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Papa Francesco

CATECHESI SUL DISCERNIMENTO


CATECHESI DI PAPA FRANCESCO DAL 31 AGOSTO 2022 AL 4 GENNAIO 2023

www.opusdei.org
Contenuti

— 1. Che cosa significa discernere?

— 2. Un esempio: Ignazio di Loyola

— 3. Gli elementi del discernimento. La familiarità con il Signore

— 4. Gli elementi del discernimento. Conoscere sé stessi

— 5. Gli elementi del discernimento. Il desiderio

— 6. Gli elementi del discernimento. Il libro della propria vita

— 7. La materia del discernimento. La desolazione

— 8. Perché siamo desolati?

— 9. La consolazione

— 10. La consolazione autentica

— 11. La conferma della buona scelta

— 12. La vigilanza

— 13. Alcuni aiuti per il discernimento

— 14. L’accompagnamento spirituale


1. Che cosa significa discernere?

Iniziamo oggi, un nuovo ciclo di catechesi: abbiamo finito le catechesi sulla


vecchiaia, adesso iniziamo un nuovo ciclo sul tema del discernimento. Discernere
è un atto importante che riguarda tutti, perché le scelte sono parte essenziale
della vita. Discernere le scelte. Si sceglie un cibo, un vestito, un percorso di studi,
un lavoro, una relazione. In tutto questo si concretizza un progetto di vita, e anche
si concretizza la nostra relazione con Dio.

Nel Vangelo, Gesù parla del discernimento con immagini tratte dalla vita ordinaria;
ad esempio, descrive i pescatori che selezionano i pesci buoni e scartano quelli
cattivi; o il mercante che sa individuare, tra tante perle, quella di maggior valore.
O colui che, arando un campo, si imbatte in qualcosa che si rivela essere un tesoro
(cfr Mt 13,44-48).

Alla luce di questi esempi, il discernimento si presenta come un esercizio di


intelligenza, e anche di perizia e anche di volontà, per cogliere il momento
favorevole: queste sono le condizioni per operare una buona scelta. Ci vuole
intelligenza, perizia e anche volontà per fare una buona scelta. E c’è anche un
costo richiesto perché il discernimento possa diventare operativo. Per svolgere al
meglio il proprio mestiere, il pescatore mette in conto la fatica, le lunghe notti
trascorse in mare, e poi il fatto di scartare parte del pescato, accettando una
perdita del profitto per il bene di coloro a cui è destinato. Il mercante di perle non
esita a spendere tutto per comprare quella perla; e lo stesso fa l’uomo che si è
imbattuto in un tesoro. Situazioni inattese, non programmate, dove è
fondamentale riconoscere l’importanza e l’urgenza di una decisione da prendere.
Le decisioni le deve prendere ognuno; non c’è uno che le prende per noi. Ad un
certo punto gli adulti, liberi, possono chiedere consiglio, pensare, ma la decisione
è propria; non si può dire: “Ho perso questo, perché ha deciso mio marito, ha
deciso mia moglie, ha deciso mio fratello”: no! Tu devi decidere, ognuno di noi
deve decidere, e per questo è importante saper discernere: per decidere bene è
necessario saper discernere.

Il Vangelo suggerisce un altro aspetto importante del discernimento: esso


coinvolge gli affetti. Chi ha trovato il tesoro non avverte la difficoltà di vendere
tutto, tanto grande è la sua gioia (cfr Mt 13,44). Il termine impiegato
dall’evangelista Matteo indica una gioia del tutto speciale, che nessuna realtà
umana può dare; e difatti ritorna in pochissimi altri passi del Vangelo, che
rimandano tutti all’incontro con Dio. È la gioia dei Magi quando, dopo un lungo e
faticoso viaggio, rivedono la stella (cf Mt 2,10); la gioia, è la gioia delle donne che
tornano dal sepolcro vuoto dopo aver ascoltato l’annuncio della risurrezione da
parte dell’angelo (cfr Mt 28,8). È la gioia di chi ha trovato il Signore. Prendere una
bella decisione, una decisone giusta, ti porta sempre a quella gioia finale; forse nel
cammino si deve soffrire un po' l’incertezza, pensare, cercare, ma alla fine la
decisione giusta ti benefica di gioia.
Nel giudizio finale Dio opererà un discernimento - il grande discernimento - nei
nostri confronti. Le immagini del contadino, del pescatore e del mercante sono
esempi di ciò che accade nel Regno dei cieli, un Regno che si manifesta nelle
azioni ordinarie della vita, che richiedono di prendere posizione. Per questo è così
importante saper discernere: le grandi scelte possono nascere da circostanze a
prima vista secondarie, ma che si rivelano decisive. Per esempio, pensiamo al
primo incontro di Andrea e Giovanni con Gesù, un incontro che nasce da una
semplice domanda: “Rabbì, dove abiti?” – “Venite e vedrete” (cfr Gv 1,38-39), dice
Gesù. Uno scambio brevissimo, ma è l’inizio di un cambiamento che, passo a
passo, segnerà tutta la vita. A distanza di anni, l’Evangelista continuerà a
ricordare quell’incontro che lo ha cambiato per sempre, ricorderà anche l’ora:
«Erano circa le quattro del pomeriggio» (v. 39). È l’ora in cui il tempo e l’eterno si
sono incontrati nella sua vita. E in una decisione buona, giusta, si incontra la
volontà di Dio con la nostra volontà; si incontra il cammino attuale con l’eterno.
Prendere una giusta decisione, dopo una strada di discernimento, è fare questo
incontro: il tempo con l’eterno.

Pertanto: conoscenza, esperienza, affetti, volontà: ecco alcuni


elementiindispensabili del discernimento. Nel corso di queste catechesi ne
vedremo altri, altrettanto importanti.

Il discernimento – come dicevo – comporta una fatica. Secondo la Bibbia, noi non
ci troviamo davanti, già impacchettata, la vita che dobbiamo vivere: no!
Dobbiamo deciderla continuamente, secondo le realtà che vengono. Dio ci invita a
valutare e a scegliere: ci ha creato liberi e vuole che esercitiamo la nostra libertà.
Per questo, discernere è impegnativo.

Abbiamo fatto spesso questa esperienza: scegliere qualcosa che ci sembrava bene
e invece non lo era. Oppure sapere quale fosse il nostro vero bene e non
sceglierlo. L’uomo, a differenza degli animali, può sbagliarsi, può non voler
scegliere in maniera corretta e la Bibbia lo mostra fin dalle sue prime pagine. Dio
dà all’uomo una precisa istruzione: se vuoi vivere, se vuoi gustare la vita, ricordati
che sei creatura, che non sei tu il criterio del bene e del male e che le scelte che
farai avranno una conseguenza, per te, per altri e per il mondo (cfr Gen 2,16-17);
puoi rendere la terra un giardino magnifico o puoi farne un deserto di morte. Un
insegnamento fondamentale: non a caso è il primo dialogo tra Dio e l’uomo. Il
dialogo è: il Signore dà la missione, tu devi fare questo e questo; e l’uomo ogni
passo che fa deve discernere quale decisione prendere. Il discernimento è quella
riflessione della mente, del cuore che noi dobbiamo fare prima di prendere una
decisione.

Il discernimento è faticoso ma indispensabile per vivere. Richiede che io mi


conosca, che sappia cosa è bene per me qui e ora. Richiede soprattutto un
rapporto filiale con Dio. Dio è Padre e non ci lascia soli, è sempre disposto a
consigliarci, a incoraggiarci, ad accoglierci. Ma non impone mai il suo volere.
Perché? Perché vuole essere amato e non temuto. E anche Dio ci vuole figli non
schiavi: figli liberi. E l’amore si può vivere solo nella libertà. Per imparare a vivere
si deve imparare ad amare, e per questo è necessario discernere: cosa posso fare
adesso, davanti a questa alternativa? Che sia un segnale di più amore, di più
maturità nell’amore. Chiediamo che lo Spirito Santo ci guidi! Invochiamolo ogni
giorno, specialmente quando dobbiamo fare delle scelte. Grazie.
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2. Un esempio: Ignazio di Loyola

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo la nostra riflessione sul discernimento – in questo tempo parleremo


ogni mercoledì del discernimento spirituale -, e per questo può aiutarci fare
riferimento a una testimonianza concreta.

Uno degli esempi più istruttivi ce lo offre Sant’Ignazio di Loyola, con un episodio
decisivo della sua vita. Ignazio si trova a casa convalescente, dopo essere stato
ferito in battaglia a una gamba. Per scacciare la noia chiede qualcosa da leggere.
Lui amava i racconti cavallereschi, ma purtroppo in casa si trovano solo vite di
santi. Un po’ a malincuore si adatta, ma nel corso della lettura comincia a scoprire
un altro mondo, un mondo che lo conquista e sembra in concorrenza con quello
dei cavalieri. Resta affascinato dalle figure di San Francesco e San Domenico e
sente il desiderio di imitarli. Ma anche il mondo cavalleresco continua a
esercitare il suo fascino su di lui. E così avverte dentro di sé questa alternanza di
pensieri, quelli cavallereschi e quelli dei santi, che sembrano equivalersi.

Ignazio però comincia anche a notare delle differenze. Nella sua Autobiografia –
in terza persona– scrive così: «Pensando alle cose del mondo - e alle cose
cavalleresche, si capisce - provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le
abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi
nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute
abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si
soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno
di gioia» (n. 8); gli lasciavano una traccia di gioia.

In questa esperienza possiamo notare soprattutto due aspetti. Il primo è il tempo:


cioè i pensieri del mondo all’inizio sono attraenti, ma poi perdono smalto e
lasciano vuoti, scontenti, ti lasciano così, una cosa vuota. I pensieri di Dio, al
contrario, suscitano dapprima una certa resistenza – “Ma questa cosa noiosa dei
santi non andrò a leggere”, ma quando li si accoglie portano una pace sconosciuta,
che dura tanto tempo.

Ecco allora l’altro aspetto: il punto di arrivo dei pensieri. All’inizio la situazione
non sembra così chiara. C’è uno sviluppo del discernimento: per esempio capiamo
cosa sia il bene per noi non in modo astratto, generale, ma nel percorso della
nostra vita. Nelle regole per il discernimento, frutto di questa esperienza
fondamentale, Ignazio pone una premessa importante, che aiuta a comprendere
tale processo: «A coloro che passano da un peccato mortale all’altro, il demonio
comunemente è solito proporre piaceri apparenti, tranquillizzarli che tutto va
bene, facendo loro immaginare diletti e piaceri sensuali, per meglio mantenerli e
farli crescere nei loro vizi e peccati. Con questi, lo spirito buono usa il metodo
opposto, stimolando al rimorso la loro coscienza con il giudizio della ragione»
(Esercizi Spirituali, 314); Ma questo non va bene.
C’è una storia che precede chi discerne, una storia che è indispensabile conoscere,
perché il discernimento non è una sorta di oracolo o di fatalismo o una cosa di
laboratorio, come gettare la sorte su due possibilità. Le grandi domande sorgono
quando nella vita abbiamo già fatto un tratto di strada, ed è a quel percorso che
dobbiamo tornare per capire cosa stiamo cercando. Se nella vita si fa un po’ di
strada, lì: “Ma perché cammino in questa direzione, che sto cercando?”, e lì si fa il
discernimento. Ignazio, quando si trovava ferito nella casa paterna, non pensava
affatto a Dio o a come riformare la propria vita, no. Egli fa la sua prima
esperienza di Dio ascoltando il proprio cuore, che gli mostra un ribaltamento
curioso: le cose a prima vista attraenti lo lasciano deluso e in altre, meno brillanti,
avverte una pace che dura nel tempo. Anche noi abbiamo questa esperienza, tante
volte cominciamo a pensare una cosa e restiamo lì e poi siamo rimasti delusi.
Invece facciamo un’opera di carità, facciamo una cosa buona e sentiamo qualcosa
di felicità, ti viene un pensiero buono e ti viene la felicità, una cosa di gioia, è
un’esperienza tutta nostra. Lui, Ignazio, fa la prima esperienza di Dio, ascoltando
il proprio cuore che gli mostra un ribaltamento curioso. È questo che noi
dobbiamo imparare: ascoltare il proprio cuore: per conoscere cosa succede, quale
decisione prendere, fare un giudizio su una situazione, occorre ascoltare il
proprio cuore. Noi ascoltiamo la televisione, la radio, il telefonino, siamo maestri
dell’ascolto, ma ti domando: tu sai ascoltare il tuo cuore? Tu ti fermi per dire: “Ma
il mio cuore come sta? È soddisfatto, è triste, cerca qualcosa?” . Per prendere delle
decisioni belle occorre ascoltare il proprio cuore.

Per questo Ignazio suggerirà di leggere le vite dei santi, perché mostrano in modo
narrativo e comprensibile lo stile di Dio nella vita di persone non molto diverse da
noi perché i santi erano di carne ed ossa come noi. Le loro azioni parlano alle
nostre e ci aiutano a comprenderne il significato.

