Jacques Brosse Mitologia Degli Alberi
Jacques Brosse Mitologia Degli Alberi
Jacques Brosse Mitologia Degli Alberi
Nel più lontano passato, molto prima che l'uomo facesse la sua
comparsa sulla terra, un albero gigantesco s'innalzava fino al
cielo. Asse dell'universo, attraversava i tre mondi. Le sue radici
affondavano fin negli abissi sotterranei, i suoi rami arrivavano
all'empireo. L'acqua attinta dalla terra diventava la sua linfa, dai
raggi del sole nascevano le sue foglie, i suoi fiori e i suoi frutti.
Attraverso di lui, il fuoco scendeva dal cielo, la sua cima,
raccogliendo le nuvole, faceva cadere le piogge fecondatrici. Con
la sua verticalità, l'albero assicurava il nesso tra l'universo
uraniano e i baratri ctoni. In lui il cosmo si rigenerava in perpetuo.
Fonte di ogni vita, l'albero dava riparo e nutrimento a migliaia di
esseri. Tra le sue radici strisciavano i serpenti, gli uccelli si
posavano sui suoi rami. Anche gli Dei lo sceglievano per
soggiornarvi. Ritroviamo quest'albero cosmico in tutte quasi le
tradizioni, da un capo all'altro del pianeta, ed è lecito supporre
che sia esistito dappertutto, anche là dove la sua immagine è
cancellata.
Secondo alcune leggende, gli uomini sono nati dagli alberi e dalle
pietre. Questa associazione dell'albero primordiale alla pietra
sacra (menhir, bethel, omphalos, lingam) è corrente nella
maggior parte delle tradizioni. Entrambi questi elementi erano
considerati "serbatoi di spiriti" disponibili a incarnarsi,
potenzialità di esistenze. Come osserva Jean-Paul Roux, la pietra,
uguale a se stessa "da quando i più antichi progenitori l'hanno
eretta o hanno inciso su di lei i loro messaggi, è eterna, è il
simbolo della vita statica, mentre l'albero, soggetto a cicli di vita
e di morte, ma dotato del dono incredibile della perpetua
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rigenerazione, è il simbolo della vita dinamica."
è questa una struttura cosmica dualistica, di cui troviamo traccia
ancora oggi tra i Berberi:
Nell'Egitto dei Faraoni, dove gli alberi erano rarissimi, gli Dei
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troneggivano a levante sull'alto sicomoro sacro, il cui legno li
conteneva e costituiva la loro alimentazione. Nella direzione
opposta, a ponente, al limite del deserto, aveva sede la "Signora
del sicomoro", Hathor, che aveva creato il mondo e tutto ciò che
esso contiene, compreso il sole. Estremamente
compassionevole, emergeva dal fogliame dell'albero per
accogliere coloro che erano appena morti, offrendo loro acqua e
pane in segno di benvenuto. Sui rami del sicomoro venivano a
posarsi le anime, sotto forma di uccelli, e il legno imputrescibile
dell'albero serviva quale ultima dimora ai corpi mummificati.
Attraverso l'albero sacro, le anime tornavano in seno al mondo
divino delle essenze eterne che avevano abbandonato solo per la
durata di una vita.
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Edera e vite, benché lignee hanno bisogno di un supporto. Si
innalzano sugli alberi intorno ai quali avvolgono i loro sarmenti
volubili. L'edera cresce in un primo tempo sulla terra, la Madre
Terra, della quale sembra l'emanazione e che copre anche
d'inverno con le sue foglie coriacee, fino a quando incontra il
tronco di un albero lungo il quale s'innalza a spirale. Può
compromettere la vita del suo sostegno, che essa soffoca poco a
poco, fino a farlo morire. L'edera è la pianta prediletta da
Dioniso. Il dio veniva spesso chiamato "l'Incoronato di edera" o
anche Kissòs, "l'edera". Questa liana l'aveva salvato due volte a
Cadmo. Poco dopo la sua nascita le ninfe lo immersero nella
fonte Kissusa, "dell'edera", ed è sul monte Elicona (hélix, è un
altro nome dell'edera) che venne allevato. L'edera dà i frutti
proprio all'inizio della primavera, molto prima che appaiano i
primi germogli della vite, e quei frutti sono cibo per gli uccelli.
Agli antichi, l'edera ricordava il serpente, potenza ctonia per
eccellenza. Nel culto dionisiaco c'era perfino l'equivalenza tra
pianta e i serpenti che ornavano la capigliatura delle Menadi, e
che queste tenevano con le mani come è attestato dall'aneddoto
riferito da Nonno di Panopoli: "I serpenti gettati da alcune
Menadi contro un ceppo lo avvolsero e si trasformarono in
sarmenti di edera". Alle compagne del dio essi non servivano
solo per decorazione: li strappavano per cibarsene.
In epoca classica si contrapponeva la freschezza umida
dell'edera al carattere igneo del vino, del quale si riteneva che
potesse dissipare i vapori. è questo il motivo per cui a Dioniso
stesso si attribuiva il merito di aver insegnato a coloro che sono
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soggetti ai "furori bacchici" di farsene delle corone durante i
banchetti.
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la Terra.
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mediche. Ancora oggi, in numerosissimi villaggi bavaresi e
austriaci, i farmacisti fanno affari soprattutto in questo periodo,
essendo i malati convinti che i medicinali siano più efficaci.
All'edera vennero attribuite altre doti terapeutiche di cui è lecito
dubitare: consigliata per combattere le ulcere, l'itterizia, i calcoli,
si ritenne addirittura che un "aceto" preparato con le sue bacche
fosse in grado di debellare la peste: proprio a questo scopo
venne largamente usata durante una terribile epidemia
scoppiata a Londra nel 1665. Si è comunque accertato che le sue
foglie contengono principi tali da curare la pertosse e la
bronchite. Se ne servivano già i nostri antenati, mentre oggi
disponiamo, ovviamente, di preparati ben più efficaci e meno
dannosi."
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In Epiro, nella parte nordorientale della Grecia, sorgeva il più
antico degli oracoli greci, la Quercia Sacra di Dodona. Il luogo
aveva - e conserva tuttora - un aspetto selvaggio e drammatico.
Ai piedi del monte Tamaro, sulle pendici dal quale si ergono
ancora vecchissime querce, s'innalzava il santuario di Zeus, che
nel
IV-V secolo diventò chiesa cristiana e sede episcopale. La zona
era famosa per la violenza dei suoi temporali e anche per il
freddo che vi regnava. Omero parla di "Dodona dalle male
tempeste"
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Promenia, "l'anima di prima", la seconda Timarete "la virtù
onorata", la più giovane Nicandra "vittoriosa sugli uomini".
Interpretavano il fruscio prodotto dal movimento del fogliame
(dendromanzia). Non erano però Sacerdotesse di Zeus, ma di
Dione, la Dea sposata da Zeus a Dodona. Presso i Greci, Dione è
ricordata solo dagli autori più antichi, che la ritengono pre-
ellenica. Appare all'inizio della formazione del mondo. Nel mito
pelasgico, Dione è una Titanide che, associata a Titano Crio,
regna sul pianeta Marte.
