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Contenuti
— 9. La consolazione
— 12. La vigilanza
Nel Vangelo, Gesù parla del discernimento con immagini tratte dalla vita ordinaria;
ad esempio, descrive i pescatori che selezionano i pesci buoni e scartano quelli
cattivi; o il mercante che sa individuare, tra tante perle, quella di maggior valore.
O colui che, arando un campo, si imbatte in qualcosa che si rivela essere un tesoro
(cfr Mt 13,44-48).
Il discernimento – come dicevo – comporta una fatica. Secondo la Bibbia, noi non
ci troviamo davanti, già impacchettata, la vita che dobbiamo vivere: no!
Dobbiamo deciderla continuamente, secondo le realtà che vengono. Dio ci invita a
valutare e a scegliere: ci ha creato liberi e vuole che esercitiamo la nostra libertà.
Per questo, discernere è impegnativo.
Abbiamo fatto spesso questa esperienza: scegliere qualcosa che ci sembrava bene
e invece non lo era. Oppure sapere quale fosse il nostro vero bene e non
sceglierlo. L’uomo, a differenza degli animali, può sbagliarsi, può non voler
scegliere in maniera corretta e la Bibbia lo mostra fin dalle sue prime pagine. Dio
dà all’uomo una precisa istruzione: se vuoi vivere, se vuoi gustare la vita, ricordati
che sei creatura, che non sei tu il criterio del bene e del male e che le scelte che
farai avranno una conseguenza, per te, per altri e per il mondo (cfr Gen 2,16-17);
puoi rendere la terra un giardino magnifico o puoi farne un deserto di morte. Un
insegnamento fondamentale: non a caso è il primo dialogo tra Dio e l’uomo. Il
dialogo è: il Signore dà la missione, tu devi fare questo e questo; e l’uomo ogni
passo che fa deve discernere quale decisione prendere. Il discernimento è quella
riflessione della mente, del cuore che noi dobbiamo fare prima di prendere una
decisione.
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2. Un esempio: Ignazio di Loyola
Uno degli esempi più istruttivi ce lo offre Sant’Ignazio di Loyola, con un episodio
decisivo della sua vita. Ignazio si trova a casa convalescente, dopo essere stato
ferito in battaglia a una gamba. Per scacciare la noia chiede qualcosa da leggere.
Lui amava i racconti cavallereschi, ma purtroppo in casa si trovano solo vite di
santi. Un po’ a malincuore si adatta, ma nel corso della lettura comincia a scoprire
un altro mondo, un mondo che lo conquista e sembra in concorrenza con quello
dei cavalieri. Resta affascinato dalle figure di San Francesco e San Domenico e
sente il desiderio di imitarli. Ma anche il mondo cavalleresco continua a
esercitare il suo fascino su di lui. E così avverte dentro di sé questa alternanza di
pensieri, quelli cavallereschi e quelli dei santi, che sembrano equivalersi.
Ignazio però comincia anche a notare delle differenze. Nella sua Autobiografia –
in terza persona– scrive così: «Pensando alle cose del mondo - e alle cose
cavalleresche, si capisce - provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le
abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi
nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute
abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si
soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno
di gioia» (n. 8); gli lasciavano una traccia di gioia.
Ecco allora l’altro aspetto: il punto di arrivo dei pensieri. All’inizio la situazione
non sembra così chiara. C’è uno sviluppo del discernimento: per esempio capiamo
cosa sia il bene per noi non in modo astratto, generale, ma nel percorso della
nostra vita. Nelle regole per il discernimento, frutto di questa esperienza
fondamentale, Ignazio pone una premessa importante, che aiuta a comprendere
tale processo: «A coloro che passano da un peccato mortale all’altro, il demonio
comunemente è solito proporre piaceri apparenti, tranquillizzarli che tutto va
bene, facendo loro immaginare diletti e piaceri sensuali, per meglio mantenerli e
farli crescere nei loro vizi e peccati. Con questi, lo spirito buono usa il metodo
opposto, stimolando al rimorso la loro coscienza con il giudizio della ragione»
(Esercizi Spirituali, 314); Ma questo non va bene.
C’è una storia che precede chi discerne, una storia che è indispensabile conoscere,
perché il discernimento non è una sorta di oracolo o di fatalismo o una cosa di
laboratorio, come gettare la sorte su due possibilità. Le grandi domande sorgono
quando nella vita abbiamo già fatto un tratto di strada, ed è a quel percorso che
dobbiamo tornare per capire cosa stiamo cercando. Se nella vita si fa un po’ di
strada, lì: “Ma perché cammino in questa direzione, che sto cercando?”, e lì si fa il
discernimento. Ignazio, quando si trovava ferito nella casa paterna, non pensava
affatto a Dio o a come riformare la propria vita, no. Egli fa la sua prima
esperienza di Dio ascoltando il proprio cuore, che gli mostra un ribaltamento
curioso: le cose a prima vista attraenti lo lasciano deluso e in altre, meno brillanti,
avverte una pace che dura nel tempo. Anche noi abbiamo questa esperienza, tante
volte cominciamo a pensare una cosa e restiamo lì e poi siamo rimasti delusi.
Invece facciamo un’opera di carità, facciamo una cosa buona e sentiamo qualcosa
di felicità, ti viene un pensiero buono e ti viene la felicità, una cosa di gioia, è
un’esperienza tutta nostra. Lui, Ignazio, fa la prima esperienza di Dio, ascoltando
il proprio cuore che gli mostra un ribaltamento curioso. È questo che noi
dobbiamo imparare: ascoltare il proprio cuore: per conoscere cosa succede, quale
decisione prendere, fare un giudizio su una situazione, occorre ascoltare il
proprio cuore. Noi ascoltiamo la televisione, la radio, il telefonino, siamo maestri
dell’ascolto, ma ti domando: tu sai ascoltare il tuo cuore? Tu ti fermi per dire: “Ma
il mio cuore come sta? È soddisfatto, è triste, cerca qualcosa?” . Per prendere delle
decisioni belle occorre ascoltare il proprio cuore.
