Bakhita
Bakhita
Bakhita
PARTE PRIMA
L'insidia
Due ragazzine, parlottando fra di loro da vere amiche quali sono, occhi all'erta sul
vasto manto verde, vanno cogliendo piccoli cespi di erba gir-gir che con gesto svelto
mettono in bocca e brucano con gusto innocente. La piu piccola aveva appena scorto a
portata di mano un mazzetto del tenero trifoglio agro-dolce e stava per chinarsi a
coglierlo quando, d'improvviso, lei e la sua compagna vedono pararsi davanti due
stranieri. Uno dice alla più grande: "Lascia che questa piccina vada là, presso il bosco
a prendermi un involto che vi ho dimenticato. Tu, prosegui per la tua strada e ti
raggiungerà subito". La piccola va di corsa verso il bosco. Non trovando l'oggetto
indicato, s'interna nel fitto della sterpaglia. In quella, si trova alle spalle i due stranieri.
Uno l'afferra con violenza per la mano, ed estraendo un coltello dalla cintura, glielo
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punta sul fianco e, "Se gridi, sei morta! avanti, seguici". Impietrita dalla paura, gli
occhi spalancati e tremante da capo a piedi, fa per gridare, ma le rinnovate minacce
glielo impediscono. Costretta a trattenere financo i singhiozzi che tutta la scuotono, la
forzano avanti nel fitto del bosco, finché, decisi, si fermano: "Di' un po', come ti
chiami?". La bambina, traumatizzata dallo spavento e resa muta dai singhiozzi
repressi, non pronuncia parola. I due, irritati, la spintonano per farla parlare. Nulla.
Infine, il più burbero decide: "Bakhita, ti chiameremo 'Bakhita' – “la fortunata!”. E con
questo nome, quella ignota e innocente piccola Africana è arrivata fino a noi. E come?
E quando? E da dove? A questi interrogativi sarà Bakhita stessa a rispondere. Il
racconto dei fatti però è così concatenato e complesso che, per non interromperne la
narrazione, cominciamo con il dare notizie sommarie della patria della piccola rapita:
il Sudan.
Il Sudan cristiano
E’ proprio della sapienza di Dio trarre bene dal male. Sembra che i primi
evangelizzatori dell'Egitto e del confinante Sudan fossero Cristiani fuggiaschi, in-
calzati dalla furia delle persecuzioni romane. È storicamente provato che fin dal sesto
secolo vi fosse in Sudan un espansione missionaria bene organizzata. Nel 580 il re di
Soba scriveva al re di Dòngola: "Cristo è con noi". Altri assicuravano: "Nella Nubia vi
sono dappertutto chiese cristiane, dove il Vangelo di Cristo è proclamato". Ma
l'avanzata islamica, di cui abbiamo già parlato, lasciò il deserto sul suo passaggio. Di
un millennio di vita cristiana nulla restava se non "ruderi di chiese, monasteri e
cimiteri" La Chiesa apparentemente sembra perdere le sue battaglie, ma vince la
guerra. Battaglia perduta la prima e la seconda, ingaggiata nel Sudan da missionari
francescani nel XVII secolo; perduta quella di molti altri che seguirono, vari per
nazionalità, ma unici nell'ideale, per il quale tutto diedero di sé fino al sacrificio
supremo della vita. Le tombe di ventidue giovani missionari segnano la via del
Vangelo attraverso il Sudan. Eppure, nessuno di loro mori' "vinto". Don Francesco
Oliboni, così parlava nella sua agonia: "Fratelli, io muoio e sono contento, perché così'
piace a Dio; ma voi non vi dovete perder d'animo. Non lasciatevi smuovere dal vostro
proposito... E se anche uno solo di voi rimanesse, non gli venga meno la fiducia, né si
ritiri... Dio vuole la missione africana e la conversione dei negri, io muoio con questa
certezza. Il grido profetico pronunciato da questo eroico missionario fu colto da Don
Daniele Comboni che tradusse poi il suo impegno apostolico nel motto: "O Nigrizia, o
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morte!". Questo, che suona come grido di guerra, fu di fatto il programma di conquista
dell'Africa a Cristo, sognata e patita dal grande Comboni. Ne comincia la
realizzazione proprio nelle regioni occidentali del Sudan: Kordofan e Gebel Nuba, con
una stazione centrale a Khartum. È a questo punto, e proprio in questi luoghi che la
storia della missione cattolica, se pur tracciata a volo d'uccello, si incrocia con la storia
personale di Bakhita. La sua marcia forzata inizia a Olgossa, villaggio presso il colle
Agilere di fronte al monte Marra. A tappe cariche tutte d'avventure, arriva nel
Kordofan. Nessuno si meravigli però se Bakhita, nelle varie soste della sua servitù,
non ebbe neppure sentore dell'esistenza di una chiesa cattolica neanche nelle capitali.
La sua condizione di schiava la relegava severamente agli ambienti designati dalle sue
padrone. Nel suo racconto Bakhita neppure accenna a una uscita in città: era cosa
impensabile.
Quale religione?