Nella Teogonia di Esiodo è figlia di Oceano e Teti. Nel mito orfico,
riferito da Platone, Oceano e Teti costituirebbero la coppia
primordiale che ha dato origine agli Dei e a tutti gli esseri.
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L'uso delle statuine appese ai rami degli alberi da frutto era
corrente in Grecia e a Creta. Nella maggior parte dei casi esse
raffiguravano Arianna. Poiché questo appunto fu in origine la
figlia di Minosse: una Dea minoica primitiva, uno spirito della
vegetazione, dell'albero. Il suo nome, Arianna, o meglio Ariagne,
tradotto di solito come "la più sacra" sarebbe reso molto meglio
con "l'intatta", "l'intoccabile". La vergine Arianna pagò a caro
prezzo il fatto di non essere più tale perché il volubile Teseo
l'abbandonò a Nasso. Fu poi consolata da Dioniso (*)
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In Arcadia esisteva un culto di Artemide Apankoméne, o di
Artemide Kondylits, "l'Impiccata", "la Strangolata"
(Nota di Lunaria: vedi il collegamento con i Tarocchi: L'Appeso, il
Dodicesimo Arcano, che rappresenta il sacrificio di sé, le Divinità
incarnate che si sono immolate: il dono di se stessi)
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foreste selvagge, era anch'essa una divinità dell'albero, cui erano
consacrati il noce, il cedro e l'abete rosso.
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surrogati?
L'impiego dell'altalena era associato al rinnovamento della
vegetazione, le bambole stimolavano l'accrescimento degli
alberi,
e molti Dei si sacrificano impiccandosi: Dioniso-Zagreo, Odino.
(Nota di Lunaria: anche il cristo si appende al legno e reclina il
capo anche se non viene impiccato; comunque, nella storiella
evangelica, è Giuda ad impiccarsi)
Il sacrificio di sé è il dono totale, e, nei casi citati, si trattava di
provocare l'avvio della vegetazione.
Della fede arcaica negli effetti fecondatori e rigeneratori
dell'impiccagione esiste un'antica traccia: si credeva che la
mandragora crescesse sotto il patibolo, dal seme degli impiccati
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LA DEA
BIRGIT/BRIGIT
Nell'alfabeto degli alberi, il calendario sacro ai Celti, è
ugualmente la betulla che presiede il primo mese dell'anno
solare (dal 24 dicembre al 21 gennaio). La betulla è quindi
collegata alla rinascita del Sole. Benché in genere dedicata alla
Luna, per la sua pelle delicata che ricorda lo splendore argenteo
della Luna piena, talvolta è anche dedicata al Sole e alla Luna
insieme, ma in questo caso è duplice: maschio e femmina. Nella
festa che celebra il ritorno della luce, la nostra Candelora, la
betulla è oggetto di speciale considerazione, nella persona di
Santa Brigida il cui nome "Birgit" deriva dalla radice indoeuropea
"Bhirg", betulla, che dà "birch" in inglese e "Die Birke" in
tedesco. Santa Brigida di Kildare, presentata dagli agiografi come
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la figlia di un capoclan pagano, e diventata patrona d'Irlanda, era
originariamente un'antica divintà celtica della rinascita del fuoco
e della vegetazione, la figlia di Dagda, il Dio supremo venerato
dai Druidi.
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La festa di santa Brigida che si celebra il 1° febbraio, era una delle
quattro feste irlandesi ricordate da Cormac, vescovo di Cashel
nel decimo secolo. Nella Britannia veniva mantenuto il fuoco
perpetuo nel tempio di una Dea che i Romani identificavano con
Minerva ma che in realtà era Birgit, a un tempo guaritrice e
patrona dei Bardi - i quali possono essere paragonati agli
sciamani - e dei fabbri. Ancora nel sedicesimo secolo "le suore" di
Kildare tenevano acceso un fuoco che subito dopo la sepoltura
della "santa" si sarebbe acceso da solo sulla sua tomba. "Kildare"
significa "chiesa delle querce", essendo stato precedente un
nemeton, un sacro bosco pagano.
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Le 19 suore vegliavano a turno il fuoco. Fu Enrico VIII a
sopprimere tale pratica.
La festa di santa Brigida apriva il mese di febbraio che da sempre
era il mese delle purificazioni (dal latino "februare" = "purificare,
fare espiazioni religiose"). A Roma, fino alla riforma effettuata da
Giulio Cesare, era il mese dei morti e anche quello nel corso del
quale ci si sforzava di eliminare gli influssi negativi. Vi si
celebravano i Februali, istituiti da Numa Pompilio, al quale si
doveva l'organizzazione religiosa. Questa antichissima festa dei
morti si celebrava di notte, alla luce delle torce.
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Il 15 febbraio avevano luogo i Lupercali, in onore di Luperco
(chiamato anche Fauno, considerato l'equivalente di Pan)
Durante i Lupercali i sacerdoti del Dio, nudi, percorrevano le
strade di Roma sferzando la folla con corregge ritagliate nel
cuoio di un capro. Le donne sterili tendevano mani e schiene
nella speranza di essere fecondate. La celebrazione dei morti era
quindi connessa con le promesse di fecondità futura, in quanto i
nuovi nati erano i morti reincarnati. I Lupercali furono soppressi
da papa Gelasio nel 494 che li sostituì con la festa della
Purificazione della Vergine, la Candelora, o festa delle candele
perché veniva effettuata la solenne benedizione dei ceri, della
luce nuova, rito d'origine celtica.
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Secondo i proverbi russi la betulla ha ben 4 poteri: con i suoi rami
si fanno torce, perché danno grandi fiamme chiare, e anche
scope e verghe. Dal legno di betulla si ricava il catrame che
impedisce alle ruote de carri di cigolare. E infine la linfa, il
"sangue di betulla", molto usata nella fitoterapia. Ai piedi della
betulla cresce spesso l'amanita muscaria (ovolaccio) usata dagli
sciamani per andare in trance.
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Le credenze popolari associano l'ovolaccio ai rospi (e in inglese il
fungo è chiamato "trono di rospo"), perché il rospo è ritenuto in
rapporto con le potenze infernali e con la Luna e la pioggia.
Secondo gli Orocci, popolo tunguso, le anime dei morti si
reincarnavano nella Luna sotto forma di amaniti e così
trasformati discendevano sulla terra.
In Siberia si credeva che lo spirito della betulla fosse una donna, e
che offrisse il suo seno: dopo aver bevuto il suo latte, l'uomo
sente decuplicate le proprie forze.
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L'ODIO CRISTIANO PER GLI ALBERI
Da una pietra fecondata dal seme che Zeus aveva lasciato cadere
sulla terra durante il sonno nacque un mostro ermafrodita di
nome Agdistis. Spaventati, gli Dei decisero di castrarlo e così
Agdistis diventò la Dea Cibele. Il sangue sparso fece spuntare
dalla terra un mandorlo o un melograno. La figlia del fiume
Sangario, Nana, rimase incinta mangiando (o mettendosi al seno)
una mandorla o una melograna proveniente da quegli alberi.