In quel famoso episodio dei due sentimenti che aveva Ignazio, uno quando
leggeva le cose dei cavalieri e l’altro quando leggeva la vita dei santi, possiamo
riconoscere un altro aspetto importante del discernimento, che abbiamo già
menzionato la volta scorsa. C’è un’apparente casualità negli accadimenti della
vita: tutto sembra nascere da un banale contrattempo: non c’erano libri di
cavalieri, ma solo vite di santi. Un contrattempo che però racchiude una possibile
svolta. Solo dopo un po’ di tempo Ignazio se ne accorgerà, e a quel punto vi
dedicherà tutta la sua attenzione. Ascoltate bene: Dio lavora attraverso eventi non
programmabili quel per caso, ma per caso mi è successo questo, per caso ho
incontrato questa persona, per caso ho visto questo film, non era programmato
ma Dio lavora attraverso eventi non programmabili, e anche nei contrattempi:
“Ma io dovevo fare una passeggiata e ho avuto un problema ai piedi, non posso…”.
Contrattempo: cosa ti dice Dio? Cosa ti dice la vita lì? Lo abbiamo visto anche in
un brano del Vangelo di Matteo: un uomo che sta arando un campo si imbatte
casualmente in un tesoro sotterrato. Una situazione del tutto inattesa. Ma ciò che è
importante è che lo riconosce come il colpo di fortuna della sua vita e decide di
conseguenza: vende tutto e compra quel campo (cfr 13,44). Un consiglio che vi do,
state attenti alle cose inattese. Colui che dice: “ma questo per caso io non lo
aspettavo”. Lì ti sta parlando la vita, ti sta parlando il Signore o ti sta parlando il
diavolo? Qualcuno. Ma c’è una cosa da discernere, come reagisco io di fronte alle
cose inattese. Ma io ero tanto tranquillo a casa e “pum, pum”, viene la suocera e tu
come reagisci con la suocera? E’ amore o è altra cosa dentro? E fai il
discernimento. Io stavo lavorando nell’ufficio bene e viene un compagno a dirmi
che ha bisogno di soldi e tu come hai reagito? Vedere cosa succede quando
viviamo cose che non aspettiamo e lì impariamo a conoscere il nostro cuore come
si muove.

Il discernimento è l’aiuto a riconoscere i segnali con i quali il Signore si fa


incontrare nelle situazioni impreviste, perfino spiacevoli, come fu per Ignazio la
ferita alla gamba. Da esse può nascere un incontro che cambia la vita, per sempre,
come il caso di Ignazio. Può nascere una cosa che ti fa migliorare nel cammino o
peggiorare non so, ma stare attenti e il filo conduttore più bello è dato dalle cose
inattese: “come mi muovo di fronte a ciò?”. Il Signore ci aiuti a sentire il nostro
cuore e a veder quando è Lui che attua e quando non è Lui ed è un’altra cosa.

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3. Gli elementi del discernimento. La familiarità con il
Signore

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Riprendiamo le catechesi sul tema del discernimento, - perché è molto importante


il tema del discernimento per sapere cosa succede dentro di noi; dei sentimenti e
delle idee, dobbiamo discernere da dove vengono, dove mi portano, a quale
decisione - e oggi ci soffermiamo sul primo dei suoi elementi costitutivi, cioè la
preghiera. Per discernere occorre stare in un ambiente, in uno stato di preghiera.

La preghiera è un aiuto indispensabile per il discernimento spirituale, soprattutto


quando coinvolge gli affetti, consentendo di rivolgerci a Dio con semplicità e
familiarità, come si parla a un amico. È saper andare oltre i pensieri, entrare in
intimità con il Signore, con una spontaneità affettuosa. Il segreto della vita dei
santi è la familiarità e confidenza con Dio, che cresce in loro e rende sempre più
facile riconoscere quello che a Lui è gradito. La preghiera vera è familiarità e
confidenza con Dio. Non è recitare preghiere come un pappagallo, bla bla bla, no.
La vera preghiera è questa spontaneità e affetto con il Signore. Questa familiarità
vince la paura o il dubbio che la sua volontà non sia per il nostro bene, una
tentazione che a volte attraversa i nostri pensieri e rende il cuore inquieto e
incerto o amaro, pure.

Il discernimento non pretende una certezza assoluta - non è chimicamente un


puro metodo, no, pretende una certezza assoluta, perché riguarda la vita, e la vita
non è sempre logica, presenta molti aspetti che non si lasciano racchiudere in una
sola categoria di pensiero. Vorremmo sapere con precisione cosa andrebbe fatto,
eppure, anche quando capita, non per questo agiamo sempre di conseguenza.
Quante volte abbiamo fatto anche noi l’esperienza descritta dall’apostolo Paolo,
che dice così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm
7,19). Non siamo solo ragione, non siamo macchine, non basta ricevere delle
istruzioni per eseguirle: gli ostacoli, come gli aiuti, a decidersi per il Signore sono
soprattutto affettivi, del cuore.

È significativo che il primo miracolo compiuto da Gesù nel Vangelo di Marco sia
un esorcismo (cfr 1,21-28). Nella sinagoga di Cafarnao libera un uomo dal
demonio, liberandolo dalla falsa immagine di Dio che Satana suggerisce fin dalle
origini: quella di un Dio che non vuole la nostra felicità. L’indemoniato, di quel
brano di Vangelo, sa che Gesù è Dio, ma questo non lo porta a credere in Lui. Dice
infatti: «Sei venuto a rovinarci» (v. 24).

Molti, anche cristiani, pensano la medesima cosa: che cioè Gesù possa anche
essere il Figlio di Dio, ma dubitano che voglia la nostra felicità; anzi, alcuni
temono che prendere sul serio la sua proposta, quello che Gesù ci propone,
significhi rovinarsi la vita, mortificare i nostri desideri, le nostre aspirazioni più
forti. Questi pensieri fanno talvolta capolino dentro di noi: che Dio ci chieda
troppo, abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, che non ci voglia davvero bene.
Invece, nel nostro primo incontro abbiamo visto che il segno dell’incontro con il
Signore è la gioia. Quando incontro il Signore nella preghiera, divento gioioso.
Ognuno di noi diventa gioioso, una cosa bella. La tristezza, o la paura, sono invece
segni di lontananza da Dio: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti»,
dice Gesù al giovane ricco (Mt 19,17). Purtroppo per quel giovane, alcuni ostacoli
non gli hanno consentito di attuare il desiderio che aveva nel cuore, di seguire più
da vicino il “maestro buono”. Era un giovane interessato, intraprendente, aveva
preso l’iniziativa di incontrare Gesù, ma era anche molto diviso negli affetti, per
lui le ricchezze erano troppo importanti. Gesù non lo costringe a decidersi, ma il
testo nota che il giovane si allontana da Gesù «triste» (v. 22). Chi si allontana dal
Signore non è mai contento, pur avendo a propria disposizione una grande
abbondanza di beni e possibilità. Gesù mai costringe a seguirlo, mai. Gesù ti fa
sapere la sua volontà, con tanto cuore ti fa sapere le cose ma ti lascia libero. E
questa è la cosa più bella della preghiera con Gesù: la libertà che Lui ci lascia.
Invece quando noi ci allontaniamo dal Signore rimaniamo con qualcosa di triste,
qualcosa di brutto nel cuore.

Discernere cosa succede dentro di noi non è facile, perché le apparenze


ingannano, ma la familiarità con Dio può sciogliere in modo soave dubbi e timori,
rendendo la nostra vita sempre più ricettiva alla sua «luce gentile», secondo la
bella espressione di San John Henry Newman. I santi brillano di luce riflessa e
mostrano nei semplici gesti della loro giornata la presenza amorevole di Dio, che
rende possibile l’impossibile. Si dice che due sposi che hanno vissuto insieme tanto
tempo volendosi bene finiscono per assomigliarsi. Qualcosa di simile si può dire
della preghiera affettiva: in modo graduale ma efficace ci rende sempre più capaci
di riconoscere ciò che conta per connaturalità, come qualcosa che sgorga dal
profondo del nostro essere. Stare in preghiera non significa dire parole, parole,
no; stare in preghiera significa aprire il cuore a Gesù, avvicinarsi a Gesù, lasciare
che Gesù entri nel mio cuore e ci faccia sentire la sua presenza. E lì possiamo
discernere quando è Gesù e quando siamo noi con i nostri pensieri, tante volte
lontani da quello che vuole Gesù.

Chiediamo questa grazia: di vivere una relazione di amicizia con il Signore, come
un amico parla all’amico (cfr S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 53). Io ho
conosciuto un vecchio fratello religioso che era il portiere di un collegio e lui ogni
volta che poteva si avvicinava alla cappella, guardava l’altare, diceva: “Ciao”,
perché aveva vicinanza con Gesù. Lui non aveva bisogno di dire bla bla bla, no:
“ciao, ti sono vicino e tu mi sei vicino”. Questo è il rapporto che dobbiamo avere
nella preghiera: vicinanza, vicinanza affettiva, come fratelli, vicinanza con Gesù.
Un sorriso, un semplice gesto e non recitare parole che non arrivano al cuore.
Come dicevo, parlare con Gesù come un amico parla all’altro amico. È una grazia
che dobbiamo chiedere gli uni per gli altri: vedere Gesù come il nostro amico, il
nostro amico più grande, il nostro amico fedele, che non ricatta, soprattutto che
non ci abbandona mai, anche quando noi ci allontaniamo da Lui. Lui rimane alla
porta del cuore. “No, io con te non voglio sapere nulla”, diciamo noi. E Lui rimane
zitto, rimane lì a portata di mano, a portata di cuore perché Lui sempre è fedele.
Andiamo avanti con questa preghiera, diciamo la preghiera del “ciao”, la
preghiera di salutare il Signore con il cuore, la preghiera dell’affetto, la preghiera
della vicinanza, con poche parole ma con gesti e con opere buone. Grazie.

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4. Gli elementi del discernimento. Conoscere sé stessi

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo a trattare il tema del discernimento. La volta scorsa abbiamo


considerato come suo elemento indispensabile quello della preghiera, intesa come
familiarità e confidenza con Dio. Preghiera, non come i pappagalli, ma come
familiarità e confidenza con Dio; preghiera dei figli al Padre; preghiera con il
cuore aperto. Questo lo abbiamo visto nell’ultima Catechesi. Oggi vorrei, in
maniera quasi complementare, sottolineare che un buon discernimento richiede
anche la conoscenza di sé stessi. Conoscere sé stesso. E questo non è facile. Il
discernimento infatti coinvolge le nostre facoltà umane: la memoria, l’intelletto, la
volontà, gli affetti. Spesso non sappiamo discernere perché non ci conosciamo
abbastanza, e così non sappiamo che cosa veramente vogliamo. Avete sentito
tante volte: “Ma quella persona, perché non sistema la sua vita? Mai ha saputo
quello che vuole …”. Senza arrivare a quell’estremo, ma anche a noi succede che
non sappiamo bene cosa vogliamo, non ci conosciamo bene.

Alla base di dubbi spirituali e crisi vocazionali si trova non di rado un dialogo
insufficiente tra la vita religiosa e la nostra dimensione umana, cognitiva e
affettiva. Un autore di spiritualità notava come molte difficoltà sul tema del
discernimento rimandano a problemi di altro genere, che vanno riconosciuti ed
esplorati. Così scrive questo autore: «Sono giunto alla convinzione che l’ostacolo
più grande al vero discernimento (e ad una vera crescita nella preghiera) non è la
natura intangibile di Dio, ma il fatto che non conosciamo sufficientemente noi
stessi, e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente. Quasi
tutti noi ci nascondiamo dietro a una maschera, non solo di fronte agli altri, ma
anche quando ci guardiamo allo specchio» (Th. Green, Il grano e la zizzania, Roma,
1992, 25). Tutti abbiamo la tentazione di essere mascherati anche davanti a noi
stessi.

La dimenticanza della presenza di Dio nella nostra vita va di pari passo con
l’ignoranza su noi stessi – ignorare Dio e ignorare noi -, ignoranza sulle
caratteristiche della nostra personalità e sui nostri desideri più profondi.

Conoscere sé stessi non è difficile, ma è faticoso: implica un paziente lavoro di


scavo interiore. Richiede la capacità di fermarsi, di “disattivare il pilota
automatico”, per acquistare consapevolezza sul nostro modo di fare, sui
sentimenti che ci abitano, sui pensieri ricorrenti che ci condizionano, e spesso a
nostra insaputa. Richiede anche di distinguere tra le emozioni e le facoltà
spirituali. “Sento” non è lo stesso di “sono convinto”; “mi sento di” non è lo stesso
di “voglio”. Così si arriva a riconoscere che lo sguardo che abbiamo su noi stessi e
sulla realtà è talvolta un po’ distorto. Accorgersi di questo è una grazia! Infatti,
molte volte può accadere che convinzioni errate sulla realtà, basate sulle
esperienze del passato, ci influenzano fortemente, limitando la nostra libertà di
giocarci per ciò che davvero conta nella nostra vita.
Vivendo nell’era dell’informatica, sappiamo quanto sia importante conoscere le
password per poter entrare nei programmi dove si trovano le informazioni più
personali e preziose. Ma anche la vita spirituale ha le sue “password”: ci sono
parole che toccano il cuore perché rimandano a ciò per cui siamo più sensibili. Il
tentatore, cioè il diavolo, conosce bene queste parole-chiave, ed è importante che
le conosciamo anche noi, per non trovarci là dove non vorremmo. La tentazione
non suggerisce necessariamente cose cattive, ma spesso cose disordinate,
presentate con una importanza eccessiva. In questo modo ci ipnotizza con
l’attrattiva che queste cose suscitano in noi, cose belle ma illusorie, che non
possono mantenere quanto promettono, e così ci lasciano alla fine con un senso di
vuoto e di tristezza. Quel senso di vuoto e tristezza è un segnale che abbiamo
preso una strada che non era giusta, che ci ha disorientato. Possono essere, per
esempio, il titolo di studio, la carriera, le relazioni, tutte cose in sé lodevoli, ma
verso le quali, se non siamo liberi, rischiamo di nutrire aspettative irreali, come
ad esempio la conferma del nostro valore. Tu, per esempio, quando pensi a uno
studio che stai facendo, tu lo pensi soltanto per promuovere te stesso, per il tuo
interesse, o anche per servire la comunità? Lì, si può vedere qual è
l’intenzionalità di ognuno di noi. Da questo fraintendimento derivano spesso le
sofferenze più grandi, perché nessuna di quelle cose può essere la garanzia della
nostra dignità.