Quale religione professava Bakhita nella sua famiglia? Si sa che anche la regione del
Darfur era sotto potere musulmano, il che significa progressiva islamizzazione dei
sudditi. Data però la posizione isolata sia della regione in generale, come del suo
villaggio in particolare, appare evidente dalle sue stesse parole, ch'ella non avesse idea
alcuna di un Dio unico universale. Disse anzi esplicitamente di "non aver conosciuto
Dio"; però "di non avere adorato idoli". Da ciò si deduce che la sua famiglia e
fors'anche tutto il villaggio, praticavano, da tempi immemori, l'animismo. Tale
religione non ha né fondatore, né profeta, ha un culto: le anime degli antenati; un
ambiente: la famiglia, il villaggio e la tribù; una tradizione: che è saggezza ed
esperienza accumulata lungo i secoli. Gli aspetti specifici dell'animismo cambiano da
luogo a luogo, tanto che la varietà delle espressioni cultuali è pressoché infinita.
Costante però è la tendenza di attribuire un’anima, non solo all'uomo, ma anche agli
animali, alle piante e alla natura inorganica. Rispetto all'uomo, risalta evidente la
credenza nella sopravvivenza dell'anima, distinta dal corpo, come in una vita ultra-
terrena. L'anima è concepita in funzione del processo respiratorio: cessato questo,
cessa la vita. Dalla inafferrabile leggerezza e volatilità del respiro, consegue l'idea di
un' anima immateriale, palpitante però in tutte le manifestazioni pulsanti della natura.
Nella prassi scaturisce un profondo senso cultuale per i morti, grande rispetto per gli
anziani, in quanto sono a loro più vicini, come lo sono i bambini ancora prima di
nascere: da qui l'alto onore in cui è tenuta la maternità; nonché l'idea che la natura tutta
quanta è pervasa dall'influsso delle anime dei morti. Era questa la struttura religiosa e
sociale che ordinava la tribù da cui Bakhita proveniva. Poteva quindi con ragione
asserire di "non' avere mai adorato idoli". D'altra parte era vero anche il suo
rimpianto: "Se durante la mia lunga schiavitù avessi conosciuto Dio, quanto meno
avrei sofferto!"
La schiavitù
La schiavitù pare vada al passo con la storia dell'uomo. Non vi è popolo che, in una
forma o l'altra, non si sia reso colpevole di questo magnum scelus, grave delitto, come
lo chiamò Pio Il nella sua riprovazione della pratica, nel 1462. Capi di stato
emanarono leggi, organizzarono persino spedizioni punitive per arginare il dilagare di
tanto grave aberrazione umana, ma con scarsi risultati. "Si deve onestamente prendere
atto e dar lode ai missionari e ai pontefici che agirono in modo decisivo contro la tratta
degli schiavi". Figure di primo piano, come gli spagnoli Bartolomeo Las Casas (1474-
1566) e Pietro Claver (1580-1664), il francese Charles Lavigerie (1825-1892) fon-
datore dei Padri Bianchi; gli italiani Massaia (1809-1886), Don Biagio Verri (1819-
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1884) con Nicolò Olivieri (1792-1838) e mons. Daniele Comboni (1831-1881),
diedero tutto di sé per la redenzione degli schiavi. Papi di tutti i tempi alzarono la loro
voce in difesa dei diritti e uguaglianza di tutti gli uomini, monito che, sotto molti
aspetti, è valido tuttora, perché vari sono i modi di schiavizzare l'uomo. Riferendoci
ancora alla storia del Sudan, si sa di certo che il Darfur, patria di Bakhita, era stato
conquistato e annesso all'Egitto nel 1874. Con tale politica di espansione si aveva di
mira anche l'abolizione della tratta degli schiavi. Ciò si verificò in modo chiaramente
evidente quando furono messi in carica amministratori europei, come l'inglese Charles
George Gordon (1833 - 1885) e il ravennate Romolo Gessi (1831 - 1881), i quali
intrapresero una decisa lotta contro lo schiavismo. La completa abolizione della
schiavitù africana però risultò problema di non facile soluzione. È vero che alla
formale legislazione inglese del 1833, seguì, al Congresso di Parigi del 1856, la
sanzione della schiavitù, sottoscritta dalle potenze europee e dallo stesso Egitto. Allora
ci si chiede: come mai dopo tanti formali trattati, si verificarono ancora, come nel
villaggio di Bakhita, razzie schiaviste, a così breve distanza l'una dall'altra? La risposta
a tale interrogativo si legge in una lettera che Mons. Comboni scrive nel 1873 da El
Obeid. "Il governo islamico che aderì al trattato del 1856, vi aderì sulla carta", per cui
nell'Africa centrale la schiavitù è ancora "nel massimo vigore" e "il grido di dolore di
questi popoli non giunge in Europa... Così la desolazione di queste contrade continua e
continuerà per molto tempo".
La fonte storica
Che ciò succedesse e come, lo sappiamo dalla viva voce di una delle vittime, la quale,
religiosa canossiana ormai da quattordici anni, ne fece la narrazione quando era
membro della comunità canossiana di Schio, dietro invito della sua superiora Sr
Margherita Bonotto. "Dalla fotocopia del testo, redatto in una grafia da alunna poco
più su della terza elementare, disseminato di errori di ortografia e di grammatica,
emerge un candore che avalla la verità del contenuto" . Questa verità integrale
intendiamo comunicare ai lettori senza interpolazioni e "sfronzoli", direbbe Bakhita.
