DIRITTO PUBBLICO - Fabio Elefante
DIRITTO PUBBLICO - Fabio Elefante
DIRITTO PUBBLICO - Fabio Elefante
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Il diritto pubblico si occupa del potere che si distingue in potere sociale e potere politico.
Il potere sociale coincide con la capacità di influenzare il comportamento di altri individui.
Si distinguono tre diversi tipi di potere sociale:
Il potere economico lo detiene chi si avvale del possesso di certi beni, per indurre coloro che non li
posseggono a seguire una determinata condotta (es. il proprietario, grazie alla disponibilità esclusiva di un
bene produttivo – la terra o la fabbrica – concede lavoro agli agricoltori o agli operai che sottostanno alle
condizioni da lui stesso poste);
Il potere ideologico lo detiene chi si avvale del possesso di certe forme di sapere, di conoscenze, di dottrine
filosofiche o religiose per esercitare un’azione di influenza sui membri di un gruppo, inducendoli a compiere
o all’astenersi dal compiere certe azioni (es. intellettuali, sacerdoti, scienziati);
Il potere politico lo detiene chi è in grado di imporre la propria volontà ricorrendo alla forza legittima (es. lo
Stato).
Legittimazione
Tuttavia, il potere politico non si basa solamente sulla forza, ma anche su un principio di giustificazione dello stesso,
che si chiama legittimazione.
Es: noi di solito ubbidiamo alle leggi dello Stato senza che vengano i carabinieri a casa ad imporcelo. L’uso della forza
è, quindi, sempre una risorsa estrema. Normalmente si obbedisce al comando di chi detiene il potere politico non
soltanto perché questi può ricorrere alla forza per imporre la sua volontà, ma perché si ritiene che sia moralmente
obbligatorio obbedire a quel comando in quanto chi lo ha adottato è autorizzato a farlo.
Il sociologo tedesco Max Weber ha individuato tre differenti tipi di potere legittimo:
potere tradizionale, che si basa sulla credenza nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre;
potere carismatico, che trae la sua legittimità dalla capacità di ottenere obbedienza in base al carisma e che
poggia sulla dedizione ai valori. Quindi, il capo carismatico ottiene obbedienza e legittimazione al suo potere
grazie alle proprie doti personali (è il caso di Cesare e Napoleone o di Hitler, Mussolini, Lenin e Stalin);
potere legale-razionale, che poggia su un principio secondo cui il potere politico è sottoposto al diritto,
motivo per il quale è in grado di garantire la libertà dei cittadini ed evitare il pericolo di abuso di potere.
Questo potere oltre ad essere legittimato da principi e norme giuridiche, lo è anche dal libero consenso
popolare, espresso tramite elezioni, referendum, sindacati, partiti etc…
Ciò che distingue questi poteri l’uno dall’altro è il MEZZO attraverso cui si esercita l’influenza.
LO STATO
Lo Stato è una particolare forma di organizzazione del potere politico, che esercita il monopolio della forza legittima,
esercitato su una comunità di persone, all’interno di un determinato territorio. Lo Stato nasce e si afferma in Europa
tra il XV e il XVII secolo. I romani per status indicavano la condizione di un soggetto, mentre per res publica o civitas
intendevano lo stato. Il significato moderno di Stato si deve all'opera "Il Principe" di Machiavelli del 1513. Prima lo
Stato era piuttosto dispersivo poiché basato sul rapporto vassallo-signore, proprio del sistema feudale (XII-XIII
secolo). Il Signore concedeva un feudo al vassallo, instaurando un rapporto di obblighi e diritti. Al di sotto del vassallo
vi erano coloro che contribuivano al mantenimento del feudo. Il vassallo poteva però cedere una parte del feudo ai
valvassori, che a loro volta potevano cedere una parte ai valvassini. Per di più uno stesso individuo poteva essere
vassallo di più signori. In questo modo il feudo divenne divisibile, ereditabile e talvolta alienabile. La società inoltre
non era composta da individui, bensì da comunità minori (familiari, economiche, religiose e politiche). Non esisteva
un diritto unico per tutti e un soggetto poteva far parte di più comunità contemporaneamente, ecco perché si
creavano spesso problemi di sovrapposizione, confusione e conflitti. Inoltre tra il 1378 e il 1417 ci fu un grande
scisma religioso che originò guerre civili e religiose. Lo Stato moderno nacque nel XVIII secolo, in seguito alla
rivoluzione americana del 1775 e di quella francese del 1789, come bisogno di assicurare un ordine sociale, dopo
secoli di insicurezza. In questo nuovo stato l'individuo non era più suddito, ma cittadino, che godeva di diritti civili e
politici.
I caratteri di questo stato sono:
lo stato di diritto, con cui si afferma la centralità della legge;
lo stato costituzionale, con cui si afferma una Costituzione che definisce l'organizzazione, sancisce e
garantisce i diritti inviolabili e fissa le condizioni e i limiti invalicabili dello Stato stesso;
lo stato rappresentativo, che si basa sul principio di rappresentanza del cittadino da parte dei partiti.
Stato
comunità Stato
apparato
la teoria della sovranità dello Stato in quanto persona giuridica, cioè soggetto di diritto (sancita dallo Statuto
Albertino del 1848);
la teoria della sovranità della nazione, invenzione del costituzionalismo francese dopo la rivoluzione del
1789 (art.3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino);
la teoria della sovranità del popolo, invenzione di Rousseau, che fece coincidere la sovranità con la volontà
generale, a sua volta identificata con la volontà del popolo sovrano.
Un elemento comune a tutte e tre le teorie è il rifiuto di qualsiasi legge fondamentale capace di vincolare il
sovrano. Con il costituzionalismo del '900 si affermò il principio della sovranità popolare.
Art.1 comma 2 della Costituzione Italiana: la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione.
Oggi questa sovranità non ha più carattere assoluto per 3 motivi:
non si esercita più direttamente, ma attraverso un sistema rappresentativo a suffragio universale;
la diffusione di costituzioni rigide, che hanno un'efficacia superiore alla legge;
la formazione di organizzazioni internazionali. Dopo le due guerre mondiali (1914-1945) si è sviluppato un
processo di limitazione giuridica della sovranità esterna degli stati, con la finalità di garantire la pace. Il 26
Giugno del 1945, a questo scopo, è stata creata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Limitazione
ancora più accentuata con la creazione in Europa delle organizzazioni sovranazionali, quali la Comunità
Economica Europea (CEE), Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) e Comunità Europea per
l'Energia Atomica (CEEA), tutte e tre riunite nel 1992 con il Trattato di Maastricht nella Comunità Europea
(CE), oggi Unione Europea (UE). Queste organizzazioni detengono poteri rilevanti, quali produrre norme
giuridiche e prendere decisioni in alcuni campi, prima riservate soltanto agli stati.
La sovranità ha quindi limiti interni e internazionali, motivo per il quale lo Stato non ha piena sovranità sul suo
territorio, in quanto non controlla più i suoi beni immateriali, è condizionato da decisioni prese al di fuori dei confini
e, aprendosi ai mercati internazionali, è limitato nella possibilità di scegliere il proprio indirizzo politico.
All’interno dello Stato, che concepiamo come persona giuridica, ci sono degli organi che operano in nome e per
conto dello Stato, anche se solo alcuni di questi vengono definiti “organi costituzionali”, per due ragioni:
sono previsti dalla Costituzione, anche se ci sono degli organi nominati dalla Costituzione che non sono
organi costituzionali (Magistratura);
gli viene assegnata in tutto o in parte la funzione di indirizzo politico (la Magistratura non è un organo
costituzionale in quanto il potere giudiziario è vincolato dal principio di legalità, essa non ha autonomia
politica: il giudice italiano non può compiere scelte politiche).
Gli organi costituzionali sono:
il Presidente della Repubblica;
il Parlamento;
il Governo (inteso come organo collegiale, non come Presidente del Consiglio);
la Corte Costituzionale.
Gli elementi costitutivi dello Stato
Gli elementi costitutivi di uno Stato, cioè quelli indispensabili affinché esso possa esistere, sono:
Territorio
Popolo
Apparato sovrano
Territorio
Il territorio è lo spazio delimitato da confini, all’interno del quale lo Stato esercita il proprio potere sovrano.
Il territorio è costituito:
dalla terraferma;
dalle acque territoriali;
dallo spazio aereo;
dalla piattaforma continentale;
dalla zona economica esclusiva;
dal territorio fluttuante.
Terraferma: è la porzione di territorio delimitata da confini, che possono essere naturali (fiumi, montagne) o
artificiali (stabiliti da trattati internazionali).
Mare territoriale: è quella fascia di mare costiero interamente sottoposta alla sovranità dello Stato.
Oggi, quasi tutti gli stati fissano in 12 miglia marine il limite del mare territoriale, adeguandosi alla convenzione di
Montego Bay (Giamaica).
Spazio aereo: è lo spazio che sovrasta la terraferma e le acque territoriali soggetto alla sovranità dello Stato. Tuttavia
esso si arresta al limite dell’atmosfera, cosicché i satelliti possano orbitare liberamente intorno al globo.
Piattaforma continentale: è costituita dal cosiddetto “zoccolo continentale”, e cioè da quella parte del fondo marino
che circonda le terre emerse prima che la costa sprofondi negli abissi marini.
Zona economica esclusiva (ZEE): ovvero quella parte del mare adiacente alle acque territoriali e nella quale lo Stato
costiero gode di una serie di diritti prevalentemente a scopo economico.
Territorio fluttuante: che comprende le navi e gli aerei mercantili in viaggio in alto mare e sul cielo sovrastante e le
navi e gli aerei militari, ovunque si trovino. In quest’ultimo caso, si parla anche di “ extraterritorialità”, quando si
verifica una sottrazione di parti del territorio alla piena sovranità, o di “ultraterritorialità”, quando c’è un’estensione
di poteri dello Stato al di là del proprio territorio.
L'indebolimento del controllo dello Stato sul suo territorio è dovuto alla globalizzazione; quest'ultima ha creato
mercati mondiali in cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all'altro, grazie alle tecnologie
sempre più avanzate (informatica ⇒ reti telematiche) e alla finanziarizzazione dell'economia, incentrata sempre di
più sulle proprietà e sullo scambio, piuttosto che sul possesso dei beni. Lo stato oggi NON può trattenere alcuni
prodotti, come capitali, nei propri confini e NON può impedire o ostacolare l'ingresso di beni e prodotti da un altro
Paese ⇒ economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Il trattato sull'Unione Europea, TUE, garantisce ai suoi
cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui è assicurata la libera circolazione di
beni e persone.
Il popolo
Il popolo è l’insieme di individui ai quali l’ordinamento giuridico statale attribuisce lo status di cittadino.
La popolazione, invece, è l’insieme degli individui (cittadini, stranieri e apolidi, cioè privi di qualunque cittadinanza)
che si trovano in un certo momento nel territorio di uno Stato.
La cittadinanza
La cittadinanza giuridicamente è uno status, cioè una posizione che comporta l’attribuzione di una serie di diritti e di
doveri. L’art.22 della CI sancisce: “nessun cittadino può essere privato della cittadinanza per motivi politici, ne può
essere costretto all’esilio”.
La cittadinanza italiana si acquisisce (legge 05/02/1992 n.91):
A. con la nascita per:
ius sanguinis (diritto di sangue), ossia acquista la cittadinanza colui che abbia uno o entrambi i
genitori italiani, qualunque sia il luogo di nascita;
ius soli (diritto di suolo), ossia acquista la cittadinanza colui che è nato in Italia, indipendentemente
dal tipo di cittadinanza posseduta dai genitori.
B. per nascita sul territorio, ossia acquista la cittadinanza lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto
legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, se entro un anno dichiara di voler
acquistare la cittadinanza italiana.
C. su istanza dell’interessato (gravata dal pagamento di un “contributo” di €200) e in particolare:
dal coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente
da almeno 2 anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo 3 anni dalla data del matrimonio se
residente all’estero (i termini sono dimezzati in presenza dei figli);
dallo straniero, dopo almeno 10 anni di regolare residenza in Italia (prolungata residenza);
dallo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della
Repubblica da almeno 5 anni successivi all’adozione;
dallo straniero che ha prestato servizio alle dipendenze dello Stato per almeno 5 anni;
dall’apolide che risiede legalmente da almeno 5 anni nel territorio della Repubblica;
dal cittadino di uno Stato membro dell’UE se risiede legalmente da almeno 4 anni nel territorio della
Repubblica.
D. con decreto del Presidente della Repubblica: dallo straniero, quando questi abbia reso eminenti servizi
all’Italia.
La cittadinanza europea
Il Trattato di Maastricht (o Trattato sull’Unione Europea) del 1992 ha introdotto la cittadinanza dell’Unione. Infatti, i
cittadini dell’Unione Europea godono ormai tutti di una doppia cittadinanza: sono cittadini dello Stato di
appartenenza, ma sono anche cittadini europei. Pertanto, l’unico presupposto per essere titolari della cittadinanza
europea è quello di essere già cittadini di uno Stato membro.
I diritti che spettano al cittadino europeo sono:
il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
il diritto di votare e di essere eletto per il Parlamento europeo (diritto di elettorato passivo);
il diritto alla tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro;
il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo (diritto di petizione).
Ps: il diritto di elettorato attivo permette di votare alle elezioni comunali dello Stato in cui si risiede.
Lo Stato si differenzia da altre organizzazioni politiche per la presenza di un apparato burocratico o amministrativo,
che è stabile nel tempo e organizzato; si basa su regole predefinite e ha carattere impersonale poiché prescinde dalle
persone che lo fanno funzionare. Il suo funzionamento è dovuto ad una burocrazia professionale, formata da
soggetti che operano per lo Stato. Le origini di quest'ultima risalgono al XVI secolo, quando nacque per finalità
militari e tributarie, infatti creò corpi militari forti e mise a disposizione ingenti risorse. Le dimensioni dell'apparato
statale sono cresciute progressivamente, anche perché alla burocrazia statale si sono affiancate altre burocrazie
pubbliche: oggi contiamo circa fra i 3 e i 6 milioni di persone appartenenti alle burocrazie pubbliche.
Lo Stato definito come persona giuridica detiene la capacità di agire in modo giuridicamente rilevante e di costituire
centri di imputazione di effetti giuridici. Lo Stato, in quanto tale, impedì così all'apparato burocratico di identificarsi
con il volere pubblico e garantì quindi il principio dell'obiettività.
Quest’ultimo può essere a sua volta inteso come:
- lo Stato persona
Lo Stato persona, detto anche Stato governo o Stato ente, indica l'organizzazione del potere pubblico e i soggetti
governanti.
- lo Stato comunità
- lo Stato ordinamento
Sul piano internazionale lo Stato agisce come persona, mentre sul piano nazionale lo Stato agisce tramite i suoi enti,
sui quali ricadono le responsabilità civili, o tramite i suoi organi.
Accanto allo Stato esistono diversi enti pubblici, come le regioni, le province e i comuni. Questi sono stati istituiti
dalla legge per il soddisfacimento di interessi pubblici e godono anche loro di personalità giuridica. Alcuni enti, come
quelli sopra citati, godono di autonomia politica, in quanto possono esprimere indirizzi politici diversi da quelli dello
Stato. Lo Stato e gli enti pubblici hanno una posizione di supremazia rispetto ai soggetti privati. I loro effetti giuridici,
come leggi, sentenze e provvedimenti, hanno l'obbligo di essere osservati e vengono applicati indipendentemente
dal consenso o dal dissenso degli altri, questo perché godono di potere d’imperio, che agisce sempre nel rispetto del
principio di legalità. I soggetti privati sono collocati su un piano di parità giuridica e possono provvedere liberamente
a disciplinare i propri rapporti, questo perché godono di principio di autonomia privata. Oggi lo Stato e gli enti
pubblici utilizzano sempre di più istituti privati per soddisfare interessi pubblici: in questo caso sono entrambi sullo
stesso piano. La distinzione tra soggetti privati e pubblici oggi tende ad essere sempre meno rilevante. Il diritto
comunitario non distingue le due categorie, ma parla di organismo di diritto pubblico, nato per evitare che il denaro
pubblico finisca nelle casse di operatori privati e per far sì che non ci siano imprese privilegiate, assicurando anche ad
enti che non fanno parte della pubblica amministrazione le stesse norme applicate in maniera di appalti pubblici.
Uffici e organi
Un ufficio è un’unità strutturale elementare dell'organizzazione. Una sua particolare categoria è l'organo, definito
come un ufficio idoneo ad esprimere la volontà della persona giuridica e ad imputarle l'atto e i relativi effetti. Questi
ultimi si distinguono in:
Stato liberale
Forme di Stato di
democrazia
Stato pluralista
Stato
totalitario
Stato socialista
Ciò che distingue le varie forme di stato è la FINALITA’ POLITICA DELLO STATO, che caratterizza l’epoca storica.
Lo Stato assoluto
Lo Stato assoluto fu la prima forma di Stato moderno. Esso nacque in Europa tra il 1400 ed il 1500. Nello Stato
assoluto il potere sovrano era concentrato nelle mani della Corona (la Corona si distingueva dal Re perché non era
una persona fisica, ma un organo dello Stato), che perciò era titolare sia della funzione legislativa che di quella
esecutiva, mentre il potere giudiziario era esercitato da Corti e Tribunali, formati da giudici nominati dal Re, perciò in
questo tipo di Stato tutto ciò che il Re voleva, aveva efficacia di legge. Storicamente tale forma di Stato è
rappresentata in modo esemplare dal regno di Luigi XIV in Francia, al quale gli storici attribuiscono il famoso motto
“lo Stato sono io”. Si affermò però anche in Inghilterra con la dinastia dei Tudor, ma fallì con gli Stuart, e in Austria e
in Prussia, dove nacque lo Stato di polizia, sotto il regno di Maria Teresa e Giuseppe II.
Lo Stato di polizia
Lo Stato di polizia (dal greco “polis”, ovvero “città”, inteso come soddisfazione dei bisogni della città) anche detto
“assolutismo illuminato”, era uno Stato che si poneva il fine di accrescere il benessere della popolazione e che,
spinto da tale finalità, si incaricava di avviare molte attività sociali, quali: costruire ospedali, ospizi per i poveri,
istruire scuole pubbliche, etc…
Con Luigi XIV si parlò di mercantilismo, un’economia statale basata sull’idea secondo cui la grandezza e la fama del
Re dipendesse dalla prosperità economica del Paese, motivo per il quale Luigi XIV promosse industrie, istituì
manifatture e monopoli, migliorò strade e trasporti e puntò sull’esportazione.
Pertanto un punto fondamentale di questo modello è l’intervento dello Stato nella sfera economica.
Lo Stato liberale
Lo Stato liberale è una forma di Stato che nacque tra la fine del 1700 e la prima metà del 1800, a seguito della crisi
dello Stato assoluto, che si verificò per ragioni economiche, in quanto il peso fiscale della nuova classe borghese
divenne insostenibile. In Francia la crisi sfociò nella Rivoluzione Francese del 1789. In seguito alla convocazione degli
Stati Generali, la borghesia venne riconosciuta politicamente; gli Stati Generali si proclamarono Assemblea Nazionale
e si assegnarono il compito di dare una nuova Costituzione al paese. La monarchia assoluta venne così travolta da
una rivoluzione parlamentare e da una sommossa popolare. Per finire poi venne approvata la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino. Successivamente venne restaurata la monarchia con Napoleone (la Francia con lui
conobbe la dittatura); nel 1875, con le leggi costituzionali, fu instaurata la Terza Repubblica. In Inghilterra,
nonostante gli sforzi degli Stuart, l'assolutismo non durò molto. Con il “Common Law” la nobiltà affermò la propria
indipendenza e il Re venne sottoposto al diritto. Si garantì l'equilibrio tra poteri statali instaurando la via
dell'abdicazione, piuttosto che della deposizione, in modo tale da evitare che il Parlamento sovrastasse il Re.
Vennero poi adottate la “Declaration of Rights” e il “Bill of Rights”, con cui si affermarono una serie di libertà, come
quella di parola e di discussione e vari divieti al Re, come quello di sospendere leggi o di imporre tributi, senza il
consenso del Parlamento. In America, la società era formata da emigranti, contadini, artigiani e operai che cercavano
nuove opportunità. L'Inghilterra pensò bene di incrementare le casse dello Stato inglese imponendo nuove tasse ai
coloni americani, che si appellarono al diritto "no taxation without representation". Inoltre il 4 luglio 1776 firmarono
la Dichiarazione d’indipendenza, secondo cui tutti gli uomini sono uguali e dotati di diritti inalienabili, quali la vita, la
libertà e la ricerca della felicità. Nel 1787 venne firmata la Costituzione americana a Philadelphia, il cui obiettivo era
quello di formare un Governo forte e autorevole, espressione del popolo. Per evitare l'abuso di potere quest'ultimo
venne diviso orizzontalmente (separazioni dei poteri) e verticalmente (il federalismo - entità autonome legate da un
patto).
Spesso lo Stato liberale e lo Stato di diritto vengono confusi, poiché sono figli della stessa ideologia. La differenza sta
nel fatto che lo Stato liberale ha un'ideologia liberista e individualista ed è uno Stato minimo, in quanto il suo unico
scopo è quello di garantire pace e sicurezza e di lasciare agire i privati, mentre lo Stato di diritto è più un concetto
giuridico, che si basa su alcuni pilastri fondamentali, quali la separazione dei poteri, il principio di legalità, la tutela
dei diritti, il principio di uguaglianza e l'indipendenza dei giudici, principi che possono adattarsi anche ad uno Stato
liberale, ma non solo, infatti gli stati sociali moderni sono considerati stati di diritto.
Lo Stato liberale entrò in crisi nei primi anni del 1900 e in quelli immediatamente successivi alla Prima Guerra
Mondiale (1914). In Inghilterra e Francia si assistette al passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, mentre
in Italia e in Germania presero piede i regimi totalitari.
Lo Stato democratico
Lo Stato di democrazia pluralista si affermò quando la società si allargò e il diritto di voto si estese e divenne a
suffragio universale: lo Stato monoclasse divenne così Stato Pluriclasse.
Gli elementi che hanno contribuito all’affermazione dello Stato di democrazia pluralista sono:
l’affermazione dei partiti di massa;
la nascita di nuovi organi elettivi;
il riconoscimento, insieme ai diritti di libertà già garantiti dallo Stato liberale, dei diritti sociali.
Anche nello Stato liberale c’erano i partiti di massa (Whighs e Tories in Inghilterra, destra e sinistra in Italia), ma
erano formati da gruppi ristretti di borghesi e il suffragio era limitato appunto ai borghesi stessi. Quello che cambiò
con il nuovo modello di Stato fu l’integrazione delle masse nelle istituzioni politiche e il suffragio universale (in
Inghilterra venne istituito nel 1919 e nel 1969 venne esteso ai diciottenni. In Italia venne istituito nel 1912, ma
potevano votare solo i maschi ventunenni. Nel 1946 il diritto di voto fu esteso alle donne e nel 1975 fu esteso a tutti i
cittadini diciottenni); quello che rimase uguale fu l’economia di mercato, basata sul libero incontro tra domanda e
offerta, destinata ad una produzione capitalistica. Questi partiti avevano un apparato organizzativo solido e diedero
vita alla burocrazia di partito. I primi partiti erano espressione della classe operaia e si basavano sull’ideologia
socialista: in Germania il Partito Socialdemocratico Tedesco, in Inghilterra il Partito Laburista, in Italia il Partito
Socialista Italiano e il Partito Popolare Italiano di Don Luigi Sturzo. Tutti questi partiti avevano identità e programmi
contrapposti, ma riuscirono a controllare e dirigere il Parlamento e il Governo.
Il passaggio dalle istituzioni liberali a quelle democratiche impedì che il Partito vittorioso eliminasse l'altro sconfitto e
garantì la coesistenza di più partiti, pur con programmi politici diversi. Queste democrazie fallirono in Germania e in
Italia, dove si assistette alla nascita dello Stato totalitario.
Lo Stato totalitario
La Germania diede vita ad una Repubblica basata sulla Costituzione di Weimar del 1919, con la quale si tentò una
democrazia di massa. Questa fu la prima Costituzione a riconoscere e a garantire i diritti sociali, quali i diritti
all'istruzione, all'abitazione, al lavoro, ad un sistema assicurativo etc... La Repubblica di Weimar poté godere di una
relativa stabilità fino alla grande crisi economica del 1929, che generò grande frammentazione politica e la nascita di
numerosi piccoli partiti, tra cui il Partito Nazionalsocialista di Hitler, che iniziò ad avere consensi nelle elezioni del
1930 e finì per diventare il primo partito tedesco nelle elezioni del 1932. Così nel 1933 Hindenburg concesse ad Hitler
la nomina di Cancelliere, cioè Capo del Governo, e nei due mesi successivi egli ottenne una legge che gli conferì pieni
poteri, costringendo tutti i partiti a sciogliersi, e avviando così la costruzione della dittatura del Terzo Reich (1933-
1945).
In Italia avvenne, per molti versi, una situazione analoga: la crisi gravissima del 1929 culminò nell'avvento dello Stato
fascista. A quel tempo il Governo era affidato a Giolitti, che utilizzò la politica dei blocchi per raccogliere in un unico
Blocco Nazionale forze diverse, che andavano dai liberali ai fascisti, consacrando così l'ascesa del fascismo, poiché il
blocco permise l'elezione di 35 deputati legati al Partito Nazionale Fascista di Mussolini. In realtà questa politica
generò forte frammentazione e instabilità che sfociò nella marcia su Roma del 1922, tramite la quale Mussolini prese
il potere con la forza e grazie al Re Vittorio Emanuele venne proclamato Presidente del Consiglio. Egli approvò la
legge acerbo, secondo cui i due terzi dei seggi sarebbero andati alla lista che avesse ottenuto il numero più alto dei
consensi: nelle elezioni del 1924 fu proprio il PNF ad ottenere il 60% dei voti. Dopodiché ottenne il consenso anche
da parte della Chiesta, tramite i Patti lateranensi del 1929, e tra l'altro aveva anche grande consenso da parte del
popolo. Fu così che Mussolini instaurò la dittatura (1922-1943).
Lo Stato socialista
Un’altra alternativa alla democrazia pluralista, che ha conosciuto il ‘900, è stata rappresentata dallo Stato socialista.
Esso nacque per la prima volta in Russia, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917 ed affonda le sue radici teoriche
nella dottrina marxista-leninista. Questa forma di Stato trovava origine nella cosiddetta “dittatura del proletariato”,
con la quale si sarebbe dovuta emarginare la classe antagonista, rappresentata dalla borghesia, per creare una
società senza classi e senza conflitti sociali.
I caratteri dello Stato socialista sono:
l’abolizione delle proprietà privata e un’economia collettivistica;
il ruolo centrale del Partito comunista, unico organismo politico con funzioni d’indirizzo in grado di
condizionare l’operato di tutti gli organi statali.
Questi Stati entrarono in una crisi profonda alla fine degli anni ottanta del XX secolo, crisi culminata con l’evento
simbolico del crollo del muro di Berlino nel 1989.
Lo Stato socialista mantenne la sua continuità in alcuni paesi come Cina, Corea del Nord e Cuba. In molti stati ex-
socialisti, in particolar modo in quelli che non erano neppure indipendenti, come le Repubbliche Baltiche, la
Bielorussia, la Croazia, la Slovenia, la Bosnia e gran parte dell'URSS, non vi fu un’esperienza democratica. In Asia
invece tendono a dominare stati autoritari, che pur accettando l'economia di mercato, mantengono il controllo delle
imprese più importanti, che competono nei mercati mondiali, con il sostegno finanziario dello Stato (il cosiddetto
capitalismo di stato, tipico della Cina). Anche in Europa, Paesi come la Polonia e l'Ungheria, vengono definiti
democrazie illiberali, in quanto non condividono gran parte dei principi dello Stato di diritto.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale (1945) quasi tutti gli stati adottarono i principi della democrazia pluralista
(soltanto Spagna e Portogallo rimasero in uno Stato autoritario fino agli anni 70). Tra questi principi ci sono la tutela
delle libertà, dei diritti sociali e dei pluralismi politici, sociali, religiosi e culturali (es: art.33 ⇒ l’arte e la scienza sono
libere e libero ne è l’insegnamento, art.18 ⇒ i cittadini godono del diritto di libera associazione). I diritti sociali sono
diritti finanziariamente condizionati, in quanto per essere realizzati richiedono la presenza di complesse e costose
organizzazioni pubbliche che siano in grado di erogare le prestazioni per i diritti medesimi (il sistema sanitario, il
sistema scolastico) e perciò il loro soddisfacimento dipende dalle risorse finanziarie che lo Stato mette a
disposizione. Da tutto ciò derivò:
Lo stato sociale
Lo Stato sociale o Stato del benessere (1950-1980), il cui compito è quello di intervenire nella distribuzione dei
benefici e dei sacrifici sociali, perciò questo stato supera l'individualismo liberale e sviluppa la solidarietà tra gli
individui. Lo Stato intervenne nell'economia e nella società, dando luogo ad un'economia mista.
Attraverso le politiche di tipo keynesiano lo Stato cercò di contrastare le fasi di crisi economica attraverso la spesa
pubblica, con l'intento di garantire uno sbocco alle imprese. Insomma attraverso la spesa pubblica si poterono
effettuare nuovi investimenti e sì evitò quindi la disoccupazione, garantendo un lavoro ed un reddito alla stragrande
maggioranza dei cittadini. Tramite le politiche di tipo regolativo (regolamentazioni del rapporto di lavoro dirette a
tutelare il lavoratore, per esempio limitando il potere di licenziamento) lo Stato cercò di influire sui comportamenti
di alcuni soggetti, e tramite le politiche di tipo redistributivo (forme di assistenza e di previdenza a favore dei
disoccupati, dei disabili, degli infortunati, degli anziani) lo Stato cercò di trasferire risorse finanziarie da determinate
categorie di soggetti ad altri.
Oggi la Costituzione Italiana riconosce e garantisce la proprietà privata, la successione legittima e testamentaria, il
risparmio privato, ma prevede anche che esistano doveri di solidarietà politica, economica e sociale.
Inoltre l'art.4 della Costituzione riconosce a TUTTI il diritto al lavoro.
È sbagliato però dire che tutti i Paesi accettarono il modello della democrazia pluralista in ugual modo, infatti ci
furono tre grosse differenze:
il ruolo dei partiti politici di massa, che negli Stati Uniti hanno conosciuto un modello diverso di partito.
I partiti americani si trasformarono in macchine elettorali al servizio di un candidato, privi di una precisa
identità ideologica; la loro attività si concentrò nelle campagne elettorali e così, dopo le elezioni, perdevano
gran parte del loro ruolo e non erano in grado di controllare l'attività. A partire da Roosevelt poi la
Presidenza iniziò a rafforzarsi rispetto ai partiti;
il grado di condivisione dei valori fondanti, infatti mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito condividevano i
principi fondamentali della democrazia pluralista, in altri paesi come il Belgio, l'Olanda e l'Italia, la società
rimase divisa in settori sociali separati, tra loro non comunicanti, per ragioni etniche, linguistiche, religiose e
ideologiche. Questa contrapposizione radicale di ideologie rimase viva fino al 1991, cioè fino alla
dissoluzione del blocco sovietico e alla connessa crisi dell'ideologia comunista, che segnò la tendenziale
comune accettazione dei lavori liberali e democratici;
L'intervento dello Stato nell'economia e nella società, infatti se in stati come gli Stati Uniti, la Svizzera e il
Giappone vi era una dominanza privatistica, negli stati dell'Europa Occidentale prevalse una dominanza
pubblicistica, anche se, a partire dagli anni 90 del XX secolo, iniziò a prevalere un'economia di mercato
concorrenziale e la privatizzazione delle imprese pubbliche.
Lo Stato di democrazia pluralista ha subito importanti trasformazioni in risposta alle sfide degli anni ‘80: la crisi
fiscale, la globalizzazione e lo sviluppo tecnologico sempre più avanzato. A partire dagli anni '70 del Novecento si è
parlato di crisi fiscale dello Stato, per indicare la crescita della spesa pubblica. La globalizzazione, successivamente,
ha posto il problema del mercato unico, dove i capitali e gli investimenti si muovono dove si ha la massima
realizzazione (migliori condizioni economiche e finanziarie), quindi lo Stato non può spingere troppo la pressione
fiscale, altrimenti si rischia di spostare i capitali all’estero.
In secondo luogo, lo Stato deve guardare al bilancio, poiché eccessivi disavanzi creano il rischio dell'indebitamento, e
alla flessibilità che le imprese chiedono nel mondo del lavoro.
Tutte queste spinte hanno come obiettivo il mantenimento della competitività del sistema economico nazionale.
L'Unione economica e monetaria europea ha dato dei limiti da rispettare, come la crescita, il bilancio, il PIL etc... Il
bilancio deve essere a pareggio, la spesa può essere coperta con l'indebitamento soltanto in piccola parte. Si assiste,
quindi, al tentativo di adeguare lo Stato alle esigenze della competitività internazionale, garantendo però almeno
pari opportunità di vita ai suoi cittadini, trasformandolo in Stato sociale competitivo.
Per razionalizzare lo Stato sociale, in primo luogo, si tende a superare il carattere universalistico, per cui i servizi
come la sanità non vengono resi gratuitamente a tutti, ma solamente ai soggetti meno abbienti. Così, per esempio,
in Italia è stato introdotto il principio della compartecipazione del cittadino alla spesa sanitaria, tramite il pagamento
del cosiddetto "ticket". In secondo luogo, si fa leva sul principio di responsabilità individuale, per cui il singolo si
impegna mettere da parte, con il risparmio, le risorse che potranno essere utili per affrontare i rischi della vita, come
le malattie e la vecchiaia. In terzo luogo, c'è il ricorso al principio di sussidiarietà che può essere:
verticale, quando si trasferisce la gestione di certi servizi pubblici agli enti locali, in particolare ai Comuni.
orizzontale, quando si attribuiscono certi compiti, tradizionalmente propri dello Stato sociale, ad alcune
formazioni sociali che non hanno scopo di lucro e che costituiscono il cosiddetto "terzo settore", in grado di
fornire servizi tipici dello Stato sociale ad un costo minore e con una qualità migliore di quelli erogati dalle
burocrazie delle amministrazioni pubbliche (es: assistenza degli anziani e dei disabili);
In tutto il mondo la pandemia da covid-19 ha causato una contrazione del PIL più grave di quella che si è avuta dopo
la crisi del 2008-2011. Il PIL, che misura la ricchezza nazionale prodotta nell'anno, è caduto nella zona euro in media
del 8%. Nel 2020 la forte disoccupazione e le difficoltà finanziarie di molte imprese hanno aumentato la spesa
pubblica dello Stato, che è intervenuto migliorando l'ambito sanitario, fornendo sussidio ai disoccupati e alle famiglie
e sostenendo finanziariamente le imprese. In media nelle economie più avanzate, nel 2020, c'è stato un aumento
delle spese pubbliche pari a quasi il 7% del PIL. I bilanci pubblici si trovano pertanto con forti disavanzi, che dovranno
essere coperti con l'indebitamento. In Italia il disavanzo è arrivato ad essere pari al 10,4% del PIL e si prevede che il
debito pubblico alla fine del 2020 dovrebbe superare il 155% del PIL. Dunque questa situazione sarà destinata a
pesare per alcuni anni.