Per questo Ignazio suggerirà di leggere le vite dei santi, perché mostrano in modo
narrativo e comprensibile lo stile di Dio nella vita di persone non molto diverse da
noi perché i santi erano di carne ed ossa come noi. Le loro azioni parlano alle
nostre e ci aiutano a comprenderne il significato.
In quel famoso episodio dei due sentimenti che aveva Ignazio, uno quando
leggeva le cose dei cavalieri e l’altro quando leggeva la vita dei santi, possiamo
riconoscere un altro aspetto importante del discernimento, che abbiamo già
menzionato la volta scorsa. C’è un’apparente casualità negli accadimenti della
vita: tutto sembra nascere da un banale contrattempo: non c’erano libri di
cavalieri, ma solo vite di santi. Un contrattempo che però racchiude una possibile
svolta. Solo dopo un po’ di tempo Ignazio se ne accorgerà, e a quel punto vi
dedicherà tutta la sua attenzione. Ascoltate bene: Dio lavora attraverso eventi non
programmabili quel per caso, ma per caso mi è successo questo, per caso ho
incontrato questa persona, per caso ho visto questo film, non era programmato
ma Dio lavora attraverso eventi non programmabili, e anche nei contrattempi:
“Ma io dovevo fare una passeggiata e ho avuto un problema ai piedi, non posso…”.
Contrattempo: cosa ti dice Dio? Cosa ti dice la vita lì? Lo abbiamo visto anche in
un brano del Vangelo di Matteo: un uomo che sta arando un campo si imbatte
casualmente in un tesoro sotterrato. Una situazione del tutto inattesa. Ma ciò che è
importante è che lo riconosce come il colpo di fortuna della sua vita e decide di
conseguenza: vende tutto e compra quel campo (cfr 13,44). Un consiglio che vi do,
state attenti alle cose inattese. Colui che dice: “ma questo per caso io non lo
aspettavo”. Lì ti sta parlando la vita, ti sta parlando il Signore o ti sta parlando il
diavolo? Qualcuno. Ma c’è una cosa da discernere, come reagisco io di fronte alle
cose inattese. Ma io ero tanto tranquillo a casa e “pum, pum”, viene la suocera e tu
come reagisci con la suocera? E’ amore o è altra cosa dentro? E fai il
discernimento. Io stavo lavorando nell’ufficio bene e viene un compagno a dirmi
che ha bisogno di soldi e tu come hai reagito? Vedere cosa succede quando
viviamo cose che non aspettiamo e lì impariamo a conoscere il nostro cuore come
si muove.
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3. Gli elementi del discernimento. La familiarità con il
Signore
È significativo che il primo miracolo compiuto da Gesù nel Vangelo di Marco sia
un esorcismo (cfr 1,21-28). Nella sinagoga di Cafarnao libera un uomo dal
demonio, liberandolo dalla falsa immagine di Dio che Satana suggerisce fin dalle
origini: quella di un Dio che non vuole la nostra felicità. L’indemoniato, di quel
brano di Vangelo, sa che Gesù è Dio, ma questo non lo porta a credere in Lui. Dice
infatti: «Sei venuto a rovinarci» (v. 24).
Molti, anche cristiani, pensano la medesima cosa: che cioè Gesù possa anche
essere il Figlio di Dio, ma dubitano che voglia la nostra felicità; anzi, alcuni
temono che prendere sul serio la sua proposta, quello che Gesù ci propone,
significhi rovinarsi la vita, mortificare i nostri desideri, le nostre aspirazioni più
forti. Questi pensieri fanno talvolta capolino dentro di noi: che Dio ci chieda
troppo, abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, che non ci voglia davvero bene.
Invece, nel nostro primo incontro abbiamo visto che il segno dell’incontro con il
Signore è la gioia. Quando incontro il Signore nella preghiera, divento gioioso.
Ognuno di noi diventa gioioso, una cosa bella. La tristezza, o la paura, sono invece
segni di lontananza da Dio: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti»,
dice Gesù al giovane ricco (Mt 19,17). Purtroppo per quel giovane, alcuni ostacoli
non gli hanno consentito di attuare il desiderio che aveva nel cuore, di seguire più
da vicino il “maestro buono”. Era un giovane interessato, intraprendente, aveva
preso l’iniziativa di incontrare Gesù, ma era anche molto diviso negli affetti, per
lui le ricchezze erano troppo importanti. Gesù non lo costringe a decidersi, ma il
testo nota che il giovane si allontana da Gesù «triste» (v. 22). Chi si allontana dal
Signore non è mai contento, pur avendo a propria disposizione una grande
abbondanza di beni e possibilità. Gesù mai costringe a seguirlo, mai. Gesù ti fa
sapere la sua volontà, con tanto cuore ti fa sapere le cose ma ti lascia libero. E
questa è la cosa più bella della preghiera con Gesù: la libertà che Lui ci lascia.
Invece quando noi ci allontaniamo dal Signore rimaniamo con qualcosa di triste,
qualcosa di brutto nel cuore.
Chiediamo questa grazia: di vivere una relazione di amicizia con il Signore, come
un amico parla all’amico (cfr S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 53). Io ho
conosciuto un vecchio fratello religioso che era il portiere di un collegio e lui ogni
volta che poteva si avvicinava alla cappella, guardava l’altare, diceva: “Ciao”,
perché aveva vicinanza con Gesù. Lui non aveva bisogno di dire bla bla bla, no:
“ciao, ti sono vicino e tu mi sei vicino”. Questo è il rapporto che dobbiamo avere
nella preghiera: vicinanza, vicinanza affettiva, come fratelli, vicinanza con Gesù.
Un sorriso, un semplice gesto e non recitare parole che non arrivano al cuore.
Come dicevo, parlare con Gesù come un amico parla all’altro amico. È una grazia
che dobbiamo chiedere gli uni per gli altri: vedere Gesù come il nostro amico, il
nostro amico più grande, il nostro amico fedele, che non ricatta, soprattutto che
non ci abbandona mai, anche quando noi ci allontaniamo da Lui. Lui rimane alla
porta del cuore. “No, io con te non voglio sapere nulla”, diciamo noi. E Lui rimane
zitto, rimane lì a portata di mano, a portata di cuore perché Lui sempre è fedele.