Per questo, cari fratelli e sorelle, è importante conoscersi, conoscere le password


del nostro cuore, ciò a cui siamo più sensibili, per proteggerci da chi si presenta
con parole suadenti per manipolarci, ma anche per riconoscere ciò che è davvero
importante per noi, distinguendolo dalle mode del momento o da slogan
appariscenti e superficiali. Tante volte quello che si dice in un programma in
televisione, in qualche pubblicità che si fa, ci tocca il cuore e ci fa andare da quella
parte senza libertà. State attenti a quello: sono libero o mi lascio andare ai
sentimenti del momento, o alle provocazioni del momento?

Un aiuto in questo è l’esame di coscienza, ma non parlo dell’esame di coscienza che


tutti facciamo quando andiamo alla confessione, no. Questo è: “Ma ho peccato di
questo, quello …”. No. Esame di coscienza generale della giornata: cosa è successo
nel mio cuore in questa giornata? “Sono accadute tante cose …”. Quali? Perché?
Quali tracce hanno lasciato nel cuore? Fare l’esame di coscienza, cioè la buona
abitudine a rileggere con calma quello che capita nella nostra giornata,
imparando a notare nelle valutazioni e nelle scelte ciò a cui diamo più
importanza, cosa cerchiamo e perché, e cosa alla fine abbiamo trovato.
Soprattutto imparando a riconoscere che cosa sazia il mio cuore. Perché solo il
Signore può darci la conferma di quanto valiamo. Ce lo dice ogni giorno dalla
croce: è morto per noi, per mostrarci quanto siamo preziosi ai suoi occhi. Non c’è
ostacolo o fallimento che possano impedire il suo tenero abbraccio. L’esame di
coscienza aiuta tanto, perché così vediamo che il nostro cuore non è una strada
dove passa di tutto e noi non sappiamo. No. Vedere: cosa è passato oggi? Cosa è
successo? Cosa mi ha fatto reagire? Cosa mi ha fatto triste? Cosa mi ha fatto
gioioso? Cosa è stato brutto e se ho fatto del male agli altri. Si tratta di vedere il
percorso dei sentimenti, delle attrazioni nel mio cuore durante la giornata. Non
dimenticatevi! L’altro giorno abbiamo parlato della preghiera; oggi parliamo della
conoscenza di sé stessi.

La preghiera e la conoscenza di sé stessi consentono di crescere nella libertà.


Questo, è per crescere nella libertà! Sono elementi basilari dell’esistenza cristiana,
elementi preziosi per trovare il proprio posto nella vita. Grazie.

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5. Gli elementi del discernimento. Il desiderio

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In queste catechesi stiamo passando in rassegna gli elementi del discernimento.


Dopo la preghiera e la conoscenza di sé, cioè pregare e conoscere se stesso, oggi
vorrei parlare di un altro “ingrediente” per così dire indispensabile: oggi vorrei
parlare del desiderio. Infatti, il discernimento è una forma di ricerca, e la ricerca
nasce sempre da qualcosa che ci manca ma che in qualche modo conosciamo,
abbiamo il fiuto.

Di che genere è questa conoscenza? I maestri spirituali la indicano con il termine


“desiderio”, che, alla radice, è una nostalgia di pienezza che non trova mai pieno
esaudimento, ed è il segno della presenza di Dio in noi. Il desiderio non è la voglia
del momento, no. La parola italiana viene da un termine latino molto bello, questo
è curioso: de-sidus, letteralmente “la mancanza della stella”, desiderio è una
mancanza della stella, mancanza del punto di riferimento che orienta il cammino
della vita; essa evoca una sofferenza, una carenza, e nello stesso tempo una
tensione per raggiungere il bene che ci manca. Il desiderio allora è la bussola per
capire dove mi trovo e dove sto andando, anzi è la bussola per capire se sto fermo
o sto andando, una persona che mai desidera è una persona ferma, forse
ammalata, quasi morta. È la bussola se io sto andando o se io mi fermo. E come è
possibile riconoscerlo?

Pensiamo, un desiderio sincero sa toccare in profondità le corde del nostro essere,


per questo non si spegne di fronte alle difficoltà o ai contrattempi. È come quando
abbiamo sete: se non troviamo da bere, non per questo rinunciamo, anzi, la
ricerca occupa sempre più i nostri i pensieri e le nostre azioni, fino a che
diventiamo disposti a qualsiasi sacrificio per poterla placare, quasi ossessionato.
Ostacoli e insuccessi non soffocano il desiderio, no, al contrario lo rendono ancora
più vivo in noi.

A differenza della voglia o dell’emozione del momento, il desiderio dura nel


tempo, un tempo anche lungo, e tende a concretizzarsi. Se, per esempio, un
giovane desidera diventare medico, dovrà intraprendere un percorso di studi e di
lavoro che occuperà alcuni anni della sua vita, di conseguenza dovrà mettere dei
limiti, dire dei “no”, anzitutto ad altri percorsi di studio, ma anche a possibili
svaghi e distrazioni, specialmente nei momenti di studio più intenso. Però, il
desiderio di dare una direzione alla sua vita e di raggiungere quella meta -
arrivare medico era l’esempio - gli consente di superare queste difficoltà. Il
desiderio ti fa forte, ti fa coraggioso, ti fa andare avanti sempre perché tu vuoi
arrivare a quello: “Io desidero quello”.

In effetti, un valore diventa bello e più facilmente realizzabile quando è attraente.


Come ha detto qualcuno, «più che essere buoni è importante avere la voglia di
diventarlo». Essere buoni è una cosa attraente, tutti vogliamo essere buoni, ma
abbiamo la voglia di diventare buoni?

Colpisce il fatto che Gesù, prima di compiere un miracolo, spesso interroga la


persona sul suo desiderio: “Vuoi essere guarito?”. E a volte questa domanda
sembra fuori luogo, ma si vede che è ammalato! Ad esempio, quando incontra il
paralitico alla piscina di Betzatà, il quale stava lì da tanti anni e non riusciva mai
a cogliere il momento giusto per entrare nell’acqua. Gesù gli chiede: «Vuoi
guarire?» (Gv 5,6). Come mai? In realtà, la risposta del paralitico rivela una serie
di resistenze strane alla guarigione, che non riguardano soltanto lui. La domanda
di Gesù era un invito a fare chiarezza nel suo cuore, per accogliere un possibile
salto di qualità: non pensare più a sé stesso e alla propria vita “da paralitico”,
trasportato da altri. Ma l’uomo sul lettuccio non sembra esserne così convinto.
Dialogando con il Signore, impariamo a capire che cosa veramente vogliamo dalla
nostra vita. Questo paralitico è l’esempio tipico delle persone: “Sì, sì, voglio,
voglio” ma non voglio, non voglio, non faccio nulla. Il voler fare diventa come
un’illusione e non si fa il passo per farlo. Quella gente che vuole e non vuole. È
brutto questo e questo ammalato 38 anni lì, ma sempre con le lamentele: “No, sai
Signore ma sai che quando le acque si muovono – che è il momento del miracolo –
tu sai, viene qualcuno più forte di me, entra e io arrivo in ritardo”, e si lamenta e
si lamenta. Ma state attenti che le lamentele sono un veleno, un veleno all’anima,
un veleno alla vita perché non ti fanno crescere il desiderio di andare avanti.
State attenti con le lamentele. Quando si lamentano in famiglia, si lamentano i
coniugi, si lamentano uno dell’altro, i figli del papà o i preti del vescovo o i vescovi
di tante altre cose… No, se voi vi ritrovate in lamentela, state attenti, è quasi
peccato, perché non lascia crescere il desiderio.

Spesso è proprio il desiderio a fare la differenza tra un progetto riuscito, coerente


e duraturo, e le mille velleità e i tanti buoni propositi di cui, come si dice, “è
lastricato l’inferno”: “Sì, io vorrei, io vorrei, io vorrei…” ma non fai nulla. L’epoca
in cui viviamo sembra favorire la massima libertà di scelta, ma nello stesso tempo
atrofizza il desiderio - tu vuoi soddisfarti continuamente - per lo più ridotto alla
voglia del momento. E dobbiamo stare attenti a non atrofizzare il desiderio.
Siamo bombardati da mille proposte, progetti, possibilità, che rischiano di
distrarci e non permetterci di valutare con calma quello che veramente vogliamo.
Tante volte, troviamo gente - pensiamo ai giovani per esempio - con il telefonino
in mano e cercano, guardano… “Ma tu ti fermi per pensare?” – “No”. Sempre
estroverso, verso l’altro. Il desiderio non può crescere così, tu vivi il momento,
saziato nel momento e non cresce il desiderio.

Molte persone soffrono perché non sanno che cosa vogliono dalla propria vita;
probabilmente non hanno mai preso contatto con il loro desiderio profondo, mai
hanno saputo: “Cosa vuoi dalla tua vita?” – “Non so”. Da qui il rischio di
trascorrere l’esistenza tra tentativi ed espedienti di vario tipo, senza mai arrivare
da nessuna parte, e sciupando opportunità preziose. E così alcuni cambiamenti,
pur voluti in teoria, quando si presenta l’occasione non vengono mai attuati,
manca il desiderio forte di portare avanti una cosa.

Se il Signore rivolgesse a noi, oggi, per esempio, a uno qualsiasi di noi, la domanda
che ha fatto al cieco di Gerico: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51) –
pensiamo il Signore a ognuno di noi oggi domanda questo: “che cosa vuoi che io
faccia per te?” -, cosa risponderemmo? Forse, potremmo finalmente chiedergli di
aiutarci a conoscere il desiderio profondo di Lui, che Dio stesso ha messo nel
nostro cuore: “Signore che io conosca i miei desideri, che io sia una donna, un
uomo di grandi desideri” forse il Signore ci darà la forza di concretizzarlo. È una
grazia immensa, alla base di tutte le altre: consentire al Signore, come nel
Vangelo, di fare miracoli per noi: “Dacci il desiderio e fallo crescere, Signore”.

Perché anche Lui ha un grande desiderio nei nostri confronti: renderci partecipi
della sua pienezza di vita. Grazie.

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6. Gli elementi del discernimento. Il libro della propria vita

Cari fratelli e sorelle, benvenuti e buongiorno!

Nelle catechesi di queste settimane stiamo insistendo sui presupposti per fare un
buon discernimento. Nella vita dobbiamo prendere delle decisioni, sempre, e per
prendere le decisioni dobbiamo fare un cammino, una strada di discernimento.
Ogni attività importante ha le sue “istruzioni” da seguire, che vanno conosciute
perché possano produrre gli effetti necessari. Oggi ci soffermiamo su un altro
ingrediente indispensabile per il discernimento: la propria storia di vita.
Conoscere la propria storia di vita è un ingrediente – diciamo così – indispensabile
per il discernimento.

La nostra vita è il “libro” più prezioso che ci è stato consegnato, un libro che tanti
purtroppo non leggono, oppure lo fanno troppo tardi, prima di morire. Eppure,
proprio in quel libro si trova quello che si cerca inutilmente per altre vie.
Sant’Agostino, un grande cercatore della verità, lo aveva compreso proprio
rileggendo la sua vita, notando in essa i passi silenziosi e discreti, ma incisivi, della
presenza del Signore. Al termine di questo percorso noterà con stupore: «Tu eri
dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle
tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te» (Confessioni X, 27.38). Da qui il
suo invito a coltivare la vita interiore per trovare ciò che si cerca: «Rientra in te
stesso. Nell’uomo interiore abita la verità» (La vera religione, XXXIX, 72). Questo è
un invito che io farei a tutti voi, anche lo faccio a me stesso: “Rientra in te stesso.
Leggi la tua vita. Leggiti dentro, come è stato il tuo percorso. Con serenità. Rientra
in te stesso”.

Molte volte abbiamo fatto anche noi l’esperienza di Agostino, di ritrovarci


imprigionati da pensieri che ci allontanano da noi stessi, messaggi stereotipati che
ci fanno del male: per esempio, “io non valgo niente” – e tu vai giù; “a me tutto va
male” – e tu vai giù; “non realizzerò mai nulla di buono” – e tu vai giù, e così è la
vita. Queste frasi pessimiste che ti buttano giù! Leggere la propria storia significa
anche riconoscere la presenza di questi elementi “tossici”, ma per poi allargare la
trama del nostro racconto, imparando a notare altre cose, rendendolo più ricco,
più rispettoso della complessità, riuscendo anche a cogliere i modi discreti con cui
Dio agisce nella nostra vita. Io conobbi una volta una persona di cui la gente che la
conosceva diceva che meritava il Premio Nobel alla negatività: tutto era brutto,
tutto, e sempre cercava di buttarsi giù. Era una persona amareggiata eppure
aveva tante qualità. E poi questa persona ha trovato un’altra persona che l’ha
aiutata bene e ogni volta che si lamentava di qualcosa, l’altra diceva: “Ma adesso,
per compensare, di’ qualcosa buona di te”. E lui: “Ma, sì, … io ho anche questa
qualità”, e poco a poco lo ha aiutato ad andare avanti, a leggere bene la propria
vita, sia le cose brutte sia le cose buone. Dobbiamo leggere la nostra vita, e così
vediamo le cose che non sono buone e anche le cose buone che Dio semina in noi.