Per concludere ricapitoliamo i caratteri dello Stato di democrazia pluralista:
suffragio universale;
segretezza e libertà del voto;
elezioni periodiche;
pluripartitismo;
principio di tolleranza, secondo cui il dissenso non può essere represso;
libertà di associazione e di formazione di partiti politici;
libertà di manifestazione del pensiero;
economia di mercato.
È grazie a tutte queste garanzie che si forma la cosiddetta sfera pubblica, libera e pluralistica, distinta e
autonoma rispetto ai partiti e politicamente influente ed ascoltata, in quanto idee, programmi e indirizzi si
formano prevalentemente all'esterno dei Parlamenti, per poi alimentare gli stessi. Nel Parlamento si prendono le
scelte, anche se le questioni politicamente più rilevanti tendono ad essere spostate in sedi diverse ed in
particolare verso l'Unione Europea e verso il Governo, soprattutto grazie alla crescita dei suoi poteri normativi.
La rappresentanza politica
da una parte, significa 'agire per conto di' e perciò esprime un rapporto tra rappresentante e rappresentato,
per cui il secondo, sulla base di un atto di volontà chiamato mandato, dà al primo il potere di agire nel suo
interesse.
dall'altra parte, significa qualcosa che effettivamente non c'è, per questo si usa di più il termine
rappresentazione, secondo cui il rappresentante dispone invece di una situazione di potere autonomo
rispetto al primo.
Nello Stato Assoluto c'erano tre soggetti: il rappresentante, il rappresentato e il Re e la rappresentanza veniva
definita come rappresentanza di interessi, poiché il rappresentante era tenuto ad agire nell'interesse del
rappresentato e il loro rapporto era basato su un mandato imperativo.
Lo Stato liberale ha introdotto una nozione profondamente diversa di rappresentanza, che non ha nulla a che vedere
con la rappresentanza degli interessi. La società liberale, infatti, era formata da singoli individui uguali davanti alla
legge, pertanto la rappresentanza politica doveva essere il mezzo tecnico attraverso cui si formava un'istituzione che
doveva agire nell'interesse generale. La formulazione di questa rappresentanza politica la troviamo nella
Costituzione Francese del 1791, in cui si afferma che la sovranità non appartiene al Re, bensì alla Nazione, che in
quanto entità astratta e impersonale, non poteva agire direttamente, ma doveva esercitare i suoi poteri per
delegazione, dando vita ad un sistema rappresentativo. L'elettorato attivo era perciò configurato come una funzione
pubblica conferita dalla Costituzione nell'interesse della Nazione, dove però soltanto i cittadini attivi, che
esercitavano l'elettorato per servire la cosa pubblica, potevano votare: in questo modo si assicurò la permanenza
dello Stato monoclasse. I parlamentari, rappresentando l'intera Nazione, dovevano curare l'interesse nazionale e per
questo non dovevano essere vincolati dagli elettori, motivo per il quale venne sancito il divieto di mandato
imperativo.
Avere responsabilità politica significa essere dotati di potere politico e dover rispondere ad un altro soggetto per il
modo in cui si è esercitato questo potere e, nel caso di giudizio negativo, andare incontro alla perdita del potere
politico. Questa responsabilità assume un ruolo centrale nel funzionamento dello Stato liberale e soprattutto in
quello democratico pluralista. Nello Stato liberale questa responsabilità era attribuita al Governo, mentre nello Stato
di democrazia pluralista era attribuita al corpo elettorale, chiamato a giudicare soggetti politici, quali il presidente o
primo ministro, i parlamentari, i partiti politici etc...
La rappresentanza politica nello Stato di democrazia pluralista
I sistemi rappresentativi hanno subito una forte trasformazione con l'avvento dello Stato di democrazia pluralista.
Nelle democrazie pluraliste si afferma il principio della sovranità popolare, il quale esige che il potere politico si basi
sul libero consenso dei governatori, cioè del popolo. Gli interessi sociali sono molteplici, eterogenei e spesso
conflittuali. Le modalità che vengono seguite per adeguare i sistemi rappresentativi alla complessità sociale sono:
doppia virtù dei partiti politici: da un lato i partiti di integrazione che assicurano il collegamento stabile con
gli elettori e dall’altro i partiti possono trascendere dagli interessi particolari degli individui e dei gruppi
rappresentati (così viene recuperato l’altro aspetto della rappresentanza, cioè l’autonomia del
rappresentante rispetto al rappresentato). Se il sistema rappresentativo si basa quindi sui partiti, diventa
necessario reintrodurre il mandato imperativo (obbligo del rappresentante di agire secondo le istruzioni
ricevute dal mandante, in nome e per conto del quale opera). Le sintesi politiche operate dai partiti devono
essere rispettate all'interno delle aule parlamentari e ciò può essere assicurato solamente da una rigida
disciplina, per cui i parlamentari, di regola, votano seguendo le indicazioni dei partiti. Nei sistemi
rappresentativi delle democrazie pluralistiche la centralità dei partiti è il frutto di riconoscimenti
costituzionali: art. 49 della CI che qualifica i partiti come i principali strumenti di esercizio della sovranità
popolare, art.94 della CI impone che la votazione a fiducia o in sfiducia avvenga per appello nominale, in
modo tale da facilitare i partiti nel controllo del comportamento dei propri parlamentari. Inoltre l'art.67
recita che ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato, tipico invece della tradizione liberale. Il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare
è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene, infatti questo articolo
è più una norma di garanzia, che assicura al parlamentare la possibilità di sottrarsi alla disciplina di Partito.
L'efficacia e la funzionalità dei partiti dipendono dalla democraticità degli stessi. Oggi si parla di crisi dei
partiti, poiché incontrano sempre più difficoltà nel rapportarsi con la società e nel prendere decisioni. I
partiti non riescono più ad assicurare la completa rappresentanza della società e, soprattutto, non
sempre riescono a comporre i diversi interessi sociali in una sintesi politica: questo perché con l'andare del
tempo la società è divenuta sempre più complessa. Ecco perché oggi nelle democrazie pluraliste vi è perdita
di consensi e perché sono sempre più volte alla crisi. La
degenerazione dei sistemi rappresentativi e l'oligarchia, dove i politici sono indifferenti alle esigenze
popolari, ma molto attenti a conservare il proprio potere.
il rafforzamento del Governo (potere esecutivo) e l’investitura popolare diretta del suo capo: l'esempio più
importante è offerto dal presidenzialismo degli Stati Uniti. Il Governo è considerato legittimato a governare
nell'interesse generale ed è politicamente responsabile nei confronti dell’intero corpo elettorale nazionale.
Il Parlamento invece diventa sempre di più sede della “rappresentanza-rapporto” con i singoli collegi
elettorali ed i gruppi sociali particolari.
La degenerazione della crisi dei partiti e dell'investitura popolare del Capo del Governo è la democrazia
plebiscitaria, un sistema basato sul potere personale di un capo, il quale trae la sua legittimazione dal
popolo, che ha fede nelle sue doti straordinarie e carismatiche. Questo tipo di potere è personale, illimitato
e riscontra consenso attivo da parte del popolo. Un esempio storico di questa democrazia è stato il regime di
Luigi Bonaparte, presidente della Francia nel 1849, che trasformò il suo potere in dittatura personale.
gli assetti neocorporativi: questi si affiancano al sistema rappresentativo (non lo sostituiscono), basato su
elezioni libere e sui partiti politici. In Italia, durante il periodo fascista, la Camera dei Deputati venne
soppressa e al suo posto si istituì una Camera dei fasci e delle corporazioni, strettamente subordinata allo
Stato che ne era il creatore. Nel corporativismo pluralista, invece, le organizzazioni degli interessi, che sono
autonome e nascono spontaneamente nella società, affiancano la rappresentanza politica;
la rappresentanza territoriale: si tratta dell’istituzione di una seconda Camera a base territoriale, in cui sono
rappresentati direttamente gli enti territoriali;
Una conseguenza della crisi dei meccanismi rappresentativi è l'emergere dei movimenti populisti [es: il Movimento
5 Stelle di Beppe Grillo in Italia (condusse una forte polemica sul divieto di mandato imperativo, proponendo al suo
posto il vincolo di mandato, che avrebbe dovuto assicurare la coerenza dell'eletto nei confronti dell'elettore), il Front
National in Francia, il Podemos in Spagna]. Questi partiti sono accumunati dalla critica nei confronti delle elites che
hanno governato i rispettivi paesi, dal rifiuto della collaborazione con i partiti tradizionali, dall'opposizione
all'integrazione europea e alla globalizzazione e dalla richiesta di recupero della sovranità statale. Donald Trump, nel
2016, ha basato la sua campagna elettorale proprio sull'opposizione alle elites e alla globalizzazione, all'insegna degli
interessi americani, con il suo famoso motto "America first". Il populismo può essere definito quindi come un
fenomeno politico che comporta la contrapposizione tra il popolo, le élites politiche ed economiche, la
globalizzazione e l’Europa. Esso esprime una grave crisi dei sistemi rappresentativi, che diventano incapaci di
assicurare l'equilibrio tra legittimazione e autonomia decisionale.
La democrazia diretta
Tra le modalità usate per fronteggiare la crisi dei sistemi rappresentativi, particolare importanza assume la
democrazia diretta. Si affida quindi, direttamente al popolo, l'esercizio di determinate funzioni con l'obiettivo di
assicurare la partecipazione popolare alle decisioni che riguardano l'intera collettività e di colmare la distanza fra il
popolo e l'apparato statale. Negli Stati di democrazia pluralista invece, basati su sistemi rappresentativi, le principali
funzioni pubbliche erano affidate ad organi dello Stato distinti dal popolo, anche se ad esso collegati grazie a libere e
periodiche elezioni.
Gli antichi partecipavano attivamente e costantemente al potere politico, per cui la democrazia era una democrazia
diretta, anche se quasi sempre essi erano sovrani negli affari pubblici, ma schiavi in tutti i loro rapporti privati; infatti
erano escluse ampie categorie di soggetti come donne, schiavi e stranieri.
Con l'affermarsi dello Stato liberale e rappresentativo, invece, i cosiddetti "moderni" godevano di autonomia e
indipendenza rispetto allo Stato. Con lo Stato di democrazia pluralista poi i sistemi rappresentativi vennero affiancati
da istituti di democrazia diretta, che consentivano la partecipazione popolare diretta all'assunzione di alcune
decisioni collettive.
il referendum legislativo: ha come oggetto una legge. Esso può essere obbligatorio quando l'atto di
indizione della consultazione popolare si configura come un atto dovuto, oppure facoltativo quando l'atto di
indizione della consultazione popolare è subordinata all'iniziativa da parte di uno dei soggetti che è a ciò
legittimato;
Il referendum, inoltre, può essere preventivo o successivo, a seconda che il voto popolare intervenga prima o dopo
l'entrata in vigore dell'atto (il referendum costituzionale è sempre il tipo preventivo).
il referendum di revisione costituzionale (art.138), il quale è detto anche approvativo o sospensivo perché
s'inserisce nel procedimento di approvazione dell'atto, sospendendolo;
il referendum abrogativo d'una legge o di un atto avente forza di legge, già in vigore;
il referendum consultivo (artt.132 e 133) per la modificazione territoriale di Regioni, Province e Comuni;
Negli ultimi anni, con la crisi dei partiti, c'è stata una crescita considerevole del ricorso al referendum, che evoca un
tipo di democrazia, la democrazia diretta, basata sul principio di identità tra governanti e governati, in contrasto con
il principio di rappresentanza dello Stato di democrazia pluralista, che postula invece la distinzione e la separazione
tra governanti e governati.
l’attribuzione ad ogni potere in senso soggettivo, costituito da un complesso di organi, una funzione pubblica
ben individuata e distinta;
ciascuna funzione deve essere attribuita a poteri distinti;
i poteri, seppur distinti e separati, devono potersi condizionare reciprocamente, in modo tale che ciascun
potere può frenare gli eccessi degli altri. Infatti il potere lasciato a sé stesso tende ad abusare, ecco perché si
deve creare tra i diversi poteri un sistema di controlli reciproci, dando luogo ad un sistema di pesi e
contrappesi.
L'ordinamento costituzionale statunitense è stato quello in cui il principio della separazione dei poteri ha trovato la
più coerente applicazione, infatti nella forma di governo presidenziale americana il potere legislativo (Congresso) e
quello esecutivo (Presidente) sono eletti separatamente dal corpo elettorale ed esercitano funzioni distinte. Inoltre il
Congresso non può costringere alle dimissioni il Presidente e allo stesso tempo il Presidente non può sciogliere il
Congresso. Nelle forme di governo parlamentari europee, il Governo e il Parlamento sono strettamente collegati,
poiché, chi siede al Governo ha la maggioranza in Parlamento: ecco perché sono politicamente omogenei. Inoltre il
Parlamento può costringere alle dimissioni il Governo, votandogli la sfiducia.
La dottrina giuridica del secolo scorso elaborò la cosiddetta teoria formale-sostanziale della separazione dei poteri,
secondo cui bisogna distinguere il potere (in senso soggettivo), inteso come complesso di organi, dalle funzioni dello
Stato (in senso oggettivo), identificate sulla base di criteri materiali e di criteri formali.
Si dice che il Governo esercita una funzione che è formalmente esecutiva, ma materialmente legislativa quando con i
regolamenti, adotta atti sostanzialmente normativi e che il Parlamento esercita una funzione che è formalmente
legislativa, ma materialmente esecutiva quando con la legge di bilancio adotta un atto sostanzialmente esecutivo.
Il potere giudiziario in Europa è stato a lungo considerato come un potere nullo, cioè come un non potere, poiché il
giudice, bocca della legge, dettava sentenze che erano considerate risultato di deduzioni logiche, automatiche,
semplici e certe. Al di là dell'Atlantico però non c'è mai stata una simile considerazione del potere giudiziario, anzi,
esso era in grado di limitare sia il potere legislativo che quello esecutivo.
Oggi, l'esercizio delle funzioni dello Stato presuppone una preventiva determinazione di obiettivi e fini politici.
Perciò, si afferma una quarta funzione, che è la funzione di indirizzo politico. Essa consiste nella determinazione
delle linee fondamentali di sviluppo dell'ordinamento e della politica interna ed esterna dello Stato. L'indirizzo
politico si traduce in una molteplicità di diversi atti formali: leggi del Parlamento, regolamenti e decreti legislativi del
Governo, atti amministrativi, trattati internazionali, etc... La funzione di indirizzo politico assicura una guida coerente
ed efficace alle altre funzioni, che vengono orientate verso il raggiungimento di obiettivi politici preventivamente
individuati. La costituzione italiana espressamente menziona l'indirizzo politico nell'art. 95.
Inoltre, in attuazione dell'art.97, è stata introdotta la separazione tra politica ed amministrazione, ossia tra la sfera
di azione riservata al Governo e quella riservata all'alta burocrazia, che costituisce la dirigenza pubblica. Si crea così
una distinzione tra i poteri di indirizzo (che spettano agli organi di Governo) ed i poteri di gestione amministrativa
(affidata ai dirigenti). L'amministrazione, composta da una pluralità di apparati eterogenei e spesso in conflitto,
quindi ha una sua autonomia anche se rimane legata dal potere di indirizzo politico e amministrativo del Governo.
La funzione legislativa non ha più il carattere di produzione di norme giuridiche astratte e generali, ma provvede
all’emanazione di leggi-provvedimento, ossia di leggi concrete, che si riferiscono a soggetti specifici.
Anche la funzione giurisdizionale ha caratteri differenti dal modello liberale, infatti il giudice ha una funzione sì
giudiziaria, ma si rifà alla sua discrezionalità e all'interpretazione della legge che spesso non è chiara e, su di essi
vengono scaricate domande che non hanno trovato risposta nei tradizionali circuiti rappresentativi, spingendo così i
giudici a riconoscere e tutelare “nuovi diritti” prima dell’intervento del legislatore (tra giudice e norme non c'è più
quindi il rapporto logico-deduttivo del modello liberale).
Gran parte delle democrazie pluraliste vedono la presenza di un’altra funzione: quella della garanzia giurisdizionale
della Costituzione. Questo controllo giudiziale della Costituzione è divenuto un tratto comune a pressoché tutti gli
stati democratici pluralisti, tranne nel Regno Unito. In alcuni paesi, come l'Italia, esiste pure l’organo costituzionale
Presidente della Repubblica, distinto e autonomo rispetto al Governo, e con la funzione principale di garantire gli
equilibri costituzionali, senza partecipare all’indirizzo politico.
alle 3 funzioni tradizionali di Stato, cioè la funzione legislativa esercitata dal Parlamento e quindi dalle due
camere, la funzione esecutiva esercitata dal Governo e la funzione giurisdizionale esercitata dal giudice
indipendente, aggiungiamo quelle di garanzia giurisdizionale e di indirizzo politico;
si è avuta una trasformazione politica, che ha separato la maggioranza, e quindi chi governa, dalla
minoranza.
esistono più poteri, in senso soggettivo, che sono reciprocamente indipendenti;
Il potere politico viene ripartito in assetto costituzionale ed è altamente pluralistico;
i poteri sono più di tre (c’è la presenza di un Presidente della Repubblica e di una Corte costituzionale) e il
potere giudiziario non è un potere nullo;
l’amministrazione è anch’essa pluralistica, e si hanno, inoltre, le Regioni dove vi è notevole autonomia
politica (questo perché il potere, oltre a essere stato diviso orizzontalmente, è stato diviso anche
verticalmente, dando luogo a stati federali o, come in Italia, a stati regionali, che godono di autonomia
politica).
La garanzia giurisdizionale della Costituzione dunque permette di assicurare la permanenza del pluralismo e di
evitare che un potere prevalga sugli altri.
La regola di maggioranza
La regola di maggioranza, che caratterizza sia lo Stato liberale che lo Stato di democrazia pluralista, assume significati
e funzioni diverse:
- "principio funzionale", ossia la tecnica attraverso cui un collegio adotta una decisione. La decisione che viene presa
coincide con quella che ottiene il numero più elevato di consensi o di voti. La regola opposta è quella dell'unanimità,
che richiede invece il consenso di tutti i membri del collegio, che non viene usata per evitare la paralisi decisionale.
L'affermazione della regola di maggioranza presuppone l'uguaglianza di tutti i membri del collegio e quindi che il voto
di ciascuno di essi sia dotato del medesimo valore di quello degli altri. Tuttavia, la regola di maggioranza è ambigua.
Infatti, da una parte è lo strumento attraverso cui i più sono sottratti alla tirannia dei pochi, dall'altro lato può essere
il mezzo attraverso cui i più eliminano i meno. Chi ottiene la maggioranza infatti può utilizzarla per eliminare i
soggetti rimasti in minoranza, ecco perché esiste il rischio della tirannia della maggioranza. Per
contrastarlo, le Costituzioni predispongono vari strumenti attraverso cui limitare la regola di maggioranza e garantire
la tutela delle minoranze.
In particolare in Italia:
la rigidità della Costituzione, che garantisce a tutti i cittadini alcuni diritti e che limita la funzione legislativa, di
modo che la maggioranza non risulti onnipotente, ma incontri dei limiti costituzionali a tutela del pluralismo;
l’attribuzione, alla Corte Costituzionale, del compito di giudicare la legittimità costituzionale della legge;
la previsione che per decidere su certi oggetti non è sufficiente la maggioranza relativa o semplice (cioè
ottenere il numero più elevato di voti), ma occorrono quorum deliberativi più elevati, come la maggioranza
assoluta (pari alla metà più uno dei membri del collegio), oppure una maggioranza qualificata
(corrispondente ad una porzione assai consistente dei membri del collegio, per esempio i 2/3).
Prevedendo quorum deliberativi elevati, sostanzialmente, si rende difficile ai soggetti che formano la
maggioranza di decidere da soli e si fa in modo che, su certe questioni, le minoranze siano, in qualche
misura, associate alla decisione.
l'attribuzione di poteri di condizionamento procedurale alle minoranze. Ad esempio la Costituzione italiana
prevede che le minoranze possano chiedere la convocazione in via straordinaria della Camera, oppure che
un progetto di legge venga discusso e votato dall'intera assemblea, o che venga indetto un referendum
costituzionale.
la sottrazione di certe decisioni al corpo elettorale, al Parlamento o al Governo, per affidarle ad autorità
ritenute neutrali rispetto alla politica, cioè slegate sia dalla maggioranza che dalla minoranza (es: controllo di
certi settori, come quelli concorrenziali, di assicurazioni, di credito, oppure il controllo di alcuni mercati);
il decentramento politico, che è previsto dalla Costituzione attraverso l'istituzione di Comuni, Province e
Regioni, dotate di autonomia politica. In questo modo i soggetti politici che sono la maggioranza nello Stato
potrebbero non esserlo negli altri enti politici; il decentramento politico favorisce cioè l'esistenza di
maggioranze diverse per ogni livello territoriale di autorità.
la cultura politica, basata sulla tolleranza.
l'intervento pubblico moderato nell'economia della società;
- "principio di rappresentanza", cioè il mezzo attraverso cui si eleggono il Parlamento e le altre Assemblee
rappresentative. Secondo questa accezione quindi la regola di maggioranza diventa lo strumento utilizzato per
eleggere la maggioranza, quindi il Parlamento, e le minoranze. Poiché i meccanismi elettorali sono piuttosto selettivi,
solamente i gruppi politici più forti possono accedere alle aule parlamentari;
- "principio di organizzazione politica", cioè il criterio attraverso cui si strutturano i rapporti tra i partiti politici nel
Parlamento. La regola di maggioranza vieni qui intesa come regola elettorale, che determina la concezione
delle elezioni e il funzionamento della democrazia. Secondo questa concezione le elezioni hanno il compito
principale di assicurare la formazione di una maggioranza parlamentare stabile e coesa e di un Governo autorevole,
mentre il corpo elettorale ha il compito di scegliere la maggioranza politica e il suo Governo, che dovrà
successivamente sottoporre ad un giudizio di responsabilità politica.
La regola di maggioranza diventa "principio di organizzazione" dei rapporti tra i soggetti politici nelle democrazie
maggioritarie (Inghilterra, Francia, Spagna, Germania e Canada) e nelle democrazie consociative (Olanda, Belgio).
Democrazie maggioritarie
Le democrazie maggioritarie sono basate sulla contrapposizione tra due partiti o due coalizioni di partiti, ovvero tra
due leader politici in competizione per ottenere la titolarità del potere politico. Il corpo elettorale è posto di fronte
all'alternativa secca tra un partito e l'altro, oppure tra due candidati alla carica di Capo del Governo.
La contrapposizione continua anche dopo le elezioni e la minoranza assume la funzione di opposizione; quest’ultima
impedisce che la forza del Governo e della maggioranza degeneri in tirannia e il controllo della stessa si realizza
attraverso la critica del Governo e la prospettazione di un indirizzo politico alternativo al primo. In tali sistemi inoltre
si può realizzare l’alternanza ciclica dei partiti nei ruoli di maggioranza e di opposizione.
Le democrazie maggioritarie sono proprie di società in cui esiste accordo sui principi della democrazia pluralista
fissati nella Costituzione, che diventa il punto di riferimento comune in cui tutte le parti s'identificano (patriottismo
costituzionale). Le minoranze, infatti, sapendo che le forze di maggioranza rispetteranno le garanzie del pluralismo,
non hanno bisogno di scendere a patti con la maggioranza, piuttosto si organizzano per le nuove elezioni.
Democrazie consociative
Le democrazie consociative tendono a incentivare l'accordo tra i principali partiti al fine di condividere il controllo
del potere politico. I partiti, cioè, a livello elettorale, competono ciascuno per proprio conto. Dopo le elezioni, però, i
partiti tendono ad utilizzare la rispettiva forza politica per negoziare tra di loro e raggiungere dei compromessi
politici. Pertanto la decisione è il risultato di un compromesso politico, in cui ogni parte ottiene qualcosa in cambio
della rinuncia a qualcos'altro. Le minoranze, quindi, sono associate al potere politico perché partecipano alle
decisioni, ecco perché manca una funzione di opposizione. Le democrazie consociative sono tipiche di società divise
da fratture profonde di tipo ideologico, religioso, etnico e linguistico, motivo per il quale, non comunicando tra di
loro, trovano nell' accordo tra i leader dei diversi gruppi politici l'unico modo per mantenere la democrazia.
a) art.6: il divieto di discriminazione in ragione dell'utilizzo di una lingua diversa da quella nazionale;
Lo Stato quindi, inserendo nella Costituzione articoli che tutelano varie minoranze, tende a tutelare una società
multirazziale e multiculturale. La separazione dei poteri ed i limiti alla regola di maggioranza possono realizzarsi non
solo livello orizzontale, cioè nel rapporto tra i poteri dello Stato, ma altresì a livello verticale, cioè attraverso la
distribuzione del potere di indirizzo politico e delle funzioni pubbliche tra lo Stato centrale ed altri enti territoriali.
Perciò si distingue tra Stato confessionale, Stato unitario e Stato composto:
Lo Stato confessionale
Lo Stato confessionale è un tipo di Stato che non accetta il principio della separazione della sfera religiosa e della
sfera civile: infatti il potere statale si fonda su basi religiose. Attualmente hanno tale forma di stato alcuni paesi
islamici.
Lo Stato unitario
Nello Stato unitario il potere è attribuito al solo Stato centrale o comunque a soggetti periferici da esso dipendenti.
Questo tipo di Stato ha caratterizzato a lungo l'esperienza europea, tranne la Germania e la Svizzera.
Lo Stato composto
Nello Stato composto il potere è distribuito tra lo Stato centrale e gli enti territoriali da esso distinti. Questo tipo di
Stato ha caratterizzato l'esperienza degli Stati Uniti d'America. Da alcuni anni, però, anche in Europa ha avuto
successo lo Stato composto, nelle sue due varianti:
Lo Stato federale
l'esistenza di un ordinamento statale federale, dotato di una Costituzione scritta e rigida, e di alcuni enti
politici territoriali dotati di proprie costituzioni (Stati membri, Lander, Province, Regioni);
la previsione da parte della Costituzione federale di una ripartizione di competenze tra Stato centrale e stati
membri;
l'esistenza di un Parlamento bicamerale, in cui cioè esiste una Camera rappresentativa degli stati membri
(Senato o Consiglio federale);
la partecipazione degli stati membri al procedimento di revisione costituzionale;
la presenza di una Corte costituzionale in grado di risolvere i conflitti tra stati federali e stati membri.
Gli stati federali sono nati da un processo di associazione di stati inizialmente indipendenti, che si sono uniti in una
Confederazione di stati per esigenze militari ed economiche, pur rimanendo stati indipendenti e sovrani (es: Stati
Uniti d’America, Germania, Svizzera).
Lo Stato regionale
la presenza di una Costituzione statale che riconosce e garantisce l'esistenza di enti territoriali dotati di
autonomia politica e di propri statuti (Regioni in Italia, Comunità autonome in Spagna);
l'attribuzione costituzionale alle Regioni di competenze legislative e amministrative;
una partecipazione assai limitata all'esercizio di funzioni statali, come la revisione costituzionale;
la mancanza di una seconda Camera rappresentativa delle Regioni;
l'attribuzione ad una Corte costituzionale del compito di risolvere i conflitti tra Stato e Regioni,
assicurando comunque la preminenza dell'interesse nazionale.
In realtà, la distinzione tra Stato federale e Stato regionale è difficile da tracciare. La distinzione fondamentale,
perciò, resta quella tra Stato unitario e Stato composto e tra Stati a forte decentramento politico e Stati a
decentramento politico limitato.
il primo, tipico dello Stato liberale, vede una forte divisione tra lo Stato federale e gli Stati membri;
il secondo, tipico delle democrazie pluraliste, si caratterizza per la presenza di interventi congiunti e
coordinati da parte dello Stato centrale e degli stati membri o delle Regioni.
L’Unione Europea
L'Unione Europea (UE), introdotta con il Trattato di Maastricht (TUE) del 1992, è una struttura istituzionale che è
tradizione descrivere con una metafora: un tempio greco che poggia su tre pilastri. Il pilastro centrale è quello della
Comunità Europea (CE), i due pilastri laterali sono costituiti dalla Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e dalla
Cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (CGAI). La differenza è che nella CE si possono prendere
decisioni che non necessitano del consenso di tutti, mentre per la PESC e la CGAI ogni deliberazione richiede
l'unanimità degli Stati. Con il Tratto di Lisbona del 2009 la CE, la PESC e la CGAI sono stati tutti assorbiti nell'UE.
Il Trattato di Amsterdam del 1999 ha introdotto, inoltre, il principio della cooperazione rafforzata, che consente agli
Stati membri che lo vogliano di istaurare forme di collaborazioni specifiche, per la realizzazione degli scopi
comunitari.
L’organizzazione
il Consiglio europeo: l'organo di impulso politico dell'Unione Europea, chiamato a definire le priorità
politiche generali dell’Unione. È composto dai capi di Stato o di Governo di ciascuno Stato membro e dal
Presidente della commissione, che viene eletto a maggioranza qualificata (2/3) dal Consiglio e la cui carica è
di circa due anni e mezzo. Si riunisce almeno 2 volte a semestre, a Bruxelles, la “capitale” dell’Unione;
il Consiglio: l'organo che esercita, insieme al Parlamento Europeo, la funzione legislativa e di bilancio,
definisce e coordina la politica dell’Unione e prende le decisioni relative alla politica estera. È formato da un
rappresentante di ogni Stato ed è presieduto a turno da ciascuno dei suoi componenti per un periodo di sei
mesi. Le deliberazioni del Consiglio sono generalmente assunte a maggioranza qualificata, anche se in casi
specifici è richiesto il consenso unanime degli stati. Nell'esercizio delle sue funzioni il Consiglio è affiancato
dal Comitato dei rappresentanti permanenti, organo composto dai rappresentanti permanenti degli stati
membri, incaricato di preparare i lavori del Consiglio;
la Commissione Europea: l’organo esecutivo dell’Unione, approvato dal Parlamento Europeo, composto da
27 membri (ogni Stato ha diritto ad averne uno), che durano in carica cinque anni, scelti in base alle loro
competenze. Il Presidente della Commissione assegna le competenze e può chiedere ed ottenere le loro
dimissioni. Il Vicepresidente della Commissione è il Rappresentante della politica estera dell'UE.
Le sue funzioni sono: funzione di iniziativa normativa (proporre le norme da sottoporre all’approvazione del
Parlamento e del Consiglio), funzione di decisione amministrativa e di regolamentazione, funzione di
vigilanza, in quanto vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione (se uno Stato membro non adempie ai suoi
obblighi, la Commissione può intimargli di provvedere e poi fare ricorso alla Corte di giustizia mediante la
procedura d’infrazione). Inoltre si occupa della gestione dei finanziamenti comunitari e della loro
ripartizione ai singoli Stati;
Il Parlamento europeo: l’organo rappresentativo, dotato di legittimazione democratica, composto da 751
membri che rappresentano tutti gli stati dell'UE, eletti in ciascuno Stato, per cinque anni, a suffragio
universale diretto. Le sue funzioni sono: la funzione legislativa, condivisa con il Consiglio, con la quale si
formano gli atti dell’Unione, attraverso una procedura legislativa ordinaria (secondo cui l'adozione degli atti
normativi, proposti dalla Commissione, richiede il consenso del PE e del Consiglio, che si trovano quindi in
una condizione di parità: in caso di dissenso tra i due, viene convocato un apposito Comitato di
conciliazione). Inoltre, il PE elegge il Presidente della Commissione Europea su proposta del Consiglio e
risponde alle petizioni dei cittadini comunitari nominando un Mediatore, chiamato ad indagare sui casi di
cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie. Il PE è poi titolare della funzione di controllo verso la
Commissione, sulla quale può approvare una mozione di censura, che ne provoca le dimissioni. Infine
possiede anche la funzione di bilancio, condivisa anch’essa con il Consiglio, grazie alla quale viene approvato
il bilancio annuale dell’Unione europea, secondo una procedura legislativa speciale;
la Corte di giustizia: l'organo giurisdizionale comunitario, che ha il potere di interpretare i trattati dell’UE e
di sanzionare i comportamenti illegittimi dei Paesi membri, ed ha sede a Lussemburgo. È composta da 27
giudici e 11 avvocati generali ed ha il compito di fare ricorso agli Stati membri in caso di inadempimento
degli obblighi sanciti dal diritto dell’Unione (procedura d’infrazione) e di verificare la legittimità degli atti
normativi comunitari (se uno degli Stati membri, il Consiglio, la Commissione o il Parlamento ritiene che una
norma europea sia illegittima può chiederne l’annullamento alla Corte: se l’atto è effettivamente illegittimo,
la Corte lo dichiara nullo ed esso scompare dall’ordinamento europeo). Questa Corte è affiancata dal
Tribunale di primo grado, titolare di competenze specifiche, le cui sentenze possono essere impugnate di
fronte alla Corte stessa per motivi di solo diritto;
la Corte dei conti: l'organo di controllo contabile dell’UE, è chiamata a verificare le entrate e le uscite del
bilancio dell’Unione europea. È composta da un membro per ciascuno Stato, nominati per 6 anni dal
Consiglio;
il Comitato economico e sociale: l’organo consultivo del Consiglio, della Commissione e del PE, è composto
dai rappresentanti delle diverse categorie economiche e sociali, che esprime i suoi pareri obbligatoriamente,
nei casi previsti dal Trattato, o su richiesta delle istituzioni comunitarie, o di propria iniziativa;
il Comitato delle Regioni: l’organo consultivo del Consiglio, della Commissione e del PE, è composto dai
rappresentanti delle collettività regionali e locali, che esprime le loro istanze a livello comunitario. Questo
comitato è consultato obbligatoriamente dalle istituzioni comunitarie, nei casi previsti dal Trattato, o su loro
richiesta, o di propria iniziativa;
la Banca Centrale Europea: l’organo dotato di personalità giuridica propria e di un elevato grado di
indipendenza rispetto alle altre istituzioni dell’Unione. Essa ha sede a Francoforte e svolge un ruolo
importantissimo per l’economia dei Paesi che adottano l’euro, infatti dispone del diritto esclusivo di
autorizzare l’emissione di banconote in euro all’interno dell’Unione.
