Fisiologia Della Visione LA Luce. HH Fotorecettori, Ma in Cosa Consiste La Luce?

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FISIOLOGIA DELLA VISIONE

LA LUCE.
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I recettori della vista sono cellule sensibili alla luce, pertanto vengono definiti
fotorecettori,ma in cosa consiste la luce?
Già gli antichi Greci hanno tentato di dare una risposta a questa domanda e,
successivamente, scienziati di ogni epoca se ne sono occupati, ma oggi sappiamo che
la luce che vediamo, che illumina il nostro mondo, è solo una parte dello spettro
elettromagnetico, cioè l’insieme di tutte le possibili frequenze della radiazione
elettromagnetica. La radiazione elettromagnetica è una forma di trasmissione di
energia attraverso lo spazio vuoto in cui i campi elettrici e magnetici si propagano
sotto forma di onde e un’onda è una perturbazione che trasmette energia attraverso un
mezzo. L’onda è dotata di tre proprietà: la lunghezza, l’ampiezza e la frequenza.
L’onda è formata da creste e ventri; la cresta è il punto più alto rispetto a una linea
immaginaria centrale, i ventri sono i punti più bassi.
La lunghezza è la distanza tra i punti più alti di creste successive, viene misurata in
nanometri (il nanometro è un milionesimo di millimetro); l’ampiezza è l’altezza
massima sopra la linea centrale o la profondità massima al di sotto; la frequenza è il
numero di creste o ventri che passa in un punto nell’unità di tempo (cioè il numero di
oscillazioni al secondo) e si misura in hertz; la frequenza è legata alla velocità della
luce nel vuoto. Lunghezza d’onda e frequenza sono due grandezze inversamente
proporzionali perché all’aumentare dell’una diminuisce l’altra e viceversa.

Come già detto, il mondo è immerso nelle radiazioni elettromagnetiche ma l’occhio è


sollecitato solo da quelle che fanno parte dello spettro visibile, cioè da quelle che
chiamiamo luce. La luce è quindi quella parte dello spettro compresa tra 400 e 700
nanometri di lunghezza d’onda e tra 790 e 435 Thz di frequenza. Tutte le radiazioni
al di sopra e al di sotto di queste non sono per noi visibili anche se un certo grado di
variabilità esiste da soggetto a soggetto in quanto alcuni possono arrivare a vedere
radiazioni di lunghezza d’onda anche fino ai 720 nm, avvicinandosi agli infrarossi o
di 380 nm, avvicinandosi agli ultravioletti.
Le onde elettromagnetiche, in base alla lunghezza si possono così classificare:
le più corte sono i raggi gamma, poi i raggi X, poi gli ultravioletti, poi lo spettro
visibile, che rappresenta la parte centrale, ovvero la luce, poi gli infrarossi, le
microonde e infine le onde radio.
L’occhio umano può distinguere due elementi dell’onda luminosa: la lunghezza e
l’ampiezza. Le differenze tra lunghezze d’onda sono viste come differenze di colore;
la luce solare, che noi percepiamo come luce bianca, è formata dalla presenza
contemporanea di tutte le lunghezze d’onda visibili. La scissione della luce bianca
nelle sue componenti attraverso un prisma (esperimento di Newton) dà luogo a sette
diversi colori: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto, gli stessi che
vediamo nell’arcobaleno, dunque il colore non è una qualità dei corpi ma della luce
stessa. Le differenze di ampiezza, invece, le percepiamo come differenze di intensità
luminosa.
Oggi sappiamo che la luce possiede una doppia natura: quella ondulatoria, perché
formata da onde, ma possiede anche le proprietà tipiche delle particelle, infatti è
composta anche da quanti o fotoni che sono le unità fondamentali di un campo
elettromagnetico, quindi è dotata anche di natura corpuscolare. Un fascio luminoso è
quindi anche lo spostamento di un gruppo di particelle di energia, ovvero di fotoni.