Abbiamo visto che il discernimento ha un approccio narrativo: non si sofferma


sull’azione puntuale, la inserisce in un contesto: da dove viene questo pensiero?
Questo che sento adesso, da dove viene? Dove mi porta, questo che sto pensando
adesso? Quando ho avuto modo di incontrarlo in precedenza? È una cosa nuova
che mi viene adesso, o altre volte l’ho trovata? Perché è più insistente di altri?
Cosa mi vuole dire la vita con questo?

Il racconto delle vicende della nostra vita consente anche di cogliere sfumature e
dettagli importanti, che possono rivelarsi aiuti preziosi fino a quel momento
rimasti nascosti. Per esempio, una lettura, un servizio, un incontro, a prima vista
ritenuti cose di poca importanza, nel tempo successivo trasmettono una pace
interiore, trasmettono la gioia di vivere e suggeriscono ulteriori iniziative di bene.
Fermarsi e riconoscere questo è indispensabile. Fermarsi è riconoscere: è
importante per il discernimento, è un lavoro di raccolta di quelle perle preziose e
nascoste che il Signore ha disseminato nel nostro terreno.

Il bene è nascosto, sempre, perché il bene ha pudore e si nasconde: il bene è


nascosto; è silenzioso, richiede uno scavo lento e continuo. Perché lo stile di Dio è
discreto: a Dio piace andare nascosto, con discrezione, non si impone; è come
l’aria che respiriamo, non la vediamo ma ci fa vivere, e ce ne accorgiamo solo
quando ci viene a mancare.

Abituarsi a rileggere la propria vita educa lo sguardo, lo affina, consente di notare


i piccoli miracoli che il buon Dio compie per noi ogni giorno. Quando ci facciamo
caso, notiamo altre direzioni possibili che rafforzano il gusto interiore, la pace e la
creatività. Soprattutto ci rende più liberi dagli stereotipi tossici. Saggiamente è
stato detto che l’uomo che non conosce il proprio passato è condannato a
ripeterlo. È curioso: se noi non conosciamo la strada fatta, il passato, lo ripetiamo
sempre, siamo circolari. La persona che cammina circolarmente non va avanti
mai, non c’è cammino, è come il cane che si morde la coda, va sempre così, e
ripete le cose.

Possiamo chiederci: io ho mai raccontato a qualcuno la mia vita? Questa è


un’esperienza bella dei fidanzati, che quando fanno sul serio raccontano la
propria vita … Si tratta di una delle forme di comunicazione più belle e intime,
raccontare la propria vita. Essa permette di scoprire cose fino a quel momento
sconosciute, piccole e semplici, ma, come dice il Vangelo, è proprio dalle piccole
cose che nascono le cose grandi (cfr Lc 16,10).

Anche le vite dei santi costituiscono un aiuto prezioso per riconoscere lo stile di
Dio nella propria vita: consentono di prendere familiarità con il suo modo di
agire. Alcuni comportamenti dei santi ci interpellano, ci mostrano nuovi
significati e nuove opportunità. È quanto accadde, per esempio, a Sant’Ignazio di
Loyola. Quando descrive la scoperta fondamentale della sua vita, aggiunge una
precisazione importante, e dice così: «Dall’esperienza aveva dedotto che alcuni
pensieri lo lasciavano triste, altri allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la
diversità dei pensieri, la diversità degli spiriti che si agitavano in lui» (Autob., n.
8). Conoscere cosa succede dentro di noi, conoscere, stare attenti.

Il discernimento è la lettura narrativa dei momenti belli e dei momenti bui, delle
consolazioni e delle desolazioni che sperimentiamo nel corso della nostra vita. Nel
discernimento è il cuore a parlarci di Dio, e noi dobbiamo imparare a
comprendere il suo linguaggio. Chiediamoci, alla fine della giornata, per esempio:
cosa è successo oggi nel mio cuore? Alcuni pensano che fare questo esame di
coscienza è fare la contabilità dei peccati che hai fatto - ne facciamo tanti -, ma è
anche chiedersi “Cosa è successo dentro di me, ho avuto gioia? Cosa mi ha portato
la gioia? Sono rimasto triste? Cosa mi ha portato la tristezza? E così imparare a
discernere cosa succede dentro di noi.

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7. La materia del discernimento. La desolazione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il discernimento, lo abbiamo visto nelle precedenti catechesi, non è


principalmente un procedimento logico; esso verte sulle azioni, e le azioni hanno
una connotazione affettiva anche, che va riconosciuta, perché Dio parla al cuore.
Entriamo allora in merito alla prima modalità affettiva, oggetto del discernimento,
cioè la desolazione. Di cosa si tratta?

La desolazione è stata così definita: «L’oscurità dell’anima, il turbamento


interiore, lo stimolo verso le cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta a diverse
agitazioni e tentazioni: così l’anima s’inclina alla sfiducia, è senza speranza, e
senza amore, e si ritrova pigra, tiepida, triste, come separata dal suo Creatore e
Signore» (S. Ignazio di L., Esercizi spirituali, 317). Tutti noi ne abbiamo esperienza.
Credo che in un modo o nell’altro, abbiamo fatto esperienza di questo, della
desolazione. Il problema è come poterla leggere, perché anch’essa ha qualcosa di
importante da dirci, e se abbiamo fretta di liberarcene, rischiamo di smarrirla.

Nessuno vorrebbe essere desolato, triste: questo è vero. Tutti vorremmo una vita
sempre gioiosa, allegra e appagata. Eppure questo, oltre a non essere possibile –
perché non è possibile –, non sarebbe neppure un bene per noi. Infatti, il
cambiamento di una vita orientata al vizio può iniziare da una situazione di
tristezza, di rimorso per ciò che si è fatto. È molto bella l’etimologia di questa
parola, “rimorso”: il rimorso della coscienza, tutti conosciamo questo. Rimorso:
letteralmente è la coscienza che morde, che non dà pace. Alessandro Manzoni, nei
Promessi sposi, ci ha dato una splendida descrizione del rimorso come occasione
per cambiare vita. Si tratta del celebre dialogo tra il cardinale Federico Borromeo
e l’Innominato, il quale, dopo una notte terribile, si presenta distrutto dal
cardinale, che si rivolge a lui con parole sorprendenti: «“Voi avete una buona
nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?”. “Una buona nuova, io?” – disse
l’altro. “Ho l’inferno nel cuore […]. Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona
nuova”. “Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo”, rispose pacatamente il
cardinale» (cap. XXIII). Dio tocca il cuore e ti viene qualcosa dentro, la tristezza, il
rimorso per qualche cosa, ed è un invito a iniziare una strada. L’uomo di Dio sa
notare in profondità ciò che si muove nel cuore.

È importante imparare a leggere la tristezza. Tutti conosciamo cosa sia la


tristezza: tutti. Ma sappiamo leggerla? Sappiamo capire cosa significa per me,
questa tristezza di oggi? Nel nostro tempo, essa – la tristezza – è considerata per lo
più negativamente, come un male da fuggire a tutti i costi, e invece può essere un
indispensabile campanello di allarme per la vita, invitandoci a esplorare paesaggi
più ricchi e fertili che la fugacità e l’evasione non consentono. San Tommaso
definisce la tristezza un dolore dell’anima: come i nervi per il corpo, essa ridesta
l’attenzione di fronte a un possibile pericolo, o a un bene disatteso (cfr Summa Th.
I-II, q. 36, a. 1). Per questo, essa è indispensabile per la nostra salute, ci protegge
perché non facciamo del male a noi stessi e ad altri. Sarebbe molto più grave e
pericoloso non avvertire questo sentimento e andare avanti. La tristezza alle volte
lavora come semaforo: “Fermati, fermati! È rosso, qui. Fermati”.

Per chi invece ha il desiderio di compiere il bene, la tristezza è un ostacolo con il


quale il tentatore vuole scoraggiarci. In tal caso, si deve agire in maniera
esattamente contraria a quanto suggerito, decisi a continuare quanto ci si era
proposto di fare (cfr Esercizi spirituali, 318). Pensiamo al lavoro, allo studio, alla
preghiera, a un impegno assunto: se li lasciassimo appena avvertiamo noia o
tristezza, non concluderemmo mai nulla. È anche questa un’esperienza comune
alla vita spirituale: la strada verso il bene, ricorda il Vangelo, è stretta e in salita,
richiede un combattimento, un vincere sé stessi. Inizio a pregare, o mi dedico a
un’opera buona e, stranamente, proprio allora mi vengono in mente cose da fare
con urgenza – per non pregare e per non fare le cose buone. Tutti abbiamo questa
esperienza. È importante, per chi vuole servire il Signore, non lasciarsi guidare
dalla desolazione. E questo “Ma no, non ho voglia, questo è noioso…”: stai attento.
Purtroppo, alcuni decidono di abbandonare la vita di preghiera, o la scelta
intrapresa, il matrimonio o la vita religiosa, spinti dalla desolazione, senza prima
fermarsi a leggere questo stato d’animo, e soprattutto senza l’aiuto di una guida.
Una regola saggia dice di non fare cambiamenti quando si è desolati. Sarà il tempo
successivo, più che l’umore del momento, a mostrare la bontà o meno delle nostre
scelte.

È interessante notare, nel Vangelo, che Gesù respinge le tentazioni con un


atteggiamento di ferma risolutezza (cfr Mt 3,14-15; 4,1-11; 16,21-23). Le situazioni
di prova gli giungono da varie parti, ma sempre, trovando in Lui questa fermezza,
decisa a compiere la volontà del Padre, vengono meno e cessano di ostacolare il
cammino. Nella vita spirituale la prova è un momento importante, la Bibbia lo
ricorda esplicitamente e dice così: «Se ti presenti per servire il Signore, preparati
alla tentazione» (Sir 2,1). Se tu vuoi andare sulla strada buona, preparati: ci
saranno ostacoli, ci saranno tentazioni, ci saranno momenti di tristezza. È come
quando un professore esamina lo studente: se vede che conosce i punti essenziali
della materia, non insiste: ha superato la prova. Ma deve superare la prova.

Se sappiamo attraversare solitudine e desolazione con apertura e consapevolezza,


possiamo uscirne rafforzati sotto l’aspetto umano e spirituale. Nessuna prova è al
di fuori della nostra portata; nessuna prova sarà superiore a quello che noi
possiamo fare. Ma non fuggire dalle prove: vedere cosa significa questa prova,
cosa significa che io sono triste: perché sono triste? Cosa significa che io in questo
momento sono in desolazione? Cosa significa che io sono in desolazione e non
posso andare avanti? San Paolo ricorda che nessuno è tentato oltre le sue
possibilità, perché il Signore non ci abbandona mai e, con Lui vicino, possiamo
vincere ogni tentazione (cfr 1 Cor 10,13). E se non la vinciamo oggi, ci alziamo
un’altra volta, camminiamo e la vinceremo domani. Ma non permanere morti –
diciamo così – non permanere vinti per un momento di tristezza, di desolazione:
andate avanti. Che il Signore ti benedica in questo cammino – coraggioso! – della
vita spirituale, che è sempre camminare.
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8. Perché siamo desolati?

Cari fratelli e sorelle, buongiorno, benvenuti!

Riprendiamo oggi le catechesi sul tema del discernimento. Abbiamo visto come sia
importante leggere ciò che si muove dentro di noi, per non prendere decisioni
affrettate, sull’onda dell’emozione del momento, salvo poi pentircene quando
ormai è troppo tardi. Cioè leggere cosa succede e poi prendere le decisioni.

In questo senso, anche lo stato spirituale che chiamiamo desolazione, quando nel
cuore è tutto buio, è triste, questo stato della desolazione può essere occasione di
crescita. Infatti, se non c’è un po’ di insoddisfazione, un po' di tristezza salutare,
una sana capacità di abitare nella solitudine e di stare con noi stessi senza fuggire,
rischiamo di rimanere sempre alla superficie delle cose e non prendere mai
contatto con il centro della nostra esistenza. La desolazione provoca uno
“scuotimento dell’anima”: quando uno è triste è come se l’anima si scuotesse;
mantiene desti, favorisce la vigilanza e l’umiltà e ci protegge dal vento del
capriccio. Sono condizioni indispensabili per il progresso nella vita, e quindi
anche nella vita spirituale. Una serenità perfetta ma “asettica”, senza sentimenti,
quando diventa il criterio di scelte e comportamenti, ci rende disumani. Noi non
possiamo non fare caso ai sentimenti: siamo umani e il sentimento è una parte
della nostra umanità; senza capire i sentimenti saremmo disumani, senza vivere i
sentimenti saremmo anche indifferenti alla sofferenza degli altri e incapaci di
accogliere la nostra. Senza considerare che tale “perfetta serenità” non la si
raggiunge per questa via dell’indifferenza. Questa distanza asettica: “Io non mi
mischio nelle cose, io prendo le distanze”: questo non è vita, questo è come se
vivessimo in un laboratorio, chiusi, per non avere dei microbi, delle malattie. Per
molti santi e sante, l’inquietudine è stata una spinta decisiva per dare una svolta
alla propria vita. Questa serenità artificiale, non va, mentre è buona la sana
inquietudine, il cuore inquieto, il cuore che cerca di cercare strada. È il caso, ad
esempio, di Agostino di Ippona o di Edith Stein o di Giuseppe Benedetto
Cottolengo o di Charles de Foucauld. Le scelte importanti hanno un prezzo che la
vita presenta, un prezzo che è alla portata di tutti: ossia, le scelte importanti non
vengono dalla lotteria, no; hanno un prezzo e tu devi pagare quel prezzo. È un
prezzo che tu devi fare con il tuo cuore, è un prezzo della decisione, un prezzo di
portare avanti un po' di sforzo. Non è gratis, ma è un prezzo alla portata di tutti.
Noi tutti dobbiamo pagare questa decisione per uscire dallo stato di indifferenza,
che ci butta giù, sempre.