Il Presidente della BCE è nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un periodo di 8 anni,
con mandato non rinnovabile.
principio di attribuzione: le attribuzioni dell’UE sono solo quelle espressamente previste dai Trattati. Esse,
quindi, non hanno competenze generali, ma specifiche e funzionali al raggiungimento degli
obiettivi espressamente fissati, anche se esse riguardano campi rilevantissimi, come libera circolazione delle
merci, industria, protezione dei consumatori, politica economica e monetaria, agricoltura, tutela
dell’ambiente etc...
principio di auto integrazione del diritto comunitario: la UE può esercitare i poteri necessari per realizzare
gli scopi del Trattato, pur se questo non lo prevede espressamente;
principio dei poteri impliciti: l’attribuzione di una certa competenza comporta anche quella del potere di
adottare tutte le misure necessarie per il suo esercizio efficace ed adeguato;
principio di proporzionalità: l’UE, nei rispettivi ambiti di azione, deve ricorrere a misure proporzionate ai
risultati da raggiungere, senza mai eccedere;
principio di sussidiarietà: nel caso di competenze concorrenti (attribuite, cioè, congiuntamente all’UE e agli
Stati membri), l’intervento delle prime è ammesso solo se l’obiettivo dell’azione comunitaria non possa
essere sufficientemente realizzato dagli Stati membri, e possa, invece, essere meglio perseguito in ambito
comunitario. La sussidiarietà può essere paragonata ad un ascensore, questo perché richiede che la
competenza sia collocata a livello territoriale dove possa essere esercitata nel modo migliore e, a seconda
delle caratteristiche della competenza presa in considerazione, l'esercizio dei poteri e delle competenze può
essere spostato verso il livello di governo più alto o più basso;
principio di leale cooperazione: prevede che gli stati affianchino le istituzioni europee nello svolgimento dei
loro compiti, adempiendo agli obblighi previsti ed evitando comportamenti che possano compromettere la
realizzazione degli scopi comunitari.
L'Unione Europea si basa sul mercato aperto basato sulla libera concorrenza, la moneta unica e la stabilità dei
prezzi. Il diritto comunitario garantisce un mercato unico basato su un'economia di mercato aperta e in libera
concorrenza (art.119), per assicurare a tutti i consumatori prezzi più convenienti e un servizio migliore. I consumatori
possono così scegliere tra una serie di prodotti e di prestatori di servizi alternativi e possono beneficiare di prezzi più
bassi e di nuovi servizi, che sono di solito più efficienti e più convenienti. L'economia di mercato e la libera
concorrenza non esistono in natura, ma sono il risultato di istituti giuridici, infatti il mercato ha bisogno di essere
governato da regole e gode di un proprio statuto giuridico. Questo mercato unico europeo si basa su tre pilastri
fondamentali: la libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali, il divieto degli aiuti
finanziari e la disciplina della concorrenza. Il TUE pone una serie di divieti ed affida alla Commissione Europea il
compito di assicurarne l'osservanza da parte delle imprese che operano sul mercato. Il diritto comunitario ha inoltre
avviato politiche di liberalizzazione di interi settori, che vengono così aperti alla concorrenza: ad esempio ha ridotto
drasticamente i monopoli pubblici. Il mercato unico è stato completato poi con la creazione di una moneta unica,
l'euro (Eurozona, insieme degli stati che hanno adottato l’euro), e con l'introduzione di una politica monetaria e di
una politica del cambio uniche, gestite dal sistema europeo di banche centrali (SEBC), a loro volta gestite dalla BCE,
cioè la Banca Centrale Europea. La BCE ha il compito di tutelare gli utenti e di garantire la trasparenza del mercato; i
controlli che effettua sono però esclusivamente di natura tecnica. L'introduzione della moneta unica è stata
fondamentale in quanto ha determinato la stabilità dei prezzi, eliminando il tasso di cambio, che ha generato la
svalutazione (diminuzione del valore della moneta in un Paese), e la manovra sui tassi di interesse, che ha generato
l'inflazione (aumento dei prezzi).
L'Unione monetaria europea stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio, competenza dei singoli stati
membri. Agli stati nazionali, infatti, viene imposto il rispetto di finanze pubbliche sane e pertanto il Trattato prevede
che due volte l'anno gli stati membri sottopongano i loro bilanci, quello in corso e quello previsto, ad una procedura
d'esame, con l'obiettivo di evitare i disavanzi eccessivi, che si hanno quando il disavanzo supera la soglia del 3% del
PIL e quando il debito pubblico supera la soglia del 60% del PIL. Con il Patto di stabilità e di crescita, inserito nel
Trattato di Amsterdam del 1997, i paesi aderenti si impegnano a porsi un obiettivo di bilancio pubblico in pareggio,
tale da garantire la stabilità dei prezzi, da limitare l'indebitamento e da rispettare i parametri di Maastricht, che
prevedono la riduzione del debito pubblico e del disavanzo. L’elevato stock di debito pubblico infatti fa aumentare i
tassi d’interesse e quest’ultimi fanno aumentare la spesa dello Stato, che dovrà finanziarsi, aumentando ancor di più
il debito pubblico; tutto ciò genera una crisi finanziaria.
Per affrontarla, gli stati dell’Eurozona hanno approvato importanti riforme. La nuova governance economica
europea, introdotta nel 2010, ha rafforzato il coordinamento, a livello europeo, delle politiche economiche nazionali
e ha reso più efficace la sorveglianza sulle politiche di bilancio degli stati dell'Eurozona. Questo intervento però ha
causato una limitazione dell'autonomia decisionale degli Stati.
Tra il 2010 e il 2014 sono stati introdotti:
- il semestre europeo, grazie al quale le politiche economiche e di bilancio degli stati membri si coordinano: nel mese
di gennaio la Commissione elabora un'analisi annuale sulla crescita in cui indica le prospettive e le proposte
strategiche, nel mese di marzo il Consiglio indica i principali obiettivi di politica economica per l'UE, nel mese di aprile
gli stati membri comunicano alla Commissione i propri obiettivi e le riforme che intendono adottare, nei mesi di
giugno e luglio il Consiglio Europeo e il Consiglio dei Ministri finanziari forniscono indicazioni specifiche per ciascun
Paese, ad ottobre ciascun Paese deve redigere un documento programmatico di bilancio (DPB) che, entro fine
novembre, la Commissione Europea dovrà giudicare ed eventualmente correggere;
- six pack e two pack, ossia otto regolamenti comunitari che hanno il compito di sorvegliare i dati macroeconomici e
finanziari di ciascun Paese. Inoltre vi è il braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita, in base al quale la
Commissione esercita il controllo sulle finanze pubbliche dello Stato;
- il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell'Unione Europea, firmato nel 2012, con il quale
vennero sancite due regole fondamentali per il cosiddetto Fiscal Compact o Patto di bilancio: il divieto di superare lo
0,5 % del PIL e la riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL;
- il meccanismo europeo di stabilità (MES), cioè un meccanismo permanente di intervento diretto ad assicurare la
stabilità finanziaria nell'Eurozona, nient'altro che un meccanismo di solidarietà diretta ad aiutare gli stati in difficoltà
finanziarie;
- L'Unione Bancaria, diretta a evitare i rischi di "contagio" tra stati quando vi è crisi finanziaria.
Dal rafforzamento della governance economica europea è risultato accresciuto il cosiddetto deficit democratico
dell'Unione, infatti le decisioni che vengono prese a livello europeo non sono adottate democraticamente, ma dai
tecnici di Bruxelles (dove ha sede il Consiglio Europeo), dando luogo al pericolo di una prevalenza della tecnocrazia
sulla democrazia. Da una parte c'è chi preme per restituire agli stati quote di sovranità e di competenze, attualmente
attribuite all'UE, dall'altra parte invece c'è chi chiede che l'UE sia dotata di strumenti per seguire una propria politica
economica e che vengano rafforzati il principio democratico, il ruolo del Parlamento Europeo e i rapporti di
quest'ultimo con i parlamenti nazionali. Dall'una i movimenti populisti e antieuropei, dall'altra i partiti popolari,
socialdemocratici e liberali. Dagli esiti delle elezioni del Parlamento Europeo del 2019, la maggioranza del
Parlamento è rimasta caratterizzata dai secondi gruppi.
Forme di Governo
Con l’espressione forma di Governo si indica il modo in cui il potere sovrano è diviso tra i diversi organi statali
(Parlamento, Governo, ecc.). Ogni forma di Stato individua una forma di Governo
Tra le forme di governo distinguiamo:
Forme di governo
La monarchia costituzionale
La monarchia costituzionale è la forma di governo che si afferma nel passaggio dallo Stato assoluto allo Stato
liberale. Essa nasce dapprima in Inghilterra e, dopo la Rivoluzione Francese del 1789, anche in Europa. L'elemento
distintivo di questa forma di Governo è la netta separazione dei poteri tra il Re (potere esecutivo) ed il Parlamento
(potere legislativo), quindi essa nasce quando il Parlamento vede riconosciuti i suoi poteri che limitavano quelli del
Re. Il Re poteva comunque partecipare all'esercizio della funzione legislativa e di quella giurisdizionale, attraverso la
nomina dei giudici; inoltre aveva il potere di nominare i ministri, che erano suoi diretti collaboratori. Il Parlamento
invece approvava le norme limitatrici dei poteri dell'amministrazione, ma le leggi entravano in vigore soltanto con il
consenso del Re. Questo dualismo politico godeva di un equilibrio sociale, per cui da una parte vi era il monarca, che
costituiva il punto di riferimento dell'aristocrazia, dall'altra il Parlamento, che costituiva il punto di riferimento della
borghesia.
Inizialmente era un parlamentarismo dualista, dove il potere esecutivo era ripartito tra il Capo dello Stato e il
Governo; quest'ultimo doveva avere una doppia fiducia, quella del Re e quella del Parlamento (che poteva essere
sciolto dal Capo dello Stato). Il dualismo rifletteva un determinato equilibrio sociale, già proprio della monarchia
costituzionale. Quest'equilibrio però si è modificato gradualmente a vantaggio della classe borghese, cioè a favore
del Parlamento, che divenne così monista, in quanto il Governo doveva godere di un rapporto di fiducia
esclusivamente con il Parlamento. Il Capo dello Stato perciò aveva il solo ruolo di garanzia ed era quindi escluso dalle
decisioni politiche. Il sistema Parlamento-Governo, legati da un rapporto di fiducia, è stato poi rafforzato dalla
controfirma, che ha concesso al Governo la responsabilità politica.
Con l’affermazione dello Stato di democrazia pluralista, le forme di governo vennero influenzate dalla presenza di
una pluralità di partiti. Un sistema di partiti individua il numero e il tipo di rapporto che si instaura tra di essi. In
particolare, la Scienza politica ha classificato i sistemi politici tenendo conto non solo del numero dei partiti, ma
anche della loro capacità di coalizzarsi, strettamente legata all'ideologia: è ovvio dire che partiti con ideologie affini
potranno trovare un punto d'incontro, a differenza di quelli con ideologie opposte e contrastanti (partiti
antisistema). Quando è molto elevata la distanza ideologica tra i partiti si dice che il sistema politico è
ideologicamente polarizzato. Quando invece le ideologie sono affini, vi è più possibilità di coalizione e il sistema,
seppur pluripartitico, finisce per incentrarsi su due poli politici (sistema bipolare). Di conseguenza, la competizione
elettorale è vissuta come competizione tra due poli politici, pertanto, dalle elezioni emerge con chiarezza la
coalizione di partiti che ottiene la maggioranza e che pertanto esprimerà il Governo.
Per comprendere il funzionamento della forma di governo parlamentare è necessario distinguere il parlamentarismo
maggioritario dal parlamentarismo compromissorio:
- il parlamentarismo maggioritario
È a prevalenza del Governo ed è caratterizzato dalla presenza di un sistema politico bipolare, formato da due poli
alternativi, una maggioranza politica, il cui leader va ad assumere la carica di Primo ministro, e una minoranza
politica, che costituisce l'opposizione parlamentare.
il Primo ministro gode della forte legittimazione politica che deriva dall'investitura popolare;
il Governo ha il sostegno di una maggioranza politica che, di regola, lo sostiene per tutta la durata della
legislatura (motivo per il quale è detto anche Governo di legislatura). Potendo il Governo dirigere la
maggioranza per ottenere l'approvazione parlamentare dei disegni di legge che propone, esso viene spesso
indicato come il comitato direttivo del Parlamento;
la minoranza invece esercita un controllo politico sul Governo e sulla maggioranza, infatti la funzione di
opposizione trova un fondamento normativo nei regolamenti parlamentari ed in Gran Bretagna è
istituzionalizzata a tal punto da dare vita ad un Gabinetto ombra (Shadow Cabinet).
Questo sistema parlamentare dunque si contraddistingue per l'alternanza ciclica dei partiti nei ruoli di maggioranza e
di opposizione; esso è diffuso in Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Germania, Svezia, Spagna, quindi
in Paesi dove è presente una cultura politica omogenea, tale da consentire una democrazia maggioritaria.
È importante sottolineare come in questi sistemi l'elettore formalmente non vota per il Primo ministro, ma per i
candidati al Parlamento nel suo collegio elettorale, il quale si presenta alle elezioni con un leader che assumerà, nel
caso di vittoria, la carica di Primo ministro.
- il parlamentarismo compromissorio
È a prevalenza del Parlamento ed è caratterizzato da un sistema pluripartitico, dove coesistono numerosi partiti con
profonde differenze ideologiche. Le elezioni non consentono agli elettori di scegliere né la maggioranza né il
Governo, infatti quest'ultime servono soltanto a contare il consenso popolare di ciascun partito nel Paese. Sono
i partiti, dopo le elezioni, a concludere gli accordi attraverso cui si forma la maggioranza politica e si individua la
composizione del Governo e della persona che dovrà assumere la carica di Primo ministro. Il Governo può contenere
esponenti di tutti partiti che fanno parte della maggioranza (Governo di coalizione) oppure avere l'appoggio esterno
dei partiti che gli votano la fiducia. Essendo quindi, in questa forma di governo, tutto frutto di accordi politici, la
stabilità del Governo dipende dal mantenimento di questi accordi, motivo per il quale è molto debole e instabile.
Cresce però il ruolo del Parlamento, perché il Governo, per mantenere la fiducia, contratta con i gruppi
parlamentari. Quello che si cerca è perciò un compromesso tra maggioranza e minoranza, attraverso cui i partiti con
ideologie contrastanti possono coesistere pacificamente, ecco perché parlamentarismo compromissorio.
In alcuni casi si è formata una grande coalizione, che ha inglobato tutti i partiti, come quella formatasi in Germania
(attuale legislazione), in Austria, in Danimarca e in Olanda.
Questo è il caso degli Stati Uniti d'America: qui il Presidente ed il vice-presidente sono eletti per un mandato di
quattro anni, attraverso una procedura a doppio grado: in ogni Stato sono eletti gli "elettori presidenziali", i
quali successivamente sono riuniti in un Collegio ad hoc che procede alla scelta del Presidente e del vice-presidente.
L'elettore di ciascuno Stato, formalmente vota per l'elettore presidenziale, mentre in realtà esprime la sua
preferenza per il candidato alla Presidenza, già precedentemente scelto dai partiti. In questa forma di governo non
esiste un organo chiamato Governo: i collaboratori, chiamati Segretari di Stato, formano il cosiddetto Gabinetto,
privo di qualsiasi rapporto con il Parlamento. Il Parlamento, che prende il nome di Congresso, ha struttura
bicamerale. Le 2 camere sono: il Senato (formato da due rappresentanti per ogni Stato membro, perciò 100 membri
in tutto, rinnovati parzialmente ogni due anni) e la Camera dei rappresentanti (formata su base nazionale, in modo
proporzionale alla popolazione degli Stati, da 435 deputati con mandato biennale). Il Congresso è titolare del potere
legislativo, approva il bilancio annuale e può mettere in stato d'accusa il Presidente per tradimento, corruzione o altri
gravi reati. Presidente e Congresso sono indipendenti. In particolare il Presidente ha il potere di veto sospensivo
delle leggi approvate dal Congresso, il quale può superare l'opposizione presidenziale solo tramite un’ulteriore
deliberazione approvata con la maggioranza dei due terzi.
Il Congresso ha il potere di approvare le nomine presidenziali ad alcune alte cariche pubbliche (giudice della Corte
Suprema) e la facoltà di controllare la politica del Presidente. Il sistema si caratterizza, dunque, perché il Presidente,
Capo del Governo, trae la sua legittimazione direttamente dalla collettività nazionale, così come il Parlamento. Il
Presidente non ha bisogno del sostegno parlamentare, visto che non esiste il voto di sfiducia, con la conseguenza che
resta in carica indipendentemente da questo sostegno; di contro, il Presidente non ha strumenti giuridici per
superare l'ostilità del Parlamento, in quanto non dispone del potere di scioglierlo. Di conseguenza, si determina un
dualismo paritario tra Presidente e Parlamento (opposto al monismo del sistema parlamentare, in cui Governo e
Parlamento erano strettamente collegati per via del rapporto di fiducia e della maggioranza parlamentare).
Sono quindi le vicende politiche a determinare lo spostamento dell'equilibrio del sistema. La separazione tra
Parlamento e Presidente comporta che il primo possa essere espressione di un partito diverso da quello del secondo,
motivo per il quale il Governo americano è considerato diviso. In esso infatti vi sono partiti deboli e soprattutto non
vi sono principi ideologici di base, motivo per il quale la maggioranza e la minoranza non sono così tanto divise.
Il Presidente perciò, anche quando nel Congresso c'è una maggioranza di un partito diverso dal suo, può cercare di
costruire consenso parlamentare aggregando parlamentari di partiti diversi.
il Capo dello Stato, chiamato Presidente, è eletto direttamente dal corpo elettorale dell'intera Nazione;
il Presidente è indipendente dal Parlamento perché non ha bisogno della sua fiducia, tuttavia non può
governare da solo, ma deve servirsi di un Governo, da lui nominato, che deve però godere della fiducia del
Parlamento.
Perciò, in tale sistema c'è una struttura bicefala del potere di Governo, che, infatti, ha due teste: il Presidente della
Repubblica e il Primo ministro. Questa struttura consente diversi equilibri della forma di Governo, che può vedere
ora la prevalenza del Presidente, ora del Primo ministro.
- forme di governo semipresidenziali a Presidente forte, dove il Presidente, in quanto leader della maggioranza
parlamentare, può indirizzare sia il Governo che il Parlamento (è il Presidente a nominare il Primo Ministro).
Un esempio è la V Repubblica francese. Molte volte in Francia vi è stata una coabitazione, avvenuta quando il
Presidente della Repubblica ed il Primo Ministro erano espressioni di partiti diversi. Questa situazione è stata resa
possibile dalla sfasatura temporale tra la durata in carica del Presidente (7 anni) e del Parlamento, che esprime il
Primo Ministro (5 anni). In questo modo, il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro potevano essere scelti da
maggioranze politiche diverse e generare così conflitti paralizzanti, motivo per il quale nel 2000 una riforma
costituzionale ha previsto la durata del mandato presidenziale e di quello parlamentare di 5 anni. Nel 2017, con
l'elezione di Emmanuel Macron, vi è stata una vera e propria trasformazione nella vita politica francese, in quanto il
nuovo Presidente è il più giovane della storia francese, così tanto che al momento delle elezioni non aveva dietro di
lui un partito, ma aveva creato un movimento, chiamato En Marche, l'anno precedente alle elezioni. La sua
campagna è stata incentrata sull'Europa e sull'apertura della Francia alla globalizzazione, opponendosi così al Front
National di Marine Le Pen, che invece puntava a tutt'altri obiettivi;
- forme di governo semipresidenziali a prevalenza del Governo, dove il ruolo del Presidente si riduce a quello di
garanzia, in quanto prevalgono il Parlamento e il Governo. Esempi sono l’Austria, l’Irlanda e l’Islanda, anche se,
piuttosto che paragonare queste forme di governo a quelle del sistema francese, sarebbe meglio paragonarle ai
sistemi parlamentari.
Un elemento comune a tutti gli stati di democrazia pluralista è l'investitura popolare del Capo del Governo sempre
assicurata. Secondo un autorevole costituzionalista francese, Maurice Duverger, nelle democrazie occidentali si
sarebbe affermata una sorta di monarchia repubblicana: monarchia perché gran parte del potere è concentrato nelle
mani di una sola persona, cioè il Capo dello Stato, che deve però sottoporsi periodicamente al giudizio del corpo
elettorale, motivo per il quale il sistema resta comunque repubblicano. Secondo egli quindi vi è un passaggio da una
democrazia mediata, in cui il Governo era formato a seguito di negoziazioni politiche tra partiti, ad un sistema di
democrazia immediata, in cui il popolo sceglie direttamente il Capo del Governo.
La forma di governo italiana, delineata dalla Costituzione, è una forma di governo parlamentare a debole
razionalizzazione, in cui cioè sono previsti solo limitati interventi del diritto costituzionale per assicurare la stabilità
del rapporto di fiducia (diretta a garantire la stabilità del Governo e disciplinata dall’art.94) e la capacità di direzione
politica del Governo. La Costituzione prevede la mozione di sfiducia (art.94.2.), che è l'atto con cui il Parlamento
interrompe il rapporto di fiducia con il Governo, obbligandolo alle dimissioni, che deve essere motivata e votata per
appello nominale (i parlamentari sono chiamati uno alla volta ad esprimere il proprio voto, evitando così il fenomeno
dei cosiddetti franchi tiratori, cioè quei deputati che si nascondono dietro al voto segreto per minare la
maggioranza). Inoltre, secondo l'art.94.5, la mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei
componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione; in
questo modo si assicura un periodo di riflessione, prima della votazione della sfiducia e si scoraggiano i colpi di
mano, anche detti assalti alla diligenza. La Costituzione precisa che il voto contrario di una o di entrambe le Camere
su una proposta del Governo non comporta obbligo di dimissioni (art.94.4).
L'altro aspetto della disciplina costituzionale del rapporto di fiducia è la previsione secondo cui il Governo, entro dieci
giorni dalla sua formazione, deve presentarsi alle camere per ottenere la fiducia, che viene accordata o respinta
sempre con una mozione motivata e votata per appello nominale (art.94.3). Ciò significa che il Governo deve avere
una maggioranza che lo sostiene, senza la quale non riuscirebbe ad ottenere la fiducia iniziale voluta dalla
Costituzione. Questa è una maggioranza politica stabile che si aggrega attorno ad un determinato indirizzo politico e
che pertanto si impegna politicamente a realizzarlo. Dalla disciplina descritta deriva la ratio costituzionale della
questione di fiducia, che può essere posta dal Governo su sua iniziativa che richiede l’approvazione parlamentare: in
questo caso il Governo dichiara che, ove la sua proposta non dovesse essere approvata dal Parlamento, trattandosi
di una proposta necessaria per l'attuazione dell'indirizzo concordato con la maggioranza, riterrà venuta meno la
fiducia di quest'ultima e come conseguenza rassegnerà le sue dimissioni. La questione di fiducia, quindi, è uno
strumento che il Governo utilizza per esercitare una pressione (opponendo approvazione del disegno di legge o crisi)
sulla maggioranza affinché resti compatta e coerente con le scelte di indirizzo su cui si basa il rapporto di fiducia con
il Governo, ecco perché essa viene definita come una necessità istituzionale.
All'inizio della storia repubblicana, l'ideologia marxista e quella cattolica hanno fornito la base su cui si è costituita
l'identità della democrazia italiana: il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. In seguito alla nascita di numerose
ideologie politiche ed alla conseguente nascita di numerosi partiti, si delineò un sistema politico a più partiti con
distanza ideologiche evidenti. In un sistema con ampie divaricazioni ideologiche, la forma di governo che ha
funzionato è stata quella delle maggioranze formate dopo le elezioni attraverso laboriosi accordi tra i partiti. In
secondo luogo, le maggioranze sono state fondate sull’esclusione permanente dei poli estremi di sinistra e destra e si
sono fondate sulla Democrazia Cristiana, ideologica e sociale. La formazione postelettorale della maggioranza ha
consentito la progressiva inclusione, nella nostra democrazia pluralista, di partiti collocati alle ali estreme del
sistema. Il sistema politico, quindi, condizionava il funzionamento della forma di governo, orientandola verso il
parlamentarismo compromissorio. Gli anni '90 hanno visto una profonda modificazione del sistema politico: il fatto
più significativo è stato rappresentato dalla nascita di nuovi partiti e dalla scomparsa di partiti "storici" della
democrazia italiana. Il sistema politico, però, è rimasto notevolmente frammentato, anche di più di quanto avveniva
nel periodo precedente, motivo per il quale vi è un elevato numero di gruppi parlamentari. Nel 1993 si è avuto un
referendum per il passaggio del sistema elettorale pluralista al maggioritario, poiché la società era divenuta più
complessa e articolata e la crisi delle ideologie era abbastanza evidente; così ha vinto il sì al sistema maggioritario.
Si è avuto, quindi, un sistema bipolare, formato dal Governo di centro-destra di Berlusconi e il Governo di centro-
sinistra guidato da Prodi, che si sono alternati per anni. Questo sistema bipolare entrò ben presto in crisi, nel 2011,
quando Berlusconi si dimise e al suo posto elessero Mario Monti, che si trovò a fronteggiare una grave crisi
finanziaria.
In un sistema pluripartitico, come quello italiano, in cui nessuna forza politica ha la maggioranza assoluta dei seggi
parlamentari, la maggioranza sarà necessariamente formata attraverso l'accordo tra più partiti e prende il nome di
coalizione. Pertanto il Governo viene chiamato Governo di coalizione, per differenziarlo dai Governi monocolore (in
Gran Bretagna). Le modalità seguite per la formazione della coalizione possono essere diverse, in particolare, vanno
distinte le coalizioni annunciate davanti al corpo elettorale dalle coalizioni formate in sede parlamentare dopo le
elezioni.
Nel primo caso il corpo elettorale può scegliere tra coalizioni alternative e quella che vince le elezioni diventa la
maggioranza che esprime il Governo. Di regola, il leader che guida la coalizione nella competizione elettorale è il
candidato alla carica di Primo ministro e sarà nominato in caso di vittoria elettorale. I partiti si impegnano con il
corpo elettorale a realizzare il programma contenuto negli accordi di coalizione e la maggioranza presenta perciò un
grado elevato di stabilità. Pertanto, la forma di governo si assesta secondo moduli funzionali del parlamentarismo
maggioritario, con una netta differenza di ruoli tra maggioranza e opposizione. Viceversa, le coalizioni di secondo
tipo nascono da accordi tra i partiti conclusi dopo le elezioni. In questo caso ciascun partito lotta per la conquista del
maggior numero di seggi parlamentari. Solamente dopo le elezioni iniziano le negoziazioni: sul tavolo del negoziato
ciascun partito potrà far valere la forza che deriva dal grado di consenso elettorale ottenuto. Pertanto l'elettore non
sceglie né la maggioranza né la persona che ricoprirà la carica di Primo ministro. In Italia, prima del 1994, le coalizioni
sono sempre state formate dopo le elezioni attraverso complesse negoziazioni tra le forze politiche. Solamente a
seguito della grave crisi del sistema politico del ’90, si è giunti ad una democrazia maggioritaria e si è passati ad un
sistema basato su coalizioni formalmente annunciate al corpo elettorale.
La crisi di Governo consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del rapporto di
fiducia tra il Governo da una parte ed il Parlamento (o meglio la maggioranza) dall'altra. Tradizionalmente si suole
distinguere le crisi parlamentari dalle crisi extraparlamentari. Le
prime sono determinate dall'approvazione di una mozione di sfiducia oppure da un voto contrario sulla questione di
fiducia posta dal Governo. In questo caso il Governo è giuridicamente obbligato a presentare le sue dimissioni al
Capo dello Stato. Le seconde, invece, si aprono a seguito delle dimissioni volontarie del Governo, causate da una crisi
politica all'interno della sua maggioranza. A queste ultime sono assimilabili le crisi determinate dalle dimissioni del
solo Presidente del Consiglio, che determinano la cessazione dalla carica dell'intero Governo (visto che è lui che ha
proposto al Capo dello Stato i ministri da nominare ai sensi dell'art.95 Cost.). Il
potere dei partiti di recedere dagli accordi di maggioranza, aprendo la crisi, ha determinato la notevole instabilità e
la conseguente non efficienza dal punto di vista decisionale dei Governi italiani.
Nell'esperienza repubblicana italiana ci sono stati dei casi di mozione di sfiducia individuale, cioè presentata nei
confronti di un singolo ministro: la Corte costituzionale, in riferimento al caso Mancuso del 1995, ha ritenuto che la
sfiducia individuale si debba inquadrare nella forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione.
IL SISTEMA ELETTORALE
Nella legislazione elettorale confluiscono tre diverse componenti:
le norme che definiscono la “cittadinanza politica”, ossia le norme che determinano i soggetti che godono
dell'elettorato attivo;
le regole sul sistema elettorale;
la legislazione elettorale di contorno.
Tutto questo al fine di garantire la lealtà della competizione elettorale, la parità tra i concorrenti e impedire il
conflitto d'interessi tra la carica di parlamentare e altri ruoli occupati dal medesimo soggetto nella società.
L'art. 48 della Costituzione Italiana afferma che “sono elettori i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la
maggiore età”. Questa norma disciplina il cosiddetto elettorato attivo, cioè la capacità di votare, concessa a tutti
coloro che hanno la cittadinanza italiana e la maggiore età. Tutti coloro che possiedono i requisiti vengono iscritti
nelle liste elettorali; anche i detenuti, che non siano incorsi in una causa di incapacità elettorale, sono ammessi a
votare nel luogo di detenzione, mentre i malati possono votare negli ospedali e nelle case di cura. L'elettorato attivo
viene escluso ai sensi dell'art. 48.4 Cost. per cause di incapacità civile (minori e incapaci), per effetto di sentenze
penali irrevocabili (per esempio delitti fascisti o il compimento di un numero considerevole di delitti e
contravvenzioni che portano, però, alla sospensione per cinque anni del diritto di voto), per cause di indegnità
morale (i falliti, coloro che sono sottoposti alle misure di prevenzione di polizia o all'interdizione temporanea dei
pubblici uffici). Secondo l'art.48.2 Cost. il voto è personale, eguale, libero, segreto e dovere civico.
L'elettorato passivo, invece, consiste nella capacità di essere eletto. Quest'ultima pone una restrizione concernente
l'età: per essere eletti alla Camera dei deputati occorre avere compiuto 25 anni (art.56.3), mentre per essere eletti al
Senato occorre avere almeno 40 anni (art.58.2). L'eleggibilità viene concessa a tutti gli elettori, ma vi sono dei casi di:
ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità.
L'ineleggibilità consiste in un impedimento giuridico, sorto prima dell'elezione, che non consente l'elezione di un
soggetto, quando esso è titolare di cariche di Governo degli enti locali, funzionari pubblici (consiglieri regionali, i
sindaci dei comuni con popolazione superiore ai 20.000 abitanti, i capi di gabinetto dei ministri, i commissari del
governo presso le regioni, i prefetti, i funzionari di pubblica sicurezza, etc...) e alti ufficiali, oppure quando egli abbia
un rapporto di impiego con altri stati (addetti alle ambasciate, legazioni e consolati esteri) e infine quando egli abbia
peculati rapporti economici con lo Stato (rappresentanti, amministratori e dirigenti di società e imprese volte al
profitto di privati). Vi è poi il caso di ineleggibilità relativa, circoscritta a generali, ammiragli e ufficiali superiori delle
forze armate oppure ai magistrati. Se le cause di ineleggibilità sopraggiungono nel corso del mandato elettivo
prendono il nome di ineleggibilità sopravvenute; esse di norma si trasformano in cause di incompatibilità.
L'incompatibilità si ha quando il soggetto, validamente eletto, non può ricoprire contemporaneamente la carica di
parlamentare e altro. Ad esempio non si può essere contemporaneamente senatore e deputato, parlamentare e
componente del Consiglio Superiore della Magistratura, parlamentare e giudice della Corte costituzionale,
Presidente della Repubblica e qualsiasi altra carica.
Sul piano degli effetti, le cause di ineleggibilità hanno natura invalidante, mentre le cause di incompatibilità possono
essere rimosse attraverso l’opzione da parte dell’interessato fra le due cariche.
L’incandidabilità consiste in una idoneità funzionale assoluta non rimovibile dall'interessato, che si basa
sull'indegnità morale del soggetto. Essa è regolata dalla legge Severino, che reca il divieto di ricoprire cariche elettive
e di Governo per i soggetti che hanno subìto condanne per determinati reati (delitti connessi al fenomeno mafioso,
relativi al traffico di droga, armi e persone, oppure delitto contro la pubblica amministrazione) e anche per i
presidenti di regione che hanno causato grave dissesto finanziario (incandidabili per dieci anni). Se l'incandidabilità
sopraggiunge dopo l'assunzione della carica si parla di decadenza della stessa e di sospensione della carica del
soggetto condannato.
Le campagne democratiche seguono una determinata disciplina: in quanto paese democratico, è fondamentale la
parità d’accesso ai mezzi di informazione per la comunicazione politica. La legge che regola questo principio (par
condicio) ha come obiettivo quello di garantire la parità di trattamento tra i candidati, i partiti e i movimenti.
Ce n’è un’altra che disciplina la diffusione dei sondaggi politici ed elettorali, secondo cui è vietato pubblicare i
risultati nei 15 giorni precedenti la data delle votazioni, mentre per i sondaggi che vengono realizzati al di fuori del
periodo elettorale, la pubblicazione deve essere accompagnata da una scheda tecnica, indicativa della qualità del
sondaggio. Per quanto riguarda le spese elettorali variano a seconda che siano riferibili al singolo candidato oppure
ai partiti o ai movimenti. Nel primo caso la legge obbliga il candidato a nominare un mandatario elettorale, che
diviene l’unico soggetto attraverso cui possono essere raccolti i contributi elettorali, quindi esso diviene una sorta di
garante della regolarità della gestione dei fondi. Ogni operazione economica relativa alla campagna elettorale deve
essere resa pubblica (devono essere indicati i contributi ricevuti e la loro provenienza) e sottoposta al controllo di
collegi regionali di garanzia elettorale, che hanno poteri sanzionatori. I partiti e i movimenti vengono disciplinati dalla
legge in modo parzialmente diverso; ovvero la legge fissa un tetto massimo di spese, il cui consuntivo viene
presentato ai Presidenti delle due Camere ed inviato per il controllo ad un apposito collegio istituito presso la Corte
dei conti. Nelle odierne democrazie pluraliste la politica ha costi crescenti perché da un lato i partiti costituiscono
organizzazioni complesse che per funzionare richiedono ingenti risorse e dall’altro lato le campagne elettorali, svolte
sempre di più in maniera digitale, impiegando blog e social network, richiedono ingenti risorse a coloro che
vorrebbero avere effettive possibilità di essere eletti. Per evitare che in una democrazia, basata sull’eguaglianza
politica di tutti i cittadini, solo chi abbia ingenti risorse economiche possa conquistare la titolarità del potere politico,
viene introdotta una forma di finanziamento pubblico, cioè a carico del bilancio statale, per i partiti e i candidati.