Andiamo avanti con questa preghiera, diciamo la preghiera del “ciao”, la
preghiera di salutare il Signore con il cuore, la preghiera dell’affetto, la preghiera
della vicinanza, con poche parole ma con gesti e con opere buone. Grazie.
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4. Gli elementi del discernimento. Conoscere sé stessi
Alla base di dubbi spirituali e crisi vocazionali si trova non di rado un dialogo
insufficiente tra la vita religiosa e la nostra dimensione umana, cognitiva e
affettiva. Un autore di spiritualità notava come molte difficoltà sul tema del
discernimento rimandano a problemi di altro genere, che vanno riconosciuti ed
esplorati. Così scrive questo autore: «Sono giunto alla convinzione che l’ostacolo
più grande al vero discernimento (e ad una vera crescita nella preghiera) non è la
natura intangibile di Dio, ma il fatto che non conosciamo sufficientemente noi
stessi, e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente. Quasi
tutti noi ci nascondiamo dietro a una maschera, non solo di fronte agli altri, ma
anche quando ci guardiamo allo specchio» (Th. Green, Il grano e la zizzania, Roma,
1992, 25). Tutti abbiamo la tentazione di essere mascherati anche davanti a noi
stessi.
La dimenticanza della presenza di Dio nella nostra vita va di pari passo con
l’ignoranza su noi stessi – ignorare Dio e ignorare noi -, ignoranza sulle
caratteristiche della nostra personalità e sui nostri desideri più profondi.
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5. Gli elementi del discernimento. Il desiderio
Molte persone soffrono perché non sanno che cosa vogliono dalla propria vita;
probabilmente non hanno mai preso contatto con il loro desiderio profondo, mai
hanno saputo: “Cosa vuoi dalla tua vita?” – “Non so”. Da qui il rischio di
trascorrere l’esistenza tra tentativi ed espedienti di vario tipo, senza mai arrivare
da nessuna parte, e sciupando opportunità preziose. E così alcuni cambiamenti,
pur voluti in teoria, quando si presenta l’occasione non vengono mai attuati,
manca il desiderio forte di portare avanti una cosa.
Se il Signore rivolgesse a noi, oggi, per esempio, a uno qualsiasi di noi, la domanda
che ha fatto al cieco di Gerico: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51) –
pensiamo il Signore a ognuno di noi oggi domanda questo: “che cosa vuoi che io
faccia per te?” -, cosa risponderemmo? Forse, potremmo finalmente chiedergli di
aiutarci a conoscere il desiderio profondo di Lui, che Dio stesso ha messo nel
nostro cuore: “Signore che io conosca i miei desideri, che io sia una donna, un
uomo di grandi desideri” forse il Signore ci darà la forza di concretizzarlo. È una
grazia immensa, alla base di tutte le altre: consentire al Signore, come nel
Vangelo, di fare miracoli per noi: “Dacci il desiderio e fallo crescere, Signore”.
Perché anche Lui ha un grande desiderio nei nostri confronti: renderci partecipi
della sua pienezza di vita. Grazie.
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6. Gli elementi del discernimento. Il libro della propria vita
Nelle catechesi di queste settimane stiamo insistendo sui presupposti per fare un
buon discernimento. Nella vita dobbiamo prendere delle decisioni, sempre, e per
prendere le decisioni dobbiamo fare un cammino, una strada di discernimento.
Ogni attività importante ha le sue “istruzioni” da seguire, che vanno conosciute
perché possano produrre gli effetti necessari. Oggi ci soffermiamo su un altro
ingrediente indispensabile per il discernimento: la propria storia di vita.
Conoscere la propria storia di vita è un ingrediente – diciamo così – indispensabile
per il discernimento.
La nostra vita è il “libro” più prezioso che ci è stato consegnato, un libro che tanti
purtroppo non leggono, oppure lo fanno troppo tardi, prima di morire. Eppure,
proprio in quel libro si trova quello che si cerca inutilmente per altre vie.
Sant’Agostino, un grande cercatore della verità, lo aveva compreso proprio
rileggendo la sua vita, notando in essa i passi silenziosi e discreti, ma incisivi, della
presenza del Signore. Al termine di questo percorso noterà con stupore: «Tu eri
dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle
tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te» (Confessioni X, 27.38). Da qui il
suo invito a coltivare la vita interiore per trovare ciò che si cerca: «Rientra in te
stesso. Nell’uomo interiore abita la verità» (La vera religione, XXXIX, 72). Questo è
un invito che io farei a tutti voi, anche lo faccio a me stesso: “Rientra in te stesso.
Leggi la tua vita. Leggiti dentro, come è stato il tuo percorso. Con serenità. Rientra
in te stesso”.
Il racconto delle vicende della nostra vita consente anche di cogliere sfumature e
dettagli importanti, che possono rivelarsi aiuti preziosi fino a quel momento
rimasti nascosti. Per esempio, una lettura, un servizio, un incontro, a prima vista
ritenuti cose di poca importanza, nel tempo successivo trasmettono una pace
interiore, trasmettono la gioia di vivere e suggeriscono ulteriori iniziative di bene.
Fermarsi e riconoscere questo è indispensabile. Fermarsi è riconoscere: è
importante per il discernimento, è un lavoro di raccolta di quelle perle preziose e
nascoste che il Signore ha disseminato nel nostro terreno.
Anche le vite dei santi costituiscono un aiuto prezioso per riconoscere lo stile di
Dio nella propria vita: consentono di prendere familiarità con il suo modo di
agire. Alcuni comportamenti dei santi ci interpellano, ci mostrano nuovi
significati e nuove opportunità. È quanto accadde, per esempio, a Sant’Ignazio di
Loyola. Quando descrive la scoperta fondamentale della sua vita, aggiunge una
precisazione importante, e dice così: «Dall’esperienza aveva dedotto che alcuni
pensieri lo lasciavano triste, altri allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la
diversità dei pensieri, la diversità degli spiriti che si agitavano in lui» (Autob., n.
8). Conoscere cosa succede dentro di noi, conoscere, stare attenti.