La desolazione è anche un invito alla gratuità, a non agire sempre e solo in vista di
una gratificazione emotiva. Essere desolati ci offre la possibilità di crescere, di
iniziare una relazione più matura, più bella, con il Signore e con le persone care,
una relazione che non si riduca a un mero scambio di dare e avere. Pensiamo alla
nostra infanzia, per esempio, pensiamo: da bambini, capita spesso di cercare i
genitori per ottenere da loro qualcosa, un giocattolo, i soldi per comprare un
gelato, un permesso… E così li cerchiamo non per sé stessi, ma per un interesse.
Eppure, il dono più grande sono loro, i genitori, e questo lo capiamo man mano
che cresciamo.

Anche molte nostre preghiere sono un po’ di questo tipo, sono richieste di favori
rivolte al Signore, senza un vero interesse nei suoi confronti. Andiamo a chiedere,
chiedere, chiedere al Signore. Il Vangelo nota che Gesù era spesso circondato da
tanta gente che lo cercava per ottenere qualcosa, guarigioni, aiuti materiali, ma
non semplicemente per stare con Lui. Era pressato dalle folle, eppure era solo.
Alcuni santi, e anche alcuni artisti, hanno meditato su questa condizione di Gesù.
Potrebbe sembrare strano, irreale, chiedere al Signore: “Come stai?”. E invece è
una maniera molto bella di entrare in una relazione vera, sincera, con la sua
umanità, con la sua sofferenza, anche con la sua singolare solitudine. Con Lui, con
il Signore, che ha voluto condividere fino in fondo la sua vita con noi.

Ci fa tanto bene imparare a stare con Lui, a stare con il Signore senza altro scopo,
esattamente come ci succede con le persone a cui vogliamo bene: desideriamo
conoscerle sempre più, perché è bello stare con loro.

Cari fratelli e sorelle, la vita spirituale non è una tecnica a nostra disposizione,
non è un programma di “benessere” interiore che sta a noi programmare. No. La
vita spirituale è la relazione con il Vivente, con Dio, il Vivente, irriducibile alle
nostre categorie. E la desolazione allora è la risposta più chiara all’obiezione che
l’esperienza di Dio sia una forma di suggestione, una semplice proiezione dei
nostri desideri. La desolazione è non sentire niente, tutto buio: ma tu cerchi Dio
nella desolazione. In tal caso, se pensiamo che è una proiezione dei nostri
desideri, saremmo sempre noi a programmarla, saremmo sempre felici e contenti,
come un disco che ripete la medesima musica. Invece, chi prega si rende conto
che gli esiti sono imprevedibili: esperienze e passi della Bibbia che ci hanno spesso
entusiasmato, oggi, stranamente, non suscitano alcun trasporto. E, altrettanto
inaspettatamente, esperienze, incontri e letture a cui non si era mai fatto caso o
che si preferirebbe evitare – come l’esperienza della croce – portano una pace
immensa. Non avere paura alla desolazione, portarla avanti con perseveranza,
non fuggire. E nella desolazione cercare di trovare il cuore di Cristo, trovare il
Signore. E la risposta arriva, sempre.

Di fronte alle difficoltà, quindi, mai scoraggiarsi, per favore, ma affrontare la


prova con decisione, con l’aiuto della grazia di Dio che non ci viene mai a
mancare. E se sentiamo dentro di noi una voce insistente che vuole distoglierci
dalla preghiera, impariamo a smascherarla come la voce del tentatore; e non
lasciamoci impressionare: semplicemente, facciamo proprio il contrario di quello
che ci dice! Grazie.

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9. La consolazione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo le catechesi sul discernimento dello spirito: come discernere quello


che succede nel nostro cuore, nella nostra anima. E dopo aver considerato alcuni
aspetti della desolazione – quel buio dell’anima – parliamo oggi della consolazione,
che sarebbe la luce dell’anima, e che è un altro elemento importante per il
discernimento, e da non dare per scontato, perché può prestarsi a degli equivoci.
Noi dobbiamo capire cosa è la consolazione, come abbiamo cercato di capire bene
cosa è la desolazione.

Che cos’è la consolazione spirituale? È un’esperienza di gioia interiore, che


consente di vedere la presenza di Dio in tutte le cose; essa rafforza la fede e la
speranza, e anche la capacità di fare il bene. La persona che vive la consolazione
non si arrende di fronte alle difficoltà, perché sperimenta una pace più forte della
prova. Si tratta dunque di un grande dono per la vita spirituale e per la vita nel
suo insieme. E vivere questa gioia interiore.

La consolazione è un movimento intimo, che tocca il profondo di noi stessi. Non è


appariscente ma è soave, delicata, come una goccia d’acqua su una spugna (cfr S.
Ignazio di L., Esercizi spirituali, 335): la persona si sente avvolta dalla presenza di
Dio, in una maniera sempre rispettosa della propria libertà. Non è mai qualcosa di
stonato che cerca di forzare la nostra volontà, non è neppure un’euforia
passeggera: al contrario, come abbiamo visto, anche il dolore – ad esempio per i
propri peccati – può diventare motivo di consolazione.

Pensiamo all’esperienza vissuta da Sant’Agostino quando parla con la madre


Monica della bellezza della vita eterna; o alla perfetta letizia di San Francesco –
peraltro associata a situazioni molto dure da sopportare –; e pensiamo a tanti
santi e sante che hanno saputo fare grandi cose, non perché si ritenevano bravi e
capaci, ma perché conquistati dalla dolcezza pacificante dell’amore di Dio. È la
pace che notava in sé con stupore Sant’Ignazio quando leggeva le vite dei santi.
Essere consolato è stare in pace con Dio, sentire che tutto è sistemato in pace, tutto
è armonico dentro di noi. È la pace che prova Edith Stein dopo la conversione; un
anno dopo aver ricevuto il Battesimo, ella scrive – così dice Edith Stein: «Mentre
mi abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita nuova comincia a
colmarmi e – senza alcuna tensione della mia volontà – a spingermi verso nuove
realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra sgorgare da un’attività e da una forza
che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna violenza, diventa attiva in me»
(Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, 1996, 116). Cioè una pace genuina è
una pace che fa germogliare i buoni sentimenti in noi.

La consolazione riguarda anzitutto la speranza, è protesa al futuro, mette in


cammino, consente di prendere iniziative fino a quel momento sempre
rimandate, o neppure immaginate, come il Battesimo per Edith Stein.
La consolazione è una pace tale ma non per rimanere lì seduti godendola, no, ti dà
la pace e ti attira verso il Signore e ti mette in cammino per fare delle cose, per
fare cose buone. In tempo di consolazione, quando noi siamo consolati, ci viene la
voglia di fare tanto bene, sempre. Invece quando c’è il momento della
desolazione, ci viene la voglia di chiuderci in noi stessi e di non fare nulla. La
consolazione ti spinge avanti, al servizio degli altri, alla società, alle persone. La
consolazione spirituale non è “pilotabile” – tu non puoi dire adesso che venga la
consolazione, no, non è pilotabile – non è programmabile a piacere, è un dono
dello Spirito Santo: consente una familiarità con Dio che sembra annullare le
distanze. Santa Teresa di Gesù Bambino, visitando a quattordici anni, a Roma, la
basilica di Santa Croce in Gerusalemme, cerca di toccare il chiodo lì venerato, uno
di quelli con cui fu crocifisso Gesù. Teresa avverte questo suo ardimento come un
trasporto d’amore e di confidenza. E poi scrive: «Fui veramente troppo audace.
Ma il Signore vede il fondo dei cuori, sa che l’intenzione mia era pura […]. Agivo
con lui da bambina che si crede tutto permesso e considera come propri i tesori
del Padre» (Manoscritto Autobiografico, 183). La consolazione è spontanea, ti
porta a fare tutto spontaneo, come se fossimo bambini. I bambini sono spontanei,
e la consolazione ti porta ad essere spontaneo con una dolcezza, con una pace
molto grande. Una ragazza di quattordici anni ci dà una descrizione splendida
della consolazione spirituale: si avverte un senso di tenerezza verso Dio, che
rende audaci nel desiderio di partecipare della sua stessa vita, di fare ciò che gli è
gradito, perché ci sentiamo familiari con Lui, sentiamo che la sua casa è la nostra
casa, ci sentiamo accolti, amati, ristorati. Con questa consolazione non ci si
arrende di fronte alle difficoltà: infatti, con la medesima audacia, Teresa chiederà
al Papa il permesso di entrare al Carmelo, benché troppo giovane, e sarà esaudita.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la consolazione ci fa audaci: quando noi
siamo in tempo di buio, di desolazione, e pensiamo: “Questo non sono capace di
farlo”. Ti butta giù la desolazione, ti fa vedere tutto buio: “No, io non posso fare,
non lo farò”. Invece, in tempo di consolazione, vedi le stesse cose in modo diverso
e dici: “No, io vado avanti, lo faccio”. “Ma sei sicuro?” “Io sento la forza di Dio e
vado avanti”. E così la consolazione ti spinge ad andare avanti e a fare delle cose
che in tempo di desolazione tu non ne saresti capace; ti spinge a fare il primo
passo. Questo è il bello della consolazione.

Ma stiamo attenti. Dobbiamo distinguere bene la consolazione che è di Dio, dalle


false consolazioni. Nella vita spirituale avviene qualcosa di simile a quanto capita
nelle produzioni umane: ci sono gli originali e ci sono le imitazioni. Se la
consolazione autentica è come una goccia su una spugna, è soave e intima, le sue
imitazioni sono più rumorose e appariscenti, sono puro entusiasmo, sono fuochi
di paglia, senza consistenza, portano a ripiegarsi su sé stessi, e a non curarsi degli
altri. La falsa consolazione alla fine ci lascia vuoti, lontani dal centro della nostra
esistenza. Per questo, quando noi ci sentiamo felici, in pace, siamo capaci di fare
qualsiasi cosa. Ma non confondere quella pace con un entusiasmo passeggero,
perché l’entusiasmo oggi c’è, poi cade e non c’è più.

Per questo si deve fare discernimento, anche quando ci si sente consolati. Perché
la falsa consolazione può diventare un pericolo, se la ricerchiamo come fine a sé
stessa, in modo ossessivo, e dimenticandoci del Signore. Come direbbe San
Bernardo, si cercano le consolazioni di Dio e non si cerca il Dio delle consolazioni.
Noi dobbiamo cercare il Signore e il Signore, con la sua presenza, ci consola, ci fa
andare avanti. E non cercare Dio che ci porta le consolazioni, con questo
sottinteso, no, questo non va, non dobbiamo essere interessati a questo. È la
dinamica del bambino di cui parlavamo la volta scorsa, che cerca i genitori solo
per avere da loro delle cose, ma non per loro stessi: va per interesse. “Papà,
mamma” E i bambini sanno fare questo, sanno giocare e quando la famiglia è
divisa, e hanno questa abitudine di cercare lì e cercare qua, questo non fa bene,
questo non è consolazione, quello è interesse. Anche noi corriamo il rischio di
vivere la relazione con Dio in modo infantile, cercando il nostro interesse,
cercando di ridurre Dio a un oggetto a nostro uso e consumo, smarrendo il dono
più bello che è Lui stesso. Così andiamo avanti nella nostra vita, che procede fra le
consolazioni di Dio e le desolazioni del peccato del mondo, ma sapendo
distinguere quando è una consolazione di Dio, che ti dà pace fino al fondo
dell’anima, da quando è un entusiasmo passeggero che non è cattivo, ma non è la
consolazione di Dio.

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10. La consolazione autentica

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguendo la nostra riflessione sul discernimento, e in particolare


sull’esperienza spirituale chiamata “consolazione”, della quale abbiamo parlato
l’altro mercoledì, ci chiediamo: come riconoscere la vera consolazione? È una
domanda molto importante per un buon discernimento, per non essere ingannati
nella ricerca del nostro vero bene.

Possiamo trovare alcuni criteri in un passo degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio


di Loyola. «Se nei pensieri tutto è buono – dice Sant’Ignazio – il principio, il mezzo
e la fine, e se tutto è orientato verso il bene, questo è un segno dell’angelo buono.
Può darsi invece che nel corso dei pensieri si presenti qualche cosa cattiva o
distrattiva o meno buona di quella che l’anima prima si era proposta di fare,
oppure qualche cosa che indebolisce l’anima, la rende inquieta, la mette in
agitazione e le toglie la pace, le toglie la tranquillità e la calma che aveva prima:
questo allora è un chiaro segno che quei pensieri provengono dallo spirito cattivo»
(n. 333). Perché è vero: c’è una vera consolazione, ma ci sono anche delle
consolazioni che non sono vere. E per questo bisogna capire bene il percorso della
consolazione: come va e dove mi porta? Se mi porta a una cosa che va meno, che
non è buona, la consolazione non è vera, è “finta”, diciamo così.