Un decreto legge del 2013 ha però abolito il finanziamento pubblico, sostituendolo con il finanziamento privato
volontario, basato sulla possibilità di destinare ad un partito il 2 × 1000 della propria imposta, cioè l’IRPEF, e di
promuovere detrazioni fiscali per le erogazioni a favore dei partiti. Queste erogazioni non possono superare i
100.000 €. Un altro tipo di finanziamento della politica è quello che riguarda i gruppi parlamentari, che ricevono
annualmente da ciascun ramo del parlamento una contribuzione per il loro funzionamento e per lo svolgimento
dell’attività politica.
Il sistema elettorale è il meccanismo attraverso cui i voti espressi dagli elettori si trasformano in seggi. Il sistema
elettorale si compone di due parti fondamentali:
il collegio, che è una circoscrizione territoriale chiamata ad eleggere uno o più candidati. Il collegio si dice
uninominale quando risulta eletto un solo candidato, mentre si dice plurinominale quando vengono eletti due
o più candidati;
la formula elettorale, che è il meccanismo attraverso cui si procede, sulla base dei voti espressi, alla
ripartizione dei seggi tra i soggetti che hanno partecipato alla competizione elettorale.
il sistema elettorale maggioritario, in cui i seggi attribuiti al collegio si assegnano ai candidati che abbiano
ottenuto la maggioranza dei voti, o a maggioranza assoluta (la metà + 1 dei voti) o a maggioranza relativa
(chi ottiene più voti). Se nessun candidato la raggiunge, di regola, è previsto un secondo turno di votazione
(detto ballottaggio), alla quale accedono i due candidati risultati più votati al primo turno: viene eletto il
candidato che ottiene più voti;
il sistema elettorale proporzionale, in cui i seggi assegnati sono in proporzione ai voti ottenuti da ciascun
partito. Consentono un’adeguata rappresentanza delle forze politiche minoritarie, che, invece, i sistemi
maggioritari tendono a penalizzare. Se l’elettore può esprimere, oltre al voto per la lista, una o più preferenze
per i candidati della lista, sono eletti i candidati con numero di preferenze più elevato, se invece manca la
possibilità di esprimere preferenze, i seggi sono attribuiti seguendo l’ordine dei candidati nella lista (la
cosiddetta lista bloccata).
il metodo d'Hondt, secondo cui si divide la cifra elettorale (il totale dei voti) per ogni numero dei seggi da
coprire, per ottenere il quoziente elettorale. I quozienti più alti si collocano in una graduatoria decrescente;
il metodo del quoziente, secondo cui si divide la cifra elettorale generale per il numero dei seggi e si ottiene
il quoziente elettorale. Il risultato rappresenta il numero dei seggi spettanti alla lista.
In conclusione, un sistema maggioritario ha un effetto selettivo, nel senso che l'accesso alle aule parlamentari viene
consentito esclusivamente a chi ottiene più voti nei collegi, e quindi solamente alla maggioranza politica, mentre i
sistemi proporzionali garantiscono l'accesso in Parlamento anche alle minoranze politiche, sicché si può dire che essi
hanno un effetto proiettivo. In alcuni sistemi, pur in presenza di formule proporzionali, un certo grado di selettività è
dato dalla presenza di una clausola di sbarramento, in virtù della quale possono accedere alla ripartizione dei seggi
solamente le liste che a livello nazionale abbiano conseguito una percentuale significativa di voti e di premi di
maggioranza, per cui le coalizioni che superino una certa percentuale di voti hanno diritto ad un certo numero di
seggi. In conclusione, possiamo dire che il sistema elettorale influenza l’assetto del sistema politico e della forma di
governo.
Sino al 1993 in Italia le due Camere del Parlamento erano elette con un sistema proporzionale, che assicurava a tutte
le forze politiche garanzie di sopravvivenza ed evitava la concentrazione di troppo potere nelle forze maggioritarie.
Perciò il sistema elettorale proporzionale è stato una componente importante del parlamentarismo
compromissorio, che per molti anni ha caratterizzato la democrazia italiana. Le trasformazioni della società italiana,
con il superamento delle iniziali contrapposizioni ideologiche, e la crisi dei partiti, hanno prodotto una spinta verso
una democrazia maggioritaria. Questa spinta ha avuto il momento di più alta tensione politica con il referendum
elettorale del 1993, che ha avuto una delle più elevate percentuali di sì (oltre l’80%) dell’intera storia del referendum
in Italia. Il referendum del 1993 condusse all’approvazione del “Mattarellum” che introdusse un sistema elettorale
maggioritario, corretto da una quota proporzionale. Tuttavia nel 2005 il sistema elettorale maggioritario è stato
abbandonato e sostituito con il “Porcellum” che prevedeva un sistema elettorale proporzionale, con liste bloccate,
soglia di sbarramento e premio di maggioranza. In seguito, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale del Porcellum nella parte in cui non consente all’elettore di esprimere la sua preferenza, vietandogli,
così, di esprimere il suo inviolabile potere sovrano. Nel 2015 venne approvato l’“Italicum” che prevedeva un sistema
elettorale proporzionale, con premio di maggioranza, soglia di sbarramento, voto di preferenza. Il premio di 340
seggi era attribuito alla lista che otteneva, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi. Se nessuna lista
raggiungeva il 40%, si procedeva al ballottaggio tra le due liste con il maggior numero di voti. Con l’Italicum il premio
andava alla singola lista e non vi erano quindi incentivi a formare coalizioni elettorali; l’obiettivo era infatti quello di
favorire un sistema politico con pochi grandi partiti, infatti nel 2017 è stato approvato il “Rosatellum” che prevede
un sistema elettorale misto proporzionale e maggioritario, in cui prevale la logica proporzionale ed è perciò poco
selettivo. Da questo sistema sono escluse le lunghe liste bloccate e sono stati introdotti i seggi nei collegi uninominali
e i seggi nei collegi plurinominali, tutto questo al fine di garantire l’esistenza di tutte le principali forze politiche.
Questo sistema elettorale è così configurato:
il 37% dei seggi sono assegnati con un sistema maggioritario in collegi uninominali;
il 61% dei seggi sono assegnati con un sistema proporzionale in collegi plurinominali;
il 2% dei seggi è destinato al voto degli italiani residenti all’estero;
la ripartizione proporzionale dei seggi per la camera è eseguita a livello nazionale utilizzando la formula del
quoziente e dei più alti resti, mentre per il Senato la ripartizione proporzionale è operata a livello regionale;
si può esprimere un solo voto;
sia la camera che il Senato devono avere un ordine alternato di genere, infatti nessuno dei due generi può
superare la soglia del 60%;
ogni lista deve presentare un proprio programma e indicare un proprio capo politico ed eventualmente le
coalizioni con altre liste;
sono previste delle soglie di sbarramento, ossia delle percentuali di voti al di sotto delle quali la lista non
viene ammessa alla ripartizione dei seggi nei collegi plurinominali, in modo da ridurre la frammentazione
politica: la soglia di sbarramento per le liste singole è del 3%, mentre per le coalizioni è del 10%.
Per l’elezione del Senato i seggi assegnati a ciascuna Regione sono attribuiti con la formula proporzionale,
esclusivamente sulla base dei voti espressi nella Regione medesima. Le elezioni del Parlamento europeo sono
svolte, a partire dal 1979, sulla base di leggi elettorali diverse per ciascuno Stato. I seggi attribuiti in Italia sono
attualmente 72 ed essi sono ripartiti nell’ambito di cinque circoscrizioni: Italia nord-occidentale, Italia nord-orientale,
Italia centrale, Italia meridionale, Italia insulare.
Per determinare il numero dei seggi che spettano a ciascuna lista si usa il metodo del quoziente elettorale. Per
quanto riguarda invece l’assegnazione dei seggi alle diverse circoscrizioni, si ottiene dividendo la cifra circoscrizionale
di lista (numero dei voti validi ottenuti da ciascuna lista) per il quoziente elettorale. Ove alcuni seggi non risultino
attribuiti, si applica il metodo dei resti più alti, tramite cui si concedono i seggi alle liste che abbiano avuto la
maggiore cifra elettorale nazionale. Per quanto riguarda le controversie relative alle operazioni elettorali, la legge
affida al TAR del Lazio la responsabilità di occuparsene, mentre quelle in materia di ineleggibilità e incompatibilità
sono assegnate alla Corte d’Appello competente per territorio. La verifica dei poteri è lo specifico procedimento che
ciascuna Camera svolge per controllare la regolarità delle operazioni elettorali, nonché l’esistenza o meno di cause di
ineleggibilità o incompatibilità di ciascuno dei suoi componenti. A decidere se convalidare o meno l’elezione è, in una
prima fase, la Giunta per le elezioni che fa la sua proposta all’Assemblea cui spetta la decisione definitiva, la quale
decide a maggioranza; contro la sua decisione non è ammesso alcun ricorso davanti a un giudice.
La forma di governo italiana, delineata dalla Costituzione, è una forma di governo parlamentare a debole
razionalizzazione, in cui cioè sono previsti solo limitati interventi del diritto costituzionale per assicurare
stabilità del rapporto di fiducia e la capacità di direzione politica del Governo.
La razionalizzazione costituzionale del rapporto di fiducia (art. 94 Cost.) è diretta a garantire la stabilità del
Governo, e di conseguenza, a rendere più difficoltosa l’approvazione di una mozione di sfiducia. La
Costituzione contempla la mozione di sfiducia, atto con cui il Parlamento interrompe il rapporto di fiducia con
il Governo, obbligandolo alle dimissioni; essa, al pari di quella iniziale di fiducia, deve essere motivata e votata
per appello nominale. Ciò comporta una chiara assunzione di responsabilità politica da parte di chi fa cadere il
Governo nei confronti degli elettori e dei partiti, impedendo il fenomeno dei franchi tiratori. La mozione di
sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione, in modo da assicurare un periodo di tempo sufficiente
per la riflessione dell’aula prima della votazione e per scoraggiare i colpi di mano (assalti alla diligenza). L’art.
94.4 Cost. sancisce che il voto contrario di una o entrambe le Camere su un disegno di legge governativo non
comporta l’obbligo di dimissioni del Governo. La mozione deve essere votata per appello nominale e motivata
dalle Camere entro dieci giorni dalla formazione del nuovo Governo, nel momento in cui il nuovo esecutivo si
presenta davanti ad esse (art. 94.3). Il procedimento di formazione del Governo termina con la fiducia da parte
di entrambe le Camere, la cosiddetta maggioranza politica, ossia una maggioranza stabile che si aggrega
attorno ad un determinato indirizzo politico e che pertanto si impegna politicamente a realizzarlo. Mediante la
questione di fiducia posta dal Governo su un proprio disegno di legge, quest’ultimo dichiara che, nel caso in
cui la legge da approvare in Parlamento non dovesse passare, rassegnerà le sue dimissioni perché tale legge
risulta necessaria per l’attuazione dell’indirizzo politico del Governo. Così, la questione di fiducia, costituisce
uno strumento attraverso cui il Governo rivendica la sua responsabilità per l’attuazione dell’indirizzo politico.
In questi casi la votazione avviene per appello nominale e viene bloccata la votazione degli emendamenti
presentati. È di facile deduzione perciò la fondamentale importanza che ricopre la maggioranza di Governo dal
punto di vista istituzionale.
All’inizio della storia repubblicana, la democrazia italiana ha dovuto fare i conti con una società attraversata da
profonde divisioni ideologiche, marxista (PC) e cattolica (DC). I principali partiti italiani, in un Paese fortemente
ideologizzato, erano in grado di rappresentare stabilmente un determinato settore della società. Tale realtà
socio-politica ha dato vita ad un sistema politico a multipartitismo esasperato. Con questa espressione si
intende un sistema caratterizzato dalla presenza di un elevato numero di partiti con una notevole distanza
ideologica l’uno dall’altro.
Le caratteristiche della società e del sistema politico impedivano l’affermazione di una democrazia
maggioritaria, a favore di una consociativa, ed erano:
a) in primo luogo, erano impraticabili sia la dinamica bipolare del sistema politico, con la
contrapposizione maggioranza-opposizione, sia l’investitura popolare diretta del Governo. Perciò la
forma di governo ha funzionato sulla base di maggioranze formate dopo le elezioni attraverso laboriosi
accordi tra i partiti;
b) in secondo luogo, le maggioranze sono fondate sull’esclusione permanente dei due poli estremi (di
sinistra e di destra), imperniandosi sulla DC, a causa delle sue caratteristiche di compatibilità con ogni
altro partito;
c) in terzo luogo, la formazione post-elettorale della maggioranza ha consentito la formazione di
coalizioni di governo con partiti posti alle ali estreme del sistema.
Il sistema politico orientava così la forma di governo verso una di tipo compromissorio. Le crisi
ideologiche, soprattutto dopo il crollo del regime comunista dell’Europa orientale e la laicizzazione
della società, hanno accresciuto la difficoltà per i partiti italiani di adempiere la loro funzione tipica di
sintetizzare l’equilibrio tra la rappresentanza e la decisione.
Inoltre l’integrazione europea con il Trattato sull’UE, ha imposto al nostro paese una spesa pubblica “sana” e
con rigidi vincoli al bilancio, con la conseguenza di rendere poco praticabili i compromessi politici che
accontentavano i principali gruppi politici, imponendo gli elevati costi economici di tali compromessi al
bilancio statale. Da questa lunga serie di circostanze, è nata in consistenti settori della società italiana la spinta
ad adottare una democrazia maggioritaria, con conseguente assetto della forma di governo. La manifestazione
più vistosa di questa spinta si è avuta con il referendum elettorale del 18/04/1993 che ha riscontrato oltre
l’80% dei consensi per l’abbandono del sistema consociativo a favore di un sistema prevalentemente
maggioritario. Le indagini della magistratura hanno assestato un ulteriore duro colpo al sistema politico
italiano, svelando il sistema di finanziamento illegale della politica a tutto tondo. A seguito di questo processo
di ristrutturazione del sistema politico italiano, tutti i partiti accettarono i principi della democrazia pluralista
ed in linea tendenziale è venuta meno la forte contrapposizione ideologica che garantiva convention ad
excludendum. Il nuovo assetto partitico pose una condizione per cui era consentito il funzionamento bipolare
dello stesso in favore di un parlamentarismo maggioritario e della pratica dell’alternanza. La tendenza alla
semplificazione ed alla bipolarizzazione del sistema politico italiano si è rafforzata nel periodo 2008/2009 con
la fondazione del PD, in cui confluivano i democratici di sinistra e la Margherita, e del PDL, in cui confluiva
Forza Italia e l’Alleanza Nazionale. Oltre alla marcata semplificazione vi fu l’uscita di scena di qualsiasi partito
che fece riferimento alle grandi ideologie del ‘900. Nel novembre del 2011, con l’aggravarsi della crisi della
finanza pubblica italiana in un contesto di gravi tensioni sui Paesi più deboli dell’Eurozona, per affrontare la
grave crisi economica, il Governo Berlusconi si è dimesso in favore del Governo tecnico di Monti, in cui è
confluita un’ampia maggioranza di forze politiche: PD, PDL ed Unione di Centro. Le successive elezioni del
2013 con presidente Enrico Letta hanno accentuato la frammentazione del sistema e reso impossibile il
funzionamento della dinamica bipolare con un’ampia coalizione composta da PD, PDL, UdC e Lista civica.
La formazione di una maggioranza politica (art.94 Cost.) è un dato necessario per la formazione di un Governo.
In un sistema politico frammentato come quello italiano, la maggioranza di Governo deve necessariamente
essere formata attraverso l’accordo tra più partiti, prendendo il nome di coalizione. Pertanto il Governo,
basato sull’accordo politico di più partiti, viene definito Governo di coalizione. I Governi formati da un solo
partito vengono denominati Governi monocolore, tipici del sistema bipartitico a parlamentarismo
maggioritario. Le modalità seguite per la formazione di una coalizione possono essere annunciate davanti al
corpo elettorale oppure costituite in sede parlamentare nel periodo post-elettorale. Nel primo caso, il corpo
elettorale può scegliere tra coalizioni diverse e quella che vince le elezioni esprime il Governo. Di regola, il
leader che guida la coalizione nella competizione elettorale è il candidato alla carica di Primo Ministro.
In questo caso la maggioranza presenta un elevato grado di stabilità perché nel caso in cui si dovesse rompere
l’accordo tra i partiti della coalizione, con essa verrebbe meno anche il Governo. Pertanto il sistema politico
funziona in modo bipolare, con due poli politici costituiti da più partiti.
Nel secondo caso, ciascun partito si presenta davanti al corpo elettorale con identità e programmi propri e
lotta per ottenere il maggior numero di voti. Solo dopo le elezioni iniziano le negoziazioni per la scelta della
maggioranza di Governo. In questo caso, la rottura degli accordi di coalizione, dato che si è formata in fase
post-elettorale, non vincola nuove elezioni. In quest’ultimo caso perciò, il corpo elettorale non sceglie né la
maggioranza, né la persona che ricoprirà il ruolo di Primo Ministro (come avveniva nel primo caso, seppur
indirettamente). In Italia, prima del 1994, le coalizioni sono sempre state formate dopo le elezioni, attraverso
complessi negoziati tra le forze politiche. Dopo il referendum del 1993 si è sviluppata la tendenza verso un
sistema basato sulla competizione tra due coalizioni formalmente annunciate al corpo elettorale; esse hanno
continuato ad avere elementi di conflittualità che hanno compromesso la loro stabilità.
I processi di crisi, di frammentazione e di instabilità del sistema politico, che si sono manifestati soprattutto a
partire dal 2008, si sono aggravati con le elezioni del 2013, mettendo in crisi anche la logica bipolare e la
coincidenza tra coalizione annunciata al corpo elettorale e coalizione di governo.
Dopo una lunga fase di negoziazioni si è formato il Governo Letta (succedendo a Monti), basato su una
coalizione in cui confluivano i partiti maggiori su cui si imperniavano le due coalizioni elettorali rivali, PD e PDL.
La formazione di coalizioni annunciate al corpo elettorale e la scelta sostanziale del Governo e della
maggioranza da parte degli elettori vengono meno con le elezioni del 4 marzo 2018, avvenute sulla base di un
sistema elettorale proporzionale. In questa occasione abbiamo visto la coalizione di centro-destra schierarsi
contro il PD e contro il M5S, schieratisi indipendentemente. Nessuna lista o coalizione ha ottenuto la
maggioranza dei seggi parlamentari, per cui l’individuazione della maggioranza di governo è avvenuta solo
dopo le elezioni, che, tra l’altro, ha visto la rottura dell’unica coalizione annunciata dal corpo elettorale (la Lega
si è staccata dalla coalizione, formando il Governo con i grillini).
La crisi di Governo consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del rapporto
di fiducia tra il Governo ed il Parlamento (o meglio, la maggioranza parlamentare). Tali crisi si distinguono in
parlamentari ed extraparlamentari. Le prime sono determinate dall’approvazione mediante una mozione di
sfiducia, oppure dal voto contrario su una legge laddove il Governo ha posto la questione di fiducia. In questo
caso il Governo è giuridicamente obbligato a presentare le dimissioni al Capo dello Stato. Le seconde, si
aprono a seguito delle dimissioni volontarie del Governo, causate da una crisi politica all’interno della
maggioranza di governo. A queste ultime sono assimilabili le crisi causate dalle dimissioni del solo Presidente
del Consiglio, che svolge un ruolo fondamentale, senza il quale il Governo cesserebbe di esistere (art. 95 Cost.)
La prassi delle crisi extraparlamentari pone il problema di come far conoscere ai cittadini i motivi della crisi,
affinché questi possano valutare la responsabilità politica dei partiti e del Governo. A partire dal settennato di
Sandro Pertini (1978), al fine di affrontare questo problema, il Capo dello Stato ha suggerito al Governo
dimissionario di parlamentarizzare le crisi nate fuori dal Parlamento al fine di esporre i motivi della crisi ed
aprire sugli stessi un dibattito parlamentare, con la sola finalità di rendere pubblici i motivi che hanno portato
alla crisi di Governo. L’assenza di prassi e convenzioni che assicurino un certo grado di durata delle coalizioni
influisce, naturalmente, sulla stabilità del Governo, cioè sul periodo di tempo che resta in carica. Seppur vero
è che stabilità governativa non si traduce in efficienza, senza una soglia minima di stabilità sicuramente viene
meno l’efficienza decisionale di governo.
IL GOVERNO
Il Governo è un organo costituzionale complesso, formato dal Presidente del Consiglio, dai ministri e
dall’organo collegiale, il cosiddetto Consiglio dei ministri. Il Governo esercita l’attività di indirizzo politico, delle
potestà proprie della funzione esecutiva, nonché di importanti poteri normativi. Il ruolo ed il funzionamento
del Governo dipendono però dai diversi equilibri della forma di governo e da altri fattori, quali:
- spinta verso un grado maggiore di decentramento politico, che ha privato il Governo di importanti
attribuzioni a favore di Regioni ed enti locali;
- riduzione della presenza pubblica nell’economia a favore di mercati concorrenziali e conseguente perdita da
parte del Governo dei poteri collegati al controllo delle imprese pubbliche;
- integrazione europea, che da una parte ne fa l’interlocutore con gli organismi UE, dall’altra lo priva di poteri
consistenti, soprattutto nel campo della politica economica, trasferendo tali poteri alle istituzioni europee.
La Costituzione pone poche regole e principi sul funzionamento del Governo, rinviandoli alla prassi, alle
convenzioni, alla legge ed agli atti di autoregolazione del Governo stesso.
Le regole che disciplinano il Governo posso essere così riassunte:
Per quanto riguarda la sua formazione, la disciplina rimanda agli art. 92.2, 93 e 94 Cost. che prevedono:
- il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri (art 92.2 Cost.);
- i ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio;
- i membri del Governo, prima di assumere le loro funzioni devono giurare nelle mani del Capo dello Stato (art.
93);
- entro dieci giorni dalla sua formazione, il Governo deve presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia (art.
94.3);
- la fiducia è accordata e revocata mediante mozione motivata e votata per appello nominale (art. 94.2 Cost.).
Essa può essere realizzata mediante la forma di governo di parlamentarismo maggioritario o parlamentarismo
compromissorio.
Per quanto riguarda la struttura, l’art. 92.1 Cost. si limita a citare quali sono gli organi governativi necessari,
cioè il Presidente del Consiglio ed i ministri che danno vita ad un terzo organo: il Consiglio dei ministri. La legge
individua inoltre altri organi governativi non necessari, come il Vice-Presidente del Consiglio, i ministri senza
portafoglio, i sottosegretari di Stato, i comitati interministeriali ed il Consiglio di gabinetto.
Per quanto riguarda il funzionamento, l’art.95 rinvia alla legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio
dei ministri per una puntuale disciplina dell’organizzazione e del funzionamento del Governo approvata
solamente nel 1988 ed in sua attuazione sono stati adottati il regolamento interno del Consiglio dei ministri e
numerosi ordini di servizio di organizzazione delle strutture della Presidenza del Consiglio che ha riportato il
numero dei ministeri a 18, quanti erano nel 1999.
Per quanto concerne i rapporti con la pubblica amministrazione, le regole costituzionali sono fissate agli art.
95, 97 e 98.
L’unita e l’omogeneità del Governo dipendono dal ruolo e dalla forza politica del Presidente del Consiglio e
dalla forza di incisione della coalizione; a causa dell’esperienza fascista infatti i Padri costituenti si sono
guardati bene dalla formazione di leggi che potessero andare ad essere espressione di governi “forti”.
Perciò, la Costituzione non prevede l’investitura popolare diretta, bensì l’art. 95 Cost. prevede che:
- il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo di cui è responsabile;
- il Presidente del Consiglio mantiene l’unità e l’indirizzo politico ed amministrativo del Governo,
promuovendo e coordinando l’attività dei ministri;
- i ministri rispondono collegialmente per gli atti del Consiglio dei ministri ed individualmente per gli atti dei
propri ministeri.
- il principio della responsabilità politica di ciascun ministro, che comporta la responsabilità, e quindi il potere,
di direzione del ministero di propria competenza;
- il principio della responsabilità politica collegiale, incentrata nel Consiglio dei ministri;
- il principio della direzione politica monocratica, basata cioè sui poteri del Presidente del Consiglio.
La formazione del Governo nelle democrazie pluraliste può avvenire secondo due modalità differenti:
- le democrazie mediate, in cui i partiti dopo le elezioni decidono struttura e programma di Governo;
- le democrazie immediate, in cui esiste la sostanziale investitura popolare diretta del Capo del Governo.
La forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione italiana esclude che il corpo elettorale possa
formalmente scegliere il Presidente del Consiglio, bensì il procedimento di formazione del Governo (art.
92,93,94 Cost.) afferma che è compatibile tanto con le modalità di formazione del Governo tipiche della
democrazia mediata, quanto con la sostanziale (ma non formale) elezione per investitura popolare diretta del
Primo ministro. La Costituzione italiana si limita a prevedere che il Capo dello Stato nomini il Presidente del
Consiglio e, su sua proposta, i ministri (art.92 Cost). Tale norma in realtà non consente effettivamente al Primo
ministro di proporre i ministri a propria scelta perché non gode del prestigio e della legittimità tale da rendersi
indipendente dalla volontà della coalizione di governo. Perciò la prassi ha adottato una figura non
espressamente inserita nella Costituzione, cioè l’incarico per la formazione del Governo, il cui conferimento
precede la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri. In presenza di coalizioni formate in sede
elettorale, con la previa indicazione del candidato alla carica del presidente del Consiglio, il Capo dello Stato si
limita a conferire l’incarico al leader della coalizione che ha vinto le elezioni. Nel caso in cui però manchi una
coalizione elettorale o i risultati elettorali non consentono alla coalizione che ha vinto le elezioni di godere di
una sicura maggioranza parlamentare, cresce la discrezionalità del Presidente della Repubblica nel conferire
l’incarico di Primo ministro. Vi sono stati casi in cui il Capo dello Stato ha nominato Presidente del Consiglio
personalità autorevoli, non appartenenti a nessun partito o addirittura non elette, formando dei governi
chiamati appunto Governi tecnici, che godono della necessaria maggioranza parlamentare e del costante
sostegno del Presidente della Repubblica.
Dopo l’apertura della crisi di Governo (o dopo le elezioni), il Presidente della Repubblica procede con le
consultazioni, una prassi con cui si apre l’iter di formazione del Governo. Qui, il Capo dello Stato convoca I
presidenti dei gruppi parlamentari, i segretari dei partiti politici, i Presidenti delle due Camere, gli ex Presidenti
della Repubblica (ora senatori a vita) ed ogni esponente politico che possa essergli utile per la conoscenza
delle posizioni dei partiti nei confronti della formazione del Governo. In taluni casi di incertezza politica, il
Presidente della Repubblica, può conferire un mandato esplorativo ad un soggetto super partes che svolge
un’attività istruttoria integrativa a quella del Capo dello Stato. L’incarico è conferito oralmente dal Capo dello
Stato e viene accettato con “riserva”. La riserva viene “sciolta” nel momento in cui l’incaricato presenta al
Presidente della Repubblica la lista dei ministri ed il programma di Governo. L’art. 94 Cost. precisa che per
esercitare le proprie funzioni, il Governo deve prima ricevere la fiducia della maggioranza parlamentare.
Le elezioni del 2018 hanno visto la crisi del vecchio sistema basato sul bipolarismo, a favore di un Parlamento
in cui nessuna forza aveva la maggioranza necessaria alla costituzione di un Governo che godesse della fiducia
parlamentare. Così il procedimento di formazione del Governo ha visto, dopo una lunga serie di trattative, la
formazione di una coalizione Lega-M5S.
Fino a quando la forma di Governo ha operato sulla base di coalizioni formate dopo le elezioni, l’attività
dell’incaricato è stata essenzialmente di mediazione tra i partiti, al fine di creare la coalizione di governo. Il
potere dell’. art. 92 Cost., di proporre al Capo dello stato la lista dei ministri, da parte dell’incaricato, si è
svuotato nel momento in cui sono i partiti i reali formatori del Governo mediante un accordo di coalizione.
Esaurita l’attività dell’incaricato e formata la lista dei ministri, il Presidente della Repubblica nomina con
proprio decreto il Presidente del Consiglio e, su proposta di quest’ultimo, i ministri. Dopo la nomina, entro un
brevissimo periodo (di regola, meno di 24 ore), il Presidente del Consiglio ed i ministri, ai sensi dell’art. 93
Cost. prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. Con il giuramento il Governo è
immesso nell’esercizio delle sue funzioni, terminando quindi l’iter della sua formazione. Il primo atto formale
del nuovo Presidente del Consiglio dei ministri è controfirmare i decreti di nomina di sé stesso e dei ministri.
Il Governo costituito deve ottenere poi la fiducia da parte del Parlamento (art. 94 Cost.). Il Governo è
finalmente nella pienezza dei suoi poteri solo dopo aver ottenuto il voto di fiducia da parte di entrambe le
Camere. Entro dieci giorni dal giuramento il Governo deve presentarsi alle Camere ed il Premier deve esporre
il programma di Governo, approvato dal Consiglio dei ministri. In entrambe le Camere, la maggioranza
parlamentare deve presentare una mozione di fiducia motivata e votata per appello nominale. La fiducia si
intende accordata se la mozione è approvata da entrambe le Camere a maggioranza relativa.
Al fine di garantire l’unità e l’omogeneità dell’indirizzo politico del Governo, la Costituzione fa leva sul principio
collegiale e sul principio monocratico. Il pericolo da evitare è il libero operato dei ministri per promuovere
interessi propri contrastanti con l’indirizzo dell’esecutivo. Il coordinamento di cui parla la Costituzione all’art.
95 è l’attività diretta dal Premier nel mantenimento dell’unità di azione del Governo.
Gli strumenti giuridici stabiliscono che:
- spetta al Presidente del Consiglio incaricato proporre la lista dei ministri da nominare al Capo dello Stato;
- il Premier ha il compito di indirizzare le direttive economiche ed amministrative ai vari ministri, in attuazione
della politica generale del Governo, che consente comunque una vasta libertà d’opera nelle modalità di
attuazione delle attività ministeriali;
- è compito del Consiglio dei ministri deliberare sulle questioni che riguardano la politica generale del Governo,
cioè l’indirizzo che intende seguire.
In Governi di coalizione, il potere di formare la lista dei ministri è condizionato dalle decisioni dei partiti. Tale
condizionamento si è fatto più intenso nella fase della formazione delle coalizioni post-elettorali. I ministri si
sono comportati dunque, più che come parti di un’istituzione politicamente unitaria, come “delegati” dei
rispettivi partiti all’interno del Governo. In questi contesti perdono di efficacia le direttive del Presidente del
Consiglio (tanto che si è parlato di neofedaulismo ministeriale) e la sua capacità unificante. Le condizioni
politiche sono mutate parzialmente a partire dalla XII legislatura, con l’esperienza che ha visto un unico
candidato di coalizione alla presidenza del Consiglio, dotato di maggiore legittimazione politica ed
autorevolezza. Nel caso in cui un ministro assuma comportamenti lesivi dell’unità d’indirizzo politico, il
Presidente del Consiglio non sembra disporre di efficaci strumenti con cui porre fine a tali comportamenti. Il
problema non è di tipo giuridico (perché se il Capo dello Stato acconsente alla richiesta del Premier, il ministro
può essere revocato), bensì il problema è di tipo politico, perché una revoca di un ministro potrebbe
compromettere l’equilibrio e la stabilità del Governo di coalizione.
Fino al 1988, era il “decreto Zanardelli” a mantenere l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo del Paese,
però anch’esso risultava ormai superato ed inadeguato rispetto ai problemi del sistema politico attuale.
Nel 1988, con la legge n. 400 è stata approvata la legge di garanzia dell’unità politica ed amministrativa del
Governo, che prevede:
- concentrazione delle decisioni relative alla politica generale del Governo nel Consiglio dei ministri;
- attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri dei poteri relativi al funzionamento del Consiglio dei
ministri. In particolare, il Presidente del Consiglio convoca il Consiglio dei ministri e ne forma l’ordine del
giorno;
- attribuzione al Presidente del Consiglio di poteri strumentali rispetto al coordinamento delle attività
ministeriali. Precisamente, il Premier può sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti,
sottoponendo le relative questioni al Consiglio dei ministri, adottare le direttive politiche ed amministrative in
attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, ovvero quelle relative alla direzione della politica
generale del Governo, adottare le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza della
pubblica amministrazione, concordare con i ministri interessati le pubbliche dichiarazioni, infine istituire
particolari Comitati di ministri con il compito di esaminare in via preliminare questioni di comune competenza
o esprimere pareri su questioni da sottoporre al Consiglio dei ministri.
Per lo svolgimento dei propri compiti, il Presidente del Consiglio dispone di una struttura amministrativa di
supporto, la Presidenza del Consiglio dei ministri.
La legge 400/1988 modificata dal d.lgs 303/1999, ha previsto che gli uffici di diretta collaborazione con il
Presidente del Consiglio siano organizzati nel Segretariato generale del Consiglio dei ministri, cui è preposto
un Segretario generale nominato con un d.P.C.M.
Gli organi governativi non necessari
La legge 400/1988 ha razionalizzato varie figure di organi governativi non necessari che erano state utilizzate
dalla prassi precedente. In particolare la legge ha previsto:
- il Vice-presidente del Consiglio dei ministri, eventualmente nominato tra i ministri ed al quale, su proposta
del Presidente del Consiglio, il Consiglio dei ministri attribuisce le funzioni di supplente del presidente, nel caso
che questi sia assente o impedito. In realtà, si ricorre alla figura del Vice-Presidente del Consiglio per dare
risalto nella coalizione al partito diverso da quello che esprime il Presidente del Consiglio. (es: nel Governo
Conte vi sono come Vice-Premier i due leader dei partiti di coalizione: Di Maio e Salvini).
