Jacques Brosse Mitologia Degli Alberi

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Fin dall'origine il destino degli uomini fu associato a quello degli

alberi con legami differenti stretti e forti che è lecito chiedersi


che cosa ne sarà di un'umanità che li ha brutalmente spezzati.

Quando si studiano le religioni del passato, in quasi tutte si


incontrano esempi di culto reso ad alberi che venivano
considerati sacri, e in particolare al più venerato di essi, l'Albero
Cosmico. Questo rappresentava il pilastro centrale, l'asse intorno
al quale si organizzava l'universo, naturale e sovrannaturale,
fisico e metafisico. Gli alberi erano gli agenti privilegiati della
comunicazione fra i tre mondi - gli abissi inferi, la superficie della
terra e il cielo - e inoltre costituivano le manifestazioni per
eccellenza della presenza divina (Nota di Lunaria: vedi anche
Uberto Pestalozza, "Nuovi saggi di religione mediterranea",
dove parla dei miti legati alla nascita degli eroi nei tronchi degli
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alberi. Inoltre gli stessi ebrei ammettono che il loro dio si è
manifestato nel roveto!)

Nel più lontano passato, molto prima che l'uomo facesse la sua
comparsa sulla terra, un albero gigantesco s'innalzava fino al
cielo. Asse dell'universo, attraversava i tre mondi. Le sue radici
affondavano fin negli abissi sotterranei, i suoi rami arrivavano
all'empireo. L'acqua attinta dalla terra diventava la sua linfa, dai
raggi del sole nascevano le sue foglie, i suoi fiori e i suoi frutti.
Attraverso di lui, il fuoco scendeva dal cielo, la sua cima,
raccogliendo le nuvole, faceva cadere le piogge fecondatrici. Con
la sua verticalità, l'albero assicurava il nesso tra l'universo
uraniano e i baratri ctoni. In lui il cosmo si rigenerava in perpetuo.
Fonte di ogni vita, l'albero dava riparo e nutrimento a migliaia di
esseri. Tra le sue radici strisciavano i serpenti, gli uccelli si
posavano sui suoi rami. Anche gli Dei lo sceglievano per
soggiornarvi. Ritroviamo quest'albero cosmico in tutte quasi le
tradizioni, da un capo all'altro del pianeta, ed è lecito supporre
che sia esistito dappertutto, anche là dove la sua immagine è
cancellata.

Nell'Edda, Snorri Sturluson, scrittore islandese nato nel 1178 e


morto nel 1241, fornisce una celebre descrizione del gigantesco
frassino Yggdrasill, asse e sostegno del mondo.

Secondo alcune leggende, gli uomini sono nati dagli alberi e dalle
pietre. Questa associazione dell'albero primordiale alla pietra
sacra (menhir, bethel, omphalos, lingam) è corrente nella
maggior parte delle tradizioni. Entrambi questi elementi erano
considerati "serbatoi di spiriti" disponibili a incarnarsi,
potenzialità di esistenze. Come osserva Jean-Paul Roux, la pietra,
uguale a se stessa "da quando i più antichi progenitori l'hanno
eretta o hanno inciso su di lei i loro messaggi, è eterna, è il
simbolo della vita statica, mentre l'albero, soggetto a cicli di vita
e di morte, ma dotato del dono incredibile della perpetua
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rigenerazione, è il simbolo della vita dinamica."
è questa una struttura cosmica dualistica, di cui troviamo traccia
ancora oggi tra i Berberi:

"L'unione delle due anime, principi essenziali della persona


umana, è rappresentata dalla coppia albero-roccia. Il primo
rappresenta il principio femminile, la seconda il principio
maschile. Nelle tradizioni popolari, l'albero fornisce ombra e
umidità a nefs, l'anima vegetativa, ma soprattutto è sostegno di
rruh, l'anima sottile che viene a posarvisi come un uccello. Nefs è
presente nella roccia o nella pietra. Le sorgenti che scaturiscono
dalle pietre non sono che il simbolo della fecondità venuta dal
mondo sotterraneo."

(Nota di Lunaria: per saperne di più sull'adorazione dei sassi, la


litolatria, vedi Mircea Eliade "Trattato di storia delle religioni")

Tracce del culto reso alla coppia albero-pietra si possono altresì


scorgere nel più remoto passato. In un articolo pubblicato nel
1901, Sir Arthur Evans, che effettuò gli scavi di Cnosso, faceva
notare che il culto era passato da Creta alla Grecia, per esempio
ad Atene, dove erano onorati insieme una colonna e l'ulivo sacro
di Atena. A tali consuetudini alludono Omero ed Esiodo.
Le credenze relative al frassino cosmico si sono mantenute a
lungo anche presso i Germani in epoca storica. Per loro l'universo
era sostenuto da un albero gigantesco. Alcune tribù erigevano
sulle alture pilastri costituiti dal tronco di un albero molto
grande.
Irminsul, il pilastro cosmico che secondo i Sassoni reggeva la
volta celeste, fu distrutto nel 772 da Carlo Magno.

Nella mitologia greca, il frassino era consacrato a Poseidone, la


quercia a Zeus.

Nell'Egitto dei Faraoni, dove gli alberi erano rarissimi, gli Dei
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troneggivano a levante sull'alto sicomoro sacro, il cui legno li
conteneva e costituiva la loro alimentazione. Nella direzione
opposta, a ponente, al limite del deserto, aveva sede la "Signora
del sicomoro", Hathor, che aveva creato il mondo e tutto ciò che
esso contiene, compreso il sole. Estremamente
compassionevole, emergeva dal fogliame dell'albero per
accogliere coloro che erano appena morti, offrendo loro acqua e
pane in segno di benvenuto. Sui rami del sicomoro venivano a
posarsi le anime, sotto forma di uccelli, e il legno imputrescibile
dell'albero serviva quale ultima dimora ai corpi mummificati.
Attraverso l'albero sacro, le anime tornavano in seno al mondo
divino delle essenze eterne che avevano abbandonato solo per la
durata di una vita.

Nella mitologia cinese, il gelso (Kong-sang) era la residenza della


Madre dei Soli, dal quale si innalzava al mattino il nostro sole. Il
gelso sacro era considerato ermafrodito, precedente alla
divisione dello Yang e dello Yin, del maschio e della femmina, del
chiaro e dello scuro, del cielo e della terra. Simboleggiava lo
stesso Tao, l'ordine cosmico, il Principio Universale.
Una foresta di gelsi sacri si ergeva davanti alla porta est della
capitale imperiale.

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Edera e vite, benché lignee hanno bisogno di un supporto. Si
innalzano sugli alberi intorno ai quali avvolgono i loro sarmenti
volubili. L'edera cresce in un primo tempo sulla terra, la Madre
Terra, della quale sembra l'emanazione e che copre anche
d'inverno con le sue foglie coriacee, fino a quando incontra il
tronco di un albero lungo il quale s'innalza a spirale. Può
compromettere la vita del suo sostegno, che essa soffoca poco a
poco, fino a farlo morire. L'edera è la pianta prediletta da
Dioniso. Il dio veniva spesso chiamato "l'Incoronato di edera" o
anche Kissòs, "l'edera". Questa liana l'aveva salvato due volte a
Cadmo. Poco dopo la sua nascita le ninfe lo immersero nella
fonte Kissusa, "dell'edera", ed è sul monte Elicona (hélix, è un
altro nome dell'edera) che venne allevato. L'edera dà i frutti
proprio all'inizio della primavera, molto prima che appaiano i
primi germogli della vite, e quei frutti sono cibo per gli uccelli.
Agli antichi, l'edera ricordava il serpente, potenza ctonia per
eccellenza. Nel culto dionisiaco c'era perfino l'equivalenza tra
pianta e i serpenti che ornavano la capigliatura delle Menadi, e
che queste tenevano con le mani come è attestato dall'aneddoto
riferito da Nonno di Panopoli: "I serpenti gettati da alcune
Menadi contro un ceppo lo avvolsero e si trasformarono in
sarmenti di edera". Alle compagne del dio essi non servivano
solo per decorazione: li strappavano per cibarsene.
In epoca classica si contrapponeva la freschezza umida
dell'edera al carattere igneo del vino, del quale si riteneva che
potesse dissipare i vapori. è questo il motivo per cui a Dioniso
stesso si attribuiva il merito di aver insegnato a coloro che sono
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soggetti ai "furori bacchici" di farsene delle corone durante i
banchetti.

Nelle mitologie europee esistono ancora tracce di uno stretto


legame tra l'edera e il fulmine divino. I Lituani chiamavano
l'edera "Perkunas", dal nome del dio del fulmine, che le antiche
cronache paragonano a Zeus. Anche i Germani consideravano
l'edera consacrata a Donar, dio del tuono e figlio della Dea Jord,

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la Terra.

Da "Il libro delle piante magiche" di Caterina Kolosimo

Il noto rampicante ha spesso una vita assai lunga e raggiunge


notevoli dimensioni, ricoprendo a volte le facciate di interi
palazzi, capace com'è di abbarbicarsi tenacemente ad ogni
appiglio per proseguire la sua corsa verso l'alto. Proprio per
questo è da secoli simbolo di longevità, di amore tenace, di
fedeltà.
Nel campo della magia, alcune popolazioni ritenevano che tra le
sue foglie si nascondessero folletti maligni, mentre altre erano
convinte, di contro, che una casa protetta dall'edera tenesse
lontano le forze del male.
Per lungo tempo la pianta venne usata a scopo divinatorio: la
notte di san Silvestro si poneva una foglia in un recipiente colmo
di acqua, lasciandovela per dodici notti. Se restava fresca (cosa
assai facile), l'anno a venire sarebbe stato fortunato: se
appassiva, era il caso di non attendersi mesi troppo favorevoli.
Contro l'emicrania la strega-scrittrice anglo-americana Sybil Leek
consiglia: "Tagliate il ramo di un'edera che cresca accanto a una
statua, fatevene una coroncina e mettetevela sul capo. Se la
cefalea è persistente, sarà meglio effettuare l'operazione in
tempo di Luna calante. Applicata anche ad altre piante, questa
pratica si riferisce a un'antica superstizione, secondo cui - per
dirla con le fattucchiere - quando la Luna si trova in questa fase,
"tutti i mali porta via". La credenza è diffusa in moltissimi paesi
europei, tanto che viene anche applicata a serie prescrizioni

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mediche. Ancora oggi, in numerosissimi villaggi bavaresi e
austriaci, i farmacisti fanno affari soprattutto in questo periodo,
essendo i malati convinti che i medicinali siano più efficaci.
All'edera vennero attribuite altre doti terapeutiche di cui è lecito
dubitare: consigliata per combattere le ulcere, l'itterizia, i calcoli,
si ritenne addirittura che un "aceto" preparato con le sue bacche
fosse in grado di debellare la peste: proprio a questo scopo
venne largamente usata durante una terribile epidemia
scoppiata a Londra nel 1665. Si è comunque accertato che le sue
foglie contengono principi tali da curare la pertosse e la
bronchite. Se ne servivano già i nostri antenati, mentre oggi
disponiamo, ovviamente, di preparati ben più efficaci e meno
dannosi."

Secondo una tradizione della Cornovaglia, la bella Iseult,


incapace di sopportare la perdita del suo amato – il coraggioso
Tristran –, morì di crepacuore e venne sepolta nella stessa chiesa
ma, per ordine del Re, le due tombe furono poste distanti l'una
dall'altra. Tuttavia, ben presto crebbe dalla tomba di Tristran un
rametto di edera ed un altro dalla tomba di Iseult; questi
germogli crebbero gradualmente verso l'alto fin quando gli
innamorati, rappresentati dall'edera arrampicata, furono
nuovamente uniti sotto il tetto a volte del cielo.

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In Epiro, nella parte nordorientale della Grecia, sorgeva il più
antico degli oracoli greci, la Quercia Sacra di Dodona. Il luogo
aveva - e conserva tuttora - un aspetto selvaggio e drammatico.
Ai piedi del monte Tamaro, sulle pendici dal quale si ergono
ancora vecchissime querce, s'innalzava il santuario di Zeus, che
nel
IV-V secolo diventò chiesa cristiana e sede episcopale. La zona
era famosa per la violenza dei suoi temporali e anche per il
freddo che vi regnava. Omero parla di "Dodona dalle male
tempeste"

A Dodona esisteva una quercia consacrata a Zeus, e in quella


quercia c'era un oracolo le cui profetesse erano donne. Quelli
che venivano a consultare l'oracolo si avvicinavano alla quercia e
l'albero si agitava un po'; poi le donne prendevano la parola e
dicevano "Zeus annuncia la tal cosa".
Queste Sacerdotesse si chiamavano Peleiadi o Peristere, cioè "le
colombe". Erano tre, ci dice Erodoto, la maggiore si chiamava

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Promenia, "l'anima di prima", la seconda Timarete "la virtù
onorata", la più giovane Nicandra "vittoriosa sugli uomini".
Interpretavano il fruscio prodotto dal movimento del fogliame
(dendromanzia). Non erano però Sacerdotesse di Zeus, ma di
Dione, la Dea sposata da Zeus a Dodona. Presso i Greci, Dione è
ricordata solo dagli autori più antichi, che la ritengono pre-
ellenica. Appare all'inizio della formazione del mondo. Nel mito
pelasgico, Dione è una Titanide che, associata a Titano Crio,
regna sul pianeta Marte.
Nella Teogonia di Esiodo è figlia di Oceano e Teti. Nel mito orfico,
riferito da Platone, Oceano e Teti costituirebbero la coppia
primordiale che ha dato origine agli Dei e a tutti gli esseri.

