Italiano: Il Romanticismo

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ITALIANO

IL ROMANTICISMO
Il romanticismo nacque in Europa e arrivò in Italia molto tardi (30 anni dopo). Il grande sviluppo del romanticismo
avvenne in Germania. Il romanticismo tedesco iniziò nel 1770 senza conoscere un preromanticismo. In Germania
infatti, prima del romanticismo, nacque, da un momento all’altro, lo Sturm und Drang. Questo movimento si
proponeva di combattere l'illuminismo e nacque come ribellione contro l'esaltazione della ragione illuminista. Assalta
l’illuminismo perché credevano nelle capacità dell’individuo. Goethe e Schiller, come Foscolo, stanno a metà tra lo
Sturm und Drang e il Romanticismo. In Inghilterra si sviluppò nella seconda metà del 700 con Lord Byron.

Il romanticismo ha caratteristiche diverse in ogni paese ed è la voglia di sentimento che li accomuna. Il


romanticismo tedesco ha caratteristiche diverse da quello italiano. Ha un tono impetuoso mentre quello italiano non
usa questi toni impulsivi e ruenti. Il romanticismo inglese predilige descrizioni cupe, ambientate nei cimiteri
abbandonati. Questi paesaggi danno al romantico l’immagine di morte, tristezza e solitudine. In Inghilterra è cupo, in
Germania è irruento e in Italia è più tranquillo. Il romanticismo italiano sente l’esigenza di parlare di immortalità, gli
altri paesi no.

ROMANTICISMO IN ITALIA
In Italia il romanticismo arrivò molto tardi, trent’anni dopo gli altri paesi. Fu grazie alla rivista La Biblioteca Italiana del
1817 che iniziarono a diffondersi in Italia le idee romantiche. La rivista era finanziata dall’Austria, che aveva l’obiettivo
di diffondere il romanticismo tedesco per conquistare il territorio anche mentalmente e avere dominio. L’intento era
quello di generare nell’italiano il valore della patria e della famiglia austriaca. L’Austria non tenne in considerazione il
fatto che cercando di diffondere valori di libertà e patria ha fatto il contrario e ha suscitato il senso di volere la libertà
dallo straniero. Questa rivista italiana ebbe poca vita.

Un’altra rivista importante fu il periodico milanese Il conciliatore 1819. Fu una rivista opposta alla biblioteca italiana,
sulla quale scrivevano tutti i patrioti italiani.

Madame de Stael nel 1816 scrisse il saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni, un testo critico contro le
traduzioni dei classici latini e greci. Lei si rivolge agli italiani e dice di smetterla, di andare avanti e pensare alla cultura
inglese e tedesca perché mentre negli altri paesi avevano già fatto un passo avanti, in Italia erano rimasti indietro.

Il primo ad accennare le idee romantiche è stato Foscolo, ultimi anni del 700 e inizio 800 ma non possiamo
considerarlo romantico. Il primo romantico sarà Manzoni che nasce nel 1785.

PERIODO STORICO
Il romanticismo in Italia iniziò nel 1814 (Congresso di Vienna) e si concluse con
l'unità d’Italia (1861), coincide con il risorgimento. Durante questo periodo in Italia ci
furono le guerre d’indipendenza: il congresso di Vienna stabiliva che Vienna aveva
il possesso sul Veneto (Questo lo sappiamo da Foscolo, deluso dal trattato di
Campoformio quando Napoleone diede il Veneto all’Austria. Sperava che
Napoleone liberasse il Veneto).

Gli austriaci occuparono il Veneto e anche la Lombardia.

Nel romanzo Piccolo Mondo Antico di Fogazzaro, il protagonista va a combattere


con l’Italia per liberarla. Un altro autore parla di una Lombardia occupata ovvero
Manzoni con l’occupazione spagnola due secoli prima.

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Gli spagnoli occuparono il regno delle due sicilie, che comprendeva il sud Italia e la Sicilia. In Piemonte
governavano i Savoia. Questa era la situazione italiana. Dopo il congresso di Vienna nacque uno spirito
nazionalista molto forte: gli italiani erano stanchi dei domini stranieri. Il problema principale della popolazione al sud
era la povertà. Il sud veniva sfruttato dai grandi latifondisti. Era povero perché l’occupazione spagnola era stata
tremenda, i latifondisti non lasciavano nulla alla gente. Tutti i proventi andavano in Spagna per mantenere la
monarchia. I moti rivoluzionari portarono alla liberazione degli straniere e all'Unità d’Italia nel 1861.

Questa situazione del Sud Italia viene descritta nel Gattopardo e i Viceré di Federico de Roberto.

LE CARATTERISTICHE
Il periodo letterario prima del romanticismo era l’illuminismo. Le caratteristiche principali sell’illuminismo erano la
ragione e l’uguaglianza tra gli uomini. Ad un certo punto l’illuminismo entrò in crisi:

- motivo legato alla ragione: entra in crisi perché molte spiegazioni non poteva darle. Ad esempio non
riuscivano a spiegare per quale scopo nascesse un bambino, ma dicevano solo che nasce da un uomo ed
una donna. I romantici vogliono sapere lo scopo, la ragione
- Per gli illuministi il bambino nasce e muore ma per Manzoni non basta. Abbiamo bisogno di dare un motivo
alla vita. Il romantico sente l’esigenza di dare un significato alla vita, cosa che l’illuminismo toglie. L’uomo
cerca delle spiegazioni che l’uomo non può dare.

I temi del romanticismo sono:


- individualismo: le persone non sono tutte uguali, ognuno ha ideali diversi, una cultura diversa. L‘Illuminismo
metteva tutti sullo stesso piano mentre il romanticismo è nazionalista, il gruppo di individui condivide la stessa
lingua, gli stessi valori, gli stessi ideali

- Esaltazione del sentimento. Per i romantici il sentimento non è provare gioia e amore ma famiglia, patria, la
religione. Per sentimenti intendono i grandi valori che legano una comunità. Dei personaggi storici che hanno
dato la vita per la patria sono Mazzini e Gioberti.

- L’uomo eroe: l’uomo romantico che combatte per questi ideali come ne esce? Ne esce sconfitto.

Degli esempi sono: nel piccolo mondo antico franco e la moglie si separano, la prima guerra di
indipendenza viene persa. Nei promessi sposi Renzo si sfida con una realtà meschina, vuole sposarsi ma
c’è qualcuno che impedisce il matrimonio, viene raccontato anche uno scontro storico ovvero le cinque
giornate di Milano.

L'uomo romanico si scontra contro una realtà meschina, che non permette nulla. L’uomo romantico non si
rassegna perché solo seguendo i propri ideali realizzerà se stesso. La realtà per l’uomo romantico non è
positiva, la realtà è brutta.

- Popolarità: il popolo non è una classe di lavoratori, non è un insieme di persone sotto lo stesso governo. Per
lui è il gruppo di persone che condivide la stessa identità.

- Storicismo: per i romantici non esiste la distinzione tra epoche storiche, ogni evento è causa e conseguenza.
Non ci sono fattori, sono tutte collegate. Per sapere la causa di quello che sta succedendo bisogna guardare
a ciò che è successo prima.

- Libertà

- Amore tra uomo e una donna riporta a Renzo e Lucia. L’amore romantico è un sentimento, non è un amore
carnale.

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GIACOMO LEOPARDI
Nacque nel 1798 a Recanati, un paesino dell’entroterra nello Stato Pontificio (oggi Marche vicino ad Ancona), da una
famiglia nobile in decadenza.

LA MADRE E IL PADRE
Nella raccolta di appunti intitolata Zibaldone (minestrone) lamenta una mamma dura, distante e anaffettiva. Un’altra
caratteristica della madre, che lo distinguerà da Manzoni, era che era credente. Questa religiosità ha influito sul figlio.

Il padre, Monaldo, era un conte ricchissimo ma poi ha sperperato il suo patrimonio, non era molto sveglio. Monaldo
ha fatto un grande investimento, la biblioteca. Alla fine del 700 la maggior parte degli abitanti di Recanati era
analfabeta, la scuola pubblica non esisteva (verrà istituita da Mussolini). La gente del popolo non andava a scuola.
Monaldo si era reso conto che aveva un genio a casa e aveva deciso di costruire all’interno della sua casa una
biblioteca. Avrebbe voluto aprirla a tutti recanatesi ma gli unici che avevano la tessera della biblioteca erano i suoi tre
figli. Aveva 20000 libri che per allora erano tantissimi, non esisteva una biblioteca ordinata con così tanti volumi.

L’INFANZIA
Il padre Monaldo lo affidò a precettori ecclesiastici così come farà con gli altri figli Carlo, Paolina e Pierfrancesco.
Giacomo era un prodigio. Giacomino passò tutta la sua infanzia e adolescenza studiando. Era figlio di un conte e ad
inizio 800 gli aristocratici non potevano mescolarsi con il popolo: non poteva andare a giocare con gli altri bambini e
per questo non aveva amici. L’infanzia di Leopardi è dedita allo studio e severa ma soprattutto triste. Era abituato a
stare rinchiuso. Ebbe una vita molto triste senza affetto, senza amici e senza un calore vitale.

A 10 anni Giacomino era in grado di tradurre a mente tutti gli antichi greci e latini. Inoltre parlava perfettamente
inglese, tedesco e francese oltre a latino e greco. Aveva una cultura vastissima. A 15 anni Giacomino aveva già letto
tutti i libri nella biblioteca del padre quindi iniziò a scrivere. Il padre non si accorse del disagio di Giacomo, spesso
rinchiuso nella grande biblioteca paterna, solo, a studiare. È l’unica possibilità di evasione, di sfogo, di consolazione.
Passarono così «sette anni di studio matto e disperatissimo» (1809-1816).

Compose opere erudite: Storia dell’astronomia, 1813; Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, 1815. Pubblicò
tragedie e un trattato di astronomia. Ha passato tutta l’infanzia e giovinezza in quel tavolino vicino alla finestra.
Studiava alla luce delle candele e già a 15 anni era deformato: aveva un grave problema agli occhi ed aveva una
scoliosi, non una malattia rara. Stava sul tavolo per ore e ore sempre nella stessa posizione. Lui stesso scriveva che
lo studio matto gli aveva rovinato la vita.

PESSIMISMO STORICO (1816-1822)


I critici hanno definito il periodo dal 1816 al 1822 pessimismo storico. Il termine deriva dalla crisi storica. I
romantici aspiravano alla libertà e patria ma la delusione creata al momento della restaurazione ha creato una crisi
negli individui romantici che aspiravano ad un'Italia unita. I critici sostengono che anche Giacomino abbia risentito
di questa crisi.

DALL’ERUDIZIONE AL BELLO
Il 1816 è un anno di svolta. Leopardi ha una «conversione letteraria» e passa dall’«erudizione» giovanile, al «bello»,
alla poesia e a una maggiore sensibilità per i valori artistici e per la speculazione filosofica. Nel 1817-18 ebbe una
conversione filosofica ovvero inizia a pensare, prima studiava solo e leggeva.

Invia le sue prime poesie all’illustre letterato Pietro Giordani, che lo incoraggia. Inaugura lo Zibaldone (1817-1832)
l’enorme diario cui affida appunti, progetti, riflessioni. Scrive le prime canzoni civili e le pubblica a Roma. Dopo una
visita di Giordani, Giacomo prova a scappare di casa nel 1819, ma viene scoperto e fermato dal padre. Sentendosi
prigioniero, cade in uno stato depressivo.

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DAL BELLO AL VERO
Tra il 1819 e il 1822 sale la tensione con i genitori che lo vogliono avviare alla carriera ecclesiastica: sarebbe una
beffa crudele, perché Leopardi è ateo, avendo ormai abbracciato definitivamente il materialismo illuminista e il
sensismo. Giacomo vuole essere libero e indipendente. È un adolescente problematico e talentuoso, che vuole
realizzarsi. La produzione poetica aumenta e sale di livello. Da una parte gli Idilli, ossia la poesia «sentimentale»,
come L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna; dall’altra, le grandi canzoni civili come Ad Angelo Mai, Bruto Minore, e
Ultimo canto di Saffo. Nel 1820 scrive la teoria del piacere.