- il Consiglio di Gabinetto, che in passato il Presidente del Consiglio ha talvolta istituito per riunire i ministri
che rappresentavano le diverse componenti politiche della coalizione;
- i Comitati interministeriali, che possono essere di due tipi, istituiti per legge come il CIPE (Comitato
interministeriale per la programmazione economica), cui la legislazione attribuisce competenze in materia di
politica economica, oppure istituiti con d.P.C.M. con compiti provvisori per affrontare questioni ben
determinate. In questa seconda accezione si parla di comitati di ministri;
- i Ministri senza portafoglio: sono i ministri non preposti ad un ministero, i quali svolgono le funzioni loro
delegate dal Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri (il relativo regolamento è
pubblicato nella G.U.). Essi sono preposti ad un dipartimento della Presidenza del Consiglio per espletare le
funzioni a loro delegate. (es: il ministro per la funzione publica).
- i Sottosegretari di Stato, coadiuvano i ministri o il Premier ed esercitano i poteri che quest’ultimo delega con
apposito decreto pubblicato sulla G.U. Essi sono collaboratori del ministro o del Presidente del Consiglio dei
ministri e quindi non fanno parte del Consiglio dei ministri e perciò non hanno diritto a partecipare alla
formazione della politica generale del Governo. Nel caso in cui essi siano chiamati a partecipare alla
formazione dell’indirizzo politico dell’esecutivo o ai Comitati di ministri, esercitano le proprie funzioni
attenendosi alle direttive del ministro o per sostituire o coadiuvare lo stesso. La particolare funzione
collaborativa rispetto al ministro giustifica il particolare procedimento seguito per la loro nomina: decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, sentito il ministro che sarà chiamato a
coadiuvare di concerto con il Consiglio. Il sottosegretario assume ufficialmente le sue funzioni solo dopo il
giuramento espresso davanti al Presidente del Consiglio. Tra i sottosegretari spicca d’importanza particolare il
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, che svolge le funzioni di segretario del Consiglio dei
ministri, curando la verbalizzazione e dirigendo l’Ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri. La peculiarità
del ruolo spiega perché alla sua nomina concorre il voto del Consiglio;
- i Viceministri, sono quei sottosegretari cui vengono conferite deleghe relative all’intera area di competenza
di direzioni generali o strutture dipartimentali. I viceministri possono essere invitati dal Premier, sentito il
ministro di riferimento, alle riunioni del Consiglio dei ministri, senza il diritto di voto, per conferire su materie
di loro competenza;
- i commissari straordinari del Governo, nominati con decreto del Presidente della repubblica, su proposta del
Premier, previa delibera del Consiglio dei ministri, la loro funzione è specifica su particolari esigenze di
coordinamento operativo tra le diverse amministrazioni statali.
Il Governo, nell’esercizio del suo potere d’indirizzo, si presenta come soggetto unitario di fronte agli altri
organi costituzionali. La rappresentanza dell’intero Governo è assunta dal Presidente del Consiglio, che
controfirma le leggi e gli atti con forza di legge, tiene i contatti con il Presidente della Repubblica, assume le
decisioni proprie del Governo nei procedimenti legislativi, pone la questione di fiducia, previo assenso del
Consiglio dei ministri e manifesta all’esterno le volontà del Governo. Le idee generali dell’indirizzo politico ed
amministrativo del Governo sono espresse nel programma di governo, predisposto dal Premier ed approvato
dai ministri. Esso sta alla base della fiducia iniziale, espresso con il voto e “mozione motivata”.
Al fine di attuare l’indirizzo politico, l’esecutivo ha a disposizione una serie di strumenti giuridici, quali:
- i poteri normativi di cui è direttamente titolare che consistono nell’adozione di leggi ed atti aventi forza di
legge (d.l. e d.lgs.) e regolamenti.
L’evoluzione degli equilibri della forma di Governo, a partire dalla XII legislatura, ha condotto ad una crescita
del ruolo del “Governo legislatore”, ossia della sua capacità di modificare l’ordinamento giuridico attraverso
l’uso dei poteri normativi di cui è titolare.
- la politica di bilancio e finanziaria, rientra tra le principali responsabilità del Governo, al quale la legge
attribuisce il compito di elaborare i diversi documenti che definiscono il quadro finanziario statale: documento
di programmazione economico-finanziaria, disegno di legge di bilancio ecc. Dopo che tali documenti sono stati
presentati per l’approvazione al Parlamento, il Governo si vede riconosciuto il ruolo di direzione del processo
decisionale. L’esame dei documenti della manovra di bilancio deve avvenire in tempi certi.
Successivamente all’approvazione della legge di bilancio, esso esercita importanti poteri di controllo della
spesa pubblica, controllando la legittimità di ogni atto di spesa delle amministrazioni statali e verificando il
complessivo andamento della spesa pubblica ai fini del rispetto dei vincoli imposti dall’appartenenza all’UEM.
L’insieme di questi poteri di proposta, direzione e controllo fa capo al ministero dell’economia e delle finanze,
che provvede alla gestione della politica economica, finanziaria e di bilancio, nonché alla programmazione
degli investimenti volti a ridurre le disuguaglianze economiche tra le diverse Regioni, provvedendo
all’applicazione delle regole comunitarie. La politica estera si sostanzia nella stipula dei trattati internazionali,
nella cura dei rapporti con gli altri Stati nell’ambito delle organizzazioni internazionali (es. ONU). Sui Trattati
internazionali che rientrano nell’art. 80 Cost. il Parlamento esercita il controllo mediante l’autorizzazione alla
ratifica. La politica europea, riguarda i rapporti con le istituzioni dell’UE. Il Governo, rappresentato dal
Presidente del Consiglio, partecipa alle decisioni comunitarie più importanti in sede di Consiglio dei ministri e
di COREPER (Comitato dei Rappresentanti Permanenti). La politica militare è uno dei settori dell’indirizzo
politico ed amministrativo prevalentemente rimesso al Governo ed in cui l’intervento del Parlamento è
limitato e generalmente tardivo. Il documento costituzionale ha disciplinato il regime di emergenza bellica
con gli art. 78 ed 87, secondo i quali:
- il Capo dello Stato dichiara lo stato di Guerra previa deliberazione delle Camere;
- il Capo dello Stato ha il comando delle forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa, seppur la
direzione politico e tecnico-militare delle forze armate rientra nell’indirizzo politico ed amministrativo del
Governo.
La prassi, per ragioni politiche connesse alla partecipazione dell’Italia ad alleanze militari come la NATO, si
allontana da questo disegno, infatti le operazioni belliche iniziano prima di qualsiasi intervento dei
rappresentanti delle istituzioni nazionali, chiamati poi a convalidare politicamente l’operato del Governo. I
regimi di emergenza bellica si instaurano mediante un decreto legge da parte del Governo, che prevede
l’intervento militare e la copertura dei costi per tali spese. Il concetto di Guerra ormai si allontana da quelli che
erano gli schemi classici fino alla seconda Guerra mondiale. Al giorno d’oggi possiamo notare l’inadeguatezza
della disciplina costituzionale e la sostanziale paralisi della previsione sulla dichiarazione dello stato di Guerra e
dello stesso art.11 Cost. Il conflitto iracheno ha visto venir meno il consenso bipartisan, rendendo
costituzionalmente e politicamente debole la posizione del Governo di fronte a regime di emergenza bellica.
La Politica informativa e di sicurezza, riguarda la difesa dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla
Costituzione. Essa ricade sotto la responsabilità del Primo ministro, a cui fa capo la direzione dei Servizi segreti
e l’eccezionale uso del segreto di stato, caratterizzato da quattro differenti gradi di sicurezza e vincolato a
particolari casi, quali la difesa delle istituzioni costituzionali, l’indipendenza e la difesa militare dello Stato.
Gli organi ausiliari sono quegli organi cui sono attribuite funzioni di ausilio nei confronti degli altri organi; tali
funzioni riguardano compiti di iniziativa, controllo e consultivi. Gli organi ausiliari previsti dalla Costituzione
sono: il CNEL, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. Essi sono disciplinati dal titolo III dedicato al Governo.
- il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), sancito dall’art 99 Cost. è composto da esperti e
rappresentanti delle categorie produttive in misura che tenga conto della loro importanza numerica e
qualitativa. I suoi componenti sono 64, oltre al Presidente. Di essi 10 sono esperti esponenti della “cultura
economica, sociale e giuridica”, 6 rappresentano le associazioni di promozione sociale e del volontariato,
mentre i restanti 48 sono rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nel settore pubblico e
privato. Sono nominati con d.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei ministri e durano in carica 5 anni.
La rapida evoluzione del mercato e dei rapporti sociali ha reso incidente il peso del ruolo decisionale politico di
tale istituzione costituzionale, creata con l’obiettivo di integrare il circuito di rappresentanza politica tra
istituzioni e popolo.
- il Consiglio di Stato (art. 100 Cost.), è l’organo di consulenza giuridico amministrativa del Governo ed organo
di appello della giustizia amministrativa. Essa si articola in 7 sezioni, 4 con competenze consultive e 3 con
competenze giurisdizionali. Esistono altresì l’Adunanza generale del Consiglio di Stato, composta da tutti i
membri del Consiglio e dotata di funzioni consultive e l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, formata dal
Presidente del Consiglio di Stato e da 12 magistrati, con funzioni giurisdizionali. Per quanto concerne la
funzione consultiva bisogna distinguere i pareri che il Consiglio rende in via obbligatoria, quali i regolamenti
del Governo e dei ministri, I testi unici (T.U.) ed i ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, da quelli
facoltativi.
- la Corte dei conti (art. 100.2 Cost.), che esercita il controllo preventivo di legittimità su alcuni atti delle
amministrazioni statali, il controllo sulla gestione della pubblica amministrazione, il controllo successivo sulla
gestione del bilancio dello Stato, che termina nel giudizio di parificazione del rendiconto consultivo dello Stato
che riferisce poi al Parlamento con apposite relazione; inoltre partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla
legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Inoltre svolge la
funzione giurisdizionale in materia di giudizi di responsabilità dei pubblici funzionari per il danno recato alle
amministrazioni pubbliche statali, regionali e locali, di giudizi di conto, resi su coloro che hanno una funzione di
maneggio di denaro, beni o valori di amministrazioni pubbliche e di giudizi in materia di pensioni (civili e
militari).
IL PARLAMENTO
La struttura del Parlamento
Il bicameralismo paritario
La struttura dei Parlamenti moderni può essere bicamerale o monocamerale. La Costituzione italiana prevede
l’articolazione del Parlamento in due Camere: la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica (art. 55.1).
La Costituzione (art. 55-82) ha optato per un bicameralismo perfetto (o paritario), con due Camere dotate di
medesime funzioni, aventi lievissime differenziazioni strutturali, ed ha previsto un aggancio del Senato al
territorio regionale (art. 57 Cost. “Il Senato è eletto a base Regionale). Di conseguenza ciascuna Camera può
deliberare la concessione o il ritiro della fiducia al Governo (art. 94 Cost.); mentre per la formazione di una
legge è necessario che ciascuno dei due rami del Parlamento adotti una deliberazione avente per oggetto il
medesimo testo legislativo (“la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” afferma
l’art. 70). Vi sono alcune differenziazioni relative alla composizione dei due rami del Parlamento”: Camera e
Senato hanno una consistenza numerica differente, la prima consta di 630 deputati, la seconda di 315 (con il
referendum del 2020 rispettivamente 400 e 200); per il Senato inoltre, il Presidente della Repubblica, può
nominare 5 senatori a vita (art. 59 Cost.). L’elettorato passivo della Camera risulta essere di 25 anni di età,
quello del Senato 40. La durata della legislatura in entrambe le Aule è pari a cinque anni. La conseguenza del
bicameralismo paritario italiano è il forte appesantimento del processo decisionale parlamentare, poiché al
fine dell’entrata in vigore di una legge è necessaria l’approvazione del medesimo testo da entrambe le
Camere.
La Costituzione ha previsto anche il Parlamento in seduta comune, che è un organo collegiale composto da
tutti i parlamentari (deputati e senatori) per lo svolgimento di particolari funzioni. Esso è considerato un
collegio imperfetto, poiché non è padrone del proprio ordine del giorno.
La Costituzione prevede che esso si riunisca per compiti elettorali o per la funzione accusatoria:
- l’elezione del Presidente della Repubblica (cui partecipano anche i delegati regionali);
- la votazione dell’elenco dei cittadini dal quale si sorteggiano i membri aggregati alla Corte costituzionale per
giudicare sulle accuse costituzionali;
- la messa in Stato d’accusa del Presidente della Repubblica per Alto tradimento ed attentato alla Costituzione.
Esso è presieduto dal Presidente della Camera dei deputati e per il suo funzionamento si applicano le
disposizioni del regolamento della Camera dei deputati.
Il Parlamento al suo interno è disciplinato tanto dal testo costituzionale quanto dai regolamenti parlamentari.
A questi ultimi la Costituzione demanda la disciplina sul funzionamento interno di ciascuna Camera e la
disciplina del procedimento legislativo. Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza
assoluta (e non relativa/semplice). La disciplina contenuta nei regolamenti parlamentari varia in funzione dei
diversi equilibri della forma di governo, che definiscono i vari tipi di rapporto tra maggioranza e minoranza, tra
Governo e Parlamento.
Ciascun ramo del Parlamento ha un’organizzazione interna complessa dove agiscono diversi organi: il
presidente d’assemblea, l’ufficio di presidenza, le commissioni, i gruppi parlamentari e la conferenza dei
capigruppo. I due Presidenti dell’assemblea rappresentano rispettivamente la Camera dei deputati ed il
Senato della Repubblica. I loro compiti riguardano la direzione delle discussioni parlamentari, mantenimento
dell’ordine, sovrintendono all’organizzazione interna della camera d’appartenenza e giudicano la ricevibilità
dei testi. Le differenze tra i due si riscontrano circa: il Presidente della Camera dei deputati presiede il
Parlamento in seduta comune; il Presidente del Sentato della Repubblica supplisce il Capo dello Stato nelle
ipotesi d’impedimento all’art. 86 Cost. Entrambi devono essere sentiti dal Presidente della Repubblica prima di
sciogliere le Camere (art. 86 Cost.). Successivamente all’elezione dei Presidenti, le Camere provvedono
all’elezione dei vicepresidenti, dei deputati (o senatori), dei questori e dei segretari, che costituiscono l’Ufficio
di presidenza, il cui compito, secondo i regolamenti parlamentari, è quello di coadiuvare il Presidente
nell’esercizio delle sue funzioni. I regolamenti parlamentari stabiliscono che, nell’Ufficio di Presidenza, siano
rappresentati tutti i gruppi parlamentari; a tal fine il Presidente promuove le opportune intese tra i vari gruppi
parlamentari. In questo modo si assicura la presenza di parlamentari riconducibili agli schieramenti di
maggioranza ed opposizione. Il regolamento del Senato con la riforma del 2017 prevede che i Vice Presidenti e
i Segretari che entrano a far parte di un gruppo parlamentare diverso da quello con cui sono stati eletti
decadono dall’incarico.
I gruppi parlamentari
Nell’organizzazione di ciascuna Aula un ruolo fondamentale è svolto dai gruppi parlamentari. Essi
rappresentano i membri facenti parte dello stesso movimento politico o partito. La Costituzione si limita a
citarli negli artt. 72 ed 82 per stabilire che le commissioni, d’inchiesta e permanenti, devono essere formate in
modo da rispecchiare la consistenza dei gruppi parlamentari. I gruppi parlamentari quindi rappresentano
l’espressione delle volontà dei partiti in Parlamento. Entro due giorni alla Camera e tre al Senato, dalla prima
riunione, i parlamentari devono iscriversi ad un gruppo parlamentare. Coloro i quali non effettuino alcuna
dichiarazione di voler far parte di un determinato gruppo (o i parlamentari espressione di un piccolo partito
che non riesce a costituire un gruppo proprio), confluiscono nel gruppo misto.
I Presidenti dei gruppi parlamentari danno vita alla Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari, che ha
poteri determinanti sull’organizzazione dei lavori parlamentari. La Conferenza dei presidenti approva il
programma dei lavori d’aula e la relativa calendarizzazione. Alla Camera i Presidenti dei gruppi parlamentari
possono azionare una serie di procedure (es. presentazione di emendamenti e mozioni) che altrimenti
richiederebbero la richiesta da parte di un certo numero di parlamentari; inoltre al gruppo è attribuito il
potere di designare i membri che faranno parte delle commissioni parlamentari.
I Presidenti dei gruppi parlamentari godono anche di un rilievo esterno: la prassi vuole che essi vengano sentiti
dal Presidente della Repubblica nel corso delle consultazioni per la risoluzione delle crisi di Governo. I partiti
politici sono infatti, sotto il profilo giuridico, delle semplici associazioni private non riconosciute e come tali
non possono essere formalmente consultate dal Capo dello Stato (istituzione) per la formazione di un’altra
istituzione, quale il Governo. I gruppi parlamentari rappresentano perciò l’unica proiezione dei partiti sul piano
delle istituzioni.
Le commissioni parlamentari sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei,
monocamerali o bicamerali. La costituzione sia delle Giunte che delle Commissioni deve avvenire in modo da
rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. Le commissioni parlamentari temporanee
(commissioni d’inchiesta art. 82 Cost.) assolvono compiti specifici e durano in carica il tempo prestabilito
limitatamente all’esercizio della loro particolare funzione. Le commissioni permanenti sono invece organi
stabili e necessari di ciascuna Camera, titolari di importanti poteri nel procedimento legislativo. Quest’ultime si
riuniscono per esercitare le funzioni di indirizzo, controllo e di informazione secondo quanto stabilito dal
regolamento di ciascuna aula; si riuniscono poi in sede consultiva per esprimere i pareri.
La funzione consultiva del Parlamento ha assunto nei tempi recenti sempre più importanza. L’intervento
parlamentare, oltre ad essere collocato a monte, con l’approvazione della legge delega o della legge di
delegificazione, si ritrova a valle tutte le volte in cui è previsto che le commissioni parlamentari esprimano il
loro parere nel procedimento di formazione del decreto legislativo. Ciascuna commissione permanente ha
competenza per una determinata materia, bensì vi sono alcune commissioni che non operano
specificatamente per una singola materia. Alla Camera dei deputati, per esempio, la commissione affari
costituzionali e la commissione del bilancio, Tesoro e programmazione. Queste, nel procedimento legislativo,
hanno una grande importanza poiché i regolamenti stabiliscono che devono obbligatoriamente fornire il
proprio parere (commissioni filtro). In sede deliberante il parere delle commissioni filtro vincola le decisioni
della commissione di merito. Le commissioni bicamerali sono formate in parte eguale da rappresentanti delle
due Camere. La loro formazione deve rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. Ai loro lavori si
applica il regolamento parlamentare della Camera, nel quale la Commissione ha sede. La Costituzione (art.
126) prevede una sola commissione bicamerale: quella per le questioni regionali, modificata dalla recente
riforma del Titolo V. Sono state istituite commissioni bicamerali con poteri di controllo, di indirizzo e di
vigilanza quali:
- il Comitato per i servizi di sicurezza, il quale ha il compito di verificare che l’attività dei servizi di informazione
e sicurezza si svolga nel rispetto delle finalità indicate dalla legge istitutiva, riferendo su ciò alle Camere; esso
ha funzione di controllo politico-istituzionale sull’apposizione del segreto di Stato;
- la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi che esercita
poteri di vigilanza e di indirizzo finalizzati ad un funzionamento democratico del servizio pubblico
d’informazione.
Le Giunte invece sono organi collegiali previsti dai regolamenti parlamentari per l’esercizio di funzioni diverse
da quelle legislative e di controllo, come per l’esercizio di compiti di garanzia della corretta osservanza del
regolamento e di elaborazione di proposte di modifica dello stesso (giunta per il regolamento) e per la verifica
dell’assenza di cause di ineleggibilità e di incompatibilità e per la garanzia delle prerogative parlamentari
(rispettivamente giunta delle elezioni e giunta delle autorizzazioni a procedere alla Camera e al Senato,
unificate in una sola giunta).
La durata in carica delle due Camere è pari a cinque anni. La stessa Costituzione prevede che le funzioni della
Camera dei deputati e del Senato possano essere esercitate anche aldilà della scadenza, nel caso della
prorogatio e della proroga con legge, che può essere disposta solo in caso di Guerra.
La prorogatio è un istituto che permette all’organo scaduto di continuare ad esercitare le sue funzioni in via
ordinaria fino al suo rinnovo, al fine di assicurare la continuità funzionale del Parlamento. I componenti
neoeletti acquistano lo status di parlamentare al momento della proclamazione. La Costituzione prevede che
riguardano l’ordinaria amministrazione tutti gli atti ad eccezione dell’elezione del Capo dello Stato.
Per quanto riguarda la validità della seduta, la Costituzione richiede la maggioranza dei componenti, ciò
significa che il numero legale (quorum strutturale) della seduta si raggiunge alla metà più uno dei deputati o
senatori. Il numero legale si presuppone esistente fino al momento in cui se ne accerti l’effettiva mancanza, su
richiesta del Presidente dell’Assemblea o da parte di alcuni rappresentanti. In quest’ultimo caso la seduta è
rinviata o tolta. Per la validità delle deliberazioni è richiesta, salvo che la Costituzione non prescriva
maggioranze diverse, la maggioranza dei presenti (quorum funzionale). I regolamenti di Camera e Senato
dettano disposizioni analoghe circa il computo delle astensioni. Astenuto è colui che al momento della
votazione non è né favorevole né contrario. I parlamentari astenuti sono computati ai fini del numero legale,
ma non nel calcolo della maggioranza. In ordine alle modalità di voto, con la novella regolamentare del 1988,
la regola generale è quella secondo cui si procede con voto palese ed il voto segreto è l’eccezione. Il voto può
essere espresso per alzata di mano, per appello nominale, mediante procedimento elettronico e per schede.
Per regola vige il principio di pubblicità dei lavori parlamentari, vale a dire che le sedute sono pubbliche, e ciò
si concretizza mediante la pubblicazione dei resoconti sommari, gli stenografici delle discussioni o la
consultazione tramite internet delle banche dati della Camera e del Senato.
Le prerogative parlamentari
Le prerogative parlamentari non sono privilegi dei singoli, bensì garanzie dell’indipendenza del Parlamento a
cui il singolo parlamentare non può sottrarsi. Esse servono a tutelare la libertà di opinione dei parlamentari, a
porli al riparo da azioni della magistratura penale che minano al condizionamento dell’operato politico dello
stesso. L’art. 68 Cost. prevede due distinti istituti:
- l’insindacabilità in qualsiasi sede (penale, civile e disciplinare) per le opinioni espresse ed i voti dati
nell’esercizio delle funzioni parlamentari;
- l’immunità penale, in virtù della quale il parlamentare non può essere sottoposto a misure restrittive della
libertà personale o domiciliare, né a limitazioni della libertà di corrispondenza e comunicazione senza la previa
autorizzazione della Camera d’appartenenza.
La Corte costituzionale ha precisato che l’autorità giudiziaria, quando si trova dinanzi ad una questione di
sindacabilità del parlamentare ai sensi dell’art. 68 Cost., il giudice può procedere, ma la sua attività è costretta
ad arrestarsi al momento in cui la Camera d’appartenenza obbliga il giudice di adeguarsi alla valutazione
compiuta dalla stessa. La prerogativa parlamentare copre il parlamentare esclusivamente alle opinioni
espresse ed i voti dati nell’esercizio delle sue funzioni. La legge 3/1993 stabilisce che non è richiesta
l’autorizzazione della Camera d’appartenenza se il parlamentare sia colto in flagranza di reato e sia
condannato con sentenza irrevocabile.
Ogni Camera è dotata di autonomia normativa, per quanto riguarda la disciplina delle proprie attività e della
propria organizzazione, di autonomia contabile, per la gestione del proprio bilancio, e di autodichia, ossia
della giurisdizione esclusiva per ciò che riguarda i ricorsi relativi ai rapporti di lavoro con i dipendenti.
Il principio dell’insindacabilità degli interna corporis è legato storicamente alla lotta che il Parlamento ha
dovuto condurre per affermarsi nei confronti del potere regio.
- la funzione legislativa
L’art. 70 Cost. afferma che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”; gli artt. che
vanno dal 71 al 74 descrivono le modalità attraverso cui tale funzione è destinata a realizzarsi nel nostro
ordinamento. Il Governo fa uso della questione di fiducia tutte quelle volte in cui le Camere discutono di
questioni di fondamentale importanza per il raggiungimento dell’indirizzo politico dell’esecutivo. La questione
di fiducia può essere posta su qualsiasi deliberazione della Camera, ad eccezione per il funzionamento interno
delle Camere. In questo senso si procede come per la mozione di sfiducia (pausa di riflessione e voto per
appello nominale): infatti, se la Camera esprime voto contrario, il Governo è costretto alle dimissioni. Perciò la
questione di fiducia si pone come espediente procedurale per rendere più veloce il procedimento
parlamentare.
La funzione parlamentare di controllo si concretizza in singoli istituti di diritto parlamentare il cui comune
denominatore è quello di essere diretti a far valere la responsabilità politica del Governo nei confronti del
Parlamento. Gli istituti di cui ci stiamo occupando sono le interrogazioni e le interpellanze:
- l’interrogazione è una domanda che un parlamentare rivolge, per iscritto, al Governo, avente per oggetto la
veridicità o meno di un determinato fatto;
- l’interpellanza prevede che un soggetto, l’interpellante, chiede per iscritto, quali siano le intenzioni politiche
del Governo relativamente ad un determinato fatto, dando quest’ultimo per scontato.
Lo svolgimento delle interrogazioni può avvenire in aula o in commissione e l’interrogante può chiedere di
ricevere la risposta in forma scritta o orale. A partire dal 1983 alla Camera e dal 1988 al Senato, sono state
introdotte nel nostro ordinamento le interrogazioni a risposta immediata. Si tratta di interrogazioni aventi ad
oggetto una sola domanda, la quale fa riferimento ad un argomento di particolare rilevanza politica.
Le interrogazioni si svolgono secondo un preciso contraddittorio tra Parlamentare e Governo (nella persona
del Premier, Vice-Presidente o ministro di competenza) ed in un apposito spazio, il question time, previsto
ogni mercoledì pomeriggio. Le interpellanze urgenti, svolte secondo i limiti previsti dai regolamenti
parlamentari, possono essere presentate dal presidente del gruppo parlamentare a nome del rispettivo
gruppo, oppure da un certo numero di deputati.
I regolamenti parlamentari prevedono alcuni atti che mirano ad indirizzare l’attività del Governo: la mozione,
la risoluzione e l’ordine del giorno:
- la mozione può essere presentata da un presidente di un gruppo parlamentare, da dieci deputati o otto
senatori. Il fine per il quale si presenta una mozione è quello di determinare una discussione e la deliberazione
della Camera su questioni che incidono sull’attività del Governo: il Governo può porre la questione di fiducia;
- la risoluzione ha come fine quello di manifestare un orientamento o definire un indirizzo e può essere
proposto anche in commissione;
- l’ordine del giorno è un altro indirizzo rivolto al Governo che ha carattere accessorio e serve a dettare
direttive su come deve essere applicata una legge. Il Governo può accettarlo o meno e ciò produce effetti
limitatamente ai rapporti politici tra Governo e Camera.
La Costituzione (art.82) attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire commissioni di inchiesta su materie
di pubblico interesse, con poteri e limiti dell’autorità giudiziaria.
L’oggetto dell’inchiesta deve riguardare una materia di pubblico interesse.
Nel caso di inchieste parlamentari svolte parallelamente ad indagini giudiziarie, è importante evidenziare che il
procedimento penale mira all’accertamento di responsabilità giudiziarie individuali, l’inchiesta parlamentare
può far valere la responsabilità politica e i dati acquisiti dalla commissione non possono essere utilizzati come
prova nel processo penale. Questo perché, seppur l’inchiesta goda dei poteri tipici dell’autorità giudiziaria,
essa è comunque titolare di ampia libertà nello svolgimento delle sue attività.
Come stabilito dalla Corte Costituzionale, qualora si siano ottenute risultanze contenenti testimonianze, le
commissioni d’inchiesta possono cedere l’acquisizione di quest’ultime alla procura. Se gli atti, invece,
presentano documenti ottenuti in via ufficiosa le commissioni possono far ricorso al segreto funzionale,
espressione dell’autonomia costituzionale delle Camere.
La commissione d’inchiesta è formata in modo tale da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari.
Questo può determinare qualche disfunzione organizzativa: commissioni con 40/50 dipendenti incontrano
difficoltà operative e mantengono con difficoltà il segreto che viene posto su atti e documenti.
Il potere d’inchiesta è stato uno strumento in mano alla maggioranza parlamentare dato che:
- per l’istituzione della commissione si procede con un voto a maggioranza;
- la relazione con cui essa termina i propri lavori è approvata a maggioranza.
Gli unici strumenti che limitano il potere della maggioranza sono:
- il divieto di porre la questione di fiducia;
- l’ammissibilità dello scrutinio segreto;
- la designazione del presidente della commissione fra gli esponenti dell’opposizione a garantire una
condizione super partes del collegio.
La “legge La Pergola” ha introdotto uno strumento annuale, cioè la legge comunitaria, sostituita dalla legge di
delegazione europea e dalla legge europea, con cui vengono disciplinate la fase ascendente e discendente di
formazione degli atti normativi dell’UE con l’obiettivo di consentire la partecipazione del Parlamento e delle
Regioni.
Fase ascendente
Parlamento
- il Governo deve informare le Camere sui progetti e sulle proposte dell’UE, nonché sulle posizioni che il
Governo intende assumere a riguardo;
- riserva di esame parlamentare: il Governo italiano, anche su richiesta delle Camere, può apporre in sede di
Consiglio dei ministri dell’UE, una “riserva di esame parlamentare” sul testo. In tal caso, il testo viene inviato
alle Camere affinché esse si esprimano. Passati 30 giorni dall’apposizione della riserva di esame, se esse non si
sono pronunciate il Governo può proseguire la sua attività.
Regioni
- qualora un progetto di atto normativo UE riguardi una materia attribuita alla competenza legislativa delle
Regioni o delle Province autonome e viene fatta richiesta, il Governo convoca la Conferenza permanente per i
rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome affinché si raggiunga un’intesa nel termine di sessanta giorni.
Scaduti i 60 giorni, il Governo può procedere senza l’intesa.
- è inoltre prevista una “riserva di esame da parte della Conferenza” che segue la stessa procedura della
riserva di esame parlamentare.
Fase discendente
Riguarda l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi comunitari e all’attuazione delle direttive
dell’UE. Il principale strumento sono le leggi comunitarie, approvate ogni anno su iniziativa del Governo.
I principali aspetti della finanza pubblica sono le entrate e le spese, entrambi oggetto di una specifica disciplina
costituzionale (art. 53 “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Quindi tutti devono pagare le imposte
il cui ammontare è determinato in funzione del reddito di ciascuno. L’imposizione fiscale è ispirata al principio
di progressività: la percentuale del reddito prelevata dal fisco cresce col crescere del livello del reddito.
Art. 23 “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”
L’art. 81 del testo costituzionale stabilisce che:
- le Camere approvano ogni anno il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo;
- l’esercizio provvisorio di bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori a 4
mesi;
- con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese;
- ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
Tale disciplina fu considerata come espressione della tendenza al pareggio di bilancio.
Con la crescita della spesa pubblica, del disavanzo pubblico e del debito pubblico negli anni Settanta, si è
tentato di mettere maggior ordine nei conti pubblici:
- la Legge finanziaria (sostituita dalla legge di stabilità del 2009), preceduta da un documento di
programmazione economico-finanziaria, doveva fissare, in armonia con esso, l’entità del disavanzo voluto e il
tetto del ricorso all’indebitamento. Tale legge doveva essere votata immediatamente prima della legge di
bilancio, che avrebbe prodotto in un documento contabile tutti gli effetti delle disposizioni adottate con la
legge finanziaria. Una reale inversione delle tendenze della finanzia pubblica è stata imposta con la creazione
dell’Unione economica e monetaria, grazie ai suoi rigidi vincoli sulle finanze degli Stati aderenti al sistema della
moneta unica europea:
- Patto di stabilità e crescita;
- disavanzo pubblico non superiore al 3% del PIL;
- debito pubblico non superiore al 60% del PIL;
- introduzione del Semestre europeo.
Lo strumento per l’attuazione degli obblighi europei fu il Patto di stabilità interno, per il quale Stato, Regioni e
Province concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, impegnandosi a ridurre
progressivamente il disavanzo e a ridurre il rapporto tra il proprio debito e il PIL.
La crisi delle finanze pubbliche, esplosa in Europa nel 2011, ed il “rischio di contagio” da un Paese all’altro
hanno colpito anche l’Italia (debito elevato aumento dei tassi di interesse aumento dei costi per lo Stato
aumento del debito).
Uno strumento per fronteggiare questa crisi fu la riforma dell’art. 81 (legge 1/2012), secondo cui “Lo Stato
assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e favorevoli
del ciclo economico”
- con tale riforma si è introdotto il concetto di “equilibrio di bilancio”, applicato a tutto il complesso delle
pubbliche amministrazioni (riforma art.97);
- il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e previa
autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei componenti al verificarsi di eventi
eccezionali;
- il contenuto della legge di bilancio ed i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra entrate e spese sono stabiliti
attraverso una legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti, nel rispetto dei principi definiti con la
legge costituzionale.
Il ciclo di bilancio
Il ciclo di bilancio è un percorso complesso attraverso il quale viene elaborato e approvato il bilancio dello
Stato. Tempi e strumenti della decisione di bilancio sono fortemente influenzati dalle regole di governance
economica stabilite dell’Unione Europea, in particolare dal Semestre europeo, strumento introdotto nel 2011
tramite il quale l’Unione coordina le politiche economiche e di bilancio degli Stati membri.
Le fasi principali del ciclo di bilancio sono due:
- Fase programmatica
- Fase attuativa
Fase programmatica
10 aprile
Presentazione da parte del Governo, del DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA (DEF) al
Parlamento. Il DEF contiene:
- Programma di stabilità:
contiene tutti gli elementi e le informazioni richiesti dai regolamenti dell’Unione europea
sulla situazione economica e finanziaria del paese e gli obiettivi del Governo con
riferimento al triennio successivo in merito agli andamenti dei flussi di entrata e di spesa
a legislazione vigente.