Nel mondo egeo pre-ellenico, Rea, Dea della quercia e delle


colombe, con il suo paredro, lo Zeus cretese adolescente, era al
centro del culto che si rendeva agli alberi, pratica fondamentale
della religione minoica.
In Grecia sono esistiti altri alberi oracolari, ma nessuno ha
conosciuto una carriera altrettanto lunga di quella della quercia
di Dodona. A Page veniva consultato un pioppo nero che,
malgrado fosse un albero funebre, era in quel luogo consacrato a
Era. Alla Dea dei morti, Persefone, era attribuito, a causa dei
pioppi neri, un altro oracolo a Egira, in Acaia. Sul monte Liceo, in
Arcadia, per favorire la pioggia, il sacerdote di Zeus immergeva
un ramo staccato da uno di questi alberi in una sorgente che
doveva trovarsi ai suoi piedi: occasionalmente Zeus era quindi
considerato il dio del temporale e della pioggia fecondatrice.

In periodo precristiano il culto della quercia era diffuso in tutta


Europea. Esso era talmente radicato nei costumi di certi popoli
che presso di loro sopravvisse a lungo alla conversione al
cristianesimo.
Plinio nella "Storia naturale" ci ha lasciato delle descrizioni delle
immense foreste di querce della Germania, che meravigliarono i
Romani, che vi entrarono con una specie di terrore sacro.
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"Querce di enormi dimensioni, lasciate intatte dal trascorrere del
tempo e originate insieme col mondo" (Tacito)

I Germani veneravano nelle querce i divini antenati.


Il Frassino era dedicato a Odino, la quercia a Donar-Thor.
La quercia che nell'ottavo secolo fu abbattuto da san Bonifacio
era consacrata a Donar, un Dio legato ai fenomeni atmosferici
(tuono, lampo, vento, pioggia)
A Perkunas, il Dio Lituano del tuono, erano consacrate le querce
e venivano tenuti accesi i fuochi perpetui (esattamente come per
Perun, Dio del tuono slavo). I Lettoni adoravano Perkun, Dio
della folgore e la quercia a lui consacrata era "la quercia d'oro".
Anche a Taara, Dio del tuono estone, Il Padre del Cielo, era
consacrata la quercia. Anche in Gallia esistevano, secondo
Plauto, querce oracolari e secondo Lucano, mangiare ghiande
era ritenuto una pratica divinatoria.

Del resto, insieme alla quercia era adorato il vischio, ritenuto il


seme onnipotente del Dio.
I cristiani assimilarono il culto del vischio "accettando" che nella
notte di San Silvestro ci si baci o scambi gli auguri sotto un
rametto di vischio.

"Come nel freddo brumale fra la boscaglia usa il vischio


frondeggiare diverso, ché non sua pianta lo semina,
e di ghirlande giallastro circonda i tronchi rotondi,
così si vedeva quell'oro frondeggiare fra
l'elce ombroso, così con le brattee leggere sussurrava nel vento"

Così è celebrato il vischio da Virgilio nell'Eneide.

Jean Beaujeu osserva: "La mitologia del vischio, molto scarsa in


Italia, era abbondante nei paesi celtici e germanici; al vischio si
attribuiva un potere magico: permetteva di aprire il mondo
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sotterraneo, allontanava i demoni, conferiva l'immortalità"

Nota di Lunaria: è divertente vedere come i cattolici celebrino,


inconsapevolmente, il loro dio fallico gesù cristo con un
elemento preso dagli Dei Fallici citati prima...

***

Da "Il libro delle piante magiche" di Caterina Kolosimo

La Quercia, essendo un albero molto diffuso, ha dato origine a


leggende presso molti popoli europei, dai Celti ai Romani, dagli
Anglosassoni, ai Normanni, continuando ad alimentarle
attraverso l'intero Medioevo fino ai nostri giorni. Era uno dei
"sette alberi nobili", della tradizione irlandese, e la sua
distruzione si ritorceva su colui il quale se ne era reso colpevole
con malattie, morìe di bestiame, rovesci economici.
Quando san Columcille edificò una chiesa in Irlanda, dopo aver
incendiato una Quercia per far posto alla costruzione, incorse
nelle ire del re, il quale considerò addirittura l'abbattimento della
pianta alla stregua di un omicidio. Il sant'uomo potè proseguire il
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lavore, ma dovette impegnarsi a non toccare più alcuna Quercia.
I primi norvegesi invasori delle terre britanniche introdussero la
credenza secondo cui la Quercia era l'albero del fulmine e perciò
sacra a Thor, aggiungendo che essa offriva protezione ai
viandanti durante i temporali. Può sembrare un controsenso, ma
la doppia credenza è spiegabile per il fatto che le querce sono
frequentemente colpite dal "fuoco celeste" e per il detto
secondo cui "il fulmine non cade mai nello stesso posto".
Di qui l'usanza ancor viva tra certi contadini, di tagliare un pezzo
di tronco colpito appunto dal fulmine e di appenderlo sulla porta
di casa proprio come "parafulmine magico".
La Quercia venne anche considerata un'eccellente difesa contro
le streghe, tanto che persino san Bedra, il medico inglese dottore
della Chiesa, famoso erudito, narrava che sant'Agostino da
Canterbury era uso pregare sotto le fronde di questo albero da
quando re Etelberto (un sovrano del Kent, che favorì
l'introduzione del cristianesimo nel suo regno) glielo aveva
raccomandato per evitare l'azione di sortilegi.
Il culto della Quercia venne alfine proibito dalla chiesa cristiana.
Fu sempre tollerato, tuttavia, l'uso di danzare tre volte attorno
all'albero dopo un matrimonio religioso, per invocare la buona
sorte sugli sposi. Dopo questa cerimonia si usava offrire una
bevanda a base di ghiande tritate e bollite.
Contro la tonsillite si usa portare al collo una coroncina di 9 o 13
ghiande che simboleggiano le tonsille infiammate. Staccatene
una ogni giorno e buttatela lontano da voi: gettata l'ultima,
dovreste essere guariti. Se non accade, ricominciate con la cura,
ma bruciate le ghiande. Se è un maleficio, arrostite le ghiande,
scoprirete la persona che ha lanciato l'incantesimo, perchè sarà
colpita da una forte raucedine.

Perché, tra i tanti sempreverdi, proprio l'agrifoglio e il vischio


accompagnano le feste natalizie?
La leggenda nordica che ce ne narra l'origine non è molto allegra.
Baldur, figlio di Odino, venne ucciso da un suo nemico, Loki,
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appunto con una freccia tratta da un ramo di vischio.
Odino maledisse la pianta, ma la moglie del Dio, piangendo la
morte di Baldur, vi fece cadere alcune lacrime, che diventarono
perle: così il vischio fu rivalutato, anche se fu allontanato dai
templi in favore dell'agrifoglio, il cespuglio accanto al quale era
spirato Baldur, reso da Odino sempreverde e dotato di bacche
rosse, in ricordo del sangue sparso dal figlio.
L'agrifoglio venne subito ammesso nelle chiese cristiane, mentre
al vischio ne fu a lungo vietato l'accesso, dato l'uso fattone dalle
religioni pagane, che lo avevano rivestito di tanti significati
magici. Poiché ciò sia avvenuto, resta un mistero, anche se
numerose leggende circondano questo sempreverde.
Il vischio è una pianticella parassita di diversi alberi, con foglie
verdi e dure e frutti a bacca bianchi. In genere, però, il mito si
riferisce al vischio quercino, parassita delle querce che ha foglie
più piccole di quello comune.
Vischio e querce erano sacri ai druidi, gli antichi sacerdoti celtici,
e sacro era il rituale con cui, durante il solstizio d'inverno, i
rametti venivano staccati dall'albero: l'operazione veniva
effettuata con un falcetto d'oro, e il vischio, per non perdere i
suoi poteri occulti, non doveva toccare il suolo, ma essere
raccolto in un panno di lino.
Plinio ci spiega questo complesso procedimento dicendoci come
i druidi ritenessero così di "evirare la quercia". La credenza ci
porta alla magia similitudinaria: il liquido appiccicoso del vischio
era forse paragonato a quello spermatico, per cui la pianticella
era ritenuta apportatrice di fertilità.
Curioso è il fatto che tale credenza non sia propria soltanto
dell'Europa celtica: la troviamo pure presso gli Ainu dell'antico
Giappone, dove anche il rituale per cogliere il vischio era
pressapoco uguale a quello dei druidi. "Molti credono ancora
oggi che questa pianta abbia il potere di far fruttificare i
giardini", ci dice Frazer. "E si sa che qualche donna sterile mangia
vischio per avere prole."
Anche in molte regioni africane, la pianticella è considerata sacra,
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apportatrice d'incolumità, tanto che i guerrieri Valo, andando in
guerra, ne portavano addosso le foglie per assicurarsi
l'invulnerabilità.
In Europa troviamo altre credenze: i contadini di molti paesi
(compresi alcuni italiani) ritenevano il vischio capace di domare
gli incendi, per cui ne appendevano i rami sui tetti delle case.
In Boemia lo si chiamava "scopa del tuono" poichè lo si
considerava in grado di allontanare i fulmini.
Il vischio è stato usato anche in campo terapeutico: nella Francia
meridionale lo si applicava sull'addome dei sofferenti di colite, in
Svezia e in Inghilterra lo si pensava atto a preservare dagli
attacchi epilettici, mentre in alcune regioni tedesche lo si mette
tuttora al collo dei bambini per immunizzarli dalle malattie.
Tali credenze - ci dice Frazer - sono forse dovute al fatto che gli
uomini di ogni tempo e luogo hanno visto qualcosa di
soprannaturale in questa pianta che cresce e prospera senza
affondare le radici nella terra. Non sappiamo se la spiegazione sia
davvero questa: sta di fatto che la chiesa ha cercato a lungo e
inutilmente di far dimenticare i poteri magici del vischio,
vedendosi infine costretta ad accettarne l'uso e a inserirlo nella
tradizione cristiana.
Alla pianticella (come all'agrifoglio) è stato così attribuito il
generico simbolo di pace e serenità.

****

Da "La Dea Bianca" di Robert Graves

Eracle era anche connesso al culto del Fallo e al rito


dell'Evirazione: "Il mito dell'evirazione di Urano ad opera del
figlio di Crono [...] Il significato originario è quello
dell'eliminazione annuale del vecchio re della quercia da parte
del suo successore [...] La cerimonia druidica del taglio del
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vischio della quercia rappresentava l'evirazione del vecchio re da
parte del suo successore essendo il vischio un simbolo
eminentemente fallico. Dopo la castrazione il re veniva mangiato
eucaristicamente".
Anche la ghianda è un simbolo fallico, così come il fungo.

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L'uso delle statuine appese ai rami degli alberi da frutto era
corrente in Grecia e a Creta. Nella maggior parte dei casi esse
raffiguravano Arianna. Poiché questo appunto fu in origine la
figlia di Minosse: una Dea minoica primitiva, uno spirito della
vegetazione, dell'albero. Il suo nome, Arianna, o meglio Ariagne,
tradotto di solito come "la più sacra" sarebbe reso molto meglio
con "l'intatta", "l'intoccabile". La vergine Arianna pagò a caro
prezzo il fatto di non essere più tale perché il volubile Teseo
l'abbandonò a Nasso. Fu poi consolata da Dioniso (*)

(*) OVIDIO: "Bacco e Arianna". Brano tratto dall'Antologia di


Scrittori Latini a cura di Marchesi e Campagna (Casa Editrice
Giuseppe Principato, 1967)

Arianna, figlia di Minosse, re di Creta, era partita dalla terra


natale seguendo Teseo, ch'essa aveva aiutato a uscire dal
labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro; ma nell'isola di Nasso,
l'eroe ateniese abbandonò la fanciulla mentre era immersa nel
sonno. Il poeta descrive la sventurata eroina, appena desta dal
sonno, che va stordita e pazza per quell'isola sconosciuta; e dallo
stordimento, appena sente l'orribile realtà dell'abbandono e del
tradimento, passa all'urlo, all'invettiva vana e disperata lanciata
per i flutti impassabili e sordi. E finalmente viene il grido
angoscioso e disperato: "Che ne sarà di me?" mentre intorno
incombe un mostruoso silenzio di solitudine marina. "Che ne sarà
di me?" ripete disperatamente Arianna. Ed ecco subitaneo,
assordante, lo scoppio del corteo bacchico, che rimbomba
frenetico per tutta la spiaggia.
Arianna viene quindi portata via dal Dio e assunta in cielo tra le
costellazioni boreali.

