire un verso di
non facile comprensione. Il nesso ἔγνωκα τοῖσδε, in conclusione, appare
difficilior, e in tal senso potrebbe a buon diritto far riferimento agli strumenti
dell’incatenamento. Per converso, il successivo invito di Kratos:
47
Per cui cf. Hom. Il. 5, 182; E. Ion 1344.
48
Singolare il testo stampato da Mazon: ἔγνωκα· τοῖσδε κοὐδὲν …, che, per usare
le parole di THOMSON 1932, 137, «is not Greek».
49
WEST 1992, III.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 183
50
ψάλια è lezione del Laurenziano, promossa concordemente a testo da tutti gli
editori a preferenza della varia lectio ψέλια, propriamente «braccialetti», «armille», che
pure qualche edizione datata prova a difendere, cf. BARONE 1915, 67‑68.
51
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321.
52
Cf. ANDERSON 1961, 60‑61; CASCARINO 2007, 83.
184 Valentina Zanusso
53
Vd. Chantraine s.v. χείρ; LSJ s.v.
54
In Eschilo si trova in quest’unico locus; DINDORF (1876, 315, s.v.) glossava: ante
manus positus, paratus; lo studioso, perciò, non sembra pensare ad un Efesto che
afferrasse effettivamente gli ψάλια e li scuotesse con decisione. In Sofocle si registrano
alcune occorrenze riconducibili ad un ventaglio semantico ampio. In El. 1494
l’aggettivo è riferito ad Oreste: nelle sue ultime battute, Egisto cerca provocatoriamente
di dissuadere Oreste dall’omicidio, accusandolo di non essere in realtà pronto
(πρόχειρος) a commetterlo e di cercare per questo protezione nell’oscurità della reggia:
τί δ’ ἐς δόμους ἄγεις με; πῶς, τόδ’ εἰ καλὸν τοὔργον, σκότου δεῖ, κοὐ πρόχειρος εἶ
κτανεῖν; in Phil. 747 il protagonista in preda allo strazio del dolore chiede a
Neottolemo di colpire la punta del piede se ha una spada tra le mani (πρόχειρον): πρὸς
θεῶν, πρόχειρον εἴ τί σοι, τέκνον, πάρα ξίφος χεροῖν, πάταξον εἰς ἄκρον πόδα.
Particolarmente significativo, infine, l’impiego in S. El. 1115‑1116: οἲ ’γὼ τάλαινα,
τοῦτ’ ἐκεῖν’, ἤδη σαφές· πρόχειρον ἄχθος, ὡς ἔοικε, δέρκομαι «Ahimè infelice, è
tutto chiaro ormai; io vedo questo fardello proprio qui davanti alle mie mani / a portata di
mano, a quanto sembra». Si tratta della scena in cui Oreste, nei panni del mercante
focese, annuncia la propria presunta morte e porta con sé le proprie presunte ceneri
in un’urna. Appunto a questo fondamentale oggetto di scena Elettra fa riferimento con
la locuzione metaforica πρόχειρον ἄχθος, abbinata allo stesso verbo visivo che ricorre
nel Prometeo (δέρκεσθαι ). FINGLASS 2007, 442 commenta l’aggettivo riportandone la
definizione di ELLENDT 1872 «quod presens adest, quasi in manus sumendum» che
predilige al senso di «held in the hand» proposto da CAMPBELL 1881. Appare evidente
che in questo specifico contesto πρόχειρον non indica un contatto diretto con l’oggetto,
dal momento che pochi versi dopo Elettra chiede ad Oreste(‑mercante focese) di poter
stringere l’urna tra le mani (vv. 119‑1120: ὦ ξεῖνε, δός νυν πρὸς θεῶν, εἴπερ τόδε /
κέκευθεν αὐτὸν τεῦχος, ἐς χεῖρας λαβεῖν). Che tuttavia possa esservi un’allusione
alla possibilità di toccare materialmente l’urna, che concreta agli occhi della sorella la
morte di Oreste, è ben evidenziato dalla felice traduzione di TONELLI 2013: «Ohimé
infelice! È tutto chiaro, adesso: a quanto sembra, lo vedo, qui, e posso anche toccarlo,
quel fardello doloroso».
Una dimensione dimenticata dell’akoè 185
dei (cf. Her. 726; El. 696; Hel. 156455) πρόχειρος, per lo più riferito ad armi
(τεύχη o ἔγχος), è impiegato nella duplice accezione di «impugnare» e allo
stesso tempo «tenere pronta», «a disposizione» l’arma in questione: si tratta
dunque di oggetti effettivamente afferrati e ‘branditi’ con evidenza
dall’attore. A mio giudizio dunque Efesto, rispondendo con una certa
impazienza agli ordini di Kratos, afferrava gli ψάλια con decisione e li
scuoteva, producendo un fragore ben riconoscibile e sinistro, come si è
detto, nell’immaginario acustico degli spettatori.
Un ulteriore indizio in grado di gettare luce sulla gestualità che
accompagnava questo verso è il καὶ δὴ in incipit qui e al v. 75. DENNISTON
1954, 250‑251 individua una funzione peculiarmente drammatica di questa
iunctura: «it signifies, vividly and dramatically, that something is actually
taking place at the moment»; si tratta dunque di un nesso che imprime
vividezza e che conosce un impiego estensivo nella letteratura greca56. Ap‑
pare del tutto in linea con quanto detto l’impiego in ambito segnatamente
teatrale, come marcatore dell’ingresso di un nuovo personaggio57 e come
risposta affermativa ad un’esigenza imposta dalle circostanze o da un altro
personaggio (per cui vengono riportati ad esempio da Denniston innan‑
zitutto i loci prometeici)58. L’utilizzo di questo nesso accompagna, nella mia
opinione, un gesto mimeticamente pregnante, dunque estremamente
efficace sul piano drammaturgico e comunicativo.
Il successivo ordine di Kratos ai vv. 55‑56 fornisce ulteriori dettagli su
quanto avviene in scena:
55
Ove tuttavia compare tra cruces.
56
Denniston precisa che l’impiego più generale ha a che fare con verbi di
percezione, anche visiva ed uditiva: «marking vivid perception by mind, ear or eye»:
cf. e.g. E. Herc. 867; Ar. Thesm. 769.
57
S. Aj. 544; E. Med. 118; Cyc. 488; Suppl. 1114; Ar. Av. 268; Ran. 604, etc.
58
DENNISTON 1954, 252‑253.
59
Per il non comune asindeto cf. GRIFFITH 1983, 94.
186 Valentina Zanusso
Nei versi successivi, tra gli ordini impartiti da Kratos, che, come si è
detto, imprimono una scansione ben definita e puntuale alla scena, che
ricorda de facto un ἀποτυμπανισμός62, alcuni verbi rivestono una
particolare rilevanza in prospettiva acustica. Innanzitutto ἀράσσω di v. 58;
il significato pressoché univoco è quello di «colpire», in una accezione
prettamente fisica: percuotere, battere, vibrare un colpo63. È un verbo
60
COPPOLA‑BARONE‑SALVADORI 2016, 320‑321.
61
Il. 18, 477; cf. GRIFFITH 1983, 94.
62
Un aspetto rilevato a più riprese dagli studiosi: cf. GRIFFITH 1983, 88 e 96; SAÏD
1985, 49‑50; SUSANETTI 2010, 156.
63
Cf. TLG e LSJ s.vv.
Una dimensione dimenticata dell’akoè 187
64
Si ricordi che è il verbo impiegato nell’Edipo re (1276) in riferimento all’acce‑
camento del protagonista. In Euripide a formare quasi un nesso formulare con
βάλλων: una iunctura che si ripete nella stessa sede metrica in ben tre drammi della
fase matura: Andr. 1154 (τίς οὐ σίδηρον προσφέρει, τίς οὐ πέτρον, / βάλλων
ἀράσσων; πᾶν δ’ ἀνήλωται δέμας / τὸ καλλίμορφον τραυμάτων ὑπ’ ἀγρίων); Hec.
1175 (ἅπαντ’ ἐρευνῶν τοῖχον, ὡς κυνηγέτης / βάλλων ἀράσσων.): IT 310 (πᾶς ἀνὴρ
εἶχεν πόνον / βάλλων ἀράσσων.).
65
Cf. e.g. A. Pers. 1054; E. Troa. 279; 1235.
66
Cf. e.g. E. Hec. 1044; IT 1308; Ar. Eccl. 977; Herond. 1, 1. Ma vd. soprattutto le
numerose occorrenze in Menandro.
67
Cf. TLG e LSJ s.vv.
68
Un nuova allusione alla metafora di cui supra cf. SUSANETTI 2010, 157.
69
Cf. Ps.Zon. π1539: Πεπορπημένον. συνεχόμενον περόνῃ ἢ πόρπῃ; Phot. π444:
Πορποῦσθαι: φιβλοῦσθαι; Hesych. π1497: πεπορπημένη· τῆι περόνῃ συνεχομένη.
188 Valentina Zanusso
70
COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321.
71
cf. Hdt. 1, 215; Hesych. 380, 1. Barone 1915, 69 sottolineava che l’uso del plurale
potesse essere legittimato dal fatto che lo strumento era composto da più parti
d’acciaio; vd. anche GRIFFITH 1983, 97 e SUSANETTI 2010, 156‑157.
72
cf. Il. 24, 272.
190 Valentina Zanusso
Bibliografia
* Tante sono le persone a cui sono grata per avermi fornito suggerimenti e indica‑
zioni utili per l’elaborazione di questa nota; in particolare, tale analisi vede la sua
genesi iniziale durante gli anni del dottorato all’Università di Roma “la Sapienza”,
quando, studiando il Meleagro euripideo, la Prof. ssa Anna Maria Belardinelli, mia
tutor, mi ha saggiamente spinto ad approfondire un possibile frammento papiraceo,
per la cui interpretazione mi sono avvalsa della fondamentale consulenza del Prof.
Raffaele Luiselli e della Dott. ssa Daniela Colomo. Dopo una presentazione delle prime
ipotesi a “Semi di Sapienza” 2016, che sono stati una proficua occasione di approfon‑
dimento, lo studio è proseguito, in vista della pubblicazione della tesi, sotto la guida
del Prof. Gian Franco Gianotti, a cui rivolgo uno speciale ringraziamento per il
continuo pungolo, fin dai tempi della laurea, nello spronarmi a proseguire le ricerche.
Ringrazio, inoltre, il Prof. Francesco Carpanelli per avere accettato questo lavoro nel I
Convegno Internazionale sul Dramma Antico The Forgotten Theatre e per averne accolto
la pubblicazione in questo volume.
1
Cf. LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 113‑122.
2
Per tali aspetti, cf. EITREM/AMUNDSEN/WINNINGTON‑INGRAM 1955, 1‑29; GENTILI
1961, 341.
194 Sonia Francisetti Brolin
3
Sull’utilizzo dell’eisthesis nei papiri per evidenziare le ripartizioni strutturali del
dramma, vd. SAVIGNAGO 2008; per il suo impiego nel P. Oxy. 2436, cf., nello specifico,
PÖHLMANN/WEST 2001, 122.
4
Per la musica nella drammaturgia greca, vd. MONRO 1894; WINNINGTON‑INGRAM
1936; SOLOMON 1977; PINTACUDA 1978; COMOTTI 1989; HUYS 1993; ROCCONI 2003;
MURRAY/WILSON 2004. Per un’analisi specifica della melodia del P. Oxy. 2436, cf., oltre
a LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 113‑122, PÖHLMANN 1970, 126‑129;
COMOTTI 1991, 119; WEST 1992, 310‑311; PÖHLMANN/WEST 2001, 120‑124.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 195
5
Per tali aspetti, vd. GUARDUCCI 1927‑1929; EITREM/AMUNDSEN/WINNINGTON‑
INGRAM 1955; TURNER 1963, 120‑128; TEDESCHI 2011, 12‑14. Cf., inoltre, LATTE 1954,
125, che ha pubblicato un’iscrizione, nella quale si parla di Gaio Elio Themison, un
citaredo che mise in musica per la prima volta drammi di Sofocle ed Euripide, i cui
testi erano riproposti con talentuose rielaborazioni meliche.
196 Sonia Francisetti Brolin
(Faces sceleratae) Facem quam sibi visa est parere Hecuba Cissei filia sive Dymantis.
Nauplii ad saxa Capharea, cum naufragium Achivi fecerunt. Helenae quam de
muris ostendit et Troiam prodidit. Althaeae quae Meleagrum occidit.
6
Cf. LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 121.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 197
Tra l’altro, questo nome richiama l’aggettivo πυρσός, usato nel fr. 537
Kannicht del Meleagro, ove una divinità ex machina, a conclusione del
dramma, profetizza:
7
Trad. di GUIDORIZZI 20052, 144‑145.
8
Ares si unì ad Altea e, dopo aver generato Meleagro, <…> così scrive Euripide nel
Meleagro (trad. di DE LAZZER 2000, 264‑265).
9
Per tale espressione proverbiale, cf., per esempio, A.P. 7, 36, 4; Luc. Vit. Pud. 11.
10
Cf. GENTILI 1961, 341.
11
Cf. LESKY 19642, 244.
198 Sonia Francisetti Brolin
nanza tra giambi e cretici è tipica dell’ultima fase della produzione euri‑
pidea, a cui risale anche il Meleagro12. Dunque, Altea, mentre il tizzone arde
sul fuoco, si rivolgerebbe al coro per denunciare il dolore che sta vivendo
rispetto alla felicità passata. Tuttavia, la problematica interpretativa è
strettamente connessa alle difficoltà di lettura del papiro stesso, sottolineate,
come si è visto supra già nell’editio prior.
Negli studi successivi13 viene sempre accolto il testo di Turner, talvolta
senza l’integrazione Πριά‑] a col. II 2, ma si comincia a rifiutare l’attri‑
buzione al Meleagro, evidenziando la probabile ambientazione in Attica,
proprio alla luce della menzione del monte Imetto, situato nella campagna
intorno ad Atene, ove certo potevano trovarsi caprai, pastori e bovari. A tal
proposito, Borthwick14 ha riportato due frammenti della commedia
archaia15, dove si parla di una fonte di Afrodite sull’Imetto, la cui acqua
aiutava le donne a concepire. In tal senso, il lacerto papiraceo sarebbe
ascrivibile a una monodia di una donna che, superata la sterilità grazie alla
sorgente, si gloria della propria prole, invitando il coro a danzare per lei. Il
π]α̣ ις ῎Αρεως a col. II 2 potrebbe essere identificato con Eros, mentre, per
quel che concerne col. II 6, lo studioso ha rammentato la testimonianza di
Pausania (cf. Periegesi, 7, 23, 5‑6):
A Egio c’è un antico santuario di Ilizia, la cui statua è coperta dalla testa ai
piedi con un drappo finemente lavorato […] Una delle mani è stesa in avanti,
mentre con l’altra tiene una fiaccola. Si potrebbe ipotizzare che Ilizia abbia
12
Per la datazione del dramma, cf. HARTUNG 1843, 140‑153; ZIELIŃSKI 1925, 237‑
239; WEBSTER 1967, 3‑5; CROPP/FICK 1985, 20; 66; 76; 84; JOUAN/VAN LOOY 2000, 405;
COLLARD/CROPP 2008, XXX‑XXXII.
13
Cf. LLOYD‑JONES 1961, 20; BORTHWICK 1963, 225; PÖHLMANN 1970, 126‑129.
14
Cf. BORTHWICK 1963, 226.
15
Cf. Cratin. fr. 110 K.‑A. = Phot. p. 185, 21 = Sud. κ 2672: Κυλλοῦ πήραν· ἡ Πήρα
χωρίον πρὸς τῶι ῾Υμηττῶι, ἐν ᾧ ἱερὸν ᾿Αφροδίτης καὶ κρήνη, ἐξ ἧς αἱ πιοῦσαι
εὐτοκοῦσι καὶ αἱ ἄγονοι γόνιμοι γίνονται. Κρατῖνος δὲ ἐν Μαλθακοῖς Καλλίαν
(Phot. καλιὰν) αὐτήν φησιν, οἱ δὲ Κυλλουπήραν (Phot. κoλλοπηραν); Ar. fr. 283 K.‑
A. = Hesych. κ 4521: κύλλου πήρα. ζητοῦσι διὰ <τί> τὸ πορνεῖον Κύλλου πήραν
᾿Αριστοφάνης εἴρηκεν ἐν Δράμασιν ἢ Κενταύρωι· ‘τὸ δὲ πορνεῖον Κύλλου πήρα’.
ἔστι γὰρ χωρίον ᾿Αθήνησιν ἐπηρεφὲς καὶ κρήνη.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 199
le fiaccole perché per le donne i dolori del parto sono simili al fuoco; le
fiaccole, tuttavia, potrebbero trovare una spiegazione anche nel fatto che
Ilizia è colei che porta alla luce i bambini.16
16
Testo e trad. di MOGGI/OSANNA 2000, 142‑143.
17
Cf. BORTHWICK 1963, 243.
18
Cf. KANNICHT/SNELL 1981, 270‑272.
200 Sonia Francisetti Brolin
19
Si segnala che la numerazione è differente rispetto a Turner, poiché sono
numerate come versi consecutivi le linee della col. I e della col. II.
20
Cf. KANNICHT/SNELL 1981, 272: «Post KAI corr. obscur. : N in KI corr. pot. qu. K
in N (vix ⟦N⟧), sequi vid. ‘Σ’ΣO, i. e. KAINΣOΣ in KAI KI’Σ’ΣOΣ corr.? καὶ ⟦κ⟧νέας
ed. pr. non legitur».
21
Cf. PÖHLMANN/WEST 2001, 120‑124.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 201
22
Per tali riflessioni, in relazione ai Cretesi e alle Baccanti di Euripide, cf. CASADIO
1990, 279‑289; COZZOLI 1993, 162‑164; COZZOLI 2001, 86‑87.
202 Sonia Francisetti Brolin
23
Per questi aspetti, cf. PRIVITERA 1970, 113‑120.
24
Riguardo a siffatto tempio, cf. PIRENNE‑DELFORGE 1994, 247.
Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 203
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Da Ossirinco a Parigi: i Segugi di Sofocle nel
melodramma La naissance de la lyre di Albert Roussel
1
Cf. HUNT 1912. Altri frustuli estremamente frammentari provenienti dal mede‑
simo papiro furono pubblicati in seguito da HUNT 1927.
208 Simone Beta
La pubblicazione del frammento (alla quale collaborò tra gli altri anche
Wilamowitz) suscitò, come era lecito aspettarsi, un notevole dibattito
critico; i nuovi versi vennero subito inseriti dal Pearson nella sua edizione
dei frammenti sofoclei pubblicata cinque anni dopo2.
Anche per quel che riguarda le scene teatrali, i registi di mezza Europa
non si lasciarono sfuggire l’occasione di mettere in scena un dramma antico
ancora inedito: i più veloci furono i tedeschi, perché i Segugi andarono in
scena a Halle, una città della Bassa Sassonia, l’anno immediatamente
successivo alla prima pubblicazione, vale a dire il 21 giugno 1913; poi
vennero i cechi, che li misero in scena nel 1921 a Praga insieme alla Medea
di Euripide; poi gli italiani, che nel 1927 fecero rappresentare I satiri alla
caccia nella traduzione di Ettore Romagnoli (datata 1925) a Siracusa3. Il sito
dell’APGRD (Archive of Production of Greek and Roman Drama), curato
dall’Università di Oxford, consente di farsi un quadro dettagliato di tutte
le rappresentazioni successive del dramma, compresi spettacoli estrema‑
mente interessanti come la commedia del drammaturgo inglese Toni
Harrison intitolata The trackers of Oxyrhynchus, rappresentata per la prima
volta allo stadio di Delfi nel 1988, dove i protagonisti sono proprio i due
papirologi Grenfell e Hunt4.
Ma prima della messinscena siracusana (che vide in una sera l’altro
dramma satiresco, il Ciclope di Euripide, rappresentato dopo la Medea, e
nella sera successiva I satiri alla caccia preceduti dalle Nuvole di Aristofane),
bisogna segnalare uno spettacolo diverso da tutti quelli che ho appena
ricordato – perché si tratta, per l’appunto, di un instant opera, dal momento
che si basa su un testo teatrale molto antico per quel che riguarda la sua
‘nascita’, ma molto recente per quel che concerne la sua ‘rinascita’.
Il primo luglio 1925 venne rappresentata per la prima volta a Parigi, sotto
la direzione di Philippe Gaubert, un’opera (per la precisione, un conte
lyrique) che racconta l’invenzione della lira da parte del piccolo Hermes: La
naissance de la lyre. L’autore del libretto, il celebre grecista Théodore Reinach,
non si basò soltanto sul quarto inno omerico a Hermes che racconta la
stessa storia, ma anche sulla recente scoperta dei due papirologi inglesi.
Chi erano i due autori che, unendo i loro diversi talenti, diedero vita a
questo lavoro così singolare? Dei due, Reinach – che nel 1925 aveva già
2
Cf. PEARSON 1917. I frammenti sono stati pubblicati in seguito anche da STEFFEN
1952, RADT 1977 e KRUMEICH/PECHSTEIN/SEIDENSTICKER 1999. Per un’edizione del
dramma satiresco, cf. MALTESE 1982.
3
Sui ‘segugi’ di Romagnoli cf. TREU 2006.
4
Sulla fortuna scenica dei Segugi a partire dal ritrovamento dei due papirologi
inglesi cf. BETA 2017. Sul lavoro di Harrison, cf. anche MARSHALL 2012.
Da Ossirinco a Parigi 209
5
Su Reinach, cf. la recente biografia di STEVE 2014.
6
Su Maurice Emmanuel, cf. CORBIER 2011; i titoli delle due dissertazioni sono
Education du danseur grecque e Orchestique grecque. Per la Salamine, Emmanuel fu
insignito della Legion d’Onore. Gli altri suoi lavori basati su testi classici sono le 3
Odelettes anacreontiques per voce, flauto e pianoforte (op. 13), composte nel 1911; il
Prométhée enchaîné, una tragédie lyrique d’après Eschyle (op. 16), composto tra il 1916 e il
1918; l’Amphitryon, una comédie musicale d’après Plaute (op.28) composta nel 1936, due
anni prima della sua morte.
7
REINACH 1912. Il 21 giugno di quello stesso anno Reinach aveva presentato il
dramma in una conferenza all’Académie des Inscriptions et Belles‑Lettres, che fu
pubblicata, sotto il titolo Les Satyres Limiers, in una rivista di politica e letteratura (la
Revue Bleue).
210 Simone Beta
successo del balletto Bacchus et Ariane, rappresentato a Parigi nel 1931 con
le scene di Giorgio De Chirico.
Personaggio decisamente singolare (era stato ufficiale di marina, ma
aveva abbandonato la carriera militare a 25 anni per dedicarsi completa‑
mente alla musica), tra il 1922 e il 1923 Roussel mise in musica il libretto di
Reinach8.
Ma qual è la struttura del libretto di Reinach? I protagonisti sono quattro:
Apollon è un tenore, Hermès un soprano, Silène un baritono, mentre la
ninfa Cyllène ha solo un ruolo parlato9. I cori erano due, uno di satiri e uno
di ninfe.
Nel primo dei tre quadri, ambientato in una lande fleurie, dopo un
preludio musicale arriva Apollo, scendendo da una nuvola di fuoco, alla
ricerca delle sue vacche, disposto a ricompensare con oro e pietre preziose
chi lo aiuterà a ritrovare la sua mandria, misteriosamente scomparsa.
Questa scena, così come anche quelle immediatamente successive, si
rifanno al dramma satiresco di Sofocle.
Gli si fa incontro Sileno, che si dichiara dispiaciuto per quel che è
successo. Se fosse ancora giovane, il bestiame lo cercherebbe lui; ma, dal
momento che ormai è vecchio, propone al dio di chiedere aiuto ai suoi figli,
a patto che essi in cambio ricevano, oltre all’oro, anche la libertà. Dopo che
Apollo ha accettato, arrivano i satiri, che si mettono subito alla ricerca del
bestiame, seguendo i consigli di Sileno10.
Giunti davanti a una grotta, i satiri sentono improvvisamente il suono
della lira uscire dalla caverna. Mentre si domandano chi mai produca
questo suono misterioso, la ninfa Cillene, madre di Ermes, esce dalla grotta.
Poiché i satiri vogliono entrare nella grotta, Cillene chiama in suo aiuto le
ninfe. La lotta tra i satiri e le ninfe viene interrotta da Apollo, che chiede a
Cillene di spiegare ai presenti l’origine di quel suono meraviglioso.
8
Su Albert Roussel, cf. TOP 2000 e 2016. Oltre al Bacchus et Ariane, che è uno dei
suoi lavori più famosi, le altre composizioni di Roussel basate su opere classiche sono
il balletto Aeneas (op. 54), composto nel 1935, e l’opera incompiuta Elpénor, ou la Flûte
de Circé (op. 59), datata 1937 (l’anno della sua morte, avvenuta a Royan, sulle coste
atlantiche dell’Aquitania). Come Emmanuel, anche Roussel mise in musica alcune
poesie attribuite ad Anacreonte: nel 1926 compose le Odes anacréontiques (op. 31‑32),
su testi tradotti da Charles Leconte de Lisle.
9
I cantanti furono Edmond Rambaud (Apollo), Marcelle Denya (Hermes) e Henri
Fabert (Sileno); il ruolo parlato della ninfa fu interpretato da Jeanne Delvair, una
celebre attrice francese che fu anche una stella del cinema.
10
I nomi dei satiri (Drachis, Grapis, Krokias) provengono dal papiro e riflettono,
in alcune scelte testuali, le integrazioni proposte dai primi editori.
Da Ossirinco a Parigi 211
11
«Ô Syringe de Pan, ô rustiques pipeaux, qu’enfle le pâtre solitaire, dès qu’il
chante, sa voix vous condamne au repos. Si vous parlez, il doit se taire. Lyre, toi qui
contiens les trilles des oiseaux, la basse profonde des bêtes, le murmure du vent
caressant les roseaux, et le tumulte des tempêtes!».
212 Simone Beta
12
Sulla presenza dei ‘satiri’ sulla scena musicale francese, cfr. Corbier 2008: l’anno
prima del debutto del Sacre, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1912, al tea‑
tro dello Châtelet erano andati in scena prima un balletto tratto dal Prelude di
Debussy (proprio con la coreografia di Nijinskij) e poi il balletto di Maurice Ravel
Daphnis et Chloé, ispirato al romanzo greco di Longo Sofista, dove lo stesso Nijinskij
aveva ricoperto il ruolo di Dafni.
13
Grazie a CORBIER 2008, 345, sappiamo che, come coreografo, Roussel avrebbe
preferito Léo Staats, decisamente più classico della Nijinska, con il quale aveva già
collaborato nel 1912 al tempo della prima rappresentazione del suo balletto Le festin
de l’araignée. Per chi fosse interessato alle sfumature musicali del lavoro di Roussel, il
saggio di Corbier è fondamentale.
14
Sulla villa, cf. ARNOLD 2003.
Da Ossirinco a Parigi 213
Bibliografia
Il presente studio è stato svolto nell’ambito del progetto di ricerca SIR 2014 «A
commentary on the Hercules Oetaeus, a tragedy attributed to Seneca, with introduction,
critical text, and an appendix on the history of its reception»; PI: Lucia Degiovanni,
Università degli Studi di Bergamo.