LA LUCE E LA NATURA DEI CORPI


Stabilito cosa è la luce, sappiamo che essa ci consente di vedere il mondo intorno a
noi. In questo processo sono coinvolti: l’occhio, il cervello e alcuni fenomeni legati
alla diversa natura dei corpi. In questo modo la luce interagisce con la materia dando
luogo a fenomeni che appaiono diversi ai nostri occhi.
I fenomeni che più influenzano la trasmissione della luce attraverso la materia sono:
l’assorbimento, la diffusione, la riflessione e la rifrazione.
La riflessione, da sola o combinata con l’assorbimento, è il principale meccanismo
con il quale gli oggetti si rivelano ai nostri occhi. La diffusione della luce da parte
dell’atmosfera è responsabile della luminosità del cielo.
Tutta la luce che ci circonda proviene da fonti di energia, siano esse il sole, il fuoco o
altro, ma la maggior parte di quella che colpisce l’occhio è luce riflessa, cioè raggi
che, dopo aver colpito vari oggetti, che appaiono a loro volta illuminati, in parte sono
assorbiti e in parte sono respinti, ovvero riflessi.
La quantità di raggi che si riflettono o che vengono assorbiti, dipende dalla struttura
del corpo, dalla sua superficie e dall’angolo con cui questo viene colpito.
Per quanto riguarda la struttura esistono corpi trasparenti, cioè corpi che si
lasciano attraversare dalla luce e attraverso cui si può vedere la sorgente luminosa (ad
esempio l’acqua o il vetro).
Esistono corpi semi-trasparenti che cioè si lasciano attraversare dalla luce, ma non
permettono di distinguere, guardandoci attraverso, i particolari della sorgente (ad
esempio il vetro smerigliato).
Infine esistono corpi opachi, cioè che non si lasciano attraversare dalla luce (ad
esempio la pietra, il legno o i metalli); ma bisogna tener presente che se il metallo è
battuto in lamine molto sottili può anche essere considerato semi trasparente, così
come l’acqua alla profondità di 400-500 metri estingue tutta la luce che l’attraversa.
Ciò dimostra come questi concetti non siano assoluti ma relativi.
Per quanto riguarda la superficie, se essa è liscia come uno specchio, una distesa
d’acqua, una lastra di metallo o una qualsiasi superficie lucida, riflette più luce che
non un corpo ruvido e opaco.
Dunque, quando i raggi luminosi incontrano un corpo, il loro cammino viene
influenzato dai vari fattori considerati e dalla densità del corpo stesso.
Quando la luce incontra un mezzo trasparente e passa da un mezzo con una
determinata densità, l’aria, a un altro a densità minore o maggiore, i raggi avranno un
comportamento diverso secondo l’angolazione con cui incontreranno la superficie.

Il raggio luminoso che colpisce la superficie è detto incidente.


I raggi che colpiscono perpendicolarmente la superficie avranno un’incidenza
normale al piano che separa i due mezzi e il loro cammino non subisce deviazioni,
ma procede rettilineo.
Quando il raggio incidente colpisce la superficie con un’incidenza obliqua, si
piegherà bruscamente a contatto con questa per poi proseguire secondo la nuova
traiettoria in modo rettilineo.
Questo fenomeno è detto rifrazione e il raggio in questione è detto rifratto.
L’esatta definizione di rifratto è: che entra in un secondo mezzo e modifica la
traiettoria. L’angolo che il raggio rifratto forma con il raggio incidente si definisce
angolo di rifrazione (r). La misura dell’angolo di rifrazione dipende dai due mezzi
(es. aria-acqua) e dalla lunghezza d’onda del raggio di luce. Più precisamente
dall’indice di rifrazione dei due mezzi per una data lunghezza d’onda. Ne segue che,
fissati i due mezzi in cui la luce si propaga, i raggi di luce che viaggiano con lo stesso
angolo nel primo (luce bianca nell’aria), si troveranno a viaggiare con diverso angolo,
cioè saranno separati, nel secondo mezzo se hanno lunghezze d’onda diverse. Così i
raggi che compongono la luce bianca, che hanno diversa lunghezza d’onda, attraverso
il prisma di Newton vengono scomposti, per rifrazione, nei diversi raggi colorati.
Quando il raggio incidente incontra la superficie in posizione quasi parallela a essa si
riflette totalmente e non penetra nel secondo mezzo. Questo raggio viene detto
riflesso e il fenomeno si chiama riflessione. L’angolo di incidenza i e l’angolo di
riflessione r’ sono sempre identici.
Un raggio che colpisce una superficie sarà sempre in parte rifratto e in parte riflesso
tranne nel caso sopra descritto in cui colpisca la superficie con un angolo molto
radente, ovvero quasi parallelo. Esiste un valore di tale angolo, detto angolo limite, a
partire dal quale il raggio sarà totalmente riflesso.
Esistono delle superfici, come gli specchi, dette superfici riflettenti, che non possono
essere attraversate dalla luce ma la riflettono interamente.
Altro discorso è quello dei corpi opachi che possono solo riflettere una parte dei
raggi, mentre i restanti vengono assorbiti.
Un particolare tipo di mezzo trasparente è rappresentato dalle lenti.
Si chiama lente un mezzo trasparente, omogeneo, limitato da due superfici levigate di
cui una almeno deve essere curva. Vi sono diversi tipi di lenti che si dividono in due
grandi gruppi: lenti convergenti e lenti divergenti.

Una lente si definisce convergente quando, attraversata da un fascio di raggi paralleli


tra loro, li rifrange facendoli poi convergere in un solo punto detto fuoco.
Al contrario è detta divergente una lente che li rifrange senza mai farli intersecare, ma
facendoli divergere.
Le immagini reali, quelle che possono essere raccolte su di uno schermo vengono
formate solo dalle lenti convergenti.
Le lenti dell’occhio sono lenti convergenti: in particolare la cornea è un menisco
convergente ed è quella con il maggior potere di rifrazione, il cristallino è una lente
biconvessa che agisce principalmente con l’accomodazione (corpo vitreo e umor
acqueo sono meno potenti e con indice di rifrazione simile) ciò perché i raggi
luminosi che entrano nell’occhio devono convergere tutti in un solo punto: la fovea.
In una lente biconvessa l’asse principale o asse ottico è una linea retta che passa per
i centri di curvatura delle due superfici sferiche della lente e la interseca nel centro
ottico. I raggi che arrivano alla lente per il suo asse principale non subiscono alcuna
deviazione e la attraversano continuando nella loro direzione primitiva. I raggi
paralleli all’asse principale vengono rifratti e, attraversata la lente, convergono tutti in
un punto situato sullo stesso asse ottico e chiamato fuoco principale. Quindi il fuoco
di una lente convergente è il punto nel quale convergono i raggi paralleli incidenti
dopo il passaggio e la rifrazione attraverso la lente.
La distanza tra il fuoco principale e il centro ottico della lente viene detta distanza o
lunghezza focale e varia con la curvatura delle superfici e l’indice di rifrazione della
lente.