Sopra le ignote arene errava Arianna, impazzita, dove l'ondata


batte la sponda dell'isola Dia.
Desta dal sonno, un velo di tunica intorno le svola: e nudi i piedi e
sciolte le bionde chiome.
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"Teseo crudele!" ai flutti, che non udivano, urlava: e un gran
pianto rigava le tenere guance innocenti.
Gridava e piangeva: ma il grido e il pianto le davano grazia; il
pianto non aveva alterato il volto suo bello.
Battea, battea con le palme il morbidissimo seno. "Lo spergiuro è
fuggito", diceva, "E di me che sarà?"
Diceva "E di me che sarà?" Ah! Scoppia per tutta la spiaggia un
suon di cembali e timpani percossi da mani furenti.
Ella cade atterrita; né più profferisce parola. Esangue era il suo
corpo come corpo di morta.
Eccole, le Baccanti, cosparsi i capelli sul dorso: eccoli, i lievi Satiri,
che in folla precedono il Dio.
Oh sul curvo asinello ecco il vecchio ecco l'ebbro Sileno, che
barcolla e si aggrappa alla criniera, e via dietro alle Baccanti: ed
esse via scappano e tornano, e quello da' da' con la canna alla
bestia, il cavaliere maldestro, finché fa un capitombolo giù
dall'orecchiuto asinello.
Gridano i satiri: "O Padre, su, levati levati, su!"
Eccolo il Dio! Dal carro che avea coronato di grappoli, il dio le tigri
aggiogate guidava con redini d'oro.
Teseo, calore, voce, tutto perdè la fanciulla; tre volte ella tenta la
fuga, tre volte il terrore la inchioda.
Rabbrividì tremando, come al vento la sterile spiga, come le
canne lievi nell'acquosa palude.
Il Dio le parla: "Io vengo amore più fido al tuo amore. Non
temere: di Bacco sarai, Arianna, la sposa. Io t'offro il cielo; dal
cielo più volte alla nave smarrita, darà fulgente stella, la Gnosia
Corona la via."
Disse, e balzò dal cocchio, perchè non temesse le tigri, la sua
fanciulla. E il lido cedeva di sotto ai suoi passi.
La portò via serrata fra le sue braccia; era vano ogni contrasto.
Un Dio facilmente può tutto.
Si leva ora il canto: "Imeneo". Risuona ora il grido "Evoè!"

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***

Gnosis in ignotis amens errabat harenis,


qua brevis aequoreis Dia feritur aquis;
utque erat e somno tunica velata recincta,
nuda pedem, croceas inreligata comas,
Thesea crudelem surdas clamabat ad undas
indigno teneras imbre rigante genas.
Clamabat flebatque simul; sed utrumque decebat:
non facta est lacrimis turpior illa suis.
Iamque iterum tundens mollissima pectora palmis
"Perfidus ille abit! Quid mihi fiet?" ait.
"Qui mihi fiet?" ait: sonuerunt cymbala toto
litore et attonita tympana pulsa manu.
Excidit illa metu rupitque novissima verba;
nullus in exanimi corpore sanguis erat.
Ecce Mimallonides sparsis in terga capillis,
ecce leves Satyri, praevia turba Dei,
Ebrius ecce senex: pando Silenus asello
Vix sedet et pressas continet arte iubas;
dum sequitur Bacchas, Bacchae fugiuntque petuntque,
quadrupedem ferula dum malus urget eques,
in caput aurito cecidit delapsus asello:
clamarunt Satyri "Surge age, surge Pater!"
Iam Deus in curru, quem summum texerat uvis,
tigribus adiunctis aurea lora dabat:
et color et Theseuset vox abiere puellae
terque fugam petit terque retenta metu est;
horruit, ut sterilis agitat quas ventus aristas,
ut levis in madida canna palude tremit.
Cui Deus "en, adsum tibi cura fidelior", inquit,
"Pone metum: Bacchi, Gnosias, uxor eris!
Munus habe caelum: caelo spectabere sidus;
saepe reges dubiam Cressa Corona ratem."
Dixit, et e curru, ne tigres illa timeret,
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deesilit: inposito cessit harena pede:
inplicitamque sinu (neque enim pugnare valebat)
abstulit: in facili est omnia posse Deo.
Pars "Hymenaee" canunt, pars clamant Euhion, "Euhoe!"

In seguito all'abbandono, pare che si sia impiccata.


L'impiccagione di Arianna a Cipro ricorda quella di Erigone a
Icaria, ma con l'impiccagione pose fine ai suoi giorni anche sua
sorella Fedra, la "Brillante", dopo essere stata respinta dal
figliastro Ippolito. E Fedra a volte viene rappresentata su
un'altalena (Erigone, figlia di Icario, era nota come colei che
apriva le Aiorie, durante le quali venivano appese bambole e
maschere, agli alberi, per assicurare la fecondità, mentre
fanciulle in piedi, su una stretta piattaforma appesa ai rami, si
dondolavano. Così si dice sia nata l'altalena. La simulazione del
dondolio dovrebbe rappresentare l'orgasmo femminile. Il
dondolio è un atto rituale che viene praticato ancora in India)

21
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25
In Arcadia esisteva un culto di Artemide Apankoméne, o di
Artemide Kondylits, "l'Impiccata", "la Strangolata"
(Nota di Lunaria: vedi il collegamento con i Tarocchi: L'Appeso, il
Dodicesimo Arcano, che rappresenta il sacrificio di sé, le Divinità
incarnate che si sono immolate: il dono di se stessi)

Artemide, la vergine che con le sue compagne frequenta le

26
foreste selvagge, era anch'essa una divinità dell'albero, cui erano
consacrati il noce, il cedro e l'abete rosso.

Che cosa possono significare tutte queste impiccagioni, di cui il


dondolio rituale o le bambole appese ai rami non sono che

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surrogati?
L'impiego dell'altalena era associato al rinnovamento della
vegetazione, le bambole stimolavano l'accrescimento degli
alberi,
e molti Dei si sacrificano impiccandosi: Dioniso-Zagreo, Odino.
(Nota di Lunaria: anche il cristo si appende al legno e reclina il
capo anche se non viene impiccato; comunque, nella storiella
evangelica, è Giuda ad impiccarsi)
Il sacrificio di sé è il dono totale, e, nei casi citati, si trattava di
provocare l'avvio della vegetazione.
Della fede arcaica negli effetti fecondatori e rigeneratori
dell'impiccagione esiste un'antica traccia: si credeva che la
mandragora crescesse sotto il patibolo, dal seme degli impiccati

Secondo il mito di Arianna, ella muore, impiccata a Cipro (o


bruciata da Artemide, su istigazione di Dioniso, in certe versioni):
era necessario che Arianna morisse per diventare immortale e
potersi unire al Dio che a sua volta, come tutte le divinità della
vegetazione, è un Dio che muore e resuscita.

(Nota di Lunaria: Nella fantasia cristiana, spesso cristo è


rappresentato crocifisso all'albero della conoscenza del bene e
del male, descritto in Genesi)

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LA DEA
BIRGIT/BRIGIT
Nell'alfabeto degli alberi, il calendario sacro ai Celti, è
ugualmente la betulla che presiede il primo mese dell'anno
solare (dal 24 dicembre al 21 gennaio). La betulla è quindi
collegata alla rinascita del Sole. Benché in genere dedicata alla
Luna, per la sua pelle delicata che ricorda lo splendore argenteo
della Luna piena, talvolta è anche dedicata al Sole e alla Luna
insieme, ma in questo caso è duplice: maschio e femmina. Nella
festa che celebra il ritorno della luce, la nostra Candelora, la
betulla è oggetto di speciale considerazione, nella persona di
Santa Brigida il cui nome "Birgit" deriva dalla radice indoeuropea
"Bhirg", betulla, che dà "birch" in inglese e "Die Birke" in
tedesco. Santa Brigida di Kildare, presentata dagli agiografi come
31
la figlia di un capoclan pagano, e diventata patrona d'Irlanda, era
originariamente un'antica divintà celtica della rinascita del fuoco
e della vegetazione, la figlia di Dagda, il Dio supremo venerato
dai Druidi.

Clone cattolico della Dea Birgit

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La festa di santa Brigida che si celebra il 1° febbraio, era una delle
quattro feste irlandesi ricordate da Cormac, vescovo di Cashel
nel decimo secolo. Nella Britannia veniva mantenuto il fuoco
perpetuo nel tempio di una Dea che i Romani identificavano con
Minerva ma che in realtà era Birgit, a un tempo guaritrice e
patrona dei Bardi - i quali possono essere paragonati agli
sciamani - e dei fabbri. Ancora nel sedicesimo secolo "le suore" di
Kildare tenevano acceso un fuoco che subito dopo la sepoltura
della "santa" si sarebbe acceso da solo sulla sua tomba. "Kildare"
significa "chiesa delle querce", essendo stato precedente un
nemeton, un sacro bosco pagano.

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Le 19 suore vegliavano a turno il fuoco. Fu Enrico VIII a
sopprimere tale pratica.
La festa di santa Brigida apriva il mese di febbraio che da sempre
era il mese delle purificazioni (dal latino "februare" = "purificare,
fare espiazioni religiose"). A Roma, fino alla riforma effettuata da
Giulio Cesare, era il mese dei morti e anche quello nel corso del
quale ci si sforzava di eliminare gli influssi negativi. Vi si
celebravano i Februali, istituiti da Numa Pompilio, al quale si
doveva l'organizzazione religiosa. Questa antichissima festa dei
morti si celebrava di notte, alla luce delle torce.

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Il 15 febbraio avevano luogo i Lupercali, in onore di Luperco
(chiamato anche Fauno, considerato l'equivalente di Pan)
Durante i Lupercali i sacerdoti del Dio, nudi, percorrevano le
strade di Roma sferzando la folla con corregge ritagliate nel
cuoio di un capro. Le donne sterili tendevano mani e schiene
nella speranza di essere fecondate. La celebrazione dei morti era
quindi connessa con le promesse di fecondità futura, in quanto i
nuovi nati erano i morti reincarnati. I Lupercali furono soppressi
da papa Gelasio nel 494 che li sostituì con la festa della
Purificazione della Vergine, la Candelora, o festa delle candele
perché veniva effettuata la solenne benedizione dei ceri, della
luce nuova, rito d'origine celtica.

Nella mitologia germanica la betulla era l'albero di Donar-Thor,


Dio del fulmine e della guerra, considerato più potente dello
stesso Odino, in particolare in Norvegia.

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Secondo i proverbi russi la betulla ha ben 4 poteri: con i suoi rami
si fanno torce, perché danno grandi fiamme chiare, e anche
scope e verghe. Dal legno di betulla si ricava il catrame che
impedisce alle ruote de carri di cigolare. E infine la linfa, il
"sangue di betulla", molto usata nella fitoterapia. Ai piedi della
betulla cresce spesso l'amanita muscaria (ovolaccio) usata dagli
sciamani per andare in trance.

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Le credenze popolari associano l'ovolaccio ai rospi (e in inglese il
fungo è chiamato "trono di rospo"), perché il rospo è ritenuto in
rapporto con le potenze infernali e con la Luna e la pioggia.
Secondo gli Orocci, popolo tunguso, le anime dei morti si
reincarnavano nella Luna sotto forma di amaniti e così
trasformati discendevano sulla terra.
In Siberia si credeva che lo spirito della betulla fosse una donna, e
che offrisse il suo seno: dopo aver bevuto il suo latte, l'uomo
sente decuplicate le proprie forze.

***

Da Mircea Eliade "Trattato di storia delle religioni"

Un esempio mirabile di teofania in un albero è il celebre


bassorilievo di Assur, che rappresenta il Dio emergente con
la parte superiore del corpo da un albero. Accanto a lui stanno
‘le acque che traboccano’ dal vaso inesauribile, simbolo della
fertilità. Un capride, attributo della divinità, mangia le
foglie dell'albero. Nell'iconografia egiziana si trova il motivo
dell'‘Albero della Vita’, da cui spuntano braccia divine,
cariche di doni, e versanti da un vaso l'acqua della vita.
Evidentemente, fra la teofania che risulta da questi pochi
esempi e il motivo dell'‘Albero della Vita’, vi fu una
contaminazione, e il processo è facilmente comprensibile: la
divinità che si rivela nel Cosmo sotto forma di albero è, nello
stesso tempo, fonte di rigenerazione e di ‘vita senza morte’,
sorgente a cui l'uomo si volge, poiché giustifica le sue
speranze nella propria immortalità. Fra i membri del complesso
Albero-Cosmo-Divinità c'è simmetria, associazione, fusione. I
cosiddetti Dèi della vegetazione sono spesso rappresentati in
forma di alberi: Attis e il pino, Osiride e il cedro, eccetera.
Presso i Greci Artemis è spesso presente in un albero; così a
Boiai, in Laconia, un mirto era adorato col nome di Artemis
37
Soteira. Vicino a Orcomene, in Arcadia, c'era in un cedro, uno
"xoanon", di Artemis Kedreatis. Talvolta le immagini di
Artemis erano ornate di rami. E' nota l'epifania vegetale di
Dionysos dendrites. Ricordiamo anche la quercia oracolare
sacra di Zeus a Dodona, l'alloro di Apollo a Delfo, l'oleastro
di Herakles a Olimpia, eccetera. Tuttavia, per la Grecia, prove
attestanti l'esistenza di un culto degli alberi si hanno per due
luoghi soltanto: l'albero del Citerone, dal quale si credeva che
Penteo arrampicato avesse spiato le Menadi, e che l'oracolo
ordinò di venerare come un Dio e il platano di Elena a
Sparta.
Un esempio chiarissimo di teofania vegetale si osserva nel culto
della Dea indiana (pre-ariana) Durga. I testi che citiamo sono
tardi, ma il loro carattere popolare indica un'antichità
indiscutibile. Nella "Devi-Mahatmya" (92, 43-44) la Dea
proclama: ‘In seguito, o Dèi, nutrirò (letteralmente sosterrò)
l'universo intero con questi vegetali che mantengono la vita e
che spuntano dal mio stesso corpo durante il periodo delle
piogge. Diventerò allora gloriosa sulla terra come "Sakamhari"
(‘portatrice di erbe’, o ‘che nutre le erbe’) e, in questo
stesso periodo, sventrerò la grande "asura" chiamata Durgama
(personificazione della siccità)’. Nel rito "Navapatrika" (‘le
nove foglie’), Durga è chiamata ‘CoLei che abita nelle nove
foglie’. Le conferme indiane si potrebbero moltiplicare.
Torneremo in questo punto, studiando le altre valenze della
sacralità dell'albero.