L'unico ritocco, per rendere il racconto leggibile, si limiterà alla correzione delle
sgrammaticature e a inserire parole che la narratrice, nell'emozione del momento, ha
omesso e quelle saranno evidenziate da parentesi. I nomi dei luoghi di cui Bakhita dà
la pronuncia che le era rimasta nell'orecchio da quando era bambina o aveva colto
lungo la via, saranno scritti nell'ortografia geografica corrente italiana. E.g. Cortonfan
sarà, evidentemente, Kordofan. L'incidentato itinerario da Olgossa, villaggio d'origine,
fino a Khartum, ha quattro soste, di cui Bakhita dà un solo nome. Né ci dà i nomi delle
sue compagne di schiavitù; quindi noi non intendiamo né tirare a indovinare, né
affibbiare nomi a chi, pur svolgendo un ruolo di certa importanza nella vita di questa
eletta figlia d'Africa, resta nell'anonimato. Carta geografica alla mano, possiamo solo
calcolare che dal suo villaggio di Olgossa, nell'estremo sud della regione del Darfur,
fino al Kordofan, Bakhita ha percorso a piedi, a passo di marcia forzata, 600 km, senza
contare la corsa fuori pista della fuga che durò tutta una notte e un giorno. Il viaggio
dal Kordofan a Khartum, fu a dorso di cammello e durò "vari giorni". A questo punto
lasciamo la parola a Madre Giuseppina Bakhita e seguiamo a passo a passo il
racconto, così come è uscito dalle sue labbra: tanto più fascinoso e interessante in
quanto pure è la prima volta che viene dato alla stampa nella sua forma originale.
PARTE SECONDA
Scoppia il dramma
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"La mia famiglia abitava proprio nel centro dell'Africa, in un sobborgo del Darfur,
chiamato Olgossa, vicino al monte Agilere. Era formata dal padre, dalla madre, tre
fratelli e tre sorelle. Io ero gemella di una sorella, della quale, come dei genitori, io
più nulla seppi da quando fui rubata. Vivevo allora pienamente felice, senza sapere
cosa fosse dolore. Un giorno, mia madre pensò di portarsi nei campi dove (avevamo)
molte piantagioni e bestiame, per vedere se tutti i lavoratori attendevano al loro
dovere, e voleva che la seguissimo tutti noi figli. La maggiore, che si sentiva
indisposta, chiese e ottenne di fermarsi a casa con la sorella minore. Se non che,
mentre noi eravamo nei campi, sentimmo un parapiglia, un gridare e un correre,
ognuno immaginò subito essere i negrieri entrati nel paese a derubare. Tornammo
subito a casa e quale non fu il nostro dolore nel sentire dalla piccina, tutta spaventata
e tremante, come i razziatori avessero portata via la sorella (maggiore), ed ella avesse
appena fatto in tempo a nascondersi dietro il muro di una casa diroccata, altrimenti
sarebbe stata rapita anche lei. Ricordo quanto pianse la mamma, e quanto pian-
gemmo noi pure. La sera, tornato il padre dal lavoro, sente dell'accaduto. Monta sulle
furie e subito, con i suoi lavoratori, armati di lance, com'è loro costume, fanno inda-
gini per tutta la notte e parte del giorno seguente. Ma inutilmente. Non si seppe più
nulla della povera sorella. Questo fu il mio primo dolore e oh! quanti e quanti me ne
aspettavano di poi!".
Il suo turno
" Avevo nove anni circa quando un mattino, dopo colazione, andai con una mia
compagna di dodici o tredici anni, a passeggio nei nostri campi, un po' discosti da
casa. Interrotti i nostri giuochi, eravamo intente a raccogliere erbe. Ad un tratto
vediamo sbucare da una siepe due stranieri. Uno di loro disse alla mia compagna:
'Lascia che questa piccina vada là presso quel bosco a prendermi un involto, tornerà
presto, tu prosegui per la tua strada e ti raggiungerà subito'. È evidente che il loro
piano era di allontanare l'amica, perché, se fosse stata presente alla cattura, avrebbe
gettato l'allarme. Io non dubitavo di nulla. Mi prestai a ubbidire come sempre facevo
con mia mamma. Ma, come mi ero internata nel bosco per cercare l'involto che non
trovavo, mi vidi quei due alle spalle... Uno mi prende bruscamente con una mano, con
l'altra estrae un grosso coltello dalla cintura, me lo punta sul fianco e con una voce
imperiosa, 'Se gridi, sei morta, avanti seguici!' mi dice, mentre l'altro mi spingeva
puntandomi le canne di un fucile alla schiena. Io rimasi impietrita dalla paura. Gli
occhi spalancati e tremante da capo a piedi, faccio per gridare, ma un nodo alla gola
me lo impedisce: non riesco né a parlare, né a piangere". È a questo punto che,
interrogata come si chiamasse, la bambina, traumatizzata dallo spavento e impedita dai
singhiozzi repressi, non riesce a rispondere. "Bakhita, ti chiameremo 'Bakhita', 'la
fortunata!' ". E con questo nome è arrivata fino a noi. "Spinta con violenza nel fitto del
bosco, per sentieri mai battuti, attraverso campi, sempre a passo svelto, mi fecero
camminare fino alla sera. Ero stanca morta, avevo i piedi e le gambe sanguinanti,
causa le schegge dei sassi e le punture di piante spinose. Scoppiai in pianto, ma quei
cuori duri non sentivano nessuna pietà. Lungo questa marcia forzata, ci imbattemmo
in un campo di cocomeri. I due ne colsero, si misero a mangiarli e ne offersero anche
a me. Ma io non potevo proprio inghiottire niente, eppure era dal mattino che non
mangiavo. Non avevo in mente che la mia famiglia: chiamavo mamma e papà, con
un'angoscia d'animo da non dire. Ma nessuno là mi udiva. Di più: mi si intimava
silenzio con terribili minacce, mentre così, stanca e digiuna, mi facevano riprendere il
viaggio che durò senza soste tutta la notte. Al primo albeggiare, entrammo nel loro
paese. Non ne potevo proprio più. Uno di essi mi afferrò per una mano e mi trascinò
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nella sua abitazione, mi introdusse in un bugicattolo pieno di arnesi e di rottami, ma
non vi erano né sacchi né letto, solo il nudo terreno. Mi diede un pezzo di pan nero e
mi disse: 'stai qui', e uscendo chiuse la porta a chiave. Stetti colà più di un mese. Un
piccolo foro in alto era la mia finestra, l'uscio veniva aperto per brevi istanti per
darmi un magro cibo. Quanto io abbia sofferto in quel luogo, non si può dire a parole.
