Mussolini Il Capobanda - Aldo Cazzullo
Mussolini Il Capobanda - Aldo Cazzullo
Mussolini Il Capobanda - Aldo Cazzullo
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Mussolini il capobanda
Uno. «Toglietemeli di torno». Storia di Ida Dalser e di Benitino
Due. Il terrorista. Bombe e olio di ricino: i delitti delle camicie nere
Tre. Il pokerista. Cronaca della marcia su Roma
Quattro. La vendetta fascista. Legato al camion e trascinato per la città
Cinque. Vittime. Storia di Giacomo Matteotti, don Giovanni Minzoni, Giovanni
Amendola, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli
Sei. La cappa di piombo. Vita agra sotto il Duce
Sette. Il repressore. Botte, galera, confino e polizia segreta
Otto. Il criminale di guerra. Le stragi fasciste in Libia, Etiopia, Spagna
Nove. Il razzista. Le leggi contro gli ebrei
Dieci. Guerra criminale contro il popolo italiano. Congelati e abbandonati in
Francia, Grecia, Russia
Undici. Il truce. Le atrocità di Salò
Dodici. Il mito del Duce buono
Copyright
Il libro
«C
ent’anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva
nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un
uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto;
persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la
donna che l’aveva messo al mondo».
Comincia così il racconto di Aldo Cazzullo su Mussolini. Una
figura di cui la maggioranza degli italiani si è fatta un’idea sbagliata:
uno statista che fino al ’38 le aveva azzeccate quasi tutte; peccato
l’alleanza con Hitler, le leggi razziali, la guerra.
Cazzullo ricorda che prima del ’38 Mussolini aveva provocato la
morte dei principali oppositori: Matteotti, Gobetti, Gramsci,
Amendola, don Minzoni, Carlo e Nello Rosselli. Aveva conquistato il
potere con la violenza – non solo manganelli e olio di ricino ma
bombe e mitragliatrici –, facendo centinaia di vittime.
Fin dal 1922 si era preso la rivincita sulle città che gli avevano
resistito, con avversari gettati dalle finestre di San Lorenzo a Roma, o
legati ai camion e trascinati nelle vie di Torino. Aveva imposto una
cappa di piombo: Tribunale speciale, polizia segreta, confino, tassa
sul celibato, esclusione delle donne da molti posti di lavoro. Aveva
commesso crimini in Libia – 40 mila morti tra i civili –, in Etiopia –
dall’iprite al massacro dei monaci cristiani –, in Spagna. Aveva usato
gli italiani come cavie per cure sbagliate contro la malaria e per
vaccini letali. Era stato crudele con tanti: a cominciare da Ida Dalser e
dal loro figlio Benitino.
La guerra non fu un impazzimento del Duce, ma lo sbocco logico
del fascismo, che sostiene la sopraffazione di uno Stato sull’altro e di
una razza sull’altra. Idee che purtroppo non sono morte con
Mussolini. Anche se Cazzullo demolisce un altro luogo comune: non
è vero che tutti gli italiani sono stati fascisti. E l’antifascismo
dovrebbe essere un valore comune a tutti i partiti e a tutti gli italiani.
L’autore
MUSSOLINI IL CAPOBANDA
Perché dovremmo vergognarci del fascismo
Mussolini il capobanda
Alla memoria di
don Giovanni Minzoni (1885-1923)
Giacomo Matteotti (1885-1924)
Piero Gobetti (1901-1926)
Giovanni Amendola (1882-1926)
Antonio Gramsci (1891-1937)
Carlo Rosselli (1899-1937)
Nello Rosselli (1900-1937)
e di tutte le vittime del fascismo
Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di
questa associazione a delinquere.
BENITO MUSSOLINI
E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui, ritto sull’ultima
collina, guardando la città, la sera del giorno della sua morte. Ecco
l’importante: che ne restasse sempre uno.
BEPPE FENOGLIO
Cent’anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani
di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo.
Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in
manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo.
Oggi in Italia ci sono gli estimatori di Mussolini: pochi, ma non
pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non
moltissimi. E poi c’è la maggioranza. Che crede, o a cui piace credere,
in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria.
La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le
aveva azzeccate tutte; e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce
aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando
ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi.
Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di
anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù.
Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per
raccogliere «qualche migliaia di morti» ed essere ammessi al tavolo
della pace. Peccato, davvero.