ROMA: LA GRANDE DELUSIONE


Nel 1822 Leopardi va a Roma, dagli zii materni. Spera di trovare la felicità che pensa di aver perso con la morte di
Silvia. Questo viaggio tanto agognato, si rivela deludente. I grandi monumenti antichi non destano interesse; le donne
romane, dice Leopardi, sono stupide e vanitose, e si concedono malvolentieri: «Al passeggio, in Chiesa, andando per
le strade, non trovate una befana che vi guardi…», (lettera del 6 dicembre 1822). L’unico momento di autentica
commozione è in uno dei luoghi più spirituali di Roma: il Gianicolo. Lì, nel convento di Sant’Onofrio a Sorrento,
Giacomo Leopardi visita la tomba del grande poeta Torquato Tasso (1544-1595), che tanto amava.

PESSIMISMO COSMICO
Nel 1823 torna a Recanati: scrive le Operette morali, opera in prosa, originalissima, composta di dialoghi filosofici sui
temi più spinosi della condizione umana. Con le Operette, inoltre, inaugura un silenzio poetico di diversi anni.
Leopardi entra nel “pessimismo cosmico”.

Nel 1825 Giacomo Leopardi è a Milano e collabora con l’editore Stella. Si aiuta anche con le lezioni private, ma la
sua economia è tutt’altro che florida. Va a Bologna e poi a Firenze. Nel 1828 è a Pisa dove ritrova l’ispirazione
poetica: scrive Il Risorgimento e A Silvia, avviando il ciclo dei Canti pisano-recanatesi, noti anche come Grandi idilli.
Annuncia alla sorella questa bella novità: il silenzio poetico è finalmente terminato.

Finita la collaborazione con Stella, è costretto a tornare a Recanati per quelli che lui chiama «sedici mesi di notte
orribile» (novembre 1828 – aprile 1830). Eppure è un periodo fecondo, perché scrive altri Canti come Le ricordanze,
La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Le sue poesie
trovano ora un respiro universale. Ricevuto un aiuto in denaro dagli amici toscani, Leopardi lascia per sempre
Recanati, il suo «natio borgo selvaggio».

PESSIMISMO EROICO: TITANISMO


Di nuovo a Firenze, Giacomo Leopardi stringe amicizia con Antonio Ranieri, giovane e affascinante scrittore
napoletano, e s’innamora di Fanny Targioni Tozzetti. La donna lo rifiuta, forse dopo averlo illuso con la tenerezza e
la sincera ammirazione che sentiva nei suoi riguardi. Con questo rifiuto, dolorosissimo, Leopardi abbandona l’estremo
degli inganni umani: l’amore. Perde ogni speranza ed ebbe la sua ultima e più grande illusione.

Durante il romanticismo era di grande prestigio che le donne di alta borghesia invitassero gli intellettuali nei loro
salotti: più l’intellettuale era alto, più prestigio riceveva. Fanny invitava sempre Giacomino, che ebbe la sua ultima
e più grande illusione. Si era illuso che lei fosse interessata a lui. Al 1830 corrisponde il pessimismo eroico, che
corrisponde al titanismo. I Titani sono passati alla storia perché erano giganti che hanno osato sfidare Zeus. Nel
pessimismo eroico le illusioni sono cadute e ora non cerca più conforto nella natura, non cerca più conforto
nemmeno nel ricordo. Assume un atteggiamento titanico di fronte alla natura. Cosa intende per atteggiamento
titanico? Eroismo significa affrontare la vita e vivere, più manda sofferenze più reagisci e sei eroico.

Nell’occasione scrive per lei Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia. Proprio quest’ultimo nome,
dato a Fanny come omaggio all’amante di Pericle (grande politico ateniese del V sec a. C.) diede il titolo all’intero ciclo
di poesie denominato appunto Il ciclo di Aspasia. Nel 1832, Leopardi scrive il suo ultimo appunto sullo Zibaldone, che
conta ormai ben 5000 pagine.

Nell’ottobre del 1833 Leopardi si trasferisce a Napoli insieme a Ranieri. Pur provato nel fisico, interviene nel dibattito
culturale: si scaglia contro l’illusione del progresso e contro la cieca fiducia nella scienza. Contro i moti liberali del
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1820-21 e 1831, scrive il poemetto satirico i Paralipomeni della Batracomiomachia. Si adopera poi per pubblicare tutte
le sue opere in cinque volumi, ma la censura ecclesiastica blocca il progetto.

Tra il 1836 e il 1837 Leopardi e Ranieri (e la sorella di Ranieri, Paolina) abbandonano Napoli per l’epidemia di colera e
vanno a Torre del Greco alle falde del Vesuvio. Durante la permanenza, Leopardi compone due poesie straordinarie:
La ginestra o il fiore del deserto (1836) e Il tramonto della luna (1837). Sono opere di grande sapienza e bellezza, e
sono anche il suo testamento poetico e spirituale. A Napoli, nel 14 giugno del 1837, Giacomo Leopardi si spegne tra
le braccia del suo caro amico Ranieri.

OPERE
- lo Zibaldone: una raccolta di appunti e riflessioni scritte giornalmente in prosa dal 1817 al 1832. Da queste
annotazioni prese spunto per molti dei suoi Canti.
- i Pensieri: possono considerarsi una ripresa più completa dello Zibaldone in quanto raccolgono a pieno le
idee pessimistiche che caratterizzarono la vita di Leopardi.
- L'Epistolario: composto di circa 900 lettere è considerato uno dei più belli capolavori dell'intera letteratura
italiana per l'intensità dei sentimenti e la limpidezza espressiva.
- le Operette morali: una raccolta di 24 componimenti risalenti al 1824, dei quali circa 17 sono dialogati. Gli
argomenti sono abbastanza vari ma il tema è sempre quello dell'illusione umana e della visione pessimistica
del poeta. Il titolo è stato scelto per uno scopo didascalico, quello di insegnare all'uomo l'accettazione del
dolore e della debolezza che è in lui. Vennero pubblicate nel 1829, anno in cui Manzoni pubblicò I promessi
sposi.
- i Canti: l'unica raccolta, fra quelle elencate, non i prosa, infatti è una raccolta di quarantuno liriche varie per
quanto riguarda i temi. Alcune sono di carattere filosofico, altre d'amore, altre ancora per la patria. Leopardi
iniziò a scriverli nel 1818 e continuò fino a qualche giorno prima della sua morte, quindi continuò a scriverli
durante i suoi viaggi da una città all'altra.

Il periodo letterario in cui vive è il Romanticismo. I caratteri romantici in Leopardi sono:


- l’autobiografismo: anche Ugo Foscolo ha scritto i lettere del giovane Ortis ispirato al Werther di Goethe
- La concezione della natura: rispecchia l’animo del poeta. Infinito, notturno, la morte.
- Individualismo che arriva ad unirsi agli altri per via della solidarietà. L’autore è da solo in questa vita.
- La nostalgia delle epoche passate (esempio Novalis). La nostalgia è tipica dei romantici.
- La fuga e la ricerca della libertà appartengono all’opera dell’Islandese. Sceglie i posti conosciuti più lontani
(Islanda e Africa del Sud)
- È romantico e non realista perché. il realismo deve ancora nascere in Italia

Leopardi non era pessimista ma amava la vita. Il pessimismo si è diffuso perché a forza di pensare ha coniato
questo termine. Voleva andare via da Recanati e conoscere il mondo.

SINTESI DEL PENSIERO E DELLE OPERE DI LEOPARDI


1798 nasce Leopardi
1816 passaggio dall’erudizione (filologia, studio della lingua dei testi antichi) al bello (è la poesia, inizia a
scrivere)
1819 conversione dal bello (poesia) al vero (verità)
1820 la teoria del piacere (1820). In questa fase concepisce la natura è positiva perché favorisce le
illusioni (esempio dell’albero) e lo scrive nel pensiero del 1819. Zibaldone da questo periodo in poi
1819-1822 piccoli idilli: l’infinito, alla luna
1822 Roma. Grande delusione e crisi. Operette morali, dialogo di un folletto e dialogo della natura
1825-1828 Bologna, Firenze, Pisa
1828-1830 Grandi Idilli, A Silvia, il sabato del villaggio, il passero solitario, la quiete dopo la tempesta
pessimismo eroico
1830 Firenze
1831-1834 ciclo di Aspasia, a se stesso
1832 dialogo di Tristano
1837 muore
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LO ZIBALDONE
Leopardi ha scritto una raccolta di appunti, dal 1817 al 1832, dove scriveva i suoi pensieri e sono stati raccolti nello
Zibaldone. Lo Zibaldone è un termine usato per intendere un minestrone, una raccolta disordinata di pensieri, testi e
concetti. Si tratta di una raccolta molto ampi, con 4526 pagine nelle quali riversa un'impressionante varietà di
considerazioni e pensieri relativi a questioni filologico-erudite, linguistiche, letterarie, filosofiche; vi si trovano però
anche abbozzi poetici, pagine saggistiche, note psicologiche e autobiografiche.

Lo Zibaldone di Leopardi riesce a restituirci un’immagine della vastità degli interessi del suo autore, fornendoci inoltre
una grande quantità di informazioni relative alla sua vita e attività. L’opera assume il titolo attuale a partire dal 1827,
anno in cui Leopardi comincia a stendere un indice tematico e analitico. Solo nel 1820, quando lo Zibaldone contava
ormai più di un centinaio di pagine, Leopardi comincia ad apporre alle annotazioni la data della loro composizione:
l’opera assume così il carattere di un vero e proprio diario intellettuale. Lo Zibaldone si presenta non come un
insieme disordinato e confuso di appunti, bensì come un’opera autonoma, con specifici caratteri distintivi.

I temi trattati sono:


- la questione del rapporto tra uomo e natura: passa da una natura benefica ad una concezione negativa
- La riflessione sul piacere: il desiderio di piacere infinito non può essere soddisfatto da nessun piacere finito.
La teoria della poesia: la poesia favorisce le illusioni e la natura contro alla ragione.

1819
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente, cioè abitata o formata di esseri uguali a noi! quando
nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto
abitato! e cosí de’ fonti abitate dalle Naiadi. E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare tra le mani, credendolo un uomo o donna, come
Ciparisso ecc.! E cosí de’ fiori come appunto i fanciulli.

Nel 1819 scrive il primo pensiero degli appunti. Era il periodo in cui era felice, il tempo in cui l’uomo abbracciava un albero e gli
sembrava di sentirlo vivo. L’uomo era in sintonia con la matura e a Leopardi manca questa sensazione. In questa fase vede la
natura in modo positivo perché favorisce le illusioni nel nascondere la verità che non sempre fa stare bene. È positiva perché così
si è felici.

1820
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni
d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in
poesia non sapeva… In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi
travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia... La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire
dentro un anno, cioè nel 1819, dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose…, a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire
l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai
moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi
cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento,
anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io ci resto duro come una
pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o
giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile
alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.

Nel 1819 Leopardi perde la vista e comincia a sentirsi infelice. Non riesce più a leggere quindi inizia a ragionare sopra le cose.
Inizia a sentire la sua infelicità. Prima e aveva un rapporto umano e felice ma con la perdita dell’immaginazione diventa
insensibile rispetto alla natura. Ha attivato la ragione e la verità. Perduta la fantasia diventa un filosofo, colui che pensa e
attiva la ragione. È in questo momento che si rende conto che prima era un illuso

1821
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente
ed esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri tempi, e non
farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla
filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione dell'uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal
falso.

La filosofia si occupa della ricerca della verità, la filosofia è ispirata dalla verità. La poesia invece è ispirata al falso. Il paesaggio
da poesia a filosofia è stato l’utilizzo della ragione.