Ricordo ancora quelle ore angosciose quando, stanca dal piangere, cadevo sfinita al
suolo in un leggero torpore, mentre la mia fantasia mi portava fra i miei cari lontano
lontano... Lì; vedevo i miei amati genitori, fratelli e sorelle e tutti abbracciavo con
trasporto di tenerezza, narrando come mi avevano rapita e quanto avevo sofferto.
Altre volte mi sembrava di giuocare con le mie amiche nei nostri campi, mi sentivo
felice, ma ahimé, tornata alla cruda realtà dell'orrida solitudine, mi pigliava un senso
di scoramento che mi pareva mi si spezzasse il cuore".
La fuga
"Il padrone aveva messo me e la mia compagna in una camera separata che egli
chiudeva sempre, specie quando doveva allontanarsi da casa. Una sera torna dal
mercato con un mulotto carico di pannocchie di mais. Entra nella nostra tana, ci
toglie la catena dai piedi e ci ordina di scartocciare le spighe e di darne da mangiare
al mulo". Visto come le due ragazzine si erano messe al lavoro di lena, il padrone se
ne va per i suoi affari. "Eravamo sole, senza catena! Provvidenza di Dio: era il
momento buono. Un 'occhiata d'intesa, una stretta di mano, uno sguardo all'intorno e,
non vedendo nessuno, via di tutta corsa verso l'aperta campagna, senza saper dove,
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con la sola velocità delle nostre povere gambe. Tutta la notte fu una continua e
trepidante corsa dentro ai boschi e fuori per il deserto. Ansanti e trafelate sentivamo
nel buio i ruggiti delle fiere. Al loro approssimarsi saltavamo sugli alberi per salvarci
"I ragazzi africani, commenta Roche, non sono così facilmente spaventati, meno che
meno da animali feroci. Sono abituati a tali incontri. I loro costumi tribali, le stesse
loro danze, ritmate da interminabili colpi di tamburo, contribuiscono a renderli padroni
dei loro nervi anche da giovani. Qualunque sia stata la loro reazione, inseguite come
furono da un feroce leone, non persero la presenza di spirito. Facendo uso delle mani e
dei piedi, e dei piedi come fossero mani, s’arrampicano sul più vicino albero come due
gatti e sono salve". Assicurate che la fiera se n'era andata, scendono, ma si guardano
bene dal prendere sentieri battuti, per timore di sfortunati incontri. "Infatti, come
camminavamo ormai in pieno giorno, facendoci strada fra sterpi ed erbe selvatiche,
sentimmo il brusìo tipico delle carovane che s'avvicinava. Più spaventate che mai, ci
nascondemmo dietro cespugli irti di spine, per ben due ore un gruppo segui l'altro,
passando proprio davanti a noi, ma nessuno ci scorse. Era il buon Dio che ci
proteggeva, non altri. Io mi credevo che, scon giurati i pericoli, avrei di poi subito
trovato i miei cari: tutto soffrivo volentieri e mi davo animo. Verso l'alba ci fermammo
a prendere fiato come eravamo stanche! Il cuore ci martellava in petto, grosse gocce
di sudore ci cadevano da ogni parte, una fame acuta ci lacerava lo stomaco: non
avevamo nulla... Il desiderio vivo di rivedere i nostri cari e il timore di essere
inseguite ci somministravano ancora la forza di continuare la corsa, mai però come
prima. Ma dove andavamo a finire? Verso il tramonto vedemmo una casupola. Il cuo-
re allora prese a battere più forte. Aguzzammo gli occhi per vedere se era la nostra
(casa): non lo era! Oh, quanta amarezza, quale disinganno! Mentre sfiduciate,
stavamo lì su due piedi a pensare, ci appare davanti un uomo. Spaventate, facciamo
per fuggire ma egli fermandoci il passo, con buone maniere ci chiede: “Dove
andate?”. E noì silenzio. 'Su dite: dove andate?'. “Dai nostri genitori”. “E dove sono
i vostri genitori?”. Là, rispondemmo, indicando confuse una parte, senza saper dove.
Egli allora si accorse che eravamo fuggiasche. ‘Ebbene, disse, venite a riposare un
poco, poi vi condurrò io dai vostri genitori’. Noi, credendo alle sue parole, lo
seguimmo nella casupola. Appena entrate, ci sdraiammo per terra come morte. Ci
diede da bere un po' d'acqua, ma eravamo così sfinite, che non potemmo ritenerla.