In realtà, non è andata così. E non solo perché i tedeschi avrebbero
fatto volentieri a meno del nostro ingresso in guerra: sapevano di
doverci sostenere su ogni fronte, come poi hanno fatto – dall’Africa
alla Grecia – perdendo tempo, risorse e uomini preziosi. E non solo
perché la frase sulle «migliaia di morti» tradisce una volgarità
d’animo e un cinismo rivoltanti.
La guerra non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La
guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo
giorno. Il fascismo nasce con la guerra e muore (purtroppo non del
tutto) con la guerra. L’idea della violenza come levatrice della storia,
della guerra come modo di imporre una nazione su un’altra, e una
razza sull’altra, accompagna il fascismo dalla sua nascita alla sua
morte (apparente). Il germe del fascismo è già negli spaventosi
massacri della prima guerra mondiale – «trincerocrazia!» ringhia il
Duce –, e nei torbidi dei primi anni del dopoguerra, segnati dagli
scioperi rossi e dalla durissima reazione nera.
Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di
vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri
popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei
campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con
il gas; fa bombardare paesi e città inermi in Spagna; poi ordina le
sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia,
regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei
nostri soldati, ma dell’impreparazione, dell’insipienza, della miseria
morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per
vent’anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a
congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo
scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso
popolo.
Non solo. Nel 1938, lo «statista» Mussolini e i suoi uomini avevano
già provocato la morte di tutti i principali esponenti dell’opposizione:
Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni
Amendola – attaccato cento contro uno –, Carlo e Nello Rosselli.
Avevano bastonato un prete, don Luigi Sturzo. Avevano aggredito un
santo, Piergiorgio Frassati. Avevano incarcerato uno statista vero,
Alcide De Gasperi. Nessuno di loro era comunista. Anche se tra le
vittime va ovviamente ricordato Antonio Gramsci, che si spense in
clinica dopo undici anni passati sotto custodia, senza aver mai
commesso un gesto violento, senza alcuna colpa che non fossero le sue
idee.
Poi, certo, il fascismo non spuntò dal nulla. Lo stesso Gobetti lo
definì «l’autobiografia della nazione». Seppe approfittare con
spregiudicatezza del clima di paura creato dal «biennio rosso»,
seguito al trauma della Grande Guerra e alla rivoluzione bolscevica in
Russia. Molti liberali e molti cattolici si illusero di poterlo usare contro
la sinistra, senza rendersi conto del mostro che avevano contribuito a
rafforzare.
Certo, il fascismo ebbe anche consenso, in particolare negli anni
segnati dalla conquista dell’Etiopia. Ma c’è un altro mito da sfatare.
Non è vero che gli italiani sono stati tutti fascisti. È solo un’altra
sciocchezza autoassolutoria.
È sempre difficile misurare il grado di consenso a una dittatura;
quando non hai alternative, quando non voti se non per finta, quando
devi prendere la tessera del partito per lavorare, quando devi fare
attenzione a non parlare male del dittatore se no ti aspettano sotto
casa e ti sfasciano la testa, ti umiliano davanti ai tuoi figli, ti tolgono
casa, libertà, lavoro. Organizzare un’opposizione era quasi
impossibile, pena il carcere, il confino, l’esilio. Anche per questo il
numero degli antifascisti militanti fu ovviamente ridotto, pur se
prezioso e significativo.
Ma se gli italiani fossero davvero stati tutti fascisti, che motivo c’era
di mantenere una polizia politica e il Tribunale speciale? Che ragione
c’era di imporre un clima plumbeo e soffocante, di perseguitare gli
omosessuali o chiunque venisse percepito come «diverso», di
costringere gli italiani al rituale un po’ retorico un po’ ridicolo del
sabato fascista? Senza dimenticare quel che subirono le donne,
considerate «fattrici» e sottomesse agli uomini: non tutti ricordano che
alle italiane fu reso sempre più difficile lavorare fuori casa, rendersi
indipendenti, decidere del proprio destino.