Concepì Attis. Vergognandosi, Nana lo abbandonò in riva al
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fiume dove una capra lo nutrì. Fu lì che Cibele-Agdistis lo
rinvenne in mezzo alle canne. Crescendo Attis divenne così bello
che Agdistis se ne innamorò. Ma Attis era promesso ad Atta,
figlia di un re. Mentre inseguiva Attis, Agdistis entrò nella sala del
banchetto, e l'assemblea è colta da follia: il re si mutila, Attis
fugge, si castra sotto un pino e muore. Agdistis si dispera, e Zeus
acconsente che Attis venga trasformato in pino, restando
sempre verde e incorruttibile. Un'altra versione della morte del
dio, riferita da Pausania, racconta che Attis fu ucciso da un
cinghiale.
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La nascita di Cibele conseguente allo spargimento del seme di
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Zeus sulla pietra rappresenta peraltro una forma assolutamente
arcaica della cosmogonia: la roccia è il simbolo più antico della
Terra Madre. In quanto roccia, Cibele è vuota come il ventre della
madre, è una caverna. Sotto terra, in una grotta, si compiono i
suoi riti. La caverna primordiale dalla quale vengono alla luce gli
esseri viventi è anche il luogo in cui si sotterrano i morti: i morti vi
entrano, i vivi ne escono.
Nelle mitologie, lo stato primigenio della vita sulla terra è
rappresentato dall'associazione della roccia con l'albero. La
pietra sacra, venerata come bétilo ("Casa di Dio"), centro,
ombelico del mondo, come a Delfi l'omphalòs, è sede della
potenza divina, ricettacolo della vita non ancora manifesta (Nota
di Lunaria: per saperne di più sull'adorazione delle pietre vedi
"Trattato di storia delle religioni" di Mircea Eliade. Le pietre
venivano considerate eterne perché "fattesi da sé":
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Nel mito di Agdistis-Cibele e Attis ritroviamo l'antica credenza
secondo la quale il mondo è nato dall'autosacrificio di un dio
androgino (anche Crono è castrato da Zeus)
In effetti, anche Attis nasce dalla castrazione di Agdistis: la
mandorla inghiottita da Nana è frutto nato dal sangue sparso
durante la castrazione di Agdistis; la melograna poi è un simbolo
ancor più esplicito: aperta, rivela una moltitudine di semi immersi
in una polpa color rosso sangue. Comunque, Agdistis era
ermafrodito: è quindi Madre-Padre: in Frigia Cibele era venerata
in forma di Dea barbuta o come "Ape Regina": presso le api, nel
corso del volo nuziale il maschio abbandona i propri organi
genitali sul corpo della femmina e muore. Di lui sopravvivono
solo gli organi strappati che forniranno alla regina la provvista di
spermatozoi che le sarà sufficiente per tutta la vita.
Curiosamente, anche Zeus in Caria, era dotato di sei mammelle
disposte a triangolo sul petto.
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Infine, dopo "un battesimo di sangue" (il fedele veniva ricoperto
dal sangue di un toro evirato) il fedele veniva condotto nella
"camera nuziale" per unirsi alla Dea come suo sposo mistico,
portandole in dono il Kérnos, un vaso contenente, con tutta
probabilità, gli organi sessuali del toro.
Il culto era così popolare che sopravvisse anche sotto il
cristianesimo: ancora al tempo di Agostino era praticato, e si
potevano incontrare processioni di galli dall'atteggiamento
effemminato, il viso imbiancato e i capelli profumati.
Anche a Ierapoli in Siria si svolgeva una cerimonia analoga, in
onore di Astarte. Gli stessi Romani avevano avuto un imperatore
travestito ed effemminato: Eliogabalo, nativo della Siria.
(Nota di Lunaria: sì, ne parla anche Francesca Molfino nel suo
libro dedicato alla moda, "Virilità e trasgressione": "Entrò in
Roma con gli occhi bistrati e il rossetto sulle guance chiedendo di
essere onorato dai suoi sudditi come imperatrice")
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Divinità androgine:
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In greco "Phoenix" non significa soltanto "fenicio" ma anche
porpora e indica nello stesso tempo la palma da datteri e la
fenice. Questo uccello "dispone della mirra e dell'incenso, se ne
serve per costruirsi il nido, arriva persino a trasportarli nel becco
prima di consumarsi sul rogo che ha alzato ammucchiando le
sostanza profumate di ogni specie" e sul quale si brucia prima di
rinascere da se stesso per un nuovo ciclo di 1461 anni, il Grande
Anno, la rinascita, rigenerazione ciclica del cosmo.
Rappresentato dall'airone purpureo, la fenice egiziana o uccello
Bennou, era associato a Eliopoli, città solare per eccellenza.
In Mesopotamia, cinque o seimila anni fa, i sumeri coltivavano la
palma da datteri (phoenix dactilifera); la coltura della palma si
diffuse nel bacino mediterraneo, nel Nordafrica; attualmente è
anche piantata in Iraq.
In Medio Oriente il dattero è un alimento dai molteplici impieghi:
se ne ricava un succo dolce, il "miele di datteri", e farne una
specie di pane. Estremamente nutriente, il dattero ha una valore
energetico più alto di qualsiasi frutto.
Per gli antichi, la palma da datteri rappresentava un modello di
fecondità: un palmeto ben curato arriva alla piena produzione 12-
15 anni dopo l'impianto e dà frutto per 60-80 anni, con una media
di 20-50 chili di raccolto e addirittura 200 chili.
Il dattero, nei tempi antichi, era venerato con canti sacri:
Strabone cita un inno persiano, Plutarco un inno babilonese.
Ai tempi di Plinio, a Delo ancora veniva mostrata la palma che era
servita da riparo alla nascita di Apollo; gli orfici consideravano la
specie immortale, indenne da invecchiamento e le tributavano
grande venerazione. Di questa specie esistono piante maschili e
femminili, e siccome la pianta maschio irta, drizza tutto il
fogliame per raggiungere le piante femmine e le loro
infiorescenze, è considerata un emblema fallico (si vedeva in lei
un enorme fallo eretto e peloso) e antropomorfo: il termine
"palma" viene da "palmo della mano"; i datteri sarebbero "dita".
La si credeva nata dalla congiunzione del fuoco celeste e delle
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acque sotterranee.
APPROFONDIMENTI
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Beltane – la festa della fertilità
La fine della metà “oscura “ dell’anno e l’inizio dell’estate ha costituito da
sempre un momento di passaggio, in cui la rigenerazione della vita
vegetale è anche la resurrezione della vita cosmica, un ritorno al tempo
mitico degli inizi. Nella tradizione celtica le due feste maggiori erano
quelle che segnavano rispettivamente l’inizio dell’estate e l’inizio
dell’inverno. Come molte altre popolazioni pastorali, gli antichi Celti
avevano infatti due sole stagioni, non quattro: la metà oscura e la metà
luminosa dell’anno. Nel Nord Europa inoltre, gli effetti della primavera
cominciano a sentirsi solo all’inizio di maggio. Le successive suddivisioni
dell’anno furono introdotte più tardi dagli agricoltori. Gli antichi Celti
celebravano il 1° maggio la festa di Beltane (pron. Beltein) nome
anglicizzato che corrisponde al gaelico irlandese Bealtaine (pron.