Per avere un’immagine oculare perfetta l’oggetto si deve trovare a una distanza (fra
se stesso e la lente) maggiore del doppio della distanza focale. Si avrà così una
immagine reale, capovolta e rimpicciolita.

L’occhio, dunque, con le sue lenti rifrange i raggi affinchè l’immagine si formi
sempre sulla retina. Per questo è un sistema ottico potente in quanto focalizza i raggi
paralleli in uno spazio tanto breve.
P
oiché la distanza dell’oggetto dall’occhio può variare, ma l’immagine deve sempre
formarsi sulla retina, per ottenere questo bisogna fare in modo che rispetto all’occhio
la distanza dell’immagine rimanga fissa e ciò si ottiene variando la distanza focale.
Come? Col meccanismo dell’accomodazione ad opera del cristallino.
Sappiamo che il cristallino è una lente convergente, ma la sua caratteristica è quella
di poter variare la sua curvatura, quindi può variare il punto di fuoco. Così quando un
oggetto è vicino, il cristallino diviene più curvo, l’aumento di curvatura porta ad un
aumento di convergenza e di conseguenza una distanza focale più corta, ovvero una
immagine più vicina.

Le immagini retiniche vengono percepite diritte e proiettate.


Sono diritte in quanto pur formandosi capovolte sulla retina, l’oggetto viene visto
nella posizione corretta. Il raddrizzamento dell’immagine è un processo psicologico
che inizia dall’infanzia per associazione con altre percezioni, specie quelle tattili.
Sono proiettate in quanto gli oggetti visti vengono localizzati a distanza dai recettori
a differenza di quanto avviene per il tatto, l’olfatto e il gusto nei quali la sensazione
viene localizzata in corrispondenza dei recettori.
La distanza della visione netta in un occhio normale è 25cm.
Fino ad ora, per semplicità, abbiamo considerato l’occhio come un sistema diottrico
perfetto tuttavia, da un punto di vista ottico perfetto non lo è, infatti esso presenta dei
difetti comuni ad ogni sistema ottico che fanno apparire una sorgente puntiforme non
come un punto ma come un circolo luminoso sfumato, un cerchio di diffusione.
Questo fenomeno è conosciuto come aberrazione sferica e aberrazione cromatica.
La causa principale dell’aberrazione cromatica è il fatto che l’indice di rifrazione
dei raggi luminosi colorati varia secondo la loro lunghezza d’onda per cui il loro
punto focale cade in zone non identiche, quindi i raggi variamente colorati che
partono da un unico punto, dal lato opposto della lente non danno un’immagine
puntiforme ma dei cerchi di diffusione.
Nelle lenti artificiali questo difetto si ovvia con una particolare correzione per cui
vengono dette acromatiche.
L’aberrazione sferica è invece dovuta al fatto che:
- La curvatura della cornea nella parte media non è uniforme e quindi non
perfettamente centrata;
- Il peso della palpebra superiore agisce comprimendo la metà superiore
dell’occhio e quindi la cornea in modo diverso dalla metà inferiore;
- Il cristallino è alquanto deformato nei punti che corrispondono ai processi
ciliari.
I raggi luminosi che colpiscono lenti così fatte, quindi, subiscono rifrazioni diverse
secondo la zona su cui cadono e riuniscono il loro fuoco dietro la lente in punti
diversi, con la conseguenza della formazione di un’immagine sfocata.
Comunque ambedue le forme di aberrazione non vengono generalmente percepite
nell’occhio normale in quanto il difetto viene automaticamente corretto e poi la parte
periferica dei circoli di diffusione ha un’intensità luminosa tanto debole che ne è
difficile la captazione.
Inoltre tali difetti vengono in parte ad essere corretti sia dall’iride che elimina i raggi
marginali, sia dalla minore sensibilità delle parti periferiche della retina, dove per lo
più si formano le immagini distorte.
Un esempio del fatto che il fenomeno sia fisiologico lo abbiamo fissando una stella
lontana: la sua immagine ci appare circondata da un alone, cioè il fenomeno
dell’aberrazione sferica evidenziato.
Quando però il fenomeno supera un certo limite, cioè le differenze rifrattive fra i
meridiani dell’occhio sono piuttosto elevate, il fatto costituisce un vero difetto della
visione detto astigmatismo che in pratica può essere corretto con lenti cilindriche.
Oltre a queste alterazioni riguardanti l’aumento o la diminuzione dell’indice di
rifrazione dei vari mezzi rifrangenti, alcuni occhi possono essere mal conformati
anche nel senso delle dimensioni, ovvero possono mostrare un aumento o una
diminuzione del loro diametro antero-posteriore.
Quando l’occhio è troppo lungo le immagini non si formano sulla retina ma più
avanti e, in questo caso, gli oggetti devono essere avvicinati agli occhi per essere
messi a fuoco; tale difetto è detto miopia e si corregge con lenti biconcave che,
facendo divergere i raggi luminosi, spostano l’immagine più indietro.
Quando l’occhio è invece troppo corto, gli oggetti posti a 25 cm. proiettano
un’immagine posteriormente alla retina, pertanto devono essere messi a una distanza
maggiore per essere a fuoco; tale difetto è detto ipermetropia e per correggerlo si
usano lenti biconvesse che danno una convergenza maggiore e spostano l’immagine
più avanti.
MOVIMENTI DEGLI OCCHI
A differenza di altri recettori sensoriali come ad esempio quelli dell’udito che
ricevono passivamente i segnali in arrivo, gli occhi sono estremamente attivi perché
si muovono di continuo per la scansione e l’ispezione dei particolari del mondo che ci
circonda.
Nei movimenti oculari l’asse visivo di un occhio si mantiene sempre parallelo a
quello dell’altro (movimenti coniugati). In questo modo, regolando la direzione
degli assi visivi affinchè le immagini vengano a formarsi su punti corrispondenti
delle retine, si evita la formazione di immagini confuse.
I riflessi di fissazione inoltre provvedono a mettere rapidamente a fuoco sulla fovea
un’immagine che si sia formata sulla parte periferica della retina.
Si chiama area di fissazione lo spazio compreso entro gli estremi limiti del campo
visivo che può essere abbracciato dallo sguardo muovendo gli occhi in tutte le
direzioni, ma tenendo fermo il capo.