La bonifica dell’Agro Pontino – iniziata prima del regime e
terminata dopo –, la costruzione di qualche bella casa dell’architetto
Terragni ripagano gli italiani della vita agra che è stata loro imposta
per oltre vent’anni, compresi tre anni di guerra mondiale e due di
guerra civile? Per dirla con lo scrittore Carlo Fruttero: «I fascisti erano
brutti. Tutti neri come corvi, i fez, i teschi, i manganelli, i pugnali, le
brutalità. Orrendi». Neanche Carlo Fruttero era comunista, anzi. Era
torinese, però; e a Torino la vendetta fascista fu particolarmente
crudele.
Dopo la marcia su Roma, dopo aver preso il potere, gli squadristi
sistemarono i conti con i quartieri e con le città che avevano loro
resistito. Per prima cosa assaltarono San Lorenzo, presero i popolani
che avevano tentato di fermarli e li scaraventarono giù dal balcone di
casa: ci furono morti, decine di lavoratori rimasero paralizzati, con la
spina dorsale spezzata. Poi devastarono i quartieri popolari di Torino,
uccisero quattordici operai, forse più, legarono il segretario della
Camera del Lavoro a un camion e lo trascinarono per le strade. Scene
da Far West. Da delinquenti in senso tecnico. Il tutto sapendo di avere
le spalle coperte dal regime che avevano instaurato. Si può
immaginare qualcosa di più vigliacco, di più odioso? Purtroppo, si
può.
La razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti. Ma ad andare a
prendere gli ebrei di Venezia casa per casa – i bambini all’asilo, i
vecchi negli istituti – furono fascisti italiani. Era la notte tra il 5 e il 6
dicembre 1943. Oltre trecento non sono mai tornati dai campi di
sterminio, dove morirono più di ottomila ebrei italiani.
Del resto, fu lo stesso Mussolini a dirlo, in Parlamento: «Se il
fascismo non è stato altro che un’associazione a delinquere, io sono il
capo di questa associazione a delinquere». Certo, lo diceva
provocatoriamente. Ma come delinquenti si erano comportati i fascisti,
fin dagli esordi. E come tali si comporteranno, con il coltello dalla
parte del manico, fino al 25 aprile 1945.
«Capobanda» fu definito Mussolini nel 1923 dal socialista Filippo
Turati, che lo conosceva bene. «Capobanda» lo definì un ventennio
dopo il gerarca Giuseppe Bottai, che lo conosceva benissimo.
I forconi di Sarzana
L’Italia viene conquistata pezzo a pezzo, e le spedizioni punitive si
concentrano sulle zone ribelli. Come le Alpi Apuane, la terra dei
cavatori di marmo, dove resiste una forte tradizione anarchica e
operaia. Il questore di Massa, severo con i fascisti, viene rimosso e
sostituito dal suo vice Giustiniani: il figlio è uno dei capi delle
squadracce. Il procuratore di Massa informa che la magistratura non
procederà contro i fascisti, i quali sentono di avere le mani libere. Il 5
giugno 1921 entrano a Pontremoli, il 12 ripuliscono Portovenere
uccidendo un anarchico.
Sarzana invece resiste. La popolazione non ama i fascisti, a maggior
ragione da quando trenta uomini armati sono entrati in città e hanno
aperto il fuoco a casaccio, uccidendo un settantenne affacciato alla
finestra.
Il 15 luglio viene ucciso in un agguato vicino a Carrara un
imprenditore. È un delitto «rosso», che scatena la rappresaglia nera.
Due giorni dopo, cento uomini distruggono la cooperativa e il circolo
socialista di Monzone, un paesino di montagna, uccidendo due operai
e un contadino. Scrive Mimmo Franzinelli: «La sosta per il pranzo ad
Aulla fu movimentata dalla bastonatura di un anarchico; nel
pomeriggio le squadre si diressero a Santo Stefano di Magra, dove
massacrarono il contadino Edoardo Vannucci e perquisirono diverse
abitazioni alla ricerca di armi (ma l’operazione fruttò denaro e
gioielli). I camion giunsero in serata nei pressi di Sarzana e gli
squadristi freddarono Rinaldo Spadaccini mentre tornava a casa dopo
la pesca pomeridiana». Stavolta le forze dell’ordine reagiscono e
arrestano il capo delle camicie nere, Renato Ricci, con altri dieci
camerati.
I fascisti rispondono, dalla Toscana e dalla Liguria puntano su
Sarzana diverse colonne armate. Un’avanguardia uccide a fucilate un
contadino di Ameglia, al lavoro nei campi. La popolazione si ribella.