Il discernimento è la lettura narrativa dei momenti belli e dei momenti bui, delle
consolazioni e delle desolazioni che sperimentiamo nel corso della nostra vita. Nel
discernimento è il cuore a parlarci di Dio, e noi dobbiamo imparare a
comprendere il suo linguaggio. Chiediamoci, alla fine della giornata, per esempio:
cosa è successo oggi nel mio cuore? Alcuni pensano che fare questo esame di
coscienza è fare la contabilità dei peccati che hai fatto - ne facciamo tanti -, ma è
anche chiedersi “Cosa è successo dentro di me, ho avuto gioia? Cosa mi ha portato
la gioia? Sono rimasto triste? Cosa mi ha portato la tristezza? E così imparare a
discernere cosa succede dentro di noi.
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7. La materia del discernimento. La desolazione
Nessuno vorrebbe essere desolato, triste: questo è vero. Tutti vorremmo una vita
sempre gioiosa, allegra e appagata. Eppure questo, oltre a non essere possibile –
perché non è possibile –, non sarebbe neppure un bene per noi. Infatti, il
cambiamento di una vita orientata al vizio può iniziare da una situazione di
tristezza, di rimorso per ciò che si è fatto. È molto bella l’etimologia di questa
parola, “rimorso”: il rimorso della coscienza, tutti conosciamo questo. Rimorso:
letteralmente è la coscienza che morde, che non dà pace. Alessandro Manzoni, nei
Promessi sposi, ci ha dato una splendida descrizione del rimorso come occasione
per cambiare vita. Si tratta del celebre dialogo tra il cardinale Federico Borromeo
e l’Innominato, il quale, dopo una notte terribile, si presenta distrutto dal
cardinale, che si rivolge a lui con parole sorprendenti: «“Voi avete una buona
nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?”. “Una buona nuova, io?” – disse
l’altro. “Ho l’inferno nel cuore […]. Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona
nuova”. “Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo”, rispose pacatamente il
cardinale» (cap. XXIII). Dio tocca il cuore e ti viene qualcosa dentro, la tristezza, il
rimorso per qualche cosa, ed è un invito a iniziare una strada. L’uomo di Dio sa
notare in profondità ciò che si muove nel cuore.
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8. Perché siamo desolati?
Riprendiamo oggi le catechesi sul tema del discernimento. Abbiamo visto come sia
importante leggere ciò che si muove dentro di noi, per non prendere decisioni
affrettate, sull’onda dell’emozione del momento, salvo poi pentircene quando
ormai è troppo tardi. Cioè leggere cosa succede e poi prendere le decisioni.
In questo senso, anche lo stato spirituale che chiamiamo desolazione, quando nel
cuore è tutto buio, è triste, questo stato della desolazione può essere occasione di
crescita. Infatti, se non c’è un po’ di insoddisfazione, un po' di tristezza salutare,
una sana capacità di abitare nella solitudine e di stare con noi stessi senza fuggire,
rischiamo di rimanere sempre alla superficie delle cose e non prendere mai
contatto con il centro della nostra esistenza. La desolazione provoca uno
“scuotimento dell’anima”: quando uno è triste è come se l’anima si scuotesse;
mantiene desti, favorisce la vigilanza e l’umiltà e ci protegge dal vento del
capriccio. Sono condizioni indispensabili per il progresso nella vita, e quindi
anche nella vita spirituale. Una serenità perfetta ma “asettica”, senza sentimenti,
quando diventa il criterio di scelte e comportamenti, ci rende disumani. Noi non
possiamo non fare caso ai sentimenti: siamo umani e il sentimento è una parte
della nostra umanità; senza capire i sentimenti saremmo disumani, senza vivere i
sentimenti saremmo anche indifferenti alla sofferenza degli altri e incapaci di
accogliere la nostra. Senza considerare che tale “perfetta serenità” non la si
raggiunge per questa via dell’indifferenza. Questa distanza asettica: “Io non mi
mischio nelle cose, io prendo le distanze”: questo non è vita, questo è come se
vivessimo in un laboratorio, chiusi, per non avere dei microbi, delle malattie. Per
molti santi e sante, l’inquietudine è stata una spinta decisiva per dare una svolta
alla propria vita. Questa serenità artificiale, non va, mentre è buona la sana
inquietudine, il cuore inquieto, il cuore che cerca di cercare strada. È il caso, ad
esempio, di Agostino di Ippona o di Edith Stein o di Giuseppe Benedetto
Cottolengo o di Charles de Foucauld. Le scelte importanti hanno un prezzo che la
vita presenta, un prezzo che è alla portata di tutti: ossia, le scelte importanti non
vengono dalla lotteria, no; hanno un prezzo e tu devi pagare quel prezzo. È un
prezzo che tu devi fare con il tuo cuore, è un prezzo della decisione, un prezzo di
portare avanti un po' di sforzo. Non è gratis, ma è un prezzo alla portata di tutti.
Noi tutti dobbiamo pagare questa decisione per uscire dallo stato di indifferenza,
che ci butta giù, sempre.
La desolazione è anche un invito alla gratuità, a non agire sempre e solo in vista di
una gratificazione emotiva. Essere desolati ci offre la possibilità di crescere, di
iniziare una relazione più matura, più bella, con il Signore e con le persone care,
una relazione che non si riduca a un mero scambio di dare e avere. Pensiamo alla
nostra infanzia, per esempio, pensiamo: da bambini, capita spesso di cercare i
genitori per ottenere da loro qualcosa, un giocattolo, i soldi per comprare un
gelato, un permesso… E così li cerchiamo non per sé stessi, ma per un interesse.
Eppure, il dono più grande sono loro, i genitori, e questo lo capiamo man mano
che cresciamo.
Anche molte nostre preghiere sono un po’ di questo tipo, sono richieste di favori
rivolte al Signore, senza un vero interesse nei suoi confronti. Andiamo a chiedere,
chiedere, chiedere al Signore. Il Vangelo nota che Gesù era spesso circondato da
tanta gente che lo cercava per ottenere qualcosa, guarigioni, aiuti materiali, ma
non semplicemente per stare con Lui. Era pressato dalle folle, eppure era solo.
Alcuni santi, e anche alcuni artisti, hanno meditato su questa condizione di Gesù.
Potrebbe sembrare strano, irreale, chiedere al Signore: “Come stai?”. E invece è
una maniera molto bella di entrare in una relazione vera, sincera, con la sua
umanità, con la sua sofferenza, anche con la sua singolare solitudine. Con Lui, con
il Signore, che ha voluto condividere fino in fondo la sua vita con noi.