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1823
Le speranze che dà all’uomo il cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di chi si trova
impediti quaggiú i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali,
inimicato dalla fortuna. La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensí, ma 1°, che l’uomo non può comprendere, né immaginare, né
pur concepire o congetturare, in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione; 2°, ch’egli sa bene di non poter mai né concepire, né immaginare, né
averne veruna idea finché gli durerà questa vita; 3°, ch’egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da
quella che quaggiú gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale aspettativa
è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiú le sue privazioni. La felicità che l’uomo
naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e
qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa
diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere

Leopardi crede che il cristianesimo non riesca ad aiutare l’uomo ad essere felice perché non parla di piaceri terreni. Nel
momento in cui Leopardi scrive, l’autore più famoso in Italia è Manzoni, riuscito a rappresentare la mentalità italiana in quel
periodo. Manzoni è collegato al romanticismo. Per la mentalità del tempo bisognava essere contenti della morte: Leopardi
non è d’accordo perché i piaceri che cerca e vuole l’uomo sono terreni e non si trovano nella vita dopo la morte. Leopardi qui si
distacca da Manzoni e dal romanticismo cattolico di Manzoni, Il romanticismo ha questa conflittualità: Manzoni crede nella
provvidenze e leopardi invece no. Pur avendo gli stessi ideali abbiamo una coscienza quindi abbiamo idee differenti. La
coscienza è la propria voce interiore che mette in discussione. Nonostante siamo cresciuti con degli ideali avviene qualcosa
che mette in discussione questi valori è ciò che vive leopardi: è vissuto con la religione ma sente che qualcosa non va. Il
padre di Giacomino rappresenta il neoclassicismo (uomo che crede nella ragione e ha fede solo nella verità dei classici greci e
latini) e la madre il romanticismo (religione). Il neoclassicismo è finito.

Si distacca anche da romanzi come piccolo mondo antico (la moglie è credente, dopo la morte della figlia prega, mentre
Franco va a combattere per la patria, non trova consolazione nella religione), gattopardo: il nipote va a combattere per la patria
mentre il capofamiglia dice che ha visto la moglie nuda solo quando partorisce, andava a letto vestita e diceva il Rosario durante
tutto il tempo dell’approccio. E i Viceré: quando il padre si ammala dice che è stato il figlio a portare il diavolo.

1825
Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell’esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine
naturale dell’uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale dell’uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è né può essere altro
che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della sua
esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare l’esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell’esistenza
generale, e di quell’ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun modo la felicità né il piacere dei
viventi, non solo perché questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perché sebbene la natura nella modificazione di ciascuno animale e delle altre
cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di
ciascun vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere; sicché e la somma e la intensità del dispiacere nella vita
intera di ogni animale, passa senza comparazione [4129] la somma e intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere
né la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la
sua felicità, e così ciascuna specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell’ordine delle cose e nel modo della esistenza,
contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità
assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse.

Il fine naturale dell’uomo è la felicità. Desideri e felicità sono la stessa cosa: se realizzi il desiderio sei felice. La felicità è diversa
per ogni uomo, è soggettiva non assoluta. Il fine della natura non è la felicità perché la felicità è impossibile per la natura. La
natura sa che la felicità non è raggiungibile. Il fine della natura non può essere la felicità dell’uomo sennò non manderebbe la
morte la malattia… leopardi non è pessimista ma realista

1820: LETTERA A PIETRO GIORDANI SULLA TEORIA DEL PIACERE


Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse
proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira
unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti,
perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha
limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua
estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del
piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti
per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente
l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione
immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle
conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi
a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se
anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perché la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che
quella material cagione che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti sempre (p.e. tu hai desiderato la ricchezza, l’hai ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente,
ma non più come cagione neppure di un tal piacere, perchè questa è un’altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni appoco a poco svaniscano, e
che l’assuefazione, come toglie il dolore, così spenga il piacere… CONTINUA

Leopardi scrive una lettera all’amico Pietro Giordani dove spiega la sua teoria del piacere L’uomo tende tutta la vita al piacere
ma ha esperienza di piaceri che sono finiti per intensità e durata. Solo una cosa per leopardi è eterna: la ricerca della felicità
umana, del piacere. Qui è contento il suo pensiero. Da questo nasce un conflitto interiore tra la realtà e l’infinità. Nel
conflitto tra infinità e realtà nasce l’infelicità. Se desideriamo qualcosa e non la otteniamo siamo tristi, infelici. Siamo felici solo
quando realizziamo un desiderio.

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CANTI
La raccolta poetica va sotto il nome di canti divisi in piccoli idilli, grandi idilli e ciclo di Aspasia. Il canto esprime
un sentimento, non possiamo chiamarli trattati perché esprime qualcosa di razionale, o poema perché racconta le
vicende, o ancora racconto perché sarebbe finalizzato a dare un’informazione, una morale . Il termine Idillio proviene
da Virgilio nelle Bucoliche. Virgilio per Idillio intendeva un paesaggio, le bucoliche si apre con la descrizione di un
paesaggio che trasmette serenità. L’idillio è uno stato d’animo inquadrato in un certo paesaggio. il soggetto dei
piccoli idilli è il poeta stesso. Il termine Aspasia è ripreso dalla filosofia, il ciclo di Aspasia è l'ultima produzione di
Leopardi, la più matura. Aspasia era la moglie di Pericle ed è la donna più saggia e colta (per questo da il suo nome
alla raccolta)

PICCOLI IDILLI

L’INFINITO
Considera la natura come positiva. Mentre è sul colle immagina l’infinito e per farlo entra in se stesso. Il tema è il
confronto tra l’infinito e l’eterno. L’infinito è lo spazio e l’eterno è ciò che ha dentro, l’infinito interiore. Ciò che
impedisce all’uomo di vedere oltre la siepe sono gli occhi. L’uomo allora, se gli occhi gli impediscono di vedere
oltre, attiva l’immaginazione ovvero c’è un passaggio tra la realtà e ciò che non è reale. L’immaginazione è
soggettiva, quello che vedo viene dalla mia parte interiore: vedo quello che credo di vedere. La vista interiore è
diversa per ognuno: immagino una realtà interiore. L’infinito è dentro di noi. La poesia da un senso di solitudine,
quest’uomo sdraiato solo in questo paraggio immenso, parte dalla sensazione di sentirsi solo in questo
universo.
Questo dolce infinito è una caratteristica romantica e non può essere un testo appartenente ad altri periodi: nell’età
classica non abbiamo mai trovato i sentimenti, nel medioevo nessuno si è mai guardato dentro alla ricerca di un
sentimento e nemmeno durante l’illuminismo. Il primo ad essersi guardato dentro è stato Ugo Foscolo nella
poesia ‘in morte del fratello Giovanni’ dove sente il sentimento di perdita e anche Manzoni, il sentimento è la
fede di Lucia. In Dante è un’opera didascalica, per insegnare, non c’è sentimento.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle, I versi sono tutti endecasillabi quindi il tema è serio.
E questa siepe, che da tanta parte
Assonanza: somiglianza di suono delle vocali
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati Anastrofe: inversione dell’ordine delle parole
Spazi di là da quella, e sovrumani Paronomasia: suono simile, significato diverso
Silenzi, e profondissima quiete Iperbole: esagerazione
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Onomatopea: suono scritto
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello Antitesi: due parole contrapposte
Infinito silenzio a questa voce Polisindeto: e…e…e
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, Ossimoro: contrapposizione
E le morte stagioni, e la presente
Metafora: metafora per dire che si è perso ad
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio: immaginare qualcosa di infinito dentro di lui.
E il naufragar m’è dolce in questo mare. Giacomino non è spaventato è tranquillo in questo infinitO

ALLA LUNA
O graziosa luna, io mi rammento Il rimembrar delle passate cose,
Che, or volge l’anno, sovra questo colle Ancor che triste, e che l’affanno duri!
Io venia pien d’angoscia a rimirarti: Il tema della poesia è il ricordo. Fu scritta nel 1819.
E tu pendevi allor su quella selva
Ricorda quando provava angoscia a guardarla e ora il
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto ricordo gli da sollievo perché ora ha altre aspettative,
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci per la teoria del piacere l’uomo aspira sempre al
Il tuo volto apparia, che travagliosa piacere. Considera la luna positiva, la natura è
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
positiva perché favorisce le illusioni. La vede quasi
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate come una donna, ricorda il momento in cui l’uomo vive
Del mio dolore. Oh come grato occorre di illusioni.Non spiega la causa dell’angoscia ma vuole
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo esprimere un piacere universale
La speme e breve ha la memoria il corso,
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OPERETTE MORALI

IL DIALOGO DI UN FOLLETTO
Folletto Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va? Gli gnomi erano spiriti che vivevano
Gnomo Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti
degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in sotto terra mentre i folletti spiriti che
tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se vivevano nell’aria. Il tema del dialogo è
però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili
non si contentassero di polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come
il mondo senza uomini.
fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
Folletto Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i Nel dialogo non è lui il soggetto. Le due
personaggi.
Gnomo Che vuoi tu inferire? poesie hanno per soggetto Giacomino
Folletto Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta. stesso ed esprime il sentimento. Nei
Gnomo Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
Folletto Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
dialoghi non è presente il sentimento
Gnomo Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo? ma fa filosofia, esprime il proprio
Folletto Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o
pensiero filosofico. Il dialogo fu scritto
nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli
occhiali e appiccato la ruotaa un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose nel 1824, vengono esposte due
del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e affermazioni: la prima è del folletto che
scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano
l’uno all’altro come uovo a uovo. individua nelle guerre, nell’ antropofagia
Gnomo Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari. (mangiandosi tra loro) ovvero i motivi
Folletto Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo E i giorni della settimana non avranno più nome.
che hanno causato l’estinzione del
Folletto Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, genere umano.
poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce La causa della morte degli uomini sono
ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di stati gli uomini stessi andando contro
giorno in giorno.
Gnomo Ma come sono andati a mancare quei monelli? natura: non è nella natura dell’uomo
Folletto Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte uccidere, fare le guerre… la ragione è
ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il
cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie
l’essere andato contro natura.
di far contro la propria natura e di capitar male. Pessimismo storico = solo l’uomo è
Gnomo A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di
causa della propria infelicità. È causa
pianta, come tu dici.
Folletto Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di di infelicità perché è andato contro
bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle natura. Sente la delusione della società
povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per
andare in perdizione.
Gnomo Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e Quando scrive questo dialogo nel 1824
sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere
umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse
è molto arrabbiato. Viviamo in un
fatto e mantenuto per loro soli. ambiente romantico e illuministico. Tutti
Folletto E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
i critici italiani si sono scagliati contro
Gnomo Tu folleggi veramente, se parli sul sodo. Folletto Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi? Giacomino dicendo che l’origine del suo
Folletto Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che pessimismo (hanno sbagliato
fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne?
Gnomo Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle? totalmente) è il suo essere sfortunato,
Folletto Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per hanno dato la causa al suo modo di
fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della
loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte
essere (storto, claudicante, cieco…). Il
mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei. termine pessimismo nasce in una
Gnomo Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato Gnomo. Ora io saprei volentieri quel che
lettera in risposta ai critici. Lui lo
direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a
quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si definisce realismo.
apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla,
volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero Davanti alla scomparsa dell’uomo, la
altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, natura e il mondo ha avuto
fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie
delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra,
ripercussioni? No tutto è continuato
forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali uguale. La natura non ha avuto
animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si
ripercussioni di nessun genere.
rivoltasse.
Gnomo Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
Folletto Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
Gnomo In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.