Due giovani squadristi, Augusto Bisagno di 19 anni e Amedeo Maiani
di 17, mandati a cercare rinforzi, vengono catturati e linciati. Una
morte orribile: i corpi mutilati e gettati in un burrone saranno
rinvenuti solo dopo una settimana.
Il prefetto di ferro
Il 22 novembre 1921 viene istituito il comando generale dell’esercito
fascista, modellato «sull’organizzazione militare romana». A leggere il
documento non si sa se ridere o piangere. Sembra un esercito da
operetta; in realtà, è una macchina di violenza efficiente e feroce. In
campo aperto sarebbe spazzata via facilmente («in un quarto d’ora»
ironizza il generale Pietro Badoglio); ma nella guerriglia, negli assalti
alle sedi nemiche, nelle bastonature dei dissidenti è un’arma spietata e
sanguinosa nelle mani del capo.
Gli iscritti al partito sono divisi in «prìncipi», soldati attivi, e
«triari», riservisti. Ogni squadra, composta da venti a cinquanta
uomini, ha un capo e due vice, i decurioni. Quattro squadre formano
una centuria, guidata da un centurione; quattro centurie fanno una
coorte, comandata dal seniore; da tre a nove coorti compongono una
legione, guidata dal console.
Ogni squadrista è tenuto a indossare una divisa: camicia nera,
fascia nera o cintura di cuoio, pantaloni con fasce, gambali, fez nero
(facoltativo). Il decurione ha diritto di portare un cordoncino d’oro
lungo cinque centimetri, il caposquadra due cordoncini, il centurione
tre, il seniore un cordone più grande; il console porta un fascio littorio
in campo rosso con la stella d’Italia, e finalmente ai quattro ispettori
generali spetta l’aquila romana, in campo d’argento.
Le teste di legno
in alto e in basso
son state domate
con quattro legnate
lor desti il cervello
o San Manganello.
Un tronco piallato
su teste, su schiene
con forza è cascato
e a posto le tiene
sanato a un tratto
ne fu il mentecatto
tornogli il cervello
per San Manganello.
E se il comunista
solleva la cresta
arriva il fascista
gli rompe la testa
orsù, vivaddio,
chiamatelo dio
ché torna a cappello
di San Manganello.
Un popolo pieno
di tante fortune
non può far a meno
del senso comune
Italia! Hai domato
il bruto arrabbiato!
Evviva il randello
di San Manganello!
Il fatale 28 ottobre
Sabato 28 ottobre è una giornata insolita per Roma. A Roma anche
d’autunno le piogge sembrano temporali: sono frequenti e
improvvise, ma non durano a lungo. Il 28 invece piove quasi di
continuo.
Quattro giorni prima, a Napoli, in piazza del Plebiscito, Mussolini
ha minacciato un’azione destinata a «prendere per la gola la
miserabile classe politica dominante». Alle camicie nere, venute
indisturbate da ogni parte d’Italia per assistere all’annuncio di un
colpo di Stato – qualche giornale scrive che sono 50 mila, il governo ne
calcola 15 mila –, il Duce ha proclamato: «Io vi dico con tutta la
solennità che il momento impone: o ci daranno il governo o lo
prenderemo calando su Roma». Poi si è chiuso nell’hotel più bello
della città, il Vesuvio, per concordare il piano con i più stretti
collaboratori.
L’insurrezione sarà guidata da quattro uomini, che nella retorica
fascista saranno chiamati quadrumviri. Il più interessante è Italo
Balbo: un delinquente, non uno stupido. Ha appena ventisei anni, è il
ras di Ferrara. Picchiatore tra i più spietati, violento al limite della
crudeltà. In pieno regime, porterà in tribunale chi lo indicherà come
mandante del vile assassinio di don Giovanni Minzoni, e perderà la
causa. L’uomo è coraggioso, e lo dimostrerà trasvolando in aereo
l’oceano Atlantico, e anche prendendo posizione contro le leggi
razziali e contro l’entrata in guerra al fianco di Hitler. Mussolini non
apprezza. All’ingresso dell’Italia in guerra, Balbo riunirà la famiglia
per avvertire: «Io non ne uscirò vivo». Pochi giorni dopo verrà
abbattuto nel cielo di Tobruch dalla contraerea italiana, molto
probabilmente per errore.