1
L’incontro tra le due donne sembra essere un’innovazione di Sofocle; nella breve
rievocazione di Bacchilide (Ditirambo 16 MAEHLER = 2 IRIGOIN), cronologicamente
vicina al dramma (la datazione relativa è discussa: con MARCH 1989, 62‑66 e MAEHLER
2004, 166‑167 propenderei per l’anteriorità sofoclea), è detto soltanto che Deianira
venne a sapere che Eracle stava per inviare Iole a casa come sua sposa: Ἰόλαν ὅτι
λευκώλενον / Διὸς υἱὸς ἀταρβομάχας ἄλοχον λιπαρὸ[ν] / ποτὶ δόμον πέμ[π]οι, 27‑
29 («il figlio di Zeus, impavido combattente, inviava nella ricca dimora, come sua
sposa, Iole dal candido braccio», trad. GIUSEPPETTI 2015); al v. 29, a πέμποι è preferibile
attribuire il significato di ‘inviare’, come in S. Trach. 366: Καί νιν, ὡς ὁρᾷς, ἥκει δόμους
/ ὡς τούσδε πέμπων οὐκ ἀϕροντίστως, γύναι, / οὐδ’ ὥστε δούλην, 365‑367 («Ed ecco
che, sulla strada del ritorno, manda la fanciulla, come vedi, in questa casa, non senza
una precisa intenzione, o donna, e non certo come schiava», trad. PATTONI 1990). Al
riguardo cf. BECK 1953, 12 ss.
216 Lucia Degiovanni
2
KAMERBEEK 1959, 89: «we must imagine the other captives lamenting without
restraint in contrast to Iole’s self‑control»; LONGO 1968, 134: «il ϕρονεῖν οἶδεν …
implica il sapersi vincere, dominare».
3
KAMERBEEK 1959, 91.
4
LONGO 1968, 139.
5
JEBB 1892, 51.
6
KAPSOMENOS 1963, 76 e n. 3; MASTRONARDE 1979, 76‑77; DAVIES 1991, 115, n. ai vv.
307 ss.; sul confronto tra il silenzio della Iole sofoclea e l’atteggiamento della Cassandra
eschilea in Ag. 1035‑1071 cf. anche CRISCUOLO 2016, 151‑153.
7
Jebb traduce «she alone shows a due feeling for her plight», e commenta:
Il silenzio e la voce di Iole 217
«φρονεῖν here denotes that fine intelligence which is formed by gentle breeding, and
which contributes to delicate propriety of behaviour».
8
Circa l’associazione tra dolore e consapevolezza si veda quanto Deianira dice al
Coro ai vv. 141‑152.
218 Lucia Degiovanni
Alessandro e della sua corte. Tra queste Alessandro ne scorge una più
mesta delle altre (maestiorem quam ceteras) e molto bella (excellens erat forma);
il pudore le conferiva un senso di nobiltà (formam pudor honestabat): infatti
la donna, tenendo gli occhi abbassati al suolo (deiectis in terram oculis) e
avendo il volto, per quanto possibile, velato (quantum licebat, ore velato),
suscitò nel sovrano il sospetto che fosse troppo nobile (suspicionem praebuit
regi nobiliorem esse) perché la si dovesse esporre tra le attrazioni di un
banchetto. Interrogata sulla sua origine, la prigioniera confermò i sospetti
di Alessandro, il quale, «rispettando la sorte di colei che discendeva da una
stirpe regale» (fortunam regia stirpe genitae … reveritus), ordinò di rimetterla
in libertà.
Sia o no questa la chiave di lettura corretta della scena sofoclea relativa
a Iole, è così che anche l’Autore dell’Hercules Oetaeus interpretava il
personaggio della captiva. E probabilmente così doveva leggere la scena
sofoclea Ovidio nella IX Eroide, l’epistola di Deianira a Ercole, anche se poi
egli opta per l’operazione di consapevole e sistematico rovesciamento
dell’ipotesto sofocleo: agli occhi di una Deianira gelosissima uxor, qui
presentata fin dall’inizio come perfettamente consapevole dell’identità
della rivale e tutt’altro che simpatetica, Iole non ha l’aspetto che ci si
attenderebbe da una prigioniera: «non viene con i capelli incolti alla
maniera delle prigioniere, confessando nel volto la sua condizione» (nec
venit incultis captarum more capillis, / fortunam vultu fassa tacente suam, 125‑
126)9; al contrario, «avanza in ampio spazio splendida per il molto oro»
(ingreditur late lato spectabilis auro, 127), e «mostra il volto alla folla, superba
come se Ercole fosse stato vinto» (dat vultum populo sublimis ut Hercule victo,
129): «penseresti che Ecalia stia ancora in piedi e che suo padre sia
ancora vivo» (Oechaliam vivo stare parente putes, 130), osserva indispettita
Deianira.
Quanto all’Hercules Oetaeus, la novità principale è che nella prima
sezione lirica si dà voce al lamento di Iole con una monodia in anapesti
(173‑224), che fa seguito al coro cantato dalle prigioniere di Ecalia. Iole
dunque si distacca dal corteo di schiave e, nell’incipit della monodia,
dichiara l’unicità del proprio dolore (nullum querimur commune malum, 177),
che è superiore a quello delle altre prigioniere in quanto ella ha perduto
famiglia, patria e rango regale, ed è lei stessa – cioè la sua bellezza, che ha
acceso il desiderio di Ercole – la causa di tutto (219‑223). Nel dar voce al
9
Al v. 126 il tràdito (ametrico) tacendo è probabilmente da emendare in tacente,
secondo la proposta di Melissus: Ovidio farebbe dunque allusione al silenzio della Iole
sofoclea (cf. DELVIGO 1990 e CASALI 1995, 174‑175).
Il silenzio e la voce di Iole 219
10
In Ov. Met. 9, 278 ss. Iole compare in dialogo con Alcmena in una situazione
diversa, dopo l’apoteosi di Ercole e il matrimonio con Illo.
11
Non mi soffermo, in questa sede, su tale aspetto e mi limito a rimandare a
DEGIOVANNI 2017, 95‑100.
12
S. Trach. 550‑551 ταῦτ’ οὖν ϕοβοῦμαι μὴ πόσις μὲν ‘Ηρακλῆς / ἐμὸς καλῆται,
τῆς νεωτέρας δ’ ἀνήρ («e temo che Eracle sarà il mio sposo soltanto di nome, in realtà
l’uomo di lei, della più giovane»); cf. anche 539‑540 καὶ νῦν δύ’ οὖσαι μίμνομεν μιᾶς
ὑπὸ / χλαίνης ὑπαγκάλισμα («ora siamo in due sotto una coltre sola ad attendere
l’amplesso»).
13
Ov. Her. 9, 131‑134 forsitan et pulsa Aetolide Deianira / nomine deposito paelicis uxor
erit, / Eurytidosque Ioles atque Aonii Alcidae / turpia famosus corpora iunget Hymen («forse
anche, una volta cacciata l’Etolide Deianira, deporrà il nome di concubina e sarà
moglie, e un vergognoso imeneo unirà i corpi impudichi di Iole, figlia di Eurito, e
dell’Aonio Alcide», trad. ROSATI 1989).
14
DEGIOVANNI 2017, 76‑77; 103‑105.
15
[Sen.] Herc. O. 351‑357; 379; 407; 409.
220 Lucia Degiovanni
16
Mi riferisco ad es. ai drammi lirici di BUTI 1662 (musica di F. Cavalli), CAMPISTRON
1705 (musica di L. Lully e M. Marais), GALLET/SAINT‑SAËNS 1910 (musica di C. Saint‑
Saëns) e alla tragicommedia di RICCOBONI 1718.
17
LA TUILLERIE 1682, 15‑19.
18
LA TUILLERIE 1682, 29‑31.
Il silenzio e la voce di Iole 221
19
E. Med. 559‑565.
20
[Sen.] Herc. O. 1492‑1496; S. Trach. 1225‑1227.
21
Vd. ad es. i drammi per musica di BUTI 1662, FRIGIMELICA ROBERTI 1696 (musica
di C.F. Pollarolo), MARMONTEL 1761 (musica di A. Dauvergne), SCHMIDT 1819
(musica di S. Mercadante) e le tragedie di BENEDETTI 1822 (opera postuma) e di
SCHMIDT 1835.
22
Così ad es. in LA TUILLERIE 1682, CAMPISTRON 1705, COMELLA 1796, GALLET/
SAINT‑SAËNS 1910.
23
ROTROU 1636.
222 Lucia Degiovanni
ERCOLE
Come si beffa Amor del poter mio!
A me cui cede il mondo
farà contrasto una donzella? (oh dio!)
Come si beffa Amor del poter mio!
Dunque chi tanti mostri
vide esangui trofei di sua fortezza
scempio sarà di femminil fierezza,
e trafitto cadrà da un van desio?
Come si beffa Amor del poter mio!
Il silenzio e la voce di Iole 223
24
Trad. it di ROSATI 1989.
25
ROTROU 1636; il testo è citato secondo l'edizione di MONCOND’HUY 1999.
26
Cf. in part. MOREL 1964; WATTS 1971, xi ss.; MONCOND’HUY 1999, 26 ss.; ROSSI
2001.
224 Lucia Degiovanni
27
[Sen.] Herc. O. 218‑8b iam iam dominae captiva colus / fusosque legam («ben presto
io, prigioniera, raccoglierò le conocchie e i fusi di una padrona»).
28
Rotrou Hercule mourant 163‑166 «J’ai vu cruel, j’ai vu ce cher corps que je plains /
Tomber dessous l’effort de vos barbares mains; / Je l’ai vu sous vos coups étendu sur
la terre, / Finir ses tristes jours et cette injuste guerre»; [Sen.] Herc. O. 207‑209 Vidi, vidi
miseranda mei / fata parentis, / cum letifero stipite pulsus / tota iacuit sparsus in aula («Ho
visto, ho visto la sorte miserevole di mio padre, quando, colpito dalla clava mortale,
giacque a pezzi sparso per tutta la reggia»).
29
Rotrou Hercule mourant 167‑168 «Heureuse si nos corps, n’eussent eu qu’un
cercueil, / Si nous n’eussions tous deux causé qu’un même deuil»; [Sen.] Herc. O. 210‑
211 pro, si tumulum fata dedissent, / quotiens, genitor, quaerendus eras! («ahimè, se il fato
ti avesse concesso una sepoltura, quante volte, padre, avremmo dovuto cercarti!»);
215‑216 Quid vestra queror fata, parentes, / quos in tutum mors aequa tulit? («Ma perché
lamento il vostro destino, parenti miei, che una morte arrivata al momento giusto ha
messo al sicuro?»).
30
Rotrou Hercule mourant 177‑180 «Ô cruelle beauté! trompeuse! image vaine! / Que
le Ciel m’a vendue au prix de tant de peine; / Quelle misère encor me dois‑tu procurer?
/ Et combien de malheurs ai‑je encor à pleurer»; [Sen.] Herc. O. 219‑221 Pro saeve decor
formaque mortem / paritura mihi, / tibi cuncta domus concidit uni («O crudele bellezza e
aspetto destinato a procurarmi la morte, per te sola è caduta l’intera mia casa»).
Il silenzio e la voce di Iole 225
altro uomo: Megara spera ancora che Ercole faccia ritorno dall’impresa
negli Inferi, mentre la Iole del dramma francese è innamorata di Arcas, un
personaggio inventato dallo stesso Rotrou. Alle analogie di situazione
drammatica si uniscono puntuali echi testuali. (a) A un tentativo di
approccio dell’uomo (Lico chiede a Megara di stringergli la mano, Ercole
chiede a Iole almeno di guardarlo), la donna risponde, inorridita, di non
poter ammettere alcun contatto con l’uomo che le ha ucciso il padre:
Rotrou, Hercule mourant 159‑162 «[HE.] Cruelle? Hercule ici réclame ton
pouvoir, / Et tes yeux inhumains dédaignent de le voir; / Qu’un regard
seulement. [IO.] Ô requête sévère! / De quel œil puis‑je voir le meurtrier de
mon père?»; Sen. Herc.f. 369‑373 [LY.] Particeps regno veni; / sociemur animis;
pignus hoc fidei cape: / continge dextram. Quid truci vultu siles? / [ME.] Egone
ut parentis sanguine aspersam manum / fratrumque gemina caede contingam31?
(b) Iole, come Megara, mostra di avere un carattere indomito e coraggioso
e di non lasciarsi intimidire dalle conseguenze che può patire a causa del
suo rifiuto; afferma che nemmeno se messa in catene cederà: Rotrou Hercule
mourant 189‑192 «Troublez ces yeux d’effroi, chargez ces mains de chaînes,
/ Et que chaque moment renouvelle mes peines; / Après un siècle entier,
d’ennuis et de prison, / Ordonnez‑moi le fer, la flamme et le poison»; Sen.
Herc. f. 419‑421 Gravent catenae corpus et longa fame / mors protrahatur lenta:
non vincet fidem / vis ulla nostram; moriar, Alcide, tua32. (c) A fronte
dell’incalzante pressione di Ercole, Iole risponde che non può essere
costretta a unirsi a lui, perché le resta sempre aperta una via di libertà, data
dalla morte: Rotrou Hercule mourant 213‑220 «[IO.] Le plus fier ennemi
quelque ardeur qui l’enflamme, / Dompte malaisément ce qui dépend de
l’âme; / Un tyrannique empire, et d’injustes efforts / Ont soumis à vos lois
ce misérable corps: / Mais sous quelque tyran que ce captif respire / Un
heureux désespoir en peut ôter l’empire; / Mourant, il peut franchir cette
barbare loi, / Et s’il ne s’aime pas, il est maître de soi». L’idea positiva della
morte come liberazione dalla tirannia è tipicamente stoica e ricorre
numerose volte nelle opere di Seneca; nella forma concisa della sentenza, è
espressa anche da Megara, in risposta a Lico: Herc. f. 426 [LY.] Cogere. [ME.]
Cogi qui potest nescit mori33.
31
«[LI.] Vieni a condividere con me il regno; uniamo le nostre anime; accetta questo
come pegno di lealtà: toccami la destra. Perché taci con volto minaccioso? [ME.] Io
dovrei toccare la mano bagnata del sangue di mio padre e dell’assassinio dei miei due
fratelli?».
32
«Catene gravino pure sul mio corpo e una prolungata fame mi porti a una lenta
morte: nessuna forza vincerà la mia fedeltà: morirò tua, Alcide».
33
«[LI.] Sarai costretta. [ME.] Chi può essere costretto non sa morire».
226 Lucia Degiovanni
34
Rotrou Hercule mourant 151‑156 «Si je gâte ces fleurs, tu les peux corriger; / Ton
aiguille à mes doigts est un faix bien léger: / Mais ne t’oppose point à ce jeune caprice,
/ Qu’ils aient avec tes mains un commun exercice; / Ou si ce passe‑temps (mon coeur)
t’est importun, / Que nos yeux aient au moins un passe‑temps commun».
35
Cf. Ov. Her. 9, 79‑80 A, quotiens digitis dum torques stamina duris, / praevalidae fusos
conminuere manus! («Ah, quante volte, nel torcere il filo con le tue rozze dita, le mani
troppo robuste hanno spezzato i fusi!»).
36
Il tema è diffuso nel melodramma: cf. BUTI 1662 (Atto III, sc. 3), FRIGIMELICA
ROBERTI 1696 (Atto III, sc. 4), PASSARINI 1712 (Atto III, scc. 1‑2).
37
Per quanto riguarda il tema della sovrapposizione Iole‑Onfale, che ha origine da
un fraintendimento del testo della IX Eroide diffuso in commenti e volgarizzamenti
medievali di Ovidio ed è ampiamente sviluppato da Boccaccio in più opere (in part.
in De mulieribus claris 23), rinvio a un mio saggio in corso di stampa (Iole, Onfale ed
Ercole innamorato: da Ovidio al teatro sei‑settecentesco).
Il silenzio e la voce di Iole 227
38
LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 260‑338; edizione più recente: SIMÓN DÍAZ 1947, II, 279‑
462. Riguardo al rapporto tra questa tragedia e il modello senecano (Hercules furens ed
Hercules Oetaeus) vd. MORBY 1962 e la scheda di Corrado Cuccoro, di prossima
pubblicazione sul sito del progetto SIR (vd. n. iniziale).
39
LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 304‑308.
40
LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 334‑335.
41
Riguardo al matrimonio di Ercole e Iole cf. quanto detto supra p. 220 e n. 16.
228 Lucia Degiovanni
l’odiato figliastro (Atto III, sc. 5)42, tenta addirittura di uccidere con un pu‑
gnale Ercole addormentato43, come una novella Giuditta con Oloferne (sc.
6; Iole è tuttavia trattenuta da Illo, che le sottrae l’arma). Successivamente,
quando Iole, sotto ricatto (Ercole minaccia di uccidere il proprio figlio Illo,
suo rivale in amore), accetta a malincuore di sposare Ercole, le appare
l’ombra del padre, che la rimprovera duramente perché ha ceduto al ne‑
mico e dichiara che perseguirà di persona la propria vendetta (Atto IV, sc.
7). Segue (Atto V, sc. 1) una scena ultraterrena in cui l’ombra di Eutyro,
negli Inferi, raduna le anime di coloro che sono stati uccisi da Ercole e li
esorta a provocare, tutti insieme, la morte dell’eroe, assalendolo come «fu‑
rie invisibili»44. Viene così rifunzionalizzato il tema antico della vendetta
post mortem di una vittima di Ercole: non più Nesso, ma Eurito, per mano
della figlia Iole, latrice inconsapevole della veste avvelenata. Il motivo
della preterintenzionalità dell’uccisione di Ercole, già presente nell’Hercu‑
les Oetaeus in riferimento a Deianira, viene qui attribuito a Iole: se nell’Oe‑
taeus Deianira, in preda al furor della gelosia, aveva ipotizzato di assassi‑
nare il marito per vendicarsi del tradimento, nell’Ercole amante Iole aveva
realmente provato, senza successo, a uccidere l’eroe. Alla fine le due don‑
ne, in complicità, portano a reale compimento il proposito iniziale, pur
conservandosi innocenti, perché inconsapevoli dell’effetto letale del pre‑
sunto filtro d’amore. L’alleanza tra le due rivali, che condividono il fatto
di avere entrambe motivi di risentimento contro Ercole, estremizza, in un
certo senso, il motivo dell’equiparazione Deianira‑Iole nel comune desti‑
no di dolore, del quale si è detto all’inizio a proposito delle Trachinie.
Pur con sfumature diverse, ciò che contraddistingue le riletture moderne
del personaggio di Iole è il fatto che la principessa prigioniera è rappre‑
42
Buti rende effettiva, attribuendola a Iole, l’alleanza con Giunone contro Ercole
auspicata dalla Deianira dell’Hercules Oetaeus, che esortava la dea a servirsi di lei per
annientare l’eroe (256‑275).
43
Buti Ercole amante, Atto III, sc. 6: «[IOLE] D’Eutyro anima grande / a questo core,
a questo braccio imbelle / tanto furor, tanto vigor comparti / che possa or qui sacrarti,
/ con insigne vendetta / (universal di cui desio rimbomba) / vittima sì dovuta alla tua
tomba. / Prendi o mio genitor dall’arso lido / di Flegetonte, il sangue / di quest’empio
tiranno, / che nel tuo nome uccido».
44
Ercole amante, Atto V, sc. 1: «[EUTYRO] Su, su dunque ombre terribili / su voliam
tutte in Eocalia, / nuova in ciel schiera stimfalia / contra il reo furie invisibili, / e con le
vipere / onde Tesifone / tormenta l’anime / flagellamogli il cor; / fin ch’immenso dolor
/ con angoscie rabbiose il renda esanime». L’azione dell’ombra di Eutyro ricorda quella
dello spettro di Clitemnestra, che nel prologo delle Eumenidi di Eschilo sobilla le Erinni
a perseguitare il proprio assassino, Oreste (cf. in part. 137‑139).
Il silenzio e la voce di Iole 229
sentata come una donna ‘forte’ (tanto da tenere testa allo stesso Ercole),
sempre costante nei suoi affetti e nei suoi proponimenti, razionale nelle
proprie scelte d’azione, in contrasto con Deianira che, su modello del
personaggio latino, è rappresentata come fortemente emotiva, dominata
dalle passioni (in particolare dalla gelosia e dall’ira), impulsiva nelle
decisioni. Alla fine l’irrazionalità di Deianira porterà alla morte lei stessa e
il marito, mentre la costanza di Iole sarà premiata con il ‘lieto fine’ della
propria vicenda personale (per lo più con il coronamento, nel matrimonio,
del suo amore per Illo).
Se fino all’inizio del Novecento l’orientamento dominante era la libera
contaminazione di più fonti classiche45, in tempi più recenti, a cavallo del
nuovo millennio, prevale la tendenza a richiamarsi direttamente alle
Trachinie, nell’intento di trasporne la vicenda in un contesto contempo‑
raneo46. Come si è detto, uno dei temi più diffusi nelle rivisitazioni moderne
è l’amore dei due giovani, Iole e Illo, dapprima contrastato dalla rivalità di
Ercole e infine coronato nelle agognate nozze. La base di partenza è
naturalmente il mito classico, che prevedeva il matrimonio di Illo e Iole,
dal quale sarebbe disceso il glorioso genos degli Eraclidi. Le riscritture
contemporanee ribaltano questa lieta katastrophè, tipica piuttosto della
commedia o del romanzo, nella prefigurazione di una catena d’odio
destinata a perpetuarsi nelle future generazioni, come conseguenza della
violenza della guerra che ha introdotto Iole, a forza, nella famiglia di Ercole.
Lo spunto per questa rilettura ‘tragica’ proviene dalla scena dell’esodo delle
Trachinie in cui Ercole impone al figlio il matrimonio con Iole47. Illo
dapprima protesta vivacemente contro l’ordine paterno: non ha alcuna
intenzione di prendere in moglie colei «che ha più in odio», «la sola
responsabile della morte di sua madre e dello stato in cui suo padre si
trova» (Trach. 1233‑1237); alla fine, tuttavia, per obbedienza filiale, si
sottomette alla volontà paterna. È proprio questo snodo – la duplice
violenza esercitata sia su Iole che su Illo – a suggerire innovative chiavi
interpretative del mito classico.
Il dramma contemporaneo che più ampiamente sviluppa questo tema è
Dianeira di Timberlake Wertenbaker, che appartiene al genere del radio play,
ovvero un testo teatrale appositamente concepito non per la messa in scena
45
Sofocle, Ovidio e l’Hercules Oetaeus, oltre a tragedie che presentano linee
tematiche comuni, come l’Hercules furens di Seneca e le Medee di Euripide e di Seneca.
46
Per una rassegna delle rivisitazioni moderne delle Trachinie cf. MILLS 2017.
47
Per una riflessione sull’anomala pretesa di Ercole cf. PRALON 1996, 75 n. 38 e
PÒRTULAS 2010.
230 Lucia Degiovanni
IRENE It could go on, this argument, but in the end, fathers do eat their sons
if they can, there is no other myth that rings so true. […] And now the long
arm of Heracles bows down the head of his son and turns this young man
full of hope and life and possible love into a man overflowing with
resentment, anger. And so it continues.
HYLLOS You can’t see any more, Father, but she’s coming out of the house
now, as if summoned by her hated name. And I can see from here triumph
on her face. Don’t forget you killed her father, burned her city, took her by
violence.
HERACLES I loved her.
HYLLOS Strange manifestation of love, Father, but now you’re dying,
writhing in agony, and she gloats on your pain, on my mother’s death. What
I see is a curl of pleasure on her cold lips. Don’t ask me to marry such malice.
48
WERTENBAKER 2002, 321‑374.
49
Sulla funzione drammaturgica del personaggio di Irene cf. WILSON 2008, 210 ss.
50
WERTENBAKER 2002, 369‑374.
Il silenzio e la voce di Iole 231
Iole si mostra compiaciuta («gloats») per la rovina in cui, per causa sua,
è caduta la casa di Ercole: agli occhi di Illo appare addirittura “trionfante”
(«I can see from here triumph on her face»), perché vede realizzata la
vendetta per la violenza subita51.
Il tema della vendetta di Iole è poi sviluppato tramite la rivisitazione del
“silenzio” del personaggio sofocleo: la donna, come spiega la voce narrante,
rimarrà in silenzio per tutta la sua vita matrimoniale con Illo:
Iole never said a word. She never said a word when she married Hyllos. She
never said a word to her children. What was there to say? the bitterest anger
is silent. And so anger threads its way through generations.
She has suckled her children with her anger, she is her anger, how can she
relinquish the anger that she is? Anger is her life, her identity, and even a
not too unpleasant habit.
51
L’atteggiamento di Iole ricorda l’esultanza di Cassandra nelle Troiane di Euripide
e nell’Agamennone di Seneca per essere lo strumento della rovina della casa di
Agamennone. In entrambi i casi la prigioniera di guerra, attraverso l’unione con il
nemico vincitore, porta a compimento la vendetta per la distruzione della patria e
l’uccisione del padre e dei familiari: cf. in part. E. Tro. 458‑461, Sen. Ag. 1004‑1011 e
DEGIOVANNI 2004, 386‑389.
52
Nella cornice narrativa che contestualizza la performance della cantastorie, la
Timberlake stessa e i suoi amici, in vacanza ad Atene, si recano nel villaggio di
Kafeneion appositamente per ascoltare la cantastorie cieca: «She [scil. the storyteller]
asked us what kind of story we wanted. I wanted one about love, but my friends said
they’d heard lots of those, they wanted adventure. We settled on anger. This is what
we heard» (WERTENBAKER 2002, 327).
232 Lucia Degiovanni
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Il poeta protagonista del suo dramma:
sulla ricostruzione della Pytinē di Cratino
1. Nel 424 a.C., in occasione degli agoni lenaici, Aristofane ottenne il primo
posto nel concorso, davanti ai Satyroi di Cratino e agli Ylophoroi di
Aristomene1, con la messa in scena dei Cavalieri, la più estesa rappresen‑
tazione a noi nota di quella che è stata definita la Demagogenkomödie2, con
bersaglio, nel caso specifico, il politico Cleone; nel corso del violento e
serrato attacco, alla metà circa dell’azione drammatica (498‑610), l’illusione
scenica è temporaneamente interrotta dall’esecuzione della parabasi, al cui
interno, nell’arco di una ventina di versi (520‑540), è tracciato «un breve ma
denso capitolo di storia della commedia attica antica»3, nel quale sono
ricordate le alterne fortune che il pubblico ateniese aveva riservato a tre dei
commediografi della generazione precedente ad Aristofane stesso: Magnete
(520‑525)4, Cratino (526‑536) e Cratete (537‑540)5.
1
Arg. Α5 (VEΓΘVatLh) Ar. Eq. 3, 10‑12 Jones‑Wilson = arg. II.4, 66, 20‑22 WILSON
2007 = Cratin. test. 7b K.‑A. ἐδιδάχθη τὸ δρᾶμα ἐπὶ Στρατοκλέους ἄρχοντος (425/4
a.C.) δημοσίᾳ (VEL: om. ΓΘ) εἰς Λήναια δι᾽ αὐτοῦ <τοῦ> Ἀριστοφάνους. πρῶτος ἦν·
ἐνίκα (πρῶτος ἦν· ἐνίκα Vvat: πρῶτον ἐνίκα ΕΓΘ: ἐνίκα Lh) δεύτερος Κρατῖνος
Σατύροις· τρίτος Ἀριστομένης Ὑλοφόροις. Per la notazione δημοσίᾳ «a spese
pubbliche» e l’impiego del verbo νικάω per indicare l’ottenimento del secondo o del
terzo posto, cf. BIANCHI 2017, 301‑2 (commento a Cratin. test. 7b K.‑A.).
2
V. LIND 1990, in part. 235‑252.
3
IMPERIO 2004, 187.
4
Magn. test. 7 K.‑A., PCG V, 627, v. BAGORDO 2014b, 82‑84.
5
Cratet. test. 6 K.‑A., PCG IV, 84.