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Folletto Ma i porci, secondo Crisippo,1 erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le Giacomino pensa che gli uomini
cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece pensano che il mondo sia stato
dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile. creato per loro. L’uomo è presuntuoso,
Folletto E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né
conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o
lo considera stupido perché non può
per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre pensare che tutto vada avanti per lui.
specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a
Considera il genere umano una massa
mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o
pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e di stupidi.
subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come Porta un esempio detto dal folletto e
dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano
gran faccende. ripreso dall’antichità per dimostrare
Gnomo Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono quanto il genere umano sia stupido.
giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
Folletto Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi
Dice che il sole non è diventato
di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si marrone come fece secondo Virgilio alla
rasciughi.
morte di Cesare. La natura non è
Gnomo E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie
Folletto E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte interessata agli uomini, la natura è
di Cesare: della quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di indifferente. Conclude con l’indifferenza
Pompeo.
della natura: qui ritorna al naturalismo
illuminista.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE


Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per lo scrive nel 1824
l’interiore dell'Africa, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe
un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Leopardi affronta un mondo
Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove senza persone, un tema caro
acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli
ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma a Giacomino.
smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva;
di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono
spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.
Una catastrofe ha causato il
processo di autodistruzione
Natura Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? creato dall’uomo stesso
Islandese Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per
cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. cancellando la specie
Natura Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu umana.
fuggi.
Islandese La Natura? L’uomo scappa dalla
Natura Non altri. natura e la natura gli
Islandese Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse
sopraggiungere.
chiede perché sta
Natura Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che scappando. La natura gli fa
altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi? la domanda perché non
Islandese Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità
della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di può scappare dalla natura.
piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite Ovunque andrà non
sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la
cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non scapperà mai. È una
procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una domanda che non ha una
vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra
cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e
risposta.
dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel Con quest’opera passa dal
primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di pessimismo storico (la causa
potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e
contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti dell’infelicità è la ragione che
sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in ha tolto le illusioni che era
solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi
verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità patria, nazione libertà, la
del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso causa è la ragione perché
al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo
che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella
hanno rimesso al loro posto
tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di quelli che c’erano prima) al
terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, pessimismo cosmico (la
fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima,
e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco causa dell'infelicità umana è
momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai la natura che manda
pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e
quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; l’infelicità all’uomo: manda la
meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vecchiaia, le malattie, la
vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a
questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere
morte, … ) in filosofia
umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle schopenhauer.
piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da
dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che
fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i Un islandese è sempre in
paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di viaggio e un giorno arriva in
procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli,
afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho un posto desertico e incontra
veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una la Natura, dalla quale sta
battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è
scappando.
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compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto Chiede perché ha mandato
il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi
ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, solo cose brutte. Il compito
fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che dell’uomo è quello di
m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con
una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che mandare avanti tutto
gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti L’uomo chiede se il
all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole
della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come
destino dell’uomo è la
sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione sofferenza e gli chiede
considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, perché è nemica degli
come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso
piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in uomini. Vuole sapere
quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, perché è nato se poi deve
astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e
diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche patire le sofferenze.
membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi
hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel
tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non
fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità Dice che il mondo non è
soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ stato creato per gli uomini. Il
paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria.
Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di fine della natura non è fare
continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto qualcosa contro l’uomo.
che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di
loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso Preserva il ciclo naturale del
numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario mondo.
il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza
miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le
È naturalismo illuminista:
opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci secondo gli illuministi la
offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, vita segue un ciclo
per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli
uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per naturale di nascita, vita e
niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della morte. Prima o poi morirà
vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma
destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in
lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena La natura non possiamo
un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo
scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
dire che sia divinizzata
Natura Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e perché nel linguaggio di
nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o Giacomino non c’è posto
all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime
volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, per la religione.
o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra
specie, io non me ne avvedrei.
Islandese Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per Non esiste una natura
compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo felice.
pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura
d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il
bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e non trova sollievo nelle
dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa sue sofferenze infatti
per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi
sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso muore.
mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene
egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora.
So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato Non si può fuggire dalla
espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono natura perché la natura è
intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non
poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non
radicata in noi. Non
tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi possiamo fuggire da
noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. qualcosa che è dentro di
Natura Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e
distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla noi
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in
dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
Islandese Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che I leoni mangiano
distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi l’islandese ma gli serve
piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo
compongono?
solo per sopravvivere un
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri giorno. La natura è
dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si crudele. La sofferenza è
tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento,
levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di della natura stessa.
sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e
collocato nel museo di non so quale città di Europa.
Muore anche per un vento
fortissimo sotto la sabbia

GRANDI IDILLI

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora Leopardi ricorda Silvia, che nel film si chiama Teresa. Teresa era la figlia del
Quel tempo della tua vita mortale,
fattore di casa Leopardi. Era molto giovane e morì prematuramente. Ha
Quando beltà splendea

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Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, cambiato nome perché non voleva parlare della morte di Teresa, usa la morte
E tu, lieta e pensosa, il limitare
per fare una riflessione. Il tema della poesia è la caduta delle illusioni: la
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete caduta delle illusioni è la caduta delle speranze che si hanno durante la
Stanze, e le vie dintorno, giovinezza.
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Descrive il momento in cui Silvia era giovane.
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi. Dal primo verso al 14 parla di Silvia e descrive come lei trascorreva le
Era il maggio odoroso: e tu solevi giornate.
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Dal verso 15 il soggetto diventa lui stesso. Lui stava in casa a studiare.
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo Da una parte Teresa viveva la sua giovinezza mentre lui la consumava nei libri
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello La poesia ha uno schema in parallelo: da a una parte la vita di Silvia e
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
dall'altra la vita di Giacomino perché entrambi hanno trovato la caduta
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela. delle speranze. Tutti e due hanno la stessa concezione della vita: dolore,
Mirava il ciel sereno, senza senso. Esiste un’unica realtà per entrambi: ovvero la morte. Il
Le vie dorate e gli orti, resto è illusione.
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi
Che speranze, che cori, o Silvia mia! Il tema sono le speranze. Durante la giovinezza Silvia aveva delle
Quale allor ci apparia
speranze
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme, Ritorna al tema delle speranze
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato, La natura ha illuso Silvia dandole le illusioni, non ha mantenuto la
E tornami a doler di mia sventura.
promessa e ha mandato la morte. Chiede perché promette grandi
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi speranze e poi le toglie? Stessa domanda che fa l’Islandese alla Natura.
Quel che prometti allor? perchè di tanto Tu Silvia, prima che l’inverno facesse morire i prati e la natura, vinta da
Inganni i figli tuoi? una malattia tu morivi e non vedevi il fiore dei tuoi anni
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core È morta anche la speranza di Leopardi perché si è reso conto che quello
La dolce lode or delle negre chiome,
che la natura ha promesso non ha mantenuto.
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore. È la realtà che è così. All’apparire della verità la speranza è venuta a
Anche peria fra poco meno
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come, Silvia è solo un esempio della caduta delle illusioni e della legge che domina
Come passata sei, l’esistenza: ha due certezze, che le illusioni sono perdute e la vita è
Cara compagna dell'età mia nova, caratterizzata e dominata dal dolore. Sono i giovani che cercano le
Mia lacrimata speme!
illusioni, stanno nella giovinezza. L’età matura porta la realtà ovvero il
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi dolore.
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti? Il tema comune con la poesia alla lune è il ricordo delle speranze della
All'apparir del vero
gioventù. Il ricordo è molto importante. È l’unica soddisfazione dell’uomo
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda perché la natura non è ancora arrivata a spegnere le illusioni.
Mostravi di lontano.

IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna, Apparentemente la poesia sembra la descrizione di un quadretto di


In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano campagna (donzella, fanciulli, vecchietta) ma non è così. Nei piccoli idilli
Un mazzolin di rose e di viole, Leopardi parla di se stesso ma il passaggio avviene con le operette
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
morali. Segnano il passaggio dalla riflessione su se stesso alla riflessione

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Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. sulla condizione umana. Il tema della poesia è la condizione dell’uomo al
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella, quale è negata la felicità. È un esempio della teoria del piacere: il
Incontro là dove si perde il giorno; piacere del sabato è finito per intensità e durata. La felicità è l’attesa
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
perché nel momento in cui arriva il momento desiderato c’è già la noia.
Ed ancor sana e snella La felicità non esiste, sta nell'attesa ma essa è troppo corta.
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna, La poesia affronta il motivo della felicità come attesa di un bene futuro
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre che si rivelerà ingannevole, deludente
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna. L’attesa è il piacere, la felicità. Nelle prime due strofe descrive l’attesa.
Or la squilla dà segno Poi medita sulla vita.
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta. La donzella ha l’attesa per il futuro, ha l’illusione. Il tema del ricordo è
I fanciulli gridando
caro alla vecchierella: le rimane solo il ricordare i tempi felici.
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore: Anastrofe: inversione dell’ordine delle parole
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore, Metafora
E seco pensa al dì del suo riposo. Metonimia
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
Ossimoro
E tutto l’altro tace, Iperbato: inversione con il verbo principale in fondo
Odi il martel picchiare, odi la sega
Apostrofe: rivolgersi direttamente
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna, Il poeta entra in scena per enunciare una verità amara: l’attesa della
E s’affretta, e s’adopra felicità sarà una delusione perché poi seguiranno la tristezza e la
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
noia.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato Quando si rivolge al garzoncello lo invita a godersi l’età della
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
giovinezza piena di illusioni. Gli dice di non pensare che la felicità
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita finirà.
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave, La sua maturità arriverà tardi ma non deve avere il cruccio ora dei
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
problemi che avrà in età matura
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

IL PASSERO SOLITARIO

D'in su la vetta della torre antica, Che rimbomba lontan di villa in villa. Nella prima strofa parla della situazione del passero. Dal 17
Passero solitario, alla campagna Tutta vestita a festa
dice quanto la vita del passero somigli alla sua.
Cantando vai finché non more il giorno; La gioventù del loco
Ed erra l'armonia per questa valle. Lascia le case, e per le vie si I due in comune hanno la solitudine.
Primavera dintorno spande; La prima strofa descrive la solitudine del passero
Brilla nell'aria, e per li campi esulta, E mira ed è mirata, e in cor s'allegra. La seconda descrive la propria solitudine
Sì ch'a mirarla intenerisce il core. Io solitario in questa
Odi greggi belar, muggire armenti; Rimota parte alla campagna La terza fa una differenza tra il passero e se stesso:
Gli altri augelli contenti, a gara insieme uscendo, rimpiangerà di non aver goduto delle gioie della
Per lo libero ciel fan mille giri, Ogni diletto e gioco giovinezza.
Pur festeggiando il lor tempo migliore: Indugio in altro tempo: e intanto il
Giacomino (l’uomo) non ha goduto delle gioie della giovinezza
Tu pensoso in disparte il tutto miri; guardo
Non compagni, non voli, Steso nell'aria aprica perché pensa alle cose negative del futuro. Bisogna godere
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi; Mi fere il Sol che tra lontani monti, della gioia senza pensare a quello che potrebbe succedere.
Canti, e così trapassi Dopo il giorno sereno, Lui invita a godere della felicità e della gioia che abbiamo
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore. Cadendo si dilegua, e par che dica
Oimè, quanto somiglia Che la beata gioventù vien meno. perché rimpiange di non averlo fatto perché aspirava a
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, Tu, solingo augellin, venuto a sera sempre qualcosa di più.
Della novella età dolce famiglia, Del viver che daranno a te le stelle, Rimpiange di non aver goduto delle piccole cose.
E te german di giovinezza, amore, Certo del tuo costume
Inoltre non può godere della sua vita perché Teresa è morta. Si
Sospiro acerbo de' provetti giorni, Non ti dorrai; che di natura è frutto
Non curo, io non so come; anzi da loro Ogni vostra vaghezza. innamorerà di nuovo di Fanny ma verrà solo usato.
Quasi fuggo lontano; A me, se di vecchiezza Metricamente è una canzone libera perché i versi non sono
Quasi romito, e strano La detestata soglia regolari. Non ha scelto un sonetto perché il sonetto fa
Al mio loco natio, Evitar non impetro,
Passo del viver mio la primavera. Quando muti questi occhi all'altrui solamente un’affermazione che nessuno mette in discussione.
Questo giorno ch'omai cede alla sera, core, Qui i versi sono settenari, endecasillabi mentre qui vuole