E queste sono indicazioni preziose, che meritano un breve commento. Cosa


significa che il principio è orientato al bene, come dice Sant’Ignazio di una buona
consolazione? Ad esempio ho il pensiero di pregare, e noto che si accompagna ad
affetto verso il Signore e il prossimo, invita a compiere gesti di generosità, di
carità: è un principio buono. Può invece accadere che quel pensiero sorga per
evitare un lavoro o un incarico che mi è stato affidato: ogni volta che devo lavare i
piatti o pulire la casa, mi viene una grande voglia di mettermi a pregare! Succede
questo, nei conventi. Ma la preghiera non è una fuga dai propri compiti, al
contrario è un aiuto a realizzare quel bene che siamo chiamati a compiere, qui e
ora. Questo riguardo al principio.

C’è poi il mezzo: Sant’Ignazio diceva che il principio, il mezzo e la fine devono
essere buoni. Il principio è questo: io ho voglia di pregare per non lavare i piatti:
vai, lava i piatti e poi vai a pregare. Poi c’è il mezzo, vale a dire ciò che viene dopo,
ciò che segue quel pensiero. Rimanendo nell’esempio precedente, se comincio a
pregare e, come fa il fariseo della parabola (cfr Lc 18,9-14), tendo a compiacermi
di me stesso e a disprezzare gli altri, magari con animo risentito e acido, allora
questi sono segni che lo spirito cattivo ha usato quel pensiero come chiave di
accesso per entrare nel mio cuore e trasmettermi i suoi sentimenti. Se io vado a
pregare e mi viene in mente quello del fariseo famoso – “ti ringrazio, Signore,
perché io prego, non sono come l’altra gente che non ti cerca, non prega” – lì,
quella preghiera finisce male. Quella consolazione di pregare è per sentirsi un
pavone davanti a Dio. E questo è il mezzo che non va.
E poi c’è la fine: il principio, il mezzo e la fine. La fine è un aspetto che abbiamo
già incontrato, e cioè: dove mi porta un pensiero? Per esempio, dove mi porta il
pensiero di pregare. Ad esempio, qui può capitare che mi impegni a fondo per
un’opera bella e meritevole, ma questo mi spinge a non pregare più, perché sono
indaffarato da tante cose, mi scopro sempre più aggressivo e incattivito, ritengo
che tutto dipenda da me, fino a perdere fiducia in Dio. Qui evidentemente c’è
l’azione dello spirito cattivo. Io mi metto a pregare, poi nella preghiera mi sento
onnipotente, che tutto deve essere nelle mie mani perché io sono l’unico, l’unica
che sa portare avanti le cose: evidentemente non c’è il buono spirito lì. Occorre
esaminare bene il percorso dei nostri sentimenti e il percorso dei buoni
sentimenti, della consolazione, nel momento in cui io voglio fare qualcosa. Come è
il principio, come è la metà e come è la fine.

Lo stile del nemico – quando parliamo del nemico, parliamo del diavolo, perché il
demonio esiste, c’è! – il suo stile, lo sappiamo, è di presentarsi in maniera subdola,
mascherata: parte da ciò che ci sta maggiormente a cuore e poi ci attrae a sé, a
poco a poco: il male entra di nascosto, senza che la persona se ne accorga. E con il
tempo la soavità diventa durezza: quel pensiero si rivela per come è veramente.

Da qui l’importanza di questo paziente ma indispensabile esame dell’origine e


della verità dei propri pensieri; è un invito ad apprendere dalle esperienze, da
quello che ci capita, per non continuare a ripetere i medesimi errori. Quanto più
conosciamo noi stessi, tanto più avvertiamo da dove entra il cattivo spirito, le sue
“password”, le porte d’ingresso del nostro cuore, che sono i punti su cui siamo più
sensibili, così da farvi attenzione per il futuro. Ognuno di noi ha i punti più
sensibili, i punti più deboli della propria personalità: e da lì entra il cattivo spirito
e ci porta per la strada non giusta, o ci toglie dalla vera strada giusta. Vado a
pregare ma mi toglie dalla preghiera.

Gli esempi potrebbero essere moltiplicati a piacere, riflettendo sulle nostre


giornate. Per questo è così importante l’esame di coscienza quotidiano: prima di
finire la giornata, fermarsi un po’. Cosa è successo? Non nei giornali, non nella
vita: cosa è successo nel mio cuore? Il mio cuore è stato attento? È cresciuto? È
stata una strada che ha passato tutto, a mia insaputa? Cosa è successo nel mio
cuore? E questo esame è importante, è la fatica preziosa di rileggere il vissuto
sotto un particolare punto di vista. Accorgersi di ciò che capita è importante, è
segno che la grazia di Dio sta lavorando in noi, aiutandoci a crescere in libertà e
consapevolezza. Noi non siamo soli: è lo Spirito Santo che è con noi. Vediamo
come sono andate le cose.

La consolazione autentica è una sorta di conferma del fatto che stiamo compiendo
ciò che Dio vuole da noi, che camminiamo sulle sue strade, cioè nelle strade della
vita, della gioia, della pace. Il discernimento, infatti, non verte semplicemente sul
bene o sul massimo bene possibile, ma su ciò che è bene per me qui e ora: su
questo sono chiamato a crescere, mettendo dei limiti ad altre proposte, attraenti
ma irreali, per non essere ingannato nella ricerca del vero bene.

Fratelli e sorelle, bisogna capire, andare avanti nel capire cosa succede nel mio
cuore. E per questo ci vuole l’esame di coscienza, per vedere cosa è successo oggi.
“Oggi mi sono arrabbiato lì, non ho fatto quello…”: ma perché? Andare oltre il
perché è cercare la radice di questi sbagli. “Ma, oggi sono stato felice ma ero
noioso perché dovevo aiutare quella gente, ma alla fine mi sono sentito pieno,
piena per quell’aiuto”: e c’è lo Spirito Santo. Imparare a leggere nel libro del
nostro cuore cosa è successo durante la giornata. Fatelo, solo due minuti, ma vi
farà bene, ve lo assicuro.

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11. La conferma della buona scelta

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel processo del discernimento, è importante rimanere attenti anche alla fase che
immediatamente segue la decisione presa per cogliere i segni che la confermano
oppure quelli che la smentiscono. Io devo prendere una decisione, faccio il
discernimento, pro o contro, sentimenti, prego… poi finisce questo processo e
prendo la decisione e poi viene quella parte in cui dobbiamo essere attenti,
vedere. Perché nella vita ci sono decisioni che non sono buone e ci sono segni che
la smentiscono invece le buone la confermano.

Abbiamo visto infatti come il tempo sia un criterio fondamentale per riconoscere
la voce di Dio in mezzo a tante altre voci. Solo Lui è Signore del tempo: esso è un
marchio di garanzia della sua originalità, che lo differenzia dalle imitazioni che
parlano a suo nome senza riuscirci. Uno dei segni distintivi dello spirito buono è il
fatto che esso comunica una pace che dura nel tempo. Se tu fai un
approfondimento, poi prendi la decisione e questo ti dà una pace che dura nel
tempo, questo è un buon segnale e indica che la strada è stata bella. Una pace che
porta armonia, unità, fervore, zelo. Tu esci dal processo di approfondimento
migliore di come sei entrato.

Per esempio, se prendo la decisione di dedicare mezz’ora in più alla preghiera, e


poi mi accorgo che vivo meglio gli altri momenti della giornata, sono più sereno,
meno ansioso, svolgo con più cura e gusto il lavoro, anche le relazioni con alcune
persone difficili diventano più agevoli…: questi sono tutti segni importanti che
vanno in favore della bontà della decisione presa. La vita spirituale è circolare: la
bontà di una scelta è di giovamento a tutti gli ambiti della nostra vita. Perché è
partecipazione alla creatività di Dio.

Possiamo riconoscere alcuni aspetti importanti che aiutano a leggere il tempo


successivo alla decisione come possibile conferma della sua bontà, perché il tempo
successivo conferma la bontà della decisione. Questi aspetti importanti li abbiamo
in qualche modo già incontrati nel corso di queste catechesi ma ora trovano una
loro ulteriore applicazione.

Un primo aspetto è se la decisione viene considerata come un possibile segno di


risposta all’amore e alla generosità che il Signore ha nei miei confronti. Non nasce
da paura, non nasce da un ricatto affettivo o da una costrizione, ma nasce dalla
gratitudine per il bene ricevuto, che muove il cuore a vivere con liberalità la
relazione con il Signore.

Un altro elemento importante è la consapevolezza di sentirsi al proprio posto nella


vita – quella tranquillità: “Sono al mio posto” -, e sentirsi parte di un disegno più
grande, a cui si desidera offrire il proprio contributo. In Piazza San Pietro ci sono
due punti precisi – i fuochi dell’ellisse – da cui si vedono le colonne del Bernini
perfettamente allineate. In maniera analoga, l’uomo può riconoscere di aver
trovato quello che sta cercando quando la sua giornata diviene più ordinata,
avverte una crescente integrazione tra i suoi molteplici interessi, stabilisce una
corretta gerarchia di importanza e riesce a vivere tutto ciò con facilità,
affrontando con rinnovata energia e forza d’animo le difficoltà che si presentano.
Questi sono segnali che tu hai preso una buona decisione.

Un altro buon segno, per esempio, di conferma è il fatto di rimanere liberi nei
confronti di quanto deciso, disposti a rimetterlo in discussione, anche a
rinunciarvi di fronte a possibili smentite, cercando di trovare in esse un possibile
insegnamento del Signore. Questo non perché Lui voglia privarci di ciò che ci è
caro, ma per viverlo con libertà, senza attaccamento. Solo Dio sa che cosa è
veramente buono per noi. La possessività è nemica del bene e uccide l’affetto,
state attenti a questo: i tanti casi di violenza in ambito domestico, di cui abbiamo
purtroppo notizie frequenti, nascono quasi sempre dalla pretesa di possedere
l’affetto dell’altro, dalla ricerca di una sicurezza assoluta che uccide la libertà e
soffoca la vita, rendendola un inferno.

Possiamo amare solo nella libertà, per questo il Signore ci ha creato liberi, liberi
anche di dirgli di no. Offrire a Lui ciò che abbiamo di più caro è nel nostro
interesse, ci consente di viverlo nella maniera migliore possibile e nella verità,
come un dono che ci ha fatto, come un segno della sua bontà gratuita, sapendo che
la nostra vita, così come la storia intera, è nelle sue mani benevole. È quello che la
Bibbia chiama il timore di Dio, cioè il rispetto di Dio, no che Dio mi spaventi, no,
ma un rispetto una condizione indispensabile per accogliere il dono della
Sapienza (cfr Sir 1,1-18). È il timore che scaccia ogni altro timore, perché orientato
a Colui che è Signore di tutte le cose. Di fronte a Lui nulla può inquietarci. È
l’esperienza stupita di San Paolo, che diceva così: «Ho imparato ad essere povero e
ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e
alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza»
(Fil 4,12-13). Questo è l’uomo libero, che benedice il Signore sia quando vengono le
cose buone sia quando vengono le cose non tanto buone: benedetto sia e andiamo
avanti!

Riconoscere questo è fondamentale per una buona decisione, e rassicura su ciò


che non possiamo controllare o prevedere: la salute, il futuro, le persone care, i
nostri progetti. Ciò che conta è che la nostra fiducia sia riposta nel Signore
dell’universo, che ci ama immensamente e sa che possiamo costruire con Lui
qualcosa di stupendo, qualcosa di eterno. Le vite dei santi ce lo mostrano nella
maniera più bella. Andiamo avanti sempre cercando di prendere delle decisioni
così, in preghiera e sentendo cosa succede nel nostro cuore e andare avanti
lentamente, coraggio!

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12. La vigilanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Entriamo ormai nella fase finale di questo percorso di catechesi sul


discernimento. Siamo partiti dall’esempio di Sant’Ignazio di Loyola; abbiamo poi
considerato gli elementi del discernimento – cioè la preghiera, il conoscere sé
stessi, il desiderio e il “libro della vita” –; ci siamo soffermati sulla desolazione e la
consolazione, che ne formano la “materia”; e quindi siamo giunti alla conferma
della scelta fatta.

Ritengo necessario inserire a questo punto il richiamo a un atteggiamento


essenziale affinché tutto il lavoro fatto per discernere il meglio e prendere la
buona decisione non vada perduto, e questo sarebbe l’atteggiamento della
vigilanza. Noi abbiamo fatto il discernimento, consolazione e desolazione;
abbiamo scelto una cosa… tutto va bene, ma adesso vigilare: l’atteggiamento della
vigilanza. Perché in effetti il rischio c’è, come abbiamo sentito nel brano del
Vangelo che è stato letto. Il rischio c’è, ed è che il “guastafeste”, cioè il Maligno,
possa rovinare tutto, facendoci tornare al punto di partenza, anzi, in una
condizione ancora peggiore. E questo succede, per questo bisogna stare attenti e
vigilare. Ecco perché è indispensabile essere vigilanti. Pertanto oggi mi è
sembrato opportuno mettere in risalto questo atteggiamento, di cui tutti abbiamo
bisogno perché il processo di discernimento vada a buon fine e rimanga lì.