Allora ci lasciò sole e, quiete, ci addormentammo. Dopo un 'ora circa, ci condusse
nella sua casa, ci diede da mangiare e da bere e poi ci introdusse in un ovile pieno di
pecore e di agnelli, fece ivi posto per mettervi un angareb poi legandoci assieme per il
piede con una grossa catena, ci comandò di stare in quell'ovile fino ad altro avviso.
Il tatuaggio
Ma il peggio per la nostra giovane schiava non era ancora venuto. Era costume che gli
schiavi, a onore del padrone, portassero sul corpo dei segni particolari, ottenuti con
tatuaggio per incisione. "Io fino allora non ne avevo alcuno e le mie compagne ne
portavano tanti anche sul viso. Ebbene la nostra signora s'incapricciò di fare questo
regalo a quelle che non erano tatuate. Eravamo in tre. Viene una donna esperta in
questa crudele arte. Ci conduce sotto il portico e la padrona dietro con lo scudiscio in
mano. La donna si fa portare un piatto di farina bianca, uno di sale e un rasoio.
Ordina alla prima di noi tre di distendersi per terra e a due schiave delle più forti di
tenerla una per le braccia e l'altra per le gambe. (L'aguzzina) allora si curva su di lei
e comincia con la farina a fare sul ventre di quella disgraziata una sessantina di segni
fini. Io ero lì con tanto d'occhi a osservare, pensando che dopo sarebbe toccato anche
a me quella sorte crudele. Finiti i segni, prende il rasoio e giù tagli su ogni segno che
aveva tracciato. La poverina gemeva e il sangue stillava da ogni taglio. Non basta.
Finita questa operazione, prende il sale e con tutta forza stropiccia ogni ferita, perché
vi entri a ingrossare il taglio (onde tenerne i labbri aperti). Che spasimo! Che
tormento! Tremava tutta l'infelice, e io pure tremavo, aspettandomi purtroppo
altrettanto. Infatti, portata la prima sul suo giaciglio, viene il mio turno. Non avevo
fiato di muovermi, ma uno sguardo fulmineo della padrona e lo scudiscio alzato, mi
fecero piegare immediatamente a terra. La donna, avuto ordine di risparmiarmi la
faccia, comincia a farmi sei tagli sul petto, e poi sul ventre fino a sessanta, sul braccio
destro quarantotto. Come mi sentissi non lo potrei dire. Mi pareva di morire ad ogni
momento, specie quando mi stropicciò con il sale. Immersa in un lago di sangue, fui
portata sul giaciglio, ove per più ore non seppi nulla di me... Quando rinvenni, mi vidi
accanto le mie compagne che, al par di me, soffrivano atrocemente. Per più di un
mese tutte e tre fummo condannate a stare là, distese sulla stuoia, senza poterci
muovere, senza una pezzuola con cui asciugare l'acqua che continuamente usciva
dalle piaghe semiaperte per il sale. Posso proprio dire che non sono morta per un
miracolo del Signore che mi destinava a MIGLIORI COSE". "Dopo vari mesi di
lontananza, il generale era ritornato nel Kordofan, con la decisa volontà di recarsi ai
suoi paesi in Turchia. Fece dunque i preparativi per la partenza e siccome aveva una
quantità di schiavi, ne scelse dieci, tra i quali anche me, gli altri furono venduti.
Partiti dal Kordofan sui cammelli, dopo vari giorni di viaggio, si fece sosta a Khartum
in un albergo. Lì, mandò fuori la voce a chi volesse comperare schiavi. Si presentò
l'agente consolare italiano di nome Callisto (Legnani). Si volle che io gli portassi un
caffè; lo vidi squadrarmi da capo a piedi, ma non pensavo che progettasse di
comperarmi. Lo compresi solo il mattino seguente, quando il generale turco mi ordinò
di seguire la cameriera del console, aiutandola a portare un involto". Questa fu la
quinta e ultima compra-vendita della giovane schiava sudanese. Una lunga storia si
chiudeva nel suo destino - storia di orrori e di umiliazioni. Per la prima volta, dopo
quasi dieci anni di schiavitù, indossò un vestito.
PARTE TERZA
Trofeo della Provvidenza di Dio
Giunti alla fine del racconto di Bakhita, con esultanza di spirito possiamo esclamare
con S. Paolo: "Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che
sono stati chiamati secondo il suo disegno" (Rm 8, 28). È evidente, e dalla sua stessa
testimonianza, che Bakhita ha amato Dio prima ancora di conoscerlo. Solo in un
secondo tempo però saprà leggere nella lunga sequela di fatti tragici e penosi la
misteriosa trama dei disegni di Dio, valido corollario alle ispirate parole dell'Apostolo.