B’ioltinna) e al gaelico scozzese Bealtuin (pron. B’ialten). In Scozia
Bealtuin è il Giorno di Maggio, May Day, mentre in Irlanda Bealtaine è il
nome dell’intero mese di maggio. Beltane significa “i fuochi di Bel”, i
quali venivano accesi in onore di Bel (Beh, Balor o Belenos sono altri
nomi con la quale è conosciuto in varie aree celtiche). Bel è il
“Luminoso”, dio di luce e di fuoco. Non una divinità solare, perché per i
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Celti il Sole era un’entità femminile, tuttavia presentante alcuni attributi
solari. Una controparte celtica di Apollo, tanto per tracciare un parallelo
con altri ambiti culturali. Il Sole in molte tradizioni antiche era un
simbolo della divinità, non la divinità stessa. Se questo può sembrare un
concetto strano, basti pensare al Cristianesimo dove non viene adorato
l’agnello ma tuttavia questo animale è simbolo di Gesù Cristo. Le quattro
feste celtiche hanno in fondo un carattere stagionale e ctonio più che
solare e celeste, a differenza delle feste solstiziali ed equinoziali. Per
questo molti studiosi hanno interpretato Bel come l’equivalente del
gallico Cernunnos e del britannico Herne, due divinità maschili della
fertilità, signori dei boschi e degli animali, come indicano le loro corna
nelle raffigurazioni che ci sono pervenute. Essi sono la controparte
nordica di Pan e il loro culto, celebrato nei boschi e nelle campagne,
sopravvisse a lungo nel Medio Evo, tanto che può aver contribuito a
creare l’immagine delle streghe adoratrici del demonio.
Agli occhi degli ecclesiastici che cosa altro poteva essere un’entità
animalesca munita di corna, e i cui fedeli celebravano riti orgiastici?
Simbolicamente Cernunnos e Bel possono essere due aspetti del Dio
Padre che feconda la Dea Madre, aspetti rappresentati dai due temi che
dominano la festa di Beltane: fertilità e fuoco. Il fuoco in questa festa
rappresenta appunto il calore della passione che genera la vita. I fuochi
di Bel erano accesi sulle colline per celebrare il ritorno della vita e della
fertilità nel mondo. Ogni dan o tribù accendeva ritualmente grandi fuochi
per mezzo di scintille sprigionate da una selce. In Scozia, negli Highlands
centrali, i fuochi di Beltane erano accesi tramite il cosiddetto needfire, il
“fuoco della necessità” o“fuoco della miseria”: si usava allo scopo una
tavola di quercia forata ed un palo, pure di quercia che veniva fatto
ruotare velocemente per mezzo di una corda. La tradizione fissava in “tre
volte tre” o “tre volte nove” il numero di coloro che dovevano far girare
questo strumento. In Galles, nella Valle di Glamorgan, nove uomini
rimuovevano dalle loro persone tutti gli oggetti di metallo e andavano
nei boschi a raccogliere nove diversi tipi di legna; poi, in un buco scavato
nel terreno veniva deposta la legna raccolta che era accesa ritualmente
con due pezzi di legno (anche qui di quercia) sfregati insieme per
provocare scintille. I nove diversi tipi di legna erano probabilmente i
nove legni sacri dei Druidi. Essi erano forse sorbo selvatico, quercia,
salice, nocciolo, betulla, biancospino, melo, pino, vite o rovo (altri elenchi
danno al posto delle ultime tre piante il sambuco, il tasso e il vischio o
ginepro). Il numero nove nella tradizione celtica è il numero che indica la
completezza, quindi simbolico del cosmo. Tuttavia le accensioni rituali di
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fuochi si ritrovano anche al di fuori del mondo celtico: ad esempio in
varie regioni europee i fuochi solstiziali erano accesi mediante una ruota
fatta girare intorno ad un piolo fisso, mentre riti simili erano osservati
nell’India vedica e a Roma per riaccendere il fuoco di Vesta. Lo
sfregamento di legnetti, il tabù circa l’uso di metalli, l’utilizzo di selci, ci
rinvia forse a epoche remotissime, antecedenti qualsiasi civiltà storica e
testimonia l’antichità di queste tradizioni. Il fuoco sacro era simbolo del
fuoco celeste, del calore primordiale che produsse la creazione e che si
ripresentava a ogni ritorno della primavera.
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La gente danzava attorno ai falò: si danzavano danze con alti salti quali la
Danza del Cervo e la Danza del Salmone Saltante, ricordi di antiche danze
di caccia e pesca. Molte donne danzavano in cerchio su bastoni di legno
in una frenetica danza di fertilità, per promuovere la crescita dei nuovi
raccolti (i bastoni divennero poi manici di scopa ma la loro forma fallica
suggerisce sempre il tipo di energia che veniva evocata).
Quando le fiamme dei falò iniziavano ad abbassarsi le persone saltavano
sui fuochi, usanza ancora praticata in Scozia e in Irlanda per propiziarsi
la fortuna.
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Così giovani e ragazze saltano per trovare l’anima gemella, i viaggiatori
per garantirsi viaggi sicuri, le spose per ottenere figli e perfino le donne
gravide per assicurarsi un parto facile! Infine, le ceneri dei fuochi
venivano (e ancora oggi in certe località vengono) sparse sulla terra per
garantire la fecondità dei campi.
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Dopo le danze e i salti spesso le giovani coppie si appartavano col favore
dell’oscurità continuando a modo loro le celebrazioni. Infatti Beltane era
una festa di fertilità nella quale la Madre terra e il Grande Dio dei boschi
si accoppiavano. Per la gente comune era una festa orgiastica. Per tutta la
notte del 30 aprile (come si è detto i Celti facevano cominciare i giorni
dal crepuscolo del giorno precedente) si susseguivano in un’atmosfera
orgiastica banchetti e danze che terminavano con l’avvento della nuova
vita.
Su questa notte vegliava la Grande Dea della fecondità, che dominava
allo stesso tempo il destino dei semi e quello dei morti e che perciò era la
Dea della Morte in Vita. Si entrava in comunicazione con il mondo infero
e con i defunti. Il grande studioso Mircea Eliade giustamente assimilò i
semi ai morti, che aspettano di tornare in vita sotto una nuova forma e
perciò si accostano ai viventi nei momenti in cui la tensione vitale
raggiunge il culmine, cioè nelle feste di fertilità, quando sono evocate le
forze generatrici della Natura. I morti necessitano dell’esuberanza
organica dei vivi, così come i viventi necessitano dell’aiuto dei morti per
far germinare i semi dei nuovi raccolti (dopotutto, Beltane si erge
diametralmente in opposizione all’altra porta dell’anno Samhain, festa
dei morti!). I bambini generati in questa notte si credeva fossero i morti
ritornati in vita e Beltane veniva definita anche la Festa della
Generazione dei Bambini.