Ci fa tanto bene imparare a stare con Lui, a stare con il Signore senza altro scopo,
esattamente come ci succede con le persone a cui vogliamo bene: desideriamo
conoscerle sempre più, perché è bello stare con loro.
Cari fratelli e sorelle, la vita spirituale non è una tecnica a nostra disposizione,
non è un programma di “benessere” interiore che sta a noi programmare. No. La
vita spirituale è la relazione con il Vivente, con Dio, il Vivente, irriducibile alle
nostre categorie. E la desolazione allora è la risposta più chiara all’obiezione che
l’esperienza di Dio sia una forma di suggestione, una semplice proiezione dei
nostri desideri. La desolazione è non sentire niente, tutto buio: ma tu cerchi Dio
nella desolazione. In tal caso, se pensiamo che è una proiezione dei nostri
desideri, saremmo sempre noi a programmarla, saremmo sempre felici e contenti,
come un disco che ripete la medesima musica. Invece, chi prega si rende conto
che gli esiti sono imprevedibili: esperienze e passi della Bibbia che ci hanno spesso
entusiasmato, oggi, stranamente, non suscitano alcun trasporto. E, altrettanto
inaspettatamente, esperienze, incontri e letture a cui non si era mai fatto caso o
che si preferirebbe evitare – come l’esperienza della croce – portano una pace
immensa. Non avere paura alla desolazione, portarla avanti con perseveranza,
non fuggire. E nella desolazione cercare di trovare il cuore di Cristo, trovare il
Signore. E la risposta arriva, sempre.
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9. La consolazione
Per questo si deve fare discernimento, anche quando ci si sente consolati. Perché
la falsa consolazione può diventare un pericolo, se la ricerchiamo come fine a sé
stessa, in modo ossessivo, e dimenticandoci del Signore. Come direbbe San
Bernardo, si cercano le consolazioni di Dio e non si cerca il Dio delle consolazioni.
Noi dobbiamo cercare il Signore e il Signore, con la sua presenza, ci consola, ci fa
andare avanti. E non cercare Dio che ci porta le consolazioni, con questo
sottinteso, no, questo non va, non dobbiamo essere interessati a questo. È la
dinamica del bambino di cui parlavamo la volta scorsa, che cerca i genitori solo
per avere da loro delle cose, ma non per loro stessi: va per interesse. “Papà,
mamma” E i bambini sanno fare questo, sanno giocare e quando la famiglia è
divisa, e hanno questa abitudine di cercare lì e cercare qua, questo non fa bene,
questo non è consolazione, quello è interesse. Anche noi corriamo il rischio di
vivere la relazione con Dio in modo infantile, cercando il nostro interesse,
cercando di ridurre Dio a un oggetto a nostro uso e consumo, smarrendo il dono
più bello che è Lui stesso. Così andiamo avanti nella nostra vita, che procede fra le
consolazioni di Dio e le desolazioni del peccato del mondo, ma sapendo
distinguere quando è una consolazione di Dio, che ti dà pace fino al fondo
dell’anima, da quando è un entusiasmo passeggero che non è cattivo, ma non è la
consolazione di Dio.
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10. La consolazione autentica
C’è poi il mezzo: Sant’Ignazio diceva che il principio, il mezzo e la fine devono
essere buoni. Il principio è questo: io ho voglia di pregare per non lavare i piatti:
vai, lava i piatti e poi vai a pregare. Poi c’è il mezzo, vale a dire ciò che viene dopo,
ciò che segue quel pensiero. Rimanendo nell’esempio precedente, se comincio a
pregare e, come fa il fariseo della parabola (cfr Lc 18,9-14), tendo a compiacermi
di me stesso e a disprezzare gli altri, magari con animo risentito e acido, allora
questi sono segni che lo spirito cattivo ha usato quel pensiero come chiave di
accesso per entrare nel mio cuore e trasmettermi i suoi sentimenti. Se io vado a
pregare e mi viene in mente quello del fariseo famoso – “ti ringrazio, Signore,
perché io prego, non sono come l’altra gente che non ti cerca, non prega” – lì,
quella preghiera finisce male. Quella consolazione di pregare è per sentirsi un
pavone davanti a Dio. E questo è il mezzo che non va.
E poi c’è la fine: il principio, il mezzo e la fine. La fine è un aspetto che abbiamo
già incontrato, e cioè: dove mi porta un pensiero? Per esempio, dove mi porta il
pensiero di pregare. Ad esempio, qui può capitare che mi impegni a fondo per
un’opera bella e meritevole, ma questo mi spinge a non pregare più, perché sono
indaffarato da tante cose, mi scopro sempre più aggressivo e incattivito, ritengo
che tutto dipenda da me, fino a perdere fiducia in Dio. Qui evidentemente c’è
l’azione dello spirito cattivo. Io mi metto a pregare, poi nella preghiera mi sento
onnipotente, che tutto deve essere nelle mie mani perché io sono l’unico, l’unica
che sa portare avanti le cose: evidentemente non c’è il buono spirito lì. Occorre
esaminare bene il percorso dei nostri sentimenti e il percorso dei buoni
sentimenti, della consolazione, nel momento in cui io voglio fare qualcosa. Come è
il principio, come è la metà e come è la fine.
Lo stile del nemico – quando parliamo del nemico, parliamo del diavolo, perché il
demonio esiste, c’è! – il suo stile, lo sappiamo, è di presentarsi in maniera subdola,
mascherata: parte da ciò che ci sta maggiormente a cuore e poi ci attrae a sé, a
poco a poco: il male entra di nascosto, senza che la persona se ne accorga. E con il
tempo la soavità diventa durezza: quel pensiero si rivela per come è veramente.
La consolazione autentica è una sorta di conferma del fatto che stiamo compiendo
ciò che Dio vuole da noi, che camminiamo sulle sue strade, cioè nelle strade della
vita, della gioia, della pace. Il discernimento, infatti, non verte semplicemente sul
bene o sul massimo bene possibile, ma su ciò che è bene per me qui e ora: su
questo sono chiamato a crescere, mettendo dei limiti ad altre proposte, attraenti
ma irreali, per non essere ingannato nella ricerca del vero bene.