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39
L'ODIO CRISTIANO PER GLI ALBERI

Quando i missionari cristiani cominciarono a convertire le


popolazioni pagane, uno dei primi compiti fu quello di proibire il
culto che si rendeva agli alberi e di distruggere i boschi sacri. Le
loro agiografie riferiscono tali imprese: sant'Adalberto di Praga
fu massacrato dai Prussiani che stava tentando di evangelizzare
(nota di Lunaria: anche san Calimero fu ucciso: aveva battezzato
a forza alcuni pagani); molto tempo prima i concili provinciali
avevano messo in guardia i cristiani: quello di Arles (452 d.C)
legiferò contro l'adorazione degli alberi, fontane e pietre. Per
buona parte del Medioevo i parroci riprovavano pubblicamente
nelle loro prediche alcuni parrocchiani "che innalzavano specie di
altari sulle radici, portavano offerte agli alberi, e li supplicavano
emettendo lamenti di conservare loro i figli, le case, i campi, le
famiglie e i beni."
(Nota di Lunaria: eh già... tutto ciò diveniva ben accetto se era
rivolto solo ai preti e al clero, vero?!)
40
Fin dal quarto e quinto secolo i primi evangelizzatori dei Galli si
erano dati da fare per estirpare queste usanze.
Sulpicio Severo racconta che il più illustre di questi
evangelizzatori, San Martino (vissuto tra il 315 e 397), di
passaggio da Autun, "avendo abbattuto un tempio molto antico
e apprestandosi ad abbattere un pino che sorgeva presso il
santuario, incontrò l'opposizione del sacerdote del luogo e della
folla dei pagani."
Uno di essi, più audace degli altri, gli disse "Se hai un po' di
fiducia nel Dio che dici di onorare, abbatteremo noi stessi
quest'albero che cadrà su di te, se il tuo Signore è con te, come
dici, sfuggirai."
Martino si lasciò legare nel punto in cui doveva cadere l'albero.
Nel momento in cui l'albero crollava, Martino si fece il segno
della croce e l'albero lo sfiorò senza toccarlo, risparmiandolo
solo per un soffio e i contadini che si erano creduti, invece, al
sicuro e che vinti da questo miracolo, si convertirono. San
Maurilio invece bruciò direttamente gli alberi di un bosco sacro,
poi riconsacrato a san Pietro. San Bonifacio, evangelizzando i
Germani, fece abbattere la quercia di Geismar consacrata a Thor.
Una cinquantina di anni dopo Carlomagno distrusse il santuario
in cui era venerato Irminsul, un gigantesco tronco d'albero cui si
attribuiva la proprietà di sostenere la volta celeste. In Lituania i
cristiani mutilarono decine e decine di alberi. Nel 1258 a
Sventaniestis, il vescovo Anselmo diede ordine di abbattere una
quercia sacra, e non riuscendo a scalfirlo con l'ascia, lo bruciò.
Tra il 1351 e 1355 a Romuva, in Prussia, su richiesta del vescovo
Giovanni I, i cristiani fecero segare una quercia sacra sotto la
quale si radunava il popolo per pregare. Alcune foreste erano
personificate e divinizzate come quella dei Vosgi, la Foresta Nera,
consacrata alla Dea Abnoba e le Ardenne, regno di Arduinna, la
Dea del cinghiale, assimilata a Diana, culto che risaliva
probabilmente all'età della pietra. Molti alberi vennero
cristianizzati, "consacrati e dedicati" alla madonna e ai santi.
(Nota di Lunaria: oggi metteremmo in carcere tutti questi
41
cristiani con l'accusa di incendio doloso e vandalismo...)

Da una pietra fecondata dal seme che Zeus aveva lasciato cadere
sulla terra durante il sonno nacque un mostro ermafrodita di
nome Agdistis. Spaventati, gli Dei decisero di castrarlo e così
Agdistis diventò la Dea Cibele. Il sangue sparso fece spuntare
dalla terra un mandorlo o un melograno. La figlia del fiume
Sangario, Nana, rimase incinta mangiando (o mettendosi al seno)
una mandorla o una melograna proveniente da quegli alberi.
Concepì Attis. Vergognandosi, Nana lo abbandonò in riva al

42
fiume dove una capra lo nutrì. Fu lì che Cibele-Agdistis lo
rinvenne in mezzo alle canne. Crescendo Attis divenne così bello
che Agdistis se ne innamorò. Ma Attis era promesso ad Atta,
figlia di un re. Mentre inseguiva Attis, Agdistis entrò nella sala del
banchetto, e l'assemblea è colta da follia: il re si mutila, Attis
fugge, si castra sotto un pino e muore. Agdistis si dispera, e Zeus
acconsente che Attis venga trasformato in pino, restando
sempre verde e incorruttibile. Un'altra versione della morte del
dio, riferita da Pausania, racconta che Attis fu ucciso da un
cinghiale.

Cibele in Frigia era la Grande Madre, equivalente in Grecia di Gea


e Rea. Se nella rivisitazione greca di Cibele, la Dea era in origine
un mostro con fallo castrato dagli Dei, ciò dipende dal fatto che i
Greci, avendo integrato una Dea straniera nella loro mitologia,
l'hanno posta alle dipendenze degli altri Dei dell'Olimpo. Nella
cosmogonia primitiva è la stessa Cibele che essendo sola, si
castra: il prodotto di tale mutilazione è la creazione.

43
La nascita di Cibele conseguente allo spargimento del seme di

44
Zeus sulla pietra rappresenta peraltro una forma assolutamente
arcaica della cosmogonia: la roccia è il simbolo più antico della
Terra Madre. In quanto roccia, Cibele è vuota come il ventre della
madre, è una caverna. Sotto terra, in una grotta, si compiono i
suoi riti. La caverna primordiale dalla quale vengono alla luce gli
esseri viventi è anche il luogo in cui si sotterrano i morti: i morti vi
entrano, i vivi ne escono.
Nelle mitologie, lo stato primigenio della vita sulla terra è
rappresentato dall'associazione della roccia con l'albero. La
pietra sacra, venerata come bétilo ("Casa di Dio"), centro,
ombelico del mondo, come a Delfi l'omphalòs, è sede della
potenza divina, ricettacolo della vita non ancora manifesta (Nota
di Lunaria: per saperne di più sull'adorazione delle pietre vedi
"Trattato di storia delle religioni" di Mircea Eliade. Le pietre
venivano considerate eterne perché "fattesi da sé":

"Un esempio suggestivo della multivalenza simbolica della pietra


è dato dalle meteoriti. La Pietra Nera della Mecca e quella di
Pessinunte, immagine aniconica della Grande Madre dei Frigi,
Cibele, portata a Roma durante l'ultima guerra punica, sono le
più illustri meteoriti. Il loro carattere sacro era dovuto anzitutto
alla loro origine celeste. Ma erano insieme immagini della Grande
Madre, cioè della divinità tellurica per eccellenza. E' difficile
credere che la loro origine uranica sia stata dimenticata, perché
le credenze popolari attribuiscono questa discendenza a tutti gli
strumenti preistorici di pietra chiamati ‘pietre del fulmine’.
Probabilmente le meteoriti divennero immagini della Grande Dea
perché si credettero inseguite dal fulmine, simbolo del Dio
uranico. Ma, d'altra parte, la Ka'ba era considerata il ‘centro del
mondo’, cioè non soltanto il centro della terra: sopra di essa, nel
centro del cielo, doveva trovarsi la ‘Porta del Cielo’.
Evidentemente, cadendo dal cielo, la Pietra Nera della Ka'ba
bucò il firmamento, e attraverso quel foro può avvenire la
comunicazione fra Terra e Cielo: vi passa l'‘Axis Mundi’).

45
Nel mito di Agdistis-Cibele e Attis ritroviamo l'antica credenza
secondo la quale il mondo è nato dall'autosacrificio di un dio
androgino (anche Crono è castrato da Zeus)
In effetti, anche Attis nasce dalla castrazione di Agdistis: la
mandorla inghiottita da Nana è frutto nato dal sangue sparso
durante la castrazione di Agdistis; la melograna poi è un simbolo
ancor più esplicito: aperta, rivela una moltitudine di semi immersi
in una polpa color rosso sangue. Comunque, Agdistis era
ermafrodito: è quindi Madre-Padre: in Frigia Cibele era venerata
in forma di Dea barbuta o come "Ape Regina": presso le api, nel
corso del volo nuziale il maschio abbandona i propri organi
genitali sul corpo della femmina e muore. Di lui sopravvivono
solo gli organi strappati che forniranno alla regina la provvista di
spermatozoi che le sarà sufficiente per tutta la vita.
Curiosamente, anche Zeus in Caria, era dotato di sei mammelle
disposte a triangolo sul petto.

Scrive Mircea Eliade: "Non è qui il caso di riprendere un problema


già trattato nel nostro "Mitul reintegrarii". Limitiamoci a
ricordare che le divinità della fertilità cosmica sono in massima
parte androgini, oppure sono femmine un anno e maschi l'anno
dopo
(confronta ad esempio lo ‘Spirito della Foresta’ degli Estoni). La
maggioranza degli dèi della vegetazione (tipo Attis, Adone,
Dioniso) e delle Grandi Madri (tipo Cibele) sono bisessuati. In una
religione arcaica come l'australiana, il dio primordiale è
androgino, e tale è anche nelle religioni più evolute, per esempio
in India (talvolta perfino Dyaus; Purusha, il macrantropo cosmico
del "Rgveda", 10, 90, eccetera). La più importante coppia divina
del pantheon indiano, Shiva-Kali, è talvolta rappresentata in
forma di un essere unico
("ardhanarisvara"). E l'iconografia tantrica è piena di immagini
che ci mostrano il dio Shiva strettamente abbracciato con Sakti,
la propria ‘potenza’, rappresentata come divinità femminile
(Kali). D'altronde, tutta la mistica erotica indiana ha come fine
46
specifico la perfezione dell'uomo mediante la sua identificazione
con una ‘coppia divina’, cioè attraverso l'androginia."

Le feste dedicate ad Attis si svolgevano dal 15 al 27 marzo. Il 23


marzo squillavano le trombe per annunciare il "Giorno del
sangue".
Il 24 marzo il sommo sacerdote di Attis, l'archigallo, si incideva il
braccio e presentava il suo sangue come offerta al pino (albero
consacrato ad Attis) mentre suonavano cembali e tamburi e
mugghiavano i corni accompagnati dallo stridore dei flauti.
Era il segnale cui ubbidivano gli altri sacerdoti che si
scatenevano, scarmigliati, in una danza sfrenata. Si flagellavano,
e si laceravano con dei coltelli. Al colmo dell'eccitazione, si
amputavano l'organo virile e lo lanciavano come oblazione alla
statua di Cibele. Quei ricettacoli di fecondità venivano allora
rispettosamente avvolti, poi sotterrati o posti in camere
sotterranee dedicate alla Dea. Il sangue sparso rianimava il dio
morto e con lui tutta la natura che germogliava nel sole
primaverile. Il 28 marzo "si mangiava il corpo del dio" sotto
forma di pane perché Attis era "la spiga mietuta verde" e nel
bere il suo sangue, rappresentato dal vino
(nota di Lunaria: un rito e una simbologia che l'odioso gesù copia
in pieno)

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Infine, dopo "un battesimo di sangue" (il fedele veniva ricoperto
dal sangue di un toro evirato) il fedele veniva condotto nella
"camera nuziale" per unirsi alla Dea come suo sposo mistico,
portandole in dono il Kérnos, un vaso contenente, con tutta
probabilità, gli organi sessuali del toro.
Il culto era così popolare che sopravvisse anche sotto il
cristianesimo: ancora al tempo di Agostino era praticato, e si
potevano incontrare processioni di galli dall'atteggiamento
effemminato, il viso imbiancato e i capelli profumati.
Anche a Ierapoli in Siria si svolgeva una cerimonia analoga, in
onore di Astarte. Gli stessi Romani avevano avuto un imperatore
travestito ed effemminato: Eliogabalo, nativo della Siria.
(Nota di Lunaria: sì, ne parla anche Francesca Molfino nel suo
libro dedicato alla moda, "Virilità e trasgressione": "Entrò in
Roma con gli occhi bistrati e il rossetto sulle guance chiedendo di
essere onorato dai suoi sudditi come imperatrice")

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Divinità androgine:

49
50
51
In greco "Phoenix" non significa soltanto "fenicio" ma anche
porpora e indica nello stesso tempo la palma da datteri e la
fenice. Questo uccello "dispone della mirra e dell'incenso, se ne
serve per costruirsi il nido, arriva persino a trasportarli nel becco
prima di consumarsi sul rogo che ha alzato ammucchiando le
sostanza profumate di ogni specie" e sul quale si brucia prima di
rinascere da se stesso per un nuovo ciclo di 1461 anni, il Grande
Anno, la rinascita, rigenerazione ciclica del cosmo.
Rappresentato dall'airone purpureo, la fenice egiziana o uccello
Bennou, era associato a Eliopoli, città solare per eccellenza.
In Mesopotamia, cinque o seimila anni fa, i sumeri coltivavano la
palma da datteri (phoenix dactilifera); la coltura della palma si
diffuse nel bacino mediterraneo, nel Nordafrica; attualmente è
anche piantata in Iraq.
In Medio Oriente il dattero è un alimento dai molteplici impieghi:
se ne ricava un succo dolce, il "miele di datteri", e farne una
specie di pane. Estremamente nutriente, il dattero ha una valore
energetico più alto di qualsiasi frutto.
Per gli antichi, la palma da datteri rappresentava un modello di
fecondità: un palmeto ben curato arriva alla piena produzione 12-
15 anni dopo l'impianto e dà frutto per 60-80 anni, con una media
di 20-50 chili di raccolto e addirittura 200 chili.
Il dattero, nei tempi antichi, era venerato con canti sacri:
Strabone cita un inno persiano, Plutarco un inno babilonese.
Ai tempi di Plinio, a Delo ancora veniva mostrata la palma che era
servita da riparo alla nascita di Apollo; gli orfici consideravano la
specie immortale, indenne da invecchiamento e le tributavano
grande venerazione. Di questa specie esistono piante maschili e
femminili, e siccome la pianta maschio irta, drizza tutto il
fogliame per raggiungere le piante femmine e le loro
infiorescenze, è considerata un emblema fallico (si vedeva in lei
un enorme fallo eretto e peloso) e antropomorfo: il termine
"palma" viene da "palmo della mano"; i datteri sarebbero "dita".
La si credeva nata dalla congiunzione del fuoco celeste e delle
52
acque sotterranee.