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In questo periodo, vero e proprio momento “caotico” di passaggio, le
leggi della realtà ordinaria sono quasi sospese e si aprono le porte dei
regni ultraterreni come il sidhe, il regno fatato dei Celti. A differenza dei
defunti umani, gli esseri fatati non sempre sono benevoli: in questo
periodo le fate appaiono agli umani e chiunque si addormenta sotto un
biancospino (albero fatato) rischia di essere portato via da loro. Molte
leggende associate a queste feste riguardano spesso gli incantamenti
dell’Altro Mondo. Un mito legato a Beltane è quello gallese di Lludd. Ogni
vigilia di Beltane il regno di Lludd soffriva a causa di uno spaventoso
grido che provocava la sterilità nei campi, negli esseri umani e negli
animali, facendo morire giovani e anziani e togliendo la forza agli adulti.
Lludd scoprì che la causa di questo incantesimo era il combattimento fra
il drago di Britannia e un drago straniero. Egli li catturò e li rinchiuse.
Significativamente Lludd è figlio di Beh...
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In Inghilterra il simbolo della festa di maggio o May Eve (“vigilia di
maggio”) divenne l’albero o palo piantato nelle piazze dei villaggi e
adornato di nastri multicolori. Il palo di maggio non è altro che l’Albero
Cosmico, l’Axis Mundi che collega i tre regni cosmici (celeste, terreno e
infero). Gli sciamani usano l’albero cosmico per ascendere fino al mondo
Superiore o discendere a quello Inferiore, come gli sciamani siberiani
che usavano ritualmente un palo di betulla a sette pioli. In Galles la
danza attorno al palo di maggio era chiamata “danza della betulla”.
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Tutto ciò che è vivente si manifesta con un simbolo vegetale, e la vita che
risorge celebra il suo trionfo intorno al palo delle danze, simboleggiata
dai danzatori che, afferrato ciascuno l’estremità di uno dei nastri
muovevano in direzioni opposte (gli uomini in un senso e le donne in un
altro), finendo con l’intrecciare i nastri intorno al palo e con le coppie
abbracciate: la danza della vita che muovendo in cerchi e spirali unisce
tutti gli opposti, danza di morte e di rinascita. Ma a Beltane il palo di
maggio ha anche un ovvio significato fallico, il potere fecondante della
divinità maschile immerso nel grembo della Madre Terra e sormontato
spesso dalla ghirlanda femminile della Dea. A Cerne Abbas nel Dorset,
Inghilterra, c’è la figura antica del Gigante di Gesso, forse il Dio Padre
celtico Dagda, con la clava e il fallo eretto. Fino a epoche recenti il palo di
maggio era eretto sopra questa figura rappresentata su una collina
gessosa e le donne che volevano un bambino visitavano il luogo
trascorrendo anche la notte sul fallo del gigante. Si può facilmente
comprendere perché i Puritani proibissero nel 1641 i pali di maggio,
ripristinati solo successivamente con la restaurazione monarchica!
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A Beltane si eleggevano tra i giovani anche il Re e la Regina di maggio,
rappresentanti in terra delle antiche divinità, che regnavano per tutta la
festa portando in processione i sacri rami (i “Maggi”) nei boschi e che
spesso governavano anche le altre feste e danze dell’anno. La Regina
simboleggia la giovane Dea dei Fiori e la nuova crescita e il Re
rappresenta il Dio della Vegetazione e della morte dell’inverno, divinità
personificata nel folklore come JackintheGreen, cioè Jack il Verde. È il
Verde Giorgio del folklore primaverile dell’Europa dell’Est ma è anche
l’uomo vegetale scolpito nei pilastri e nelle travi delle cattedrali gotiche e
romaniche (i boschi sacri della nuova religione...). Infine tutte le coppie si
appartavano di nuovo nei campi e nei boschi, con la scusa di portare il
Maggio o raccogliere fiori, e questo provocò nel corso dei secoli dure
reazioni da parte delle autorità ecclesiastiche! Un chierico scozzese
scrisse che “a fatica una ragazza torna a casa vergine”. Più tardi lo
scrittore Rudyard Kipling scriverà nella sua poesia
“A Tree Song”:
“Oh, non dite al prete della nostra promessa che la chiamerebbe peccato
Ma noi siamo stati fiori nei boschi tutta la notte”
Tipici delle feste di Beltane sono anche le danze o le corse nei labirinti.
Spirali e labirinti sono simboli antichissimi, che si vedono incisi e scolpiti
in molti monumenti sepolcrali preistorici. La famosa triplice spirale di
Newgrange potrebbe simboleggiare la natura ciclica di morte e rinascita.
Molte usanze più tarde, espresse dai labirinti tagliati nel prato o costruiti
con siepi possono avere avuto un significato di fertilità, ove le danze
rituali attraverso i labirinti stavano a indicare la rinascita della vita a
primavera.
La stessa danza intorno al palo di maggio ha un andamento a spirale.
Il periodo del primo maggio era un momento sacro anche in altre
tradizioni pagane europee. Nell’antica Roma il 1° maggio era la festa di
Flora (*), protettrice delle piante in fiore. Le sue feste impudiche e
gioiose come quelle di Beltane, comprendevano cacce incruente ad
animali mansueti, offerti in premio alle cortigiane vincitrici di scherzose
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gare di corse e combattimenti.
Durante i Floralia ci si vestiva con abiti multicolori ad imitazione dei
fiori. La notte del primo maggio era sacra a Bona Dea, ai cui misteri non
erano ammessi gli uomini, mentre il giorno dopo si celebrava Maia, sposa
di Vulcano che dava il nome al mese. Bona Dea era forse Fauna, signora
delle selve probabilmente collegata ad Angitia, dea dei Marsi, e come
questa patrona dei serpenti.
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Dea dei Serpenti Cretese
la cui fioritura rappresentava per i Celti l’inizio della festa. È pianta della
Dea, come la quercia è l’albero del Dio. Si dice infatti che il suo profumo
ricordi quello della sessualità femminile. Inoltre è anche una pianta
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legata all’Altro Mondo, associata alle fate. Piante di biancospino che
crescono solitarie su una collina o vicino ad una sorgente sono ritenute
segnali del regno delle fate. Gli esseri fatati abitano nelle piante di
biancospino. Il tabù sulla raccolta di questa pianta viene sospeso a
Beltane, quando può essere raccolto per la festa o per essere portato in
casa (analogamente al tabù sulla caccia alla lepre in primavera).
Così la rugiada raccolta dai rami di biancospino è a Beltane benefica e
indicata per le ragazze che vogliano conservare la loro bellezza.
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maria rappresentata con i fiori, come
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FLORA!
***
http://www.cumpagniadiventemigliusi.it/Voce_tradizioni/Addobbi_sols
tiziali.htm
Solstizio d'inverno
Antiche usanze europèe
... e l'albero di Natale ?
alloro e mirto, le essenze arbore usate negli addobbi
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caso da nastri colorati, ad imitazione dei frutti; allo scopo di suggerire
alle forze della natura l’auspicata condotta per la prossima primavera. 1
Il sempreverde alloro trova ancor oggi impiego nella ripresa del rituale
Cunfögu pubblico genovese e savonese. Altra pianta, considerata
simbolica del periodo autunnale, era il mirto, a mùrtura; la quale veniva
esposta durante i rituali per la vendemmia, in settembre, e conservata in
bella vista fino al solstizio d’inverno, come ci ricorda lo stesso Thomas
Hanbury, attraverso la memoria di Renzo Villa. 2
Oltre agli agrumi ed altri frutti autunnali, quali il melograno, "u pùmu
granàu", o l'uva d'inverno; le auribaghe rituali venivano guarnite con
speciali biscotti, impastati con il grasso bovino, che li manteneva morbidi
più a lungo; così da poter resistere appesi, esposti nei salotti, fino al
termine delle festività. La caratteristica di questi dolcetti, detti "e
Bugatéte", era la forma antropomorfa, che li rendeva somiglianti a quei
pupazzetti che si realizzano ritagliando strisce di carta, abilmente
ripiegata.