Alla vigilia della marcia su Roma, Balbo ha spiegato la sua
strategia, basata sull’«esaltazione della violenza come il mezzo più
rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario. Davanti
all’ideale conquista dello Stato, nessuna borghese ipocrisia e nessun
sentimentalismo: l’azione rude e aspra, condotta a fondo, a qualunque
costo». Questa è la morale fascista: «Siamo i più forti perché più decisi.
E i più forti hanno sempre ragione».
Gli altri quadrumviri sono Michele Bianchi, quarant’anni,
calabrese, di salute fragile: ex socialista, squadrista, massone,
segretario del partito. Emilio De Bono, 56 anni, di Cassano d’Adda,
generale nel conflitto ’15-18: ha scelto Mussolini dopo essersi proposto
come ministro della Guerra ai popolari di don Sturzo, forse anche ai
socialisti di Turati. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, 38 anni,
piemontese: D’Annunzio, suo grande estimatore, lo definisce «una
nullità tonante» e anche «un cazzo con i baffi».
A Bianchi restano solo sette anni di vita; oggi una piazza a Cosenza
porta il suo nome. De Vecchi e De Bono voteranno contro il Duce, al
Gran Consiglio del 25 luglio 1943: ma il primo avrà l’accortezza di
mettersi sotto la protezione di Badoglio e del re; il secondo finirà in
mano ai tedeschi e sarà fucilato.
Nel fatale ottobre del 1922, però, nessuno di loro presagisce la
sventura che li attende. Anzi, i quadrumviri si sentono pronti a grandi
imprese. Coordineranno l’azione da Perugia, sempre dall’hotel più
bello della città: il Brufani, in cima al colle che domina mezza Umbria.
Da lì terranno i contatti con le squadre che dovranno occupare
prefetture, questure, stazioni, uffici postali, e con le colonne che
caleranno sulla capitale. Mussolini resterà prudentemente a Milano,
nella redazione del Popolo d’Italia, ad attendere gli sviluppi. Ma
almeno una notte la passerà al Soldo, la villa vicina al lago di Como
della sua amante Margherita Sarfatti, a due passi dalla frontiera
svizzera: una via di fuga ideale, se non dovesse mettersi bene. Una via
di fuga, quella verso la Svizzera, che tenterà – invano – alla fine della
sua avventura, più di vent’anni dopo.
Al governo a Roma c’è un uomo debole: Luigi Facta, 61 anni,
piemontese di provincia come Giolitti, di cui è fedele seguace. Molti
sono convinti che stia tenendo in caldo la poltrona per il capo, che
proprio venerdì 27 ottobre ha compiuto ottant’anni.
La fragilità dell’esecutivo è tale che, quando Mussolini ha costituito
la Milizia, vale a dire un esercito privato ai suoi ordini, lo Stato non ha
mosso un dito. Il 3 ottobre il futuro Duce ha fatto pubblicare il
regolamento della Milizia sul suo quotidiano. Poi ha commentato con
i suoi: «Se in Italia ci fosse un governo degno di questo nome, oggi
stesso dovrebbe mandare qui i suoi agenti e carabinieri, scioglierci e
occupare le nostre sedi». Nulla di tutto questo accade; anzi, nessuno ci
pensa.
I socialisti sono ormai fuori dai giochi. Hanno 123 deputati (appena
quindici i comunisti), ma sono troppo divisi. A inizio ottobre si sono
riuniti a congresso, e ne sono usciti con l’ennesima scissione: i
riformisti guidati dal leader storico, Filippo Turati, sono stati cacciati e
hanno creato il partito socialista unitario. Tra loro c’è un giovane
deputato di Rovigo, risoluto avversario del fascismo. Il suo nome è
Giacomo Matteotti.
Il re è in vacanza, nella tenuta toscana di San Rossore. Facta è
indeciso a tutto. Mercoledì 25 ha telegrafato a Vittorio Emanuele III:
«Credo che nota calata a Roma sia definitivamente tramontata». Poi
però si è preso paura, e nella notte tra giovedì e venerdì ha chiesto al
sovrano di tornare nella capitale. È andato ad accoglierlo alla stazione
Termini, poi ha parlato a lungo con lui nella sua residenza di Villa
Savoia, la palazzina nel parco di Villa Ada (oggi ospita l’ambasciata
egiziana) che il sovrano preferisce al fasto del Quirinale.