- Programma nazionale di riforma:
contiene le indicazioni dello stato di avanzamento delle riforme richieste per rispettare i
parametri finanziari europei e quanto previsto nell’ambito del semestre europeo.
Tale documento è approvato dal parlamento con una risoluzione con la quale si impegna
l’esecutivo a presentare una legge di bilancio che realizzi gli obiettivi dichiarati.
30 aprile
Il Governo invia il Programma di Stabilità e il Programma nazionale di riforma, entrambi
contenuti nel DEF, al Consiglio dell’Unione Europea e alla Commissione europea, che all’inizio
dell’estate esprimono le loro raccomandazioni.
27 settembre Il Governo trasmette al parlamento una NOTA DI AGGIORNAMENTO DEL DEF che contiene gli
eventuali mutamenti economici.
La fase successiva è la cosiddetta “sessione di bilancio”, tramite la quale vengono adottate le norme per
realizzare concretamente gli obiettivi fissati nella fase precedente.
La disciplina della nuova legge di bilancio dettata dalla legge 163/2016 prevede due sezioni:
Entro il 31 dicembre il Parlamento si impegna ad approvare la legge di bilancio per evitare l’esercizio
provvisorio da parte dell’Esecutivo.
Entro il 30 gennaio il Governo presenta gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica.
Entro il 30 giugno, il Governo deve presentare:
- Legge di assestamento:
presentata dal Governo a metà esercizio finanziario per variare gli stanziamenti di entrata e di uscita;
- Rendiconto generale dello Stato:
contiene i risultati della gestione dell’anno finanziario precedente. Esso consente di verificare le modalità e la
misura in cui ciascuna amministrazione ha dato attuazione alle previsioni del bilancio e comprende:
- il conto del bilancio: illustra i risultati della gestione finanziaria rispetto alle previsioni;
- il conto del patrimonio: descrive le variazioni intervenute nel patrimonio dello Stato e la situazione
patrimoniale finale.
L’art. 81.4 Cost. stabilisce che: “Ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve individuare i mezzi
finanziari per farvi fronte”. Tale obbligo costituzionale prende il nome di copertura finanziaria, che vale sia per
le leggi statali che regionali. La copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, ovvero
minori entrate, è determinata attraverso le seguenti modalità:
- mediante modificazioni legislative che comportano nuove o maggiori entrate;
- mediante riduzioni di precedenti autorizzazioni legislative di spesa;
- mediante gli accantonamenti previsti nei fondi speciali.
A garanzia di una corretta quantificazione degli oneri finanziari, è fatto obbligo di corredare tutti i disegni di
legge di iniziativa governativa di:
- relazione tecnica verificata dal ministero dell’economia sulla quantificazione degli oneri da esso implicati e
delle relative coperture;
- monitoraggio affidato alla Corte dei conti che deve trasmettere al Parlamento ogni 4 mesi una relazione sulla
tipologia delle coperture adottate dalle leggi e sulle tecniche impiegate per quantificare gli oneri.
La razionalizzazione del parlamentarismo operata dalla Costituzione italiana ha previsto un Presidente della
Repubblica, distinto e autonomo dal Governo, che rappresenta l’unità nazionale.
Essa stabilisce:
- alcune caratteristiche elettive dell’organo;
- gli attribuisce alcuni poteri;
- pone limiti all’esercizio dei poteri stessi;
- sancisce e garantisce l’irresponsabilità politica del Presidente.
Il concreto ruolo del Presidente della Repubblica varia a seconda dei mutevoli equilibri della forma di governo
e del sistema politico.
- se la coalizione si forma dopo le elezioni e i rapporti tra i partiti sono instabili, allora il ruolo del Presidente
della Repubblica si espande ed in capo a lui si spostano decisioni politiche assai importanti.
- se i rapporti tra i partiti sono stabili, allora il Capo dello Stato si limita ad esercitare i suoi poteri per garantire
il rispetto di alcuni valori costituzionali.
Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune più 3 delegati regionali eletti dai
Consigli (Val d’Aosta 1).
I requisiti per l’eleggibilità del Presidente sono:
- la cittadinanza italiana;
- il compimento del 50esimo anno di età;
- il godimento dei diritti civili e politici.
(la Costituzione dispone l’incompatibilità della carica del Presidente della Repubblica con qualsiasi altra carica).
All’elezione si procede per iniziativa del Presidente della Camera che, 30 giorni prima della scadenza del
mandato presidenziale, convoca il Parlamento in seduta comune.
Stessa cosa avviene entro 15 giorni nell’ipotesi di impedimento permanente, morte o dimissioni del
Presidente. Nel caso in cui le Camere siano sciolte, o manchino meno di tre mesi alla loro cessazione,
l’elezione del Presidente della Repubblica avviene ad opera delle nuove Camere entro 15 giorni dalla loro
riunione. In questo caso i poteri del Presidente sono prorogati fino all’elezione di quello successivo.
L’elezione del Presidente della Repubblica avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 2/3
dell’assemblea; dopo il terzo scrutinio è richiesta solo la maggioranza assoluta.
Il quorum elevato dovrebbe servire ad evitare che il Presidente sia espressione della maggioranza politica.
Una volta eletto il Presidente presta giuramento di fedeltà di fronte al Parlamento in seduta comune,
integrando, con un breve discorso, i principi cui intende ispirare le proprie funzioni.
Il mandato presidenziale dura 7 anni. Alle dipendenze esclusive del Presidente è posta una struttura
amministrativa, chiamata Segretariato generale della Presidenza della Repubblica.
La cessazione della carica avviene per: conclusione del mandato, morte, dimissioni, impedimento permanente,
decadenza e destituzione. Nei casi di dimissioni, scadenza del mandato o impedimento permanente il
Presidente della repubblica diviene senatore a vita.
La controfirma ministeriale
La controfirma è la firma apposta da un membro del Governo sull’atto adottato e sottoscritto dal Presidente
della Repubblica, essa è requisito di validità dell’atto e la sua apposizione rende irresponsabile il Presidente.
La controfirma, secondo la Costituzione, riguarda tutti gli atti presidenziali:
- Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi: la controfirma è apposta dal ministro
proponente l’atto che attesta la sostanziale determinazione governativa del contenuto dell’atto;
- Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali: non vi è una proposta ministeriale, dunque nella vita
costituzionale si è affidata la controfirma degli atti al ministro competente per materia;
- Atti complessi e uguali: sono di regola controfirmati dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri in
rappresentanza del Governo complessivamente inteso.
Per la soluzione della crisi di Governo, il Capo dello Stato dispone di due poteri: il potere di nomina del
Presidente del Consiglio e il potere di sciogliere anticipatamente il Parlamento.
Nel parlamentarismo maggioritario, l’atto presidenziale di nomina del Presidente del Consiglio e l’atto di
scioglimento del Parlamento costituiscono una ratifica di decisioni sostanziali prese da altri: il corpo elettorale
sceglie la maggioranza, mentre il Governo propone lo scioglimento.
Nei sistemi parlamentari in cui maggioranze e Governi si formano dopo le elezioni, l’esercizio dei poteri
presidenziali di nomina del Presidente del Consiglio e di scioglimento anticipato può influenzare la soluzione
delle crisi.
Tale “influenza” può caratterizzare il Presidente come autentica “struttura governante” o come
“intermediatore politico”.
La funzione di intermediazione politica si basa su due pilastri:
- Diritto costituzionale: con l’istituto della fiducia si esclude la possibilità per il Capo dello Stato di nominare
Governi contro la volontà del Parlamento;
- Sistema politico: il sistema politico pluripartitico, tipico dell’esperienza italiana, si basa su laboriose trattative
tra i partiti. In tale contesto, il Presidente della repubblica utilizza strumenti di intermediazione come le
consultazioni, il conferimento dell’incarico e i mandati esplorativi.
Se la previsione del “semestre bianco” lo configurerebbe come un potere presidenziale, la previsione della
controfirma presuppone l’esistenza di una proposta del Governo. Proprio per la presenza di questi due
elementi si ritiene lecito considerarlo un “atto complesso” alla cui formazione partecipano egualmente Capo
dello Stato e Governo. In concreto, per determinare “chi decide lo scioglimento anticipato del Parlamento
occorre soffermare l’attenzione sugli equilibri complessivi della forma di governo.
Esperienza italiana
In presenza di coalizioni post-elettorali, con frequenti crisi di governo e formazioni di nuovi Governi, il Capo
dello Stato svolgeva funzioni di intermediazione politica, cercando di fare coagulare una coalizione capace di
esprimere il Governo. Se ogni tentativo falliva, l’unica via che restava era lo scioglimento anticipato del
Parlamento. Tutto ciò spiega perché lo scioglimento anticipato è stato configurato come scioglimento
funzionale di extrema ratio: solo se il Parlamento non è in grado di esprimere nessuna maggioranza e nessun
Governo si procede allora allo scioglimento. Del resto, non si escludono “scioglimenti tecnici” finalizzati a far
svolgere contemporaneamente le elezioni delle due Camere (1993 referendum elettorale).
In linea di massima, in una situazione di gravissima legittimità dei partiti, la decisione di sciogliere il
Parlamento fa capo al Capo dello Stato, in accordo con il Governo di cui ha bisogno la controfirma.
Ma se gli assetti cambiano e si afferma un sistema politico bipolare, se la coalizione scelta dal corpo elettorale
entra in crisi, non si può escludere che sia il Governo a proporre il decreto di scioglimento ed il Capo dello
Stato lo firmi.
Atti compiuti nella qualità di Presidente del Consiglio supremo di difesa e del Consiglio superiore della
magistratura
- al Capo dello Stato è attribuita la presidenza del Consiglio supremo di difesa. La competenza di tale consiglio
si estende ai problemi generali, politici e tecnici in tema di difesa. La titolarità sostanziale dei poteri militari e
di difesa è del Governo, rappresentato dal Presidente del Consiglio che svolge la funzione di vicepresidente, e
che risponderà delle proprie azioni davanti al Parlamento. Al Capo dello Stato spettano poteri di convocazione,
di formazione dell’ordine del giorno, di nomina e revoca del segretario del Consiglio.
Per quanto concerne il CSM, l’attività presidenziale si fonde con quella del collegio, con la conseguenza che si
hanno atti del Presidente del CSM che non necessitano della controfirma.
Tuttavia, per atti che riguardano lo status giuridico dei magistrati, si utilizza la forma di d.P.R, controfirmati dal
ministro della giustizia e deliberati dal CSM.
Tutte le volte in cui il Presidente della Repubblica non può adempiere le sue funzioni, queste sono esercitate
dal Presidente del Senato.
La supplenza è un istituto che consente la continuità delle funzioni presidenziali anche nell’ipotesi in cui il
Capo dello Stato non possa adempiervi per:
- impedimento temporaneo;
- impedimento permanente (per cui il Presidente non deve prestare giuramento in quanto legittimato dal Capo
dello Stato).
L’organizzazione costituzionale italiana del 1948 ha previsto uno Stato regionale ed autonomista, basato su
Regioni, dotate di:
- Autonomia politica (art. 114 Cost.), cioè sulla capacità di darsi un proprio indirizzo politico, anche diverso da
quello dello Stato;
- Autonomia legislativa ed amministrativa (artt. 117-118 Cost.) nelle materie espressamente indicate dalla
Carta costituzionale;
- Autonomia finanziaria (art. 119 Cost.), cioè l’attribuzione di risorse finanziarie necessarie per esercitare le
loro competenze, mediante tributi regionali e la partecipazione ai proventi dei tributi statali, nonché la libertà
di stabilire la quantità e la natura delle spese che affluiscono nei loro bilanci.
Le regioni direttamente disciplinate dalla Costituzione sono denominate Regioni ordinarie, le altre sono
chiamate Regioni speciali. Particolare autonomia sono state riconosciute alle Provincie autonome di Trento e
Bolzano. La Costituzione riconosce inoltre l’autonomia di enti territoriali riguardanti aree più piccole di quelle
regionali: i Comuni e le Provincie, i cosiddetti enti locali.
Nonostante la previsione Costituzionale, le regioni ordinarie sono state istituite concretamente solo nel 1970.
L’esercizio delle funzioni proprie, che la Costituzione affidava alle Regioni, prevedevano che per essere
esercitate, lo Stato, mediante il decreto di trasferimento, trasferisse loro le funzioni amministrative e ciò
avvenne parzialmente nel 1972 e nel 1977.
La “legge Bassanini” (legge n.59/1997), introduceva il principio secondo cui alle Regioni e agli
enti locali dovevano essere attribuite tutte le funzioni ed i compiti amministrativi relativi alla cura ed
alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità (ad eccezione delle materie di esclusiva
competenza dello Stato espressamente previste dalla legge, come ad esempio difesa, forze armate,
beni culturali rapporti con le confessioni religiose ecc.);
Legge Cost. 1/1999 ha introdotto l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale;
Legge Cost. 3/2001 di riforma organica del titolo V della parte II della Costituzione, ha
designato una Repubblica delle autonomie, articolata su più livelli territoriali di Governo (Comuni,
Città metropolitane, Province e Regioni), dotati di autonomia politica.
La Costituzione ha previsto che la Repubblica è articolata in Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e
Stato, tutti costituzionalmente dotati di autonomia. Il nuovo testo dell’art. 114 Cost. garantisce a ciascuno di
essi una sfera di autonomia politica nell’ambito di quell’unità complessiva che è la Repubblica. La “Repubblica
delle autonomie” ha portato ad un’equiordinazione degli enti territoriali, dove la legge statale ha perso la
potestà legislativa generale e la posizione sovraordinata di cui godeva. Lo Stato, come le Regioni, con il nuovo
assetto può legiferare solo nelle materie espressamente di sua competenza nel rispetto dei limiti della
Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali.
Anche sul piano della potestà regolamentare, la competenza dello Stato è limitata alle materie di competenza
esclusiva, mentre in ogni altra materia la potestà regolamentare è riservata alle Regioni.
Con la legge Bassanini e con la riforma costituzionale sono state attribuite ai Comuni le generalità delle
funzioni amministrative mediante i principi di:
- sussidiarietà, il governo superiore interviene solo quando l’amministrazione più vicina ai cittadini non è
sufficientemente in grado di assolvere autonomamente il suo compito;
- differenziazione, enti dello stesso livello possono avere competenze diverse;
- adeguatezza, le funzioni devono essere affidate ad enti che abbiano requisiti sufficienti di efficienza.
A seguito della riforma costituzionale tutte le funzioni della pubblica amministrazione devono essere affidate
all’amministrazione locale, salvo particolari eccezioni espressamente previste dalla legge.
Il nuovo testo costituzionale ha mantenuto le cinque Regioni speciali (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli
Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna) ed ha previsto che le Regioni ordinarie potranno ottenere ulteriori forme di
autonomia rispetto a quelle già costituzionalmente garantite, come l’organizzazione del giudice di pace, norme
generali sull’istruzione e sulla tutela ambientale.
Negli Stati a forte decentramento politico si pone sempre il problema dei raccordi tra i diversi livelli territoriali
di governo. In una società industriale, tecnologicamente sviluppata e ad intenso mutamento come quella
attuale, è necessario il coordinamento di tutti i centri di potere pubblico, e non la parcellizzazione dell’indirizzo
politico. A tale scopo alcune competenze statali sono di tipo “trasversale”, tagliano cioè più materie. Siccome
la riforma costituzionale del 2001 non ha previsto quel meccanismo di raccordo tipico degli Stati federali che è
la Camera delle regioni, attualmente lo Stato italiano prevede due principali strumenti di raccordo: la
commissione bicamerale integrata ed il sistema delle conferenze.
La Commissione parlamentare per le questioni regionali è un organo bicamerale previsto dalla Cost. del 1948
per svolgere compiti consultivi, limitati essenzialmente all’ipotesi di scioglimento anticipato dei Consigli
regionali. La riforma costituzionale del 1999 prevede che attraverso decreto motivato del Presidente della
Repubblica, sentita la Commissione bicamerale, siano disposti lo scioglimento anticipato del Consiglio
regionale e la contestuale rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla
Costituzione o gravi violazioni di legge.
L’art 11 della legge costituzionale 3/2001 ha valorizzato il ruolo della Commissione bicamerale integrata
poiché esso prevede infatti che:
- i regolamenti parlamentari possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle
province autonome e degli enti locali alla Commissione bicamerale;
- quando in un progetto di legge riguardante le materie in regime di competenza legislativa concorrente, la
Commissione bicamerale integrata abbia espresso un parere condizionato all’introduzione di specifiche
modificazioni formulate e la Commissione che ha svolto l’esame in sede referente non vi si sia adeguata, tale
parte del progetto per essere approvata deve essere votata a maggioranza assoluta dai componenti
dell’Assemblea. Tuttavia ancora nessun atto attuativo è stato deliberato e l’ipotesi della Commissione
bicamerale integrata sembra ormai abbandonata.
Il “sistema delle Conferenze” è stato creato già prima della riforma costituzionale del 2001 ed ancora oggi
costituisce il principale strumento con cui si svolge la leale collaborazione tra Stato, Regioni ed autonomie
locali. Il nucleo fondamentale è la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano (la cosiddetta “Conferenza delle Regioni”), a cui è stata affiancata la
Conferenza Stato, Città ed autonomie locali.
Queste due Conferenze sono presiedute dal Presidente del Consiglio o da un ministro da lui delegato,
costituite da alcuni ministri, presidenti di Regione (Conferenza Stato-Regioni) e dai rappresentanti degli enti
locali (Conferenza delle autonomie locali).
Il più delle volte il loro operato consiste in pareri, non giuridicamente vincolanti, cui il Governo si appoggia per
legittimare le scelte politiche dell’esecutivo e come strumento d’intesa tra Stato ed enti autonomi, chiamati
alle codecisioni governative.
La giurisprudenza della Corte costituzionale da tempo ritiene che il principio di leale collaborazione deve
governare nelle materie di rispettivo interesse e di competenze concorrenziali, imponendo un
contemperamento dei rispettivi interessi.
Il bisogno di collaborazione tra diversi livelli di governo si fa sentire ancora più insistente a seguito della
riforma costituzionale del 2001, poiché il tendenziale livellamento dei poteri ha tolto allo Stato la posizione di
supremazia.
La Corte ha sempre ribadito che il principio di leale collaborazione riguarda essenzialmente gli organi esecutivi
e le attività amministrative: gli accordi tra gli organi esecutivi non possono invece vincolare il Parlamento, che
è “sovrano” e non è tenuto a rispettare gli accordi raggiunti attraverso procedure di negoziazione.
Un’altra esigenza di raccordo riguarda l’esercizio del potere estero delle Regioni ed i rapporti delle stesse con
l’Unione europea. Lo Stato conserva la potestà legislativa esclusiva in ordine a “politica estera e rapporti
internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto d’asilo e condizione giuridica dei
cittadini di Stati non appartenenti all’UE”. Tuttavia nelle materie di sua competenza la Regione può concludere
accordi con Stati ed intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e nelle forme previste dalla legge.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle
decisioni dirette alla formazione di accordi internazionali e degli atti UE.
Infine, va evidenziato che il Governo, può esercitare il potere sostitutivo nei confronti degli organi delle
Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di inadempimento delle leggi
comunitarie, sicurezza nazionale ecc. Il Governo può surrogarsi, emanando direttamente o attraverso un
commissario ad acta l’atto necessario. L’esercizio di questo potere straordinario (analogo potere disposto
dalle Regioni sugli enti locali) deve essere garantito da una preventiva diffida dell’ente sostituito.
Un problema politico-istituzionale è quello dei rapporti tra Stato e Regioni da una parte, e gli enti locali
(Comuni, Province e Città metropolitane), dall’altra.
La Costituzione del 1948 ha previsto all’art. 5 che “la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali”.
Tuttavia l’attuazione dei principi su cui doveva ispirarsi l’autonomia delle Regioni tardò ad arrivare e si dovette
fare i conti con un nuovo “centralismo”: quello delle Regioni, che evitavano di attribuire ai comuni le funzioni
amministrative di propria competenza.
L’avvio del cambiamento si ebbe con:
- Legge 142/1990 che efficientò l’ordinamento degli enti locali;
- Legge Delrio (56/2014) che ha profondamente rivisto l’ordinamento dell’ente intermedio che si colloca tra il
Comune e la Regione: la Provincia. Essa rimane un ente di “secondo grado” i cui organi non sono eletti
direttamente dal corpo elettorale, bensì dagli organi dei Comuni di cui è composto.
Il sistema degli enti locali attualmente si basa su:
a) il Comune, ente locale rappresentativo della propria comunità, dotato di autonomia statuaria,
normativa, organizzativa ed amministrativa; i suoi organi (Sindaco e Consiglio) sono eletti direttamente
dai cittadini;
b) la Provincia, ente intermedio tra Comune e Regione, i cui organi (Presidente e Consiglio) sono eletti
dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni ricompresi. L’Assemblea è un terzo organo che riunisce tutti i
sindaci. La Provincia ha competenza su urbanistica, ambiente, trasporti, rete scolastica, ma anche
strade ed edilizia scolastica;
c) la Città metropolitana, istituita nel 2014 con la legge Delrio soltanto in alcune città maggiori quali
Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria e Roma Capitale. Essa
si sostituisce alla provincia ed il sindaco del capoluogo, di norma, funge da sindaco metropolitano. Gli
altri organi sono il Consiglio, eletto dai sindaci e dai consiglieri dell’area metropolitana e la conferenza
metropolitana che riunisce tutti i sindaci dell’area. La Città metropolitana si occupa principalmente di
servizi e della mobilità;
d) le Unioni di Comuni, sono enti locali costituiti da due o più Comuni per l’esercizio associato di funzioni
o servizi di competenza. Con la legge 3/2001 la condizione degli enti locali è cambiata profondamente.
Con essa vi è la garanzia costituzionale dell’autonomia di ciascuno di tali enti del potere di darsi
autonomamente uno statuto.
L’innovazione più importante della riforma del 2001 riguarda la previsione costituzionale secondo cui
l’amministrazione pubblica deve essere un’amministrazione locale. Infatti l’art. 118 Cost. afferma che le
funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni. Lo stesso articolo stabilisce che i Comuni, le Province e le
Città metropolitane sono titolari di funzioni proprie. Lo Stato conserva la “potestà legislativa esclusiva” per
quanto riguarda la legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli enti locali.
Per quanto riguarda i rapporti tra le Regioni e gli enti locali, la Costituzione prevede che, in ogni Regione, lo
statuto deve disciplinare il Consiglio delle autonomie locali, in cui siedono i rappresentanti degli enti locali;
esso ha funzioni consultive.
Finanza regionale e locale
L’art 119 della Costituzione garantisce l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali.
Tale riconoscimento significa che gli enti locali devono avere:
- entrate proprie ed il potere di determinare la loro composizione e quantità;
- uscite proprie ed il potere di stabilire liberamente delle risorse di cui dispongono.
Le Regioni e gli enti locali dispongono perciò di una finanza alimentata sia con tributi ed entrate proprie, sia
mediante partecipazione al gettito di tributi statali riferibili al loro territorio. L’autonomia finanziaria comporta
altresì la completa autonomia delle Regioni e degli enti locali nella scelta dell’impiego delle risorse di cui
dispongono. Lo Stato potrà introdurre solamente i “principi fondamentali” rimettendo il resto alla disciplina
Regionale. Al fine di evitare differenze di disponibilità finanziarie eccessive, che metterebbero a repentaglio
l’unità del Paese, è previsto un fondo perequativo, a favore dei territori con meno capacità fiscale per
abitante. Il “fondo perequativo” ha la funzione di assegnare agli enti territoriali economicamente più deboli
delle risorse aggiuntive, consentendo così di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
In aggiunta al “fondo perequativo” è previsto dall’art 119.5 Cost. che lo Stato possa destinare risorse
aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati enti, al fine di promuovere lo sviluppo
economico, la coesione e la solidarietà sociale. Gli enti locali dispongono, inoltre, di un proprio patrimonio,
attribuito secondo i principi generali fissati con le leggi dello Stato, e possono ricorrere all’indebitamento, ma
esclusivamente per finanziare spese d’investimento, quali costruzione di opere pubbliche.
Il processo di attuazione dell’art 119 Cost. vuole che ci sia una tendenziale correlazione tra la responsabilità
finanziaria e la responsabilità amministrativa. In questo modo i cittadini dovrebbero essere messi nelle
condizioni di poter valutare il modo in cui vengono gestite, dalle forze politiche, le risorse finanziarie derivanti
dal gettito tributario, ed in qualche modo dovrebbe favorire la responsabilità politica degli eletti nei confronti
degli elettori.
La legge cost. 1/1999 ha modificato gli artt. da 121 a 126 della Costituzione introducendo una forma di
governo regionale basata sull’elezione popolare diretta del Presidente della Regione. Tale legge sarà in vigore
fino a quando ogni regione non disciplinerà autonomamente la sua forma di governo attraverso il proprio
statuto ed una propria legge elettorale “in armonia con la Costituzione”.
Prima della riforma costituzionale del 1999, le regioni avevano una forma di governo parlamentare a
predominanza assembleare. Questo sistema, vittima della grande instabilità delle Giunte regionali,
determinato da frequenti crisi dovute alla rottura degli accordi tra i partiti creatisi dopo le elezioni, ha portato
ad un primo tentativo di rafforzare il Governo regionale ed accrescerne la stabilità nel 1995 con la riforma del
sistema elettorale delle Regioni ordinarie (ancora oggi vigente).
Questo sistema, basato su una formula elettorale proporzionale, prevede:
- un premio di maggioranza alla lista o alle coalizioni di liste che ottiene più voti a livello regionale;
- caratterizzazione delle liste regionali attraverso il capolista designato per la Presidenza della Giunta ed alcuni
candidati espressivi dell’intera Regione; con la riforma costituzionale, grazie ad una norma transitoria, questa
“designazione” si è trasformata in elezione del Presidente della Regione;
- l’introduzione della clausola di sbarramento fissata al 3% in modo da disincentivare la presentazione di liste
di piccoli partiti.
Il cuore della riforma elettorale regionale consiste poi nella previsione che l’80% dei seggi attribuiti alla
Regione sia ripartito tra i collegi provinciali, mentre il residuo 20% venga assegnato a livello regionale ed
attribuito, in tutto o per metà, alla lista più votata. Al fine di assicurare la maggioranza almeno del 55% dei
seggi alla lista vincitrice si prevede che il premio di maggioranza possa essere ulteriormente aumentato,
accrescendo il numero complessivo dei consiglieri regionali.
Le liste regionali sono rigide in quanto il corpo elettorale non può esprimere preferenze circa i candidati.
La “forma di governo transitoria”
La riforma costituzionale del 1999 ha dato il via ad un mutamento della forma di governo regionale, la quale
dovrà essere definita dagli statuti delle Regioni stesse. Nel frattempo è in vigore una legge transitoria che ha
innestato l’elezione diretta del Presidente della Regione sulla precedente legge elettorale.
La forma di governo regionale prevede: il Consiglio regionale, il Presidente della Regione e la Giunta regionale.
il Consiglio regionale, eletto dagli elettori regionali, è il titolare della funzione legislativa, del potere di
fare proposte alle Camere ed i cui membri godono delle prerogative di cui gode la classe degli eletti
(insindacabilità);
il Presidente della Regione, eletto a suffragio universale degli elettori regionali, è colui che
rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile, promulga le leggi ed emana i
regolamenti regionali e dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione;
la Giunta regionale, organo esecutivo della Regione, è il titolare della funzione amministrativa, diretta
politicamente dal Presidente eletto, cui la Costituzione affida il compito di nominare i componenti
della Giunta, nonché il potere di revocarli.
Il Consiglio regionale può esprimere la fiducia nei confronti del Presidente della Giunta mediante mozione
motivata e sottoscritta da almeno un quinto dei componenti. Tale mozione non può essere messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. L’approvazione della mozione di sfiducia determina le
dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale, con la conseguenza che si andrà a nuove
elezioni per il rinnovo di entrambi gli organi. Lo statuto regionale potrà modificare ed integrare il modello
costituzionale e potrà anche escludere l’elezione diretta del Presidente della Regione da parte del popolo.
La nuova disciplina costituzionale affida alla legge regionale il compito di stabilire il sistema di elezione ed i casi
di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale e del Consiglio
regionale nei limiti della legge, la quale fissa anche la durata degli organi elettivi.
Secondo l’art. 123 Cost. ogni Regione dispone di uno Statuto che ne determina forma di governo e principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento.
Il sistema che ne segue può essere così sintetizzato:
a) la Costituzione fissa un criterio generale di elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della
Regione;
b) il rapporto tra Presidente di Regione e Consiglio è retto dal principio “simul stabunt, simul cadent”,
cioè “insieme staranno, insieme cadranno”, per cui qualsiasi ipotesi di cessazione del mandato del
Presidente determinerebbe altresì lo scioglimento del Consiglio regionale;
c) il Consiglio potrebbe sempre votare una mozione di sfiducia contro il Presidente della Regione e
questa possibilità non sarebbe derogabile da parte dello Statuto (neoparlamentarismo);
d) le Regioni, nell’esercizio della loro potestà statuaria, possono distaccarsi da questo modello ed
orientarsi verso una diversa elezione del Presidente (scelta del Presidente dopo le elezioni); qualora
invece la Regione confermasse l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione
dovrebbe rispettare le disposizioni presenti nell’art. 126 Cost., quali:
1. il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia mediante mozione motivata e sottoscritta da
almeno un quinto dei suoi componenti; detta mozione non può essere discussa prima di tre giorni
dalla sua presentazione;
2. l’approvazione della mozione di sfiducia comporta la rimozione del Presidente e il contestuale
scioglimento del Consiglio regionale;
3. i medesimi effetti conseguono alla rimozione, all’impedimento permanente, alla morte o alle
dimissioni volontarie del Presidente, nonché alle dimissioni contestuali della maggioranza dei
componenti del Consiglio.
LA FORMA DI GOVERNO DEGLI ENTI LOCALI
La forma di Governo del Comune e della Provincia è stata modellata dalla legge 81/1983. Dopo la riforma
Delrio, gli organi della Provincia non sono più eletti direttamente dai cittadini ed anche i rapporti tra gli organi
hanno perso “politicità”, per cui occorre occuparsi esclusivamente dei Comuni.
La forma di governo dei Comuni si basa sull’elezione popolare diretta del Sindaco, con un sistema elettorale
che in Italia costituisce il primo esempio di scelta popolare diretta del capo dell’Esecutivo. I
Consigli comunali vengono invece eletti secondo elementi del sistema maggioritario e proporzionale per i
Comuni con popolazione fino a 15’000 abitanti e Comuni con oltre 15’000 abitanti.
Il Sindaco dura in carica cinque anni e non può ricoprire più di due mandati consecutivi (a meno che uno dei
due mandati non abbia durata inferiore a due anni sei mesi ed un giorno).
nei Comuni fino a 15’000 abitanti, ogni candidato sindaco deve essere collegato ad una lista di
candidati a consigliere comunale. L’elettore esprime un voto per il candidato a Sindaco e per la lista ad
esso collegata e può esprimere un voto di preferenza per uno dei candidati della lista. È eletto Sindaco
colui che ha ottenuto il maggior numero di voti (maggioranza semplice o relativa). In caso di parità di
voti si procede al ballottaggio tra i candidati che hanno ottenuto più voti. La lista collegata al Sindaco
che risulta vincitrice ottiene i 2/3 dei seggi del Consiglio, mentre i rimanenti sono ripartiti tra le altre
liste con formula proporzionale, applicando il metodo d’Hondt;
nei Comuni con oltre 15’000 abitanti, il candidato a Sindaco deve essere collegato ad una o più liste di
candidati a consigliere comunale. L’elettore può votare contemporaneamente per il candidato a
Sindaco e per una delle liste a lui collegate, oppure ha la possibilità del voto disgiunto, ossia può
esprimere il suo voto anche ad una lista diversa da quella a cui è collegato il candidato Sindaco cui ha
votato. È eletto Sindaco il candidato che ha ottenuto la metà più uno dei voti validamente espressi
(maggioranza assoluta). Se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta si procede con un
secondo turno elettorale di ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di
voti. La ripartizione dei seggi tra le liste avviene con formula proporzionale, utilizzando il metodo
d’Hondt. Al Sindaco eletto, per assicurare un’ampia maggioranza consiliare che realizzi il suo indirizzo
di governo, è attribuito un premio di maggioranza.
Per tutte le elezioni comunali è prevista una clausola di sbarramento fissata al 3% al fine di scoraggiare
la frammentazione del sistema politico.
L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA
Nell’Europa continentale si era diffuso il modello ministeriale di derivazione francese. Tale amministrazione si
identificava con l’amministrazione statale, strutturata gerarchicamente con a capo un organo definito
ministro. Nell’odierno Stato di democrazia pluralista italiano vige un sistema ove l’amministrazione è articolata
in una molteplicità di strutture tra loro autonome e portatrici di indirizzi politici differenti. Poiché diversi sono i
compiti di ogni amministrazione, diversi sono anche i modelli organizzativi utilizzati. Ai ministeri infatti si
affiancano altre figure come gli enti pubblici di vario tipo, le agenzie e le autorità amministrative indipendenti.
Ciascun ministro è preposto ad uno dei grandi rami dell’amministrazione statale, che prende il nome di
ministero (ad eccezione dei ministri senza portafoglio). Il ministro ha una doppia veste istituzionale: da una
parte, partecipa alla formazione dell’indirizzo politico in quanto membro del Governo; dall’altra parte,
costituisce il vertice amministrativo di un ministero, chiamato a realizzare tale indirizzo.
Al modello francese, basato su un rapporto di gerarchia, in Italia dopo il 1993, è seguito il principio basato sulla
separazione tra politica ed amministrazione: agli organi di Governo spetta la funzione di indirizzo politico-
amministrativo, che si sostanzia nella determinazione delle direttive da impartire e gli obiettivi generali da
perseguire; ai dirigenti amministrativi spetta invece l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi,
nonché la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, mediante l’adozione di atti di spesa, organizzazione
del personale e dei mezzi strumentali di cui l’amministrazione si serve per l’esercizio delle sue funzioni.
Il ministro, periodicamente, e non oltre dieci giorni dall’entrata in vigore della legge di bilancio, definisce
obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare ed emana le conseguenti direttive generali, cui dovranno
conformarsi i dirigenti. Tali direttive indicano gli obiettivi da raggiungere ma non possono avere contenuti
concreti che spettano agli atti di gestione riservati ai dirigenti. I dirigenti, preposti ai diversi uffici di livello
dirigenziale, nel caso di risultati negativi di gestione, possono essere revocati secondo il principio di
responsabilità dirigenziale.