In Val Nervia, la strenna natalizia ricevuta dalle bimbe era sovente "a
Mariéta ìnsci'a càna". Si trattava d’un grosso biscotto antropomorfo a
forma di donnina, confezionato con farina ed olio, da venditori
ambulanti, che frequentavano le fiere e i mercati. A Camporosso, facendo
dono d’una Mariéta ad una bimba, le si diceva: Eccu Mariéta, tàighe a
téta, ciàntighe in ciòn e fàřà gira. Inviti assai cruenti se non si fosse
trattato di un gioco. 3
In bassa Val Nervia, nella penultima settimana di gennaio, la festività di
San Sebastiano prevede la sacrale deambulazione di una grossa pianta di
alloro, adorna di falsi frutti. A Camporosso, tali “frutti” realizzati in cialda
basilare, opportunamente colorata, sono detti papete; le medesime che a
Dolceacqua si chiamano négie e mostrano una colorazione appena
accennata. Tali nebule vengono confezionale con appositi stampi dai
“bastianeti”, i confratelli scapoli della apposita congregazione. 4
NOTE :
IL VISCHIO E L'AGRIFOGLIO
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I Druidi usavano tagliare il vischio di quercia, albero sacro, nel sesto
giorno del solstizio d’inverno, indossando tuniche bianche e utilizzando
un falcetto d’oro. Ce lo ha tramandato Plinio il Vecchio, dicendoci come i
rametti venivano raccolti in un drappo di lino immacolato, così da
poterlo utilizzare nelle cerimonie sacre, allo scopo di propiziare un buon
raccolto e proteggere il bestiame, oltre a combattere le epidemie
dell’uomo.
La tradizione di appendere il vischio sul vano delle porte era usanza
celtica che costringeva due nemici che si fossero incontrati sotto a un
ramo di vischio avrebbero dovuto deporre le armi e concedersi una
tregua. è ancora celtica la leggenda secondo la quale due fidanzati che si
baciano sotto al vischio si sposeranno entro un anno; infatti questa era
pianta sacra a Freya, la Dea dell’amore. (*)
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L’Ilex Aquifolium, l’Agrufögliu è un arbusto sempreverde, che cresce in
Europa centrale e meridionale. Le sue foglie sono coriacee dal contorno
spinoso, lucide e cerose sulla pagina superiore, opache e verde più chiaro
su quella inferiore. È uno dei simboli del solstizio d’inverno, appetito
dagli uccelli come il sorbo. Il legno è usato per lavori delicati e fini di
artigianato. Preferisce un'esposizione al sole. Questa pianta, oggi è
annoverata fra le specie protette.
Somiglia molto all’Agrifoglio il Ruscus aculeatus, detto pungitopo, un
arbusto sempreverde dell’Europa centrale, che trasforma i suoi rami e
riduce le foglie a piccole brattee, per adattarsi al clima secco. Anche lui
produce bacche rosse sul limite delle foglie. Nel tardo Medioevo, il
pungitopo veniva usato per scacciare i topi dalle cantine, a pro delle sue
spine, ma era appeso alla porta di queste, legato in mazzetti con lo
Stramonio, che avrebbero dovuto tenere lontane le streghe.
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Giuntoci dall’America, lo Stramonio era usato anche come droga,
somministrata ai bambini per farli addormentare. Con lo Stramonio si
poteva entrare in contatto con il mondo degli spiriti, per raccoglierne i
messaggi. Somministrando lo Stramonio, gli stregoni equadoregni erano
in grado di informarsi sul futuro dei ragazzi, interpretando le loro
visioni.
Dice un vecchio proverbio toscano: "Santa Lucia il giorno più corto che ci
sia"; in effetti non corrisponde a verità, ma è solo il ricordo del
calendario medievale che nei mille anni della sua storia aveva fatto
slittare il solstizio d'inverno a quel giorno per un errore di computo. Il
giorno più corto che ci sia è il 21 dicembre, solstizio d'inverno, a partire
dal quale le giornate cominciano nuovamente ad allungasi. E' la regione
del colore rosso degli addobbi di Natale che ci giungono dalle religioni
precristiane che festeggiavano il ritorno del sole, di cui è simbolo anche
l'albero di natale, sempreverde che vegeta a temperature anche
bassissime, testimoniando la natura che comincia a risvegliarsi. Il
cristianesimo, che fece sue molte ricorrenze dell'antica religione celtica,
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pose la nascita di Gesù in prossimità del solstizio proprio perché, come il
sole, impersonifica la luce che torna. Conoscere il calendario e i suoi
simboli aiuta a ricordare le antiche radici della nostra storia millenaria
in un mondo globalizzato che tende a spazzare via il lungo cammino fatto
dalla nostra civiltà.
(*) "Freyr ha una sorella, Freyja. Su di lei circolano molte voci, gran parte
delle quali la dipingono come una dea che nutre una passione smodata
per gli uomini. Freyja guarda con benevolenza gli uomini e le donne che
si desiderano con amore. Aveva un marito che si chiamava Odd, ma su di
lui c’è ben poco da dire. Si racconta che si allontanasse spesso per lunghi
viaggi, e che durante la sua lontananza Freyja piangesse lacrime cocenti,
che le cadevano in grembo trasformandosi in gocce di oro puro. Freyja
viaggia con una carrozza a cui sono attaccati due gatti; ma scende anche
nei campi di battaglia, e al suo arrivo lei e Odino prendono ciascuno metà
dei caduti per sé. Il suo gioiello più prezioso è una collana che ha per
nome Brisingamen; si racconta che una volta Heimdal e Loki, assunta la
forma di foche, si sfidassero a raggiungere a nuoto un’isola in mezzo al
mare per conquistare il gioiello; Heimdal arrivò primo, sicché viene
chiamato anche « il dio che riuscì a prendere il gioiello di Freyja». Altri
dicono che Brisingamen provenga dal laboratorio dei Nani, come molti
altri oggetti preziosi degli Dei e degli uomini."
Una mattina, al suo risveglio, Tor si accorse che gli era sparito il martello.
Agitatissimo, strappandosi ora la barba, ora i capelli, incominciò a
correre di qua e di là per cercarlo: ma il martello non si trovava da
nessuna parte. Allora s’infuriò, chiamò Loki e gli confidò la sua pena.
"Devo dirti una cosa di cui nessuno, né in cielo né in terra, né in nessun
altro luogo, è a conoscenza: sta’ a sentire: il mio martello non c’è più!"