Fratelli e sorelle, bisogna capire, andare avanti nel capire cosa succede nel mio
cuore. E per questo ci vuole l’esame di coscienza, per vedere cosa è successo oggi.
“Oggi mi sono arrabbiato lì, non ho fatto quello…”: ma perché? Andare oltre il
perché è cercare la radice di questi sbagli. “Ma, oggi sono stato felice ma ero
noioso perché dovevo aiutare quella gente, ma alla fine mi sono sentito pieno,
piena per quell’aiuto”: e c’è lo Spirito Santo. Imparare a leggere nel libro del
nostro cuore cosa è successo durante la giornata. Fatelo, solo due minuti, ma vi
farà bene, ve lo assicuro.
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11. La conferma della buona scelta
Nel processo del discernimento, è importante rimanere attenti anche alla fase che
immediatamente segue la decisione presa per cogliere i segni che la confermano
oppure quelli che la smentiscono. Io devo prendere una decisione, faccio il
discernimento, pro o contro, sentimenti, prego… poi finisce questo processo e
prendo la decisione e poi viene quella parte in cui dobbiamo essere attenti,
vedere. Perché nella vita ci sono decisioni che non sono buone e ci sono segni che
la smentiscono invece le buone la confermano.
Abbiamo visto infatti come il tempo sia un criterio fondamentale per riconoscere
la voce di Dio in mezzo a tante altre voci. Solo Lui è Signore del tempo: esso è un
marchio di garanzia della sua originalità, che lo differenzia dalle imitazioni che
parlano a suo nome senza riuscirci. Uno dei segni distintivi dello spirito buono è il
fatto che esso comunica una pace che dura nel tempo. Se tu fai un
approfondimento, poi prendi la decisione e questo ti dà una pace che dura nel
tempo, questo è un buon segnale e indica che la strada è stata bella. Una pace che
porta armonia, unità, fervore, zelo. Tu esci dal processo di approfondimento
migliore di come sei entrato.
Un altro buon segno, per esempio, di conferma è il fatto di rimanere liberi nei
confronti di quanto deciso, disposti a rimetterlo in discussione, anche a
rinunciarvi di fronte a possibili smentite, cercando di trovare in esse un possibile
insegnamento del Signore. Questo non perché Lui voglia privarci di ciò che ci è
caro, ma per viverlo con libertà, senza attaccamento. Solo Dio sa che cosa è
veramente buono per noi. La possessività è nemica del bene e uccide l’affetto,
state attenti a questo: i tanti casi di violenza in ambito domestico, di cui abbiamo
purtroppo notizie frequenti, nascono quasi sempre dalla pretesa di possedere
l’affetto dell’altro, dalla ricerca di una sicurezza assoluta che uccide la libertà e
soffoca la vita, rendendola un inferno.
Possiamo amare solo nella libertà, per questo il Signore ci ha creato liberi, liberi
anche di dirgli di no. Offrire a Lui ciò che abbiamo di più caro è nel nostro
interesse, ci consente di viverlo nella maniera migliore possibile e nella verità,
come un dono che ci ha fatto, come un segno della sua bontà gratuita, sapendo che
la nostra vita, così come la storia intera, è nelle sue mani benevole. È quello che la
Bibbia chiama il timore di Dio, cioè il rispetto di Dio, no che Dio mi spaventi, no,
ma un rispetto una condizione indispensabile per accogliere il dono della
Sapienza (cfr Sir 1,1-18). È il timore che scaccia ogni altro timore, perché orientato
a Colui che è Signore di tutte le cose. Di fronte a Lui nulla può inquietarci. È
l’esperienza stupita di San Paolo, che diceva così: «Ho imparato ad essere povero e
ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e
alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza»
(Fil 4,12-13). Questo è l’uomo libero, che benedice il Signore sia quando vengono le
cose buone sia quando vengono le cose non tanto buone: benedetto sia e andiamo
avanti!
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12. La vigilanza
In effetti, nella sua predicazione Gesù insiste molto sul fatto che il buon discepolo
è vigilante, non si addormenta, non si lascia prendere da eccessiva sicurezza
quando le cose vanno bene, ma rimane attento e pronto a fare il proprio dovere.
Per esempio, nel Vangelo di Luca, Gesù dice: «Siate pronti, con le vesti strette ai
fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone
quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che al suo ritorno il padrone troverà ancora svegli» (12,35-37).
Vigilare per custodire il nostro cuore e capire cosa succede dentro. Si tratta della
disposizione d’animo dei cristiani che aspettano la venuta finale del Signore; ma si
può intendere anche come l’atteggiamento ordinario da tenere nella condotta di
vita, in modo che le nostre buone scelte, compiute a volte dopo un impegnativo
discernimento, possano proseguire in maniera perseverante e coerente e portare
frutto.
Se manca la vigilanza, è molto forte, come dicevamo, il rischio che tutto vada
perduto. Non si tratta di un pericolo di ordine psicologico, ma di ordine spirituale,
una vera insidia dello spirito cattivo. Questo, infatti, aspetta proprio il momento
in cui noi siamo troppo sicuri di noi stessi, è questo il pericolo: “Sono sicuro di me
stesso, ho vinto, adesso sto bene…” è quel momento che lo spirito cattivo aspetta,
quando tutto va bene, quando le cose vanno “a gonfie vele” e abbiamo, come si
dice, “il vento in poppa”. In effetti, nella piccola parabola evangelica che abbiamo
ascoltato, si dice che lo spirto impuro, quando ritorna nella casa da cui era uscito,
«la trova vuota, spazzata e adorna» (Mt 12,44). Tutto è a posto, tutto è in ordine,
ma il padrone di casa dov’è? Non c’è. Non c’è nessuno che la vigili e che la
custodisca. È questo è il problema. Il padrone di casa non c’è, è uscito, si è
distratto, oppure è in casa ma addormentato, e dunque è come se non si fosse.
Non è vigilante, non è attento, perché è troppo sicuro di sé e ha perso l’umiltà di
custodire il proprio cuore. Dobbiamo custodire sempre la nostra casa, il nostro
cuore e non essere distratti e andare… perché qui è il problema, come diceva la
Parabola.