Le amministrazioni pubbliche costituiscono una realtà assai articolata, che non va confusa esclusivamente con
l’amministrazione statale, bensì è composta anche da una serie di enti e soggetti differenti.
I principi costituzionali sull’amministrazione (“legge Madia”) sono i seguenti:
- legalità della pubblica amministrazione: si ricava dalle disposizioni costituzionali, si sostanzia nel fatto che
l’amministrazione può agire solo secondo quanto è previsto dalla legge e nel modo da essa indicato;
- organizzazione degli uffici pubblici: la Costituzione in materia pone una riserva di legge relativa, riduce il
campo di intervento legislativo nella fissazione di pochi principi organizzativi generali e rinviando le scelte più
puntuali ai regolamenti di organizzazione interna, in modo d’assicurare maggiore flessibilità delle strutture in
base alle diverse esigenze;
- imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), la quale richiede un’attività amministrativa che
risponda ai canoni di efficienza (realizzazione del miglior rapporto tra i mezzi impiegati ed i risultati
conseguiti), efficacia (capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati);
- concorso pubblico, necessario per l’accesso al rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione.
Si tratta di un principio per selezionare soggetti ritenuti validi con cui le amministrazioni instaurano rapporti di
lavoro. Per quanto riguarda l’assetto della dirigenza pubblica, la legge fa confluire tutti i dirigenti pubblici
all’interno di tre grandi ruoli unici, riguardanti le amministrazioni riferibili, rispettivamente alla dimensione
nazionale, regionale e locale. L’accesso alla dirigenza si effettua secondo il doppio canale: corso-concorso
riservato agli esterni e concorso riservato agli interni con una consistente attività di servizio;
- dovere di fedeltà, cioè di adempiere le pubbliche funzioni con disciplina ed onore, prestando giuramento nei
casi previsti dalla legge (art. 54 Cost.). La stessa Costituzione attribuisce alla legge la competenza ad introdurre
limiti al diritto di iscrizione ai partiti politici per magistrati, i militari di carriera in servizio, i funzionari e gli
agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero (art. 98.3 Cost.);
- separazione tra politica ed amministrazione, secondo cui gli organi di governo determinano obiettivi e
programmi e gli organi burocratici hanno la titolarità dei poteri di gestione amministrativa, in modo tale da
evitare ingerenze della politica nelle scelte amministrative. L’amministrazione dunque, seppur separata dagli
organi di governo, è collegata agli stessi in quanto tenuta ad attuarne l’indirizzo amministrativo;
- responsabilità personale dei pubblici dipendenti, la quale esclude ogni forma di immunità per gli atti da essi
compiuti in violazione dei diritti (art. 28 Cost.). Si tratta di una responsabilità diretta che il dipendente ha
solidamente con lo Stato o con l’ente pubblico da cui dipende;
- dopo la riforma della parte II del Titolo V della Costituzione, l’amministrazione pubblica deve essere in linea
tendenziale un’amministrazione locale. L’art. 118 Cost. stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite
ai Comuni ed essi insieme alle Province e le Città Metropolitane sono titolari di funzioni proprie, oltre a quelle
loro conferite con legge statale o regionale.
Prima di adottare un provvedimento amministrativo sono necessari svariati atti preparatori al provvedimento
finale. Esistono svariati atti amministrativi strumentali rispetto all’adozione del provvedimento finale. In
questo caso si dice che siamo in presenza di un procedimento amministrativo. Quest’ultimo può essere
definito come una sequenza di atti preordinati all’adozione del provvedimento finale. Il procedimento non
riguarda solo l’esercizio della funzione amministrativa, bensì tutte le pubbliche funzioni. A seconda della
funzione degli svariati atti che confluiscono nel procedimento, essi possono essere raggruppati in fasi distinte,
quali:
- Fase dell’iniziativa, aperta con l’istanza del soggetto interessato ad ottenere il provvedimento finale, oppure
dall’iniziativa della stessa amministrazione (procedimento aperto d’ufficio);
- Fase istruttoria, in cui si accertano gli elementi di fatto e di diritto su cui si dovrà basare la decisione
dell’amministrazione. In questa fase si effettua l’esame dei documenti e si effettuano accertamenti di fatto,
mediante verifiche, sopralluoghi ed indagini di vario tipo. Sempre in questa fase avvengono gli atti di consenso
espresso da altre amministrazioni, nonché i pareri espressi dagli organi consultivi. Tali atti vengono definiti
nulla-osta ed indicano che l’amministrazione interessata non ritiene che sussistano ostacoli all’adozione del
provvedimento finale di competenza di un’altra amministrazione;
- Fase integrativa dell’efficacia, che si ha quando il provvedimento, per diventare produttivo di effetti giuridici,
deve essere seguito da qualche adempimento ulteriore ed in tali casi il provvedimento amministrativo si
perfeziona e diventa efficace solo dopo il compimento di questi adempimenti previsti dalla legge.
La legge generale sul procedimento amministrativo è stata approvata in Italia nel 1990 e modificata nel 2005,
essa stabilisce che l’attività amministrativa deve conformarsi ai seguenti principi:
1. l’amministrazione persegue i fini stabiliti dalla legge (principio di legalità) ed opera sulla base dei criteri
di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità;
2. ogni procedimento, che segue istanza di parte, ovvero che debba essere iniziato d’ufficio, deve
concludersi attraverso un provvedimento espresso;
3. il procedimento deve concludersi entro un termine certo, stabilito dalla legge o mediante
regolamento. In assenza di una previsione espressa, il termine è di novanta giorni. Decorso tale
termine senza che l’amministrazione abbia provveduto, il privato può fare ricorso al TAR attraverso il
“silenzio-rifiuto”;
4. ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato ed in ogni atto notificato al destinatario
devono essere indicate l’autorità ed il termine verso il quale l’interessato può proporre ricorso;
5. ogni procedimento deve avere un funzionario responsabile che deve seguire il procedimento dall’inizio
alla sua conclusione;
6. i soggetti interessati hanno diritto a partecipare al procedimento. In particolare l’amministrazione deve
curare l’avvio del procedimento tramite comunicazione personale. Inoltre, qualunque soggetto,
portatore di interessi privati, pubblici o diffuse (si pensa ad associazioni, comitati ecc.) hanno facoltà di
intervenire nel procedimento prestando memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha
l’obbligo di valutare;
7. la semplificazione amministrativa, che comporta la ricerca della massima snellezza operativa.
I principali istituti attraverso cui si realizza il principio di semplificazione amministrativa sono:
la Conferenza di servizi, cioè una riunione in cui l’amministrazione invita i responsabili di tutte
le amministrazioni coinvolte nel procedimento, al fine di realizzare una valutazione congiunta
dei diversi interessi pubblici coinvolti. Essa opera mediante una conferenza semplificata, in
modalità asincrona, mediante la semplice trasmissione per via telematica tra le
amministrazioni partecipanti. Essa può operare anche mediante una conferenza simultanea,
con riunione, e si attua solo in determinati casi previsti dalla legge.
Quando l’esercizio di un’attività è subordinato ad un’autorizzazione, licenza, nulla osta ecc.
richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali, commerciali, artigianali, il provvedimento
dell’amministrazione è sostituito da una Segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). Un
altro importante istituto è il silenzio-assenso, che opera qualora sia decorso un certo periodo
di tempo senza che l’amministrazione abbia adottato un provvedimento espresso;
8. la trasparenza amministrativa, che consiste nell’accessibilità totale dei dati e dei documenti posseduti
dalle pubbliche amministrazioni allo scopo di meglio tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la
partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo delle
risorse pubbliche. La legge del 1990 ha posto le basi per il diritto di accesso ai documenti
amministrativi, indipendentemente da un interesse diretto, concreto o attuale. Poi, con il D.lgs. n.
33/2013 la legge ha introdotto il decreto trasparenza, il quale prevede, l’obbligo per le pubbliche
amministrazioni di pubblicare sui loro siti istituzionali i documenti che riguardano la loro
organizzazione e le varie attività. Il punto di approdo si è avuto nel 2016 con un altro decreto
legislativo, il Freedom of Information Act, adottato sulla base della delega contenuta nella legge
Madia, che prevede la sua applicazione a tutte le pubbliche amministrazioni ed anche ad alcuni
soggetti privati (ordini professionali, associazioni, società a partecipazione pubblica ecc.), l’obbligo di
pubblicare ed aggiornare tempestivamente sul sito istituzionale informazioni riguardanti la vita
dell’ente e l’accesso civico. Il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento
espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, ma
l’amministrazione, se individua soggetti controinteressati, quest’ultimi entro dieci giorni dalla
comunicazione possono presentare una motivata opposizione. Decorso questo termine
l’amministrazione decide, sulla richiesta d’accesso, l’inadempimento degli obblighi di pubblicazione ed
il rifiuto dell’accesso civico al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, che
costituiscono elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, da far valere davanti alla Corte
dei conti;
9. all’interno di ogni amministrazione deve essere nominato un responsabile per la trasparenza che
svolge stabilmente un’attività di controllo sull’adempimento da parte dell’amministrazione e degli
obblighi di pubblicazione;
10. la trasparenza, oltre che strumentale ad una tutela effettiva dei diritti dei cittadini, concorre a
prevenire la corruzione. Anche promuovere la trasparenza rientra tra i compiti dell’Autorità nazionale
anticorruzione (ANAC), che ha il compito di prevenire la corruzione all’interno della pubblica
amministrazione.
Le pubbliche amministrazioni, per il raggiungimento dei loro fini, possono servirsi di contratti. Questi si
distinguono in contratti attivi e contratti passivi: con i primi l’amministrazione acquisisce delle entrate, con i
secondi sostiene delle spese. Tra i contratti dell’amministrazione troviamo quelli di appalto pubblico, conclusi
dall’amministrazione con un imprenditore privato che opera con una propria organizzazione assumendosi il
rischio d’impresa, in cambio di un corrispettivo pattuito: si parla così di appalto di opere pubbliche, appalto di
forniture e appalto di servizi. La procedura di scelta deve garantire il principio dell’imparzialità, mediante
procedimenti ad evidenza pubblica in un mercato libero in regime concorrenziale.
I servizi d’interesse generale designano attività soggette ad obblighi specifici di servizio pubblico in quanto
considerate di interesse generale per la collettività. In questa categoria rientrano sia attività di servizio non
economico (sistemi scolastici non obbligatori, protezione sociale ecc.), sia servizi d’interesse economico
generale. I Servizi di interesse economico generale (SIEG) sono quelli erogati dietro il pagamento di un
corrispettivo, ma che il mercato non offrirebbe alle medesime condizioni richieste dai poteri pubblici. Fino a
pochi decenni fa i servizi economici a rete, cioè quei servizi che richiedono di essere organizzati tramite reti
strutturali, come la trasmissione dell’elettricità, rete fissa e ferroviaria, erano considerate in blocco SIEG e
venivano concessi in monopolio legale ad imprese pubbliche. Lo sviluppo tecnologico ha consentito di
superare la situazione di fallimento di mercato, mentre specifiche regole giuridiche hanno permesso di creare
“artificialmente” una condizione di concorrenza, imponendo all’unico proprietario di consentire ai concorrenti
di fornire il servizio utilizzando la sua rete in una condizione di concorrenza di mercato. Il regime a forte
regolamentazione pubblica è funzionale ad assicurare il rispetto di alcuni interessi generali, quali l’assetto
concorrenziale, la qualità del servizio e la tutela dei consumatori. Tuttavia residuano delle aree in cui l’impresa,
ricercando il profitto, non ha interesse ad offrire il servizio (per esempio, il servizio postale in una località
sperduta di montagna). Al fine di assicurare che sia adempiuta la missione del SIEG, permangono l’esclusione
della concorrenza e la riserva dell’attività ad un solo soggetto (così come nel trasporto ferroviario, l’alta
velocità è sottoposta ad un regime di piena concorrenza, ma le tratte ferroviarie regionali sono affidate ad un
unico soggetto).
I servizi di interesse economico generale sono erogati a livello locale. Il regime vigente è stato introdotto di
recente (il D.lgs. che nel 2016 ha attuato la legge Madia). I servizi pubblici locali d’interesse economico
generale ricomprendono i servizi erogati dietro corrispettivo economico su un mercato, che non sarebbero
svolti senza un intervento pubblico o sarebbero svolti con diverse modalità che non garantirebbero i principi di
continuità, qualità e sicurezza necessari per soddisfare i bisogni delle comunità locali e garantire l’omogeneità
dello sviluppo e coesione sociale. Le attività che rientrano in questa categoria sono individuate da Comuni e
Città metropolitane. L’ente locale sceglie le modalità di gestione del servizio tra le seguenti opzioni:
- affidamento diretto mediante procedura ad evidenza pubblica, ossia una gara competitiva a cui partecipano
più imprese, applicando le disposizioni in materia di contratti pubblici;
- affidamento a società mista, partecipazione di un socio pubblico ed uno privato (scelto con procedura ad
evidenza pubblica);
- gestione diretta mediante l’affidamento in house, nei limiti fissati dal diritto dell’UE, dalle disposizioni sui
contratti pubblici e dal testo unico sulle partecipazioni pubbliche, prevede una società considerata come
articolazione organizzativa dello stesso ente locale;
- gestione in economia o mediante azienda speciale, in cui sono posti dei limiti alla durata temporale
dell’affidamento, in funzione della prestazione richiesta, proporzionata agli investimenti, in modo da
assicurare lo svolgimento di gare periodiche che assicurino la concorrenza per il mercato.
Nel linguaggio giuridico la parola “fonte” indica gli strumenti di produzione del diritto. Dicasi fonte del diritto
l’atto o il fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a produrre norme giuridiche.
Norme di riconoscimento
Negli ordinamenti moderni è la stessa Costituzione ad indicare gli atti che possono produrre il diritto, cioè le
fonti: non tutte perché in un ordinamento a struttura gerarchica, come quello italiano, basta che la
Costituzione indichi le fonti ad essa immediatamente inferiori, dette perciò anche fonti primarie, saranno poi
queste a regolare le fonti ancora inferiori, le fonti secondarie. È considerato compito necessario di ogni
Costituzione regolare le fonti primarie. Le norme di riconoscimento o fonti sulla produzione, sono le norme di
un ordinamento giuridico che indicano le fonti abilitate ad innovare lo stesso ordinamento.
FONTI DI COGNIZIONE
Le fonti di cognizione sono gli strumenti attraverso i quali si vengono a conoscere le fonti di produzione e
possono essere ufficiali (Gazzetta Ufficiale), Bollettini ufficiali delle Regioni (B.U.R.) e la Gazzetta Ufficiale
dell’Unione Europea (G.U.U.E.), o private.
Pubblicazione “ufficiale” ed entrata in vigore degli atti normativi
Tutti gli atti normativi, per entrare in vigore, devono essere pubblicati su una fonte ufficiale, al fine di farlo
conoscere ai cittadini ed agli organi preposti alla loro applicazione e deve passare un periodo di tempo, di
regola 15 giorni (vacatio legis), in cui gli effetti del nuovo atto sono sospesi. Trascorso tale periodo il nuovo
atto è pienamente obbligatorio e vige il principio latino “ignorantia legis non excusat”, presunzione di
conoscenza della legge, nonché l’obbligo del giudice di applicarla.
Le fonti non ufficiali possono essere fornite da soggetti pubblici (Ministeri o Regioni) o privati (case editrici o
riviste specializzate), in formato cartaceo o informatico. Le notizie pubblicate su questi istituti hanno valore
informativo, non legale e la loro pubblicazione non incide sull’efficacia delle norme.
Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: fonti-atto (o atti normativi) e fonti-fatto (o fatti
normativi). Le fonti-atto sono parte degli atti giuridici, ossia comportamenti consapevoli che danno luogo ad
effetti giuridici. Gli atti normativi hanno la capacità di porre norme vincolanti per tutti (perciò sono “fonti del
diritto”) e devono essere imputabili a soggetti cui lo stesso ordinamento riconosce il potere di porre in essere
tali atti. In sintesi, le fonti-atto implicano un agire volontario di un organo a ciò abilitato dall’ordinamento
giuridico. La “norma di riconoscimento” attribuisce ad un determinato organo il potere di emanare un
determinato atto normativo. Così, la fonte-atto è l’espressione di volontà normativa di un soggetto cui
l’ordinamento attribuisce l’idoneità di porre in essere norme giuridiche. Le
fonti-fatto sono invece una categoria residuale, sono cioè tutte le altre fonti cui l’ordinamento riconosce e di
cui ordina o consente l’applicazione per il semplice “fatto di esistere”. Esse appartengono ai fatti giuridici, cioè
a quegli eventi naturali (nascita, per esempio) o sociali (il pugno che Tizio sferra a Caio) che producono
conseguenze rilevanti per l’ordinamento.
Ogni tipo di fonte ha una sua forma essenziale. La forma tipica dell’atto è data da una serie di elementi quali
l’intestazione all’autorità emanante (es. “Decreto del Presidente della Repubblica” o “Decreto ministeriale”), il
nome proprio dell’atto (legge, decreto legge, decreto regionale ecc.) ed il procedimento di formazione
dell’atto stesso. Per procedimento si intende quella sequenza di atti preordinata al risultato finale: qualsiasi
atto normativo la cui formazione non rispetti il procedimento prescritto ha un vizio di forma.
Dal punto di vista redazionale l’atto è suddiviso in articoli e questi in commi; gli articoli corredati spesso da
una “rubrica” che ne indica l’argomento, possono essere raggruppati in “capi” e questi in “titoli” e “parti”.
Le consuetudini
La consuetudine è considerata come un comportamento sociale ripetuto nel tempo che viene sentito come
obbligatorio e vincolante giuridicamente. Oggi però la consuetudine è quasi scomparsa dagli ordinamenti
moderni che si ispirano al sistema della codificazione. Spesso si fa riferimento con fenomeni che non hanno
nulla a che vedere con la consuetudine, cioè alle consuetudini interpretative: quest’ultime rappresentano la
costante interpretazione di una disposizione di legge (fonte-atto) da parte degli interpreti.
La Costituzione all’ art. 10.1 stabilisce che “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”, cioè fa riferimento alle consuetudini internazionali, cioè a quelle
norme che hanno origine in regole non scritte, né obbligatorie dalla generalità degli Stati. L’adeguamento
dell’ordinamento italiano ad una norma del diritto internazionale è automatico e l’interprete della legge deve
applicarla come se fosse una norma “interna”. Questo meccanismo di rinvio automatico dell’ordinamento
italiano alle norme prodotte da altri ordinamenti si chiama “rinvio mobile”.
Le altre fonti-fatto
Benché la consuetudine sia da sempre la fonte-fatto per eccellenza, oggetto di importanti studi teorici, oggi
nel nostro ordinamento non è più la fonte-fatto più importante. Le fonti-fatto per il nostro ordinamento sono
tutte quelle fonti che producono norme richiamate dal nostro ordinamento, ma non prodotte dai nostri
organi. Vi sono due esempi macroscopici di fonti-fatto nel nostro ordinamento: le norme prodotte dall’Unione
Europea e le norme di diritto internazionale privato (norme che regolano l’applicazione della legge quando i
soggetti o i beni coinvolti nel caso sottoposto al giudice sono collegati ad ordinamenti giuridici diversi): queste
fonti, che sarebbero indubbiamente fonti-atto nel rispettivo ordinamento d’appartenenza, sono invece fonti-
fatto per il nostro.
Il “principio di sovranità”, espressione della sovranità dello Stato, attribuisce a questo il potere esclusivo di
riconoscere le proprie fonti, cioè di indicare i “fatti” e gli “atti” che possono produrre norme nell’ordinamento.
Attraverso la tecnica del rinvio l’ordinamento di uno Stato rende applicabili al proprio interno norme di altri
ordinamenti. Si distinguono di seguito due tecniche di rinvio differenti: rinvio fisso e rinvio mobile.
Il rinvio “fisso”
Il rinvio fisso è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama un determinato atto
in vigore in altro ordinamento. Si dice fisso perché recepisce in “allegato” uno specifico e singolo atto,
ordinando ai soggetti dell’applicazione del diritto (giudici e pubblica amministrazione) di applicare norme
ricavabili da questo come norme interne (es: le norme derivabili dai Trattati si applicano come se fossero
norme interne - Trattato tra l’Italia e la Santa Sede).
Il rinvio “mobile”
Il rinvio mobile è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama una fonte di un
altro ordinamento. Per questo motivo, con il rinvio mobile l’ordinamento statale si adegua automaticamente a
tutte le modifiche che nell’altro ordinamento si producono nella normativa posta dalla fonte richiamata.
Il “rinvio mobile” pone il compito, ai soggetti dell’applicazione del diritto, di ricercare le disposizioni in vigore
nell’ordinamento straniero, dovendo tenere conto di tutti i mutamenti che in esso si sono prodotti.
LA FUNZIONE DELL’INTERPRETAZIONE
L’atto normativo (fonte-atto), è un testo scritto articolato in enunciati: essi sono espressioni linguistiche che
hanno una forma grammaticale compiuta. Tramite gli enunciati il legislatore cerca di esprimere la sua volontà
normativa. Gli enunciati degli atti normativi si chiamano disposizioni. Pensare che gli enunciati scritti possano
avere un significato preciso ed univoco è una banalità ed errore assai comune. È necessario compiere, per cui,
una distinzione tra interpretazione ed applicazione del diritto. L’applicazione del diritto consiste
nell’applicazione di una norma generale ed astratta ad un caso particolare e concreto. La norma dice che se è
compiuto da chiunque (generale) ed in qualsiasi circostanza (astratto), per il comportamento X deve
corrispondere la conseguenza Y. Questo è lo schema del sillogismo giudiziale: premessa maggiore (norma),
premessa minore (fatto): conclusione (applicazione della norma al fatto). Ma in “natura” non esistono né le
norme né i fatti. La norma è il risultato dell’interpretazione delle disposizioni, il loro significato, ed anche il
“fatto” è frutto di interpretazione. Il legislatore può cercare di risolvere controversie interpretative o di
“forzare” l’interpretazione dei giudici aggiungendo nuove disposizioni alle vecchie, cercando di precisarne il
significato: si tratta della interpretazione autentica. Non si tratta però di un’opera di interpretazione, ma di
legislazione: si emana una disposizione con cui si cerca di chiarire il significato di un’altra disposizione.
Il legislatore aggiunge così segni a segni, tentando di influire sul significato che, gli interpreti del diritto,
attribuiranno (contrapposizione tra legis-latio e legis-executio). I soggetti che hanno il potere di imporre gli atti
normativi sono quelli facenti parte del Parlamento, un organo politico eletto dai cittadini; gli interpreti del
diritto (giudici ed organi amministrativi) hanno il compito di interpretare ed applicare tali norme, non hanno
responsabilità politica ed accedono a tali cariche per concorso pubblico. La magistratura si trova spesso a
dover interpretare un groviglio di norme incoerenti e contradditorie e tradurle in significati univoci e coerenti;
per farlo si serve, da oltre duemila anni, di tecniche interpretative utili a trarre norme univoche e coerenti.
Le antinomie e tecniche di risoluzione
Le antinomie sono i contrasti tra norme e si hanno quando le disposizioni esprimono significati tra loro
incompatibili. È compito dell’interprete risolvere le antinomie, individuando la norma applicabile al caso.
Ciò è possibile con gli strumenti d’interpretazione, ossia attribuendo alle disposizioni in gioco un significato che
le renda reciprocamente compatibili (la cosiddetta interpretazione sistematica). I criteri di soluzione delle
antinomie sono impliciti nell’ordinamento. Quattro sono i criteri che ora esamineremo, il criterio cronologico,
gerarchico, della specialità e della competenza.
Il criterio cronologico afferma che in caso di contrasto tra due norme, si deve preferire quella più recente a
quella più antica (lex posterior derogat priori). La legge deve adattarsi al continuo cambiamento della realtà.
La prevalenza della norma nuova sulla vecchia si esprime attraverso l’abrogazione. L’abrogazione è l’effetto
che la norma più recente produce nei confronti di quella meno recente: l’effetto consiste nella perdita
dell’efficacia della norma giuridica precedente.
L’efficacia è una figura generale del diritto e consiste nell’idoneità di un fatto o di un atto a produrre effetti
giuridici. L’efficacia di una norma è la sua applicabilità come regola dei rapporti giuridici. La norma diventa
efficace quando la disposizione da cui è tratta entra in vigore (dopo la pubblicazione e trascorsa la vacatio
legis). Nel nostro ordinamento vige il principio di irretroattività degli atti normativi, cioè essi dispongono solo
per eventi futuri e non hanno effetto per il passato. La retroattività come principio è espressamente vietata
nella costituzione nella materia penale.
Il principio di irretroattività vale anche per l’abrogazione. La nuova norma perde efficacia dal giorno
dell’entrata in vigore del nuovo atto, tuttavia i rapporti precedenti restano in piedi e rimangono regolati da
essa. Può capitare quindi che il giudice si trovi ad applicare norme abrogate ma solo per rapporti nati prima
dell’entrata in vigore della norma successiva. L’abrogazione opera quindi ex nunc (“da ora”).
Tipi di abrogazione
L’effetto abrogativo può essere prodotto da fenomeni assai diversi, l’art. 15 delle Preleggi elenca tre ipotesi di
abrogazione:
L’abrogazione espressa riguarda il contenuto di una disposizione che vale per tutti “erga omnes”.
L’abrogazione tacita non è disposta dal legislatore, bensì dal giudice che, costretto a districarsi tra le antinomie
delle varie norme, si trova a dover considerare valida la norma successiva sulla precedente, ormai abrogata. In
questo caso però a prevalere è l’interpretazione del giudice rispetto a quale norma sia in vigore e quale
abrogata. Il terzo tipo di abrogazione, quella implicita, simile a quella tacita, tuttavia indica che la nuova legge
regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore.
Diversa dall’abrogazione è la deroga. Essa nasce da un contrasto tra norme di tipo diverso. La norma derogata
è una norma generale mentre la norma derogante è una norma particolare: semplicemente l’eccezione alla
regola ( es: esclusione di cittadini di una zona calamitata dal pagamento delle tasse per un dato periodo).
La differenza tra abrogazione e deroga sta essenzialmente in questo: la norma abrogata perde efficacia per il
futuro e può riprendere a produrre effetti soltanto nel caso in cui il legislatore emani un’ulteriore disposizione
che lo prescriva (riviviscenza della norma abrogata), la norma derogata non perde invece la sua efficacia,
viene bensì limitato il campo d’applicazione alla norma generale. La sospensione dell’applicazione di una
norma invece, simile alla deroga, è limitata ad un dato periodo di tempo e spesso a singole zone o categorie.
Il criterio gerarchico diche che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella che nella gerarchia
delle fonti occupa il posto più elevato (lex superior derogat legi inferiori). La prevalenza della norma
superiore su quella inferiore si esprime attraverso l’annullamento. L’annullamento è l’effetto di una
dichiarazione di illegittimità che un giudice pronuncia nei confronti di un atto, di una disposizione o di una
norma. La validità è una figura generale del diritto e consiste nella conformità di un atto o di un negozio
giuridico rispetto alle norme che lo disciplinano. L’atto invalido è un atto “viziato”. I vizi possono essere formali
o sostanziali. I vizi formali riguardano la “forma” dell’atto (es: procedimento di formazione non conforme a
quanto prescritto dalle leggi superiori), i vizi sostanziali, riguardano i contenuti normativi di una disposizione,
cioè le norme; la disposizione sarà viziata perché produce un’antinomia, un contrasto con norme tratte da
disposizioni di rango superiore.
Effetti dell’annullamento
In linea generale, quando un giudice dichiara l’illegittimità di un atto normativo, questa dichiarazione ha effetti
generali (erga omnes), l’atto annullato non può più essere applicato a nessun rapporto giuridico;
l’annullamento opera per eventi passati e futuri (ex tunc). Gli effetti dell’annullamento si avvertono solo per
quei rapporti giuridici che l’interessato possa sottoporre ad un giudice, i cosiddetti rapporti “pendenti” (o
aperti), in contrapposizione con i rapporti “esauriti” (o chiusi). L’ordinamento indica che i rapporti si chiudono
per prescrizione, decadenza, acquiescenza o per giudicato.
Il criterio della specialità dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma speciale a
quella generale, anche se questa è successiva. Questo criterio non è ben codificato né sotto il profilo
concettuale, né sotto quello legislativo, poiché cosa sia “specie” e cosa “genere” è spesso questione di
opinioni. In secondo luogo non sono chiari gli effetti d’applicazione di tale criterio; in terzo luogo, è complesso
il rapporto tra criterio di specialità e gli altri criteri.
La preferenza per la norma speciale non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (abrogazione),
né con riferimento della sua validità (annullamento). Le norme in conflitto rimangono entrambe efficaci e
valide: sarà l’interprete ad operare una scelta circa quale norma applicare. La deroga è l’effetto tipico della
prevalenza della norma speciale su quella generale. È evidente che il criterio di specialità opera
esclusivamente tra norme, cioè sul piano dell’interpretazione. È l’interprete a dover risolvere l’antinomia e
sciogliere il conflitto tra norme applicando il criterio di specialità. Il criterio di specialità, appartenendo alle
tecniche dell’interpretazione, opera quindi inter partes.
Il criterio della competenza non si presta ad una definizione stringente in forma di regola per l’interprete:
serve a spiegare com’è organizzato attualmente il sistema delle fonti, piuttosto che ad indicare all’interprete
come risolvere le antinomie. Il criterio di competenza ci spiega che la gerarchia delle fonti non basta più a
darci il quadro esatto del sistema, perché all’interno dello stesso grado gerarchico, cioè tra atti che hanno la
stessa posizione gerarchica, la stessa “forza”, vi sono suddivisioni non spiegabili in termini, appunto di “forza”
(di gerarchia), ma di “competenza”.
La riserva di legge è lo strumento con cui la Costituzione regola il concorso delle fonti nella disciplina di una
determinata materia. Essa è una regola circa l’esercizio della funzione legislativa: impone al legislatore di
disciplinare una determinata materia, impedendogli di lasciare che essa venga disciplinata da atti che si
trovano ad un livello gerarchico più basso della legge. È attraverso la riserva di legge che si produce, nei
sistemi a Costituzione rigida, quella maggior complessità e differenziazione dell’ordinamento giuridico che si
cerca di spiegare con il criterio della “competenza”. Diverso significato ha il principio di legalità, che affonda le
sue radici nello Stato di diritto, in quanto prescrive l’esercizio di qualsiasi potere pubblico sulla base di una
norma attributiva della competenza, esercitando un potere “regolato” da un uso non arbitrario.
- il principio di legalità formale richiede soltanto che l’esercizio di un potere pubblico si basi su una
previa norma di attribuzione della competenza;
- il principio di legalità sostanziale richiede invece che l’esercizio del potere pubblico sia limitato e
diretto da specifiche norme di legge, tali da restringere la discrezionalità dell’autorità agente.
La funzione legislativa è oggi sottoposta al principio di legalità: essa è attribuita, regolata e limitata dalla
Costituzione. La riserva di legge è appunto una delle regole limitative del potere legislativo posto dalla
Costituzione come risultato dell’estensione della legalità alla stessa attività legislativa.
Tipologie
A seconda dei rapporti tra legge e regolamento si distinguono due tipi di riserve di legge:
- riserva assoluta, che esclude qualsiasi intervento di fonti sub-legislative dalla disciplina alla materia, che
pertanto dovrà essere regolata dalla legge formale ordinaria. La ratio è facilmente intuibile: le libertà
fondamentali sono rivendicate contro il “potere”, contro lo Stato ed il suo potere coercitivo, ecco perché le
limitazioni di queste libertà devono essere decise con le garanzie della legge. Per vincolare ulteriormente
l’attività dei poteri pubblici in materia di diritti fondamentali, molte disposizioni costituzionali alla riserva
assoluta di legge aggiungono la riserva di giurisdizione. Essa consiste nella previsione di ogni atto in modo
“astratto” dalla legge, ed in “concreto” dal giudice;
- riserva relativa, non esclude che alla disciplina della materia concorra anche il regolamento amministrativo,
richiede che la legge disciplini preventivamente almeno i princìpi a cui il regolamento deve attenersi;
- riserve rinforzate, un meccanismo con cui la Costituzione non si limita a riservare la disciplina di una materia
alla legge, bensì pone ulteriori vincoli al legislatore. Esse si distinguono in:
riserve rinforzate per contenuto: nei casi in cui la Costituzione prevede che una determinata
regolazione possa essere fatta dalla legge ordinaria soltanto con contenuti particolari quali,
limitazione della libertà per motivi sanitari o di pubblica sicurezza e fini di utilità generale
(nazionalizzazione delle imprese);
riserve rinforzate per procedimento: prevedono che una materia debba seguire un procedimento
aggravato (o rinforzato) rispetto al normale procedimento legislativo (es: rapporti tra Stato e Chiesa,
accordi con culti acattolici, procedimenti per modificare le circoscrizioni regionali, delle Province e dei
Comuni).
Vi sono poi alcune leggi che devono essere approvate a maggioranza diversa da quella relativa come ad
esempio la Legge per la disciplina del bilancio, approvata a maggioranza assoluta.
LA COSTITUZIONE
La fonte posta al vertice della gerarchia delle fonti è la Costituzione. Il termine “Costituzione” è impiegato, nel
linguaggio giuridico, con significati differenti, quali:
- in un primo caso, “costituzione” indica gli elementi che caratterizzano un determinato sistema politico,
così come esso di fatto è organizzato e funziona. Il termine è dunque usato in funzione descrittiva, per
riassumere i “tratti somatici” che caratterizzano il sistema politico ed il rapporto tra l’organizzazione e la
distribuzione del potere;
- la parola “costituzione” viene usata anche per rappresentare un manifesto politico. In questa
accezione, il termine costituzione è carico di valori politici e di implicazioni rivoluzionarie. In questo senso, la
Costituzione è intesa come un documento solenne dallo spirito politico di fondamentale importanza, che
segna il trionfo di un ideale che sancisce la vittoria di una visione tutta politica dell’organizzazione sociale e
della sua forma istituzionale;
- La Costituzione è anche un testo normativo, la più importante fonte del diritto, da cui derivano diritti e
doveri, obblighi e divieti giuridici, attribuzione di poteri e regole per il loro esercizio.
- dai sociologi e dai politologi per descrivere l’organizzazione del sistema politico;
- dagli storici e dai filosofi come manifesto politico, interessati a comprendere la genesi di un documento così
significativo per la storia ed il pensiero politico;
- dai giuristi come il testo normativo collocato al vertice della gerarchia delle fonti.