236 Francesco Paolo Bianchi
Di questi tre poeti, Cratino era l’unico verisimilmente ancora in vita nel
424 a.C.; nel suo ritratto (526‑536) sono chiaramente opposte la gloria del
passato (526‑530) e la miseria del presente (531‑536) e il fatto che questa
rappresentazione occupi oltre la metà del totale dei versi (11 su 20) rivela,
come è stato più volte notato, da un lato la particolare importanza che il
più giovane commediografo tributava al suo predecessore, dall’altro
l’accesa polemica letteraria che tra i due poeti si era instaurata da quando
Aristofane aveva iniziato la propria carriera6. Il ritratto di Cratino un tempo
glorioso, ma ormai ‘vaneggiante’ (531 παραληροῦντα, cf. 536 ληρεῖν),
‘autore di musiche stonate’ (533 τῶν θ᾽ ἁρμονιῶν διαχασκουσῶν),
‘vecchio e errabondo’ (533 γέρων ὢν περιέρρει) e, soprattutto, ‘morto di
sete’ (534 δίψῃ δ’ ἀπολωλώς), un palese riferimento alla φιλοινία di cui vi
è traccia in diverse fonti7, doveva rappresentare la supremazia oramai
consolidata del più giovane Aristofane sull’anziano commediografo, la
quale era stata certamente sancita dal trionfo nel precedente anno 425 a.C.
degli Acarnesi sui Cheimazomenoi8 e che sarebbe stata ulteriormente
confermata, in quello stesso anno 424 a.C., dalla vittoria, sperata, ma anche
certo attesa, dei Cavalieri.
Cratino, però, non aveva esaurito la propria vis comica e nei successivi
agoni dionisiaci del 423 a.C. rispose alle accuse di Aristofane componendo
un dramma, la Pytinē, con il quale ottenne un clamoroso successo,
riuscendo infatti vincitore dinanzi al Konnos di Amipsia e alle Nuvole prime
di Aristofane, che si classificarono solamente in terza posizione9.
6
Per la cronologia di Cratino e il suo ritratto nei Cavalieri, v. BIANCHI 2017, 13‑15 e
308‑316.
7
Cratin. testt. 1, 9, 10, 11, 14, 16, 45 e forse anche 15 K.‑A., v. BIANCHI 2017, 12 e
passim (cf. Indice, 473 s.v. Cratino, φιλοινία).
8
Arg. I (RΦ[AΓΕ] c [Vp3c]Lh) Ar. Ach. 2, 3‑5 Wilson = arg. I, 4, 37‑40 Wilson 2007 =
arg. I, p. 1 s., 32‑34 Olson 2002 ἐδιδάχθη ἐπὶ Εὐθύνου ἄρχοντος (426/5 a.C.) ἐν
Ληναίοις διὰ Καλλιστράτου· καὶ πρῶτος ἦν· δεύτερος Κρατῖνος Χειμαζομένοις. οὐ
σῴζονται. τρίτος Εὔπολις Νουμηνίαις. Per οὐ σῴζονται v. PFEIFFER 1968, 288
(Addenda): «le note οὐ σῴζεται ο οὐ σῴζονται ai titoli dei drammi, il cui testo non
raggiunse ‘il porto della salvezza’ in Alessandria, sono probabilmente attinte ai Pinakes
nelle hypothesis di Aristofane» (la traduzione del passo citato proviene dall’edizione
italiana del 1973 [215 n. 35] di PFEIFFER 1968).
9
Arg. A 6 (VERs) Ar. Nub. 4, rr. 12‑17 Holwerda = arg. V, 134, 1‑6 Wilson 2007 αἱ
πρῶται Νεφέλαι ἐδιδάχθησαν (post ἐν ἄστει V) ἐν ἄστει ἐπὶ ἄρχοντος Ἰσάρχου
(424/3 a.C.), ὅτε Κρατῖνος μὲν ἐνίκα Πυτίνῃ, Ἀμειψίας δὲ Κόννῳ. διόπερ
Ἀριστοφάνης ἀπορριφθεὶς (ἀπορριφεὶς E) παραλόγως ᾠήθη δεῖν ἀναδιδάξας
(ἀναδιδάξαι V) τὰς Νεφέλας τὰς δευτέρας καταμέμφεσθαι (ἀπομεμφ‑ V) τὸ
θέατρον. ἀτυχῶν δὲ πολὺ μᾶλλον καὶ ἐν τοῖς ἔπειτα οὐκέτι τὴν διασκευὴν
εἰσήγαγεν (ἐπήγ‑ Rs).
Il poeta protagonista del suo dramma 237
2. La Pytinē, con la quale Cratino ottenne l’ultimo dei suoi sei successi
dionisiaci, è un’opera assolutamente singolare nel panorama dell’intera
produzione comica antica: si tratta, infatti, dell’unico caso a noi noto in cui
protagonista della commedia sia il poeta stesso e l’intero dramma si possa
interpretare come una «dramatized parabasis»10, fosse, cioè, dedicato tutto
alla discussione poetica; come ha efficacemente scritto B. Zimmermann11:
in letzten Stück, der Flasche (Pytine) […] entfaltet der ältere Dichter in
unmittelbarer Auseinandersetzung mit dem jüngeren Rivalen sein
poetologisches Programm – und dies unüberhörbar, da er sich selbst zum
komischen Helden des Stücks machte […] Man kann geradezu sagen, daß
Kratinos, durch den aristophanischen Spott herausgefordert, die beiden
Dominanten seiner komischen Dichtung, das dionysische und satirische
Element, in seiner letzten Komödie zu seiner Komödienpoetik
zusammenführt, dies jedoch nicht in der Form der darstellende Rede – etwa
in einem Agon oder der Parabase – tut, sondern indem er das poetische
Programm in eine komische Bühnenhandlung umsetzt.
10
La definizione è di BILES 2011, 281 (indice del volume), con il rimando alle
discussioni presenti alle pagine 30‑31 e 146.
11
ZIMMERMANN 2011, 728 e 730 (da: «man kann geradezu sagen» usw.).
12
OLSON 2007, 80: «Cratinus’ The Wineflask (frr. 193‑217) and Dionysalexandros (frr.
39‑51) are important exceptions to the rule that little can be said about the plots of
individual fragmentary fifth‑century comedies. Much remains obscure about both
plays. But the fragments […] offer a sense of what an ‘Old Comedy’ by someone other
than Aristophanes looked like, and preserve traces of many of the genre’s standard
structural elements […] Other late fifth‑century comedies whose plots can be at least
partially reconstructed include Aristophanes’ Babylonians (frr. 67‑100; first place at the
City Dionysia in 426) and Eupolis’ Demes (frr. 99‑146; mid‑ to late 410s.), Marikas (frr.
192‑217 […]), and Taxiarchs (frr. 268‑285; undated)».
238 Francesco Paolo Bianchi
13
Per i dati qui riportati, v. BIANCHI 2017, 53 e 284‑285 (comm. a Cratin. test. 1 K.‑
A., Sud. κ 2334) per l’oscillazione delle testimonianze sul numero complessivo dei
drammi cratinei.
14
Altre notizie sulla composizione della Pytinē sono in: schol. ad Ar. Eq. 531a, latore
del fr. 213 K.‑A., su cui v. p. 254 s. e cf. BILES 2002, 182 e 2011, 147; Plut. quaest. conv. 2,
3, 12 (634d) il cui testo è incerto, v. KASSEL/AUSTIN PCG IV, 219. Infine risale a Kaibel
apud KASSEL/AUSTIN PCG IV, 219 la possibilità che il Δὶς κατηγορούμενος di Luciano
(29) potesse avere avuto a modello il dramma di Cratino: «cuius dialogi altera pars (26)
manifesto ad Cratini fabulae exemplum instituta est. Rhetorica enim Luciani tamquam uxor
maritum accusat quod rupta coniugii fide cum Dialogo puero rem habet, cf. 28, 29».
15
V. n. 17.
16
«E quello adiratosi, sebbene si fosse ritirato dal gareggiare e dal comporre, di
nuovo scrisse un dramma, la Pytinē, riguardo se stesso e l’ubriachezza (o Ubriachezza),
Il poeta protagonista del suo dramma 239
in cui è stata seguita questa disposizione: Cratino immaginò che Commedia fosse sua
moglie e che volesse rinunciare al matrimonio con lui e intentargli una causa per
maltrattamento; e che gli amici di Cratino, sopraggiunti, (le) chiedessero di non fare
nulla di avventato e le domandassero il motivo del suo odio e che quella (rispondesse)
che lo biasimava perché non aveva più cura di Commedia, ma passava il suo tempo
ad ubriacarsi (con Ubriachezza)».
17
Schol. vet. (VEΓ3ΘΜ) Ar. Eq. 400a (I) εἴ σε μὴ μισῶ, γενοίμην ἐν Κρατίνου
κῴδιον = Sud. κ 2216 ~ Cratin. PCG IV, test. 14 K.‑A. ~ Pytinē test. ii K.‑A. Κρατίνου
κῴδιον: κῴδιόν ἐστι τὸ ἅμα τοῖς ἐρίοις δέρμα σκευαζόμενον. ὡς ἐνουρητὴν δὲ καὶ
μέθυσον διαβάλλει τὸν Κρατῖνον. ὁ δὲ Κρατῖνος καὶ αὐτὸς ἀρχαίας κωμῳδίας
ποιητής, πρεσβύτερος Ἀριστοφάνους, τῶν εὐδοκίμων ἄγαν (segue il riassunto della
trama citato sopra. Questa parte dello scolio corrisponde alla test. 14 K.‑A. di Cratino,
la sintesi del dramma alla test. ii K.‑A. della Pytinē) «Pelliccetta di Cratino: kōdion è la
pelle preparata insieme alla lana. Attacca Cratino come uno che se la fa sotto e
ubriacone. E Cratino (era) anche lui poeta della commedia antica, più anziano di
Aristofane, di quelli molto rinomati». L’enuresi è caratteristica comune degli uomini
di età avanzata (cf. ad es. il coro degli anziani in Ar. Lys. 402 e 450) ed è possibile che
a ciò si riferisca l’impiego del verbo ῥεύσας nella parabasi dei Cavalieri di Aristofane,
v. 526, cf. BIANCHI 2017, 311 ad Cratin. test. 9 K.‑A. L’espressione ἐν Κρατίνου si può
intendere genericamente come ‘in casa di Cratino’ (cf. schol. Ar. Eq. 400a εἰς τὴν οἰκίαν
τοῦ Κρατίνου e v. SOMMERSTEIN 1981, 49, HENDERSON 1998, 281, HENDERSON 2011,
177, STOREY 2011, 245), ma forse, più specificamente, ‘nel letto di Cratino’ come
intendono CANTARELLA 1953, 295 e MASTROMARCO 1983, 245 (che traduce κῴδιον
‘pannolino’), cf. anche EDMONDS 1957, 17 («may I be Cratinus’ bed»).
18
Che si tratti di una notizia dedotta autoschediasticamente dal testo di Aristofane,
lo mostra il fatto che lo stesso anno dei Cavalieri (424 a.C.) Cratino concorse agli agoni
con i Satyroi (Cratin. PCG IV, test. 7b K.‑A.) e che potrebbe essere stato attivo ancora
dopo la rappresentazione della Pytinē, con i Seriphioi (BAKOLA 2010, 60 n. 139) e forse
anche i Lakōnes (questa l’ipotesi di MASTROMARCO 2002, in part. 398‑403, cf. BIANCHI
2017, 318 s. e n. 432).
240 Francesco Paolo Bianchi
19
A proposito della presenza di Cratino stesso, opportuna la notazione di OLSON
2007, 80‑81: «Hellenistic scholars regularly mined literary texts for biographical
information about the author, and we cannot be sure that the poet who appeared on
the stage in The Wineflask was actually called ‘Cratinus’; and even if he was, the
character cannot simply be identified with the historical author of the play». V. anche
RUFFELL 2014, 280‑289.
20
MEINEKE FCG I, 48, II.1, 116.
21
KOCK CAF I, 68.
22
LUPPE 2000, 17.
23
ROSEN 2000, 26.
24
RUFFELL 2002, 156.
25
Nel fr. 258 K.‑A. «Cratino […] assimilava beffardamente Pericle a Zeus, con una
frase densa di allusioni diverse, nella quale tramite il riferimento alla mitologia
teogonica, veniva denunciato il carattere tirannico del suo potere e, nello stesso tempo,
era messa alla berlina la forma irregolare, eccessivamente allungata, della sua testa»
(CERRI 1975, 119), mentre nel fr. 259 K.‑A., Aspasia era detta figlia di Era e Katapygosynē
e, se si accetta la pertinenza a questo stesso frammento della testimonianza di uno
scolio a Platone (TW ad Pl. Menex. 235e, 183 Greene = 3, 270 Cufalo), era inoltre
chiamata anche Omfale, dal nome della figlia di Iardano, regina dei Lidi presso la
quale Eracle fu venduto come schiavo e dovette servire per espiare la colpa
dell’uccisione di Ifito. Su questi frammenti v. in part. FARIOLI 2001, 416‑419, NOUSSIA
2003, DI MARCO 2005, OLSON 2007, 207 s. Per le personificazioni in commedia, v.
DEUBNER 1908, in part. 2105‑2107, STÖSSL 1937, in part. 1050, ZIMMERMANN 2012.
Il poeta protagonista del suo dramma 241
26
V. in part. HEATH 1990, 150: «some have thought of a mistress called Drink;
unfortunately, when our source describes Comedy as complaining that ‘he no longer
writes comedy but devotes himself to drink (σχολάζοι δὲ μέθῃ)’, we cannot tell
whether μέθη is to be construed as a personification, parallel to Comedy herself».
27
BAKOLA 2010, 282‑285.
28
QUAGLIA 1998, 25 (corsivo dell’autore).
29
Cic. Att. VI, 1: Accepi tuas litteras a. d. V Terminalia Laodiceae; quas legi libentissime
plenissimas amoris, humanitatis, offici, diligentiae. iis igitur respondebo, * * * (sic enim
postulas), nec οἰκονομίαν meam instituam sed ordinem conservabo tuum. Dion. Hal. Pomp.
IV 2 (Ξενοφῶν) οὐ μόνον δὲ τῶν ὑποθέσεων χάριν ἄξιος ἐπαινεῖσθαι [ζηλωτὴς
Ἡροδότου γενόμενος], ἀλλὰ καὶ τῆς οἰκονομίας. V. anche LSJ s.v. οἰκονομία 3 «of a
literary work, arrangement»; GE s.v. οἰκονομία «rhet. distribution, disposition, of themes,
of material».
30
LSJ s.v. ἀφίστημι Β.1 «ὧν εἷλεν ἀποστάς giving up all claim to what he had won
242 Francesco Paolo Bianchi
accepted term for living together in legitimate union»31 e che dal II sec. a.C.
circa diventa di uso comune in formule tipo συνοικεσίου συγγραφή ‘causa
di divorzio’ (Pap. Teb. 809.5, cf. P.Oxy 266.11). L’intera espressione ἀφίστα‑
σθαι τοῦ συνοικεσίου potrebbe, quindi, alludere alla cosiddetta
ἀπόλειψις32, una procedura per la quale una donna che volesse separarsi
dal marito si presentava dinanzi all’arconte e chiedeva di registrare un
cambio di stato33;
b) κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν. L’espressione δίκην λαγχάνειν
è di impiego comune per indicare un’azione processuale e ricorre, ad
esempio, in due passi della Ἀθηναίων πολιτεία dello pseudo‑Aristotele
(53, 1 δίκας λαγχάνουσιν, 56, 6 δίκαι λαγχάνονται)34; nel secondo di essi
(56, 6), inoltre, sono elencate le γραφαὶ κακώσεως, che possono riguardare
il maltrattamento dei genitori, degli orfani e dell’erede35. Come ha, dunque,
rilevato Biles36 «the scholiast’s detail conform to Athenian divorce
procedures, and his description is too unified and its implications too
extensive to be a product of his imagination». Meno certa appare, invece,
l’interpretazione proposta da Bakola37: delle possibili γραφαί κακώσεως,
l’unica che sembra adattarsi alla situazione scenica della Pytinē sarebbe la
ἐπικλήρου κάκωσις38, il che è certamente verisimile; da ciò, inoltre, si
potrebbe stabilire un riferimento a una delle leggi di Solone: τρὶς ἑκάστου
μηνὸς ἐντυγχάνειν πάντως τῇ ἐπικλήρῳ τὸν λάβοντα39. La mancata
ottemperanza a tale dovere coniugale poteva portare al divorzio; di
conseguenza:
(at law), D. 21, 181; τῶν αὑτῆς Id. 19, 147, cf. 35, 4; ἀφίστασθαι τῶν τοῦ ἀδελφοῦ ib.
44»; GE s.v. «to be deprived, lose», con il richiamo al medesimo passo di Demosth. 21,
181.
31
HARRISON 1968, 2.
32
L’ipotesi è di BILES 2011, 159‑160.
33
Per la ἀπόλειψις e, in particolare, per le diverse condizioni alle quali era soggetta
una donna che volesse divorziare, v. HARRISON 1968, 40‑44, COHN‑HAFT 1995, 4‑7, 11‑
13.
34
V. LSJ s.v. e RHODES 1981, 587 s., 2017, 381 ad [Aristot.] Ath. Pol. 53, 1.
35
[Aristot.] Ath. Pol. 56, 6 γραφαὶ δ[ὲ καὶ δ]ίκαι λαγχάνονται πρὸς αὐτόν, ἃς
ἀνακρίνας εἰς τὸ δικαστήριον εἰσάγει, [γο]νέων κακώσεως (αὗται δ’ εἰσὶν ἀζήμιοι
τῷ βουλομένῳ δ[ι]ώκειν), ὀρφανῶν κ[ακώ]σεως (αὗται δ’ εἰσὶ κατὰ τῶν
ἐπιτρόπων), ἐπικλήρου κακώσε[ως (αὗτ]αι δ’ εἰσὶ κατὰ [τῶν] ἐπιτρόπων καὶ τῶν
συνοικούντων), οἴκου ὀρφανικοῦ κακώσεως (εἰσὶ δὲ καὶ [αὗται κατὰ τῶν]
ἐπιτρόπων), cf. RHODES 1981, 629‑630, 2017, 399‑400.
36
BILES 2011, 160.
37
BAKOLA 2010, 276‑277.
38
Cf. HARRISON 1968, 117‑119, RHODES 1981, 630.
39
Sol. F 51a Ruschenbusch (p. 88) = 434 Martina (p. 217). La fonte per questa legge
è Plut. Sol. 20, 4.
Il poeta protagonista del suo dramma 243
40
BAKOLA 2010, 277 (corsivo dell’autrice).
41
Questa ipotesi è ascritta sia da ROSEN 2000, 26 che da BILES 2002, 181, n. 40 a
RUNKEL 1827 (il riferimento preciso è assente in entrambi gli studiosi, si tratta
verisimilmente di p. 50) e a MEINEKE FCG I, 48 (il numero di pagina è dato dal solo
Rosen), dai quali dipenderebbe, poi, HEATH 1990, 150. In realtà tanto Runkel quanto
Meineke parlano solo in maniera generica, rispettivamente, di «amici poetae» e di
«Cratini familiares», senza specificare nulla sulla possibile scena del dramma, mentre
più specificamente risale a HEATH 1990, 150 l’ipotesi della parodo: «I take it that this
is the entry of the Chorus».
42
BILES 2002, 181 n. 40.
43
A proposito dei componenti del coro, interessante la notazione di QUAGLIA 1998,
26 n. 8: «lo scolio non dice se tra gli amici di Cratino figurasse un interlocutore
privilegiato, cioè un vero e proprio personaggio, o se Commedia si rivolgesse,
genericamente, ai coreuti. All’esistenza di un vero e proprio attore (e non semplice‑
mente del Corifeo) fa pensare il fr. 199 K.‑A. in cui un terzo personaggio (maschile,
come provato dal participio σποδῶν al v. 4) progetta di distogliere Cratino dal vizio
del bere».
244 Francesco Paolo Bianchi
44
BAKOLA 2010, 281.
45
ΗΕΑΤΗ 1990, 150: «there followed a debate in which Comedy set out her
complaints and Cratinus defended himself».
46
PICKARD‑CAMBRIDGE 19622, 200, GELZER 1960, in part. 11‑37, DOVER 1972, 66.
Nelle commedie di Aristofane l’agone si situa prima della parabasi nelle Vespe (526‑
724), negli Uccelli (451‑638) e nella Lisistrata (476‑613); dopo la parabasi nei Cavalieri
(756‑940), nelle Nuvole (950‑1104) e nelle Rane (858‑1098). Nei Cavalieri si ha un agone
Il poeta protagonista del suo dramma 245
anche nella prima parte, prima della parabasi (303‑460), ma su scala minore rispetto
al secondo. L’agone manca in Acarnesi, Pace e Tesmoforiazuse; se ne ha testimonianza
nelle Ecclesiazuse (571‑709) e nel Pluto (487‑726), ma la nota mancanza della parabasi
in queste commedie le esclude da un termine di confronto.
47
QUAGLIA 1998, 27. HEATH 1990, 150 affermava, genericamente: «The fragments
indicate that this exchange was in iambic trimeters, rather than the recitative metres
we generally associate with a comic agon (although there is always a margin of
uncertainty about the assignment of fragments to any particular scene)», ma parlava
anche (ibid.) di parodia di un «cliché of legal oratory» a proposito del fr. 197 K.‑A. (v.
supra).
48
Trad. BETA 2009, 247.
49
Κρατίνου ἐν Πυτίνῃ εἰπόντος· τὴν μὲν παρασκευὴν ἴσως γινώσκετε,
Ἀνδοκίδης ὁ ῥήτωρ λέγει (1, 1)· «τὴν μὲν παρασκευήν, ὦ ἄνδρες δικασταί, καὶ τὴν
προθυμίαν τῶν ἐχθρῶν τῶν ἐμῶν σχεδόν τι πάντες εἴσεσθε». Ὁμοίως καὶ Λυσίας
ἐν τῷ πρὸς Νικίαν ὑπὲρ <παρα>καταθήκης (fr. 190 Sauppe) «τὴν μὲν παρασκευὴν
καὶ τὴν προθυμίαν τῶν ἀντιδίκων ὁρᾶτε, ὦ ἄνδρες δικασταί,» φησίν, καὶ μετὰ
τοῦτον Αἰσχίνης λέγει (3, 19)· «τὴν μὲν παρασκευὴν ὁρᾶτε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι,
καὶ τὴν παράταξιν».
50
«Intrigue, cabal» LSJ s.v. nr. 3, «intrigue, plot, trick» GE s.v., con i richiami,
esemplificativi, oltre ai passi citati alla nota precedente e dedotti dal passo di Clemente
Alessandrino, anche a Antiph. 5, 79, Lys. 12, 75, Demosth. 43, 32, Lycurg. 20.
51
KASSEL/AUSTIN PCG IV, 222.
52
QUAGLIA 1998, 51.
246 Francesco Paolo Bianchi
53
Cratin. fr. 6 K.‑A.: εἶδες τὴν Θασίαν ἅλμην, οἱ᾽ ἄττα βαΰζει; / ὡς εὐ καὶ ταχέως
ἀπετείσατο καὶ παραχρῆμα. / οὐ μέντοι παρὰ κωφὸν ὁ τυφλὸς ἔοικε λαλῆσαι «Hai
visto la salamoia di Taso, quanto abbaia? / Come si è vendicata bene e in fretta e lì per
lì. / Non sembra certo che il cieco chiacchieri vicino a un sordo» (trad. BIANCHI 2016,
62). L’ipotesi di un’attribuzione del frammento alla sphragis dell’agone e la conseguente
possibilità di un intero agone omeoritmico in esametri è di PRETAGOSTINI 1982, 45‑47,
che sviluppa l’idea di una generica ascrizione all’agone già di ZIELIŃSKI 1887, 10‑11,
cf. BIANCHI 2016, 66‑67.
54
Cratin. fr. 208 K.‑A.: ληρεῖς ἔχων· γράφ᾽ αὐτόν / ἐν ἐπεισοδίῳ· γελοῖος ἔσται
Κλεισθένης κυβεύων / † ἐν τῇ τῇ κάλλους ἀκμῇ «Stai dicendo un sacco di
stupidaggini: / scrivilo nell’episodio. Il pubblico riderà / quando vedrà Clistene giocare
a dadi / nel fulgore della sua bellezza» (trad. BETA 2009, 249). Il testo di questo
frammento è stato talora sospettato: secondo MARZULLO 1959, 145 «γράφ(εται)
ταῦτ(α) ἐν ἐπεισοδίῳ, quale è lecito desumere dai codici, potrebbe considerarsi
annotazione marginale, poi intrusa nel frammento di Cratino. Dell’originario
compendio fanno fede le diverse lezioni: offrono anzi il maggiore indizio», ma non
sembra esserci motivo di dubitare del sostantivo ἐπεισόδιον del v. 2, v. MEINEKE FCG
II.1, 126 che confrontava Metag. fr. 15 K.‑A. (Philothytēs) κατ᾽ ἐπεισόδιον μεταβάλλω
τὸν λόγον κτλ., su cui v. PELLEGRINO 1998, p. 327 s., ORTH 2014, 468‑471; per la metrica,
inoltre, un inizio con due anapesti (ἐν ἐπεισοδίῳ), è raro, ma attestato in Ar. Eq. 414‑
415 e Ran. 920.
55
Cratin. fr. 209 K.‑A.: Ὑπέρβολον δ᾽ ἀποσβέσας ἐν τοῖς λύχνοισι γράψον
«spegni Iperbolo e scrivilo nel mercato delle lampade», trad. BETA 2009, 249.
56
Per il fr. 208 K.‑A., v. ZIELIŃSKI 1931, 87: «aut poeta lagaena orbatus inutilis
ostendebatur ad comoediam scribendam aut lagaena recuperata egregiam scribens fabulam
inducebatur», GELZER 1960, 182. Per il fr. 209 K.‑A., v. CRUSIUS 1889, 39: «Comoediam
Il poeta protagonista del suo dramma 247
5. Dal testo dello scolio si ricava che all’inizio del dramma, nel prologo,
Commedia dichiarava di voler abbandonare il tetto coniugale e intentare
una causa a Cratino; nella scena successiva alla parodo, poi, la stessa
Commedia sotto richiesta degli amici di Cratino esponeva le ragioni della
propria ostilità. Se quest’ultima sezione del dramma coincideva con l’agone
(v. supra) allora i trimetri giambici che si possono attribuire a Commedia
saranno stati parte della sua rhesis giudiziaria; in caso contrario, essi si
potranno intendere come ciò che rimane di una scena episodica precedente
l’agone (perduto, tranne, forse, alcuni versi, cf. supra per i frr. 208 e 209 K.‑
A).
In più di un caso, comunque, il contenuto dei frammenti è coerente con
ciascuna di queste due scene e non risulta possibile un’ascrizione certa
all’una o all’altra; di ciò sono esemplificativi i frr. 193 K.‑A.: ἀλλ’ †
ἐπαναστρέψαι βούλομαι εις † τὸν λόγον. / πρότερον ἐκεῖνος πρὸς
ἑτέραν γυναῖκ’ ἔχων / τὸν νοῦν, κακὰς εἴποι πρὸς ἑτέραν· ἀλλ’ / ἅμα
audimus in agone nova quaedam poetae inventa corripientem atque veras τοῦ κωμῳδεῖν vias
monstrans», GELZER 1960, 182. Per il richiamo a personaggi dell’attualità politica, al
medesimo contesto dell’agone potrebbero forse rimandare anche le menzioni di
Antifonte, Licone e Cherefonte rispettivamente nei frr. 212, 214 e 215 K.‑A., sebbene la
loro genericità non escluda un qualsiasi altro riferimento, anche soltanto incidentale,
nel corso del dramma. Secondo HEATH 1990, 151 i due frammenti si collocano in una
scena successiva alla riconciliazione tra Cratino e Commedia e sono pronunciati da
quest’ultima; ciò è senz’altro possibile, ma se si tratta di una scena episodica non è
agevole capire il perché dei metri utilizzati. D’altra parte, se non si accetta
l’identificazione dell’agone con lo scontro verbale tra Cratino e Commedia, non
possiamo sapere se esso precedesse o meno la riappacificazione tra i due coniugi; data
la normale collocazione dell’agone (cf. n. 46), è possibile che fosse precedente, in una
fase iniziale della commedia, quando, di conseguenza, i contrasti tra i due coniugi
248 Francesco Paolo Bianchi
μὲν τὸ γῆρας, ἅμα δέ μοι δοκεῖ +< / † οὐδέποτ’ αὐτοῦ πρότερον57 e 194
K.‑A.: γυνὴ δ’ ἐκείνου πρότερον ἦ, νῦν δ’ οὐκέτι58. Il lessico è simile e in
entrambi la persona loquens è generalmente e con verisimiglianza
identificata in Commedia59, la quale nel primo frammento sosteneva che
quello (ἐκεῖνος, v. 2), cioè, con ogni verisimiglianza Cratino, rivolgeva le
sue attenzioni a un’altra donna (πρὸς ἐτέραν γυναῖκα ἔχων / τὸν νοῦν, v.