Cari fratelli e sorelle, sembra impossibile ma è così. Tante volte perdiamo, siamo
vinti nelle battaglie, per questa mancanza di vigilanza. Tante volte, forse, il
Signore ha dato tante grazie e alla fine non siamo capaci di perseverare in questa
grazia e perdiamo tutto, perché ci manca la vigilanza: non abbiamo custodito le
porte. E poi siamo stati ingannati da qualcuno che viene, educato, e si mette
dentro e ciao… il diavolo ha queste cose. Ciascuno può anche verificarlo
ripensando alla propria storia personale. Non basta fare un buon discernimento e
compiere una buona scelta. No, non basta: bisogna rimanere vigilanti, custodire
questa grazia che Dio ci ha dato, ma vigilare, perché tu puoi dirmi: “Ma quando io
vedo qualche disordine, me ne accorgo subito che è il diavolo, che è una
tentazione…” sì, ma questa volta viene travestita da angelo: il demonio sa
travestirsi da angelo, entra con parole cortesi, e ti convince e alla fine è la cosa
peggiore dall’inizio… Bisogna rimanere vigilanti, vigilare il cuore. Se io
domandassi oggi ad ognuno di noi e anche a me stesso: “cosa sta succedendo nel
tuo cuore?” Forse non sapremo dire tutto: diremo una o due cose, ma non tutto.
Vigliare il cuore, perché la vigilanza è segno di saggezza, è segno soprattutto di
umiltà, perché abbiamo paura di cadere e l’umiltà che è la via maestra della vita
cristiana.
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13. Alcuni aiuti per il discernimento
Nel nostro primo incontro avevamo visto che sempre, ogni giorno, che lo
vogliamo o no, compiamo atti di discernimento, in quello che mangiamo,
leggiamo, sul lavoro, nelle relazioni, in tutto. La vita ci mette sempre di fronte a
delle scelte, e se non le compiamo in maniera consapevole, alla fine è la vita a
scegliere per noi, portandoci dove non vorremmo.
Questo rapporto affettivo con la Bibbia, con la Scrittura, con il Vangelo, porta a
vivere una relazione affettiva con il Signore Gesù: non avere paura di questo! Il
cuore parla al cuore, e questa è un altro aiuto indispensabile e non scontato.
Molte volte possiamo avere un’idea distorta di Dio, considerandolo come un
giudice arcigno, un giudice severo, pronto a coglierci in fallo. Gesù, al contrario, ci
rivela un Dio pieno di compassione e di tenerezza, pronto a sacrificare sé stesso
pur di venirci incontro, proprio come il padre della parabola del figlio prodigo (cfr
Lc 15,11-32). Una volta, uno ha chiesto – non so se alla mamma o alla nonna, me
l’hanno raccontato – “Ma cosa devo fare, in questo momento?” – “Ascolta Dio, Lui
ti dirà cosa dovrai fare. Apri il cuore a Dio”: un bel consiglio. Ricordo una volta, in
un pellegrinaggio di giovani, che si fa una volta l’anno al Santuario di Luján, a 70
km da Buenos Aires: si fa tutta la giornata per arrivare lì; io avevo l’abitudine di
confessare durante la notte. Si è avvicinato un ragazzo, 22 anni circa, tutto con
tatuaggi. “Dio mio – ho pensato io – cosa sarà questo?”. E m’ha detto: “Lei sa, sono
venuto perché ho un problema grave e io l’ho raccontato alla mamma e la
mamma mi ha detto: ‘Vai dalla Madonna, fai il pellegrinaggio, e la Madonna ti
dirà’. E sono venuto. Ho avuto contatto con la Bibbia, qui, ho ascoltato la Parola di
Dio e mi ha toccato il cuore e devo fare questo, questo, questo, questo, questo”. La
Parola di Dio ti tocca il cuore e ti cambia la vita. E così io l’ho visto tante volte,
questo, tante volte. Perché Dio non vuole distruggerci, Dio vuole che siamo più
forti, più buoni ogni giorno. Chi rimane di fronte al Crocifisso avverte una pace
nuova, impara a non avere paura di Dio, perché Gesù sulla croce non fa paura a
nessuno, è l’immagine dell’impotenza totale e insieme dell’amore più pieno,
capace di affrontare ogni prova per noi. I santi hanno sempre avuto una
predilezione per Gesù Crocifisso. Il racconto della Passione di Gesù è la via
maestra per confrontarci con il male senza esserne travolti; in essa non c’è
giudizio e nemmeno rassegnazione, perché è attraversata da una luce più grande,
la luce della Pasqua, che consente di vedere in quelle azioni terribili un disegno
più grande, che nessun impedimento, ostacolo o fallimento può vanificare. La
Parola di Dio sempre ti fa guardare dall’altra parte: cioè, c’è la croce, qui, è brutto,
ma c’è un’altra cosa, una speranza, una resurrezione. La Parola di Dio ti apre tutte
le porte, perché Lui, il Signore, è la porta. Prendiamo il Vangelo, prendiamo la
Bibbia in mano: cinque minuti al giorno, non di più. Portate un Vangelo tascabile
con voi, nella borsa, e quando sarete in viaggio prendetelo e leggete un po’,
durante la giornata, un pezzettino, lasciare che la Parola di Dio si avvicini al
cuore. Fate questo e vedrete come cambierà la vostra vita con la vicinanza alla
Parola di Dio. “Sì, Padre, ma io sono abituato a leggere la Vita dei Santi”: questo fa
bene, fa bene, ma non lasciare la Parola di Dio. Prendi il Vangelo con te, e leggilo
anche solo un minuto al giorno.
È molto bello pensare alla vita con il Signore come una relazione di amicizia che
cresce giorno dopo giorno. Avete pensato a questo? È la strada! Pensiamo a Dio
che ci ama, ci vuole amici! L’amicizia con Dio ha la capacità di cambiare il cuore; è
uno dei grandi doni dello Spirito Santo, la pietà, che ci rende capaci di riconoscere
la paternità di Dio. Abbiamo un Padre tenero, un Padre affettuoso, un Padre che ci
ama, che ci ha amato da sempre: quando se ne fa esperienza, il cuore si scioglie e
cadono dubbi, paure, sensazione di indegnità. Nulla può opporsi a questo amore
dell’incontro con il Signore.