La distinzione tra costituzioni flessibili e costituzioni rigide è generalmente spiegata così: sono flessibili le
costituzioni che prevedono la normale attività legislativa per la loro modificazione; sono rigide le costituzioni
che per la modificazione del testo costituzionale dispongono di un procedimento particolare, più gravoso di
quello previsto per la formazione delle leggi ordinarie. Le costituzioni flessibili, tipiche dell’800, gentilmente
concesse “ottriate”, dal sovrano assoluto (Statuto Albertino); le costituzioni rigide sono invece tipiche del
novecento, e sono costituzioni lunghe, perché non si limitano a disciplinare le regole generali dell’esercizio del
potere pubblico e della produzione delle leggi, ma contengono principi e disposizioni analitiche che riguardano
le materie più disparate, dal credito al risparmio, dall’ambiente alla famiglia.
Le costituzioni flessibili dell’ottocento segnavano la fine del potere assoluto. Non a caso erano per lo più
concesse dal sovrano, che giurava solennemente di rinunciare ad esercitare il potere da solo e di sottoporsi
alla legge, e che la legge, prodotto di un procedimento formale di codecisione, sarebbe divenuta l’espressione
della volontà del Re e dei rappresentanti della società, il Parlamento. La nozione di Costituzione flessibile ha
qualche margine di ambiguità: è flessibile nella parte in cui non pretende di essere una regola giuridica, o
almeno una regola capace di imporsi sulle leggi, ma è più che rigida, addirittura irrevocabile, nella parte in cui
attribuisce la sovranità alla legge ed al suo procedimento di formazione.
Le costituzioni rigide pretendono che tutte le loro disposizioni abbiano forza regolativa e siano trattate come
regole inderogabili. Nelle costituzioni del ‘900, risultato di patti tra parti politiche, religiose e sociali, questi
vogliono garantire che la parte ottenente la maggioranza nelle elezioni non si impossessi del potere e non
minacci la sopravvivenza di quelle componenti che si ritrovino in minoranza. Per raggiungere questo obiettivo
è necessario limitare il potere legislativo, impedendo che le scelte compiute da un’occasionale maggioranza
parlamentare cambino le regole del gioco politico, le garanzie delle libertà individuali e dei diritti politici, i
valori che ogni componente ritiene fondamentali ed irrinunciabili. Ogni Costituzione rigida è frutto di un
compromesso e la sua lunghezza è data dall’accordo di ogni componente, a condizione che i suoi interessi
siano garantiti da regole costituzionali.
La Costituzione rigida è dunque una Costituzione garantita dalla prevalenza delle sue regole rispetto a
qualsiasi altra regola. Le garanzie sono di due tipi: il procedimento di revisione costituzionale ed il controllo di
legittimità delle leggi. Per modificare la Costituzione bisogna raggiungere ampi consensi: vanno realizzate le
condizioni simili che hanno permesso l’approvazione della Carta Costituzionale. Ogni Costituzione cerca di
raggiungere un punto di equilibrio tra due esigenze contrastanti: quella della stabilità delle regole
costituzionali e della sottrazione di esse alla volontà delle maggioranze politiche che si alternano al potere e
quella del mutamento, dell’adeguamento delle regole ai problemi che l’esperienza costituzionale pone.
L’introduzione di un processo costituzionale gravoso è legato alla presenza di un’autorità giudiziaria capace di
verificare che le procedure per la modificazione delle leggi costituzionali siano rispettate. Tale autorità
giudiziaria deve essere estranea al gioco politico e non deve possedere carattere rappresentativo.
La Costituzione italiana
La Costituzione italiana repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Essa fu approvata dall’Assemblea
costituente, eletta contemporaneamente al referendum istituzionale. Essa è una Costituzione “lunga”,
risultato di un vasto consenso realizzatosi solo sommando, e non selezionando, le istanze, gli interessi ed i
valori delle diverse componenti. È una Costituzione “aperta”, nel senso che non prevede di individuare il punto
di equilibrio tra i diversi interessi, ma si limita ad elencarli, a giustapporli, lasciando alla legislazione successiva
il compito di individuare il punto di bilanciamento.
Tutte le Costituzioni del ‘900 nascono necessariamente da un compromesso tra diverse forze politiche ed è
questo compromesso che le rende tutte “lunghe” ed “aperte”. La Costituzione viene scritta per fissare le
regole del gioco, regole che non si potranno modificare se non con il consenso di larga parte dei giocatori, e
nella formazione di dette regole la paura di soccombere ha prevalso sul desiderio di imporsi: da qui
l’attenzione assoluta per i diritti delle minoranze, la scelta per il sistema parlamentare, per il sistema delle
garanzie costituzionali e, soprattutto, i limiti oltre il quale la volontà della maggioranza politica non può
andare.
Principi fondamentali: artt. 1-12, rappresentano alcune premesse ideologiche e politiche che i
costituenti hanno trascritto traendole dai loro diversi manifesti;
Parte prima: dove sono contenuti i diritti ed i doveri dei cittadini e poste le garanzie delle libertà
individuali, dei diritti sociali e delle libertà economiche, nonché i modi in cui il popolo esercita la sua sovranità;
Parte seconda: dedicata all’ordinamento e all’organizzazione costituzionale dello Stato (Parlamento,
Presidente della Repubblica, Governo e i loro rapporti reciproci, discipline della pubblica amministrazione,
Magistratura, Regioni ed autonomie locali e Corte costituzionale).
La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 rappresenta il vertice della gerarchia delle fonti
dell’ordinamento italiano. È una Costituzione rigida, il cui mutamento, chiamato revisione costituzionale, è
soggetto ad un procedimento particolare. Con lo stesso procedimento sono approvate anche le altre leggi
costituzionali.
La Costituzione italiana predispone un procedimento di formazione della legge costituzionale che è tra i più
“facili” in confronto con quelli previsti dalle altre costituzioni rigide. Il procedimento per le leggi costituzionali,
disciplinato dall’art. 138 Cost., prevede due deliberazioni successive da parte di ciascuna Camera. In tutto vi
saranno dunque quattro deliberazioni sul medesimo testo: due in ogni ramo del Parlamento.
La prima deliberazione è a maggioranza relativa: basta che i sì superino i no. Siccome in questa fase le Camere
possono apportare al progetto di legge costituzionale qualsiasi emendamento, il progetto è destinato a
viaggiare tra Camera e Senato tante volte quante sono necessarie ad ottenere il voto favorevole di entrambe
sul medesimo testo. La seconda votazione può essere effettuata solo dopo che sia trascorso un periodo di tre
mesi dalla prima. Nella seconda approvazione si aprono due strade alternative. Se il consenso sulla riforma è
così ampio che nella votazione di ciascuna Camera si esprime a favore della maggioranza qualificata dei 2/3
dei membri di essa, la legge è fatta e viene promulgata dal Presidente della Repubblica. Se ciò non avviene,
basta che la legge sia approvata con la maggioranza assoluta, anche se non si tratta di un’approvazione
definitiva: il testo approvato dal Parlamento è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed entro tre mesi dalla
pubblicazione può essere chiesto un referendum popolare che può essere richiesto da 500’000 elettori, cinque
consigli elettorali ed 1/5 dei membri di una Camera. Se nel referendum non è richiesto un quorum minimo di
votanti (al contrario del referendum abrogativo), ed i consensi superano i voti sfavorevoli, la legge viene
promulgata; in caso contrario la volontà della maggioranza parlamentare è vanificata.
I limiti della revisione costituzionale
Non tutta la Costituzione è revisionabile. Vi è almeno un limite “esplicito” alla revisione del testo
costituzionale, posto dall’art. 139: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione
costituzionale”. Sono posti al riparo della revisione anche quei principi come la libertà, l’eguaglianza del voto,
la libertà d’espressione, di associazione, di riunione ecc. che sembrano indispensabili per poter definire
“democratico” un ordinamento politico. La Corte costituzionale distingue così, in seno alle norme
costituzionali, dei “princìpi supremi” che resistono alla revisione costituzionale.
La legge formale è l’atto normativo prodotto dalla deliberazione delle Camere e promulgato dal Presidente
della Repubblica. La “forma” della legge è quindi data dal particolare procedimento prescritto dalla
Costituzione per la sua formazione. Attraverso tale procedimento sono formate le leggi ordinarie e leggi
costituzionali. Il processo di formazione delle leggi costituzionali, infatti, non è altro che la variante aggravata
del procedimento legislativo ordinario. Con l’espressione legge formale si indica quindi sia la legge che occupa
nella gerarchia delle fonti lo stesso gradino della Costituzione (legge costituzionale), sia la legge che occupa il
gradino immediatamente inferiore (legge formale ordinaria).
Gli atti con forza di legge sono atti normativi equiparati dalla legge formale ordinaria, ma non hanno la sua
stessa “forma”. Essi possono sostituirla laddove la Costituzione non ponga una riserva di legge formale.
Le fonti primarie (o ordinarie) comprendono le leggi ordinarie formali e gli atti con forza di legge.
Nel gradino gerarchicamente immediatamente inferiore vi sono le fonti secondarie, costituite dai regolamenti
amministrativi.
“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”, dice la Costituzione all’articolo 70 nel
procedimento di formazione della legge ordinaria. Gli atti con forza di legge rappresentano perciò
un’eccezione alla regola costituzionale.
Gli atti con forza di legge sono tassativamente previsti dalla Costituzione:
PROCEDIMENTO LEGISLATIVO
Il procedimento è una serie coordinata di atti rivolti ad uno stesso risultato finale: la legge formale. Gli atti di
cui si compone il procedimento legislativo sono:
l’iniziativa legislativa;
la deliberazione legislativa delle Camere;
la promulgazione.
L’iniziativa legislativa
L’iniziativa legislativa consiste nella presentazione di un progetto di legge ad una Camera. Esclusivamente
nella Camera dei Deputati, i progetti di legge o proposte di legge governativi si chiamano disegni di legge.
In ogni caso il progetto di legge consta di due parti:
il testo dell’articolato che il proponente sottopone all’esame della Camera, nella speranza che venga
trasformato in legge;
la relazione che accompagna l’articolato e che ne illustra gli scopi e le caratteristiche.
a) iniziativa governativa: il Governo (art. 71.1.) è l’unico soggetto che ha il potere di iniziativa su tutte le
materie, alcune in via esclusiva. Per quest’ultime la Costituzione pone un obbligo d’iniziativa a carico del
Governo (iniziativa doverosa o vincolata). La formazione di un disegno di legge è organizzata anch’essa in un
procedimento: vi è l’iniziativa di uno o più ministri, la deliberazione del Consiglio dei ministri, l’autorizzazione
del Presidente della Repubblica ed il procedimento culmina con la presentazione alla Camera;
b) iniziativa parlamentare: ogni deputato ed ogni senatore può presentare progetti di legge alla Camera
cui appartiene, salvo ovviamente per le materie in cui l’iniziativa è riservata al Governo. Nella prassi è
frequente che le proposte siano sottoscritte dai capi dei diversi gruppi parlamentari;
c) iniziativa popolare: il progetto di legge può essere proposto anche da 50’000 elettori. Non vi sono
limiti all’iniziativa popolare, salve sempre le materie riservate all’iniziativa governativa;
d) iniziativa regionale: i Consigli regionali hanno il potere di presentare progetti di legge alle Camere;
e) iniziativa del CNEL: al CNEL art. 99 Cost. è attribuita l’iniziativa legislativa senza stabilire dei limiti
normativi, ad eccezione di quelli derivanti dalla scarsa funzionalità dell’organo.
L’iniziativa legislativa non crea mai un obbligo per la Camera di deliberare, spetta alla Conferenza dei
capigruppo il potere di selezionare gli argomenti da trattare. La pratica del cosiddetto insabbiamento è il
risultato del disinteresse che i gruppi parlamentari dimostrano nei confronti della proposta.
L’art. 72.1 vieta che un progetto di legge sia discusso direttamente dalla Camera se prima non è stato
esaminato dalla commissione permanente competente. Le funzioni che la commissione permanente è
chiamata a svolgere sono diverse, a seconda della fase del procedimento in cui si trova a lavorare la
commissione stessa.
a) Procedimento ordinario (per commissione referente): spetta al presidente della Camera individuare la
commissione competente per materia. Il Presidente della commissione o un relatore da lui incaricato espone
le linee generali della proposta di legge. Si passa poi alla discussione articolo per articolo e alla votazione degli
eventuali emendamenti (modifiche al testo originale). Alla fine il testo viene approvato assieme ad una
relazione finale, nella quale vengono esposti l’attività svolta e gli orientamenti emersi durante i lavori; viene
nominato un relatore che ha l’incarico di riferire all’aula.
In aula la discussione avviene per tre “letture”; la prima “lettura” è introdotta dai relatori e consiste nella
discussione generale e può chiudersi con il voto di un “ordine del giorno di non passaggio agli articoli”, che
decreterebbe la conclusione (negativa) del procedimento. Altrimenti, senza che ci sia una votazione, si passa
alla seconda “lettura”, che prevede la discussione dei singoli articoli, degli eventuali emendamenti e la
votazione del testo definitivo di ogni articolo. Questa è la fase più lunga e più complessa del procedimento di
approvazione: si procede prima alla votazione degli emendamenti soppressivi dell’articolo, poi di quelli
modificativi ed infine di quelli aggiuntivi. Terminata questa fase l’aula procede alla terza “lettura”, che consiste
nell’approvazione finale dell’intero testo della legge a seguito dell’esame articolo per articolo. Per le votazioni
si procede di regola per voto palese mediante procedimento elettronico; la maggioranza richiesta è quella
semplice o relativa;
b) Procedimento per commissione deliberante (o legislativa). Consente alla commissione di assorbire
tutte le fasi del procedimento di approvazione, sostituendo l’aula: la commissione esaurisce tutte e tre le
“letture” senza che il progetto di legge debba essere discusso e votato dall’assemblea. Data la particolarità di
questo procedimento vi sono alcune garanzie:
- alcune materie sono escluse dal procedimento per commissione deliberante (es: leggi di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, leggi di approvazione dei bilanci ecc). Per tali materie vi è
una riserva di assemblea;
- per la composizione della proposta della commissione, che nel Senato spetta al Presidente e non è
opponibile (alla Camera sì). Le proposte di legge sono di regola assegnate in sede deliberante o in sede
redigente, in nome della “velocizzazione” delle procedure;
c) Procedimento per commissione redigente (o misto). Quest’ultimo procedimento è una via di mezzo
tra i due precedenti: non è previsto dalla Costituzione, ma dai regolamenti parlamentari, con significative
differenze tra Camera e Senato. Questo procedimento serve a sgravare l’assemblea dalla discussione ed
approvazione degli emendamenti, decentrandoli in commissione e riservando all’aula l’approvazione finale.
Valgono per questo procedimento le stesse garanzie del procedimento per commissione deliberante per
quanto riguarda le materie coperte da riserva di assemblea e la richiesta che il progetto sia rimesso all’aula.
Esauriti i lavori in una Camera, il progetto di legge viene trasmesso all’altra Camera. Qui il procedimento di
approvazione ricomincia dall’inizio, essendo libera la seconda Camera di scegliere il procedimento da seguire.
Essa è libera di apportare qualsiasi emendamento al testo approvato dalla prima Camera, con la conseguenza
che questa dovrà esaminare nuovamente il testo del progetto, così come emendato dalla seconda Camera. Il
progetto di legge potrà viaggiare più volte da una Camera all’altra (spola o navetta) sino a quando le due
Camere non abbiano approvato il medesimo testo. Solo a quel punto la fase di approvazione sarà conclusa.
Conclusa la fase dell’approvazione, la legge è perfetta, ma non ancora efficace (cioè produttiva di effetti
giuridici). L’efficacia è data dalla promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, che deve
promulgarla entro trenta giorni. Il Presidente della Repubblica svolge un controllo formale (testo identico) e
sostanziale, egli ha infatti il potere di rinviare la legge alle Camere con messaggio motivato per illegittimità
costituzionale.
E’ da considerare che:
- sia l’atto di promulgazione che l’eventuale messaggio di rinvio devono essere controfirmati dal
Governo, che è quindi in grado di svolgere un controllo cui corrisponde l’assunzione di responsabilità politica;
- il rinvio può essere compiuto una volta sola; il potere di rinvio non è un potere di veto, bensì solo una
forma di “controllo con richiesta di riesame”, superabile dal Parlamento con la riapprovazione della legge
stessa.
Alla promulgazione segue la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, con gli effetti descritti.
Non tutte le leggi sono eguali. Il meccanismo della riserva di legge ha consentito che all’interno della
Costituzione la categoria della legge ordinaria si sia frantumata ed abbia generato alcune figure di leggi.
La Costituzione ha previsto che per disciplinare una determinata materia sia necessario seguire particolari
procedimenti di formazione della legge, più complessi di quelli ordinari (cosiddette leggi rinforzate).
La Costituzione prevede che ognuna di esse abbia una collocazione particolare nel sistema delle fonti, non
avendo esattamente la stessa forza attiva o passiva (capacità di abrogare o essere abrogata dalla legge) delle
altre leggi ordinarie (cosiddette leggi atipiche).
a) è reso più complesso del procedimento ordinario il procedimento di formazione del progetto di legge.
Il Parlamento, infatti, invita il Governo a rinegoziare le norme che si vogliono emendare e solo in seguito si
potrà procedere all’approvazione dell’emendamento;
b) le riforme costituzionali degli ultimi anni manifestano la tendenza ad introdurre ulteriori ipotesi di
leggi rinforzate nel procedimento di formazione della legge. Il primo esempio è dato dal procedimento
particolare che è stato introdotto per l’amnistia e l’indulto. La disciplina del bilancio dell’art. 81 Cost. il quale
prevede ora una legge approvata a maggioranza assoluta;
c) i procedimenti rinforzati sono procedimenti “specializzati”, seguiti per produrre leggi anch’esse
“specializzate”. Rappresentano uno di quei fenomeni che si è cercato di spiegare attraverso l’introduzione del
criterio della competenza; si distinguono dalle leggi comuni sia per forza attiva che per forza passiva, questo
significa che le leggi rinforzate sono anch’esse esempi di fonti atipiche.
Fonti atipiche
Per “fonti atipiche” si intendono quegli atti che non rientrano interamente nel “tipo” della legge ordinaria, pur
avendo la stessa “forma” della legge; la loro “forza” è differente.
La legge di delega è la legge con cui le Camere attribuiscono al Governo l’esercizio del potere legislativo.
Il decreto legislativo (chiamato anche “decreto delegato”) è il conseguente atto con forza di legge emanato
dal Governo in esercizio della delega conferitagli dalla legge.
La legge di delega
La delega di funzioni legislative al Governo è un’eccezione alla regola generale stabilita dall’art. 70 Cost.
a) la delega può essere conferita esclusivamente con legge formale (materia coperta da riserva di legge
formale) e procedimento ordinario;
b) la delega può essere conferita soltanto al Governo, inteso nella sua collegialità;
c) l’art 76 Cost. prescrive i suoi contenuti necessari:
- deve restringere l’ambito tematico della funzione delegata, indicando un oggetto definito. La delega
infatti non può essere generale, bensì circoscritta a determinati argomenti;
- l’ambito temporale della funzione delegata deve essere determinato, indicando un tempo limitato
entro il quale il decreto deve essere emanato. Se il termine previsto per la delega eccede i due anni, il Governo
è tenuto a sottoporre lo schema di decreto delegato al parere delle Commissioni permanenti delle due
Camere;
- ad essere circoscritto è anche l’ambito di discrezionalità del Governo, indicando i princìpi ed criteri
direttivi che servono da guida per l’esercizio del potere delegato. La Corte costituzionale ha più volte ripetuto
che la legge di delega che mancasse di definire i princìpi ed i criteri direttivi sarebbe illegittima: spetta al
Parlamento indicare i princìpi innovativi che il Governo deve seguire. I princìpi ed i criteri direttivi fissati dalla
legge di delega aprono la strada alle norme del decreto delegato: se essi sono carenti, più limitato è il potere
conferito al Governo.
Il potere esecutivo esercita le proprie funzioni attraverso la forma del decreto. La loro formazione segue
questo procedimento:
Di tutte le fasi procedimentali deve essere data indicazione nella “premessa” del decreto. L’art. 14 della legge
400/1988 denomina tali decreti come “decreti legislativi” (abbreviati con d.lgs.) e vengono pubblicati sulla
Gazzetta Ufficiale con la stessa numerazione progressiva delle leggi. La legge 400/1988 prescrive che il decreto
sia presentato alla firma del Capo dello Stato almeno venti giorni prima della scadenza.
Un particolare caso di delega accessoria è quella che autorizza il Governo a coordinare le leggi esistenti in una
certa materia, raccogliendole in un testo unico. È un lavoro prezioso di semplificazione legislativa, perché il
Governo può procedere alla selezione delle norme vigenti, abrogando esplicitamente quelle che ritiene
superflue o tacitamente abrogate.
Il decreto legge è un atto con forza di legge che il Governo può adottare “in casi straordinari di necessità ed
urgenza”: entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma l’efficacia è
provvisoria (ex tunc- retroattiva) finché il Parlamento non li converte in legge entro 60 giorni dalla loro
pubblicazione. L’art. 77 Cost., che regola il decreto-legge, afferma che non può essere conferito per le materie
coperte da “riserva di assemblea”.
Procedimento
Il decreto-legge deve essere deliberato dal Consiglio dei ministri, emanato dal Presidente della Repubblica ed
immediatamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. L’art. 15 della legge 400/1988 prevede che esso sia
pubblicato “con la denominazione di decreto-legge e con l’indicazione, nel preambolo, delle circostanze
straordinarie di necessità ed urgenza che ne giustificano l’adozione, nonché dell’avvenuta deliberazione del
Consiglio dei ministri”.
Il giorno stesso della pubblicazione deve essere presentato alle Camere (anche se sciolte sono convocate e si
riuniscono entro cinque giorni). Presentando il decreto-legge, il Governo chiede al Parlamento di produrre la
legge di conversione di un disegno di legge. Il procedimento legislativo deve concludersi, promulgazione
compresa, entro il termine tassativo di 60 giorni. Il potere di disciplinare il procedimento di conversione spetta
ai regolamenti delle Camere:
- deve essere dato conto dei presupposti di necessità ed urgenza per l’adozione del decreto-legge e
descritti gli effetti prodotti dalla sua attuazione e le conseguenze delle norme da esso recate sull’ordinamento;
- la Commissione referente, a cui il disegno di legge di conversione è assegnato, può chiedere al
Governo di integrare gli elementi forniti nella relazione;
- il disegno di legge è sottoposto oltre che alla Commissione referente competente, al Comitato per la
legislazione “che, nel termine di cinque giorni, esprime il suo parere alle Commissioni competenti”.
L’art 15.3 della legge 400/1988 dispone che il decreto-legge debba disporre di misure di immediata
applicazione ed il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”.
I decreti-legge non convertiti entro 60 giorni “perdono efficacia sin dall’inizio” per decorrenza del termine o
per rifiuto di conversione da parte del parlamento e viene data notizia immediata in Gazzetta Ufficiale. La
perdita di efficacia del decreto-legge è chiamata decadenza. Quest’ultima consiste nell’eliminazione (e non
perdita) degli effetti prodotti in forza del decreto stesso che risulta ormai privo di una base legale. Non sempre
è possibile eliminare gli effetti dei decreti-legge, basti pensare ad importi riscossi dallo Stato, revoca dei
provvedimenti amministrativi ecc. L’art. 77 Cost. appresta due strumenti attraverso i quali è possibile trovare
una soluzione:
a) la legge di sanatoria degli effetti del decreto-legge decaduto; si tratta di una legge riservata alle
Camere con cui si possono regolare i rapporti giuridici sorti sulla base di decreti non convertiti. È il Parlamento
a risolvere il problema, ma vanno considerati diversi aspetti:
- il Parlamento non è tenuto ad approvare la legge di sanatoria, frutto di una decisione di responsabilità
governativa;
- non è una soluzione sempre applicabile, se decade il decreto che ha introdotto una nuova imposta il
Parlamento potrà regolare esclusivamente i modi di restituzione del debito;
b) oltre alla responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento, troviamo qui la
responsabilità giuridica, nei suoi vari tipi:
- penale: i ministri rispondono singolarmente degli eventuali reati commessi con l’emanazione di
suddetto decreto-legge;
- civile: i ministri rispondono solidamente degli eventuali danni prodotti a terzi per qualunque fatto
doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto;
- amministrativo-contabile: i ministri che hanno espresso voto favorevole al decreto-legge rispondono
solidamente degli eventuali danni prodotti allo Stato (danno erariale). Se lo Stato ha dovuto risarcire il danno
subìto dal terzo, si deve rifare sui ministri.
Se i decreti-legge fossero emanati soltanto per le situazioni di calamità e necessità straordinarie, poca
rilevanza avrebbero i problemi teorici che la precarietà del decreto-legge solleva. Con decreto-legge sono state
varate importanti riforme, innescando però un circolo vizioso inarrestabile: il decreto-legge, mosso
dall’esigenza di anticipare gli effetti del provvedimento senza attendere i tempi del procedimento
parlamentare, ha provocato il rafforzamento della sua causa, cioè ha fatto ulteriormente allungare i tempi
medi dell’iter parlamentare. La legge di conversione ha precedenza nell’ordine dei lavori delle Camere: “salta
la fila” dei progetti di legge in attesa, la cui attesa si allunga inevitabilmente sempre di più. Così è invalsa la
prassi della reiterazione del decreto-legge: alla scadenza dei sessanta giorni, il Governo emana un nuovo
decreto-legge, che riproduce quello precedente; si formano così catene di decreti-legge. Ad arginare la prassi
della reiterazione è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 360/1996.
Esistono nel nostro ordinamento altri due decreti che rientrano tra gli atti con forza di legge previsti nelle fonti
primarie. Essi sono l’art. 78 Cost “decreti emanati dal Governo in caso di Guerra” e gli Statuti delle Regioni ad
autonomia speciale.
Gli Statuti delle Regioni speciali, che sono leggi costituzionali, prevedono che all’attuazione dello Statuto e al
trasferimento delle funzioni dallo Stato alla Regione stessa si provveda con un particolare tipo di atto:
mediante un decreto legislativo, emanato dal Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio
dei ministri, su proposta di un’apposita commissione paritetica formata da membri del Governo e
dell’assemblea regionale. Sono atti con forza di legge, a cui è attribuita una competenza specifica e riservata.
Il regolamento parlamentare è l’atto con cui l’art. 64 Cost. riserva la disciplina dell’organizzazione e del
funzionamento di ciascuna Camera. Esso è approvato a maggioranza assoluta dalla Camera e pubblicato in
Gazzetta Ufficiale. I regolamenti parlamentari sono fonti primarie, inferiori soltanto alla Costituzione e dotato
di un ambito di competenza riservato. Attraverso gli stessi si manifesta l’autonomia che caratterizza le Camere,
in quanto organi costituzionali ed indipendenti. L’indipendenza che a ciascuna Camera deve essere assicurata
rispetto agli altri poteri dello Stato, comporta che la riserva di regolamento rappresenti anzitutto un limite alla
sfera di applicazione delle leggi e delle altre fonti dell’ordinamento generale.
I regolamenti parlamentari non hanno relazioni con le altre fonti primarie: essi valgono esclusivamente
all’interno delle aule parlamentari e segnano fisicamente la linea di separazione tra la competenza del
regolamento parlamentare, che vige all’interno di quel perimetro, e le fonti primarie, che valgono fuori.
Essi sono espressione dell’indipendenza garantita al Parlamento, indipendenza anche dalla Corte
costituzionale e dal giudizio di legittimità che ad essa compete.
Il referendum è la richiesta fatta al corpo elettorale di esprimersi direttamente su una determinata questione.
Esso rappresenta uno strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione. Il primo referendum
abrogativo effettuato in Italia, nel 1974, ha avuto ad oggetto la legge sul divorzio. La Costituzione prevede
quattro tipi di referendum. Il referendum abrogativo è lo strumento con cui il corpo elettorale può incidere
direttamente sull’ordinamento giuridico attraverso l’abrogazione di leggi, atti con forza di legge o singole
disposizioni in essi contenute.
Procedimento
Il referendum abrogativo richiede un procedimento lungo e difficile. L’art. 75 Cost. prevede che esso possa
essere proposto da 500’000 elettori o da cinque Consigli regionali.
a) richiesta popolare: l’iniziativa parte dai promotori, un gruppo di almeno dieci cittadini iscritti nelle liste
elettorali, i quali depositano presso la cancelleria della Corte di cassazione il quesito che intendono sottoporre
a referendum; ne viene data notizia in Gazzetta Ufficiale. Entro tre mesi devono essere raccolte, su appositi
fogli vidimati, le 500’000 firme, debitamente autenticate, e devono essere depositate presso la cancelleria
della Cassazione;
- richiesta regionale: i Consigli di almeno cinque Regioni devono approvare la richiesta a maggioranza
assoluta, indicando lo stesso quesito. La richiesta va depositata presso la cancelleria della Cassazione.
Le richieste vanno poi depositate tra il 1° gennaio ed il 30 Settembre di ciascun anno: tuttavia non possono
essere depositate un anno prima della scadenza della legislatura e nei sei mesi successivi alla convocazione dei
comizi elettorali;
b) presso la Cassazione si costituisce l’ufficio centrale per il referendum (composti dai tre presidenti e tre
consiglieri più anziani di ciascuna sezione) che valuta la conformità alla legge delle richieste. Questa fase si
conclude entro il 15 dicembre tramite un’ordinanza;
c) i quesiti dichiarati legittimi vengono trasmessi alla Corte costituzionale per il giudizio di ammissibilità;
d) se la Corte dichiara ammissibile il referendum, il Presidente della Repubblica deve fissare il giorno di
votazione tra il 15 aprile ed il 15 giugno: gli elettori potranno votare sì o no al quesito del referendum
abrogativo;
e) l’Ufficio centrale si accerta che alla votazione abbia preso parte la maggioranza degli aventi diritto al
voto (quorum) e verifica la validità delle schede elettorali, proclamando poi il risultato del referendum. Se
i “no” superano i “sì” lo stesso quesito non può essere riproposto prima di cinque anni;
f) se il risultato è favorevole all’abrogazione, il Presidente della Repubblica, con proprio decreto,
pubblicato in Gazzetta Ufficiale, “dichiara” l’avvenuta abrogazione della legge, dell’atto o della disposizione.
- in caso di scioglimento anticipato delle Camere e riprende un anno dopo le nuove elezioni;
- nel caso in cui, prima dello svolgimento del referendum, la legge venga abrogata: l’Ufficio centrale
dichiara che le operazioni non hanno più corso.
REGOLAMENTI DELL’ESECUTIVO
Con il termine “regolamento” si designano atti normativi di diverse tipologie. Il termine è impiegato per
indicare le varie tipologie di atto normativo. In alcuni casi però, esso sta ad indicare atti tipici, fonti
dell’ordinamento giuridico generale: i regolamenti amministrativi, come i regolamenti dell’esecutivo
(governativi- ministeriali/interministeriali), regionali e degli enti locali.
Fondamento normativo
La Costituzione si limita a disciplinare la formazione della legge formale e gli atti ad essa equiparati. I
regolamenti sono menzionati indirettamente nelle attribuzioni del Presidente della Repubblica. La riforma del
Titolo V della Costituzione ha riservato alle Regioni il potere di autoregolamentarsi in tutte le materie ad
eccezione di quelle in cui lo Stato ha potestà legislativa esclusiva.
Procedimento
Il procedimento di emanazione dei regolamenti governativi è diverso da quello per l’emanazione dei
regolamenti ministeriali: entrambi disciplinati dall’art. 17 della legge 400/1988. I primi vengono deliberati, su
proposta di uno o più ministri, dal Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio di Stato. Si tratta di un
parere obbligatorio, ma non vincolante. Il regolamento viene poi emanato con decreto del Presidente della
Repubblica (d.P.R.). L’atto è così perfetto ed assume efficacia solo dopo aver passato il controllo di legittimità
della Corte dei Conti e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. I regolamenti ministeriali sono emanati dal
ministro (decreto ministeriale: d.m.), sempre previo parere del Consiglio di Stato; con lo stesso procedimento,
ma con decreto interministeriale sono emanati i regolamenti che riguardano materie di competenza di più
ministeri. Sono soggetti alla valutazione del premier, al controllo della legittimità della Corte dei Conti e
pubblicati infine nella Gazzetta Ufficiale. La legge 400/1988 prescrive che tutti i regolamenti rechino nel titolo
la denominazione di “regolamento”.
Tipologia
L’art. 17.1 della legge 400/1988 distingue diverse tipologie di regolamento governativo. Esse si basano sul
diverso rapporto che il regolamento avrebbe con la legge, con la riserva di legge e con le competenze
legislative delle Regioni. Osserviamo dunque:
a) regolamenti di esecuzione delle leggi, sono regolamenti che il Governo adotta per disciplinare le
modalità procedurali per l’applicazione della legge. La loro funzione si limita a predisporre gli strumenti
amministrativi e procedurali necessari a rendere operativa la legge;
b) regolamenti d’attuazione, emanati per l’attuazione o integrazione delle leggi e dei decreti legislativi
recanti norme di principio. La legge deve dettare almeno i princìpi della materia, lasciando poi al regolamento
la disciplina di dettaglio;
c) regolamenti indipendenti: sono emanati nelle “materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o
atti aventi forza di legge”. Sono una figura molto contestata, sospettata di ledere i princìpi della separazione
dei poteri e della legalità dell’amministrazione. Lo spazio di operatività è estremamente limitato e rappresenta
il fondamento di un potere normativo così limitato da non suscitare grande allarme.
d) regolamenti di organizzazione: rappresentano un residuo storico dell’epoca repubblicana, oggi la
materia è coperta da riserva relativa di legge;
e) regolamenti ministeriali (ed interministeriali) possono essere emanati esclusivamente se una legge
conferisce tale potere o un regolamento governativo li prevede.
La “deligificazione”
L’art. 17.2 della legge 400/1988 disciplina i regolamenti “delegati” o “autorizzati”. La loro funzione è quella di
produrre la “deligificazione”, cioè la sostituzione della precedente disciplina di livello legislativo con una nuova
disciplina di livello regolamentare. La delegificazione si propone come rimedio all’espansione ipertrofica della
legislazione ordinaria, rimedio che opera declassando la disciplina della materia dalla legge al regolamento.
La delegificazione muove ad un abbassamento del livello della disciplina normativa che regola una materia,
nella convinzione che, sostituendo la legge con il regolamento, si possa velocizzare l’adeguamento delle regole
alla realtà.