2 s., cf. v. 3 πρὸς ἑτέραν); nel secondo, in maniera simile, affermava che un
tempo lei stessa era stata la donna (γυνή) di quello, di nuovo il pronome
ἐκεῖνος, ma ora non lo era più (νῦν δ᾽ οὐκέτι)60.
Le affermazioni, generiche, di questi versi potevano trovare spazio
ugualmente sia nel prologo sia nella scena successiva alla parodo61. Ad
analoga conclusione porta, d’altra parte, un’analisi del contesto di citazione
del fr. 193 K.‑A.62: latore ne è il medesimo scolio che tramanda il riassunto
dovevano essere ancora lontani da una soluzione, ma ciò non esclude che i frr. 208 e
209 K.‑A. fossero parte dell’agone e venissero pronunciati da Commedia, che indicava
al marito come scrivere una commedia, senza, però, sortire effetti su questi che pensava
solamente al vino.
57
«Ma voglio riprendere da capo il mio discorso: / costui, prima, poichè aveva il
pensiero rivolto / a un’altra donna, … / ora, forse per la vecchiaia, forse … a me sembra
/ che non si comporti più come faceva un tempo», trad. BETA 2009, 245.
58
«Prima ero sua moglie, ma ora non lo sono più», trad. BETA 2009, 245.
59
Questa ipotesi risulta fin da RUNKEL 1827, 51 e, poi, da MEINEKE FCG I 48 ed è
generalmente accolta. Nel caso del fr. 193 K.‑A., come lo stesso Runkel (ibid.) rileva, il
fatto che si possa trattare di parole di Commedia è possibilmente deducibile dal testo
dello scolio ad Ar. Eq. 400a latore del frammento: subito dopo il riassunto della
commedia, infatti, che si conclude con la notazione τὴν δὲ (i.e. Κωμῳδίαν) μέμφεσθαι
αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ), lo scoliaste annuncia
di voler riportare αὐτὰ τὰ ἐπιτήδεια τῶν ἱάμβων ἐκλέξαντα; per quanto la
formulazione sia generica, l’interpretazione più ovvia appare quella che si tratti di
parole tratte dal discorso di Commedia stessa (cf. supra), il che sembra confermato dal
contenuto dei versi.
60
Anche il fr. 204 K.‑A. (ἀλλ’ οὐδὲ λάχανον οὐδὲν οὐδ’ ὀστοῦν ἔτι / ὁρῶ) in cui
qualcuno lamenta una condizione di povertà, potrebbe essere appartenuto alle accuse
di Commedia al marito, cf. FRITZSCHE 1835, 267: «Comoedia marito egestatem quoque
criminis loco obiecerat» e HEATH 1990, 150: «it is possible that another ground of
complaint was poverty». Secondo QUAGLIA 1998, 27: «il tenore di questa rimostranza,
in cui Commedia parrebbe lamentare di essere ridotta a fare la fame, senza vedere più
verdura e nemmeno gli ossi della carne, è tutto sommato inadatta ad un’arringa di
accusa in tribunale e può essere assegnata al prologo. Così pure il fr. 194 K.‑A. […] ha
il tono di un’amara constatazione più che di un’accusa».
61
Al prologo i due frammenti sono ascritti, ad esempio, da OLSON 2007, 81, mentre
le due alternative (prologo e scena successiva alla parodo) sono considerate equivalenti
da BETA 2009, 245, nn. 211‑212.
62
Il fr. 194 K.‑A. è tràdito per un motivo grammaticale, l’attestazione di ἦ
Il poeta protagonista del suo dramma 249
della commedia (cf. supra), nel quale, subito dopo questa sezione ricorrono
le parole οὐδὲν δὲ χεῖρον πολυμαθίας ἕνεκεν αὐτὰ τὰ ἐπιτήδεια τῶν
ἰάμβων ἐκλέξαντα θεῖναι ταῦτα63, cui segue immediatamente la citazione
del frammento. Dal momento che la pericope οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι
ταῦτα e i cinque versi del fr. 193 K.‑A.64 ricorrono dopo la fine del riassunto,
monosillabico, in Porph. ad Hom. E 533 (quaest. hom. ad Il. pert. p. 83, 32 s. Schrader) (rr.
20‑24): τῶν δὲ Ἀττικῶν οἱ μὲν ἀρχαῖοι μονογράμματον αὐτὸ προεφέροντο, οἱ δὲ
νεώτεροι σὺν τῷ καθάπερ τῶν πρεσβυτέῶν τινές. χρῆται δὲ τούτῳ ὁ ποιητὴς ποτὲ
μὲν εἰς δύο συλλαβὰς διαιρῶν αὐτὸ καὶ δύο γράμματα βραχέα [… rr. 29‑33] τὸ δὲ
μονοσύλλαβον οὐχ εὑρίσκομεν παρ’ αὐτῷ κατὰ τῆς δυνάμεως ταύτης ἀλλὰ κατὰ
τὴν ἑτέραν <τῆς ἑτέρας L> μόνον. τῶν δὲ Ἀττικῶν ἐστι παρὰ Κρατίνῳ ἐν Πυτίνῃ·
γυνὴ ‑ οὐκέτι (seguono gli ulteriori esempi di S. fr. 447 Radt [Niobē], OT 1123, Pl. Rp.
1, 328c 7).
63
«E non è male per la polymathia scegliere queste parti appropriate dei giambi e
riportarle», cf. LUPPE 1968, 189: «keineswegs aber ist es schlecht, um vielseitiger
Kenntnis willen das Geeignete der Iamben selbst herauszugreifen und dieses
anzuführen». Per questa formulazione, lo stesso LUPPE 1968, 188 riporta il confronto
con uno scolio di Giovanni Logoteta a Hermog. Meth. 28, p. 144 s. Rabe (Aus Rhetoren‑
Handschriften. 5. Des Diakonen und Logotheten Johannes Kommentar zu Hermogenes Περὶ
μεθόδου δεινότητος, “RhM” 63 (1908), 127‑151), dove si legge: οὗτος ὁ στίχος [Ζεύς,
ὡς λέλεκται τῆς ἀληθείας ὕπο, citato da Ermogene) ἐν δυσὶν εὗρηται δρἀμασιν
Εὐριπίδου, ἔν τε τῷ λεγομένῳ Πειρίθῳ [= Crit. TrGF 43 F 1, v. 9 Snell‑Kannicht] καὶ
ἐν τῇ Σοφῇ Μελανίππῃ [TrGF V.1, fr. 481, v. 1 Kannicht], ὧν καὶ τὰς ὑποθέσεις καὶ
τὰ χωρία οὐκ ἄκαιρον ἐκθεῖναι τοῖς ἀσπαζομένοις τὴν πολυμάθειαν.
64
Un problema particolare è rappresentato da ἀλλ’ † ἐπαναστρέψαι βούλομαι εις
† τὸν λόγον, in genere considerato (fin da RUNKEL 1827, 50‑51) il primo dei cinque
versi del fr. 193 K.‑A. Secondo un’ipotesi proposta da LUPPE 1968, non si tratterebbe,
invece, di ipsissima verba del commediografo, ma dopo οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι ταῦτα
si deve intendere una lacuna nella quale erano presente la citazione di alcuni versi del
discorso di Commedia; quindi lo scoliaste avrebbe aggiunto qualche nota e, di seguito,
con la frase ἀλλ᾽ ‑ τὸν λόγον introduceva una nuova citazione del discorso di
Commedia. Di conseguenza, la citazione vera e propria di Cratino inizierebbe
dall’attuale v. 2. Ciò permetterebbe, secondo lo stesso Luppe, di ovviare ai problemi
testuali, metrici e di significato del v. 1 (di cui è dato uno status quaestionis a p. 191) e
tale ipotesi sarebbe, inoltre, confermata dal confronto con prassi di citazioni analoghe
di altri scoli, in particolare quello di Giovanni Logoteta a Hermog. Meth. 28, 30 e 36
Rabe (cf. n. 63), in cui la formulazione è molto simile a quella dello scoliaste ai Cavalieri:
«man könnte fast glauben, daß unser Aristophanesscholion letzlich auf denselben
Mann zurückgeht, der den betreffenden Hermogeneskommentar verfaßte, welchen
Johannes und Gregor ausschreiben. Ein Geistesverwandter ist es gewiß» (LUPPE 1968,
189). Recentemente, OLSON 2007, 81‑2 ascrive il verso a Cratino e sottolinea la valenza
specifica di λόγος «the story […], i.e. the plot of the play, the speaker having gone off
momentarily on a tangent, perhaps as part of the process of warming up the audience
at the very beginning of the action», mentre BAKOLA 2010, 282 e n. 139 è incline a
pensare che si tratti di parole dello scoliaste. Se si ammette l’ipotesi di Luppe sul v. 1,
250 Francesco Paolo Bianchi
e una sua ascrizione alla Pytinē fu proposta per primo da Runkel69, poi
generalmente seguito. Il tema dei versi, nei quali appare descritta una
relazione di natura omosessuale in cui il vinello di Mende (Μενδαῖον … /
οἰνίσκον) è associato a un ragazzo adolescente (ἡβῶντ᾽(α)) definito poi
ἁπαλός e λευκός70, è senz’altro coerente con quello che sappiamo dell’argo‑
mento di questo dramma ed è stato più volte evidenziato un parallelo con
il già discusso frammento 196 K.‑A. (v. infra); tuttavia, nulla permette di
escludere con certezza che questi versi ricorressero in un’altra delle
commedie di Cratino, in una scena in cui un personaggio veniva additato
per la sua vinolenza, descritta come un rapporto omoerotico71. Se si
ammette l’attribuzione alla Pytinē, il personaggio di cui si parla in terza
persona (1, ἴδῃ; 2, ἕπεται κἀκολουθεῖ καὶ λέγει) e di cui si riferiscono le
parole (3) può essere con ogni probabilità proprio Cratino; la persona loquens
potrebbe, invece, essere Commedia72, la quale direbbe che Cratino «ha in
testa ora solo il vino e prova per il liquore di Bacco lo stesso trasporto
erotico che gli Ateniesi adulti provavano per i giovani dalla pelle liscia e
dalla carnagione pallida»73 e, poi, nel fr. 196 K.‑A., aggiungerebbe che egli
«ama non solo i vini che hanno poco corpo (come il vino giovane di Mende
[…]), ma anche quelli che possono essere miscelati fifty‑fifty con l’acqua,
causando[le] terribili pene d’amore»74.
É possibile, però, anche una differente ipotesi, valida per tutti e due i
frammenti: a parlare potrebbe essere in entrambi uno degli amici di
Cratino75 che ne descriverebbe la vinolenza e le conseguenti sofferenze che
Hsch. α 7384 (nel quale non è presente alcun richiamo al commediografo), poiché tale
espressione non ha altre ricorrenze almeno nella documentazione a noi nota. V.
KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221 e BIANCHI 2017, 47 per i frammenti di Cratino tràditi in
Ateneo e in Esichio.
69
RUNKEL 1827, 84.
70
Questa interpretazione è già di MEINEKE FCG II.1, 117: «loquitur autem de elumbi
οἰνίσκῳ tamquam de delicatulo νεανίσκῳ, quorum mollities sollenniter significatur ἀπαλὸς
καὶ λευκός», cf. anche KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221, OLSON 2007, 82‑83, BAKOLA 2010,
282‑283, STOREY 2011, I, 369.
71
Opportunamente, KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221 notano, a proposito della
ricorrenza di analoghe scene: «simili iocandi genere indulget Aristophanes Equ. 1390 sq.,
cf. et Ach. 994».
72
FRITZSCHE 1835, 269.
73
BETA 2009, 244‑245, n. 213.
74
BETA 2009, 244‑245, n. 214. Nella citazione originale: «causando in Commedia».
75
Per il frammento *195 K.‑A. questa ipotesi era avanzata da RUNKEL 1827, 84: «Hoc
fragmentum e Πυτίνη forsan petitum est, ita ut amicus Cratini haec de eo loquatur». Gli amici
di Cratino dovevano verisimilmente costituire il coro del dramma, cf. p. 243.
252 Francesco Paolo Bianchi
76
«Ma come, come si potrebbe, / fargli passare il vizio di bere, di bere troppo? / Io
lo so: fracasserò le sue coppe, fulminerò / riducendole in polvere le sue bottiglie / e
tutti i recipienti che usa per bere: / non avrà più nemmeno una scodellina per il vino!»,
trad. BETA 2009, 247.
77
RUNKEL 1827, 51: «amici de Cratino a vinositate liberando colloquuntur»; MEINEKE
FCG II.1, 122: «Colloquuntur Cratini familiares […] de medenda poetae vinositate consilia
agitantes». V. anche FRITZSCHE 1835, 272‑273: «deliberat iam unus ex amici de Cratino, quem
ex homine vinolento reddi sobrium capit»; KOCK CAF I, 70: «loquitur unus ex amici Cratini
sibique ipse interroganti respondet, ante pacem inter poetam et Comoediam, ut videtur,
restitutam»; OLSON 2007, 83: «spoken by a male character (note 4 σποδῶν), presumably
one of ‘Cratinus’’ friends, who is eager to put an end to his drinking and reconcile him
to Comedy». A Hermes il frammento è ascritto, invece, da ZIELIŃSKI 1931, 6, ma non
vi è nessun indizio della presenza del dio in questa commedia, cf. KASSEL/AUSTIN PCG
IV, 224.
Il poeta protagonista del suo dramma 253
78
HEATH 1990, 150‑151.
79
«La vedrai, infatti, tra non molto tempo / ricoperta di pece dai carcerieri», trad.
di chi scrive.
80
Una valenza erotica del verbo καταπιττόω è proposta da HENDERSON 1991, 145
«πίττα, pitch or resin, indicates the female secreta at V 1375 […] καταπισσόω, to smear
with pitch, indicates sexual aggressiveness, to render wet through intercourse, as at E
1108 f, Cratin. 189 [= 201 K.‑A.]» (analogo valore è proposto anche per ὑπεπίττουν in
Ar. Plut. 1093) e un valore erotico era già stato proposto da Hemsterhuis nel 1744 sulla
base del già citato passo del Pluto (in: Aristophanis comoedia Plutus. Adiecta sunt
scholia vetusta. Recognovit ad veteres membranas, variis lectionibus ac notiis instruxit,
et scholiastas locupletavit Tiberius Hemsterhuis, Editio nova, Appendice aucta, Lipsiae
1811 [1a: Harlingae, ex officina Volkeri van der Plaats 1744]. La proposta nel commento
al v. 1094 della sua edizione, p. 411, di entrambe le edizioni), mentre un significato
letterale del verbo, riferito all’atto di ricoprire con pece le damigiane, è sostenuto da
MEINEKE FCG II.1, 127‑129 (cf. BILES 2002, 183‑184 e v. anche BAKOLA 2010, 283 e n.
144).
81
Kock CAF I, 71.
82
«Hai il ventre pieno di ragnatele?», trad. BETA 2009, 247.
83
MEINEKE FCG II.1, 129.
254 Francesco Paolo Bianchi
4) Nel fr. 200 K.‑A.: ἀτὰρ ἐννοοῦμαι δῆτα τὰς μοχθηρίας / τῆς †
ἠλιθιότητος τῆς ἐμῆς84 chi parla esprime chiaramente il suo rammarico
per gli errori (μοχθηρίας) dovuti alla propria sciocchezza (ἡλιθιότητος)
di cui ora si rende conto (ἐννοοῦμαι); appare verisimile l’interpretazione
di Runkel che si tratti dei «verba Cratini resipiscentis»85.
5) Il fr. 211 K.‑A.: ὦ λιπερνῆτες πολῖται, τἀμὰ δὴ ξυνίετε86, contiene
una citazione esplicita di un celebre verso di Archiloco (fr. 109 W.2): < ὦ >
λιπερνῆτες πολῖται, τἀμὰ δὴ ξυνίετε / ῥήματα87. Questo stesso verso è
citato in forma simile anche in Ar. Pac. 603‑604: ὦ σοφώτατοι γεωργοί,
τἀμὰ δὴ ξυνίετε / ῥήματ᾽, dove si ha γεωργοί in luogo di πολῖται, e in
Eupol. fr. 392, 1 s. K.‑A. (inc. fab.): ἀλλ’ ἀκούετ’, ὦ θεαταί, τἀμὰ καὶ
ξυνίετε / ῥήματ’· εὐθὺ γὰρ πρὸς ὑμᾶς πῶτον ἀπολογήσομαι, in cui è
preceduta da un’allocuzione (ἀλλ᾽ ἀκούετ᾽, ὦ θεαταί) che in Aristofane
ricorre in forme simile sempre all’inizio della parabasi88; il frammento
cratineo poteva, allora, provenire proprio da questa sezione e, in questo
caso, il vocativo iniziale ὦ λιπερνῆτες πολῖται sarebbe stata un’allocuzione
diretta al pubblico, ma, come mostra il già citato passo della Pace, il verso
di Archiloco poteva anche essere semplicemente utilizzato nel corso di uno
degli episodi da parte di uno dei personaggi, con una funzione che non ci
è possibile determinare. Per un’ascrizione alla parabasi, secondo Heath89,
in particolare, questo frammento «criticized the citizens for neglecting the
navy» e si può inserire nel medesimo contesto del fr. 210 K.‑A.: οὐ δύνανται
πάντα ποιοῦσαι νεωσοίκων λαχεῖν, / οὐδὲ κάννης, nel quale «one can
detect an echo of the personified triremes of the second parabasis of
Knights»90.
6) Il fr. 213 K.‑A.: (ex schol. vet. [VEΓΘΜ] Ar. Eq. 531a) ταῦτα ἀκούσας ὁ
Κρατῖνος ἔγραψε τὴν Πυτίνην, δεικνὺς ὅτι οὐκ ἐλήρησεν· ἐν ἧ κακῶς
λέγει τὸν Ἀριστοφάνην ὡς τὰ Εὐπόλιδος λέγοντα91 potrebbe provenire
84
«Ora capisco finalmente i disastri / provocati dal mio stupido comportamento»,
trad. BETA 2009, 249.
85
RUNKEL 1827, 52.
86
«O miserabili cittadini, ascoltate dunque le mie…», trad. di chi scrive.
87
«O cittadini miserabili, ascoltate dunque / le mie parole», trad. RUSSELLO 1993,
115.
88
V. OLSON 2014, 148‑150.
89
HEATH 1990, 151.
90
Ar. Eq. 1300‑1315, versi dell’antepirrema della seconda parabasi (1264‑1315). Sulla
base del confronto con questi versi di Aristofane, il fr. 210 K.‑A. di Cratino era già stato
assegnato alla parabasi da KASSEL/AUSTIN PCG IV, 230: «ex parabasi. Cf. Ar. Eq.
1300sqq.».
91
«Cratino, quando ebbe udite queste parole […], compose la Damigiana, indicando
Il poeta protagonista del suo dramma 255
che non parlò a vanvera. In questo dramma sparla di Aristofane come di uno che dice
le cose di Eupoli», trad. SONNINO 1998, 26.
92
SONNINO 1998, 26‑27. V. lo stesso contributo di Sonnino per le polemiche tra i
commediografi e i relativi scambi di accuse.
93
Così HEATH 1990, 151.
94
«O signore Apollo, che torrente di parole! / Le fonti risuonano, la bocca ha dodici
sorgenti, / nella sua gola c’è il fiume Ilisso. Che altro potrei dire? / Se nessuno gli
tapperà la bocca, / inonderà ogni cosa con le sue poesie», trad. BETA 2009, 247.
95
Schol. [VEΓ3Θ] et Tricl. [Lh] Ar. Eq. 526a δοκεῖ δέ μοι Ἀριστοφάνης ἀφ’ ὧν εἶπε
Κρατῖνος περὶ αὑτοῦ μεγαληγορῶν, ἀπὸ τούτων καὶ αὐτὸς τὴν τροπὴν εἰληφέναι·
ὁ γὰρ Κρατῖνος οὕτω πως ἑαυτὸν ἐπῄνεσεν ἐν τῇ Πυτίνῃ). Chiaramente erronea la
notazione dello scoliaste che «capovolge il rapporto tra Cavalieri e Πυτίνη,
prospettando la Priorität di Cratino», CONTI BIZZARRO 1999, 66, cf. OLSON 2007, 86; lo
scolio ad Ar. Eq. 400, che riporta un riassunto della Pytinē (v. supra), indica chiaramente
la corretta cronologia (confermata, d’altra parte, dall’argumentum alle Nuvole prime,
Arg. A 6 (VERs) Ar. Nub. 4, rr. 12‑17 Holwerda = arg. V, 134, 1‑6 Wilson 2007, cf. BIANCHI
2017, 302‑303) e il fatto che il dramma di Cratino fosse una reazione a quello di
Aristofane.
96
KAIBEL apud KAßEL/AUSTIN PCG IV, 223.
97
Così, ad es., anche HEATH 1990, 150 e OLSON 2007, 86‑87.
256 Francesco Paolo Bianchi
rilevare che se, come visto, tale confronto coincideva con l’agone, l’utilizzo
del metro, anche in questo caso il trimetro giambico, obbligherebbe a
pensare a una forma strutturale differente da quella nota da Aristofane.
Il fr. *203 K.‑A.: ὕδωρ δὲ πίνων οὐδὲν ἂν τέκοι σοφόν98, è una delle più
famose enunciazioni dell’ispirazione poetica derivante dal vino, destinato
a divenire, nella tradizione successiva, esemplificativo della polemica «fra
i sostenitori della lucida e fredda raffinatezza poetica dei contemporanei, i
cosiddetti aquae potores, e coloro che vagheggiavano la sanguigna
ispirazione degli antichi, cioè i bevitori di vino»99; il verso è tràdito in forma
anepigrafa e la sua attribuzione alla Pytinē risale a Meier negli anni venti
dell’Ottocento, poi seguito praticamente senza eccezioni100. Come ha
rilevato Biles, il fatto che in questo dramma «Cratinus notoriously made
his alcoholism and poetic activity the centerpiece of the action […] would
explain why the statement does not take the form of an anapestic tetrameter
or another long‑line verse better suited to a self‑reflexive poetic assertion
in a parabasis»101; secondo, però, quanto opportunamente evidenziato in
precedenza dallo stesso Biles «one must admit that with its Archilochean
resonance this fragment would be appropriate in any place where Cratinus
clarified his poetics»102. A ciò Bakola103 ha aggiunto la possibilità, teorica,
che negli Archilochoi, ad esempio, potesse essere proprio il giambografo di
Paro, che sappiamo essere stato una della dramatis personae104, a pronunciare
questo verso, coerente con enunciazioni analoghe che si trovano nella sua
opera, ad es. il celebre fr. 120 W.2: ὡς Διωνύσου ἄνακτος καλὸν ἐξάρξαι
μέλος / οἶδα διθύραμβον οἴνωι συγκεραυνωθεὶς φρένας105. Il fatto che,
quindi, il metro, il trimetro giambico, ne precluda un’ascrizione alla
parabasi non implica, allora, che tale affermazione di poetica non potesse
ricorrere nel corso dell’azione drammatica di una qualsiasi delle opere di
Cratino, tra cui, ovviamente, ma non necessariamente, anche la Pytinē
stessa.
98
«Se bevi acqua non potrai creare nulla di saggio», trad. BETA 2009, 249.
99
TOSI 1991, 347 n. 741 con ulteriore bibliografia. Cf. anche IMPERIO 2004, 210‑213.
100
M.H.E. MEIER, Der Attische Process, Halle 1824, III, 289. Per ulteriore bibliografia
sull’ascrizione del verso alla Pytinē, v. la documentazione in BIANCHI 2017, 400 e nn.
552‑553, cf. in gen. 397‑402 ad Cratin. test. 45 K.‑A. per Nic. epigr. 5 G.‑P. (AP XIII 29),
fonte principale del frammento, nel cui epigramma anche il v. 1 (οἶνός τοι χαρίεντι
πέλει ταχὺς ἵππος ἀοιδῷ) è stato talora considerato di paternità cratinea.
101
BILES 2014, 4.
102
BILES 2002, 173.
103
Bakola 2010, 56‑57.
104
V. Cratin. fr. 6 K.‑A. su cui cf. BIANCHI 2016, 62‑71.
105
«Come so dare inizio al bel canto del signore Dioniso, / il ditirambo, con la mente
folgorata dal vino», trad. RUSSELLO 1993, 119.
Il poeta protagonista del suo dramma 257
106
MEINEKE FCG I, 48.
107
HEATH 1990, 150.
108
Un problema particolare è se, come potrebbe essere verisimile, alla Pytinē e a
uno dei momenti di più acuta polemica con Aristofane, si possa ascrivere il celebre
frammento incertae sedis 342 K.‑A. τίς δὲ σύ; κομψός τις ἔροιτο θεατής. / ὑπολεπτο‑
λόγος, γνωμιδιώκτης, εὐριπιδαριστοφανίζων «“E tu chi sei?”, chiederebbe uno
spettatore colto e raffinato. / Un uomo sottile, che ama le sentenze lambiccate, un mix
di Euripide e di Aristofane», trad. BETA 2009, 93, sulla cui interpretazione v. da ultimo
MASTROMARCO 2017.
109
Dopo il 423 a.C. è incerto se Cratino avesse proseguito ancora per qualche anno
la propria carriera drammaturgica, non c’è testimonianza certa di sue partecipazioni
agli agoni, ma sembra che una sua attività possa collocarsi ancora subito prima della
Pace di Aristofane (421 a.C.), cf. n. 18.
110
Sulla questione delle due versioni delle Nuvole, v. da ultimi MUREDDU/NIEDDU
2015, 58‑62 con bibliografia precedente. Per gli attacchi di Aristofane a seguito della
sua sconfitta, v. schol. E Ar. Nub. 525 dove del verso ταῦτ’ οὖν ὑμῖν μέμφομαι viene
data la spiegazione ἐπεὶ οὐ Κρατίνου, ἀλλ’ Ἀμειψίου δεύτερος ὤφθη e fornita,
quindi, l’informazione che le critiche al pubblico erano non tanto per aver preferito
Cratino, quanto Amipsia con il Konnos, una commedia che poteva avere una tematica
almeno in parte simile a quella delle Nuvole, cf. ORTH 2013, 177‑178 e 213‑248 per la
commedia di Amipsia (PCG II, frr. 7‑11 K.‑A.).
258 Francesco Paolo Bianchi
tina111, a prova certa del successo che, a differenza di quanto avvenne nel
423 a.C., arrise in seguito a questo ‘dramma’. Di Cratino, invece, non sono
conservati che frustoli sparsi dell’intera opera, la maggior parte dei quali
da tradizione indiretta; e anche quando, come in questo caso, l’insieme di
ciò che si possiede sembra rendere possibile recuperare almeno in parte la
trama originaria – «Pytinae autem argumentum multo est apertius; nam, forte
fortuna, non solum haec plane perspicueque scripta habemus, Schol. Ar. Eq. 400
[…] verum etiam […] fragmenta multum lucis de eadem re nobis afferunt»,
scriveva Baker nel 1904112 – l’analisi delle testimonianze e dei singoli testi
mette una volta di più davanti all’evidenza di dubbi, incertezze, problemi
di esegesi, difficoltà di ascrizione, ai limiti che l’interpretazione di testi noti
solo per via frammentaria pone; e se un’idea generale è allora certamente
possibile, preclusi restano, invece, inevitabilmente, molti dei dettagli di
quell’ultimo, trionfale successo, messo in scena da Cratino «ut iniquas
criminationes vulge sibi conflatas dilueret ostenderetque, quantum vel in senectute
valeret ingenio»113.
Bibliografia
111
Cf. ZIMMERMANN 2011, 795.
112
BAKER 1904, 147.