E questo ci ricorda un altro grande aiuto, il dono dello Spirito Santo, che è presente
in noi, e che ci istruisce, rende viva la Parola di Dio che leggiamo, suggerisce
significati nuovi, apre porte che sembravano chiuse, indica sentieri di vita là dove
sembrava ci fossero solo buio e confusione. Io vi domando: voi pregate lo Spirito
Santo? Ma chi è questo grande Sconosciuto? Noi preghiamo il Padre, sì, il Padre
Nostro, preghiamo Gesù, ma dimentichiamo lo Spirito! Una volta, facendo la
catechesi ai bambini, ho fatto la domanda: “Chi di voi sa chi è lo Spirito Santo?”. E
un bambino: “Io lo so!” – “E chi è?” – “Il paralitico”, mi ha detto! Lui aveva sentito
“il Paraclito”, e pensava che fosse un paralitico. E tante volte – questo mi ha fatto
pensare – per noi lo Spirito Santo è lì, come se fosse una Persona che non conta.
Lo Spirito Santo è quello che ti dà vita all’anima! Lasciatelo entrare. Parlate con lo
Spirito così come parlate con il Padre, come parlate con il Figlio: parlate con lo
Spirito Santo – che non ha niente di paralitico! In Lui c’è la forza della Chiesa, è
quello che ti porta avanti. Lo Spirito Santo è discernimento in azione, presenza di
Dio in noi, è il dono, il regalo più grande che il Padre assicura a coloro che lo
chiedono (cfr Lc 11,13). E Gesù come lo chiama? “Il dono”: “Rimanete qui a
Gerusalemme aspettando il dono di Dio”, che è lo Spirito Santo. È interessante
portare la vita in amicizia con lo Spirito Santo: Lui ti cambia, Lui ti fa crescere.
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14. L’accompagnamento spirituale
Prima di iniziare questa catechesi vorrei che ci unissimo a quanti, qui accanto,
stanno rendendo omaggio a Benedetto XVI e rivolgere il mio pensiero a lui, che è
stato un grande maestro di catechesi. Il suo pensiero acuto e garbato non è stato
autoreferenziale, ma ecclesiale, perché sempre ha voluto accompagnarci
all’incontro con Gesù. Gesù, il Crocifisso risorto, il Vivente e il Signore, è stata la
meta a cui Papa Benedetto ci ha condotto, prendendoci per mano. Ci aiuti a
riscoprire in Cristo la gioia di credere e la speranza di vivere.
La grazia di Dio in noi lavora sempre sulla nostra natura. Pensando a una
parabola evangelica, la grazia possiamo paragonarla al buon seme e la natura al
terreno (cfr Mc 4,3-9). È importante anzitutto farsi conoscere, senza timore di
condividere gli aspetti più fragili, dove ci scopriamo più sensibili, deboli o
timorosi di essere giudicati. Farsi conoscere, manifestare se stesso a una persona
che ci accompagni nel cammino della vita. Non che decida per noi, no: ma che ci
accompagni. Perché la fragilità è, in realtà, la nostra vera ricchezza: noi siamo
ricchi in fragilità, tutti; la vera ricchezza, che dobbiamo imparare a rispettare e ad
accogliere, perché, quando viene offerta a Dio, ci rende capaci di tenerezza, di
misericordia e di amore. Guai a quelle persone che non si sentono fragili: sono
dure, dittatoriali. Invece, le persone che con umiltà riconoscono le proprie
fragilità sono più comprensive con gli altri. La fragilità – io posso dire – ci rende
umani. Non a caso, la prima delle tre tentazioni di Gesù nel deserto – quella legata
alla fame – cerca di rubarci la fragilità, presentandocela come un male di cui
sbarazzarsi, un impedimento a essere come Dio. E invece è il nostro tesoro più
prezioso: infatti Dio, per renderci simili a Lui, ha voluto condividere fino in fondo
la nostra propria fragilità. Guardiamo il crocifisso: Dio che è sceso proprio alla
fragilità. Guardiamo il presepio che arriva in una fragilità umana grande. Lui ha
condiviso la nostra fragilità.
Raccontare di fronte a un altro ciò che abbiamo vissuto o che stiamo cercando
aiuta a fare chiarezza in noi stessi, portando alla luce i tanti pensieri che ci abitano,
e che spesso ci inquietano con i loro ritornelli insistenti. Quante volte, in momenti
bui, ci vengono i pensieri così: “Ho sbagliato tutto, non valgo niente, nessuno mi
capisce, non ce la farò mai, sono destinato al fallimento”, quante volte è venuto a
noi pensare queste cose. Pensieri falsi e velenosi, che il confronto con l’altro aiuta
a smascherare, così che possiamo sentirci amati e stimati dal Signore per come
siamo, capaci di fare cose buone per Lui. Scopriamo con sorpresa modi differenti
di vedere le cose, segnali di bene da sempre presenti in noi. È vero, noi possiamo
condividere le nostre fragilità con l’altro, con quello che ci accompagna nella vita,
nella vita spirituale, il maestro di vita spirituale, sia un laico, un sacerdote e dire:
“Guarda cosa succede a me: sono un disgraziato, mi stanno succedendo queste
cose”. E colui che accompagna risponde: “Sì, tutti ne abbiamo di queste cose”.
Questo ci aiuta a chiarirle bene e vedere da dove vengono le radici e così
superarle.
La voce del Signore si può sempre riconoscere, ha uno stile unico, è una voce che
pacifica, incoraggia e rassicura nelle difficoltà. Il Vangelo ce lo ricorda
continuamente: «Non temere» (Lc 1,30), che bella quella parola dell’angelo a
Maria dopo la risurrezione di Gesù; «non temere», «non abbiate paura», è proprio
lo stile del Signore: «non temere». «Non temere!», ripete anche a noi il Signore
oggi; «non temere»: se ci fidiamo della sua parola, giocheremo bene la partita
della vita, e potremo aiutare altri. Come dice il Salmo, la sua Parola è lampada ai
nostri passi e luce sul nostro cammino (cfr 119,105).
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