Ungaretti

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L’allegria

Il particolare carattere autobiografico della poesia

la poesia, in quanto capace di penetrare l’essenza più profonda delle cose e coglierne nessi segreti,
evoca esperienze reali della vita di un singolo uomo per giungere a verità universali che
abbracciano l’essenza stessa della vita

La parola poetica come “illuminazione”

la parola poetica si incarica di penetrare intuitivamente e di illuminare il mistero della vita

L’analogia

attraverso l’accostamento imprevisto di parole molto distanti tra loro il poeta potenzia la capacità
della poesia di cogliere l’essenza profonda delle cose

L’essenzialità del linguaggio

 versi liberi e brevi per dare il massimo risalto alla singola parola
 prevalenza della paratassi
 abolizione quasi sistematica dei nessi grammaticali e della punteggiatura

L’esilio

è inteso come perdita di punti di riferimento e come sradicamento esistenziale

L’esperienza al fronte

la guerra è emblema della condizione di precarietà dell'uomo (naufragio) ed è anche occasione per
riscoprire il valore della vita e della solidarietà umana (allegria)
Sentimento del tempo

Il tempo

è il tema fondamentale della raccolta inteso come durata e come processo continuo di distruzione e
di rinascita. Lo scenario è la città di Roma, luogo delle memoria. Il riferimento è Bergson.

Il divino

 l’uomo si rivela a Dio con la preghiera per liberarsi dalla condizione di fragilità e di peccato
 creature della mitologia pagana (ninfe, divinità) convivono con riferimenti alla tradizione
cristiana

“L’isola”

A una proda ove sera era perenne


Di anziane selve assorte, scese,
E s'inoltrò
E lo richiamò rumore di penne
Ch'erasi sciolto dallo stridulo
Batticuore dell'acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide;
Ritornato a salire vide
Ch'era una ninfa e dormiva
Ritta abbracciata ad un olmo.

In sé da simulacro a fiamma vera


Errando, giunse a un prato ove
L'ombra negli occhi s'addensava
Delle vergini come
Sera appiè degli ulivi;
Distillavano i rami
Una pioggia pigra di dardi,
Qua pecore s'erano appisolate
Sotto il liscio tepore,
Altre brucavano
La coltre luminosa;
Le mani del pastore erano un vetro
Levigato da fioca febbre.

Composta nel 1925, L’isola entra a far parte del Sentimento del Tempo (1933), libro che segna una fondamentale
svolta nella carriera poetica di Ungaretti. Il poeta abbandona lo stile franto ed essenziale dell’Allegria e approda a
una sorta di classicismo oscuro e barocco, che farà scuola presso i poeti ermetici. L’isola è quasi un manifesto
della nuova maniera. L’atmosfera della poesia è fin da subito misteriosa e rarefatta: lo spazio in cui si muove un
protagonista senza nome, in terza persona, è irrealistico e indefinito. Il tempo verbale dominante è il passato
remoto, attraverso cui il poeta crea un effetto di sospensione mitica.

Il testo possiede una scarna struttura narrativa: il protagonista approda sull’isola e si inoltra nel buio della
vegetazione; è angosciato dal rumore di un uccello che spicca il volo; subito dopo si imbatte in una ninfa che
dorme abbracciata ad un albero. La visione sembra poi chiarirsi: il protagonista giunge in un prato che ospita
fanciulle addormentate, delle pecore e un enigmatico pastore. Lo stile, fortemente analogico e polisemico, è
basato su immagini che trascorrono una nell’altra in una specie di continua metamorfosi. Al di là dell’atmosfera
onirica e antirealistica, l’ignoto personaggio sembra camminare in un topos letterario della tradizione classica,
quello del locus amoenus campestre. La poesia richiama gli elementi tipici di un quadretto arcade (secondo una
dichiarazione di Ungaretti stesso, il paesaggio trasfigurato sarebbe quello di Tivoli): selve immancabilmente
ombrose, ninfe, pecore e pastore. Ma Ungaretti rilegge il modello alla luce della poesia più recente, come ad
esempio quella dei simbolisti francesi Stéphane Mallarmé (1842-1898) e Paul Valéry (1871-1945). Da qui
viene il senso di arcano mistero di cui è caricato il paesaggio bucolico. Il componimento ha forse anche un
significato metapoetico, ovvero di riflessione sulla letteratura stessa: Ungaretti abbraccia infatti la tradizione
letteraria, che prima (all’epoca degli esordi) pareva un vano “simulacro” e poi viene riconosciuta come “fiamma
vera” (v. 12), cioè come alimento fecondo dell’ispirazione.