113
BERGK 1838, 202.
Il poeta protagonista del suo dramma 259
RUFFELL 2002 = I. Ruffell, A Total Write‑Off. Aristophanes, Cratinus, and the Rhetoric
of Comic Competitions, “CQ” 52 (2002), 138‑163.
RUSSELLO 1993 = N. Russello, Archiloco. Frammenti, Milano 1993.
RUFFELL 2014 = I. Ruffell, Old Comedy at Rome: Rhetorical Model and Satirical Problem,
Olson 2014, 275‑308.
RUNKEL 1827 = M. Runkel, Cratini veteris comici Graeci fragmenta, Lipsiae 1827.
SOMMERSTEIN 1981 = A.H. Sommerstein, The comedies of Aristophanes. Knights, vol.
II, Warminster 1981 (19972).
SONNINO 1998 = M. Sonnino, L’accusa di plagio nella commedia attica antica, in R.
Gigliucci (ed.), Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, Roma 1998, 19‑50.
STOREY 2011 = I.C. Storey, Fragments of Old Comedy, Cambridge Mass./London 2011.
STÖßL 1937 = F. Stößl, Personifikationen, RE XIX, 1, 1042‑1058.
TOSI 1991 = R. Tosi, Dizionario delle sentenze greche e latine, Milano 1991 (2a ed. con
aggiornamenti in trad. francese, Dictionnaire des sentences latines et grecques.
Traduit de l’italien par Rebecca Lenoir. Précédé d’un petit essai impertinent sur
les proverbes de U. Eco, Grenoble 2010).
WILSON 2007 = N. Wilson, Aristophanis fabulae, Oxonii 2007.
ZIELIŃSKI 1887 = T. Zieliński, Quaestiones comicae, Petropoli 1887 (= Zieliński 1931,
76‑189).
ZIELIŃSKI 1931 = T. Zieliński, Iresione I. Dissertationes ad comoediam et tragoediam
spectantes continens, Leopoli 1931.
ZIMMERMANN 2011 = B. Zimmermann, Die Attische Komödie, in B. Zimmermann
(ed.), Handbuch der Griechischen Literatur der Antike: die Literatur der archaischen
und klassischen Zeit, vol. I, München 2011 (Handbuch der Altertumswissenschaft
7/1), 671‑800.
ZIMMERMANN 2012 = B. Zimmermann, Le personificazioni nella commedia greca del V
secolo, in G. Moretti‑A. Bonandini (edd.), Persona ficta. La personificazione
allegorica nella cultura antica fra letteratura, retorica e iconografia, Trento 2012, 15‑
27.
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.)*
Il testo si trova in Plut. Per. 3, 42, che illustra come una malformazione
congenita della testa di Pericle fu oggetto di attenzione artistica, per così
dire: gli scultori nascondendo il difetto grazie a un elmo posto sul capo
dello statista nei loro ritratti, i commediografi deridendolo con mirati
calembours. Ne consegue che il nucleo della citazione sta in κεφαληγερέταν
‒ un hapax comico calcato sull’omerico νεφεληγερέτα ‒ e in null’altro, in
questo testo, poiché da nessun altro elemento se non dalle parole di
Plutarco combinate con l’hapax si capisce che si parla qui di Pericle.
La colometria stabilita da Kassel e Austin3 non segue nessuna di quelle
sinora adottate dagli editori principali: Στάσις—— μέγιστον / τίκτετον
τύραννον / ὃν——καλοῦσιν4; Στάσις—— μιγέντε / μέγιστον——
τύραννον / ὃν—— καλοῦσιν5. Rispetto al nuovo testo stabilito da Kassel
e Austin, proporrei invece una sequenza riconducibile ai kat’enoplion
epitriti, che mi sembra avere più sicuri riscontri in commedia, secondo le
indicazioni antiche. Tenterei dunque epitria, prosc (cho ionmin), prosc (cho
ionmin), ithyph, prosa (ionma cho), reizc:
Στάσις δὲ καὶ
πρεσβυγενὴς Κρόνος ἀλλή‑
λοισι μιγέντε μέγιστον
τίκτετον τύραννον,
ὃν δὴ κεφαληγερέταν
θεοὶ καλέουσιν
2
Per. 3, 3‑5: αὕτη (Ἀγαρίστη) κατὰ τοὺς ὕπνους ἔδοξε τεκεῖν λέοντα, καὶ μεθ᾽
ἡμέρας ὀλίγας ἔτεκε Περικλέα, τὰ μὲν ἄλλα τὴν ἰδέαν τοῦ σώματος ἄμεμπτον,
προμήκη δὲ τῇ κεφαλῇ καὶ ἀσύμμετρον. ὅθεν αἱ μὲν εἰκόνες αὐτοῦ σχεδὸν ἅπασαι
κράνεσι περιέχονται, μὴ βουλομένων ὡς ἔοικε τῶν τεχνιτῶν ἐξο νειδίζειν. οἱ δ᾽
Ἀττικοὶ ποιηταὶ σχινοκέφαλον αὐτὸν ἐκάλουν· τὴν γὰρ σκίλλαν ἔστιν ὅτε καὶ
σχῖνον ὀνομάζουσι. τῶν δὲ κωμικῶν ὁ μὲν Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (fr. 258 K.‑A).
3
Che si lascerebbe interpretare come epitria cho, 2an^, ba ithyph, prosa (ionma cho),
c
reiz .
4
MEINEKE 1839, 147, cf. BERGK 1838, 236.
5
KOCK 1880, 86, già di RUNKEL 1827, 64.
6
Cf. TOTARO 1999, 35s.
7
Cf. BRAVI 2002 e 2017.
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 265
e inverso rispetto a quello dei vv. 2s. Considerato che il testo di Cratino,
nella tradizione del suo testimone, ha una mise en page ovviamente
prosastica, il ricorso alla tradizione di Aristofane e a una sistemazione
metrica asseverata dai lacerti di Eliodoro negli scolî di Aristofane, secondo
le ipotesi di Bravi (cf. n. 7), può essere una soluzione praticabile anche per
suggerire un’ipotesi colometrica in Cratino.
Il v. 2 è stato investito da una secolare discussione che coinvolge il tràdito
Χρόνος, emendato, con alterne fortune, in Κρόνος fin da prima del 1599,
allorché tale intervento, però anonimo, si trova menzionato in un’edizione
di Plutarco8. L’emendamento fu indipendentemente avanzato da Bergk
(1838, 236) in quanto l’assimilazione di Pericle a Zeus imporrebbe
(«legendum est») la discendenza da Crono. E Κρόνος quale «Anonymi …
emendatio» accettava Meineke (1839, 147), per le medesime ragioni di Bergk,
assunte poi da Kock (1880, 86) e da Edmonds (1957, 110), ma non da Kassel
e Austin che accolgono il testo tràdito, come già faceva il Grotius (1626,
493), visto che rendeva la lectio con «Tempus longum» (492); analoga
posizione del Grotius si trova quindi in Runkel (1827, 64)9, in Emperius
(1847, 218), in Bothe (1855, 47, che riporta la versione del Grotius), in Luppe
(1963, 220), e, di recente, in Rusten (2010, 212). Il testo tràdito è stato difeso,
ultimamente, dalla Noussia (2003), in quanto la tirannide richiederebbe
qualche tempo per manifestarsi, secondo una concezione ben nota agli
Ateniesi fin dai componimenti di Solone (e.g. fr. 14 G.‑P.). E Olson ha
ritenuto preferibile il testo tràdito per queste ragioni: «perhaps the point is
that Pericles had exercised enormous political power for years and seemed
likely to go on doing so ‘for ever’»10. Kassel e Austin avevano inoltre
argomentato che l’età di Crono è tradizionalmente collegata all’idea di un
tempo felice, ciò che mal si addirebbe a questo contesto (rimandano
pertanto a Cratin. fr. 176). Difendono il testo tràdito, inoltre, attraverso il
richiamo a Pherecyd. Syr. 7 B 1 (Ζὰς μὲν καὶ Χρόνος ἦσαν ἀεὶ καὶ Χθονίη·
Χθονίηι δὲ ὄνομα ἐγένετο Γῆ, ἐπειδὴ αὐτῆι Ζὰς γῆν γέρας διδοῖ): si tratta
di un passo di ordine filosofico a sua volta gravato da una sostanziale
incertezza di dettato, oltre che da un’assenza di riferimenti alla genealogia
di Zeus che invece in Cratino sarebbe evocata11. L’accettazione di Χρόνος,
8
L’emendamento appare in coda (p. 98c) a tale edizione (nel tomo I, dedicato alle
Vite), che uscì in quell’anno a Francoforte apud Andreae Wecheli heredes.
9
Tuttavia possibilista rispetto a un eventuale Κρόνος.
10
OLSON 2007, 207.
11
Cf. tuttavia 7 A 9, che raccoglie le interpretazioni antiche del frammento, dove si
stabilisce una qualche equivalenza fra Κρόνος e Χρόνος, ma dove, soprattutto, si
direbbe che un ramo della tradizione leggesse in Ferecide Κρόνος.
266 Leonardo Fiorentini
che conferisce una nota orfica alla comica teogonia concepita da Cratino,
viene sostenuta da Kassel e Austin anche attraverso il richiamo a Pind. O.
2, 17, in cui Χρόνος è ὁ πάντων πατήρ, ma si potrà segnalare perlomeno
che nel medesimo componimento Radamanti è, singolarmente rispetto alla
sinossi mitografica più diffusa, figlio di Κρόνος (76). Sempre Kassel e
Austin, a difesa di Χρόνος, ribadiscono come il Tempo abbia una propria
adeguata collocazione «in theogoniae imitatione», per cui rimandano anche
ad Ar. Av. 685‑722, per stare alla commedia. Eppure, nel passo aristofaneo
Χρόνος non compare, anche se vi trovano spazio Caos, Notte, Erebo e
Tartaro (cf. Dunbar 1995, 438), cosa che porta a non escludere l’influenza,
oltre a Esiodo (cf. Ar. Av. 693s.), di una teogonia orfica esametrica nella
parabasi (694‑697), specialmente per alcune qualifiche di Eros (cf. Dunbar
1995, 443s.). Considerato l’esiguo lacerto di Cratino, simili paralleli non
sono esattamente rintracciabili nel frammento. Si può notare invece che il
testo di Cratino non ha un esplicito richiamo a Zeus, e che il testimone,
Plutarco, sembrerebbe consapevole (dalla sua fonte?) dell’assimilazione
Pericle‑Zeus, in quanto è questo uno degli aspetti che egli richiama più
avanti, sempre ricordando Cratino (fr. 73 K.‑A.) nella Vita di Pericle (13, 10).
Ma il testo di Cratino non permette un’accettabile assimilazione di Pericle
a Zeus, senza accogliere l’emendamento Κρόνος, per le ragioni addotte da
Bergk (cf. supra). Tammaro (1978/1979, 208)12 ha osservato, esattamente
come poi Kassel e Austin ma al fine di intraprendere una via ermeneutica
opposta, come in commedia (cf. e.g. Ar. Av. 469) il vecchio Crono sia
normalmente associato alla «nozione di un passato ormai lontano» e felice,
statutariamente. Il che non può esser trascurato, anche perché nel testo di
Cratino non appare in nessun punto l’idea per cui l’età di Crono
preannunciasse già i tratti negativi dell’età presente. A ciò si aggiunga che,
mantenuta l’identificazione Zeus‑Pericle, e sottratta la tradizionale madre
di Zeus qui sostituita per l’occasione con un’ipostasi, la Discordia, non si
capisce, secondo quanto annota Tammaro (l.c.), come l’assimilazione fra
Zeus e Pericle sarebbe comprensibile a tutto il pubblico se fosse travolta
anche la linea maschile di parentela, con la sostituzione di Crono col
Tempo: non sembra potersi ritenere che il solo hapax κεφαληγερέταν fosse
sufficiente a rendere intelligibile (e accettabile) per il pubblico ateniese
l’allusione a Pericle.
Difficile dunque sostenere che il testo di Cratino avesse Χρόνος, poi
mantenutosi in Plutarco e specialmente nella sua tradizione; né appare
12
Cf. SCHWARZE 1971, 54 e TAMMARO 1984‑1985, 42, quindi LUISELLI 1990, 97,
FARIOLI 2000, 421‑423, FARIOLI 2001, 48‑50, DI MARCO 2005, 198.
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 267
13
DI MARCO 2005, 199.
14
Così LOMBARDO 1934, 165.
268 Leonardo Fiorentini
adesp. fr. 701 K.‑A. Come accennato, l’hapax κεφαληγερέταν costituisce poi
l’aprosdoketon che suggerisce l’identificazione e, direi, favorisce anche l’idea
che Pericle fosse esclusivamente evocato in questo modo nel contesto
immediato del frammento di Cratino, senza esser nominato esplicitamente,
sicché risulterebbe difficile per il pubblico, che fruiva oralmente del testo,
cogliere, peraltro in modo retroattivo, un altro richiamo a un ulteriore
personaggio della politica ateniese;
2. se il fr. 259 K.‑A. appartiene alla medesima commedia e probabilmente
allo stesso canto del fr. 258, ci si potrebbe chiedere come mai a Crono‑
Pisistrato o Crono‑Cimone si alluda quale padre di Era‑Aspasia, cosa invece
perfettamente comprensibile se si ammette che nessun personaggio del
passato politico ateniese si celi dietro il padre di Zeus ed Era.
Si potrebbe, en passant, segnalare un ulteriore esempio per sostenere
come, nel caso dell’esegesi del fr. 258 K.‑A., sia necessaria una certa
prudenza di principio. Nel fr. 254 K.‑A. si legge: Κλειταγόρας ᾄδειν, ὅταν
Ἀδμήτου μέλος αὐλῇ. L’interpretazione più probabile del testo resta quella
di Bergk (1838, 228), il quale segnalava come «reprehendere videtur
negligentiam illam et contemtionem artis cum solerent Athenienses, si
tibicen modos cantilenae in Admetum praeierit, canere scolium Clitagorae»
(cf. Ar. Lys. 1237 ᾄδοι Τελαμῶνος, Κλειταγόρας ᾄδειν δέον, menzionato
da tutti gli interpreti del testo di Cratino). Che vi possa essere anche
un’ipotesi esegetica di ordine politico non si può escludere, ma solo se si
resta su un piano squisitamente speculativo.
Nel finto banchetto evocato nella lezione di bon ton che Bdelicleone
impartisce al padre Filocleone si immagina che i cleoniani (fra cui Cleone
stesso, Teoro, Eschine) insieme a Filocleone si trovino a consumare il rito
laico e aristocratico, però da democratici radicali, di una catena simposiale
di scolia. Nell’ordine si canta l’Armodio (PMG 893‑896) dalla voce di Cleone
(Ar. Ve. 1225), nell’Admeto (PMG Praxil. 749 = 897) si cimenta Teoro (Ar. Ve.
1238), il Clitagora (PMG 912) è intonato da Eschine (Ar. Ve. 1245). Se
l’Armodio ha un’evidente patente democratica, non si potrà dire lo stesso
dell’Admeto, attribuito, secondo le testimonianze antiche, a Saffo, ad Alceo
o a Prassilla di Sicione (PMG 749), secondo Eust. Il. 326, 39 (sulla scorta del
ricostruito Paus. Att. a 25 E.), oppure a Prassilla, secondo schol. Ar. Ve. 1238;
e solo secondo Bowra da ricondursi a un àmbito pisistratico (1973, 554), in
séguito all’episodio di Pisistrato e Anchimolio (cf. Hdt. V 63, 3). L’ipotesi
di Bowra non poggia su nessuna testimonianza antica, e non escluderei
l’idea per cui un canto precedente e non epicorico possa esser stato
impiegato poi presso la cerchia dei Pisistratidi. Quanto al Clitagora,
certamente non senza un procedimento autoschediastico, l’esegesi antica
pensa a un’origine tessala (schol. Ar. Ve. 1245), oppure laconica (schol. Ar.
Lys. 1237), oppure lesbia (Hesych. κ 2913 L.). La presenza dell’Admeto e del
Clitagora potrebbe spiegarsi con l’ipotesi per cui con questi canti i cleoniani
Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 269
Bibliografia
15
Rimando alle precise osservazioni di MACDOWELL 1971, 289 e di BILES/OLSON
2015, 439‑445 (in particolare cf. pp. 443s.).
16
Cf., con tutte le cautele del caso, Dem. 13, 23, che ricorda un aiuto ottenuto a
vantaggio degli Ateniesi da parte di Menone di Farsalo in termini di cavalieri e di
risorse economiche, durante l’assedio di Eione. Tale contributo potrebbe spiegarsi a
séguito della linea politica a protezione dei Tessali tenuta da Temistocle nell’Anfizionia
delfica (Plut. Them. 20).
270 Leonardo Fiorentini
FARIOLI 2001 = M. Farioli, Mundus alter. Utopie e distopie nella commedia greca, Milano
2001.
GROTIUS 1626 = H. Grotius, Excerpta ex tragoediis et comoediis Graecis tum quae extant,
tum quae pereunt, Parisiis 1626.
KOCK 1880 = T. Kock, Comicorum Atticorum Fragmenta, vol. I, Lipsiae 1880.
LOMBARDO 1934 = G. Lombardo, Cimone. Ricostruzione della biografia e discussioni
storiografiche, Roma 1934.
LUISELLI 1990 = R. Luiselli, Cratino, fr. 258, 2 Kassel‑Austin (= 240, 1 Kock): Χρόνος o
Κρόνος?, “QUCC” n. s. 36 (1990), 85‑99.
LUPPE 1963 = W. Luppe, Fragmente des Kratinos. Text und Kommentar, 1963.
MACDOWELL 1971 = D.M. MacDowell, Aristophanes. Wasps, Oxford 1971.
MEINEKE 1839 = A. Meineke, Fragmenta Comicorum Graecorum, vol. II1, Berolini
1839.
NOUSSIA 2003 = M. Noussia, The Language of Tyranny in Cratinus, PCG 258, “PCPhS”
49 (2003), 74‑88.
OLSON 2007 = S.D. Olson, Broken Laughter. Select fragments of Greek comedy, Oxford
2007.
RUNKEL 1827 = M.M. Runkel, Cratini veteris comici Graeci fragmenta, Lipsiae 1827.
RUSTEN 2010 = J. Rusten, The Birth of Comedy. Texts, documents, and arts from Athenian
comic competitions, 486‑280, Baltimore 2010.
SCHWARZE 1971 = V.J. Schwarze, Die Beurteilung des Perikles durch die attische Komödie
und ihre historische und historiographische Bedeutung, München 1971.
TAMMARO 1978/1979 = V. Tammaro, Note a Cratino, “MCr” 13‑14 (1978/1979), 203‑
209.
TAMMARO 1984/1985 = V. Tammaro, Note a Cratino, “MCr” 19‑20 (1984/1985), 39‑
42.
P. TOTARO, Le seconde parabasi di Aristofane, Stuttgart‑Weimar 1999.
VETTA 1983 = M. Vetta, Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica,
Roma/Bari 1983.
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone.
Considerazioni testuali ed esegetiche
1 ὦ πῶς ABr : ὢ πῶς Mac. : πῶς Md : καί πως Zedelius : φεῦ ὡς Schow
: ὄντως Dobree : ὡς παμ‑ Deubner : ἁπλῶς susp. Bothe : πάντως Hermann
: πῶς οὐ Hirschig : οἴμ’ ὡς Naber, prob. Kock, Blaydes : ἦ που Schenkl:
ὅλως vel δεινῶς susp. Blaydes : οὔ πω Edmonds | ἀνθρώπου φύσις codd.
: ἄνθρωπος φύσει Naber
1
Il frammento è riportato da un’ecloga di Stobeo tramandata da tutta la tradizione
manoscritta del capitolo Περὶ κακίας (cioè dai codici M, A, Br e Mac) dell’Anthologion:
cf. HENSE 1894, I, 178, 183, cui si rimanda anche per una panoramica generale sulla
tradizione manoscritta del testo di Stobeo 1894, 7‑67. Nella tradizione manoscritta,
stando all’apparato di HENSE 1894, I, 183, l’ecloga in questione è attestata in punti
diversi a seconda dei codici. M riporta l’ecloga nella posizione seguita da Hense, A
dopo Stob. III 2, 8 H., Mac. dopo Stob. 3, 2, 5 H., Br. dopo Stob. 3, 2, 17 H.
272 Sebastiano Bertolini
1. Titolo
2
Il lemma corretto dell’ecloga, φιλήμονος ἀγύρτου, è testimoniato da A e da Mac,
laddove Br riporta solamente φιλήμονος ed M λυκούργου. Meineke 1841, 3 ha
erroneamente ritenuto λυκούργου una corruzione derivante da ἀγύρτου, ma HENSE
1894, 183 (cf. anche RUPPRECHT 1925, 207) ha giustamente notato che l’errore deriva
dal fatto che nell’archetipo esso si trovava vicino al lemma dell’ecloga 30, la quale
riporta un frammento dell’oratore Ateniese Λυκούργου (fr. 96 Sauppe = fr. 11*
Conomis). Come per molte commedie di Filemone, non abbiamo elementi che ci
permettano di datare l’opera e, data la scarsità del materiale e dei paralleli a
disposizione, è impossibile trarre conclusioni certe sulla trama della commedia. Gran
parte della bibliografia inerente al frammento appartiene a brevi note filologico‑
testuali, per lo più incluse in edizioni critiche di frammenti comici, cui si rimanda in
bibliografia. Per un profilo di Filemone e sulle sue opere, cf. BRUZZESE 2011.
3
Il termine è, infatti, formazione nominale dal verbo ἀγείρω, cioè ‘raccogliere’,
‘radunare’, attestato già in Omero (cf. e.g. Od. 17, 362) nel significato di ‘questuare’,
‘mendicare’: cf. e.g. DELG 9, EDG 10, LfgE I 55‑58, LSJ9 s.v. II 2. Il termine ἀγύρτης è
prolifico in greco ed ha generato formazioni secondarie, quali e.g. il verbo ἀγυρτάζω
(cf. e.g. SMYTH GG #867, 246), già attestato in Omero con significato analogo: cf. e.g. Od.
19, 284. Come ha giustamente sintetizzato Liapis (2012, 209), «the word may be used
of itinerant beggars, fortune‑tellers, or mountebanks, although originally it seems to
have denoted a person attached to a god’s cult (such a priest or a prophet) who
wandered about collecting donations for the god – and no doubt for himself too». Non
si può, comunque, escludere uno sviluppo semantico di direzione contraria, cioè che
il termine avesse originariamente il significato meno connotato di ‘mendicante’, ‘colui
che va in giro a raccogliere (offerte)’, e che in séguito esso sia stato utilizzato in
relazione a sacerdoti.
4
L’indebolimento semantico, del resto, è palesato da Hsch. α 866‑868, dove il
termine generico συρφετώδης, cioè ‘persona volgare’, viene citato come sinonimo.
Nel passo in questione, Tiresia viene definito poco prima (387), dispregiativamente,
μάγον, un ‘santone’ (su cui cf. RIGSBY 1976), poi (389) un cieco (τυφλός) in grado di
vedere solamente quando c’è di mezzo un possibile guadagno (ἐν τοῖς κέρδεσιν).
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 273
Alla luce dei paralleli citati e delle interpretazioni del termine ἀγύρτης, è
plausibile individuare tre possibili interpretazioni per la traduzione del
titolo della commedia, con il quale, verosimilmente, avrebbe coinciso il
protagonista della stessa.
5
Per altre accezioni negative del termine, solitamente indicanti un ‘ciarlatano’, un
‘impostore’ cf. e.g. Pl. Resp. 634b e Hipp. Morb. 1, 4. Il termine indica talvolta i sacerdoti
di Cibele, cf. AP VI 218, 1 (Alceo), Clearc. fr. 49, 6 Wehrli ap. Ath. 12, 614d, Babr. 141, 1.
Il termine, inoltre, poteva indicare il gioco dei dadi, come testimoniato da Eub. fr. 57,
5 (cf. e.g. anche Suid. β 329), su cui cf. HUNTER 1983, 145 e BAGORDO 2014, 60‑63. Fra le
numerose occorrenze lessicografiche che citano il termine, cf. e.g. Hsch α 866‑868, Phot.
Lex α 280‑281, Suid. α 388‑389. Per un’analisi del termine cf. anche BAGORDO 2014, 60‑
63 e BIANCHI 2016, 381‑382.
6
Cf. e.g. la commedia di Chionide (frr. 4‑7) su cui BAGORDO 2014, 51.
7
GOBARA 1986, 202‑203.
8
Per la critica ai ‘venditori di oracoli’, si considerino e.g. Ar. Pax. 1043‑1126, Av. 958
dove, allo stesso modo, dei ‘ciarlatani’ cercano invano di assicurarsi qualche profitto
tramite le loro profezie. Per il passo degli Uccelli, cf. e.g. ΚΑΚΡίΔΗ 1974, 181, ZANETTO
1987, 256, SOMMERSTEIN 1987, 261, DUNBAR 1995, 552ff. Per il passo della Pace cf. e.g.
OLSON 1998, 268‑283. La letteratura sugli indovini è assai ampia: cf. e.g. ARGYLE 1970
e, per gli oracoli in Aristofane, MUECKE 1998 e MILANI 1993.
274 Sebastiano Bertolini
2. Testo e contesto
9
Cf. e.g. SANCHIS LLOPIS et all. 2007, 372‑373 e ORTH 2014, 1019.
10
Un Ariolus di Nevio (cf. frr. 20‑24 R.3), di cui ci rimangono quattro versi,
presumibilmente aveva come soggetto un indovino ed era basato sulla versione di
Filemone. Questa la posizione e.g. di LEGRAND 1910, 21 ma, come espresso da
MARMORALE 1953, 164, «[…] se e fino a qual punto Nevio si sia ispirato ad essi o ad
uno di essi non è possibile dire: i frammenti di Nevio non ci dànno appigli a riguardo,
né ci lasciano indovinare quale dovesse essere la trama della commedia, se mai essa
fu una palliata, non una togata». Ad ogni modo, siccome siamo certi che i poeti latini
trassero spunto dalle commedie di Filemone (e in generale dalla Nea), la possibilità
non può essere scartata a priori. Per l’Ariolus (o Hariolus) di Nevio, cf. e.g. MARMORALE
1953, 164‑165, 208 e PAPONI 2005, 89‑91.
11
Per la commedia di Alessi, cf. ARNOTT 1996, 440‑444.
12
Attenendoci all’interpretazione del titolo sopracitata, si può dunque ipotizzare
che la commedia fosse incentrata sulla figura di un sacerdote ciarlatano ed accattone
e sui suoi vacui vaticini che avrebbero potuto dare adito a gag comiche.
13
Per una panoramica sulla figura e l’opera di Stobeo, cf. HENSE 1916, PICCIO‑
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 275
NE/RUNIA 2001 e PICCIONE 2003, 243‑245. Per un’aggiornata panoramica storica delle
edizioni e dei manoscritti di Stobeo, cf. CURNIS 2008.
14
PICCIONE 1999, 144. Sulla lemmatizzazione della raccolta di Stobeo, cf. già HENSE
19092, XVI.
15
Philem. fr. 195: οἴει τι τῶν ἄλλων διαφέρειν θηρίων / ἄνθρωπον; οὐδὲ μικρὸν
ἀλλ’ ἢ σχήματι· / πλάγι’ ἐστὶ τἄλλα, τοῦτο δ’ ὀρθὸν θηρίον («credi che ci sia una
qualche differenza fra uomini ed animali? Non ce n’è nessuna a parte la forma:
l’animale è orizzontale, l’uomo è verticale»).
16
Meineke 1841, 3‑4. Pace BOTHE 1844, 70 e KOCK 1884, 478.