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Festeggiar si costuma al nostro borgo. E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro lasciare il lettore con una riflessione. Lascia aperta la
Odi per lo sereno un suon di squilla, Del dì presente più noioso e tetro,
discussione.
Odi spesso un tonar di ferree canne, Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me Si è pentito e si sente sconsolato. Queste parole danno
stesso? senso all’inutilità di guardarsi indietro perché non si può
Ahi pentirommi, e spesso, tornare indietro, il passato non ritorna più.
Ma sconsolato, volgerommi
indietro.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Passata è la tempesta: Il tema della poesia è l'illusorietà della felicità che non esiste mai in senso
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
positivo. La felicità assoluta non esiste, esiste solo la felicità temporanea che
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno coincide con la cessazione del dolore o come attesa del piacere. È così breve
Rompe là da ponente, alla montagna; che non si riesce ad assaporare. La felicità è l’attesa della quiete dopo che c’è la
Sgombrasi la campagna, tempesta. Quando arriva la quiete quella non è la felicità ma la cessazione di
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
dolore. Il piacere deriva dalla cessazione del dolore (assenza di dolore) e
Risorge il romorio non è la felicità. Metonimia: cor al posto di persona
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo, Nella prima strofa descrive un momento della vita del borgo: gli animali della
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
campagna tornano alle loro occupazioni così come gli abitanti recanatesi
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua riprendono i loro doveri quotidiani: chi affacciandosi sulla porta per guardare il
Della novella piova; cielo prima della laboriosa giornata, chi come le fanciulle andando a raccogliere
E l'erbaiuol rinnova l’acqua appena caduta o chi come gli erbivendoli già sul sentiero da attraversare.
Di sentiero in sentiero
Il cielo si schiarisce e il sole torna a risplendere permettendo ad ogni uomo di
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride affrontare un nuovo giorno con rinnovata felicità.
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia: Nella seconda strofa si pone delle domande. C’è una metafora che racchiude
E, dalla via corrente, odi lontano
tutta la filosofia di Leopardi: Piacer figlio d'affanno = il piacere proviene dal
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia. dolore, il piacere nasce alla fine di un momento di dolore, la felicità è assenza di
dolore.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Per Giacomino l’unica gioia nella vita è non provare dolore, la cessazione del
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore dolore. La teoria del piacere dice che il piacere è un intervallo tra un dolore e
L'uomo a' suoi studi intende? l’altro. Sta andando avanti con il suo pensiero, abbiamo superato l’età della
O torna all'opre? o cosa nova imprende? giovinezza e ora fa un discorso che copra tutta la vita.
Quando de' mali suoi men si ricorda? La vita è un momento dopo l’altro di dolore e la felicità è il momento tra un dolore
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
e l’altro.
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte Davanti alla tempesta, che rappresenta i dolori della vita, la gente reagisce in
Chi la vita abborria; questo modo. Qui Leopardi ironizza chiedendo se la tempesta è il piacere
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
che manda agli uomini. Il poeta partecipa e ne condivide i sentimenti ma
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo qualcosa lo distingue dagli altri: gli uomini pensano che la cessazione del
Mossi alle nostre offese dolore sia la felicità mentre per Leopardi è la morte. Si rallegra ogni cuore perché
Folgori, nembi e vento. è passata la tempesta mentre in Giacomino il piacere è figlio di affanno. Tutti
O natura cortese,
godono della quiete mentre lui dice ce il piacere è figlio dell’ affanno: gioia vana
Son questi i doni tuoi, (dura un attimo). Lo distingue la consapevolezza della crudele legge della natura.
Questi i diletti sono Lui sa che le illusioni spariscono e tornano nuovi tormenti.
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
L’unica speranza per l’uomo è la morte perché si porta via tutte le sofferenze e i
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto dolori. La morte è beata e risana ogni dolore. Perché non si è suicidato? Non è la
Che per mostro e miracolo talvolta natura che manda la morte, la natura non manda nulla, preserva il ciclo naturale.
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana Giacomino qui è sofferente ma la sua sofferenza è solo sua o soffre per tutti?
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
Giacomino soffre per tutti gli essere umani: ha capito che la legge della natura è
D'alcun dolor: beata sofferenza e dolore. Pessimismo cosmico: la natura è causa dell’infelicità. Le
Se te d'ogni dolor morte risana. illusioni sono cadute (1829: fine dei grandi idilli e viaggio a Firenze)

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CICLO DI ASPASIA

A SE STESSO
Or poserai per sempre, Il tema è la caduta di ogni illusione. Il suo cuore a subito la delusione più grande:
Stanco mio cor. Perì l’inganno
sono cadute le illusioni e la speranza. Perché siamo alla fine del pensiero? La
estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben causa è l’inganno estremo (la delusione di fanny) che rappresenta l’ultima
sento, illusione. La delusione gli toglie anche l’ultima speranza che poteva portare
In noi di cari inganni, sollievo in questa vita dolorosa. Secondo lui non c’è più nulla. La
Non che la speme, il desiderio è
consapevolezza lo porta a tre verità: la vita è solo amaro, noia e nulla, il mondo è
spento.
Posa per sempre. Assai fango. Queste veria sono espresse da una persona che non vuole ribellarsi, si
Palpitasti. Non val cosa nessuna rassegna (non si arrende perchè arrendersi significa suicidarsi) ovvero accetta: pur
I moti tuoi, nè di sospiri è degna doloroso dovrà conviverci.
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il
mondo. Non si oppone al suo destino ma accetta la realtà e continua la sua vita. Non si
T’acqueta omai. Dispera suicida perché accetta. Cosa gli resta? L’uomo accetta il destino di sofferenza:
L’ultima volta. Al gener nostro il fato accettazione non vuol dire arrendersi ma proseguire con coraggio e forza.
Non donò che il morire. Omai
disprezza
Te, la natura, il brutto Leopardi è alla fine del suo percorso filosofico e si capisce dal lessico (nulla, fango,
Poter che, ascoso, a comun danno stanco, perì, inganni) e dalla brevità dei periodi (non lascia spazio a nessun
impera, discorso né a livello stilistico né a livello lessicale). Lo stile è parallelo al pensiero.
E l’infinita vanità del tutto.
Enjambement: spezzano il verso.

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO


Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito. Siamo nel 1832. È stato scritto in risposta
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa. alle solite critiche che gli intellettuali
Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice. dell’epoca gli rivolgevano. Attribuivano
Amico. Infelice sì forse. Ma pure alla fine…
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io all’infermità del poeta il malessere di cui lui
aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, scriveva.
fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la
coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo
immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità:
Tristano (Leopardi) finge di aver mutato parere, di
anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da essersi convertito all’ottimismo ottocentesco. Questo
ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il accade all’inizio di ogni suo intervento in cui enuncia
tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o alcune tesi che mostrerebbero questa sua
d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per conversione. Salvo poi, subito dopo, ribaltarle e
più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi criticarle con sarcasmo, tanto che a un certo punto
risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è l’Amico percepisce la pungente ironia di Tristano.
necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del
mondo sa che il vero è tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei
All’inizio del dialogo Tristano dichiara di aver cambiato
migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene la propria opinione pessimistica sulla vita.
che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Gli uomini per vivere la loro vita devono
Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che
sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non
costruirsi una una propria realtà
crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun Inizialmente irritato per le critiche ricevute, dice di
filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel aver compreso che gli uomini sono come i mariti, che
popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono vogliono credere fedeli le proprie mogli, anche se tutti
la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a sanno che non lo sono. In altri termini gli uomini
essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a vogliono credere che la vita è bella e non si faranno
sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa mai convincere del contrario: non si faranno mai
la loro vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e
risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò
convincere di non saper nulla, di non esser nulla e di
che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a non aver nulla da sperare. Gli uomini sono codardi e
qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di deboli, ma lasciarsi ingannare è da sciocchi. Tristano
credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io rifiuta ogni ingannevole consolazione, guarda con
per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del coraggio il deserto della vita, con una filosofia che
genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e certo è dolorosa ma vera.
deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del
destino. Parlo sempre degl'inganni non dell'immaginazione, ma dell'intelletto. Se questi miei Dice che è inutile attribuire l'infelicità
sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli del genere umano alle sfortune che ha:
uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la
privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna
non è guardare in faccia la realtà ma
parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. costruirne una che fa comodo a loro.
La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato Questo è quello che pensa Giacomino
ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me,
quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, degli uomini.
come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto Ride del genere umano che spera di
nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali
tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi raggiungere il piacere. Lui rifiuta ogni
di loro dice che l'uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per consolazione ed ogni inganno. L’uomo
chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre
cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all'altr'ieri, tutti i
deve accettare tutte le conseguenze.
poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o
confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo
sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi
che l'infelicità dell'uomo era uno degli errori inveterati dell'intelletto, e che la falsità di questa Tristano conferma la convinzione “che la specie

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opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora umana stia di giorno in giorno migliorando”. Ma
m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a credere quello ch'io credeva.
Amico. E avete cambiata opinione?
subito dopo sostiene che gli antichi erano più
Tristano. Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono? forti e generosi di noi, perché davano pari
Amico. E credete voi tutto quello che crede il secolo? importanza al corpo e allo spirito, mentre la
Tristano. Certamente. Oh che maraviglia? società contemporanea, che dice di privilegiare
Amico. Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell'uomo?
Tristano. Senza dubbio. lo spirito e che disprezza il corpo, finisce per
Amico. Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando? deprimere entrambi. Se il corpo è debole, infatti,
Tristano. Sì certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, anche lo spirito lo diventa.
ciascuno per quattro di noi. E il corpo e l'uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il
coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita,
Tristano conferma l’idea dell’Amico “che il
dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è sapere, o come si dice, i lumi, crescano
uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso continuamente”. Subito dopo però sostiene che
al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu nella società moderna scarseggiano gli uomini
ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si
degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo di grande cultura e si tende a un appiattimento
coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo che mortifica gli individui. Tutti vogliono fare
spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all'educazione, non si potrebbe mai senza mutare tutto, senza adeguata preparazione e senza
radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti
della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a
fatica. Molti sono così coloro che agiscono con
conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L'effetto è che a paragone degli antichi noi approssimazione, improvvisazione,
siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono incompetenza. La cosiddetta diffusione della
uomini. Parlo così degl'individui paragonati agl'individui, come delle masse (per usare questa cultura- sostiene Leopardi – è andata a scapito
leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono
incomparabilmente più virili di noi anche ne' sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi della possibilità di far emergere le persone
lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada veramente grandi e capaci. I grandi uomini
sempre acquistando. sono sempre stati pochi e la norma, in tutti i
Amico. Credete ancora, già s'intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano
continuamente.
tempi, è stata la mediocrità. Ma nel secolo
Tristano. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d'imparare, tanto scema quella di decimo nono è divenuta la nullità.
studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano
contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse
smisuratamente maggiore di quello dell'età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in
generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che la copia
di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si
adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perché la scienza
va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione superficiale può essere, non propriamente
divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia
dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e
fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente
e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata
ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga
ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco,
o forse sofisticare; non ch'io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il
mondo tutto pieno d'ignoranti impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall'altro, nondimeno
crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
Tristano. Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio
secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che
appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini
e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra
letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età
presente. Non è vero?
Amico. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de' nostri.
Tristano. Sì certamente, de' vostri.
Amico. Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti
così contrari alle opinioni che ora avete?
Tristano. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più
riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d'individui o di cose individuali del secolo
decimonono, intendete bene che non v'è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne
seppero gli antenati. Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i
pensatori moderni. Il che vuol dire ch'è inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché,
per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in
vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo
composte d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di masse, che
oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de' posteri, i libri specialmente, che
ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome
costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il
secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l'immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero
dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali
meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si
cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò mano ai
libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che
rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava
diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri
tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche
preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l'indole del tempo Nella parte conclusiva del Dialogo,
presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche Tristano/Leopardi dice di desiderare la morte
lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di sopra ogni cosa e che lo preoccupa il pensiero
faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti
a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare
di poter vivere ancora a lungo, anche se questa
che consista in parte la differenza ch'è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il gli sembra un’eventualità quasi impossibile. Il
grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è ricordo delle illusioni e dei sogni della
tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi giovinezza non lo rattrista più come un tempo.
grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più
possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl'infimi si credono illustri, l'oscurità e la nullità Lungi ormai da pretese di fama e di gloria,
dell'esito diviene il fato comune e degl'infimi e de' sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze l’unica sorte che invidia è quella dei morti.
economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del Il nome del protagonista, Tristano, il nome del
nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e