L’area di fissazione binoculare corrisponde approssimativamente a una escursione di


circa 50° verso l’alto, 70° verso il basso e 60° ai lati.
I movimenti oculari per i quali gli assi dei due occhi non si mantengono paralleli, ma
convergono su di un punto, si chiamano convergenti.
Si parla invece di movimenti divergenti quando gli assi visivi passano da una
direzione convergente a una parallela.
Ai movimenti di convergenza partecipano sempre entrambi gli occhi anche quando il
punto di fissazione è situato sull’asse visivo di uno di essi.
La convergenza aumenta a mano a mano che dall’infinito il punto di fissazione si
avvicina all’osservatore e raggiunge il massimo quando si arriva al punto prossimo
della visione (ricordiamo che questo punto si trova a una distanza dagli occhi di 8cm
o più secondo l’età). A distanza minore l’immagine appare doppia.

Quando analizziamo un oggetto o una scena, anche complessa e mutevole, l’occhio


ne esplora ogni parte con movimenti veloci e continui, detti movimenti di saccade.
I movimenti dei globi oculari sono dovuti a quei muscoli striati che sono i sei muscoli
estrinseci dell’occhio, muscoli volontari divisi in 4 retti e 2 obliqui.
Sappiamo che la fovea centralis, il punto dove i coni sono altamente concentrati per
permetterci una visione dell’immagine dettagliata e nitida è piccola quanto, se non
più, di una capocchia di spillo. Per questo motivo quando osserviamo un campo
visivo di una certa dimensione riusciamo a mettere a fuoco più o meno la millesima
parte del tutto, eppure l’occhio è capace di vedere con sufficienti dettagli immagini e
scene complesse e variabili. Questo è possibile proprio in virtù dei movimenti di
saccade; tali scatti sono velocissimi, infatti appena l’occhio ha fissato il suo obiettivo,
si sofferma ad osservarlo per circa mezzo secondo per poi passare subito a un’altra
parte dell’oggetto. Se alla fine dello scatto il bersaglio non è sulla fovea, l’occhio
corregge la sua posizione effettuando uno o più spostamenti.
La durata della fissazione varia in rapporto all’interesse, ma anche se compare
qualche oggetto difficile da identificare, la fissazione diviene più lunga e lo sguardo
torna a soffermarsi più volte su di esso: per esempio, a velocità elevate o in un
traffico intenso i movimenti oculari diventano più frequenti.
Luci lampeggianti, frecce o luci di posizione che segnalano che un’auto cambia
direzione attirano lo sguardo.
Quando un oggetto colpisce la periferia della retina gli occhi ruotano
involontariamente in modo che l’immagine venga messa a fuoco sulle due fovee e
l’oggetto possa essere visto nei suoi dettagli (riflesso di fissazione).
Quando si legge, come quando si guida, i movimenti oculari sono rappresentati da
scatti rapidi, ma nella lettura si svolgono in modo particolare: allorchè fissiamo la
riga di una pagina stampata, riusciamo a vedere distintamente solo tre o quattro
parole; per leggere tutte le parole della riga ci vogliono due o tre scatti e il loro
numero dipende non solo dalla capacità del lettore nell’elaborare l’informazione
recepita, ma anche dall’interesse che egli prova per ciò che sta leggendo. La durata
della fissazione aumenta proporzionalmente alle difficoltà di comprensione
incontrate; lo sguardo può tornare periodicamente su parole già lette.
Quando si ha una buona conoscenza della lingua è sufficiente fissare solo le prime
lettere per comprendere la parola o le prime parole per afferrare il contesto della
frase.
E’ interessante sapere che quando compiamo il movimento di saccade, cioè
spostiamo lo sguardo da un punto all’altro, per non percepire le continue interruzioni
dell’immagine, la visione è sospesa. Ciò è dovuto a un meccanismo nervoso di
soppressione dell’immagine che si muove troppo rapidamente durante la saccade al