17
Da questo punto di vista la tradizione di Stobeo non garantisce alcuna certezza,
dal momento che, come sostenuto da PICCIONE 1999, 145, «il metodo di descrizione
lemmatica e di inserimento nel tessuto antologico dei passi citati è estremamente
variabile, e risponde ad elementi esterni al testo e solo di rado codificabili». PICCIONE
1999 ha analizzato le ecloghe di Stobeo che si presentano senza una caratterizzazione
lemmatica, cioè «successioni di estratti uniti fra di loro, stando ai codici, senza alcuna
caratterizzazione lemmatica intermedia, vale a dire casi in cui si abbia un solo lemma
che introduce la prima sentenza, seguita da altri passi dalla medesima opera o soltanto
dallo stesso autore, o persino da autore differente, noto o meno, tutti rigorosamente
senza descrizione lemmatica». Piccione ha giustamente sottolineato la differenza fra
la successione di passi ‘non‑consecutivi’ in cui si presenta tuttavia una continuità di
senso – la cui agglutinazione dipende pertanto verosimilmente dal «[…] desiderio o
[dal]la necessità di costituire un unico prodotto di riduzione» – e la successione di
passi ‘non‑consecutivi’ in cui non si presenta alcuna continuità logica, per cui si deve
presumere invece una «coalescenza meccanica, causata dalla caduta di un lemma
durante la trasmissione o forse anche, in qualche circostanza, dall’unione di passi
caratterizzati da un unico lemma comprensivo, iniziale o verticale a latere, con il nome
dell’autore».
276 Sebastiano Bertolini
che due frammenti di due commedie distinte siano stati uniti – non è da
escludere alla luce del potenziale parallelo in Stob. 2, 1, 5a‑5c H; contraria‑
mente, Edmonds e Gobara propendono per la prima ipotesi.18 In
particolare, Gobara suggerisce che nel primo distico (fr. 2 K.‑A.) la persona
loquens esprima considerazioni generali a proposito della cattiveria della
natura umana, laddove i tre versi successivi includerebbero il commento e
lo sviluppo della gnomē introduttiva. Pertanto, Gobara ipotizza una lacuna
di uno o due versi, che fungerebbero da collegamento fra il contenuto di
carattere generale del primo frammento e quello più specifico del secondo,
incentrato sul leitmotiv del confronto fra uomini e animali, motivando tale
lacuna con la venatura ‘etica’ dell’Anthologion di Stobeo: attirato solo dalla
descrizione delle idee che lo interessavano, Stobeo avrebbe tralasciato la
parte mediana del frammento.19 A questo proposito, Gobara riporta il
parallelo del fr. 7 K.‑A. di Filemone, tratto dalla commedia Σάρδιος, dove
Stobeo sembra utilizzare la stessa tecnica epitomatrice. L’ipotesi non va
scartata, soprattutto perché altrimenti ci troveremmo davanti all’anomala
mancanza del lemma dell’ecloga del fr. 195 K.‑A.
Come messo in luce già da Bernhardt, la correttezza testuale dei
frammenti trasmessi da Stobeo è spesso discutibile, dal momento che lo
studioso era solito rielaborare i testi citati per ragioni di varia natura, ad
esempio ai fini di un loro adattamento a specifiche fisionomie testuali o
finalità letterarie (la Gebrauchsliteratur), che potevano facilmente dare adito
ad alcune modifiche dei passi citati.20 Il frammento, pertanto, ha stimolato
numerose congetture su vari aspetti della sua ricostruzione testuale. Gli
18
EDMONDS 1961, 6 e GOBARA 1986, 203. Nel passo in questione, cinque versi
impropriamente attribuiti a Filemone, che si ritrovano come corpo unico anche nel
secondo ‘testo’ della Comparatio Menandri et Philistionis II 77‑81 J. (intitolato Μενάνδρου
καὶ Φιλιστίωνος σύγκρισις), sono stati correttamente divisi in tre diversi lemmi poiché
difficilmente essi potevano essere consecutivi.
19
Cf. i frr. 89 e 93 K.‑A. e la bibliografia in GOBARA 1986, 204. Del resto, come ben
sintetizzato da CAMPBELL 1984, 54, «Stobaeus compiled the work, as he said in his
prefatory letter, to be an aide‑memoire for his son, who had difficulty in remembering
what he had read. Although his avowed purpose is not moral instruction, he will have
been unwilling to introduce material that might lead the youth astray».
20
Le ipotesi di Bernhardt 1861 sono ribadite e.g. in DIELS 1875, 180 n. 2 e LURIA 1929.
Cf. anche PICCIONE 1994a, 1994b, 1999, 2004, CAMPBELL 1984 e KONSTAN 2011. Del
resto, come hanno giustamente messo in luce MANSFELD e RUNIA 1996, 223, «The aim
of the anthologist is not to preserve an old book but to make a new one. It gives him
pleasure to rearrange his material in a novel and attractive way. Textual modification
is bound to occur on a small scale in order to facilitate the arrangement of the
material».
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 277
21
La sigla Md rappresenta la collatio ad opera di Dindorf del codex Escurialensis
LXXXX, cioè M cf. HENSE 1958, I XXIX, LXVII.
22
RUPPRECHT 1925, 207‑208.
23
DOBREE 1833, 286.
24
Nel frammento di Anassila l’avverbio introduce una domanda, ed ha il valore di
‘sul serio…?’. Non si può escludere (cf. supra) che anche nel frammento di Filemone
in questione ci potesse essere una simile costruzione sintattica. Su Antiph. fr. 270 cf.
ARNOTT 1996, 848.
25
Sull’uso di ὄντως cf. anche CASSIO 1975. Si noti, comunque, che altri avverbi
potrebbero sostituire ὄντως nella sequenza metrica indifferens + ὡς.
26
DEUBNER 1838, 107, MEINEKE 1841, 3.
278 Sebastiano Bertolini
verso precedente, secondo un uso decisamente raro (cf. S. Tr. 1017 e Ar. Lys.
256) e non in linea con l’usuale modus citandi di Stobeo, che avrebbe
originariamente citato la sola ultima sillaba di un verso precedente.27 Bothe
giudica la lezione ὦ πῶς ‘ungewöhnlich’ e suppone che essa altro non sia
che un possibile riempitivo del verso.28 Lo studioso propone pertanto
ἁπλῶς (‘schlechthin’), in séguito proposto anche da Schenkl (1895, 474):
l’avverbio è attestato a inizio trimetro (cf. e.g. [Eur]. Rh. 851) e trova riscontro
anche in Filemone (fr. 114), ma la congettura non sembra risolutiva.
Hermann corregge il testo in πάντως (‘del tutto, affatto’), ma, come sottoli‑
neato da Arnott, l’avverbio «at a clause’s opening emphasises a following
negative, although the degree of emphasis may vary from ‘not to all’ to ‘not
entirely’ according to the context, speaker and tone»:29 l’assenza di una frase
negativa in questo frangente spinge ad accantonare la congettura. Per
Hirschig (1849, 18), in incipit di verso «videtur legendum πῶς οὐ πονηρόν
ἐστιν κτἑ. quod adhibetur sicuti εἶτ’οὐ seguente γάρ», ma l’aggiunta della
negazione nel primo verso sembra contraddire in toto il significato della
seconda pericope, che non si presenta come un’affermazione ma come una
possibilità incompiuta introdotta da ἄν, implicante pertanto un desiderio
e non una descrizione dello stato delle cose.30 Naber ha proposto οἴμ’ ὡς,
una congettura che ha riscosso un certo successo (cf. e.g. Kock II 478 «quod
frequentissimum est apud comicos») grazie al buon numero di passi comici
paralleli.31 Naber (1880, 407‑408), inoltre, non si limita a modificare l’incipit
del verso, ma interviene anche sull’explicit, che a suo avviso sarebbe da
correggere in ἄνθρωπος φύσει, sulla base del fatto che il dativo φύσει è
attestato, insieme al neutro, in numerosi passi comici. Schenkl ha proposto
l’insoddisfacente ἦ που, mentre Blaydes, pur giudicando corretta l’ipotesi
di Naber (οἴμ’ ὡς), non esclude la presenza degli avverbi ὅλως o δεινῶς a
inizio verso.32
27
Cf. PICCIONE 2003, 247‑248.
28
BOTHE 1844, 70.
29
HERMANN 1847, 608, ARNOTT (1996, 662‑663 ad Alex. fr. 235).
30
Secondo questa prospettiva, proprio il γάρ che viene portato da Hirschig a
sostegno della sua ipotesi sembra confermare il tono pessimistico della prima frase.
L’unica possibilità per salvare la congettura di Hirschig sarebbe quella di sostituire al
punto in alto il punto interrogativo. In tal caso, l’espressione significherebbe ‘forse che
non è malvagia la natura umana, nel complesso?’, con πῶς οὐ (come suggerito dallo
studioso) nel significato esclamativo in domanda retorica che εἶτ’οὐ presenta in e.g.
Dem. 1, 24. La correzione testuale, tuttavia, non sembra giustificata ed è perciò da
rigettare. L’ipotesi di Hirschig non viene esclusa da SCHENKL 1895, 474.
31
NABER 1880, 408.
32
SCHENKL 1895, 474, BLAYDES (1896, II, 182).
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 279
33
L’immensa tematica del cosiddetto ‘contratto sociale’ è stata oggetto di numerosi
studi, anche alla luce della pervasività del tema nella letteratura antica e dei
collegamenti che essa intrattiene con altre tematiche, quali e.g. il concetto di progresso
umano a partire da una condizione ‘primitiva’. Sul tema cf. e.g. GOUGH 19572, GUTHRIE
1969, 1971, MULGAN 1979, KAHN 1981, KELLY 1992, PANI 2007.
34
Dal punto di vista stilistico, il frammento rappresenta un tipico esempio di gnomē,
su cui cf., in particolare, CONCA 1973.
280 Sebastiano Bertolini
35
Cf. e.g. HEINIMANN 1945, 147 n. 74.
Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 281
bisogno di leggi’) e dove non è da escludere che il verbo δέω associ al suo
significato proprio di ‘essere necessario, aver bisogno’ quello metaforico e
più espressivo di ‘essere legato, essere vincolato’.36
Bibliografia
ARGYLE 1970 = A.W. Argyle, Χρησμολόγοι and μάντεις, “CR” 20 (1970), 139.
ARNOTT 1996 = G.W. Arnott, Alexis: the fragments. A commentary, New
York/Cambridge 1996.
BAGORDO 2014 = A. Bagordo, Alkimenes‑Kantharos: Einleitung, Übersetzung,
Kommentar, Heidelberg 2014 (FrC 1.1).
BERNHARDT 1861 = O. Benhardt, Quaestiones Stobenses, Bonnae 1861.
BIANCHI 2016 = F.P. Bianchi, Cratino. Archilochoi‑Empipramenoi (frr. 1‑68), Heidelberg
2016.
BLAYDES 1896 = F.H.M. Blaydes, Adversaria in Comicorum Graecorum Fragmenta,
secundum editionem Kockianam, vol. II, Hala Saxonum 1896.
BOTHE 1844 = F.H. Bothe, Die griechischen Komiker. Eine Beurteilung der neuesten
Ausgabe ihrer Fragmente [Meineke FCG], Leipzig 1844.
BRUZZESE 2011 = L. Bruzzese, Studi su Filemone comico, Lecce 2011.
CAMPBELL 1984 = D.A. Campbell, Stobaeus and Early Greek Lyric Poetry, in D.E.
Gerber (ed.) Greek Poetry and Philosophy. Studies in Honour of Leonard Woodbury,
Chico 1984, 51‑57.
CASSIO 1975 = A.C. Cassio, Un uso di ὄντως ἀληθῶς, vere e due epigrammi dell’An‑
tologia Palatina (11, 78 e 394), “RFIC” 103 (1975), 136‑143.
CONCA 1973 = F. Conca, Ricerche sulle gnomai di Filemone, “Acme” 26 (1973), 129‑
166.
CURNIS 2008 = M. Curnis, L’Antologia di Giovanni Stobeo: una biblioteca antica dai
manoscritti alle stampe, Alessandria 2008.
DIELS 1875 = H. Diels, Eine Quelle des Stobäus, “RhM” 30 (1875), 172‑181.
DOBREE 1833 = P.P. Dobree, Adversaria I‑III, Cantabrigae 1933.
DUEBNER 1838 = F. Duebner, Menandri et Philemonis fragmenta, Parisiis 1838.
DUNBAR 1995 = N. Dunbar, Aristophanes. Birds, Oxford 1995.
36
Per considerazioni simili espresse tramite lo stesso nesso, cf. anche Men. Sent. 17,
1 Jäkel e Theophr. fr. 106, 1 Wimmer.
282 Sebastiano Bertolini
MILANI 1993 = C. Milani, Note sul lessico della divinazione nel mondo classico, in M.
Sordi (ed.), La profezia nel mondo antico, Milano 1993, 31‑49.
MUECKE 1998 = F. Muecke, Oracles in Aristophanes, “SemRom” 1 (2) (1998), 257‑274.
MULGAN 1979 = R. G. Mulgan, Lycophron and Greek theories of social contract, “HI”
40 (1979), 121‑128.
NABER 1880 = S.A. Naber, Ad fragmenta comicorum graecorum, “Mnemosyne” 8
(1880), 407‑435.
OLSON 1998 = S.D. Olson, Aristophanes. Peace, Oxford 1998.
ORTH 2014 = C. Orth, Die Mittlere Komödie, in B. Zimmermann/A. Rengakos (edd.),
Die Literatur der klassischen und hellenistischen Zeit (Handbuch der griechischen
Literatur der Antike Bd. 2), München 2014, 995‑1051.
PANI 2007 = M. Pani, Il contratto sociale in antico: per la storia di un’idea, in M. Pani
(ed.) Epigrafia e territorio, politica e società: temi di antichità romane, Bari 2007, 327‑
340.
PAPONI 2005 = S. Paponi, Per una nuova edizione di Nevio comico, Pisa 2005.
PERNIGOTTI 2004 = C. Pernigotti, La Comparation Menandri et Philistionis:
tradizione del testo e morfologia testuali, in M.S. Funghi (ed.), Aspetti della letteratura
gnomica nel mondo antico, vol. II, Firenze 2004, 25‑48.
PICCIONE 1994a = R.M. Piccione, Sulle fonti e le metodologie compilative di Stobeo,
“Eikasmos” 5 (1994), 281‑317.
PICCIONE 1994b = R.M. Piccione, Sulle citazioni Euripidee in Stobeo, “RFIC” 122
(1994), 175‑218.
PICCIONE 1999 = R.M. Piccione, Caratterizzazione di lemmi dell’Anthologion di
Giovanni Stobeo. Questioni di Metodo, “RFIC” 127 (1999), 139‑175.
PICCIONE/RUNIA 2001 = R.M. Piccione, D.T. Runia, Stobaios, “DNP” 11 (2001), cc.
1006‑10.
PICCIONE 2003 = R.M. Piccione, Le raccolte di Stobeo e Orione. Fonti, modelli,
architetture, in M.S. Funghi (ed.), Aspetti di letteratura gnomica nel mondo antico,
Firenze 2003, 241‑261.
PICCIONE 2004 = R.M. Piccione, Forme di trasmissione della letteratura sentenziosa, in
M.S. Funghi (ed.), Aspetti della letteratura gnomica nel mondo antico, vol. II, Firenze
2004, 403‑442.
RIGSBY 1976 = K.J. Rigsby, Teiresias as Magus in Oedipus Rex, “GRBS” 17 (1976),
109‑114.
RAPISARDA 1939 = E. Rapisarda, Filemone comico, Milano/Messina 1939.
RUPPRECHT 1925 = K. Rupprect, Philemon fr. 2, “Philologus” 80 (1925), 207.
SANCHIS LLOPIS 2007 = J. Sanches Llopis, Fragmentos de la comedia media, Madrid
2007.
SCHENKL 1895 = H. Schenkl, recensione a Hense (1894), “GGA” 6 (1895), 453‑491.
SOMMERSTEIN 1987 = A. Sommerstein, Aristophanes. Birds, Warminster 1987.
ZANETTO 1987 = G. Zanetto, Aristofane. Gli Uccelli, Milano 1987.
Frammenti di follia.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria
Μανίας δέ γε εἴδη δύο, τὴν μὲν ὑπὸ νοσημάτων ἀνθρωπίνων, τὴν δὲ ὑπὸ
θείας ἐξαλλαγῆς τῶν εἱωθότων νομίμων γιγνομένην. […] Τῆς δὲ θείας
τεττάρων θεῶν τέτταρα μέρη διελόμενοι, μαντικὴν μὲν ἐπίπνοιαν
Ἀπόλλωνος θέντες, Διονύσου δὲ τελεστικήν, Μουσῶν δ’αὖ ποιητικήν,
τετάρτην δὲ Ἀφροδίτης καὶ Ἔρωτος, ὲρωτικὴν μανίαν ἐφήσαμέν τε
ἀρίστην εἶναι.
1
Gli Stasiastae vel Tropaeum dello stesso Accio, benché a lungo classificati fra i
drammi bacchici, soprattutto in virtù dell’integrazione Tropaeum <Liberi> risalente a
SCRIVERIUS 1620, 143 oggi per lo più respinta, devono essere ancora ritenuti di argo‑
mento incerto.
2
Sul tema della follia presso i Greci sono essenziali gli studi di FOUCAULT 1961,
MATTES 1970 e GUIDORIZZI 2010. Cf. inoltre, tra gli altri, HARRIES 1891; VAUGHAN 1919;
O’BRIEN‑MOORE 1924; KOEHM 1928; WALDMANN 1962; MOSS 1967, 709‑722; CIANI 1974,
70‑110; SIMON 1978; CIANI 1983; PADEL 1995; GILL 1996, 249‑267; LÓPEZ SACO 2006, 185‑
206; GARCIA 2011, 211‑222; HARRIS 2013; LÓPEZ SACO 2014, 1‑21; THUMIGER 2017.
286 Marco Filippi
Ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l’altra che
nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. […] Distinguendo
quattro parti di quella divina in relazione a quattro dei, abbiamo attribuito
l’ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania
amorosa è la migliore3.
3
Trad. it. CACCIA 1997, 491. Le traduzioni dei passi greci e latini riportati nel
presente articolo sono di chi scrive salvo dove diversamente indicato.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 287
Ciascuno dei casi sopra riportati – salvo quello di Fedra – sembra avere
precisi riscontri nel panorama tragico latino in frammenti. Vediamone
alcuni più da vicino.
1. La profezia di Cassandra
(Hecuba)
Sed quid oculis rabere4 visa est derepente ardentibus?
Ubi illa paulo ante sapiens virginali’ modestia?
(Cassandra)
Mater, optumatum multo mulier melior mulierum,
missa sum superstitiosis hariolationibus:
namque me Apollo fatis fandis dementem invitam ciet.
…
Adest adest fax obvoluta sanguine atque incendio.
Multos annos latuit; cives, ferte opem et restinguite5.
…
(Ecuba)
Ma perché sembra improvvisamente adirarsi, con occhi ardenti? Dov’è
quella modestia verginale fino a poco fa assennata?
(Cassandra)
Madre, di gran lunga migliore di tutte le donne, sono trasportata da vaticinî
profetici; infatti Apollo mi spinge, contro la mia volontà, a rivelare i fati da
folle. … Eccola, eccola la fiaccola avvolta di sangue e fuoco; è stata nascosta
per molti anni. Cittadini, aiutatemi e spegnetela!
4
Rabere, lezione dei deteriores accolta già da Lambinus e Muretus e poi da RIBBECK
1852, 17; 1871, 20; 1897, 23, sembra adattarsi meglio, a mio avviso, al contesto del
frammento, e si contrappone significativamente a sapiens del verso successivo
(maggiori dettagli in SKUTSCH 1967 = 1968, 183).
5
Qui e in seguito le parti da me sottolineate hanno lo scopo di evidenziare i termini
o le espressioni che specificamente appartengono al cosiddetto «lessico della follia» e
che si dimostreranno ricorrenti nei frammenti tragici.
288 Marco Filippi
2. La follia bacchica6
6
Sebbene i frammenti del Lycurgus di Nevio siano numerosi, non siamo ancora in
grado di appurare con sicurezza quale variante del mito il poeta latino avesse adottato
per il finale del suo dramma. Non si rilevano in questa tragedia riferimenti
inequivocabili a stati di follia, delle menadi o del re.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 289
L’unico elemento certo del Pentheus di Pacuvio – del quale, come è noto,
non è pervenuto alcun frammento – è proprio lo stato di follia del
protagonista, come si rileva dall’uso del verbo furio nel commentario
serviano al passo dell’Eneide sopra menzionato; quanto segue nella
testimonianza del Danielino, invece, non è riconducibile con sicurezza alla
trama del dramma pacuviano, poiché quo potrebbe riferirsi al personaggio
di Penteo e non al titolo della tragedia.
Meglio informati siamo sulle Bacchae di Accio, delle quali sono pervenuti
numerosi frammenti la cui analisi e la cui ricostruzione riconducono, come
di consueto, a evidenti ascendenze euripidee.
7
I codici di Non. 191 L. riportano la lezione corrotta affectio est, corretta in vario
modo dagli studiosi. Fra gli altri, MÜLLER 1869, 240; 1885, 52; 1888, I, 188; 1890, 25 ha
proposto di leggere affecti est, vedendo in affecti un genitivo dello stesso tipo di aspecti,
exerciti, lucti, e ha ritenuto plausibile che il copista, non riconoscendolo, abbia mutato
affecti in affectio per conservare un soggetto all’interno della frase. La correzione di
Müller ha il vantaggio, rispetto ad altre, di permettere un riferimento diretto ad Agave
e quindi di ricollegarsi più strettamente al contesto euripideo presumibilmente qui
tenuto in considerazione da Accio, cioè E. Bacc. 1144‑1145, dove è proprio Agave il
soggetto della frase. Tuttavia è forse preferibile la correzione di RIBBECK 1852, 143; 1871,
170; 1897, 195 in affecta est perché, oltre a implicare un riferimento pure diretto ad
Agave, allo stesso tempo non comporta la particolarità dell’uso di un genitivo affecti,
risultando quindi più economica.
8
Anche un curioso frammento tratto dalle Nuptiae Bacchi (o Nuntii Bacchi?) di
Santra, poeta tragico ed erudito del I sec. a.C., sembra far riferimento al furor bacchico:
TrRF I F 1 = trag. 1‑2 R.3 … ita obpletum sono / furenter ab omni parte bacchatur nemus («così
riempito del suono il bosco da ogni parte furiosamente rimbomba di grida bacchiche»).
290 Marco Filippi
Se per Acc. trag. 259 R.3, come credo, il parallelo con E. Bacc. 1144‑1145
va inteso in senso stretto, non si dovrà pensare che il frammento latino
contenga semplicemente la gioia delle baccanti o di Agave nell’andare a
caccia né, come ipotizza Ribbeck, parole rivolte a Penteo da Bacco, il quale
chiederebbe al re se voglia vedere le baccanti nel bosco e quanto sia
soddisfatta sua madre della caccia (cf. E. Bacc. 811; 916)9. Piuttosto, si dovrà
ritenere che il frammento contenga parole di qualcuno, forse un
messaggero, che descriverebbe come Agave, sotto l’effetto del furor bacchico
(cf. affecta est), abbia dato la caccia a suo figlio senza riconoscerlo e in seguito
lo abbia smembrato con l’aiuto delle altre menadi e si sia rallegrata della
sua preda, portandone la testa conficcata su un tirso.
L’ipotesi secondo la quale Acc. trag. 260 R.3 appartenga a un contesto di
follia è invece più fragile; qui è forse presente un richiamo ad E. Bacc. 1264‑
1267 dove, in una serrata sticomitia, Cadmo si assume il compito di
riportare Agave alla ragione e lo fa esortandola ad alzare gli occhi al cielo
e domandandole se vi noti qualche mutamento, e lei risponde che è più
limpido di prima. Presumibilmente, secondo quest’interpretazione, a
questo punto Cadmo risponderebbe che spesso il cielo è sereno ma che
talora si copre di nubi, e così preparerebbe l’animo di Agave al macabro
riconoscimento del cadavere del figlio10. Altri tentativi di interpretazione
sono tuttavia possibili; si è pensato, ad esempio, a un’allusione al monte
Citerone11 o a un accenno alla mutevolezza della sorte umana, paragonata
ai fenomeni atmosferici12.
La «follia» poetica, in realtà, non può essere definita come una forma di
follia vera e propria; essa è estro, ispirazione.
Riporto qui il caso di Ennio, poeta a tutti noto per l’autoconsapevolezza
del proprio ruolo di alter Homerus, il quale, soprattutto nei proemi al I e al
VII libro degli Annales, si appella alle Muse come fonti della propria
ispirazione.
Quello che qui pure interessa evidenziare è la curiosa dichiarazione di
poetica presente in un frammento probabilmente appartenente alle Saturae,
ma di non facile collocazione:
9
Cf. RIBBECK 1875, 573‑574.
10
Cf. RIBBECK 1875, 574.
11
Cf. BOTHE 1823, 189.
12
Cf. MÜLLER 1890, 25.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 291
13
Cogliamo esempi affini nella letteratura di ogni tempo e luogo, dal Coleridge
oppiomane di Kubla Khan al Baudelaire bevitore, soprattutto di assenzio.
14
Cf. GRILLI 1978, 34‑38; PRINZEN 1998, 250‑251; TIMPANARO 2002, 678.
292 Marco Filippi
***
C’è di più. Premesso che ognuno dei casi di follia finora esaminati
appare ispirato da una divinità in qualche modo adirata con il personaggio
che sarà soggetto a follia o vittima di un personaggio che sarà soggetto a
follia (o entrambe le cose: cf. il caso di Penteo già esaminato e quello di Ino
infra), qualora ci si voglia allontanare dalla quadripartizione platonica
finora utilizzata per l’analisi degli esempi presi dal teatro latino frammen‑
tario e si voglia tentare un’altra via di classificazione che tenga conto
comunque di casi di follia ispirati da un dio, ci si accorgerà che un elemento
comune alla maggior parte delle vicende di follia presenti nel teatro tragico
latino è quello del parenticidio, ossia l’uccisione di un familiare (un figlio,
un genitore, un fratello, ecc.). In parole povere, si può notare come spesso
il parenticidio sia connesso a episodi di follia, figurando nel mito come
causa o conseguenza di quest’ultima.
15
Cf. l’Athamas di Ennio e l’Athamas di Accio, a tacere della controversa Ino di Livio
Andronico.
16
Si noti però l’indubbia presenza dell’elemento bacchico nell’unico frammento
superstite dell’Athamas di Ennio: TrRF II F 42 = trag. 107‑11 R.3 <his> erat in ore Bromius,
his Bacchus pater, / illis Lyaeus vitis inventor sacrae, / tum pariter †euhan euhium† / ignotus
iuvenum coetus alterna vice / inibat alacris Bacchico insulta<n>s modo («questi avevano
sulla bocca Bromio, questi Bacco padre, quelli Lieo inventore della sacra vite. Allora
ugualmente tutto il gruppo delle vergini e tutto quello dei giovani in coro alternato
intonava: ‘Evan, Evio, Evoé!’ freneticamente danzando alla maniera bacchica» [trad.
TRAGLIA 1986, 295]).
17
Cf. Serv. ad Verg. Aen. 4, 473 a Pacuvio Orestes inducitur Pyladis admonitu propter
vitandas Furias ingressus Apollinis templum, unde cum vellet exire, invadebatur a Furiis («da
Pacuvio Oreste è indotto dall’avvertimento di Pilade a entrare nel tempio di Apollo
per evitare le Furie; volendo uscire da questo, è assalito dalle Furie»). Il frammento
appartiene probabilmente all’Hermiona o a un Orestes di Pacuvio. Sui problemi legati
all’esistenza di quest’ultimo cf. D’ANNA 1965, 47‑69; REGGIANI 1990, 21‑32 e, più
recentemente, DEGIOVANNI 2011, 256‑284.
294 Marco Filippi
18
Un’anticipazione del concetto è però già in S. Antig. 603, dove si parla di «Erinni
della mente».
19
Su tali luoghi e procedimenti rituali in riferimento al mito di Oreste, istruttivo
Paus. 2, 31, 4; 2, 31, 8‑9; 8, 34, 1‑3. Cf. anche DELCOURT 1959, 94‑95 e fig. 7.