Loki non tardò a capire quello che Tor gli avrebbe chiesto di fare:
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spettava sempre a lui, infatti, il compito di trovare un rimedio quando gli
Dei non ne erano capaci. Allora si recò in fretta e furia da Freyja e le
chiese in prestito le sue penne di falco, spiegandole che doveva
servirsene per andare a cercare il martello di Tor. Ottenuto il manto, lo
indossò e volò immediatamente verso Jotunheim. Qui incontrò il gigante
Trym: se ne stava seduto su una collina, davanti alla sua fortezza, intento
a passare il tempo intrecciando guinzagli d’oro per i suoi cani e lisciando
la criniera ai suoi cavalli.
Trym chiese a Loki: "Come vanno le cose fra gli Asi (gli Dei) e gli Elfi?
Perché sei venuto da solo a Jotunheim?"
Loki rispose: "Non se la passano tanto bene, gli Asi e gli Elfi. Dimmi una
cosa: hai nascosto tu il martello di Tor?"
"Proprio cosi, sono stato io", rispose Trym, "l’ho nascosto otto leghe
sotto terra, e non lo riavrete finché non mi portate qui Freyja e me la
date in sposa."
Loki allora volò di nuovo dagli Asi. Nel cortile incontrò Tor, il quale,
appena lo vide, urlò: "Hai trovato ciò che stavi cercando? Dimmelo
subito, mentre indossi ancora le ali, prima che tocchi terra e dimentichi
ciò che hai da dire".
Loki rispose: "Ho trovato ciò che cercavo; è stato il gigante Trym a rapire
il tuo martello, e tu non lo rivedrai fin ché non gli porti Freyja in sposa".
Tor piombò immediatamente da Freyja e senza preamboli le disse:
"Mettiti subito in testa il velo nuziale: io e te dobbiamo andare a
Jotunheim."
Freyja montò su tutte le furie, e il petto le si gonfiò di rabbia a tal punto
che Brisingamen, la sua collana, andò in frantumi.
"Non sono cosi avida di uomini da sposarmi con un gigante", strillò.
Scoraggiato, Tor se ne tornò con le pive nel sacco. Decise cosi di confi-
dare il suo problema a tutti gli Dei. Essi convocarono il consiglio e si
misero a discutere sui passi da muovere per riprendersi il martello di
Tor da Jotunheim; nessuno, tuttavia, fu capace di escogitare una
soluzione. A un certo punto prese la parola Heimdal, che apparteneva
alla stirpe dei Vani, e ne possedeva perciò la saggezza, e propose un
piano: agghindato Tor con un velo bianco, lo avrebbero condotto da
Trym, e fatto accomodare sul seggio nuziale; in tal modo Tor avrebbe
avuto l’opportunità di riprendersi il martello. Tor reagì malamente: "E
già, così tutti gli Dei, quando mi vedranno uscire da qui col vestito da
sposa, mi urleranno dietro «femminuccia» e rideranno di me!"
Ma Loki gli rispose: "Sta' zitto, Tor, non parlare a vanvera; i Giganti
diventeranno in un baleno i padroni di Asgard, se non riavrai il tuo
martello".
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Né Tor, né gli altri Dei poterono contestare questa affermazione, perciò
venne deciso che Tor sarebbe andato nella Terra dei Giganti vestito da «
sposa » . Gli legarono i capelli in una crocchia, intorno alla quale fu poi
avvolto il velo nuziale; quindi gli adornarono il petto con la collana
Brisingamen e gli misero attorno alla cintola un tintinnante mazzo di
chiavi (*).
Quando terminarono di vestirlo, Loki disse: "Andremo in due a
Jotunheim: tu sarai la sposa, e io la damigella."
Furono quindi condotte le capre dal prato e, dopo averle attaccate
davanti al carro, Tor partì di gran carriera, fra il fragore delle rupi e il ba-
gliore delle lingue di fuoco emanate dalla terra.
Quando Trym udì il fracasso della carrozza, urlò: "Sveglia, Giganti,
rinnovate la paglia alle panche! Sta per arrivare Freyja, la sposa. Nei miei
campi pascolano vacche dalle corna d'oro e buoi dal manto nero come
carbone, i miei scrigni custodiscono oro e pietre preziose: solo Freyja,
null'altro, manca alla mia felicità!"
Il corteo nuziale apparve sul calar della sera, e allora fu imbandita la
tavola, ai lati della quale presero posto tutti i Giganti. In tavola vennero
portati birra, pigne piene di carne di bue, salmone, e altre prelibatezze
per le signore. Quella sera Tor fece fuori un bue intero e otto salmoni, in
naffiando il tutto con tre botti di idromele. Trym si meravigliò molto
dello straordinario appetito di Freyja: "Non ho mai visto una fanciulla
ingollare bocconi così grossi e succhiare dalla bottiglia con tanta avidità".
Ma la damigella al seguito di Tor fu lesta a trovare una risposta: "Per
otto giorni Freyja non ha toccato cibo, tanto era bramosa di raggiungere
Jotunheim".
Poco dopo Trym si diresse verso la sposa e, sollevato il velo, si chinò per
baciarla: ma quando incontrò lo sguardo minaccioso di Tor, si ritrasse
immediatamente raggiungendo l'altro lato della sala, e chiese: "Perché lo
sguardo di Freyja è cosi adirato? I suoi occhi mandano lampi, mi pare."
Ma, ancora una volta, Loki aveva pronta la risposta: "Freyja non ha
chiuso occhio per un'intera settimana, tanto era emozionata al pensiero
di raggiungerti."
Prima di dirigersi verso il talamo nuziale, entrò la sorella del gigante per
reclamare un regalo: non era né giovane, né di aspetto desiderabile. Si
rivolse alla sposa con queste parole: "Dammi gli anelli che hai al braccio:
ti guadagnerai la mia benevolenza in questa casa".
Ma a quel punto Trym disse al suo paggio: "Portate qui Mjolnir, in modo
che possiamo consacrare Freyja signora della corte del gigante. I giganti
eseguirono immediatamente l'ordine, e M jolnir fu deposto sul grembo di
Tor: il cuore gli batté forte nel petto dalla gioia, quando vide il martello.
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Senza por tempo in mezzo lo afferrò e lo roteò nell’aria. Il martello si
abbatté prima su Trym, poi ne fece fuori l’intera progenie. Non risparmiò
neppure la vecchia sorella del gigante, quella che aveva preteso il regalo
di nozze: ma invece degli anelli, si era beccata una martellata. E fu cosi
che Tor rientrò in possesso del suo martello."
Per i Greci non esisteva frutto più utile dell'oliva e non si può
neppure immaginare la civiltà greca e la Grecia stessa senza
l'ulivo. Come oggi, anche nell'antichità le olive venivano
consumate nere, cioè mature, dopo essere state lasciate a
macerare un po' di tempo nell'acqua affinché perdessero il
sapore aspro, oppure verdi, e in questo caso venivano
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sciacquate, poi lasciate a bagno in acqua dolce e salate
leggermente.
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L'olio di oliva serviva anche alla cura del corpo, che esso rendeva
brillante; anche agli Dei e agli eroi nell'Odissea piace frizionarsi
con l'olio per conservare la loro bellezza luminosa e immortale.