Nella mitologia greco-romana esisteva una Dea Palma di nome


Leto o Latona. Si trattava di Lat, arcaica divinità orientale della
fertilità, della palma e dell'ulivo, cosa che spiega come Leto, figlia
di Titani come Dione, e come lei sedotta, abbia messo al mondo
Artemide (Dea Luna) e Apollo (Dio Sole) nell'isola di Ortigia, tra
l'ulivo e la palma, entrambi di origine asiatica, "circondando la
palma con il braccio".

APPROFONDIMENTI
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Beltane – la festa della fertilità
La fine della metà “oscura “ dell’anno e l’inizio dell’estate ha costituito da
sempre un momento di passaggio, in cui la rigenerazione della vita
vegetale è anche la resurrezione della vita cosmica, un ritorno al tempo
mitico degli inizi. Nella tradizione celtica le due feste maggiori erano
quelle che segnavano rispettivamente l’inizio dell’estate e l’inizio
dell’inverno. Come molte altre popolazioni pastorali, gli antichi Celti
avevano infatti due sole stagioni, non quattro: la metà oscura e la metà
luminosa dell’anno. Nel Nord Europa inoltre, gli effetti della primavera
cominciano a sentirsi solo all’inizio di maggio. Le successive suddivisioni
dell’anno furono introdotte più tardi dagli agricoltori. Gli antichi Celti
celebravano il 1° maggio la festa di Beltane (pron. Beltein) nome
anglicizzato che corrisponde al gaelico irlandese Bealtaine (pron.
B’ioltinna) e al gaelico scozzese Bealtuin (pron. B’ialten). In Scozia
Bealtuin è il Giorno di Maggio, May Day, mentre in Irlanda Bealtaine è il
nome dell’intero mese di maggio. Beltane significa “i fuochi di Bel”, i
quali venivano accesi in onore di Bel (Beh, Balor o Belenos sono altri
nomi con la quale è conosciuto in varie aree celtiche). Bel è il
“Luminoso”, dio di luce e di fuoco. Non una divinità solare, perché per i
54
Celti il Sole era un’entità femminile, tuttavia presentante alcuni attributi
solari. Una controparte celtica di Apollo, tanto per tracciare un parallelo
con altri ambiti culturali. Il Sole in molte tradizioni antiche era un
simbolo della divinità, non la divinità stessa. Se questo può sembrare un
concetto strano, basti pensare al Cristianesimo dove non viene adorato
l’agnello ma tuttavia questo animale è simbolo di Gesù Cristo. Le quattro
feste celtiche hanno in fondo un carattere stagionale e ctonio più che
solare e celeste, a differenza delle feste solstiziali ed equinoziali. Per
questo molti studiosi hanno interpretato Bel come l’equivalente del
gallico Cernunnos e del britannico Herne, due divinità maschili della
fertilità, signori dei boschi e degli animali, come indicano le loro corna
nelle raffigurazioni che ci sono pervenute. Essi sono la controparte
nordica di Pan e il loro culto, celebrato nei boschi e nelle campagne,
sopravvisse a lungo nel Medio Evo, tanto che può aver contribuito a
creare l’immagine delle streghe adoratrici del demonio.

Agli occhi degli ecclesiastici che cosa altro poteva essere un’entità
animalesca munita di corna, e i cui fedeli celebravano riti orgiastici?
Simbolicamente Cernunnos e Bel possono essere due aspetti del Dio
Padre che feconda la Dea Madre, aspetti rappresentati dai due temi che
dominano la festa di Beltane: fertilità e fuoco. Il fuoco in questa festa
rappresenta appunto il calore della passione che genera la vita. I fuochi
di Bel erano accesi sulle colline per celebrare il ritorno della vita e della
fertilità nel mondo. Ogni dan o tribù accendeva ritualmente grandi fuochi
per mezzo di scintille sprigionate da una selce. In Scozia, negli Highlands
centrali, i fuochi di Beltane erano accesi tramite il cosiddetto needfire, il
“fuoco della necessità” o“fuoco della miseria”: si usava allo scopo una
tavola di quercia forata ed un palo, pure di quercia che veniva fatto
ruotare velocemente per mezzo di una corda. La tradizione fissava in “tre
volte tre” o “tre volte nove” il numero di coloro che dovevano far girare
questo strumento. In Galles, nella Valle di Glamorgan, nove uomini
rimuovevano dalle loro persone tutti gli oggetti di metallo e andavano
nei boschi a raccogliere nove diversi tipi di legna; poi, in un buco scavato
nel terreno veniva deposta la legna raccolta che era accesa ritualmente
con due pezzi di legno (anche qui di quercia) sfregati insieme per
provocare scintille. I nove diversi tipi di legna erano probabilmente i
nove legni sacri dei Druidi. Essi erano forse sorbo selvatico, quercia,
salice, nocciolo, betulla, biancospino, melo, pino, vite o rovo (altri elenchi
danno al posto delle ultime tre piante il sambuco, il tasso e il vischio o
ginepro). Il numero nove nella tradizione celtica è il numero che indica la
completezza, quindi simbolico del cosmo. Tuttavia le accensioni rituali di

55
fuochi si ritrovano anche al di fuori del mondo celtico: ad esempio in
varie regioni europee i fuochi solstiziali erano accesi mediante una ruota
fatta girare intorno ad un piolo fisso, mentre riti simili erano osservati
nell’India vedica e a Roma per riaccendere il fuoco di Vesta. Lo
sfregamento di legnetti, il tabù circa l’uso di metalli, l’utilizzo di selci, ci
rinvia forse a epoche remotissime, antecedenti qualsiasi civiltà storica e
testimonia l’antichità di queste tradizioni. Il fuoco sacro era simbolo del
fuoco celeste, del calore primordiale che produsse la creazione e che si
ripresentava a ogni ritorno della primavera.

È significativo l’uso di legno di quercia, infatti la quercia è l’albero


attribuito alla metà luminosa dell’anno che proprio a Beltane celebra il
suo trionfo.
Nell’Irlanda pagana nessuno poteva accendere un fuoco di Beltane finché
l’Ard Ri (Grande Re) non avesse acceso il primo fuoco rituale sulla collina
di Tara, il centro mistico e politico dell’antica Irlanda. San Patrizio sfidò
questa usanza per distruggere le usanze pagane e San David fece una
cosa simile in Galles. I fuochi di Beltane venivano spesso accesi in coppia,
e tra i due fuochi veniva fatto passare il bestiame, per propiziare latte
abbondante, fertilità e buona salute per tutto l’anno, prima di essere
condotto ai pascoli estivi. Ci poteva essere una spiegazione “razionale”
per questa pratica dato che il calore poteva uccidere i batteri e i microbi
accumulatisi sulla pelle degli animali nelle sporche stalle invernali, ma il
significato principale era comunque quello di una purificazione rituale
tramite il fuoco, una vera e propria “pulizia di primavera”.
Il fuoco distrugge i poteri ostili, purifica l’aria e favorisce la fertilità di
tutti gli esseri viventi. Incidentalmente, un detto gaelico che dice “essere
preso tra due fuochi di Beltane” sta ancora oggi a indicare il trovarsi in
un dilemma.
Anche le persone e gli oggetti venivano fatti passare attraverso i due
fuochi.

56
La gente danzava attorno ai falò: si danzavano danze con alti salti quali la
Danza del Cervo e la Danza del Salmone Saltante, ricordi di antiche danze
di caccia e pesca. Molte donne danzavano in cerchio su bastoni di legno
in una frenetica danza di fertilità, per promuovere la crescita dei nuovi
raccolti (i bastoni divennero poi manici di scopa ma la loro forma fallica
suggerisce sempre il tipo di energia che veniva evocata).
Quando le fiamme dei falò iniziavano ad abbassarsi le persone saltavano
sui fuochi, usanza ancora praticata in Scozia e in Irlanda per propiziarsi
la fortuna.

57
Così giovani e ragazze saltano per trovare l’anima gemella, i viaggiatori
per garantirsi viaggi sicuri, le spose per ottenere figli e perfino le donne
gravide per assicurarsi un parto facile! Infine, le ceneri dei fuochi
venivano (e ancora oggi in certe località vengono) sparse sulla terra per
garantire la fecondità dei campi.

58
Dopo le danze e i salti spesso le giovani coppie si appartavano col favore
dell’oscurità continuando a modo loro le celebrazioni. Infatti Beltane era
una festa di fertilità nella quale la Madre terra e il Grande Dio dei boschi
si accoppiavano. Per la gente comune era una festa orgiastica. Per tutta la
notte del 30 aprile (come si è detto i Celti facevano cominciare i giorni
dal crepuscolo del giorno precedente) si susseguivano in un’atmosfera
orgiastica banchetti e danze che terminavano con l’avvento della nuova
vita.
Su questa notte vegliava la Grande Dea della fecondità, che dominava
allo stesso tempo il destino dei semi e quello dei morti e che perciò era la
Dea della Morte in Vita. Si entrava in comunicazione con il mondo infero
e con i defunti. Il grande studioso Mircea Eliade giustamente assimilò i
semi ai morti, che aspettano di tornare in vita sotto una nuova forma e
perciò si accostano ai viventi nei momenti in cui la tensione vitale
raggiunge il culmine, cioè nelle feste di fertilità, quando sono evocate le
forze generatrici della Natura. I morti necessitano dell’esuberanza
organica dei vivi, così come i viventi necessitano dell’aiuto dei morti per
far germinare i semi dei nuovi raccolti (dopotutto, Beltane si erge
diametralmente in opposizione all’altra porta dell’anno Samhain, festa
dei morti!). I bambini generati in questa notte si credeva fossero i morti
ritornati in vita e Beltane veniva definita anche la Festa della
Generazione dei Bambini.
59
In questo periodo, vero e proprio momento “caotico” di passaggio, le
leggi della realtà ordinaria sono quasi sospese e si aprono le porte dei
regni ultraterreni come il sidhe, il regno fatato dei Celti. A differenza dei
defunti umani, gli esseri fatati non sempre sono benevoli: in questo
periodo le fate appaiono agli umani e chiunque si addormenta sotto un
biancospino (albero fatato) rischia di essere portato via da loro. Molte
leggende associate a queste feste riguardano spesso gli incantamenti
dell’Altro Mondo. Un mito legato a Beltane è quello gallese di Lludd. Ogni
vigilia di Beltane il regno di Lludd soffriva a causa di uno spaventoso
grido che provocava la sterilità nei campi, negli esseri umani e negli
animali, facendo morire giovani e anziani e togliendo la forza agli adulti.
Lludd scoprì che la causa di questo incantesimo era il combattimento fra
il drago di Britannia e un drago straniero. Egli li catturò e li rinchiuse.
Significativamente Lludd è figlio di Beh...

La notte del 30 aprile fu demonizzata per questi motivi dal Cristianesimo


che ne fece una notte di convegni di spiriti e di streghe, da cacciarsi per
intercessione di Santa Valpurga, monaca inglese dell’VIII° secolo e
badessa del monastero tedesco di Heidenheim. In Germania questa è
appunto la Walpurgisnacht o Notte di Santa Valpurga.
Ma anche nel folklore “pagano” europeo si prendevano precauzioni
contro le fate e gli spiriti malvagi. Era (e spesso ancora è) tabù sposarsi a
maggio perché era il mese delle Nozze Sacre del Dio e della Dea, e in
Inghilterra non si comprano scope nuove di maggio perché esse
spazzerebbero via la buona fortuna.
La festa celtica di Beltane divenne la festa medievale di Calendimaggio.
L’inizio della bella stagione era celebrato con tornei dove il vincitore,
personificazione del Dio vittorioso sulle tenebre invernali, otteneva il
diritto di sposare la damigella per cui si era battuto. In molte località
europee divenne usanza formare comitive di giovani che giravano per i
villaggi cantando stornelli e augurando la buona fortuna (il “cantar
maggio” di molte località toscane). Rami e fiori venivano portati dai
boschi la mattina di Beltane per decorare porte e finestre o per
fabbricare ghirlande che i giovani portavano in giro per le strade
cantando e chiedendo cibo e dolci in cambio. Infatti una caratteristica dei
festeggiamenti di Beltane è la celebrazione della vegetazione, così una
usanza celtica era quella di appendere una ghirlanda primaverile
(simbolo della grande Dea) a un tronco privo di rami (simbolo fallico del
Dio selvaggio).