Né lo furono meno, sebbene inquadrati in una scena piena di terrore, i negrieri stessi,
quando la chiamarono 'Bakhita' 'La Fortunata': essi furono, come Caifa, profeti senza
saperlo (cf. Gv 1,14). Se la vita di questa fanciulla sudanese avesse seguito il suo corso
normale, oggi non ci sarebbe tutto un consesso di teologi a discutere, ammirati, sulle
virtù eroiche da lei praticate, né milioni di cattolici e non, sarebbero protesi in
ammirazione verso la sua umile figura. Una ragione di fondo bisogna subito mettere in
evidenza: tutte le disgrazie, i contrattempi, gli errori, gli istinti brutali ed egoistici, le
motivazioni venali e di comodo, tutto concorse alla realizzazione dei piani della divina
Provvidenza. Episodi determinanti sono senz'altro certe decisioni prese all'ultimo
momento. Il padrone turco nel Kordofan, svende schiavi per alleggerire il carico della
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carovana, ma fra i pochi scelti per accompagnarlo in Turchia, c'è Bakhita. Così doveva
essere per farla arrivare a Khartum, dove lo stesso padrone offre proprio lei al signor
Legnani che la compra di fatto, ma per affrancarla, e ancor questi, a sua volta,
acconsente al desiderio di Bakhita e la porta in Italia. Come la luce dello Spirito Santo
illuminò la mente della ormai ex-schiava, ben le fece comprendere la misteriosa trama
dei suoi disegni. In un convegno di giovani, uno studente bolognese chiese a M.
Giuseppina Bakhita: "Cosa farebbe se incontrasse i suoi rapitori?". Senza un attimo di
esitazione, rispose: "Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita, e anche quelli
che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse
accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa". Continuando il discorso sullo stesso
argomento, non solo ne benediceva la provvidenziale mediazione nelle mani di Dio,
ma li scusava in questi termini: "Poveretti, forse non sapevano di farmi tanto male:
loro erano i padroni, io ero la loro schiava. Come noi siamo abituati a fare il bene,
così i negrieri facevano questo, perché era loro abitudine, non per cattiveria".
Commenti che mettono a tacere ogni nostra umana reazione, perché quella ignota
schiava africana, assistita senz'altro dalla grazia preveniente di Dio, confessa non solo
di non nutrire rancore verso chi la rapì, la vendette e la torturò, ma dimostra
compassione e compatimento, perché infine "non sapevano quello che facevano".
"Bisogna convenirne: non sono questi i sentimenti che di solito si trovano nel cuore di
quanti debbono obbedire e sottostare a privazioni e maltrattamenti; sono piuttosto
sentimenti di ribellione e di odio, impotenti magari, date le circostanze, ma tanto più
intensi, quanto inevasi. Non fu così per la nostra Bakhita". Il suo atteggiamento nei
riguardi di tutti quelli che nel suo tormentato passato l'avevano fatta tanto soffrire "è
carità allo stato eroico: perdono allo stato puro.
"Naturaliter Christiana"
Desiderosi di scendere a più minuti particolari con l'intento di scoprire cos’era
veramente la nostra Bakhita allo "stato naturale", cioè "quando non conosceva Dio",
ci incontriamo subito con una ragazzina che, contemplando i meravigliosi fenomeni
della natura, si chiedeva: "Chi sarà mai il padrone di queste belle cose? E provavo,
confessa, una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio".
Sant'Agostino commenterebbe: "Non Lo cercheresti, se non L'avessi già trovato". Di
fatto, Bakhita non aveva bisogno d'andare alla ricerca di Dio, perché Dio già era nel
suo cuore. Ne sono riprova le testimonianze da lei stessa esposte circa l'osservanza di
quella legge santa che Dio si compiace di scrivere "con il suo stesso dito" nel cuore di
tutti gli uomini. Dall'evidenza dei fatti si può dedurre che Bakhita aveva sortito da
natura un carattere docile e mite, una sensibilità e delicatezza di sentimenti
straordinari; aveva forte propensione ad amare e ad essere amata: aveva avuto modo di
godere e patire questa sua passione sia in famiglia che poi, durante la sua dura vita di
schiava. Apprezzava il minimo atto di bontà e di attenzione affettuosa: quando le
mancava, ne soffriva per sé e per gli altri. Molti hanno sottolineato la sua docilità di
carattere, questa però non le impedì di ergersi decisa contro le allettanti promesse di
una vita più facile e nella sua patria, quando ciò poteva compromettere la sua fede
cattolica. Colei che si considerava "come schiava, una cosa di proprietà dei suoi
padroni quando fu posta davanti all'alternativa, di scegliere un bene immediato e già
noto, fattasi padrona di sé, optò per l'ignoto ma, per sé, esistenzialmente sicuro. Alla
tenerezza di cuore, alla mitezza della natura sapeva accoppiare chiaro discernimento e
incrollabile fortezza d'animo. Ulteriori prove di quanto lontano Bakhita aveva saputo
arrivare alla sola luce della legge naturale, le abbiamo dalle risposte che ella diede alle
occasionali domande di terzi. Mai approfittò della roba dei padroni, neppure quando
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pativa la fame. Compi sempre i suoi doveri di schiava, cercando di essere obbediente.
Interrogata se si fosse così' comportata, pensando che Dio la vedeva, rispose: "Io non
conoscevo Dio, facevo sì, perché sentivo dentro di me che dovevo comportarmi in quel
modo". Altro particolare assai rilevante: pur avendo toccato il fondo dello scoramento
e della malinconia, "da schiava non si era mai disperata, perché sentiva dentro di sé
una forza misteriosa che la sosteneva". Interrogata con discrezione se, durante il suo
lungo percorso di schiavitù, fosse stata abusata, rispose: "Io sono stata in mezzo al
fango, ma non mi sono imbrattata". Più volte ripeté, "per grazia di Dio sono sempre
stata preservata". "La Madonna mi ha protetta nonostante che io non la conoscessi",
e ripeté: "In varie occasioni mi sono sentita protetta da un essere superiore".