In effetti, nella sua predicazione Gesù insiste molto sul fatto che il buon discepolo
è vigilante, non si addormenta, non si lascia prendere da eccessiva sicurezza
quando le cose vanno bene, ma rimane attento e pronto a fare il proprio dovere.

Per esempio, nel Vangelo di Luca, Gesù dice: «Siate pronti, con le vesti strette ai
fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone
quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che al suo ritorno il padrone troverà ancora svegli» (12,35-37).

Vigilare per custodire il nostro cuore e capire cosa succede dentro. Si tratta della
disposizione d’animo dei cristiani che aspettano la venuta finale del Signore; ma si
può intendere anche come l’atteggiamento ordinario da tenere nella condotta di
vita, in modo che le nostre buone scelte, compiute a volte dopo un impegnativo
discernimento, possano proseguire in maniera perseverante e coerente e portare
frutto.

Se manca la vigilanza, è molto forte, come dicevamo, il rischio che tutto vada
perduto. Non si tratta di un pericolo di ordine psicologico, ma di ordine spirituale,
una vera insidia dello spirito cattivo. Questo, infatti, aspetta proprio il momento
in cui noi siamo troppo sicuri di noi stessi, è questo il pericolo: “Sono sicuro di me
stesso, ho vinto, adesso sto bene…” è quel momento che lo spirito cattivo aspetta,
quando tutto va bene, quando le cose vanno “a gonfie vele” e abbiamo, come si
dice, “il vento in poppa”. In effetti, nella piccola parabola evangelica che abbiamo
ascoltato, si dice che lo spirto impuro, quando ritorna nella casa da cui era uscito,
«la trova vuota, spazzata e adorna» (Mt 12,44). Tutto è a posto, tutto è in ordine,
ma il padrone di casa dov’è? Non c’è. Non c’è nessuno che la vigili e che la
custodisca. È questo è il problema. Il padrone di casa non c’è, è uscito, si è
distratto, oppure è in casa ma addormentato, e dunque è come se non si fosse.
Non è vigilante, non è attento, perché è troppo sicuro di sé e ha perso l’umiltà di
custodire il proprio cuore. Dobbiamo custodire sempre la nostra casa, il nostro
cuore e non essere distratti e andare… perché qui è il problema, come diceva la
Parabola.

Allora, lo spirito cattivo può approfittarne e ritornare in quella casa. Dice il


Vangelo che però non ci torna da solo, ma insieme ad altri «sette spiriti peggiori di
lui» (v. 45). Una compagnia di malaffare, una banda di delinquenti. Ma – ci
chiediamo – com’è possibile che possano entrare indisturbati? Come mai il
padrone non se ne accorge? Non era stato così bravo a fare il discernimento e a
cacciarli via? Non aveva avuto anche i complimenti dei suoi amici e dei vicini per
quella casa così bella ed elegante, così ordinata e pulita? Già, ma forse proprio per
questo si era innamorato troppo della casa, cioè di sé stesso, e aveva smesso di
aspettare il Signore, di attendere la venuta dello Sposo; forse per paura di
rovinare quell’ordine non accoglieva più nessuno, non invitava i poveri, i senza
tetto, quelli che disturbano… Una cosa è certa: qui c’è di mezzo il cattivo orgoglio,
la presunzione di essere giusti, di essere bravi, di essere a posto. Tante volte
sentiamo dire: “Sì, io ero cattivo prima, mi sono convertito e adesso, ora la casa è
in ordine grazie a Dio, e stai tranquillo per questo…” Quando confidiamo troppo
in noi stessi e non nella grazia di Dio, allora il Maligno trova la porta aperta.
Allora organizza la spedizione e prende possesso di quella casa. E Gesù conclude:
«La condizione di quell’uomo diventa peggiore di prima» (v. 45).

Ma il padrone non se ne accorge? No, perché questi sono i demoni educati:


entrano senza che tu te ne accorga, bussano alla porta, sono cortesi. “No va bene,
vai, vai, entra…” e poi alla fine comandano loro nella tua anima. State attenti a
questi diavoletti, a questi demoni: il diavolo è educato, quando fa finta di essere
un gran signore. Perché entra con la nostra per uscirne con la sua. Occorre
custodire la casa da questo inganno dei demoni educati. E la mondanità spirituale
va per questa strada, sempre.

Cari fratelli e sorelle, sembra impossibile ma è così. Tante volte perdiamo, siamo
vinti nelle battaglie, per questa mancanza di vigilanza. Tante volte, forse, il
Signore ha dato tante grazie e alla fine non siamo capaci di perseverare in questa
grazia e perdiamo tutto, perché ci manca la vigilanza: non abbiamo custodito le
porte. E poi siamo stati ingannati da qualcuno che viene, educato, e si mette
dentro e ciao… il diavolo ha queste cose. Ciascuno può anche verificarlo
ripensando alla propria storia personale. Non basta fare un buon discernimento e
compiere una buona scelta. No, non basta: bisogna rimanere vigilanti, custodire
questa grazia che Dio ci ha dato, ma vigilare, perché tu puoi dirmi: “Ma quando io
vedo qualche disordine, me ne accorgo subito che è il diavolo, che è una
tentazione…” sì, ma questa volta viene travestita da angelo: il demonio sa
travestirsi da angelo, entra con parole cortesi, e ti convince e alla fine è la cosa
peggiore dall’inizio… Bisogna rimanere vigilanti, vigilare il cuore. Se io
domandassi oggi ad ognuno di noi e anche a me stesso: “cosa sta succedendo nel
tuo cuore?” Forse non sapremo dire tutto: diremo una o due cose, ma non tutto.
Vigliare il cuore, perché la vigilanza è segno di saggezza, è segno soprattutto di
umiltà, perché abbiamo paura di cadere e l’umiltà che è la via maestra della vita
cristiana.

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13. Alcuni aiuti per il discernimento

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Continuiamo – stanno finendo – le catechesi sul discernimento, e chi ha seguito


finora queste catechesi potrebbe forse pensare: ma che pratica complicata è
discernere! In realtà, è la vita ad essere complicata e, se non impariamo a leggerla,
complicata com’è, rischiamo di sprecarla, portandola avanti con espedienti che
finiscono per avvilirci.

Nel nostro primo incontro avevamo visto che sempre, ogni giorno, che lo
vogliamo o no, compiamo atti di discernimento, in quello che mangiamo,
leggiamo, sul lavoro, nelle relazioni, in tutto. La vita ci mette sempre di fronte a
delle scelte, e se non le compiamo in maniera consapevole, alla fine è la vita a
scegliere per noi, portandoci dove non vorremmo.

Il discernimento però non si fa da soli. Oggi entriamo più specificamente in


merito ad alcuni aiuti che possono rendere più agevole questo esercizio del
discernimento, indispensabile della vita spirituale, anche se in qualche modo li
abbiamo già incontrati nel corso di queste catechesi. Ma un riassunto ci aiuterà
tanto.

Un primo aiuto indispensabile è il confronto con la Parola di Dio e la dottrina della


Chiesa. Esse ci aiutano a leggere ciò che si muove nel cuore, imparando a
riconoscere la voce di Dio e a distinguerla da altre voci, che sembrano imporsi alla
nostra attenzione, ma che ci lasciano alla fine confusi. La Bibbia ci avverte che la
voce di Dio risuona nella calma, nell’attenzione, nel silenzio. Pensiamo
all’esperienza del profeta Elia: il Signore gli parla non nel vento che spacca le
pietre, non nel fuoco o nel terremoto, ma gli parla in una brezza leggera (cfr 1 Re
19,11-12). È un’immagine molto bella che ci fa capire come parla Dio. La voce di
Dio non si impone, la voce di Dio è discreta, rispettosa, io mi permetterei di dire:
la voce di Dio è umile, e proprio per questo pacificante. E solo nella pace possiamo
entrare nel profondo di noi stessi e riconoscere i desideri autentici che il Signore
ha messo nel nostro cuore. E tante volte non è facile entrare in quella pace del
cuore, perché siamo indaffarati in tante cose tutta la giornata… Ma per favore,
calmati un po’, entra in te stesso, in te stessa. Due minuti, fermati. Guarda cosa
sente il tuo cuore. Facciamo questo, fratelli e sorelle, ci aiuterà tanto, perché in
quel momento di calma sentiamo subito la voce di Dio che ci dice: “Ma guarda,
guarda con questo, buono questo che stai facendo…”. Lasciamo nella calma che
venga subito la voce di Dio. Ci aspetta per questo.

Per il credente, la Parola di Dio non è semplicemente un testo da leggere, la Parola


di Dio è una presenza viva, è un’opera dello Spirito Santo che conforta, istruisce,
dà luce, forza, ristoro e gusto di vivere. Leggere la Bibbia, leggere un pezzo, uno o
due pezzetti della Bibbia, sono come piccoli telegrammi di Dio che ti arrivano
subito al cuore. La Parola di Dio è un po’ – e non esagero – è un po’ un vero
anticipo di paradiso. E lo aveva ben compreso un grande santo e pastore,
Ambrogio, vescovo di Milano, che scriveva: «Quando leggo la Divina Scrittura, Dio
torna a passeggiare nel paradiso terrestre» (Lett., 49,3). Con la Bibbia noi apriamo
la porta a Dio che passeggia. Interessante…

Questo rapporto affettivo con la Bibbia, con la Scrittura, con il Vangelo, porta a
vivere una relazione affettiva con il Signore Gesù: non avere paura di questo! Il
cuore parla al cuore, e questa è un altro aiuto indispensabile e non scontato.
Molte volte possiamo avere un’idea distorta di Dio, considerandolo come un
giudice arcigno, un giudice severo, pronto a coglierci in fallo. Gesù, al contrario, ci
rivela un Dio pieno di compassione e di tenerezza, pronto a sacrificare sé stesso
pur di venirci incontro, proprio come il padre della parabola del figlio prodigo (cfr
Lc 15,11-32). Una volta, uno ha chiesto – non so se alla mamma o alla nonna, me
l’hanno raccontato – “Ma cosa devo fare, in questo momento?” – “Ascolta Dio, Lui
ti dirà cosa dovrai fare. Apri il cuore a Dio”: un bel consiglio. Ricordo una volta, in
un pellegrinaggio di giovani, che si fa una volta l’anno al Santuario di Luján, a 70
km da Buenos Aires: si fa tutta la giornata per arrivare lì; io avevo l’abitudine di
confessare durante la notte. Si è avvicinato un ragazzo, 22 anni circa, tutto con
tatuaggi. “Dio mio – ho pensato io – cosa sarà questo?”. E m’ha detto: “Lei sa, sono
venuto perché ho un problema grave e io l’ho raccontato alla mamma e la
mamma mi ha detto: ‘Vai dalla Madonna, fai il pellegrinaggio, e la Madonna ti
dirà’. E sono venuto. Ho avuto contatto con la Bibbia, qui, ho ascoltato la Parola di
Dio e mi ha toccato il cuore e devo fare questo, questo, questo, questo, questo”. La
Parola di Dio ti tocca il cuore e ti cambia la vita. E così io l’ho visto tante volte,
questo, tante volte. Perché Dio non vuole distruggerci, Dio vuole che siamo più
forti, più buoni ogni giorno. Chi rimane di fronte al Crocifisso avverte una pace
nuova, impara a non avere paura di Dio, perché Gesù sulla croce non fa paura a
nessuno, è l’immagine dell’impotenza totale e insieme dell’amore più pieno,
capace di affrontare ogni prova per noi. I santi hanno sempre avuto una
predilezione per Gesù Crocifisso. Il racconto della Passione di Gesù è la via
maestra per confrontarci con il male senza esserne travolti; in essa non c’è
giudizio e nemmeno rassegnazione, perché è attraversata da una luce più grande,
la luce della Pasqua, che consente di vedere in quelle azioni terribili un disegno
più grande, che nessun impedimento, ostacolo o fallimento può vanificare. La
Parola di Dio sempre ti fa guardare dall’altra parte: cioè, c’è la croce, qui, è brutto,
ma c’è un’altra cosa, una speranza, una resurrezione. La Parola di Dio ti apre tutte
le porte, perché Lui, il Signore, è la porta. Prendiamo il Vangelo, prendiamo la
Bibbia in mano: cinque minuti al giorno, non di più. Portate un Vangelo tascabile
con voi, nella borsa, e quando sarete in viaggio prendetelo e leggete un po’,
durante la giornata, un pezzettino, lasciare che la Parola di Dio si avvicini al
cuore. Fate questo e vedrete come cambierà la vostra vita con la vicinanza alla
Parola di Dio. “Sì, Padre, ma io sono abituato a leggere la Vita dei Santi”: questo fa
bene, fa bene, ma non lasciare la Parola di Dio. Prendi il Vangelo con te, e leggilo
anche solo un minuto al giorno.

È molto bello pensare alla vita con il Signore come una relazione di amicizia che
cresce giorno dopo giorno. Avete pensato a questo? È la strada! Pensiamo a Dio
che ci ama, ci vuole amici! L’amicizia con Dio ha la capacità di cambiare il cuore; è
uno dei grandi doni dello Spirito Santo, la pietà, che ci rende capaci di riconoscere
la paternità di Dio. Abbiamo un Padre tenero, un Padre affettuoso, un Padre che ci
ama, che ci ha amato da sempre: quando se ne fa esperienza, il cuore si scioglie e
cadono dubbi, paure, sensazione di indegnità. Nulla può opporsi a questo amore
dell’incontro con il Signore.