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larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri protagonista rinvia all’etimologia latina
sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
Amico. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che
dell’aggettivo tristis, “triste”, ed evoca sia la
questo è un secolo di transizione. tragica vicenda dell’eroe di un romanzo
Tristano. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di cavalleresco medioevale sia il tono ironico del
transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella romanzo di Laurence Sterne La vita e le
abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo
decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo.
via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al
meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza,
cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente.
In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni
conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna
indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va
a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali
transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
Amico. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti
nemici. Leopardi qui ricorda lo stoicismo. Lui
Tristano. Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male. accetta la morte, sa che l’unico modo
Amico. O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e
poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.
per liberarsi da una vita di sofferenza è
Tristano. Mi dispiace molto, ma che s'ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene. la morte. Oggi invidia solo i morti.
Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s'ha egli a fare di questo libro? Cambierebbe la sua vita solo con loro.
Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici,
d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore: perché Si rende conto che la morte leva ogni
in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza dolore ma non si suicida perché lui resta
vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non mi
persuaderanno il contrario. attaccato alla vita, non vuole sottomettersi
Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice a dolore e sofferenza ma combattere
individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
Tristano. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità,
questa vita. Accetta la vita perché non può
né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco cambiarla ma continua a vivere con
desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con coraggio. Non vuole soccombere alla
quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei
così se non fossi ben certo che, giunta l'ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque sofferenza e alla vita, lui affronta la vita ed
io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa è il contrario del suicidio.
sicuro che l'ora ch'io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare
assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da
ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati Esiste un’unica certezza per Leopardi: non
dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei
mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e
riesce a salire le scale e l’amico lo aiuta.
un'illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di All’uomo resta la certezza che la
cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la sofferenza è di tutti, questa condizione
via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene.
Libri e studi, che spesso mi maraviglio d'aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di descritta appartiene a tutti gli uomini e
gloria e d'immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle non è solo di Giacomino. È questo senso
speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l'anima ogni miglior successo possibile,
e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i di appartenere allo stesso destino che
posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli unisce tutti gli uomini, nessuno è escluso
stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con
qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né
da questa realtà. Resta la solidarietà tra
potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, uomini: consapevolezza di appartenere
ogni pensiero dell'avvenire, ch'io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo allo stesso destino che li rende solidali
passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la
ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come contro la natura (che crea le illusioni).
solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi Crede nel genere umano, ci crede fino in
sperato né desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi
fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, fondo. Siamo nel 37, sta morendo ma
dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere,io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi. crede ancora nell’ amicizia dell’amico
Ranieri, della solidarietà tra uomini.

SCAPIGLIATURA
Dal 1860 al 1870 si sviluppa un movimento chiamato Scapigliatura in Italia. È durata poco perche
l’Italia di questo periodo amava Manzoni in tutto quello che è la sua persona. L’italiano si identifica
in Manzoni.

Il quadro più rappresentativo è l’edera di Tranquillo Cremona. L’uomo abbraccia la donna e la


tira verso di sé mentre la donna non è interessata. Non lo abbraccia e si allontana. Ha gli occhi
chiusi, non lo guarda. L’uomo sembra uno straccione, ha i capelli scompigliati e la veste sgualcita.
Tenta di tirarla verso di sé ed è seduto, è in una posizione inferiore rispetto alla donna. Lei è in
piedi e con la mano sembra che si aiuti a scappare, con il corpo indietro e gli occhi chiusi. È un
amore fisico e non corrisposto, è ossessivo e morboso. C’è un elemento che da solo indica questi
due aggettivi: l’edera. Questa pianta si attacca alle pareti, questo amore è fastidioso. Il concetto di
amore è cambiato totalmente.

Medardo Rosso è uno scultore di questo periodo. Realizza opere inquietanti e raccapriccianti.
Provoca una certa repulsione. L’opera è la fotografia del periodo in cui è stata realizzata. Appartiene
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ad un periodo catastrofico. L’artista ha provato del dolore, non ha avuto un’infanzia felice: povero, triste, solo,
disperato. Rappresenta la crudeltà della vita e la tristezza, la povertà, la solitudine e il malessere.

In Italia c’è stato un intellettuale di nome Cletto Arrighi. Era andato in Francia e aveva letto molte opere francesi.
Monmartre era un quartiere di Parigi dove si riunivano gli artisti di strada, è famoso per essere il quartiere degli artisti:
bohemien. Sono artisti di strada che vivono in soffitti e vivono alla giornata, di quello che vendono con le loro opere.
Sono antiborghesi, anticonformisti, repubblicani, socialisti, dediti all’alcool e alle droghe. Sono artisti di strada che
vivono alla giornata di stenti e dentro l’animo hanno insoddisfazione, angoscia (sarà presente in tutti i testi del 900)
tristezza. Medardo è uno di loro. Cletto Arrighi vede questi bohemien, artisti che lavorano e vivono per strada.
Rifiutano tutto cio che è convenzionale. Cletto cerca un termine per tradurre questo termine e lo trova nella parola
scapigliati. Da questo prende il nome il periodo. È un periodo artistico e letterario che non ha preso piede ne in Italia
ne in Francia.

Fosca è un romanzo di Iginio Tarchetti. Segna il passaggio dal Romanticismo al Verismo. Nel romanzo ci sono due
figure che rappresentano due periodi: Clara il romanticismo e Fosca il verismo. È un romanzo scapigliato ma anticipa
temi che saranno al centro del verismo e del decadentismo

CLARA FOSCA

- Bella - Infelicità (Leopardi) - Brutta - Isterica


- Sposata per il matrimonio - Malata - Anoressica
- Fedele ai principi - Madre (famiglia) - Divorziato - Possessiva
(ideali) - Salute - Infelice - No mamma

Giorgio, narratore e protagonista, è un ex ufficiale profondamente segnato da un’esperienza amorosa drammatica e


sconvolgente. Durante un soggiorno milanese, egli conosce Clara, donna sposata che si interessa a lui dapprima
perché lo vede profondamente infelice (medesima origine avrà l’attrazione di Giorgio per Fosca), poi lo ama con
trasporto. Questo amore, anche se illegittimo, è per Giorgio puro e sublime ed entra in contrasto con il torbido
legame a cui Giorgio si vedrà assoggettato parallelamente.

Con il trasferimento in una cittadina di provincia, egli conosce Fosca, cugina del colonnello e comandante del suo
reggimento. Fosca è una donna dalla singolare bruttezza con una malattia mentale, una donna provata dalla natura
e dalle esperienze, ipersensibile ed epilettica. Giorgio le si accosta con ribrezzo e pietà; prima dovrà subire la
possessività della donna poi proverà per lei un sentimento di morbosa attrazione, sino al tragico epilogo.

Un altro scapigliato è Arrigo Boito. È famoso per essere stato il librettista di Verdi. L’opera è l’insieme di teatro,
musica e canto, verdi ha scritto la partitura ma il libretto, che poi è un libro vero e proprio è stato scritto da Arrigo
Boito.

ETÀ DEL REALISMO


I bohémien sono stati degli anticipatori del Realismo. Siamo intorno al 1870 e c’è già stata L’Unità d’Italia. I problemi
sono le differenze tra nord e sud: nord industrializzato e sud arretrato, le terre irredenti, l’emigrazione e l’analfabetismo
(nel 1870 circa il 90% della gente era analfabeta), brigantaggio, occupazione straniera. La caratteristica del realismo è
la realtà. Con il romanticismo si chiude il risorgimento e ora gli autori guardano la realtà che si trovano di fronte. Il
realismo in italia si divide in tre correnti letterarie: Romanticismo, Verismo e Decadentismo

Il romanticismo coincide con il risorgimento ed è un periodo felice. Le persone erano convinte che, attuata l’unità
d’Italia, le cose sarebbero migliorate. Poi arriva Garibaldi, l’Italia venne liberata però a Roma qualcuno disse che non
era cambiato nulla: nei viceré. Nel 1861 viene fatta l’Italia ma rimane un nord industrializzato e un sud agricolo e
povero, esiste ancora il brigantaggio, l’analfabetismo e le terre irredenti.

Comte, filosofo, si oppone all’idealismo di Hegel. Il 1848 (ultime guerre di indipendenza) segna il culmine degli ideali
romantici: patria, libertà, nazione, famiglia, religione. Tutti questi valori vengono sconfitti in tutta Europa perché i
problemi europei rimangono: gli ideali non si sono sviluppati. Nasce una corrente filosofica chiamata positivismo. La
gente, nel romanticismo, aveva cercato la felicità nel sentimento. Erano convinti che nutrendo questi sentimenti si
sarebbe raggiunta la felicità. Quindi passano dagli ideali alla realtà concreta. Se gli ideali non hanno assicurato la
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felicità, lo può fare la realtà. La realtà che circonda l’uomo è la rivoluzione industriale (1870). Questa realtà ha
cancellato i sentimenti all’uomo resta il progresso, la scienza, la ragione. Cercano la felicita nel progresso: sono
convinti che avrebbero portato la felicità che il romanticismo non ha portato.

EMILE ZOLA
Il realismo nasce nel 1830 in Francia. La caratteristica dei romantici è descrivere la realtà che vedono. Nel 1870-80
nasce il naturalismo in Francia, che fa capo a Emile Zola. Scrisse l’ammazzatoio,La differenza con i romanzi veristi
italiani, ambientati nei paesini, vive in città in un monolocale di un sobborgo povero e degradato. La differenza tra
naturalismo francese e verismo è che il primo è ambientato nei sobborghi, il verismo nei paesini. La letteratura
francese prima di lui non ha fatto altro che descrivere la realta dell’aristocrazia francese. È stato il primo ad usare
come protagonista la povera gente.

VERISMO
cosa hanno in comune questo romanzi? Cosa non abbiamo trovato nei romanzi precedenti?

Ventre di Napoli Cani al vento I malavoglia Piccolo Mondo Antico I Viceré


Matilde serao Deledda Antonio Fogazzaro De roberto

- letteratura regionale: ognuno - miseria - prostituzione - aristocratici - raccontano la


descrive la realtà della propria - non c’è un lieto - carcere - realtà più cruda vita vera
region fine
- personaggi del popolo
In piccolo mondo antico troviamo l’aristocrazia e non c’è la miseria miseria. Inoltre ci sono i sentimenti, quando muore
Maria Luisa va in crisi. C’è la religione. Riprende anche il periodo storico. È verista perché ci sono discorsi diretti e
non c’è l’autore. La letteratura verista è regionale, rappresenta il vero e al nord ci sono gli austriaci e ci sono
marchesi e pregano bisogna dirlo. La realtà è diversa rispetto al sud. Non può essere romantico. Per mano in
la religione è un sentimento. Qui non ci sono ???

Giacinta di Capuana è considerato il capostipite del verismo, il primo che ha stabilito determinate regole. È verista?
romanticismo verista

- matrimonio - abbandono - instabilità - adulterio


- Banca (borghese) - Morte della figlia sentimentale - Suicidio
- Conte - Violenza sessuale
Il romanticismo europeo è diverso per ciascun paese. È caratterizzato dal sentimento e ognuno sente in modo
diverso. Parte dal cuore delle persone, ogni autore reagisce in modo diverso. Capuana è sia verista che romantica,
sicuramente ha caratteristiche del verismo ma restano retaggi romantic: non è una vera opera verista

GIOVANNI VERGA
Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre del 1840, in una famiglia dell’aristocrazia siciliana. Nel 1858 si iscrive
alla facoltà di giurisprudenza; all’arrivo di Giuseppe Garibaldi (1860) si arruola nella Guardia Nazionale e rimane in
servizio fino al 1864. In quegli anni scrive e pubblica alcuni romanzi di contenuto patriottico (I carbonari della
montangna, 1861-62; Sulle lagune, 1863); collabora con numerose riviste politiche e letterarie.

Dal 1869 soggiorna a Firenze, allora capitale d’Italia e centro culturale; continua la sua attività di narratore e stringe
amicizia con letterati e uomini di cultura; fra questi Luigi Capuana, che con Verga diviene il teorico del Verismo,
contribuendo alla sua affermazione.

Nel 1872 si trasferisce a Milano. Negli anni del soggiorno fiorentino e milanese Verga scrive romanzi che rispondono
al gusto dell’epoca e che riscuotono successo presso il grande pubblico (Una peccatrice, Storia d’una capinera, Eva,
Eros, Tigre reale). Qui trovi il riassunto di Storia di una capinera: Storia di una capinera.

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Dopo l’incontro con gli esponenti della Scapigliatura milanese, però, si manifesta in lui una certa avversione nei
confronti della società borghese e un sempre maggiore interesse per la vita “vera” degli uomini di più umile
condizione.