Lo stile
Dopo aver sottolineato con commossa ammirazione il misterioso piano della
Provvidenza su quest'anima che pare essere stata prediletta da Dio "fin dal seno
materno" (Gal 1, 16), non possiamo non tornare sul suo racconto senza notare la sua
spontanea abilità narrativa, la vivacità dei particolari che fanno balzare certe scene
davanti ai nostri occhi in tutta la loro naturale crudezza. È vero che lo stile del
racconto è semplice e non senza lacune, specie per ciò che riguarda la toponomastica
di luoghi, carichi per noi di tanto interesse. In compenso però quali doti comunicative
dimostra di avere questa incolta e ingenua narratrice. Anzi più: certi particolari cui ella
accenna senza artificio alcuno, fanno risaltare subito la sua distinta personalità morale.
Tenerissima di sentimenti, a distanza di trenta e più anni, ricorda, "quanto pianse la
mamma e quanto piangemmo noi pure" a seguito della cattura della sorella maggiore.
Rapita a sua volta, si descrive “impietrita dalla paura” gli occhi spalancati, trernante
tutta da capo a piedi"... Spinta avanti con violenza, "non fa che singhiozzare".
Sebbene digiuna da tutta una giornata, non può prender cibo, perché "...non avevo in
mente che a mia famiglia... e chiamavo mamma e papà con un'angoscia nell’anima da
non dire; mai ahimè, nessuno mi udiva". Quanto umani e delicati i sentimenti espressi,
quando, racchiusa tutta sola per un mese in un bugigattolo, "stanca di piangere,
cadevo sfinita al suolo in un lieve torpore, mentre la mia fantasia mi portava fra i miei
cari lontano, lontano... Lì, vedevo i miei amati genitori, fratelli, sorelle, e tutti
abbracciavo con trasporto di tenerezza". Piena di effetto è la descrizione della fuga.
"... Un 'occhiata d'intesa, un cenno, una stretta di mano, uno sguardo all'intorno,
e... via di tutta corsa senza saper dove, con la sola velocità delle nostre povere gambe.
Tutta la notte e il dì seguente fu una continua e trepidante corsa..." per cadere, infine,
in bocca al lupo. Tanta era la stanchezza e amara la delusione, da non potere ritenere
neppure un sorso d'acqua, offerto dai nuovi rapitori. Triste l'epilogo, ma il fatto non
manca di dimostrare quanto potenti erano i sentimenti familiari in queste due fanciulle
e quanto animoso il coraggio, si da affrontare, nella notte, e l'assalto di animali feroci e
quello, non meno terribile, di incontri con negrieri. Ammirevole in Bakhita il
sentimento di compassione per i suoi compagni di schiavitù. "Sentiva pietà nel vedere
le piaghe attorno al collo, causate dalla grossa catena" che teneva aggiogati insieme
due o tre uomini. Allucinanti potremmo chiamare i particolari del tatuaggio da lei
descritti. Gli attori: la padrona, lo scudiscio alzato; l'aguzzina, il rasoio in mano; due
schiave delle più forti per tenere ferme braccia e gambe delle vittime: tre giovani
adolescenti, stese a terra, a turno. "Io ero lì con tanto d'occhi a osservare, pensando
che dopo sarebbe toccata anche a me quella sorte crudele". Quel sale, "stropicciato
con tutta forza sulle ferite sanguinanti... che spasimo! Che tormento! Tremava tutta
l'infelice, così io pure, aspettandomi altrettanto. Portata via la prima, priva di sensi io
dovevo distendermi al suo posto. Non avevo fiato di muovermi; ma uno sguardo
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fulmineo della padrona e lo scudiscio alzato, mi fecero piegare immediatamente a
terra...". Compiuti su ordine centoquattordici tagli, "immersa in un lago di sangue, fui
portata sul giaciglio, dove per più ore non seppi nulla di me. Posso proprio dire che
non sono morta perché il Signore mi aveva destinata a COSE MIGLIORI.
Missionaria sempre!