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Olio di rosmarino
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La storia di Piramo e Tisbe, che sta alla base del mito sulle bacche
del gelso (le more sono prima bianche, poi rosse e infine viola
scuro), è tragica. Ovidio, il primo autore che la narra, la colloca a
Babilonia, e quindi se ne deduce che la leggenda non è greca, ma
asiatica. I due splendidi giovani si amavano teneramente ma di
nascosto a causa dell'opposizione delle famiglie. Le loro case
erano vicine, sicché essi si parlavano attraverso una crepa del
muro divisorio, però non potevano vedersi né abbracciarsi. Così
si diedero appuntamento a una fonte, sotto un gelso, "fecondo
di bianche frutta" che li riparava dagli sguardi indiscreti. Ma un
giorno Tisbe, arrivando per prima, fu terrorizzata scorgendo una
leonessa venuta a bere e fuggì lasciando cadere il suo velo che la
leonessa trovò sul sentiero. Con le fauci insanguinate, perché
aveva appena ucciso una preda, lo lacerò. In quel mentre giunse
Piramo, il quale, vedendo le tracce della leonessa, poi il velo
macchiato di sangue, credette che Tisbe fosse morta. Disperato,
se ne sentì responsabile e non potendo sopravvivere alla sua
amata, si affondò la spada nel cuore. Il sangue, sgorgando, tinse
di rosso i frutti del gelso. Tornata sui suoi passi, Tisbe non ne
riconobbe il colore, ma vide il corpo del suo amato a terra e,
decisa a ritrovarlo nella morte, così parlò al gelso:
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Principessa di Tracia, Fillide si innamorò di Acamante, figlio di
Teseo, partito per la guerra di troia. Quando la flotta degli Achei
si accinse a tornare in Grecia, Fillide cominciò a spiare, dalla riva,
l'arrivo della nave del suo amato. Ma avendo questi, a causa di
un'avaria, subito un ritardo, la sventurata morì di dolore. Era, la
Dea degli amori fedeli, la trasformò in un mandorlo. Il giorno
dopo, quando Acamante sbarcò, potè solo stringersi alla sua
corteccia, ma subito sul legno ancora privo di foglie apparvero i
fiori: la storia di Fillide ricorda la grazia virginea della fioritura
precoce del mandorlo, ma anche la sua fragilità, perché è spesso
rovinato dalle gelate primaverili.
La Dea Era
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Portatore di frutti così suggestivi, dal senso osceno (il fico
assomiglia allo scroto e semiaperto, a una vagina) il fico era
considerato un albero impuro. Sappiamo per esempio che se un
fico spuntava per caso sul tempio della Dea Dia, antica divinità
latina dei campi assimilata a Cerere/Demetra, bisognava non
soltanto estirpare l'albero ma anche distruggere il tempio
diventato impuro.
Si racconta che il famoso misantropo Timone di Atene si
presentò all'assemblea e salì sulla tribuna degli oratori:
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era ritenuto un albero oracolare. Un frammento di Esiodo, citato
da Strabone, mette in rapporto diretto la vita di Calcante,
l'indovino della guerra di Troia, con un fico. A Roma erano
venerati molti fichi sacri. Plinio ne ricorda uno che si trovava
davanti al tempio di Saturno.
Al fico si attribuiva un rapporto con il latte, per via del fatto che i
fichi contengono un succo dall'aspetto latteo
(un tempo usato contro le verruche) e secondo Plinio sembra
che un fico fosse stato piantato vicino al tempio di Rumina, Dea
dell'allattamento. Inoltre il fico era considerato un albero
pseudofallico, e in tal caso, il "latte" sarebbe considerato
sperma, in questo caso, quello del Dio Marte, cui il fico era
consacrato. C'è un'altra leggenda sul concepimento di Romolo e
Remo, riferita da Plutarco: "Scaturì dal focolare di Tarchezio, re
di Albalonga una forma di membro virile e vi rimase parecchi
giorni. Avendo consultato un oracolo sul significato di quel
fenomeno, Tarchezio si sentì rispondere che sua figlia, che era
ancora da sposare (era vergine, essendo vestale) doveva subire
la compagnia di quel mostro perché ne sarebbe nato un figlio
famoso per il suo valore, che avrebbe superato tutti per la forza.
Tarcheziò ordinò alla figlia di avvicinarsi al mostro ma essa si
rifiutò e mandò al suo posto una delle sue ancelle. Tarchezio si
adirò, e le fece rinchiudere tutte e due per farle morire. Ma
Vesta, Dea del focolare, apparve in sogno al re e gli proibì di
farlo. L'ancella partorì quindi due bei gemelli che Tarchezio
consegnò a Terazio, per farli morire."
Si potrebbe supporre che il "membro virile" senza corpo fosse
fatto di legno di fico, e il fico quale albero di Marte sarebbe
quindi il padre di Romolo e Remo.
Anticamente Marte era un Dio della natura in fiore, nato da
Giunone unitasi con un fiore (e non con Giove), di conseguenza
presiedeva alla rinascita primaverile della vegetazione e alla
rinascita degli alberi. Oltre al fico, gli erano consacrati il corniolo,
il lauro e la quercia, mentre i suoi animali erano il lupo e il picchio
che tra l'altro ebbero la funzione di nutrici dei gemelli divini.
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Il fico era anche l'albero di Dioniso, il Dio della linfa e dei succhi,
ed era anche rivendicato da Priapo, il Dio fallico per
eccellenza, e protettore dei giardini. Col legno di fico si
scolpivano i falli portati in processione e il fico era collegato al
capro: a Roma il fico selvatico si chiamava "Caprificus" da
"caper", capro.
Quando in occasione di una calamità pubblica si sacrificavano un
uomo e una donna come capri espiatori, l'uomo portava una
collana di fichi neri, la donna una collana di fichi bianchi. Durante
le Targelie, feste di Apollo e Artemide che si celebravano ad
Atene in maggio-giugno i profani venivano scacciati con rami di
fico.
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ALBERI PARLANTI
A volte si raccontava che gli alberi parlassero: a Maumusson una
quercia fece udire i suoi gemiti, e fu ai suoi piedi che i
repubblicani uccisero il curato della parrocchia. A Lanmodez
sanguinava il biancospino che cresceva accanto alla roccia detta
"la sedia di san Maudez"; alcuni alberi sono garanti dei
giuramenti e puniscono gli spergiuri, come la quercia di una
leggenda dell'Angiò, sotto la quale un signore giurò eterna
fedeltà alla fanciulla che aveva sedotto. Dimenticata la
promessa, gli accadde di passare sotto la quercia il giorno in cui
la sventurata fanciulla moriva: l'albero si abbattè su di lui,
schiacciandolo. In un racconto alsaziano, un pero e un melo
chiedono a una fanciulla il motivo del suo dolore e la consolano
facendole cadere nel grembiule i loro frutti migliori. Ci sono
anche alberi che cantano per salutare le persone cui dimostrano
il loro rispetto; Orfeo faceva muovere gli alberi al suono della
sua lira.
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La mia erbetta ^.^
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