Giovanni Verga abbandona così i personaggi aristocratici e borghesi e le loro artificiose passioni e scopre il mondo
degli umili, dei diseredati e degli oppressi.

Prende quindi a descrivere le misere vicende di questa povera umanità in modo “oggettivo”: lascia cioè parlare le
cose e i fatti stessi, senza interventi e commenti personali; adotta immagini, vocaboli, frasi e strutture sintattiche
adeguati alla realtà di questi nuovi personaggi. Scrive così la novella Nedda (1874). Trovi qui il riassunto su Nedda:
Nedda riassunto e analisi.

Questo mondo “vero”, di passioni elementari ma “vere” e di uomini strettamente legati alla dura realtà della vita
quotidiana, è poi oggetto, negli anni successivi, di tutte le più importanti opere di Verga: dalle raccolte delle novelle di
Verga Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883) ai romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889),
due romanzi che avrebbero dovuto far parte di un più ampio ciclo, Il ciclo dei vinti, che però non fu mai condotto a
termine. Qui trovi il riassunto dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo: I Malavoglia; Mastro don Gesualdo.

Nel 1893, Verga Giovanni fa ritorno in Sicilia, a Catania, dove rimane, in un silenzioso isolamento, fino alla morte,
avvenuta il 27 gennaio 1922.

PRODUZIONE
La produzione di Verga si divide in due parti:
● il periodo della prima maniera: compre romanzi di contenuto romantico (imita i romantici)
○ 1866. Scrive ‘Una Peccatrice’. È la storia di Pietro, uno studente, che si innamora di una Contessa.
Hanno una storia d’amore ma Pietro si stanca, lei non resiste ad dolore e si avvelena
○ 1873: scrive ‘Eva’: Enrico, un pittore, si innamora di una ballerina. Lei si stufa e lo abbandona per un
altro. Enrico muore di tisi
○ 1873: ‘Tigre Reale’: storia di Giorgio, diplomatico sposato con tre figli. Ha un’amante ma ad un certo
punto si stufa e torna dalla moglie. L’amante muore di tisi
○ 1875: ‘Eros’ storia del ricco marchese Alberto stufo della vita che si suicida

Elementi romantici dei romanzi: non ci sono contadini, non c’è la miseria più nera. Così anche storie
di una capinera, passione, sentimentalismo, duello: non esistono nel verismo

● Il periodo della seconda maniera: decide di abbandonare il romanzo per dedicarsi alla novella,
○ 1874: scrive ‘Nedda’ la prima novella. Non è ancora verista, è un tentativo, un primo approccio
○ 1880: scrive ‘’Vita dei Campi’, una raccolta di novelle. Rosso Malpelo ne fa parte ed è la prima novella
verista.

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NEDDA

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La svolta per Verga avviene con la novella Nedda. Nella prima maniera ha scritto solo romanzi romantici. Era amico di
capuana e si è reso conto che per rappresentare ciò che vedeva in Sicilia serviva una narrazione oggettiva dove la
gente parlava. Si rende conto che la narrazione non andava bene e scrive NEDDA. Nedda ha ancora caratteristiche
romantiche.

romanticismo verismo

- religione - retaggi medievali: non - morte - amore tragico


- zio borghese volere bambine femmine - Miseria più nera - Malattia
- retaggio borghese del lavoro - intervento del narratore - Raccolta delle olive - gravidanza

Nei promessi sposi il narratore è onnisciente, conosce tutto. Conosce non solo le coordinate geografiche, il periodo
storico ma anche i sentimenti dei personaggi e anche i loro pensieri. Qui l’autore interviene con un suo giudizio
personale la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte: per essere verista non deve intervenire
l’autore, deve essere oggettiva. Da una parte le ragazze del villaggio sparlano di Nedda e il curato la sgrida, La
povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso peccato. Non è verista perché non è oggettiva. L’autore si pone su
un altro piano rispetto a quello che pensano i personaggi. Nella narrazione verista i personaggi narrano da soli,
veniamo a conoscersi tramite quello che dicono. Inizia con la narrazione di Verga.

Il finale è verista:
- Nedda si rivolge alla madonna direttamente. Sono le parole di Nedda – Oh! benedette voi che siete morte! –
esclamò. – Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire È una
descrizione verista
- Non c’è il lieto fine (nel romanticismo c’era il lieto fine) e spariscono i sentimenti, non c’è sentimentalismo.
Questa ragazza giovane ha visto morire la mamma, il compagno, la figlia, è stata derisa. Non c’è traccia
alcuna di sentimentalismo. Finisce la novella in modo oggettivo e senza sentimenti, cessa qualsiasi retaggio
romanico

ROSSO MALPELO
Caratteristiche veriste della novella:
- Non è presente la borghesia, l’ambientazione è solo la cava. I personaggi sono unici e sono i lavoratori Non è
presente la religione
- Non è verga che scrive in prima persona, sono i lavoratori della cava a chiamarlo così. Il narratore non c’è, è
esterno malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo
malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo
chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo
nome di battesimo. Utilizza i discorsi diretti, sono i personaggi a parlare: idea di realtà oggettiva
- L’argomento è verista: tratta argomenti della vita reale dei minatori

Non c’è un riscatto di rosso malpelo: è rassegnato alla vita. È nato in queste condizioni e ci rimane. “Questo racconto
è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le
prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora
relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.”
Malavoglia

Si rifà alla scienza e al progresso. Darwin nasce nel 1809 e muore nel 1882. Da lui prendiamo la parola
adattamento. Ha tentato di dare spiegazioni come la scomparsa dei dinosauri. Secondo lui gli animali non hanno
saputo adattarsi al cambiamento e Verga lo riprende per le persone della realtà povera siciliana. La giraffa invece è
riuscita ad adattarsi. Inoltre dice che in natura vince il più forte. Lo studio di cui parla si riferisce a Darwin.

Caratteristiche realiste:
lavoro in miniera, povertà, crudeltà, morte

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Come giudica Verga Malpelo? Ha un’idea negativa del personaggio. Dopo il romanticismo ci saremmo aspettati un
finale positivo, romantico. Verga è terribile nel suo realismo, leggiamo il disprezzo. In chiusura del racconto emerge
questa ostilità Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di
lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

Si è rassegnato alla vita: avrebbe dovuto cercare di cambiare la sua situazione. Verga è convinto che l’uomo non
debba rassegnarsi ma deve lottare. Quello che succede dopo la lotta deve ancora essere raggiunto.

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LA LUPA

È una novella verista. È lo pseudonimo della mamma chiamata lupa perché insaziabile (sessualmente). La lupa è
esclusa dalla società.

All’inizio viene descritta senza commenti da parte dell’autore Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e
vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel
pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano

CAVALLERIA RUSTICANA
Elementi veristi
- Turiddu lascia che Alfio lo uccida perché non vuole fare un torto a Santuzza. Combatte per stare con la
famiglia e con Santuzza.
- Discorsi diretti: fanno danno voce all’interiorità del personaggio stesso
- Non esiste il narratore
- Ambientazione: un paesino, si narra della vita della povera gente
- c’è un retaggio vecchissimo ovvero medievale: il duello. È un elemento verista. Verga ricorre a questo
retaggio, si allontana dal romanticismo, perché mostra l’essere primitivo el popolo, è come se si fossero
fermati alle vecchie regole del popolo. Risolvere i problemi con la violenza. Sembra che romanticismo ed
illuminismo non siamo mai esistiti

Il verismo racconta la vicenda piu cruda, primitiva e arretrata del popolo tipicamente regionale (in questo caso
siciliana).

Il duello non si trova al nord, un autore verista vive e scrive al nord: fogazzaro con piccolo mondo antico

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LA ROBA

LIBERTÀ

FANTASTICHERIA

STORIE DI UNA CAPINERA


romanticismo verismo

- sentimenti e matrimonio - pazzia


- Borghesia: nell’800 il patrimonio doveva essere indivisibile (promessi sposi). Chi - Morte
aveva piu figli, il patrimonio doveva andare ad uno. Le donne o si sposavano o
andavano in convento e gli altri maschi seminario o esercito Storie di una capinera è
- Convento: religione un romanzo tardo
- Colera: romanzo storico romantico. Ha solo alcuni
- Genere epistolare elementi veristi

Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga.

Il colera e la permanenza a Monte Ilice.


Protagonista del romanzo è Maria, una diciannovenne rimasta orfana di madre in tenera età e rinchiusa all'età di
sette anni in un convento di Catania, costretta a diventare monaca di clausura per motivi di indigenza economica
famigliare (il padre è un «modestissimo impiegato»). A causa dell'epidemia di colera che nel 1854 colpì la città
siciliana Maria ha l'occasione di trasferirsi nella casetta del padre a Monte Ilice e vivere così con la famiglia per il
periodo dal 3 settembre 1854 al 7 gennaio 1855. Della famiglia fanno parte il padre, la matrigna (Maria, in una delle
prime lettere, parla della difficoltà che a volte incontra nel chiamarla madre), la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi.
A Monte Ilice Maria incomincia un lungo scambio epistolare con Marianna, anche lei educanda del convento,
nonché sua migliore amica e confidente, come lei tornata a casa dai genitori (a Mascalucia) a causa del colera.

Il primo periodo viene vissuto da Maria con grande spensieratezza e gaiezza. Monte Ilice rappresenta tutto l'opposto
dell'ambiente claustrale da lei conosciuto: al grigiore dei «muri anneriti», di spazi angusti e severe regole di condotta,
si oppone «una bella casetta posta sul pendìo della collina» dove «per andare all'abitazione più vicina bisogna correre
per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli». Allo straordinario senso di libertà, fino ad allora sconosciuto, si
aggiunge poi la felicità di vivere in mezzo a quell'amore che solo una famiglia può dare (anche se il suo bisogno
di essere amata le fa scambiare per sincero affetto sia l'atteggiamento severo della matrigna - che la tratta non al pari
dei suoi figli naturali, ma piuttosto come un'ospite sgradita - che quello freddo e distaccato della sorellastra Giuditta).
In quest'atmosfera solare la sola ombra che offusca il cuore di Maria è il pensiero di dover tornare alla vita di clausura,
ora che sa cosa offre il mondo esterno: «vorrei esser soltanto come tutti gli altri, nulla di più, e godere codeste
benedizioni che il Signore ha date a tutti: l'aria, la luce, la libertà!». Invidia, perciò, l'amica Marianna per la sua
decisione di non fare più rientro in convento.
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A poca distanza dalla casa di Maria, in fondo alla valle, abita la famiglia Valentini (anche loro trasferitisi a Monte Ilice
per sfuggire al colera), molto amici della sua famiglia e con i quali trascorrono parecchio tempo. Maria diventa così
amica intima di Annetta, figlia dei Valentini e sua coetanea. Conosce anche il figlio maggiore, Antonio, che tutti
chiamano Nino. Nei giorni trascorsi insieme, nelle feste famigliari, nei balli e nelle trafelate corse che coinvolgono i figli
delle due rispettive famiglie, Maria e Nino hanno l'occasione di avvicinarsi, insinuando via via nel cuore della giovane
educanda un sentimento del tutto nuovo per lei: l'amore. Essendone completamente estranea, Maria scambia il
sentimento per una strana e pesante malinconia, che non sa spiegarsi e che adduce ad una probabile malattia.
Grazie all'esame introspettivo a cui la spinge la corrispondente Marianna, Maria riesce finalmente a svelare la natura
del proprio malessere, ma questo la spaventa ancor di più, poiché il suo destino era quello di diventare suora e di
amare solo Dio. La situazione peggiora quando Nino le fa capire di ricambiare gli stessi sentimenti d'amore e la invita
a lasciare il convento.

Esaltata e allo stesso tempo stordita dalla rivelazione, Maria cade in un nuovo stato depressivo. La matrigna,
intuendo la natura di quel malessere, inizia a temere in una sua rinuncia al ritorno in convento al termine
dell'epidemia; decide così di parlarle con franchezza, ribadendole la necessità di diventare suora e proibendole
qualunque contatto con persone estranee alla famiglia, compresi i signori Valentini e, soprattutto, Nino. Il profondo
stato depressivo in cui cade l'educanda diventa una vera e propria malattia delirante che fa temere la famiglia
addirittura per la sua vita.