Per realizzare questa sua cocente ansia missionaria cominciò con il far bene e per amor
di Dio quanto, volta per volta, le veniva assegnato. M. Giuseppina, durante la sua sosta
nel catecumenato, aveva appreso la delicata arte del ricamo in bianco e a confezionare
articoli ornamentali con le famose perle di Venezia. Quando però, trasferita a Schio, le
fu chiesto di lavorare in cucina, impegnò tutte le sue energie e la sua intelligenza
nell'assolvere tale mansione nel migliore dei modi. Forza e intelligenza però sarebbero
andate poco lontano, se il cuore avesse esulato da tale pur sempre gravoso e logorante
lavoro. Consorelle ed ex-educande ricordano questo piccolo, ma significativo
particolare. Durante l'inverno, aveva l'avvertenza di scaldare scodelle e piatti, perché
le vivande arrivassero calde davanti alle numerose commensali. Notevole ancora il
senso di responsabile carità che mostrava verso le ammalate nel preparare le diete
secondo le prescrizioni mediche: non solo, ma lo stile e la varietà nel presentare le
portate lasciavano intendere, senza parole, che ogni ammalata era oggetto del suo
pietoso amore: messaggio che ciascuna deve avere recepito, se tale testimonianza è
arrivata fino a noi. Si restava meravigliati, data l'estensione del lavoro, delle sue
attenzioni, della puntualità e perizia nel preparare non solo il necessario, ma nel
prevenire perfino i desideri. M. Giuseppina non era sola in cucina, altre sorelle si
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avvicendavano nel lavoro. Succedeva allora che chi arrivava suggeriva altri metodi
che incrociavano l'ormai provata esperienza sua, collaudata da anni. Senza reazione
alcuna, la docile Bakhita di sempre, si adattava ad apprendere tutto di nuovo e
ringraziava con sincera umiltà C'è ancora chi afferma che riusciva ad accontentare con
i suoi menus anche le educande: il che basta per dare a qualunque cuoca la laurea
honoris causa. Conseguita... questa, dovette presto prendere a suo carico anche un
altro impiego. La guerra del 1914-1918 aveva fatto sfollare parte della comunità e le
educande a Mirano Veneto, sicché chi restava dovette addossarsi più di un ufficio. A
M. Giuseppina toccò la felice sorte di occuparsi anche della sagrestia, dove,
naturalmente, si sentì subito di casa, perché passava parte del suo tempo proprio alla
presenza del suo Paron. Di questo periodo abbiamo la testimonianza del P.
Bartolomeo Cesaretti, O.F. Cap., cappellano militare dell'ospedale n. 55, accasermato
nell'Istituto delle Canossiane di Schio, "dove, afferma il teste, prestai servizio fino al
18 o 19 gennaio 1919. In mancanza di sacerdoti, dovetti fare da cappellano nella
chiesa delle suore" In quel periodo, "conobbi molto bene una suora africana da tutti
chiamata 'Madre Moretta'. Si presentava sempre con umiltà e semplicità. Una delle sue
occupazioni era la sagrestia. La sua precisione ed esattezza in questo ufficio
rivelavano la sua grande fede nell'Eucarestia. Con molta soddisfazione e gioia
preparava l'altare e gli arredi sacri per la Messa. Usciva spesso in espressioni che
mostravano la sua fede e invitavano alla bontà e alla fiducia in Dio. 'El Paron... el
Segnor', ripeteva, ma in tal modo, che conquistava anche l'animo dei soldati. Quando
parlava di Dio sembrava provasse una gioia e una consolazione particolari. Quando
ufficiali e soldati la interrogavano, ella rispondeva sempre da santa, ricordando a tutti
la misericordia del Signore. Era prudentissima, modesta e riservata con tutti loro. Se
però veniva a taglio, non esitava a farsi... concorrente dello stesso sacerdote,
nell'ammonire sia soldati che ufficiali, quando notava dai loro discorsi certe tristi
disposizioni d'animo. Lo faceva con quei suoi modi sempre tanto amabili, ma non
meno efficaci che li induceva a riflettere e a entrare in se stessi, riconoscendosi in
colpa davanti a Dio". Poi, senza tanti preamboli, li esortava ad andarsi a confessare. P.
Bartolomeo restava edificato e, a volte, confuso. Nella sua testimonianza, parla anche
delle celle delle Canossiane: "Ne ho ammirato l'altissima povertà. C’era in ognuna un
letto in legno col pagliericcio, una sedia e un piccolo tavolo; a una parete, un quadretto
della Madonna e una croce. La cella di M. Bakhita era anche più povera delle altre,
perché non facendo scuola, non aveva penne, libri o altro. Nel suo modesto
guardaroba, che si trovava nella sala comune accanto a quello delle altre, aveva un
canestrino in cui teneva gomitoli di seta per quei lavoretti che la sua operosità
trasformava in oggetti graziosi. Perché M. Giuseppina non perdeva mai tempo, persino
gli ufficiali avevano notato questo particolare. E lei pronta: "Anche Gesù ha lavorato".
Di fatto era piuttosto lenta nei movimenti, ma arrivava a tutto. "Anzi, si offriva spesso
a sostituire le Sorelle" . Ma ben presto ebbe un ufficio che richiese continua e
premurosa attenzione: M. Giuseppina era diventata portinaia. Quando, il primo
mattino, le ragazze della scuola si videro accolte da Madre Giuseppina, pare abbiano
esclamato: "Madre Moretta portinaia?! oh benedetta dal Signore, che gusto!" Certo
non era cosa corrente vedersi ricevere alla porta di una scuola italiana da una suora
africana. Ma M. Bakhita faceva tutto con slancio d'amore, mirando a un ideale che
andava al di là e al di sopra di tutto I piccoli dell'asilo venivano accompagnati dalle
loro mamme, le quali, fattesi presto familiari con la "buona suora" cercavano ogni
scusa per poter scambiare con lei anche solo una parolina. M. Giuseppina, da parte
sua, non lesinava né tempo, né sacrificio, pur di accontentare tutti. Ci è impossibile
riferire parola per parola i messaggi di incoraggiamento, di fede-fiducia in Dio, di
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pazienza e tolleranza che l'umile suora affidava al vento dello Spirito, li su due piedi,
sul limitare della soglia. Tutti attestano però che bastava quel poco per ripartire
rassenerati. Qual magia! Eh, si', M. Giuseppina possedeva la magia dell'affiato
spirituale, perché "condiva" ogni suo dire o fare con l'unguento della preghiera e del
sacrificio. Questo è il segreto della sua popolarità a Schio e oltre.