Il clamoroso ritorno alla tradizione, che permea tutto Sentimento del tempo, viene così giustificato da Ungaretti:
“Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra [...] erano tutte tese a ritrovare un ordine”. Il lessico de
L’isola è classicheggiante e semanticamente vago, la sintassi è involuta e aulica, l’impianto retorico barocco e
virtuosistico, la metrica decisamente tradizionale rispetto ai versicoli de L’Allegria. La svolta riguarda anche
temi e funzioni della poesia, come spiega il critico Pier Vincenzo Mengaldo:

Venuta meno la naturale compartecipazione a un’esperienza “unanime”, Ungaretti, che agisce adesso in una sorta
di vuoto storico, deve obiettivare la propria biografia in “emblemi eterni”, favole e miti, ora idillici come
nell’arcadica Isola ora tenebrosi. Ungaretti non è più insomma il poeta-soldato che scrive dal doppio fronte della
guerra e del suo travaglio esistenziale (come in Fratelli o in Mattina); si volge ora alla cultura e alla tradizione per
trasfigurare poeticamente le avventure interiori del proprio io.

Tra il primo e il secondo Ungaretti esistono però anche delle continuità che non vanno ignorate. La tensione
verso una poesia pura e assoluta, quasi metafisica, sopravvive in un diverso contesto tematico e stilistico. Le due
maniere, in apparenza così diverse da parere opposte, celano dei meccanismi comuni: dietro alla metrica regolare
e alla patina classicheggiante della lingua, lo stile del Sentimento è ancora basato sull’“enfatizzazione delle
pause e sul peso della parola isolata” (è sempre Mengaldo che parla) tipici de L’Allegria.

Metrica: versi liberi, in prevalenza endecasillabi, novenari e settenari. La sintassi, piuttosto involuta, è
prevalentemente ipotattica e ricca di anastrofi e iperbati, spesso spezzati dall’enjambement. Inversioni e
inarcature, oltre a costituire un segnale della nuovo stile “neoclassico” di Ungaretti, generano un effetto di
“legato” (come se le parole fossero intrecciate tra loro) che contribuisce alla qualità preziosa e metamorfica delle
immagini (si vedano ad esempio i vv. 13-15).
Il dolore

Il tema del dolore

 la tragedia individuale (la morte del figlio e del fratello)


 la tragedia universale (l’orrore della guerra)

Non gridate più

Cessate d’uccidere i morti,


non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,


non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.

Struttura metrica: Una quartina di novenari (con rima ai versi 3-4) e una quartina formata da un
endecasillabo, due settenari, un novenario.

Analisi: La poesia, scritta nell’immediato dopoguerra, è indirizzata a coloro che hanno superato,
come dirà lo stesso Ungaretti, la «tragedia di questi anni».

L’appello alla pace e il modello foscoliano.


La poesia si apre con tre verbi all’imperativo (di cui due identici nell’iterazione del v. 2) che non
hanno la forma del comando ma quella della preghiera: si tratta di un invito a coloro che sono
sopravvissuti alla guerra perché superino le divisioni di parte e riscoprano i valori della pietà e della
solidarietà umana. La forza di questa esortazione è affidata soprattutto all’adýnaton iniziale
(«uccidere i morti»): si potrà porre fine ai conflitti e agli odî che ancora sono diffusi dopo la fine
della guerra soltanto ascoltando il messaggio di pace che i caduti trasmettono ai vivi. La necessità
che i vivi conservino un legame con i morti e ne preservino la memoria per sopravvivere essi stessi
– evidenziata dall’anafora del «se» e dal parallelismo della costruzione sintattica ai vv. 3-4 – è un
tema che risale alla tradizione della poesia civile, e in particolare al modello foscoliano.

L’opposizione tra grida e silenzio


La seconda strofa oppone al frastuono prodotto dai vivi «l’impercettibile sussurro» dei morti.
L’opposizione vita-morte si manifesta dunque come contrasto tra il grido e il silenzio, e realizza un
rovesciamento paradossale: le grida dei vivi rappresentano in forma di metafora la perpetuazione
della violenza e della morte sulla terra, mentre il silenzio dei morti, per chi lo sa udire, è un monito
per la conservazione della vita. Il paragone con l’erba, intensificato dalla personificazione («lieta
dove non passa l’uomo»), sottolinea l’appartenenza dei morti a una dimensione naturale ormai del
tutto estranea all’umano, e lontana dalla contingenza del presente in cui i vivi continuano a
distruggersi.

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