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In Inghilterra il simbolo della festa di maggio o May Eve (“vigilia di
maggio”) divenne l’albero o palo piantato nelle piazze dei villaggi e
adornato di nastri multicolori. Il palo di maggio non è altro che l’Albero
Cosmico, l’Axis Mundi che collega i tre regni cosmici (celeste, terreno e
infero). Gli sciamani usano l’albero cosmico per ascendere fino al mondo
Superiore o discendere a quello Inferiore, come gli sciamani siberiani
che usavano ritualmente un palo di betulla a sette pioli. In Galles la
danza attorno al palo di maggio era chiamata “danza della betulla”.

61
Tutto ciò che è vivente si manifesta con un simbolo vegetale, e la vita che
risorge celebra il suo trionfo intorno al palo delle danze, simboleggiata
dai danzatori che, afferrato ciascuno l’estremità di uno dei nastri
muovevano in direzioni opposte (gli uomini in un senso e le donne in un
altro), finendo con l’intrecciare i nastri intorno al palo e con le coppie
abbracciate: la danza della vita che muovendo in cerchi e spirali unisce
tutti gli opposti, danza di morte e di rinascita. Ma a Beltane il palo di
maggio ha anche un ovvio significato fallico, il potere fecondante della
divinità maschile immerso nel grembo della Madre Terra e sormontato
spesso dalla ghirlanda femminile della Dea. A Cerne Abbas nel Dorset,
Inghilterra, c’è la figura antica del Gigante di Gesso, forse il Dio Padre
celtico Dagda, con la clava e il fallo eretto. Fino a epoche recenti il palo di
maggio era eretto sopra questa figura rappresentata su una collina
gessosa e le donne che volevano un bambino visitavano il luogo
trascorrendo anche la notte sul fallo del gigante. Si può facilmente
comprendere perché i Puritani proibissero nel 1641 i pali di maggio,
ripristinati solo successivamente con la restaurazione monarchica!

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A Beltane si eleggevano tra i giovani anche il Re e la Regina di maggio,
rappresentanti in terra delle antiche divinità, che regnavano per tutta la
festa portando in processione i sacri rami (i “Maggi”) nei boschi e che
spesso governavano anche le altre feste e danze dell’anno. La Regina
simboleggia la giovane Dea dei Fiori e la nuova crescita e il Re
rappresenta il Dio della Vegetazione e della morte dell’inverno, divinità
personificata nel folklore come JackintheGreen, cioè Jack il Verde. È il
Verde Giorgio del folklore primaverile dell’Europa dell’Est ma è anche
l’uomo vegetale scolpito nei pilastri e nelle travi delle cattedrali gotiche e
romaniche (i boschi sacri della nuova religione...). Infine tutte le coppie si
appartavano di nuovo nei campi e nei boschi, con la scusa di portare il
Maggio o raccogliere fiori, e questo provocò nel corso dei secoli dure
reazioni da parte delle autorità ecclesiastiche! Un chierico scozzese
scrisse che “a fatica una ragazza torna a casa vergine”. Più tardi lo
scrittore Rudyard Kipling scriverà nella sua poesia
“A Tree Song”:

“Oh, non dite al prete della nostra promessa che la chiamerebbe peccato
Ma noi siamo stati fiori nei boschi tutta la notte”

Le leggende relative a Robin Hood, Lady Marian e Little John hanno


giocato un ruolo importante nel folklore britannico della Vigilia di
Maggio: pare che queste figure, lungi dall’avere una realtà storica siano
simboli dei culti di fertilità sopravvissuti in epoca medievale. I cognomi
inglesi Robinson, Johnson, Hodson derivano da antenati a cui vennero
63
dati tali soprannomi (“Figlio di Robin”, ecc.) in quanto figli di questi
“matrimoni” boscherecci.
Queste usanze possono sembrare a qualcuno volgari, tuttavia la fertilità
e la continuazione della stirpe erano cose di primaria importanza: i figli
erano una ricchezza e una benedizione, anche se illegittimi.

Ma la festa di Beltane era caratterizzata anche da altre usanze. Ad


esempio analogamente al solstizio d’estate, in molte località europee si
riteneva questo periodo propizio alle sorgenti miracolose e si compivano
riti e pellegrinaggi alle sacre sorgenti. Così la rugiada raccolta all’alba del
primo maggio era particolarmente potente e si usava come liquido
calmante per gli occhi o come lozione di bellezza.

Un altro rituale folklorico è quello, tuttora esistente nelle Isole


Britanniche, del cavalluccio di legno, Hobby Horse o Oss come viene
chiamato. Appena prima di mezzanotte i Maggiaioli del villaggio di
Padstow si recano alla locanda dove l’Oss è conservato e cantano un
canto augurale al proprietario della locanda e a sua moglie. L’Oss è fatto
di un cerchio ricoperto di pelli, con un palo munito di una mandibola di
legno che si apre e si chiude. Il tutto viene indossato da un danzatore che
gira per le strade accompagnato da musici che suonano un tamburo e
una fisarmonica: ogni volta che la musica cessa esso si accascia per
sollevarsi dopo un po’. L’Oss (che si ritiene abbia forti poteri di fertilità)
viene imbrattato di grasso scuro così che qualsiasi ragazza catturata da
esso ne veniva segnata. L’Oss moriva a mezzanotte per rinascere l’anno
successivo.

Tipici delle feste di Beltane sono anche le danze o le corse nei labirinti.
Spirali e labirinti sono simboli antichissimi, che si vedono incisi e scolpiti
in molti monumenti sepolcrali preistorici. La famosa triplice spirale di
Newgrange potrebbe simboleggiare la natura ciclica di morte e rinascita.
Molte usanze più tarde, espresse dai labirinti tagliati nel prato o costruiti
con siepi possono avere avuto un significato di fertilità, ove le danze
rituali attraverso i labirinti stavano a indicare la rinascita della vita a
primavera.
La stessa danza intorno al palo di maggio ha un andamento a spirale.
Il periodo del primo maggio era un momento sacro anche in altre
tradizioni pagane europee. Nell’antica Roma il 1° maggio era la festa di
Flora (*), protettrice delle piante in fiore. Le sue feste impudiche e
gioiose come quelle di Beltane, comprendevano cacce incruente ad
animali mansueti, offerti in premio alle cortigiane vincitrici di scherzose

64
gare di corse e combattimenti.
Durante i Floralia ci si vestiva con abiti multicolori ad imitazione dei
fiori. La notte del primo maggio era sacra a Bona Dea, ai cui misteri non
erano ammessi gli uomini, mentre il giorno dopo si celebrava Maia, sposa
di Vulcano che dava il nome al mese. Bona Dea era forse Fauna, signora
delle selve probabilmente collegata ad Angitia, dea dei Marsi, e come
questa patrona dei serpenti.

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Dea dei Serpenti Cretese

Il serpente, occorre ricordare, è un altro simbolo della vita che si rinnova


e rappresenta anche il potere fecondante del Dio (l’esclusione degli
uomini significava forse questo: l’unica energia maschile ammessa era
quella del Dio e nessun mortale poteva soppiantarla). Così da un capo
all’altro d’Europa e per tutta l’antichità e il Medio Evo, un simbolismo
comune dominava questo periodo dell’anno: giochi e feste che celebrano
il ritorno della primavera e della fertilità.

Pianta sacra di Beltane è il biancospino,

la cui fioritura rappresentava per i Celti l’inizio della festa. È pianta della
Dea, come la quercia è l’albero del Dio. Si dice infatti che il suo profumo
ricordi quello della sessualità femminile. Inoltre è anche una pianta
66
legata all’Altro Mondo, associata alle fate. Piante di biancospino che
crescono solitarie su una collina o vicino ad una sorgente sono ritenute
segnali del regno delle fate. Gli esseri fatati abitano nelle piante di
biancospino. Il tabù sulla raccolta di questa pianta viene sospeso a
Beltane, quando può essere raccolto per la festa o per essere portato in
casa (analogamente al tabù sulla caccia alla lepre in primavera).
Così la rugiada raccolta dai rami di biancospino è a Beltane benefica e
indicata per le ragazze che vogliano conservare la loro bellezza.

Da: "Feste pagane" di Roberto Fattore


Trovato sul web

(*) Approfondimento su Flora

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68
69
70
maria rappresentata con i fiori, come
71
FLORA!

***

http://www.cumpagniadiventemigliusi.it/Voce_tradizioni/Addobbi_sols
tiziali.htm

Solstizio d'inverno
Antiche usanze europèe
... e l'albero di Natale ?
alloro e mirto, le essenze arbore usate negli addobbi

I VERDI ADDOBBI SOLSTIZIALI

Addobbare gli interni della abitazione con vegetazione rigogliosa,


durante il periodo dell’anno legato al Solstizio d’inverno, è una antica
tradizione europea, che non si limita esclusivamente all’allestimento del
classico “Albero di Natale”, usanza scandinava esportata in tutto il
mondo; ma è legata a ritualità agresti, comuni in ogni contrada del
Vecchio Continente.
Quella dell’abete natalizio decorato di luci e leccornie, è appunto
un’usanza nordica, legata alla fecondità della terra, che la seducente
civiltà dei consumi ha saputo trasferire anche a latitudini più
meridionali, eclissando tradizioni similari meno sorprendenti, che
all’inizio del XX secolo, si mostravano già insidiate dalla cultura
dominante, ben attenta a svuotarle dei fastidiosi significati ancestrali.
Dai primi giorni di dicembre, fino quasi al termine di gennaio, il lungo
periodo comprendente il Solstizio prevedeva, anche nel nostro Ponente
Ligure, calde ritualità domestiche d’omaggio alla natura verdeggiante,
proprio mentre all’esterno le gelide terre coltivate si presentavano alla
stregua di solchi spogli, in attesa d’una ancor lontana primavera.
Ancora a fine Ottocento, da metà dicembre, nelle magioni benestanti si
provvedeva ad inghirlandare i saloni da ricevimento con frasche d’alloro,
secondo l’uso genovese. Questi, veri e propri alberelli di alloro, la rituale
auribàga, venivano addobbati con arance, limoni e mandarini; in qualche

72
caso da nastri colorati, ad imitazione dei frutti; allo scopo di suggerire
alle forze della natura l’auspicata condotta per la prossima primavera. 1
Il sempreverde alloro trova ancor oggi impiego nella ripresa del rituale
Cunfögu pubblico genovese e savonese. Altra pianta, considerata
simbolica del periodo autunnale, era il mirto, a mùrtura; la quale veniva
esposta durante i rituali per la vendemmia, in settembre, e conservata in
bella vista fino al solstizio d’inverno, come ci ricorda lo stesso Thomas
Hanbury, attraverso la memoria di Renzo Villa. 2
Oltre agli agrumi ed altri frutti autunnali, quali il melograno, "u pùmu
granàu", o l'uva d'inverno; le auribaghe rituali venivano guarnite con
speciali biscotti, impastati con il grasso bovino, che li manteneva morbidi
più a lungo; così da poter resistere appesi, esposti nei salotti, fino al
termine delle festività. La caratteristica di questi dolcetti, detti "e
Bugatéte", era la forma antropomorfa, che li rendeva somiglianti a quei
pupazzetti che si realizzano ritagliando strisce di carta, abilmente
ripiegata.
In Val Nervia, la strenna natalizia ricevuta dalle bimbe era sovente "a
Mariéta ìnsci'a càna". Si trattava d’un grosso biscotto antropomorfo a
forma di donnina, confezionato con farina ed olio, da venditori
ambulanti, che frequentavano le fiere e i mercati. A Camporosso, facendo
dono d’una Mariéta ad una bimba, le si diceva: Eccu Mariéta, tàighe a
téta, ciàntighe in ciòn e fàřà gira. Inviti assai cruenti se non si fosse
trattato di un gioco. 3
In bassa Val Nervia, nella penultima settimana di gennaio, la festività di
San Sebastiano prevede la sacrale deambulazione di una grossa pianta di
alloro, adorna di falsi frutti. A Camporosso, tali “frutti” realizzati in cialda
basilare, opportunamente colorata, sono detti papete; le medesime che a
Dolceacqua si chiamano négie e mostrano una colorazione appena
accennata. Tali nebule vengono confezionale con appositi stampi dai
“bastianeti”, i confratelli scapoli della apposita congregazione. 4

NOTE :

1. Nella settimana precedente il Natale, mio padre provvedeva a


raccogliere abbondanti frasche di alloro con le quali addobbava, per le
feste, la nostra macelleria, appoggiandole ai sostegni che reggevano i
ganci, tutto attorno alle pareti. Nei primi anni Settanta, con mia somma
meraviglia, la baronessa Maria Galleani mi ha raccontato come, lo stesso
uso di sostegno per le frasche d’alloro, in periodo natalizio, era
predisposto con le ferramenta atte a sorreggere gli arazzi, nei salotti
73
delle case signorili liguri.

2. Consulta Ligure/C.d.V. - Commemorazione di Sir Thomas Hanbury nel


150° anniversario della nascita 1832/1982. Relazione di Renzo Villa -
Alzani Pinerolo.

3. Assieme alla Mariéta, gli ambulanti portavano, infilati nelle lunghe


canne di sostegno, attraverso il buco centrale connesso alla figura, altre
realizzazioni, dette: u Fantin e u Galétu. L’informatrice di questa
tradizione è Olga Anfosso, classe 1940.

4. Sulla processione di San Bastian vedere l’album fotografico “auribaga


e papete” da Ritualità in Val Nervia.