Facta ne esce rinfrancato. Non dubita che il re sia dalla sua parte, e
che Mussolini stia bluffando. Preferisce non tornare al Viminale, sede
del governo, anzi manda gli uscieri a dormire; e si ritira pure lui
nell’albergo dove risiede, l’hotel Londra, in via Nazionale. Quando
Giuseppe Beneduce, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
va ad avvertire Facta che l’insurrezione fascista è cominciata, lo trova
in camicia da notte.
Minacce al Corriere
Alla notizia che il Corriere non uscirà, molti lettori lasciano in via
Solferino messaggi di protesta e di incoraggiamento per il direttore
Albertini. Il libro di Di Pierro cita in particolare quello di Giacinto
Motta, consigliere delegato di Edison: «Per carità, faccia ogni sforzo
perché non si aggiunga anche questa debolezza alla sciagurata
situazione presente! Il Corriere è il pane spirituale non di Milano
soltanto. Oggi ho parlato con un centinaio di persone. Sono tutti
concordi nel ritenere indispensabile la resistenza. Che non si abbia
domani la sensazione della vittoria avversaria! Sarebbe la fine per
tutto quanto di buono ci ha animato fin qui. Ecco la mia ardente
invocazione».
Già nel fatale autunno del 1922, però, c’è qualcuno che dice no a
Mussolini. Cocco Ortu, l’ottantenne giolittiano che aveva messo
invano in guardia il re, non vota la fiducia e si dimette da capogruppo
alla Camera. Sui quotidiani si levano voci critiche. Luigi Salvatorelli,
su La Stampa di Torino, e Mario Missiroli, su Il Secolo di Milano,
protestano contro le violenze che limitano la libertà dei giornali. Luigi
Albertini rifiuta la nomina di ambasciatore a Washington; Alfredo
Frassati, editore della Stampa, lascia l’ambasciata di Berlino. Si
dimette anche l’ambasciatore a Parigi, Carlo Sforza. Mussolini lo
convoca a Roma, tenta invano di fargli cambiare idea, e alla fine lo
apostrofa: «Ma lei non ha capito ancora che posso farla mettere al
muro con dodici pallottole?». Sforza non si lascia impressionare: «E
poi? Chi si troverà nell’imbarazzo sarà lei». Ignora che tra poco
Mussolini dimostrerà di non avere esitazioni a far bastonare e anche
uccidere i suoi oppositori.
Quattro
La vendetta fascista
Legato al camion e trascinato per la città
GIUSTIZIA E LIBERTÀ
PER QUESTO MORIRONO
PER QUESTO VIVONO.
Sei
La cappa di piombo
Vita agra sotto il Duce
A scuola di fascismo
Il Duce si ripropone di creare l’italiano nuovo, l’italiano fascista.
L’italiano nuovo deve muoversi come lui, per linee rette, sempre in
tensione, gli occhi fissi in avanti, la pancia in dentro, la testa eretta un
po’ all’indietro. Soprattutto, l’italiano nuovo deve pensare come lui.
La scuola deve diventare fascista. Il Duce lo dice apertamente:
«Quello che è avvenuto nell’ottobre del 1922 non è un semplice
cambiamento di ministero, ma è una profonda rivoluzione politica,
morale, sociale». Tutto deve cambiare. «Il Governo esige che la scuola
non sia, non dico ostile, ma nemmeno estranea al fascismo o agnostica
di fronte al fascismo. Esige che tutta la scuola, in tutti i suoi gradi e i
suoi insegnamenti, educhi la gioventù italiana a comprendere il
fascismo, a rinnovarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato
dalla rivoluzione fascista».
Un clima plumbeo, oppressivo, conformista, segnato dalla censura,
dalla violenza permanente, dalla rappresaglia. Manca qualsiasi forma
di circolazione delle idee, con la stampa imbavagliata, i partiti
soppressi, le associazioni vietate.
Non si fa informazione, ma propaganda. E la propaganda fascista a
volte si rivela rozza e grottesca; a volte anticipa il nostro tempo,
perché il Duce ha capito una cosa fondamentale: «La disposizione
dell’uomo moderno a credere è incredibile».