Cessato l'allarme dell'epidemia la famiglia Valentini decide di fare ritorno a Catania. La notte precedente la partenza,
Nino si presenta alla finestra di Maria per salutarla, ma la giovane, ancora in convalescenza e fortemente a disagio,
cade in preda di un pesante attacco di tosse che le fa perdere i sensi. L'indomani mattina troverà sul davanzale una
rosa lasciata da Nino durante la fugace visita e che la pioggia notturna aveva infradiciato.

Il ritorno in convento
Dopo una settimana dalla partenza dei Valentini, l'8 gennaio 1855 anche la famiglia di Maria fa ritorno a Catania. La
giovane educanda, non ancora del tutto guarita, acconsente al rientro con la morte nel cuore, sia perché lascia - e per
sempre - un luogo a lei divenuto molto caro, sia perché tornare a Catania significava tornare alla vita di clausura.
Dalle anguste mura del convento, seppur con minor frequenza rispetto a prima, Maria continua a scrivere all'amica
Marianna, ora suo unico conforto. Le lettere vengono consegnate a suor Filomena, suora laica molto legata a
Maria e per la quale si incarica di recapitare la corrispondenza.

L'isolamento del luogo conventuale, invece di darle serenità, non fa che acuire la sofferenza interiore e quindi il suo
già cagionevole stato di salute, tanto da costringerla a passare buona parte dell'anno in infermeria, a causa di ripetuti
attacchi di febbre. Il corpo soffre, perché la mente ritorna sempre al breve periodo di gioia vissuto a Monte Ilice e,
ancor più, a Nino. Questi pensieri del tutto inopportuni per una suora le straziano l'anima e allora si confessa, prega
intensamente e si punisce digiunando e mortificando la propria carne per giungere ad uno sfinimento del
corpo e dello spirito. Gli esercizi spirituali si intensificano ancor più quando riceve la terribile notizia del matrimonio
tra Nino e la sorellastra Giuditta.

Il 6 aprile 1856 Maria prende finalmente i voti. Alla cerimonia (che lei paragona ad un funerale) assistono tutti i suoi
famigliari, compreso un pallido Nino che la guarda «cogli occhi spalancati». L'essere diventata suora a tutti gli effetti
non produce alcun balsamo alle sue sofferenze: anzi, più cerca di reprimere i suoi sentimenti, più questi la
tormentano, accrescendo il suo senso di colpa e di dannazione eterna, combattuta tra l'amore per il suo peccato e i
suoi doveri di suora. Teme di impazzire e racconta a Marianna della presenza in convento di una suora pazza,
suor Agata, che da quindici anni è rinchiusa nella «cella dei matti». Racconta anche di una macabra tradizione
del convento, secondo la quale la cella dei matti non deve mai rimanere vuota. Maria è atterrita al pensiero di poter
essere lei la prossima, poiché sente che sta perdendo la ragione e, del resto, i momenti di delirio febbrile vissuti sono
oramai molto più frequenti dei momenti di apparente quiete interiore.

Una mattina sale sul belvedere del convento e scopre che da lì può vedere la casa di Nino e Giuditta: da una finestra
arriva perfino a distinguere nitidamente i due sposi. Da allora, ogni giorno e ogni notte si reca sul belvedere per
scorgere Nino, magari «per vederlo un solo istante passare da una stanza all'altra e nulla più!». Saperlo a pochi passi
dal convento esacerba tutti i suoi supplizi interiori, facendola impazzire. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di
fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte violentemente, viene trascinata

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all'interno della cella di suor Agata, la suora pazza, ma a quel punto Maria sviene. Viene portata quindi in
infermeria dove, dopo tre giorni, muore.

Il libro si chiude con la lettera che suor Filomena, la suora laica, scrive a Marianna e con la quale le fa pervenire
(dietro espresso desiderio di Maria) gli effetti personali della defunta trovati sul suo letto di morte: un crocefisso
d'argento, alcuni fogli manoscritti (le ultime lettere senza data che Maria scrisse in pieno delirio), una ciocca di capelli
e alcuni petali di rosa, di quella stessa rosa che Nino le aveva appoggiato sul davanzale la notte prima della partenza
da Monte Ilice, e che furono trovate sopra le labbra senza vita di Maria.

I MALAVOGLIA
I malavoglia sono il classico romanzo verista.
“Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come verga fa la stessa cosa che fa uno
probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili scienziato: per studiare la propria realta
condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale usa uno studio scientifico ovvero
perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora osservazione, ipotesi e verifica.
relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non
si sta bene, o che si potrebbe star meglio.” Studia 6<

Presso il paese di Aci Trezza, nel catanese, vive la laboriosa famiglia di pescatori Toscano, soprannominata
Malavoglia per antifrasi secondo la tradizione della 'ngiuria (una particolare forma di appellativo). Il patriarca della
famiglia è l'anziano Padron 'Ntoni, vedovo, che vive presso la "Casa del Nespolo" insieme al figlio Bastiano, detto
Bastianazzo, il quale è sposato con Maruzza, detta la Longa. Bastiano e Maruzza hanno cinque figli, in ordine di età:
'Ntoni, Luca, Filomena detta Mena o Sant'Agata, Alessio detto Alessi e Rosalia detta Lia. Il loro principale
mezzo di sostentamento è la "Provvidenza", nome dato alla piccola imbarcazione che utilizzano per la pesca.

Nel 1863 'Ntoni, il maggiore dei figli, parte per la leva militare. È la prima volta che un membro della famiglia dei
Malavoglia parte per la leva nell'esercito del Regno d'Italia e sarà questo evento (che rappresenta simbolicamente
l'irruzione del mondo moderno in quello rurale della Sicilia contemporanea) a segnare l'inizio della rovina della
famiglia stessa. 'Ntoni, lavorando, aiutava economicamente la famiglia e a causa della sua partenza come soldato
questi guadagni vengono a mancare. Inoltre, l’annata è cattiva e occorre provvedere alla dote di Mena, giunta ormai
all’età da matrimonio. Per superare questo momento di difficoltà, Padron 'Ntoni tenta un affare comprando una
grossa partita di lupini, peraltro avariati, da un compaesano usuraio, chiamato Zio Crocifisso (oppure Campana di
legno) per via delle sue continue lamentele e del suo perenne pessimismo.

Il carico viene affidato a Bastianazzo perché si rechi con la Provvidenza a Riposto per venderlo, ma durante il viaggio
via mare la barca subisce un naufragio, Bastianazzo e il suo garzone muoiono e i lupini vanno persi. A seguito
di questa sventura, la famiglia si ritrova con una triplice disgrazia: è morto il padre, principale fonte di sostentamento
della famiglia, la Provvidenza va riparata ed occorre pagare il debito dei lupini. Padron 'Ntoni si reca a discutere
del debito contratto con Zio Crocifisso con l'avvocato Scipioni, il quale sconsiglia di ripagarlo, in quanto
comporterebbe la loro caduta e anche perché non era mai stato un atto ufficiale. Inoltre la Casa del Nespolo, l'unico
loro possedimento in grado di ripagare il debito, è un bene relativo alla dote di Maruzza, quindi intoccabile per le leggi
del tempo. I Malavoglia però, rimanendo vincolati alla loro storia di uomini d'onore, decidono di pagarlo comunque.
'Ntoni finisce il servizio militare prima del previsto; se fosse rimasto per altri sei mesi a Napoli, luogo in cui svolgeva la
sua funzione, suo fratello Luca sarebbe stato esonerato dal servizio, ma decide di tornare perché non sopporta i
disagi del servizio militare. 'Ntoni fatica anche a riadattarsi alla dura vita di pescatore e finisce per non dare
alcun sostegno economico al nucleo familiare.

La Provvidenza viene riparata e, seppur di ridotte dimensioni, ritorna in funzione.

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Le sventure per la famiglia però non terminano. Luca, partito a sua volta per il servizio militare, muore nella
battaglia di Lissa (1866). Zio Crocifisso, per costringere i Malavoglia a pagare il debito, finge di averlo venduto al
sensale Piedipapera, il quale sostiene di non poter più tirare avanti senza quel denaro. La famiglia è così costretta a
lasciare l'amata Casa del Nespolo e a trasferirsi in una casa in affitto. Ciò determina anche la rottura del
fidanzamento di Mena con Brasi Cipolla, figlio del ricco del villaggio, del quale non era però mai stata
innamorata, preferendogli l'umile carrettiere Alfio Mosca. Nonostante i grandi sacrifici per accumulare denaro al fine
di ricomprare la Casa del Nespolo, la reputazione e l'onore della famiglia peggiorano fino a raggiungere livelli
umilianti. Un nuovo naufragio della Provvidenza porta Padron 'Ntoni ad un passo dalla morte; Maruzza muore
invece di colera. 'Ntoni, stanco di lavorare senza ottenere risultati, se ne va dal paese per tentare di fare fortuna
altrove, avendo sentito dei forestieri parlare di una nuova società dove c'erano persone che non erano più costrette a
lavorare, ma ritorna qualche tempo dopo ancora più impoverito. Perde allora ogni desiderio di lavorare, dandosi
all'ozio e all'alcolismo.
La partenza di 'Ntoni costringe nel frattempo la famiglia a vendere la Provvidenza per accumulare denaro e a
lavorare a giornata.

La padrona dell'osteria Santuzza, già oggetto di interesse amoroso da parte del poliziotto Don Michele, si
invaghisce di 'Ntoni (che intanto entra nel giro del contrabbando), mantenendolo gratuitamente all'interno del
suo locale. La condotta di 'Ntoni e le lamentele del padre la convincono però a distogliere le sue aspirazioni dal
ragazzo e a richiamare Don Michele all'osteria. Ciò determina una contesa tra i due pretendenti, al culmine del
quale 'Ntoni arriva ad accoltellare al petto Don Michele, nel corso di una retata anti-contrabbando. 'Ntoni viene
arrestato e Padron 'Ntoni spende gran parte dei loro risparmi per pagare un avvocato.

Al processo, 'Ntoni viene condannato a 5 anni di carcere, evitando una pena più lunga per motivi "d'onore".
L'avvocato lascia infatti intendere che la rissa fosse scoppiata perché 'Ntoni voleva difendere la reputazione della
sorella Lia, della quale Don Michele si era invaghito e che lei aveva respinto. Padron 'Ntoni però, sentendo le voci
circa la relazione tra Don Michele e sua nipote Lia, sviene esanime. Dopo tutte queste disgrazie, il salmodiare di
Padron 'Ntoni, ormai molto anziano, si fa sconnesso e i suoi proverbi (che accompagnano tutta la narrazione) iniziano
a venire pronunciati senza cognizione di causa. Non essendo più in grado di lavorare e un onere per i nipoti, si decide
di ricoverarlo in ospedale. Intanto Lia, vittima delle malelingue e del disonore, lascia il paese per non tornarvi più
e finisce a prostituirsi a Catania.

Infine, l'ultimo dei figli, Alessi, continuando a fare il pescatore, riesce a guadagnare abbastanza soldi per ricomprare
la Casa del Nespolo, dove si trasferisce con Nunziata, che ha nel frattempo sposato. Mena, a causa della
vergognosa situazione della sorella Lia, rinuncia a sposarsi con Alfio Mosca e rimane ad accudire i figli di Alessi e
Nunziata. Ciò che resta della famiglia fa visita a Padron 'Ntoni all'ospedale per informarlo che la Casa del Nespolo è di
nuovo nelle loro mani.

Questa è l'ultima gioia per il vecchio pescatore, che muore col sorriso sulle labbra proprio nel giorno del suo agognato
ritorno a casa. Alla fine, uscito di prigione, anche 'Ntoni ritorna a casa ma, nonostante i ripetuti inviti di Alessi, si rende
conto di non poter rimanere, a causa del suo passato: con il suo comportamento si è auto-escluso dal nucleo
familiare, rinnegando sistematicamente i suoi valori ed è costretto ad abbandonare la sua casa proprio quando ha
preso consapevolezza che essa era l'unico luogo dove era possibile vivere degnamente. Dopo aver salutato tutti
quindi, se ne va, prima di essere visto da altri.

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