fine di avere una immagine stabile, infatti, se in quell’attimo fossimo in grado di
vedere, saremmo completamente disorientati così non ci rendiamo conto di questa
sospensione perché la corteccia cerebrale trattiene le immagini e ricostruisce la scena
senza interruzioni.
Da ciò risulta che noi siamo ciechi per una frazione non trascurabile della nostra
giornata.
Quando si guarda un’illustrazione, un quadro, una scena, lo schema dei movimenti
esplorativi dello sguardo è soggettivo. Pur avendo una sua coerenza non esiste un
ordine preferenziale in base al quale vengono esplorate le diverse parti.
Di fronte all’osservazione di un quadro diversi soggetti si sono mostrati attratti
soprattutto dalle soluzioni di continuità compresi i bordi del quadro.
Ciò è in accordo col fatto che contorni e margini costituiscono potenti stimoli in
quanto il contorno definisce la forma di un oggetto e costituisce un elemento di
informazione chiave.
Abbiamo detto che la durata della fissazione è in rapporto all’interesse che il soggetto
prova per ciò che sta guardando, ma anche la mobilità oculare ne risulterà aumentata:
per esempio, guardando una serie di foto di belle ragazze, un gruppo di giovani ha
eseguito un numero doppio di movimenti oculari rispetto a quelli eseguiti guardando
un paesaggio.
Quando il soggetto è molto interessato i suoi occhi non solo si muovono più
frequentemente, ma compiono anche un maggior numero di spostamenti correttivi
dello sguardo allo scopo di portare l’immagine dell’oggetto al centro della fovea e di
raccogliere quante più informazioni è possibile.
Gli occhi inoltre ammiccano meno, sono più spalancati e le pupille si dilatano
maggiormente.
LA RETINA: FOTORECETTORI, LORO AZIONE E FUNZIONE
Nel processo di elaborazione dello stimolo luminoso vengono valutati: la finezza del
dettaglio, la netta delimitazione dei contorni, la dimensione dell’oggetto, il colore
ecc. Abbiamo visto che i raggi luminosi rifratti e convogliati sulla retina danno
origine all’immagine reale capovolta e rimpicciolita, ovviamente sotto forma di
codice. Per trasmettere tale immagine alla corteccia è necessario un processo di
“trasduzione” del segnale e precisamente: la radiazione elettromagnetica innesca un
processo chimico che, a sua volta, genera un potenziale elettrico, ovvero l’impulso
nervoso. Questo impulso, attraverso il nervo ottico e le vie ottiche, raggiunge la
corteccia visiva.
Nella retina, come abbiamo visto, dall’ora serrata ad andare indietro vi sono due tipi
di fotorecettori, entrambi lunghi e sottili, ma alcuni terminano con un tratto cilindrico
(i bastoncelli), mentre gli altri terminano con una formazione conica (i coni).

E’ proprio questa loro estremità, situata nella parte opposta rispetto alle lenti
dell’occhio, che capta la luce che giunge alla retina.
Questo segmento esterno, in entrambi i tipi di recettori, è costituito da centinaia di
dischi che contengono il pigmento visivo fotosensibile, detto porpora retinica.
La luce, oltre a causare un cambiamento morfologico nei coni (accorciamento) e nei
bastoncelli (accorciamento e ispessimento), porta a una modificazione chimica della
suddetta porpora causandone la scissione e lo sbiancamento e poi la successiva
rigenerazione.
Il processo è simile in entrambi i fotorecettori in quanto il composto fotosensibile e
costituito da una proteina detta opsina e da retinene (che è un’aldeide della vitamina
A). Ma il pigmento dei bastoncelli si chiama rodopsina in cui l’opsina che si unisce
al retinene prende il nome di scotopsina, mentre quello dei coni si chiama iodopsina
in cui l’opsina che si unisce al retinene si chiama fotopsina.

BASTONCELLI: pigmento = RODOPSINA (formata da scotopsina+retinene)

CONI: pigmento = IODOPSINA (formata da fotopsina + retinene)