20
Sulla follia di Oreste cf. HEIBERG 1927, 1‑44; HALLIDAY 1936, 277‑294; FLASHAR
1966; MOSS 1967, 709‑722; PIGEAUD 1981; GARZYA 1992, 25‑32; GRAVER 2003, 40‑54. Sulle
affinità tra la concezione euripidea della follia e la definizione clinica della malattia
mentale nel Corpus Hippocraticum cf. GREGORY 1974; DONADI 1975, 115‑128;
THEODOROU 1993, 32‑46; DETIENNE 1996, 23‑38; GUTIÉRREZ CADAVID 2015, 178‑183.
21
Non mi soffermo qui sul possibile confronto del frammento enniano con E. fr.
88a Kn., la cui attribuzione è tuttora controversa (KANNICHT 2005, 223‑224 lo inserisce
tra i frammenti dell’Alcmena, ma gli editori precedenti e buona parte della critica
ritengono piuttosto appartenga a un Alcmeone euripideo).
22
Accolgo la correzione mater di RIBBECK 1852, 15 (a intendere Erifile) di alter della
maggior parte dei codici (V O P U R, om. A H E) e posto tra cruces da GROTIUS 1828,
160; tra gli altri emendamenti mi limito a ricordare qui tetrum di MÜLLER 1884, 113 e
ultor di VAHLEN 1888‑1889 (= 1907, 401).
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 295
In molti modi sono oppresso dal male, dall’esilio e dalla povertà. Poi la
paura ha cacciato via dal mio petto a me, esausto, ogni pensiero assennato.
Mia madre minaccia la mia vita di terribile tormento e morte. Nessuno c’è
con un carattere così forte e con una tale fermezza che non si senta rifluire
il sangue per la paura e non impallidisca per lo spavento23.
23
Nel caso dell’Alcumeo enniano riporto in nota anche alcuni dei passi ciceroniani
che tramandano i frammenti, in quanto utili ai fini dell’indagine. In Cic. de orat. 3, 217‑
219 sono evidenziati i toni con cui le parole di Alcmeone sono pronunciate: aliud (scil.
vocis genus sibi sumat) metus, demissum et haesitans et abiectum: ‘multis… metu’
(«diverso sarà il tono della paura, basso, esitante, avvilito…» [trad. NARDUCCI 2001,
731]). In Cic. Tusc. 4, 18‑19 sono elencate le varie passioni che contraddistin‑
guono il passo enniano in esame: quae autem subiecta sunt sub metum, ea sic definiunt:
pigritiam…, terrorem…, timorem…, pavorem metum mentem loco moventem (ex quo illud
Enni: ‘tum pavor… expectorat’), exanimationem…, conturbationem…, formidinem («per
quanto riguarda le passioni che rientrano nell’ambito della paura, le definizioni sono
le seguenti: pigrizia… terrore… timore… Lo spavento è la paura che fa uscire di senno,
come risulta dal passo di Ennio: …, smarrimento… sconvolgimento… ansia…» [trad.
NARDUCCI 2000, 374‑375]).
24
La suggestione è di JOCELYN 1967, 191.
296 Marco Filippi
v. 2. incedunt incedunt Ribb.1: incede incede vel incaede incaede vel in caede
in caede vel incaede in caede (vel sim.) codd. (incede incede prob. Vahlen 1887‑
1888 = 1907, 380; 383) // v. 4. caeruleae codd. plerr.: caerulea cett. codd., caeruleo
Columna in app. // igni codd.: angui Columna in app. // v. 8. luna innixus codd.:
lunata micans vel luna nictans Ribb.2, Coroll. XVIII, lunat nixus Bergk 1874 =
1884, 352, alii alia.
25
Secondo VAHLEN 1887‑1888 (= 1907, 380) Apollo tende l’arco in modo che la luna,
cioè la curvatura dell’arco, si tenda in modo che le corna siano più unite, ma
l’espressione risulta tuttora alquanto oscura.
26
Cf. Cic. acad. 2, 89 quid loquar de insanis: …; quid ipse Alcmeo tuus, qui negat ‘cor sibi
cum oculis consentire’, nonne ibidem incitato furore ‘unde… oritur’ et illa deinceps ‘incede…
expetunt’; quid cum virginis fidem implorat: ‘fer… taedis’, num dubitas quin sibi haec videre
videatur? Itemque cetera ‘intendit… laeva’: qui magis haec crederet si essent quam credebat
quia videbantur; apparet enim iam ‘cor cum oculis consentire’ («che dirò dei pazzi? … il tuo
stesso Alcmeone, che nega che ‘il suo cuore consenta coi suoi occhi’, forse non grida
nello stesso luogo per un furore concitato ‘da dove viene fuori questa fiamma?’ e
quindi ancora ‘vengono… si rivolgono verso di me…’; e che, quando implora la pietà
della figlia: ‘aiutami… con le fiaccole ardenti’, forse dubiti che non gli sembri di vedere
queste cose? E allo stesso modo il resto ‘Apollo chiomato… da sinistra’: chi crederebbe
più a queste cose se fossero vere rispetto a quello che vi credeva poiché gli sembravano
vere; appare infatti ormai che ‘il suo cuore consentiva con gli occhi’»).
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 297
27
Cf. Cic. Rosc. Am. 67 nolite enim putare, quemadmodum in fabulis saepenumero videtis,
eos, qui aliquid impie scelerateque commiserunt, agitari et perterreri Furiarum taedis
ardentibus. Sua quemque fraus et suus terror maxime vexat, suum quemque scelus agitat
amentiaque adficit, suae malae cogitationes conscientiaeque animi terrent; hae sunt impiis
assiduae domesticaeque Furiae quae dies noctesque parentium poenas a consceleratissimis filiis
repetant («non pensate però che, come vedete spesso nelle tragedie, i protagonisti di
empie e scellerate azioni siano veramente perseguitati e terrorizzati dalle fiaccole
ardenti delle Furie. Ma ognuno è torturato dal male che ha commesso e dallo spavento
che porta dentro di sé, ognuno è tenuto in folle agitazione dal sangue che ha versato
ed è ossessionato dalla sua follia, ognuno si sente inseguito e atterrito dai suoi tristi
pensieri e dai suoi rimorsi. Queste sono per gli empi le Furie che non li abbandonano
mai e vivono dentro di loro, e sempre, giorno e notte, domandano ai figli giunti al
fondo della scelleratezza l’espiazione del sangue di chi li ha generati» [trad. LONGI
1964, 198; 200]); leg. 1, 40 sed eos agitant insectanturque Furiae, non ardentibus taedis sicut
in fabulis, sed angore conscientiae fraudisque cruciatu («ma li perseguitano e li incalzano
le Furie, non già con fiaccole ardenti come nelle tragedie, ma con i rimorsi della
coscienza e il tormento della colpa»); Pis. 46‑47 nolite enim ita putare, patres conscripti,
ut in scaena videtis, homines consceleratos impulsu deorum terreri furialibus taedis ardentibus;
sua quemque fraus, suum facinus, suum scelus, sua audacia de sanitate ac mente deturbat; hae
sunt impiorum Furiae, hae flammae, hae faces. Ego te non vaecordem, non furiosum, non mente
captum, non tragico illo Oreste aut Athamante dementiorem putem… («non vogliate ritenere
infatti, senatori, così come vedete in scena, che gli uomini scellerati su impulso degli
dei siano atterriti dalle fiaccole ardenti delle Furie; la loro colpa, il loro crimine, la loro
empietà, la loro audacia li distolgono dalla sanità mentale; queste sono le Furie degli
empi, queste le fiamme, queste le fiaccole. Io non riterrei te pazzo, non furioso, non
fuori di testa, non più stupido di quel famoso tragico Oreste o Atamante…»).
28
Cf. MEDDA 2004, 68‑73.
298 Marco Filippi
E. Or. 255‑257
E. Or. 260‑261
E. Or. 268‑270
Dammi l’arco di corno, dono del Lossia, col quale Apollo mi disse di
difendermi dalle dee se mi avessero terrorizzato con deliranti accessi di
follia29.
***
29
Qui e precedentemente trad. it. MEDDA 2004, 175‑177. Cf. anche Schiller, Die
Jungfrau von Orléans, Act. II, sc. 6 «wohin entrinn’ich? Schon ergreift sie mich mit ihren
Feueraugen!» («dove fuggo? Già mi afferrano con i loro occhi di fuoco!»). È infine
curioso constatare come nel J‑Horror affermatosi a partire dalla fine degli anni Novanta
con prodotti quali Ring e Ju‑On la caratterizzazione nipponica dell’Erinni abbia
notevoli corrispondenze con quella greco‑latina; nel caso di Ju‑On, ad esempio, a
seguito di un uxoricidio e di un infanticidio i fantasmi di donna e bimbo, novelle
Erinni, imperversano e contaminano coloro che vengono a contatto con il luogo
dell’assassinio. Essi sono raffigurati con capelli lunghi, occhi pieni di sangue, colorito
diafano, sguardo e membra distorti, ed emanano lamenti raccapriccianti; le loro vittime
muoiono o impazziscono.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 299
Bene facis: sed nunc quid subiti mihi febris civit mali?
TrRF I inc. F 21 = inc. inc. trag. 47‑48 R.3 (Armorum iudicium di Accio?)
Ti vedo, ti vedo; vivi, Ulisse, finché è lecito; cattura con lo sguardo l’ultimo
raggio di luce!30.
30
Un dubbio caso di frammento di follia dettata dall’ira è anche Enn. inc. 18 V.2
citato da Cic. Tusc. 4, 52 an est quicquam similius insaniae quam ira? Quam bene Ennius
initium dixit insaniae («c’è forse qualcosa di più simile alla follia dell’ira? Essa, come
dice Ennio, è inizio di follia [trad. NARDUCCI 2000, 407]»). Per motivi metrici è
improbabile si tratti di un’espressione scandibile in esametri, mentre è probabile che
ira, initium insaniae sia clausola trocaica o giambica e quindi costituisca parte di un
verso tragico; cf. TIMPANARO 1948, 12.
300 Marco Filippi
~ E. Or. 11‑14.
Costui (scil. Tantalo) generò Pelope, e da Pelope nacque Atreo, cui la dea
Discordia, filando i bioccoli di lana, assegnò il destino di combattere Tieste,
suo fratello31.
31
Trad. MEDDA 2004, 147.
32
Cf. assieme ai passi sopra riportati, e per ragioni strettamente lessicali, Acc. trag.
450 R.3 (Meleager) heu! Cor ira fervit caecum, amentia rapior ferorque («ahimè! Il cuore arde
accecato dall’ira, sono preso e trascinato dalla follia»).
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 301
5. La follia simulata
Oltre ai casi di follia reali, è stato rilevato anche, nel mito, almeno un
caso di follia simulata (o Schwachsinn)33. Si tratta dell’episodio di Ulisse che
si finge pazzo per non essere costretto a partecipare alla guerra di Troia,
salvo poi essere smascherato da un altro personaggio parimenti astuto,
Palamede, sul quale in seguito, proprio per questo motivo, si vendicherà34.
Ulisse, l’uomo razionale κατ’ἐξοχήν, è dunque l’unico che può opporsi
simbolicamente e di fatto alla follia in quanto irrazionalità, e addirittura
farsi beffe di essa35.
Un accenno alla vicenda lo abbiamo anche nella tragedia latina:
TrRF I inc. F 82 = inc. inc. trag. 55‑60 R.3 (Armorum iudicium di Pacuvio?
Di Accio?).
Egli solo, com’è noto, non tenne fede a quel giuramento, di cui era stato il
promotore. Finse di essere pazzo e decise di non unirsi a noi: e se Palamede
con la sua acutezza non ne avesse compresa la maliziosa audacia, costui
avrebbe per sempre eluso il sacro vincolo del giuramento36.
33
Cf. MATTES 1970 e GUIDORIZZI 2010.
34
La vicenda è presente, oltre che diffusamente nella letteratura greca, forse anche
in uno dei drammi tragici intitolati a Palamede, di cui sono pervenuti solo frammenti.
35
Non è un caso quanto scrive Erasmo, Elogio della Follia 35 (e si badi che è la Follia
a parlare!): «Omero… mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati, e a più
riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo
termine parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille. Perché mai? Soltanto perché
quell’astuto inventore di trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade e, quanto mai
sordo a ogni richiamo della natura, era tutto cervello» (traduzione di GARIN 1992, 53).
36
Trad. NARDUCCI 2001b, 399.
302 Marco Filippi
O re, le cose che nella vita gli uomini sogliono fare, le cose che pensano,
curano, vedono, e che da svegli compiono e alle quali s’affaccendano, non
c’è da meravigliarsi se accadono a qualcuno in sogno; ma in una circostanza
così straordinaria non senza motivo le visioni si presentano. Sta’ dunque
attento, che colui che tu stimi sciocco al pari di una bestia, non abbia una
mente munita di ingegno, al di sopra del gregge, e non ti sbalzi dal trono.
Ché quello che ti è apparso riguardo al sole dimostra che avverrà per il
popolo un mutamento assai vicino nel tempo. Possa tutto ciò volgersi in
bene per il popolo! Il fatto che l’astro più potente abbia intrapreso il suo
corso verso destra da sinistra è un faustissimo augurio che lo Stato romano
sarà eccelso!37
Inutile ricordare, tra l’altro, quanto quest’episodio debba esser caro alla
memoria dei Romani di ogni tempo.
37
Trad. TIMPANARO 2001, 39.
Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 303
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SKUTSCH 1967 = O. Skutsch, Notes on Ennian Tragedy, “HSPh” 71 (1967), 125‑142,
ora in ID., Studia Enniana, London 1968, 174‑193.
THEODOROU 1993 = Z. Theodorou, Subject to Emotion: Exploring Madness in Orestes,
“CQ” 43 (1993), 32‑46.
THUMIGER 2017 = C. Thumiger, A History of the Mind and Mental Health in Classical
Greek Medical Thought, Cambridge 2017.
TIMPANARO 1948 = S. Timpanaro, Per una nuova edizione critica di Ennio, “SIFC” 23
(1948), 1‑58.
TIMPANARO 2001 = S. Timpanaro, Marco Tullio Cicerone. Della divinazione, Milano
20016 (19881).
TIMPANARO 2002 = S. Timpanaro, rec. H. Prinzen, Ennius im Urteil der Antike,
Stuttgart/Weimar 1998, in “Gnomon” 74 (2002), 673‑681.
TRAGLIA 1986 = A. Traglia, Poeti latini arcaici, Livio Andronico, Nevio, Ennio, vol. I,
Torino 1986.
VAHLEN 1887‑1888 (= 1907) = J. Vahlen, De Ennii Alcmaeone, in ID., Opuscula
academica, Lipsiae 1907, 379‑385.
VAUGHAN 1919 = A.C. Vaughan, Madness in Greek Thought and Custom, Baltimore
1919.
WALDMANN 1962 = H. Waldmann, Der Wahnsinn im griechischen Mythos, Munchen
1962.
Tieste dimenticato.
Nuove possibilità per il teatro di Seneca
MARCELLA PETRUCCI
(LICEO “UGO FOSCOLO” ALBANO LAZIALE)
1
NENCI 2002, 10.
308 Marcella Petrucci
disce una tavola con le loro carni per il fratello ignaro, che acquisisce
consapevolezza di quanto ha mangiato solo dopo l’orrendo pasto. È una
tragedia senza redenzione dove dominano soltanto furia e malvagità. La
parola di Seneca, potente e visionaria, esce fuori dagli stretti confini della
cornice storica e, parlando un linguaggio che sembra senza tempo, mette
in scena passioni umane smisurate e violente. Seneca apparirebbe dunque
costruire il suo dramma superando la notoria lotta manichea tra Bene e
Male (ratio e furor) poiché la nuova prospettiva del tragico è riconoscere che
il Male è un meccanismo che funziona perfettamente. L’universo tragico
senecano sembra disegnarsi dunque come un mondo parallelo dove ad
animare la scena sono i principia proludentia adfectibus2, ovvero le quasi‑
passioni simulate dagli attori, e dove il Logos sconfitto lascia il posto ad un
meccanismo comunque perfettamente razionale. Il Tieste senecano è un
dramma che esplora l’abisso della coscienza, si fa teatro dell’inferno, della
crudeltà e dell’assurdo, porta sulla scena lo spettacolo del ‘Male Assoluto’
senza redenzione: un’opera moderna e visionaria da confrontare, per tale
natura, con molte esperienze teatrali del Novecento.
Ci si soffermerà sulla oggettiva presenza in Tieste di una forte compo‑
nente visiva spettacolare e sull’assiduo ricorso all’espediente meta‑teatrale.
Gli elementi specificamente performativi del Tieste si muovono nella
direzione di quello che è già stato definito spettacolo della parola a cui
aggiungerei del Male Assoluto. Nelle tragedie di Seneca il dramma è tutto
nella parola, come afferma Eliot3, la parola senecana è il centro «è dramma
essa stessa e spettacolo, messaggio e commento, assolve a quel docere di chi
è si è proposto di iuvare alios, e promuove un movere espressionisticamente
proteso verso immagini suggestionanti»4 che sul versante del macabro, per
la necessità di rappresentare un mondo che viene sovvertito e rovesciato,
trasgrediscono il ben noto precetto oraziano per cui «non deve cuocere il
crudele Atreo umane viscere in pubblico».5
Il teatro come spectaculum, immenso specchio che deforma e moltiplica
le immagini dunque, un teatro della crudeltà lo avrebbe definito Antonin
Artaud, in cui la deissi ostensiva è insistente e spinge nella direzione di un
dire che fa vedere e verso una drammatizzazione oggi che potrebbe essere
pensata per grandi quadri scenografici. Dovere del saggio è di trasmettere
le verità afferrate traducendo in modo fedele la realtà compresa: il sapiente
dovrà trovare dunque un discorso capace di riprodurre le condizioni di
2
Sen. De ira. 2, 2.
3
ELIOT 1932, 65.
4
GAZICH 2000, 95‑96.
5
Hor. Ars. 1, 186 Ne […] humana palam coquat exta nefarius Atreus.
Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 309
6
Sen. Ep. 75, 1 si fieri posset, quid sentiam ostendere quam loqui mallem.
7
Sen. Ep. 94, 25 Quid prodest aperta monstrare? Plurimum.
8
Sen. Thy. 640 ocius effare.
9
Sen. Thy. 788 tamen videndum est. Tota patefient mala.
310 Marcella Petrucci
10
E. Hec. 1162.
11
Sen. Thy. 907 Miserum videre nolo, sed dum fit miser.
12
Sen. Thy. 152 vacuo gutture.
13
Sen. Thy. 157 patulis hiatibus.
14
Sen. Thy. 160 ora comprimit.
15
Sen. Thy. 160 obliquat oculos
16
Sen. Thy. 161 inclusis dentibus.
17
Sen. Thy. 151 stat lassus.
18
Sen. Thy. 165 irritas / exercere manus.
19
Sen. Thy. 172 fluctus ore petens.
20
Sen. Thy. 420 moveo nolentem gradum.
21
Sen. Thy. 436 labant.
22
Sen. Thy. 490 non dubio gradu.
23
Sen. Thy. 634‑635 metu corpus rigens / remittet artus.
24
Sen. Thy. 778‑779 lancinat natos pater / artusque mandit ore funesto suos; isolato in
incipit 911 Eructat.
25
Sen. Thy. 728‑729 truncus in pronum ruit / querulum cucurrit murmure incerto caput.
Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 311
Caro amico, sto leggendo Seneca; mi sembra una follia che sia possibile
confonderlo con il moralista di non so quale tiranno della decadenza […]
Chiunque sia questi mi sembra il maggior poeta tragico della storia, un
iniziato ai Misteri e che ha saputo trasfonderli in parola meglio di Eschilo.
Piango leggendo il suo teatro ispirato, e sotto la lettera delle sillabe sento
crepitare nel modo più atroce il ribollire trasparente delle forze del caos.
Non è possibile trovare nessun esempio scritto più efficace di tutte le
tragedie di Seneca per mostrare ciò che si può intendere per crudeltà in
teatro, soprattutto nei personaggi di Atreo e Tieste.
26
FUMAROLI 1975.
312 Marcella Petrucci
l’impunità per intercessione del cardinale Camillo. Travolto dal Male, però,
e per nulla proiettato verso la redenzione, il conte esulta per la morte di
due dei figli, violenta la figlia Beatrice da cui, con la complicità di alcuni
sicari, verrà assassinato. Colpisce la somiglianza fra i due drammi
soprattutto l’incipit e l’episodio del banchetto. Proviamo a leggere la scena
del banchetto ne I Cenci di Artaud; numerose sono le somiglianze sia nella
costruzione dell’episodio stesso, sia nel linguaggio. Siamo nella scena terza.
Il Conte Cenci, riuscito ad evitare il carcere per un omicidio, grazie
all’intervento del cardinale Camillo, ha organizzato un ricevimento nel
corso del quale dimostrerà la sua natura orrendamente votata alle forze del
Male: di fronte agli invitati esterrefatti annuncia la morte di due dei propri
figli disobbedienti e ribelli27. Le parole della figlia Beatrice, sgomenta e
incredula, sembrano riecheggiare quelle di Tieste che invoca le forze
cosmiche e le interroga su un delitto così efferato:
E di nuovo come Atreo chiede un brindisi con quel vino orrendo dal
sapore di sangue umano
CENCI: Chi può dunque impedirmi di credere che sto bevendo il sangue
dei miei figli?29
27
A. Artaud, I Cenci, Atto secondo, scena terza (in MARCHI 1993).
28
Sen. Thy. 789‑884.
29
Qui e sopra A. Artaud, I Cenci, Atto secondo, scena terza.
Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 313
ombrose e gli alti gioghi del monte attico nella Phaedra, la luna che sorge
mesta in Oedipus, gli spazi tenebrosi di Dite infernale e la profonda spelonca
del Tartaro in Agamemnon, prossimi al teatro e al cinema visionario del
Novecento30. E visionario fino alla follia fu Artaud.
Di fronte allo scempio di Atreo gli dei fuggono, dice Tieste. La natura
impallidisce, è rimasto solo un albero nudo. Sotto un albero secco e spoglio
Vladimiro ed Estragone attendono Godot. Pallescit omnis arbor ac nudus
stetit31 dice la Furia nel dialogo con l’ombra di Tantalo.
Forse anche nella tragedia di Seneca si attendeva Godot?
Bibliografia
ELIOT 1932 = T.S. Eliot, Seneca in Elisabethan Translation, in ID. Selected essays, London
1932.
FUMAROLI 1975 = M. Fumaroli, À propos d’Antonin Artaud et de Sénèque: tradition
cicéronienne, Actes du IX Congrès de l’Association G. Budé, vol. II, Paris 1975.
GAZICH 2000 = R. Gazich, Il potere e il furore: giornate di studio sulla tragedia di Seneca,
Brescia 2000, 95‑96.
MARCHI 1993 = G.Marchi, A. Artaud. I Cenci, Torino 1993.
NENCI 2002 = F. Nenci, Seneca. Tieste, Milano 2002.
30
Significativa è a tale proposito la Medea per la regia di Lars Von Trier andato in
onda per la tv danese nel 1988. Lars von Trier elimina il coro dalla scena e sposta
l’ambientazione dalla Grecia al paesaggio brumoso del nord Europa, con particolare
attenzione all’elemento acquatico. L’infanticidio viene realizzato con una conturbante
forza drammatica: la sequenza inizia con un’inquadratura spettrale; Medea trasporta
su un carro i due figli, come se stesse arando la terra, e raggiunge alla fine un albero
isolato al centro di uno sconfinato campo di grano, su cui splende una luna sinistra.
Ai due lunghi rami impiccherà i due bambini. Spettrale è anche l’albero di Tantalo nel
Tieste senecano.
31
Sen. Thy. 1110.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario:
damnatio memoriae di una tragedia fuori dagli schemi
1. Introduzione
Non più lontano del 1982, la Medea di Osidio Geta, dramma composto
assemblando emistichi virgiliani, veniva deliberatamente esclusa da
Shackleton Bailey dalla sua edizione teubneriana dell’Anthologia Latina
insieme all’intera silloge centonaria con cui essa è tràdita.
Opprobria litterarum, «vergogna della letteratura»: questa la definizione
– ormai celeberrima – con cui lo studioso nella Praefatio decretava la
condanna dei centoni virgiliani1.
Centones Vergiliani (Riese 7‑18), opprobria litterarum, neque ope critica multum
indigent neque is sum qui vati reverendo denuo haec edendo contumeliam imponere
sustineam.
1
SHACKLETON BAILEY 1982, iii.
316 Maria Teresa Galli
Tra tutti i centoni virgiliani a noi giunti, la Medea di Osidio Geta è l’unico
in forma di tragedia e il più antico2; secondo una testimonianza di
Tertulliano3 – l’unica, tra l’altro, che ci permette di ricostruire, seppure in
forma congetturale, il nome dell’autore – esso infatti risalirebbe circa al 200
d.C., mentre il culmine della produzione centonaria tardoantica si colloca
presumibilmente nel V secolo d.C.
Il segmento del mito riguardante la donna della Colchide che Osidio
Geta sviluppa nella sua opera non è dissimile da quello preso in
considerazione prima di lui da Euripide e da Seneca nei rispettivi drammi:
dall’abbandono di Medea da parte di Giasone fino alla conclusione della
vendetta compiuta dall’eroina, coronata dall’uccisione dei due figli. Nel
testo si distinguono delle parti caratterizzate da esametri interi, e altre
costituite invece da metà esametro, solitamente identificate le une come
scene e le altre come cori, per un totale di sette scene più il prologo e tre
cori.
Da un punto di vista strutturale, mentre non emergono particolari punti
di contatto con il testo euripideo, sono eclatanti le somiglianze con quello
senecano, in cui già il Burman4 identificò infatti il modello letterario seguito
dall’autore, pur con alcune differenze e innovazioni; su queste ultime non
ci si dilungherà in questa sede, ma si accennerà almeno al fatto che Geta
per esempio aggiunge dei personaggi non presenti in Seneca, quali il
2
Per una più ampia e dettagliata presentazione dell’opera si rinvia a SALANITRO
1981, LAMACCHIA 1981 e GALLI 2017. Per ulteriore bibliografia recente sui centoni
virgiliani, e pluribus si vedano BAŽIL 2009, PAOLUCCI 2015, AUDANO 2014, GALLI 2014.
Sull’Anthologia Latina si vedano i numerosi lavori di Loriano Zurli, tra cui ZURLI 2004,
2005 e 2010.
3
Praescr. 39, 3‑4: vides hodie ex Virgilio fabulam in totum aliam componi, materia
secundum versus et versibus secundum materiam concinnatis. Denique Hosidius Geta Medeam
tragoediam ex Virgilio plenissime exsuxit («vedi che oggi viene composto, (traendolo) da
Virgilio, un dramma totalmente diverso, essendo stata disposta la materia secondo i
versi, e i versi secondo la materia. In breve, Osidio Geta ha ricavato la tragedia Medea
interamente da Virgilio»).
4
Cf. BURMAN 1759, 149‑150.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 317
5
Aus. cento, praef.
6
MCGILL 2005, passim.
318 Maria Teresa Galli
7
Le citazioni e le relative traduzioni del testo di Osidio Geta sono tratte da GALLI
2017.
8
Verg. Aen. 7, 445. Le citazioni del testo dell’Eneide sono tratte da CONTE 2009,
mentre quelle delle Bucoliche e delle Georgiche da OTTAVIANO/CONTE 2013.
9
Verg. Geo. 4, 182.
10
Verg. Aen. 7, 421.
11
Per una raccolta e discussione di questi casi e di ulteriori esempi tratti da altri
centoni si rinvia a GALLI 2015.
12
Tert. praescr. 39, 4, 7.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 319
La critica nei confronti della tecnica centonaria non è esplicita, anche perché
non costituisce il focus del discorso, ma emerge chiaramente grazie al
paragone e grazie al contesto generale.
D’altra parte anche Ireneo in modo simile stigmatizza l’esegesi selettiva
degli Gnostici paragonandola ai centoni omerici13.