E questo ci ricorda un altro grande aiuto, il dono dello Spirito Santo, che è presente
in noi, e che ci istruisce, rende viva la Parola di Dio che leggiamo, suggerisce
significati nuovi, apre porte che sembravano chiuse, indica sentieri di vita là dove
sembrava ci fossero solo buio e confusione. Io vi domando: voi pregate lo Spirito
Santo? Ma chi è questo grande Sconosciuto? Noi preghiamo il Padre, sì, il Padre
Nostro, preghiamo Gesù, ma dimentichiamo lo Spirito! Una volta, facendo la
catechesi ai bambini, ho fatto la domanda: “Chi di voi sa chi è lo Spirito Santo?”. E
un bambino: “Io lo so!” – “E chi è?” – “Il paralitico”, mi ha detto! Lui aveva sentito
“il Paraclito”, e pensava che fosse un paralitico. E tante volte – questo mi ha fatto
pensare – per noi lo Spirito Santo è lì, come se fosse una Persona che non conta.
Lo Spirito Santo è quello che ti dà vita all’anima! Lasciatelo entrare. Parlate con lo
Spirito così come parlate con il Padre, come parlate con il Figlio: parlate con lo
Spirito Santo – che non ha niente di paralitico! In Lui c’è la forza della Chiesa, è
quello che ti porta avanti. Lo Spirito Santo è discernimento in azione, presenza di
Dio in noi, è il dono, il regalo più grande che il Padre assicura a coloro che lo
chiedono (cfr Lc 11,13). E Gesù come lo chiama? “Il dono”: “Rimanete qui a
Gerusalemme aspettando il dono di Dio”, che è lo Spirito Santo. È interessante
portare la vita in amicizia con lo Spirito Santo: Lui ti cambia, Lui ti fa crescere.

La Liturgia delle Ore fa iniziare i principali momenti di preghiera della giornata


con questa invocazione: «O Dio vieni a salvarmi, Signore vieni presto in mio
aiuto». “Signore, aiutami!”, perché da solo non posso andare avanti, non posso
amare, non posso vivere… Questa invocazione di salvezza è la richiesta
insopprimibile che sgorga dal profondo del nostro essere. Il discernimento ha lo
scopo di riconoscere la salvezza operata dal Signore nella mia vita, mi ricorda che
non sono mai solo e che, se sto lottando, è perché la posta in gioco è importante.
Lo Spirito Santo sempre è con noi. “Oh, Padre, ho fatto una cosa brutta, devo
andare a confessarmi, non posso fare nulla…”. Ma, hai fatto una cosa brutta?
Parla allo Spirito che è con te e digli: “Aiutami, ho fatto questo di bruttissimo”. Ma
non cancellare il dialogo con lo Spirito Santo. “Padre, sono in peccato mortale”:
non importa, parla con Lui così ti aiuta a ricevere il perdono. Mai lasciare questo
dialogo con lo Spirito Santo. E con questi aiuti, che il Signore ci dà, non dobbiamo
temere. Avanti, coraggio e con gioia!

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14. L’accompagnamento spirituale

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Prima di iniziare questa catechesi vorrei che ci unissimo a quanti, qui accanto,
stanno rendendo omaggio a Benedetto XVI e rivolgere il mio pensiero a lui, che è
stato un grande maestro di catechesi. Il suo pensiero acuto e garbato non è stato
autoreferenziale, ma ecclesiale, perché sempre ha voluto accompagnarci
all’incontro con Gesù. Gesù, il Crocifisso risorto, il Vivente e il Signore, è stata la
meta a cui Papa Benedetto ci ha condotto, prendendoci per mano. Ci aiuti a
riscoprire in Cristo la gioia di credere e la speranza di vivere.

Con questa catechesi di oggi concludiamo il ciclo dedicato al tema del


discernimento, e lo facciamo completando il discorso sugli aiuti che possono e
devono sostenerlo: sostenere il processo di discernimento. Uno di questi è
l’accompagnamento spirituale, importante anzitutto per la conoscenza di sé, che
abbiamo visto essere una condizione indispensabile per il discernimento.
Guardarsi allo specchio, da soli, non sempre aiuta, perché uno può alterare
l’immagine. Invece, guardarsi allo specchio con l’aiuto di un altro, questo aiuta
tanto perché l’altro ti dice la verità – quando è veritiero – e così ti aiuta.

La grazia di Dio in noi lavora sempre sulla nostra natura. Pensando a una
parabola evangelica, la grazia possiamo paragonarla al buon seme e la natura al
terreno (cfr Mc 4,3-9). È importante anzitutto farsi conoscere, senza timore di
condividere gli aspetti più fragili, dove ci scopriamo più sensibili, deboli o
timorosi di essere giudicati. Farsi conoscere, manifestare se stesso a una persona
che ci accompagni nel cammino della vita. Non che decida per noi, no: ma che ci
accompagni. Perché la fragilità è, in realtà, la nostra vera ricchezza: noi siamo
ricchi in fragilità, tutti; la vera ricchezza, che dobbiamo imparare a rispettare e ad
accogliere, perché, quando viene offerta a Dio, ci rende capaci di tenerezza, di
misericordia e di amore. Guai a quelle persone che non si sentono fragili: sono
dure, dittatoriali. Invece, le persone che con umiltà riconoscono le proprie
fragilità sono più comprensive con gli altri. La fragilità – io posso dire – ci rende
umani. Non a caso, la prima delle tre tentazioni di Gesù nel deserto – quella legata
alla fame – cerca di rubarci la fragilità, presentandocela come un male di cui
sbarazzarsi, un impedimento a essere come Dio. E invece è il nostro tesoro più
prezioso: infatti Dio, per renderci simili a Lui, ha voluto condividere fino in fondo
la nostra propria fragilità. Guardiamo il crocifisso: Dio che è sceso proprio alla
fragilità. Guardiamo il presepio che arriva in una fragilità umana grande. Lui ha
condiviso la nostra fragilità.

E l’accompagnamento spirituale, se è docile allo Spirito Santo, aiuta a smascherare


equivoci anche gravi nella considerazione di noi stessi e nella relazione con il
Signore. Il Vangelo presenta diversi esempi di colloqui chiarificatori e liberanti
fatti da Gesù. Pensiamo, ad esempio, a quelli con la Samaritana, che noi lo
leggiamo, lo leggiamo, e sempre c’è questa saggezza e tenerezza di Gesù; pensiamo
a quello con Zaccheo, pensiamo con la donna peccatrice, pensiamo con Nicodemo
e con i discepoli di Emmaus: il modo di avvicinarsi del Signore. Le persone che
hanno un incontro vero con Gesù non hanno timore di aprirgli il cuore, di
presentare la propria vulnerabilità, la propria inadeguatezza, la propria fragilità.
In questo modo, la loro condivisione di sé diventa esperienza di salvezza, di
perdono gratuitamente accolto.

Raccontare di fronte a un altro ciò che abbiamo vissuto o che stiamo cercando
aiuta a fare chiarezza in noi stessi, portando alla luce i tanti pensieri che ci abitano,
e che spesso ci inquietano con i loro ritornelli insistenti. Quante volte, in momenti
bui, ci vengono i pensieri così: “Ho sbagliato tutto, non valgo niente, nessuno mi
capisce, non ce la farò mai, sono destinato al fallimento”, quante volte è venuto a
noi pensare queste cose. Pensieri falsi e velenosi, che il confronto con l’altro aiuta
a smascherare, così che possiamo sentirci amati e stimati dal Signore per come
siamo, capaci di fare cose buone per Lui. Scopriamo con sorpresa modi differenti
di vedere le cose, segnali di bene da sempre presenti in noi. È vero, noi possiamo
condividere le nostre fragilità con l’altro, con quello che ci accompagna nella vita,
nella vita spirituale, il maestro di vita spirituale, sia un laico, un sacerdote e dire:
“Guarda cosa succede a me: sono un disgraziato, mi stanno succedendo queste
cose”. E colui che accompagna risponde: “Sì, tutti ne abbiamo di queste cose”.
Questo ci aiuta a chiarirle bene e vedere da dove vengono le radici e così
superarle.

Colui o colei che accompagna – l’accompagnatore o l’accompagnatrice – non si


sostituisce al Signore, non fa il lavoro al posto della persona accompagnata, ma
cammina al suo fianco, la incoraggia a leggere ciò che si muove nel suo cuore, il
luogo per eccellenza dove il Signore parla. L’accompagnatore spirituale, che noi
chiamiamo direttore spirituale – non mi piace questo temine, preferisco
accompagnatore spirituale, è meglio – è quello che ti dice: “Va bene, ma guarda
qui, guarda qui”, ti attira l’attenzione su cose che forse passano; ti aiuta a capire
meglio i segni dei tempi, la voce del Signore, la voce del tentatore, la voce delle
difficoltà che non riesci a superare. Per questo è molto importante non
camminare da soli. C’è un detto della saggezza africana – perché loro hanno
quella mistica della tribù –che dice: “Se tu vuoi arrivare in fretta, vai da solo; se tu
vuoi arrivare sicuro, vai con gli altri”, vai accompagnato, vai con il tuo popolo. È
importante. Nella vita spirituale è meglio farsi accompagnare da qualcuno che
conosca le cose nostre e ci aiuti. E questo è l’accompagnamento spirituale.

Questo ccompagnamento può essere fruttuoso se, da una parte e dall’altra, si è


fatta esperienza della figliolanza e della fratellanza spirituale. Scopriamo di essere
figli di Dio nel momento in cui ci scopriamo fratelli, figli dello stesso Padre. Per
questo è indispensabile essere inseriti in una comunità in cammino. Non siamo
soli, siamo gente di un popolo, di una nazione, di una città che cammina, di una
Chiesa, di una parrocchia, di questo gruppo … una comunità in cammino. Non si
va al Signore da soli: questo non va. Dobbiamo capirlo bene. Come nel racconto
evangelico del paralitico, spesso siamo sostenuti e guariti grazie alla fede di
qualcun altro (cfr Mc 2,1-5) che ci aiuta ad andare avanti, perché tutti noi alle
volte abbiamo delle paralisi interiori e ci vuole qualcuno che ci aiuti a superare
quel conflitto con l’aiuto. Non si va al Signore da soli, ricordiamolo bene; altre
volte siamo noi ad assumerci tale impegno a favore di un altro fratello o di una
sorella, e siamo accompagnatori per aiutare quell’altro. Senza esperienza di
figliolanza e di fratellanza l’accompagnamento può dare adito ad attese irreali, a
equivoci, a forme di dipendenza che lasciano la persona allo stato infantile.
Accompagnamento, ma come figli di Dio e fratelli con noi.

La Vergine Maria è maestra di discernimento: parla poco, ascolta molto e


custodisce nel cuore (cfr Lc 2,19). I tre atteggiamenti della Madonna: parlare poco,
ascoltare tanto e custodire nel cuore. E le poche volte in cui parla lascia il segno.
Per esempio, nel Vangelo di Giovanni c’è una brevissima frase pronunciata da
Maria che è una consegna per i cristiani di tutti i tempi: “Fate quello che vi dirà”
(cfr 2,5). È curioso: una volta ho sentito una vecchietta molto buona, molto pia,
non aveva studiato teologia, era molto semplice. E m’ha detto: “Lei sa qual è il
gesto che sempre fa la Madonna?”. Non so: ti coccola, ti chiama … “No: il gesto che
fa la Madonna è questo” [indica con l’indice]. Io non capivo, e chiedo: “Cosa vuol
dire?”. E la vecchietta mi ha risposto: “Sempre segnala Gesù”. È bello, quello: la
Madonna non prende niente per sé, segnala Gesù. Fate quello che Gesù vi dice: così
è la Madonna. Maria sa che il Signore parla al cuore di ciascuno, e chiede di
tradurre questa parola in azioni e scelte. Lei ha saputo farlo più di ogni altro, e
infatti è presente nei momenti fondamentali della vita di Gesù, specialmente
nell’ora suprema della morte di croce.

Cari fratelli e sorelle, finiamo questa serie di catechesi sul discernimento: il


discernimento è un’arte, un’arte che si può apprendere e che ha le sue regole
proprie. Se bene appreso, esso consente di vivere l’esperienza spirituale in
maniera sempre più bella e ordinata. Soprattutto il discernimento è un dono di
Dio, che va sempre chiesto, senza mai presumere di essere esperti e
autosufficienti. Signore, dammi la grazia di discernere nei momenti della vita,
cosa devo fare, cosa devo capire. Dammi la grazia di discernere, e dammi la
persona che mi aiuti a discernere.

La voce del Signore si può sempre riconoscere, ha uno stile unico, è una voce che
pacifica, incoraggia e rassicura nelle difficoltà. Il Vangelo ce lo ricorda
continuamente: «Non temere» (Lc 1,30), che bella quella parola dell’angelo a
Maria dopo la risurrezione di Gesù; «non temere», «non abbiate paura», è proprio
lo stile del Signore: «non temere». «Non temere!», ripete anche a noi il Signore
oggi; «non temere»: se ci fidiamo della sua parola, giocheremo bene la partita
della vita, e potremo aiutare altri. Come dice il Salmo, la sua Parola è lampada ai
nostri passi e luce sul nostro cammino (cfr 119,105).

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