Come abbiamo accennato, la luce determina lo sbiancamento del pigmento
fotosensibile scindendo il legame tra l’opsina (scotopsina nei bastoncelli e fotopsina
nei coni) e il retinene.
Successivamente parte della rodopsina o della iodopsina si rigenera direttamente,
mentre parte del retinene viene ridotto a vitamina A che a sua volta reagisce con la
scotopsina (dei bastoncelli) o la fotopsina (dei coni) formando nuovo pigmento
(rodopsina o iodopsina).
Trattando dell’anatomia dell’occhio, abbiamo già detto che i coni e i bastoncelli
hanno una diversa funzione: i primi sono specializzati per la visione all’intensa luce
del giorno, ove gli oggetti sono illuminati e visibili in ogni dettaglio, comprese le loro
sfumature di colore,(in questo caso l’acuità visiva è al massimo).
I secondi, ovvero i bastoncelli, sono deputati alla visione crepuscolare e notturna ove
la soglia di luminosità è al valore più basso e in questo caso i colori non sono più
visibili, ma tutte le cose ci appaiono in diverse tonalità di grigio, cioè tutto il mondo è
un insieme di immagini in bianco e nero.
La visione diurna o in piena illuminazione viene detta fotopica (infatti l’opsina dei
coni che entra nella costituzione del pigmento fotosensibile è la fotopsina).
La visione notturna o a bassa illuminazione viene invece detta scotopica (infatti
l’opsina dei bastoncelli che entra nella costituzione del pigmento fotosensibile è la
scotopsina).
Ricordiamo di nuovo la diversa distribuzione delle cellule fotosensibili sulla retina, in
rapporto alla diversa funzione che devono svolgere: al polo posteriore, dove c’è la
fovea, vi sono solo coni, pertanto questo è il punto della visione distinta dove
facciamo convergere le immagini quando fissiamo attentamente, da cui i movimenti
oculari continui per osservare una scena o un oggetto in modo che le sue parti siano
via via messe a fuoco su quel punto di massima acuità visiva.
A mano a mano che ci si sposta verso la periferia della retina i bastoncelli aumentano,
ma i coni diminuiscono e non sono più in numero sufficiente per garantire una
visione netta e precisa, per cui la periferia serve come sistema di avvertimento e di
allarme. Infatti, quando vediamo qualcosa in quest’area di avvertimento, subito
spostiamo i globi oculari in modo che l’immagine cada sulla fovea e ci consenta di
distinguere di cosa si tratti.
Quando l’ambiente è scarsamente illuminato, però, non serve fissare in modo che i
raggi cadano sulla fovea, per vedere un oggetto nella semioscurità bisogna volgere lo
sguardo leggermente di lato in modo che la luce vada sulla periferia della retina dove
è concentrato il maggior numero di bastoncelli.
Questa duplice funzione dell’occhio con la visione fotopica e scotopica, viene
favorita anche dall’azione della pupilla. Quando questa è ristretta, l’occhio è adattato
per la visione dei dettagli, favorisce il convergere dei raggi sulla fovea, ma richiede
una notevole illuminazione; quando invece è dilatata, consente l’entrata e la massima
utilizzazione della luce in condizioni di bassa intensità di illuminazione.
Caratteristiche Bastoncelli Coni

Forma Cilindrica ed allungata Cono o piramide tronca

Acromatica (bianco e nero);


visione scotopica o crepuscolare Tricromatica (a colori; visione
Tipi di visione (luce soffusa) fotopica o diurna (luce intensa)

Sensibilità alla luce Alta Bassa

Scarsa acuità (povera


Acuità visiva risoluzione) Alta acuità (buona risoluzione)

Fovea (centro geometrico della


Area di maggiore retina che corrisponde alla sede
concentrazione Periferia della retina della visione più fine)

Quantità 120 milioni per retina 6 milioni per retina

Rodopsina (picco di 3 fotopigmenti con picchi di


Pigmenti visivi assorbimento a 495 nm) assorbimento a 420, 530 e 560 nm

Ora sappiamo che la retina può diventare sensibile anche nell’oscurità, può cioè
utilizzare al massimo la debole luce riflessa dagli oggetti; ma prima che gli occhi
possano riuscire a vedere qualcosa devono avere il tempo di adattarsi al buio e questo
processo è alquanto complicato.
Quando un soggetto passa da un ambiente ben illuminato ad uno oscuro, in un primo
tempo non vede niente poi, dopo pochi minuti la visione migliora ed egli comincia a
distinguere i contorni degli oggetti. Ciò è dovuto a un forte aumento della sensibilità
della parte periferica della retina. Ci vogliono circa 20-25 minuti per adattarsi
completamente al buio, infatti durante questo passaggio si verificano alcuni
fenomeni: dilatazione pupillare, rigenerazione della rodopsina, trasporto di
informazioni da molti bastoncelli a una sola cellula gangliare (catena mista).
L’intensità minima di luce che può essere percepita da una retina completamente
adattata all’oscurità è di 1:10.000.000.000 dell’intensità massima percepita in pieno
giorno.
Per l’occhio adattato all’oscurità la parte dello spettro che risulta più luminosa è
quella corrispondente al verde; alla luce la parte che risulta più luminosa è quella
corrispondente al giallo.