Il seme del rifiuto per i centoni sembra restare per così dire assopito nel
Medioevo, in cui pare tuttavia che la stessa parola cento in senso letterario
non venga più capita, tant’è che difficilmente si troveranno in quei secoli
degli esemplari definibili come centoni in senso stretto.
La prassi centonaria, e con essa l’avversione di molti nei suoi confronti,
rifiorisce invece nel Rinascimento14. Tra la fine del 1400 e soprattutto nel
1500, quando la questione della imitatio si ripropone per assumere talvolta
toni accesi, il termine ‘centone’ viene utilizzato dagli intellettuali con
un’accezione negativa, assai vicina al concetto di plagio. Prova ne è il fatto
che Michel de Montaigne (1533‑1592), che nelle proprie opere utilizza qua
e là frasi altrui, incastonate more centonario, negli Essais si sente in dovere
di specificare che a suo parere la pratica da demonizzare è il plagio, ovvero
la citazione ‘rubata’; non è scorretto invece a suo parere ricorrere a citazioni
di altri autori, purché si dichiari il proprio prestito. La critica contro l’abuso
dei verba altrui, sostiene Montaigne, non deve essere applicata dunque ai
suoi scritti, in cui egli incastona delle frasi ideate da altri per spiegare
meglio i concetti che vuole esprimere («de ma part il n’est rien qui ie vueille
moins faire. Ie ne dis les autres, sinon pour d’autant plus me dire»)15.
Si potrebbero aggiungere altri esempi16, ma questi cenni possono già
essere indicativi per spiegare l’attitudine negativa che si riscontra verso i
centoni tra il 1800 e il 1900 come una sorta di continuazione di un processo
già ben consolidatosi nei secoli precedenti. Nel contesto di tale quadro
diacronico collocheremo dunque le parole di Domenico Comparetti, che in
Virgilio nel Medio Evo sostenne che «l’idea di questi Centoni poteva nascere
soltanto fra gente, che avendo meccanicamente appreso Virgilio, non
sapeva qual migliore utilità ricavare da tutti quei versi di cui si era
ingombrata la mente.»17
13
Iren. adv. Haer. 1, 9, 4; cf. 2, 2, 14.
14
Sui centoni rinascimentali si vedano i numerosi contributi di G. Hugo Tucker, tra
cui TUCKER 1977.
15
MONTAIGNE 1595, 81.
16
Si veda per es. lo scarso entusiasmo nei confronti del centone di Proba che
traspare dalle parole di Erasmo da Rotterdam in una sua lettera al Canter: cf. ALLEN
1906, 127: Quod ubi lectitare coepi, simulque Probae esse comperi, non me magnopere cepit.
17
COMPARETTI 1937, 64‑65.
320 Maria Teresa Galli
18
PASQUALI 1951, 12.
19
DESBORDES 1979, 88.
20
Negli anni ’80, un nuovo impulso agli studi della Medea di Geta venne dato
dall’uscita delle edizioni di Rosa Lamacchia (LAMACCHIA 1981) e di Giovanni Salanitro
(SALANITRO 1981).
21
GALLI 2017, 427 (appendice 12).
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 321
22
HARDIE 2007.
La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 323
Bibliografia
ALLEN 1906 = P.S. Allen, Opus epistolarum des Erasmi Roterodami, 1484‑1514, vol. I,
Oxford 1906.
AUDANO 2014 = S. Audano, Intrecci teologici e tecnica centonaria: per l’esegesi della
sequenza del Descensus Christi ad inferos (vv. 51‑67) nel centone De ecclesia (AL
16 R2), in M.T. Galli, G. Moretti (edd.), Sparsa colligere et integrare lacerata. Centoni,
pastiches e la tradizione greco‑latina del reimpiego testuale, Trento 2014.
BAŽIL 2009 = M. Bažil, Centones Christiani: Métamorphoses d’une forme intertextuelle
dans la poésie latine chrétienne de l’Antiquité tardive, Paris 2009.
BURMAN 1759 = P. Burman, Anthologia Veterum Epigrammatum et Poematum, vol. I,
Amstelodami 1759.
COMPARETTI 1937 = D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, vol. I, Firenze 1937.
CONTE 2009 = G.B. CONTE, P. Vergilius Maro. Aeneis, Berolini/Novi Eboraci 2009.
DESBORDES 1979 = F. Desbordes, Argonautica. Trois études sur l’imitation dans la
littérature antique, Bruxelles 1979.
GALLI 2014 = M.T. Galli, I Vergiliocentones minores del codice Salmasiano, Firenze
2014.
GALLI 2015 = M.T. Galli, Divergenze tra il testo tràdito centonario e quello dell’ipotesto
nei Vergiliocentones del codice Salmasiano. Alcune riflessioni metodologiche,
“MAIA” 671 (2015), 124‑137.
GALLI 2017 = M.T. Galli, Hosidius Geta. Medea, Göttingen 2017.
GREEN 1991 = R.P.H. Green, The Works of Ausonius, Oxford 1991.
HARDIE 2007 = P.R. Hardie, Polyphony or Babel? Hosidius Geta’s Medea and the poetics
of the cento, in S. Swain, S. Harrison, J. Elsner (edd.), Severan Culture, Cambridge
University Press 2007, 168‑176.
LAMACCHIA 1981 = R. Lamacchia, Hosidius Geta. Medea: Cento Vergilianus, Leipzig
1981.
MCGILL 2005 = S. McGill, Virgil recomposed. The Mythological and Secular Centos in
Antiquity, Oxford/New York 2005.
MONTAIGNE 1595 = M. de Montaigne, Les essais de Michel Seigneur de Montaigne,
édition nouvelle trouvée après le déceds de l’autheur, reveüe et argumentée par luy d’un
tiers plus qu’aux précédentes impressions, Paris 1595.
324 Maria Teresa Galli
Dopo Seneca e prima del dramma Neo‑Latino sono state scritte alcune
opere non più destinate al teatro, almeno nella sua forma tradizionale. Sono
una serie di testi soprattutto del III o del IV secolo d.C., il cui genere
letterario non è chiaro. Questo succede perché all’epoca il fenomeno del
sincretismo, cioè il mischiare generi letterali diversi, era quasi la regola.
Queste poesie sono in forma di epyllion, cioè un poema dai 100 ai 1000 versi,
che trae il suo soggetto dalla mitologia e dai cicli epici, con particolare
interesse per le storie d’amore e per i crimini.
Dato che molti di questi poemi contengono gli ingredienti base della
tragedia, negli ultimi anni c’è stato un tentativo di ridefinire il loro genere.
Analiticamente si trova una lista dei personaggi drammatici, l’azione viene
completata in un giorno e addirittura la moralità, la passione, la miseri‑
cordia, la paura e la catarsi sono più che evidenti. La scuola italiana ritiene
che non siano stati scritti solo per la lettura, ma anche per la rappresen‑
tazione: appartengono, cioè, alla pantomima tragica1, che si presentava
come uno spettacolo durante cene e banchetti (poetici apud mensam) in cui
un narratore leggeva il poema e gli attori‑danzatori recitavano ogni
avvenimento (dromenon) con movimenti specifici.
Queste opere riassumono una tragedia greca o anche un’intera trilogia
e come tali sono state caratterizzate dagli studiosi tedeschi come «drammi
di recitazione in miniatura»2. Vorrei introdurre il termine più semplice di
«tragedia‑miniatura» come le opere di Seneca, che sono state destinate alla
recitazione pubblica e si caratterizzano come tragedie senza esserlo. Inoltre,
esiste anche il termine “epico‑miniatura” o “poesia epica in miniatura”3,
con l’esempio più accentuato l’opera Ilias Latina, che aspira a riassumere
l’Iliade di Omero4.
1
Cf. GIANOTTI 1991, 144; BURLANDO 2000, 17‑25; SALANITRO 2007, 71‑76.
2
SCHETTER 1986, 127‑128 (= 1994, 182‑183): «Rezitationsdrama en miniature» e
«Theatralishce Wirkung»; cf. GIANOTTI 1991, 144‑145.
3
Si veda WASYL 2011.
4
Cf. SCAFFAI 1997.
326 Dimitris Mantzilas
5
Le più importanti edizioni appartengono a MARCOVICH 1988, NOSARTI 1992 e
NOCCHI MACEDO 2014. Per una bibliografia addizionale e un’analisi del testo, si veda
MANTZILAS 2011, 61‑90.
6
La prima edizione (Editio princeps) è stata realizzata dal papirologo catalano ROCA‑
PUIG 1982.
7
È frequentemente confusa con la prosopopoeia, cioè il discorso retorico pronunciato
da relatori impersonali e con la eidolopoeia, cioè il discorso retorico pronunciato da un
defunto. Per questi termini retorici, si veda LAUSBERG 1998.
8
È il termine usato da PARSONS/NISBET/HUTCHINSON, 1983, 31‑33.
9
Questa è l’opinione di LEBEK 1989, 19‑26, accettata anche da GIANOTTI 1991, 142,
che lo caratterizza come «poemetto mitologico».
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 327
10
Si veda CRIBIORE 2001, 230.
11
Per informazioni addizionali, si veda BRIGHT 1984, 79‑90; MCGILL 2005; BAžIL
2009; PRIETO DOMÍNGUEZ 2010; GALLI, MORETTI 2014. Sedici testi sono sopravvissuti
(la metà di loro sono anonimi), scritti tra il 200 e il 534 a.C., di cui sette hanno contenuto
mitologico, cinque secolare e quattro cristiano.
12
Prop. 4, 11, 95. LECHI 1984, 18‑28, rileva nell’Alcestis Barcinonensis l’accoppiamento
tra la moralità aristocratica di Properzio e la passione erotica di Euripide; cf. PADUANO
1958, 21‑28; REITZENSTEIN 1969, 126‑145. Cornelia è ritratta come una bella donna, ma
Alcesti è considerata simile a una dea.
328 Dimitris Mantzilas
potrà alleviarla dal dolore delle vedove e soprattutto sarà la prova della
sua pietà (pietas) nei confronti della patria, della religione e della famiglia;
pietà che si presenta come un valore puramente romano e che costituisce il
motivo di lettura (leit‑motiv) di tutto il carme. Alcesti sarà una meritevole
moglie per Admeto: infatti preparerà il suo funerale, dando ordini chiari
ai suoi servitori. Inoltre, gli darà la sua benedizione per trovare una nuova
moglie e avere dei figli, purché lui continui ad amare i suoi due figli, ad
adornare la sua tomba con le rose ed abbracciare la sua urna con amore;
altrimenti lei – come fantasma – lo spaventerà durante la notte, nel sonno.
Tutti questi motivi sono sconosciuti al pubblico greco, ma intimi a quello
romano attraverso la poesia elegiaca, gli elogi per le donne (laudationes
mulierum), le iscrizioni funerarie e la religione romana privata, riflettendo
praticamente le pratiche della società romana. Il poemetto finisce
drammaticamente con la morte lenta e dolorosa dell’eroina e le ultime
parole che scambia con il marito sul letto di morte, mentre sta per trovare
la beatitudine eterna. È una transizione dalla vita alla morte e dalla luce
all’oscurità.
Il poeta anonimo omette alcuni elementi del mito consolidato e ne
introduce altri.
Gli elementi mancanti sono:
a) Il motivo fiabesco della bella principessa, dove i giovani che vogliono
sposarla devono passare tre prove imposte dal padre (qui Pelia per dare in
sposa Alcesti),
b) la storia d’amore tra Admeto e Apollo, quando il primo lavora come
pastore, sotto la supervisione del secondo, perché punito per un omicidio
che aveva commesso,
c) l’insulto ad Artemide, che Admeto aveva dimenticato di comme‑
morare il giorno del suo matrimonio ed altri elementi ancora.
La differenza principale con la tragedia di Euripide, è che Ercole,
compagno di Admeto durante la campagna degli Argonauti, combatte con
il Dio Thanatos e riporta Alcesti al mondo superiore.
Il bardo anonimo evita il lieto fine (che troviamo anche in altre tragedie,
vale a dire nell’Ifigenia in Tauride, nello Ione e nell’Elena), per il quale
avevano accusato Euripide già dall’antichità. Ricordiamo che l’Alcesti è stata
presentata al posto di un dramma satiresco, cioè subito dopo una trilogia
e persino senza un unico tema. Così a volte è stata indicata con numerosi
termini dispregiativi come «pseudo‑dramma», «tragicommedia», «comme‑
dia tragica», «quasi tragedia», «opera pre‑satirica» ecc.13. Dunque il poeta
13
Si veda DALE 1954, xviii; SUTTON 1973, 384‑391; PARKER 2007, 19‑24.
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 329
romano, volendo superare Euripide, non volle però rompere con il tradi‑
zionale esito nefasto proprio di ogni tragedia.
Allo stesso tempo presenta Alcesti non come un’eroina mitologica greca,
ma come una matrona romana, con le caratteristiche che la governano,
come esse sono note da varie fonti: lei supporta il marito, l’unico uomo che
sposa nella sua vita (è l’ideale dell’univira), ama i suoi figli, è onesta, leale,
modesta, buona casalinga, bella ma non provocante, dirige la casa e,
soprattutto, pia come abbiamo già detto.
Il carme ha una struttura composta da dodici blocchi (o passaggi),
suddiviso in cinque parti (2 + 2 + 3 + 3 + 2)14, di dimensioni variabili da sette
a tredici versi. Ci sono anche cinque personaggi‑ruoli15, come è indicato
nelle notae personarum scritte a margine del papiro (APOLLO, ADMET[US],
PAT[ER], MATER, Alcesti bis), insieme a quella del narratore (POET[A])16.
I personaggi sono Admeto, re di Fere in Tessaglia, la moglie Alcesti, il padre
Ferete, la madre Climene e il suo protettore il dio Apollo17. In verità non
c’è alcuna menzione effettiva del nome dei genitori18, mentre Alcesti è
menzionata solo una volta con il suo nome e una volta con il suo patroni‑
mico19.
Per alcuni studiosi, principalmente italiani, questa è una forte evidenza
che il poema era stato composto per potenziali scopi scenici, che essi
definiscono come una tragica pantomima20, un genere di prestazione. Si
14
MARCOVICH 1988, 4‑5: A. Il prologo in forma di dialogo tra Admeto e Apollo (1‑
20, 2 blocchi), B. Il dialogo (diverbium) tra Admeto e Ferete (21‑42, 2 blocchi), C. La
rhesis di Climene (42‑70, 3 blocchi), D. L’anti‑rhesis (71‑103, 3 blocchi) di Alcesti, E.
L’ultimo giorno e la morte di Alcesti (102‑124, 2 blocchi). Le Parti C e D formano l’Agon
tra Climene e Alcesti. Per la struttura del carme, si veda anche ZEHNACHER 1998, 361;
SCHÄUBLIN 1984, 175.
15
LEBEK 1989, 20, n. 4. Per ulteriori dettagli sulla presenza di questi eroi nella
mitologia, si veda GRIMAL 1951, 10‑11, s.v. Admète; 25, s.v. Alceste; 366, s.v. Phérès.
16
SMOLAK 1993, 290, la tratta come un’aggiunta errata nelle sezioni narrative. Su
questo argomento, si veda GIANOTTI, 1995, 271‑283, che spiega come questo siglum è
stato attribuito dal primo editore al narratore, ma in seguito altri editori attribuiscono
i due testi contenenti «Poeta» all’argomentazione di Climene. Non siamo d’accordo,
come è ovvio, c’è un narratore nascosto sotto la persona narrativa di vates, il cui nome
non viene mai rivelato.
17
Una differenza importante rispetto alla tragedia euripidea è che Apollo e
Thanatos hanno un ruolo nella trama, mentre Climene è assolutamente assente.
18
GIANOTTI 1991, 144. Per quanto riguarda Climene, il suo nome è frequentemente
scritto come Periclimene.
19
Alc. Barc. 71 Peleia; 107 Alcestis.
20
Cf. Juv. 6, 652‑654, che menziona la presenza di Alcesti in pantomima.
330 Dimitris Mantzilas
21
Cf. GIANOTTI 1991, 144.
22
Accius (57 R², un verso rimane) ap. Priscian. p. 165 RIBBECK.
23
Juv. 6, 63‑66.
24
Laev. 7‑9 TRAGLIA ap. Gell. 19, 7‑8; cf. PASTORE POLZONETTI 1985, 59‑77;
MANTZILAS 2013, 53‑89.
25
Cf. Plut. Quaest. Conv. 7, 8, 711a‑713; Gell. 19, 7, 2 sq.
26
Luc. De salt. 52.
27
In generale, gli studiosi italiani condividono lo stesso parere e cioè che Alcestis
Barcinonensis e Alcesta (vedi sotto) sono state tragedie o pantomime scritte per essere
rappresentate; cf. BURLANDO 2000, 17‑25, che descrive un moderno adattamento
teatrale a Firenze; SALANITRO 2007b, 71‑76, che cita e segue l’opinione di GIANOTTI; cf.
LÓPEZ SILVA 2011. Lui condivide lo stesso parere che sia una pantomima. Un lavoro
importante del genere popolare di pantomima è quello di HALL/WYLEs 2008.
28
Codex Parisinus Latinus 10318 (Salmasianus). Due importanti edizioni sono
quelle di SALANITRO 2007a e di PAOLUCCI 2015.
29
MCGILL 2005, 88‑89, LINGUANTI 2013, 227‑256, PAOLUCCI 2014a, 11‑48 e WAsYL
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 331
2018, confrontano le opere Alcesta e Alcestis Barcinonensis a tutti i livelli. Per il suo
«genus mixtum», si veda PAOLUCCI 2014b, 49‑66.
30
La prima edizione è stata fatta nel 1858 da MüLLER in Rudolstadt. Il titolo è dato,
senza nome di poeta, dal codice B (Bernensis Bongarsianus 45), del IX secolo. Un altro
titolo, Horestis fabula, è dato dal codice A (Ambrosianus O 74 sup.) del XV o XVI secolo.
Lo studioso (e poi cardinale) ANGELO MAI, 1871, 12‑17, basandosi su elementi
linguistici e morali, ha identificato Draconzio come creatore dell’opera, basandosi
anche sulle stupefacenti somiglianze con le restanti opere sopravvissute. L’edizione
più recente è stata fatta da GRILLONE 2008.
31
Cf. WASYL 2011, 254 sq., che non riesce a definire il suo genere letterario e parla
di «non‑genere».
32
Questa é l’opinione di BOUQUET/WOLFF 1995, 37‑45.
33
È l’opinione di GALLI MILIĆ 2010, 191, basata sul fatto che circa il 50% della
narrazione è viva grazie al discorso diretto, un’osservazione che aveva già fatto
QUARTIROLI 1947, 30.
34
Cf. BRIGHT 1987, 203; invece STOEHR‑MONJOU 2009, 1‑20, argomenta che
Draconzio rifiuta ogni connessione del suo poema con la tragedia.
35
Cf. TRILLITZSCH 1981, 268‑274.
332 Dimitris Mantzilas
secondo livello di tutte le tragedie greche che sono ereditate dai miti del
ciclo argolico.
Come una «tragedia‑miniatura», quest’opera concentra la trilogia Orestea
(Agamennone, Coefore, Eumenidi) di Eschilo in 874 esametri (cioè la metrica
dell’epos), aggiungendo alcuni episodi dall’Elettra di Sofocle, così come tre
tragedie di Euripide (Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride e Oreste), oltre ad
elementi tratti da altri poeti romani (soprattutto Ovidio, Lucano, Stazio,
Giovenale e Virgilio).
È stato sostenuto36 che grazie a Seneca, che ha eliminato l’esagerazione
delle persone drammatiche di Eschilo e ha introdotto l’analisi morale e
psicologica, il mito si è diffuso fino ai giorni di Draconzio, il quale diede ai
personaggi dimensioni più umane, scrivendo un dramma appassionato.
Tuttavia, altre due tragedie erano state scritte: Egisto di Livio Andronico e
Clitennestra di Lucio Accio37, che dovrebbero averlo influenzato in larga
misura.
Il suo scopo38 sembra essere la presentazione in una singola forma
integrata del mito di Oreste, concentrando in un’opera tutti gli episodi
autonomi che rispondono alla vecchia tradizione. Inoltre, Draconzio
introduce nella sua narrazione rilassata i suoi episodi: delle peripezie
fantastiche39 che sarebbero più adatte in un romanzo che in un epyllion o
tragedia. Si tratta di toccanti episodi inter familiari, dove il mito passa ad
un secondo piano e sono piuttosto sottolineati la passione, l’emozione ed i
conflitti.
I più caratteristici sono l’incontro fra Ifigenia e Agamennone al tempio
di Artemide in Tauride e la narrazione del naufragio di Oreste al suo
insegnante Dorilas, una persona che appare anche in un’altra scena
fondamentale: nel sonno di Oreste e di Pilade allo stesso tempo, allo scopo
di far vendicare l’uccisione di Agamennone.
L’opera, quindi, è costituita da autonome scene quasi consecutive40 in
cui sono mescolati elementi retorici e momenti drammatici in tonalità e
sfumature diverse. L’obiettivo finale è quello di scrivere un’opera più
accattivante e più breve di quella di Eschilo, seguendone tuttavia le linee
base: l’assassinio di Agamennone, il matricidio di Oreste, la follia del
protagonista e il processo presso la Corte Suprema all’Areopago. Ma ci
36
Cf. BOUQUET 1989, 43‑59.
37
Cf. STACKMANN 1949, 180‑221.
38
Cf. QUARTIROLI 1947, 28.
39
È il termine introdotto da BOUQUET/WOLFF 1995, 30: «Péripéties romanesques».
40
Cf. BOUQUET/WOLFF 1995, 42: «Tableaux juxtaposés».
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 333
41
Verg. Aen. 3, 330‑332; cf. Hyg. Fab. 123.
42
E. IT. 800‑840.
43
Su questo tema, si veda BOUQUET/WOLFF 1995, 43‑45.
44
Radicalmente diversa è stata l’immagine data da Levio nella sua opera
Erotopaegnia, da cui vengono salvati solo 100 testi. Lì, diversi personaggi di mitologia,
anche i più seri, si presentavano con un umorismo giocoso e sessuale; si veda
MANTZILAS 2013, 53‑89.
45
Per ulteriori informazioni, si veda BOUQUET/WOLFF 1995, 37‑46.
334 Dimitris Mantzilas
46
Cf. BIONDI 1989, 37‑41.
47
Si veda MANTZILAs 2017, 9‑46.
48
È l’opinione di GASCARD 1993, di VEGA VEGA 2005, 537‑544 e di altri ricercatori.
Medea ha smesso di essere una semplice donna ed è diventata una strega spietata, ma
anche un uccisore‑mostro, quando uccide i suoi figli, che simboleggiavano la sua
femminilità.
49
Il primo a vedere, nella sua trasformazione, qualcosa di più di una mutazione
naturale fu ANDERSON 1963, 1‑27. GALINSKY 1975, 210‑217, ha aggiunto un’altra
dimensione, quella della trasformazione psicologica. Molto interessante è l’analisi di
ROSNER‑SIEGEL 1982, 231‑243, che descrive in dettaglio l’evoluzione (e la depressione
mentale) dell’eroina; cf. anche la contribuzione di WASYL 2007, 81‑99.
50
Edizioni di SALANITRO 1981; LAMACCHIA 1981; WOLFF 2006; GASTI 2016; GALLI
2017; cf. i vari contributi di DANI 1950, 75‑78; SALANITRO 1997, 2314‑2360; MCGILL
2001–2002, 143‑161; MCGILL 2005, 31‑52; HARDIE 2007; RONDHOLZ 2012.
51
Se l’ipotesi che l’Alcestis Barcinonensis sia stata scritta in Egitto è corretta, è il terzo
caso (insieme a quello di Draconzio) di poesie di simile stile non ortodosso e
multiformato scritto nel continente africano, dove le facoltà retoriche fiorivano in centri
come Alessandria e Cartagine. Per le somiglianze tra la Medea di Osidio Geta ed il
cento Alcesta, si veda PAOLUCCI 2014c, 165‑170.
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 335
52
Tert. Praescr. Haeret. 39.
53
Codex Salmasianus Parisinus 10318 (AL 17 R).
54
Invece del trimetro giambico utilizzato dalla tragedia romana, alternato a varie
metriche liriche (nei canti corali).
55
SALANITRO 1984, 321‑327.
56
Si veda la critica fortemente negativa di KRÖLL 1913, col. 2489, s. v. Hosidius.
57
Come tale la caratterizza DANE 1950, 75, che segue MOONEY 1919.
58
È il termine di MCGILL 2005, 46: «Triangulated intertextuality».
59
Le assunzioni dalle Metamorfosi di Ovidio sono evidenti. C’è un sospetto valido
che Osidio Geta abbia copiato in gran parte la perduta Medea di Ovidio.
60
Cf. ANDRÉ 1966.
336 Dimitris Mantzilas
C’è anche un testo greco antico simile61, più vecchio dei corrispondenti
latini di datazione incerta (tra il IV e il II secolo a.C.), che si concentra sulla
maggior parte del primo episodio (446‑637) della tragedia Le Fenicie di
Euripide. Si trova nella parte posteriore (verso) di un papiro di Ossirinco.
Si tratta dell’Agon retorico tra Eteocle e Polinice, che si trovano in
disaccordo davanti alla madre Giocasta, che – assumendo il ruolo di arbitro
– cerca di dare un verdetto e soprattutto di evitare il fratricidio imminente.
Il genere di questo poema, scritto in trimetri giambici, è difficile da
determinare. Potrebbe essere un esercizio di scuola62 o un tentativo di un
poeta esperto63 o anche di un poetastro64 che ha voluto scrivere qualcosa
di diverso da Euripide, anche se si differenzia dalla tragedia greca solo nei
dettagli (es: Polinice dà la sua spada a Giocasta, promette che rispetterà il
suo verdetto e si rivolge a Eteocle con il suo nome, elementi mancanti in
Euripide). I giudizi dei filologi sono contraddittori sul tema: potrebbe
trattarsi di un episodio di una tragedia perduta65, forse l’Edipodia di Meleto,
il padre del famoso accusatore di Socrate’66; il poema contiene persone che
dialogano e non un narratore, proprio come i poemi discussi in precedenza.
Da quello che abbiamo visto è evidente che i poeti del periodo tardo
antico hanno cercato di adattare la tradizione letteraria e mitologica alle
nuove circostanze del loro tempo, trasformando i miti classici, stabiliti
secoli fa, in condizioni sociali, politiche e culturali differenti e con
l’introduzione di nuovi elementi, per renderli più attraenti e familiari ad
un nuovo pubblico di lettori/uditori.
Nessuno di questi lavori ha raggiunto il livello delle opere originali, ma
il tentativo di rinnovarli dà loro un valore letterario in misura variabile.
L’unica cosa certa è che la mitologia rimane affascinante ed è stata un punto
di riferimento non solo per gli scrittori di tragedie o di “tragedie‑minia‑
ture”, ma in generale per la maggior parte degli scrittori.
61
Prima edizione da NORSA/VITELLI 1935, 14‑16, poi unita con i Papyri della Società
Italiana (PSI 1303 = TrGF Ad. F 665 KANNICHT/SNELL); cf. NORSA 1949, 57‑60; MEDDA
2007, 13‑18, che riassume la ricerca filologica.
62
Cf. NORSA/VITELLI 1935, 14‑15; NORSA 1949, 60.
63
È l’opinione di GARZYA 1952, 389‑398 (= 1997, 335‑346).
64
Questo è supportato da KANNICHT/SNELL 1981, 252: «nos quidem versificatorem
potius quam poetam audimus»; cf. KANNICHT ET AL. 1991, 264‑267.
65
Cf. PAGE 1942, 172‑181, che pensa sia parte di una tragedia perduta.
66
Cf. TrGF 48 F 1. L’identificazione appartiene a WEBSTER 1954, 297‑298. Lo segue
con cautela XANTHAKIS‑KARAMANOS 1997, 1038‑1039.
Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 337
Bibliografia
Prolegomena
ENRICO V. MALTESE IX
Prefazione
FRANCESCO CARPANELLI XI
Introduction
LUCA AUSTA XIII