IL VISCHIO E L'AGRIFOGLIO

Tra i cespugli sempreverdi che fanno parte della ritualità solstiziale


d’inverno, la tradizione europea ci ha portato il vischio e l’agrifoglio, “u
ghì” e “l’agrufögliu”. Il vischio ha origini lontane nella nostra tradizione,
derivando le fioche consuetudini odierne dagli arborei riti celtici. Anche
nella nostra antichità era attivo un mondo di Druidi, querce, vischio
sacro, in una cultura di spiritualità che ci era giunta dalla lontana Asia,
passando per le civiltà di Golasecca, di Hallstatt e di La Tene.
Una popolazione europea, ordinata in tribù, originate da una divinità
antropomorfa e accomunate da lingue semanticamente simili anche se
molto distanti. Una civiltà che quando conquistava non devastava, ma
"concordava" coi conquistati le regole di vita sociale.
Il vischio è sempre stata considerata una pianta magica, nata dal cielo, il
quale con la folgore lo condurrebbe ad affondare le sue radici nella
corteccia di alcuni alberi. Le sue foglie sono sempreverdi e le sue bacche
somigliano a perle; queste ultime si sviluppano nell’arco di nove mesi,
una gestazione umana, e si raggruppano solitamente a tre a tre, un
numero sacro che lo rende simbolo di immortalità e rigenerazione.

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I Druidi usavano tagliare il vischio di quercia, albero sacro, nel sesto
giorno del solstizio d’inverno, indossando tuniche bianche e utilizzando
un falcetto d’oro. Ce lo ha tramandato Plinio il Vecchio, dicendoci come i
rametti venivano raccolti in un drappo di lino immacolato, così da
poterlo utilizzare nelle cerimonie sacre, allo scopo di propiziare un buon
raccolto e proteggere il bestiame, oltre a combattere le epidemie
dell’uomo.
La tradizione di appendere il vischio sul vano delle porte era usanza
celtica che costringeva due nemici che si fossero incontrati sotto a un
ramo di vischio avrebbero dovuto deporre le armi e concedersi una
tregua. è ancora celtica la leggenda secondo la quale due fidanzati che si
baciano sotto al vischio si sposeranno entro un anno; infatti questa era
pianta sacra a Freya, la Dea dell’amore. (*)

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L’Ilex Aquifolium, l’Agrufögliu è un arbusto sempreverde, che cresce in
Europa centrale e meridionale. Le sue foglie sono coriacee dal contorno
spinoso, lucide e cerose sulla pagina superiore, opache e verde più chiaro
su quella inferiore. È uno dei simboli del solstizio d’inverno, appetito
dagli uccelli come il sorbo. Il legno è usato per lavori delicati e fini di
artigianato. Preferisce un'esposizione al sole. Questa pianta, oggi è
annoverata fra le specie protette.
Somiglia molto all’Agrifoglio il Ruscus aculeatus, detto pungitopo, un
arbusto sempreverde dell’Europa centrale, che trasforma i suoi rami e
riduce le foglie a piccole brattee, per adattarsi al clima secco. Anche lui
produce bacche rosse sul limite delle foglie. Nel tardo Medioevo, il
pungitopo veniva usato per scacciare i topi dalle cantine, a pro delle sue
spine, ma era appeso alla porta di queste, legato in mazzetti con lo
Stramonio, che avrebbero dovuto tenere lontane le streghe.

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Giuntoci dall’America, lo Stramonio era usato anche come droga,
somministrata ai bambini per farli addormentare. Con lo Stramonio si
poteva entrare in contatto con il mondo degli spiriti, per raccoglierne i
messaggi. Somministrando lo Stramonio, gli stregoni equadoregni erano
in grado di informarsi sul futuro dei ragazzi, interpretando le loro
visioni.

Dice un vecchio proverbio toscano: "Santa Lucia il giorno più corto che ci
sia"; in effetti non corrisponde a verità, ma è solo il ricordo del
calendario medievale che nei mille anni della sua storia aveva fatto
slittare il solstizio d'inverno a quel giorno per un errore di computo. Il
giorno più corto che ci sia è il 21 dicembre, solstizio d'inverno, a partire
dal quale le giornate cominciano nuovamente ad allungasi. E' la regione
del colore rosso degli addobbi di Natale che ci giungono dalle religioni
precristiane che festeggiavano il ritorno del sole, di cui è simbolo anche
l'albero di natale, sempreverde che vegeta a temperature anche
bassissime, testimoniando la natura che comincia a risvegliarsi. Il
cristianesimo, che fece sue molte ricorrenze dell'antica religione celtica,
77
pose la nascita di Gesù in prossimità del solstizio proprio perché, come il
sole, impersonifica la luce che torna. Conoscere il calendario e i suoi
simboli aiuta a ricordare le antiche radici della nostra storia millenaria
in un mondo globalizzato che tende a spazzare via il lungo cammino fatto
dalla nostra civiltà.

Giampiero Maracchi, climatologo, Il Tirreno 11/12/2010

(*) "Freyr ha una sorella, Freyja. Su di lei circolano molte voci, gran parte
delle quali la dipingono come una dea che nutre una passione smodata
per gli uomini. Freyja guarda con benevolenza gli uomini e le donne che
si desiderano con amore. Aveva un marito che si chiamava Odd, ma su di
lui c’è ben poco da dire. Si racconta che si allontanasse spesso per lunghi
viaggi, e che durante la sua lontananza Freyja piangesse lacrime cocenti,
che le cadevano in grembo trasformandosi in gocce di oro puro. Freyja
viaggia con una carrozza a cui sono attaccati due gatti; ma scende anche
nei campi di battaglia, e al suo arrivo lei e Odino prendono ciascuno metà
dei caduti per sé. Il suo gioiello più prezioso è una collana che ha per
nome Brisingamen; si racconta che una volta Heimdal e Loki, assunta la
forma di foche, si sfidassero a raggiungere a nuoto un’isola in mezzo al
mare per conquistare il gioiello; Heimdal arrivò primo, sicché viene
chiamato anche « il dio che riuscì a prendere il gioiello di Freyja». Altri
dicono che Brisingamen provenga dal laboratorio dei Nani, come molti
altri oggetti preziosi degli Dei e degli uomini."

"Alle potenze ostili appartengono anche i Nani. Essi abitano


nelle viscere della terra. Quando gli Dei crearono il mondo dalla carcassa
del gigante Ymir, i Nani nacquero dai vermi che si annidavano nella sua
carne. Questi esseri sono fabbri capaci, e possiedono inestimabili tesori
di oro e metalli preziosi con cui forgiano gioielli. Gli uomini cercano
sempre con bramosia gli anelli e le armi che vengono fabbricati negli
abissi terrestri, e molti fra i più noti patrimoni vengono accumulati
rapinando gli gnomi che abitano sotto la terra e nelle rocce. È cosi,
dunque, che Utgard, la Terra dei Giganti, circonda le abitazioni degli
uomini, e racchiude al suo interno anche il regno di Hel. Di notte, Hel
rovescia le sue tenebre su Midgard; perciò, quando scende la sera, non è
sicuro avventurarsi per i sentieri come durante il giorno; nell’ombra, si
aggirano furtivi nugoli di spettri, che osano spingersi fin sulla soglia delle
abitazioni; inoltre, è possibile che l’oscurità conferisca loro poteri ancora
più forti di quelli che possiedono quando splende il sole. Mostri e Giganti
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spiano senza sosta gli uomini per ostacolarli e disturbare il loro lavoro, e
se il grande Tor, protettore degli esseri umani, non vegliasse su di loro e
non si divertisse a scagliare il suo martello fra i Giganti, la terra si
trasformerebbe in sterpaglia e arida pietra. Sulla lotta di Tor contro i
Giganti, si narrano molte storie."

"Gli Dei, dunque, si prepararono lentamente alla disfatta attraverso le


loro vittorie, ma la maledizione più atroce di tale sconfitta fu che,
lentamente, gli uomini smarrirono il bene dell’intelletto, e una volta che
nei loro cuori si fu insediata la brama di potere e di ricchezza, furono
violati i più sacri vincoli familiari, e calpestate le più sincere promesse.
Finché, al crepuscolo del mondo, gli uomini non seppero più distinguere
la felicità e la gloria che seguono quando gli audaci si mettono
reciprocamente alla prova, dalla brama di derubare il nemico di tutti i
suoi averi. E in tal modo si sviluppò un altro mondo nelle viscere
profonde di Hel, un oscuro nido di esseri malvagi. Giù nell’abisso, sulla
Riva dei Morti, sorge una casa con le porte rivolte verso il buio, gelido
Nord, orribile nella sua imponenza. Il tetto è un intreccio di serpenti
attorcigliati, le cui teste si insinuano fra le travi a sputare fiumi di veleno,
che inondano il pavimento. Qui navigano i morti che si sono macchiati di
infamia violando giuramenti e compiendo atroci delitti, nonché coloro
che hanno indotto al tradimento la donna del vicino con oscuri artifici.
Ma proprio nei tempi più tenebrosi, quelli che condurranno al
tramonto degli Dei, non mancheranno uomini felici di vivere e di onorare
i nemici combattendoli lealmente, si che entrambi potranno guadagnare
gloria eterna con la vittoria, o fama immortale con
l ’onore e la dignità. E grazie a questi uomini, che con la loro morte
gloriosa finiranno per travolgere i Giganti, assumendo su di sé tutti quei
poteri malvagi che avrebbero altrimenti distrutto la splendida terra, gli
Dei potranno finalmente riscattare l ’onore sul campo di battaglia."

"Tor si riprende il martello rubato da Trym"

Una mattina, al suo risveglio, Tor si accorse che gli era sparito il martello.
Agitatissimo, strappandosi ora la barba, ora i capelli, incominciò a
correre di qua e di là per cercarlo: ma il martello non si trovava da
nessuna parte. Allora s’infuriò, chiamò Loki e gli confidò la sua pena.
"Devo dirti una cosa di cui nessuno, né in cielo né in terra, né in nessun
altro luogo, è a conoscenza: sta’ a sentire: il mio martello non c’è più!"
Loki non tardò a capire quello che Tor gli avrebbe chiesto di fare:

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spettava sempre a lui, infatti, il compito di trovare un rimedio quando gli
Dei non ne erano capaci. Allora si recò in fretta e furia da Freyja e le
chiese in prestito le sue penne di falco, spiegandole che doveva
servirsene per andare a cercare il martello di Tor. Ottenuto il manto, lo
indossò e volò immediatamente verso Jotunheim. Qui incontrò il gigante
Trym: se ne stava seduto su una collina, davanti alla sua fortezza, intento
a passare il tempo intrecciando guinzagli d’oro per i suoi cani e lisciando
la criniera ai suoi cavalli.
Trym chiese a Loki: "Come vanno le cose fra gli Asi (gli Dei) e gli Elfi?
Perché sei venuto da solo a Jotunheim?"
Loki rispose: "Non se la passano tanto bene, gli Asi e gli Elfi. Dimmi una
cosa: hai nascosto tu il martello di Tor?"
"Proprio cosi, sono stato io", rispose Trym, "l’ho nascosto otto leghe
sotto terra, e non lo riavrete finché non mi portate qui Freyja e me la
date in sposa."
Loki allora volò di nuovo dagli Asi. Nel cortile incontrò Tor, il quale,
appena lo vide, urlò: "Hai trovato ciò che stavi cercando? Dimmelo
subito, mentre indossi ancora le ali, prima che tocchi terra e dimentichi
ciò che hai da dire".
Loki rispose: "Ho trovato ciò che cercavo; è stato il gigante Trym a rapire
il tuo martello, e tu non lo rivedrai fin ché non gli porti Freyja in sposa".
Tor piombò immediatamente da Freyja e senza preamboli le disse:
"Mettiti subito in testa il velo nuziale: io e te dobbiamo andare a
Jotunheim."
Freyja montò su tutte le furie, e il petto le si gonfiò di rabbia a tal punto
che Brisingamen, la sua collana, andò in frantumi.
"Non sono cosi avida di uomini da sposarmi con un gigante", strillò.
Scoraggiato, Tor se ne tornò con le pive nel sacco. Decise cosi di confi-
dare il suo problema a tutti gli Dei. Essi convocarono il consiglio e si
misero a discutere sui passi da muovere per riprendersi il martello di
Tor da Jotunheim; nessuno, tuttavia, fu capace di escogitare una
soluzione. A un certo punto prese la parola Heimdal, che apparteneva
alla stirpe dei Vani, e ne possedeva perciò la saggezza, e propose un
piano: agghindato Tor con un velo bianco, lo avrebbero condotto da
Trym, e fatto accomodare sul seggio nuziale; in tal modo Tor avrebbe
avuto l’opportunità di riprendersi il martello. Tor reagì malamente: "E
già, così tutti gli Dei, quando mi vedranno uscire da qui col vestito da
sposa, mi urleranno dietro «femminuccia» e rideranno di me!"
Ma Loki gli rispose: "Sta' zitto, Tor, non parlare a vanvera; i Giganti
diventeranno in un baleno i padroni di Asgard, se non riavrai il tuo
martello".