Normalmente il passaggio dalla visione diurna a quella notturna si verifica


lentamente, a mano a mano che la luce diminuisce.
Ci sono periodi e livelli di illuminazione, poco prima che il cambiamento sia
completo, durante i quali bastoncelli e coni funzionano contemporaneamente, ma né
gli uni né gli altri in modo efficiente. In questa fase le immagini non sono chiare né
quando si guarda direttamente un oggetto (utilizzando i coni), né quando si usa la
vista periferica (utilizzando i bastoncelli).
Per questo motivo il crepuscolo è proprio il momento più difficile per guidare.
Un occhio che è stato esposto ad una luce intensa e prolungata si adatta all’oscurità
con molto ritardo rispetto ad un occhio che non è stato così stimolato; ciò indica
come la luce abbia una grande influenza sull’adattamento all’oscurità.
Anche la carenza di vitamina A causa grande difficoltà o addirittura perdita della
visione notturna.
Un occhio adattato all’oscurità perde tale adattamento se viene colpito, sia pure per
un breve istante, da una luce viva.
Quando da un ambiente scuro o scarsamente illuminato si passa a una luce intensa,
si ha una sgradevole sensazione di abbagliamento che può essere dolorosa e fa
socchiudere gli occhi; si verificano così una serie di modificazioni opposte a quelle
che avvengono per l’adattamento all’oscurità e in poco tempo l’occhio si adatta alla
luce. Tale processo è molto più breve del precedente (circa 5-10 minuti).
Questa duplice funzione della retina, con strutture diverse specializzate come i coni e
i bastoncelli, dispone anche di vie nervose separate; infatti quando abbiamo descritto
la retina abbiamo parlato di catene private, quelle cioè che riguardano i coni e di
catene miste, cioè quelle dei bastoncelli.
Il motivo di ciò sta nel fatto che, mentre la visione diurna è dovuta alla stimolazione
dei coni, soprattutto nella fovea, con impulsi diretti e precisi che seguono il percorso
da un singolo cono attraverso una singola cellula bipolare e una singola cellula
gangliare, la visione notturna si serve in prevalenza di catene convergenti necessarie
per la sommazione di impulsi minimali di molti recettori.
Un’ultima informazione sulla straordinaria capacità discriminante dei coni in
presenza di una buona illuminazione riguarda la percezione del colore. Abbiamo
detto che i coni ci consentono la visione dei colori e ciò è possibile in quanto esistono
tre tipi di coni dotati di differente sensibilità a differenti lunghezze d’onda nello
spettro del visibile: 420, 530 e 560 nm, che corrispondono rispettivamente al blu, al
verde e al rosso. In base alla composizione spettrale delle radiazioni emesse
dall’oggetto osservato, i tre tipi di coni sono attivati in varie combinazioni
percentuali, cioè ciascuno risponde bene alla lunghezza d’onda cui è preposto, ma
continua a rispondere, benché meno bene, alle altre. Così qualsiasi colore osservato
ecciterà i recettori del rosso, del verde o del blu in rapporti diversi e i centri corticali
superiori interpreteranno ciascun rapporto come un colore diverso. Da questa
iterazione e dall’elaborazione finale a livello cerebrale, risulta la capacità di
distinguere i vari colori. In pratica sebbene distinguiamo migliaia di colori, abbiamo
nell’occhio solo tre classi di fotorecettori per il colore: coni per la luce rossa, coni per
la luce blu, coni per la luce verde. Lo stimolo contemporaneo e massimo dei coni ci
dà la percezione del bianco.
Sul principio dell’uso dei tre colori è basata sia la stampa a colori che la televisione a
colori.
L’ACUITA’ VISIVA
Abbiamo capito come i coni, lavorando in piena luce, ci fanno vedere i colori e,
quando le immagini sono a fuoco sulla fovea, ci consentono di individuarne ogni
particolare. E’ sulla fovea, infatti, che abbiamo il massimo di acuità visiva.
Si definisce acuità visiva il grado di esattezza con cui si percepiscono i dettagli degli
oggetti, è una caratteristica della visione diurna strettamente legata a una buona
illuminazione.
Può essere misurata in due modi:
Il minimo visibile: valutato in base allo spessore della linea più sottile percepibile su
un fondo omogeneo.
Il minimo separabile: cioè la distanza minima che deve separare due linee parallele
perché possano essere chiaramente distinte.
L’acuità visiva viene influenzata da vari fattori il più importante dei quali è
l’illuminazione, ma non quando l’illuminazione è eccessiva perché produce
abbagliamento. La visibilità di un oggetto, inoltre, aumenta quanto più forte è il
contrasto tra la brillanza di esso e quella del fondo.
Un oggetto risulta più luminoso su un fondo scuro e un colore acquista una tonalità
più intensa se è circondato dal suo complementare; ciò va messo in rapporto con
l’esistenza di connessioni crociate fra i recettori.
L’effetto di potenziamento della sensazione luminosa cromatica operato dal
contrasto, rientra nel quadro generale dell’importanza dei contorni per la percezione
visiva. Si sa, infatti, che sono soprattutto i contorni a essere segnalati con particolare
evidenza al cervello mentre, per le zone che presentano un’illuminazione uniforme, le
informazioni sono molto più generiche e affievolite fino a mancare del tutto.
Altri fattori che influenzano l’acuità visiva sono le aberrazioni sferica e cromatica e i
vizi di rifrazione; il restringimento della pupilla attenua questi difetti e aumenta
l’acuità visiva poiché esclude i raggi marginali, ma non risolve il problema.