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Né Tor, né gli altri Dei poterono contestare questa affermazione, perciò
venne deciso che Tor sarebbe andato nella Terra dei Giganti vestito da «
sposa » . Gli legarono i capelli in una crocchia, intorno alla quale fu poi
avvolto il velo nuziale; quindi gli adornarono il petto con la collana
Brisingamen e gli misero attorno alla cintola un tintinnante mazzo di
chiavi (*).
Quando terminarono di vestirlo, Loki disse: "Andremo in due a
Jotunheim: tu sarai la sposa, e io la damigella."
Furono quindi condotte le capre dal prato e, dopo averle attaccate
davanti al carro, Tor partì di gran carriera, fra il fragore delle rupi e il ba-
gliore delle lingue di fuoco emanate dalla terra.
Quando Trym udì il fracasso della carrozza, urlò: "Sveglia, Giganti,
rinnovate la paglia alle panche! Sta per arrivare Freyja, la sposa. Nei miei
campi pascolano vacche dalle corna d'oro e buoi dal manto nero come
carbone, i miei scrigni custodiscono oro e pietre preziose: solo Freyja,
null'altro, manca alla mia felicità!"
Il corteo nuziale apparve sul calar della sera, e allora fu imbandita la
tavola, ai lati della quale presero posto tutti i Giganti. In tavola vennero
portati birra, pigne piene di carne di bue, salmone, e altre prelibatezze
per le signore. Quella sera Tor fece fuori un bue intero e otto salmoni, in
naffiando il tutto con tre botti di idromele. Trym si meravigliò molto
dello straordinario appetito di Freyja: "Non ho mai visto una fanciulla
ingollare bocconi così grossi e succhiare dalla bottiglia con tanta avidità".
Ma la damigella al seguito di Tor fu lesta a trovare una risposta: "Per
otto giorni Freyja non ha toccato cibo, tanto era bramosa di raggiungere
Jotunheim".
Poco dopo Trym si diresse verso la sposa e, sollevato il velo, si chinò per
baciarla: ma quando incontrò lo sguardo minaccioso di Tor, si ritrasse
immediatamente raggiungendo l'altro lato della sala, e chiese: "Perché lo
sguardo di Freyja è cosi adirato? I suoi occhi mandano lampi, mi pare."
Ma, ancora una volta, Loki aveva pronta la risposta: "Freyja non ha
chiuso occhio per un'intera settimana, tanto era emozionata al pensiero
di raggiungerti."
Prima di dirigersi verso il talamo nuziale, entrò la sorella del gigante per
reclamare un regalo: non era né giovane, né di aspetto desiderabile. Si
rivolse alla sposa con queste parole: "Dammi gli anelli che hai al braccio:
ti guadagnerai la mia benevolenza in questa casa".
Ma a quel punto Trym disse al suo paggio: "Portate qui Mjolnir, in modo
che possiamo consacrare Freyja signora della corte del gigante. I giganti
eseguirono immediatamente l'ordine, e M jolnir fu deposto sul grembo di
Tor: il cuore gli batté forte nel petto dalla gioia, quando vide il martello.

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Senza por tempo in mezzo lo afferrò e lo roteò nell’aria. Il martello si
abbatté prima su Trym, poi ne fece fuori l’intera progenie. Non risparmiò
neppure la vecchia sorella del gigante, quella che aveva preteso il regalo
di nozze: ma invece degli anelli, si era beccata una martellata. E fu cosi
che Tor rientrò in possesso del suo martello."

(*) II mazzo di chiavi faceva parte dell'abbigliamento della sposa


vichinga.

(da "Miti e leggende del Nord" di Vilhelm Gronbech)

Per i Greci non esisteva frutto più utile dell'oliva e non si può
neppure immaginare la civiltà greca e la Grecia stessa senza
l'ulivo. Come oggi, anche nell'antichità le olive venivano
consumate nere, cioè mature, dopo essere state lasciate a
macerare un po' di tempo nell'acqua affinché perdessero il
sapore aspro, oppure verdi, e in questo caso venivano
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sciacquate, poi lasciate a bagno in acqua dolce e salate
leggermente.

L'olio ricavato dai frutti per pressione era un prodotto di prima


necessità. Non veniva utilizzato solo in cucina ma, impiego quasi
altrettanto importante e più nobile, per l'illuminazione; ciò
avveniva già nella Creta minoica: innumerevoli lampade di argilla,
di steatite, di pietra tenera, di marmo e di bronzo indicano
chiaramente che, nei palazzi come nelle capanne, l'olio era usato
per l'illuminazione, e la capacità di tali lampade denota come
l'illuminazione fosse lussuosa, né si badava a fare economia.

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L'olio di oliva serviva anche alla cura del corpo, che esso rendeva
brillante; anche agli Dei e agli eroi nell'Odissea piace frizionarsi
con l'olio per conservare la loro bellezza luminosa e immortale.

L'olio di oliva costituiva inoltre la base degli unguenti e dei


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profumi.

Lo si utilizzava per preparare le salme, per le unzioni sacre, nella


medicina e nella magia e infine se ne facevano offerte agli Dei.
Malgrado sia oggi inseparabile dal paesaggio greco, l'ulivo non è
nato in Grecia. Le ricerche dei botanici hanno stabilito che il suo
habitat originario è l'Asia Minore, dove forma vere e proprie
foreste nell'estesa regione che, partendo dall'Arabia
meridionale, e risale passando dalla penisola del Sinai, dalla
Palestina, la Siria e la costa meridionale della Turchia fino ai piedi
del Caucaso. Fu lì, con tutta probabilità, che si cominciò a
coltivarlo. Non è perciò sorprendente che la prima menzione
dell'ulivo si trovi nei capitoli della Genesi in cui è narrato il Diluvio:
"Noè aspettò ancora altri sette giorni, poi fece di nuovo uscire
dall'arca la colomba (la prima volta non avendo trovato dove
posare il piede, la colomba era tornata indietro) e la colomba
tornò da lui, verso sera, ma ecco, essa aveva nel becco un
ramoscello fresco d'olivo". Lo sdegno di Dio si era placato, le
acque si erano ritirate, la vegetazione cominciava a rinverdire. Fin
dall'origine, l'ulivo fu per gli Ebrei uno dei doni più preziosi di
Jahveh, il simbolo stesso dell'alleanza da lui conclusa con gli
uomini nella persona dei patriarchi. L'olio d'oliva serviva alla
consacrazione. Così, "L'inviato di Dio" del quale il popolo
aspettava la venuta era chiamato il Messia, "l'Unto del Signore",
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tradotto in greco con Khristòs.

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Olio di rosmarino

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La storia di Piramo e Tisbe, che sta alla base del mito sulle bacche
del gelso (le more sono prima bianche, poi rosse e infine viola
scuro), è tragica. Ovidio, il primo autore che la narra, la colloca a
Babilonia, e quindi se ne deduce che la leggenda non è greca, ma
asiatica. I due splendidi giovani si amavano teneramente ma di
nascosto a causa dell'opposizione delle famiglie. Le loro case
erano vicine, sicché essi si parlavano attraverso una crepa del
muro divisorio, però non potevano vedersi né abbracciarsi. Così
si diedero appuntamento a una fonte, sotto un gelso, "fecondo
di bianche frutta" che li riparava dagli sguardi indiscreti. Ma un
giorno Tisbe, arrivando per prima, fu terrorizzata scorgendo una
leonessa venuta a bere e fuggì lasciando cadere il suo velo che la
leonessa trovò sul sentiero. Con le fauci insanguinate, perché
aveva appena ucciso una preda, lo lacerò. In quel mentre giunse
Piramo, il quale, vedendo le tracce della leonessa, poi il velo
macchiato di sangue, credette che Tisbe fosse morta. Disperato,
se ne sentì responsabile e non potendo sopravvivere alla sua
amata, si affondò la spada nel cuore. Il sangue, sgorgando, tinse
di rosso i frutti del gelso. Tornata sui suoi passi, Tisbe non ne
riconobbe il colore, ma vide il corpo del suo amato a terra e,
decisa a ritrovarlo nella morte, così parlò al gelso:

"Albero, tu che ricopri coi rami ora il misero corpo


d'uno di noi, coprirai tra non molto la salma di due.
Serba le macchie del sangue e col sangue ognor scure le frutta,
che ben s'adattano al lutto, ricordo di duplice morte!
Disse: ed all'infimo petto s'oppone la punta del ferro
caldo tuttora del sangue dell'altro e si lascia cadere.
Ne secondarono il voto per altro gli Dei e i parenti
serbano scuro il colore le bacche mature del gelso
ed un'unica tomba le ceneri posano insieme"

Da questa storia drammatica Théophile de Viau trasse nel 1617


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una tragedia.

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Principessa di Tracia, Fillide si innamorò di Acamante, figlio di
Teseo, partito per la guerra di troia. Quando la flotta degli Achei
si accinse a tornare in Grecia, Fillide cominciò a spiare, dalla riva,
l'arrivo della nave del suo amato. Ma avendo questi, a causa di
un'avaria, subito un ritardo, la sventurata morì di dolore. Era, la
Dea degli amori fedeli, la trasformò in un mandorlo. Il giorno
dopo, quando Acamante sbarcò, potè solo stringersi alla sua
corteccia, ma subito sul legno ancora privo di foglie apparvero i
fiori: la storia di Fillide ricorda la grazia virginea della fioritura
precoce del mandorlo, ma anche la sua fragilità, perché è spesso
rovinato dalle gelate primaverili.

La Dea Era

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Portatore di frutti così suggestivi, dal senso osceno (il fico
assomiglia allo scroto e semiaperto, a una vagina) il fico era
considerato un albero impuro. Sappiamo per esempio che se un
fico spuntava per caso sul tempio della Dea Dia, antica divinità
latina dei campi assimilata a Cerere/Demetra, bisognava non
soltanto estirpare l'albero ma anche distruggere il tempio
diventato impuro.
Si racconta che il famoso misantropo Timone di Atene si
presentò all'assemblea e salì sulla tribuna degli oratori:

"Io ho una piccola area fabbricabile, o cittadini ateniesi, ove è


cresciuto un fico a cui molti abitanti di questa città si sono già
impiccati. Siccome sarebbe mia intenzione costruire in tale
posto, desidererei preavvertirvi pubblicamente, affinché se
qualcuno di voi volesse impiccarvisi, lo faccia prima che il fico sia
stato abbattuto"

Malgrado fosse per alcuni versi impuro e nefasto tuttavia il fico

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era ritenuto un albero oracolare. Un frammento di Esiodo, citato
da Strabone, mette in rapporto diretto la vita di Calcante,
l'indovino della guerra di Troia, con un fico. A Roma erano
venerati molti fichi sacri. Plinio ne ricorda uno che si trovava
davanti al tempio di Saturno.
Al fico si attribuiva un rapporto con il latte, per via del fatto che i
fichi contengono un succo dall'aspetto latteo
(un tempo usato contro le verruche) e secondo Plinio sembra
che un fico fosse stato piantato vicino al tempio di Rumina, Dea
dell'allattamento. Inoltre il fico era considerato un albero
pseudofallico, e in tal caso, il "latte" sarebbe considerato
sperma, in questo caso, quello del Dio Marte, cui il fico era
consacrato. C'è un'altra leggenda sul concepimento di Romolo e
Remo, riferita da Plutarco: "Scaturì dal focolare di Tarchezio, re
di Albalonga una forma di membro virile e vi rimase parecchi
giorni. Avendo consultato un oracolo sul significato di quel
fenomeno, Tarchezio si sentì rispondere che sua figlia, che era
ancora da sposare (era vergine, essendo vestale) doveva subire
la compagnia di quel mostro perché ne sarebbe nato un figlio
famoso per il suo valore, che avrebbe superato tutti per la forza.
Tarcheziò ordinò alla figlia di avvicinarsi al mostro ma essa si
rifiutò e mandò al suo posto una delle sue ancelle. Tarchezio si
adirò, e le fece rinchiudere tutte e due per farle morire. Ma
Vesta, Dea del focolare, apparve in sogno al re e gli proibì di
farlo. L'ancella partorì quindi due bei gemelli che Tarchezio
consegnò a Terazio, per farli morire."
Si potrebbe supporre che il "membro virile" senza corpo fosse
fatto di legno di fico, e il fico quale albero di Marte sarebbe
quindi il padre di Romolo e Remo.
Anticamente Marte era un Dio della natura in fiore, nato da
Giunone unitasi con un fiore (e non con Giove), di conseguenza
presiedeva alla rinascita primaverile della vegetazione e alla
rinascita degli alberi. Oltre al fico, gli erano consacrati il corniolo,
il lauro e la quercia, mentre i suoi animali erano il lupo e il picchio
che tra l'altro ebbero la funzione di nutrici dei gemelli divini.
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Il fico era anche l'albero di Dioniso, il Dio della linfa e dei succhi,
ed era anche rivendicato da Priapo, il Dio fallico per
eccellenza, e protettore dei giardini. Col legno di fico si
scolpivano i falli portati in processione e il fico era collegato al
capro: a Roma il fico selvatico si chiamava "Caprificus" da
"caper", capro.
Quando in occasione di una calamità pubblica si sacrificavano un
uomo e una donna come capri espiatori, l'uomo portava una
collana di fichi neri, la donna una collana di fichi bianchi. Durante
le Targelie, feste di Apollo e Artemide che si celebravano ad
Atene in maggio-giugno i profani venivano scacciati con rami di
fico.

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ALBERI PARLANTI
A volte si raccontava che gli alberi parlassero: a Maumusson una
quercia fece udire i suoi gemiti, e fu ai suoi piedi che i
repubblicani uccisero il curato della parrocchia. A Lanmodez
sanguinava il biancospino che cresceva accanto alla roccia detta
"la sedia di san Maudez"; alcuni alberi sono garanti dei
giuramenti e puniscono gli spergiuri, come la quercia di una
leggenda dell'Angiò, sotto la quale un signore giurò eterna
fedeltà alla fanciulla che aveva sedotto. Dimenticata la
promessa, gli accadde di passare sotto la quercia il giorno in cui
la sventurata fanciulla moriva: l'albero si abbattè su di lui,
schiacciandolo. In un racconto alsaziano, un pero e un melo
chiedono a una fanciulla il motivo del suo dolore e la consolano
facendole cadere nel grembiule i loro frutti migliori. Ci sono
anche alberi che cantano per salutare le persone cui dimostrano
il loro rispetto; Orfeo faceva muovere gli alberi al suono della
sua lira.

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La mia erbetta ^.^

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