Vi sono infine fattori retinici, infatti nell’occhio adattato alla luce l’acuità visiva è
massima in corrispondenza della fovea, diventa la metà già al margine della macula e
scende a 1/40 del valore foveale nelle altre parti della retina.
LE SOGLIE
La luce rappresenta lo stimolo specifico per i recettori visivi e di questa ne basta una
quantità infinitesimale per produrre una sensazione.
E’ necessario chiarire che l’intensità dello stimolo va distinta dall’intensità della
sensazione visiva che ne deriva, anche se queste due intensità sono occasionalmente
correlate (correlazione che può essere alterata dall’intervento di processi fotochimici
e nervosi).
Quando uno stimolo è troppo debole o troppo forte non viene percepito: questo
fenomeno si chiama soglia dello stimolo.
Si distinguono tre principali funzioni in rapporto all’intensità sello stimolo:
La soglia assoluta: cioè la minima intensità visibile, ovvero il valore minimo per cui
ad uno stimolo corrisponde una reazione.
La soglia differenziale: cioè la minima differenza discriminabile fra due intensità o
meglio la variazione minima che deve subire l’intensità di uno
stimolo perché questa variazione venga percepita.
La frequenza minima di lampeggiamento: cioè la frequenza minima che uno stimo
lo luminoso intermittente deve raggiungere per provocare una
sensazione continua.
Weber sosteneva che la relazione tra l’intensità dello stimolo e l’intensità della
sensazione non è lineare: cioè ad una variazione dello stimolo non corrisponde una
variazione equivalente delle sensazioni del percepiente. Ad esempio se in una stanza
buia accendiamo una lampadina da 10W, l’ambiente si illumina. Se ne accendiamo
un’altra da 10W ci sarà un aumento di luminosità ma non un raddoppio. Dopo la
decima lampadina non vi sarà nessun cambiamento.
Egli scrisse una legge che riguarda le differenze di intensità percepibile e creò una
formula per misurarle. La legge dice:
La sensibilità dei sistemi sensoriali alle differenze di intensità dipende dall’intensità
iniziale degli stimoli stessi.
Un esempio per capire: se il peso di 1 Kg è ben riconoscibile da 2Kg, 100 Kg saranno
poco riconoscibili da 101Kg, nonostante la differenza sia sempre di 1Kg.
La formula della costante di Weber ha un valore specifico per ogni modalità
sensoriale e indica di quanto un oggetto debba cambiare la sua modalità sensoriale
(peso, luminosità ecc.) perché questa variazione possa essere percepita.
LE IMMAGINI POSTUME
Se un organo sensoriale viene stimolato, la sensazione in esso prodotta non scompare
appena lo stimolo è cessato, ma può durare per un certo tempo.
Ciò avviene in special modo nell’organo della vista e le immagini che persistono a
fine stimolazione vengono definite immagini postume.
L’origine delle immagini postume risiede nel fatto che i recettori, in seguito allo
stimolo luminoso, andando incontro alle modificazioni morfologiche e chimiche
prima descritte, hanno bisogno di un periodo di riposo per tornare allo stato iniziale.
Perché un’immagine persista per un certo tempo sulla retina è necessario il concorso
di vari fattori di cui tre sono i principali
1) intensità degli stimoli luminosi: più intenso è uno stimolo, più i recettori si
affaticano.
2) intervallo tra uno stimolo e l’altro: se non vi è intervallo abbastanza lungo
tra uno stimolo e l’altro non si avrà immagina postuma in quanto uno stimolo
si accavalla all’altro.
3) la durata di uno stimolo: più lo stimolo dura più l’immagine postuma sarà
persistente.
Le immagini postume possono essere positive o negative.
Si definisce positiva l’immagine postuma in cui si conservano i caratteri
dell’immagine che l’ha generata: se fissiamo una lampadina accesa per un certo
tempo, quando successivamente fissiamo un campo neutro, vedremo persistere
l’immagina della lampadina.
Si chiama negativa quell’immagine postuma nella quale le parti chiare appaiono
scure e le parti scure appaiono chiare (come se si guardasse un negativo fotografico).
Quando lo stimolo dura più a lungo, l’immagine persistente della lampadina passa da
positiva a negativa, cioè vedremo la lampadina nera e il fondo bianco.
La spiegazione del fenomeno delle immagini postume positive le attribuisce a una
persistenza insolita dell’eccitamento retinico per sovra stimolazione dei coni e dei
neuroni.
La spiegazione di quelle negative le attribuirebbe ad un fenomeno di stanchezza della
zona retinica eccitata, per cui la parte in riposo della retina (a cui si sarebbe propagato
l’eccitamento) apparirebbe eccitata nei confronti di quella stanca.
Secondo questo ragionamento se si guarda, per esempio un’area bianca, le cellule che
reagiscono alla luce bianca diventano meno sensibili dando, perciò, l’impressione di
un’area scura quando lo sguardo si sposta su un campo uniforme.
Con i colori, invece, succede un fenomeno simile ma se fissiamo a lungo un
determinato colore, poi volgiamo lo sguardo da un’altra parte, per esempio su una
parete bianca, vedremo il suo colore complementare. Infatti se fissiamo una forma
rossa per un minuto o due e poi guardiamo un fondo bianco, vedremo il verde, suo
complementare. Per questo motivo il camice dei chirurghi e tutto il campo operatorio
è di colore verde, per annullare l’immagine postuma derivata dalla ferita del paziente.
Fissate la parte centrale del filamento della lampadina per 20 secondi poi passate lo
sguardo sullo spazio bianco accanto. Vedrete la lampadina accesa.