Le cattive notizie sono abolite. I delitti e gli scandali non sono
ovviamente scomparsi; ma è vietato parlarne (non a caso dopo la
Liberazione ci sarà un boom di riviste specializzate in gialli e omicidi,
tra cui una intitolata Crimen). Il Duce in persona rimprovera il
prefetto di Milano per non aver sequestrato un giornale,
l’Ambrosiano, reo di aver messo in un titolo la parola «camorra».
Tutti sono inquadrati in una scala gerarchica, che dal Duce arriva
fino al capo caseggiato, pronto a riferire a chi di dovere le opinioni e la
vita privata degli inquilini.
Tutti, non solo i militari, devono indossare la divisa. Tutti, dai
dipendenti pubblici ai giovani: avanguardisti, balilla, figli della lupa,
che hanno appena sei anni. Gli impiegati ne hanno almeno una, i
gerarchi decine, autarchiche o coloniali, militari o fasciste. Ma la cosa
più importante, ripete il Duce, è che «gli alunni indossino la camicia
nera anche spiritualmente».
Gli insegnanti non sono più insegnanti, bensì «apostoli e sacerdoti»,
cui toccano «responsabilità tremende e ineffabili: quelle di lavorare sul
cervello, sulla coscienza, sull’anima».
Ai bambini vengono assegnati temi dal titolo: «Perché amo il
Duce». A un ragazzino di Napoli che sostiene – forse perché viene da
una famiglia antifascista, forse per spirito di contraddizione – di non
amare il Duce arriva la polizia a casa.
Nascono cattedre universitarie di mistica fascista. Tutti i professori,
come ogni dipendente pubblico, devono avere la tessera del partito. E
il partito è un luogo da cui non si torna indietro, l’articolo 33 dello
Statuto prevede: «Il Fascista che viene espulso dal Partito Nazionale
Fascista deve essere messo al bando della vita pubblica».
L’acronimo Pnf viene riletto come «per necessità familiare». Per
esservi ammessi, i giovani devono recitare una formula solenne:
«Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con
tutte le mie forze e, se è necessario, col mio sangue la causa della
Rivoluzione Fascista».
Anche negli altri luoghi di confino, sulle isole o nei paesi sperduti
dell’Appennino abruzzese, lucano, calabrese, la vita degli antifascisti è
durissima. Il trasferimento avviene in catene, a volte attraverso mezza
Italia, con lunghi e penosi tragitti in treno, affinché sia chiaro che i
confinati sono di fatto prigionieri. All’arrivo vengono loro sottratti i
documenti, sostituiti da un libretto con le generalità, da mostrare
durante il soggiorno coatto. Possono muoversi soltanto a certe ore e
lungo certi percorsi, sempre sotto sorveglianza. Non possono stringere
nessuna relazione con gli abitanti del posto, se non per lo stretto
necessario. Qualche fortunato, come Carlo Levi, può affittarsi una
casetta. Altri stanno tutti insieme dentro grandi dormitori, in
condizioni igieniche pietose. Non ci sono cure mediche.
Alcuni divieti sono chiaramente vessatori e crudeli. Proibito
possedere un mazzo di carte, scrivere lettere tranne quella famosa alla
settimana, parlare una lingua straniera, avere in tasca più di cento lire,
parlare di politica, commentare fatti d’attualità, entrare in un bar,
andare al cinema o a teatro. Serve l’autorizzazione anche per entrare
in chiesa a pregare.
I confinati non possono lavorare. Per non farli morire di fame, il
regime passa loro una piccola cifra, detta «la mazzetta», che allo
scoppio della seconda guerra mondiale viene dimezzata. Molti la
mettono in comune, per cercare di procurarsi tutti insieme qualche
razione di cibo decente. La situazione è particolarmente drammatica
per operai e contadini, che hanno lasciato le famiglie nella miseria
assoluta.
Con un misto di narcisismo e volgarità d’animo, il Duce alla
Camera rivela che molti confinati politici gli hanno scritto «per
implorare mercé». Il suo non è terrore; «è igiene sociale, profilassi
nazionale. Si levano quegli individui dalla circolazione come un
medico toglie dalla circolazione un infetto». Poi, rivolgendosi
idealmente agli antifascisti, grida con la mascella di fuori: «Sepolcri
imbiancati! Siete sepolcri pieni di fetido elemento!».
I gerarchi ladri
Un altro mito da sfatare è che i fascisti fossero onesti.
In realtà, il malaffare era diffuso. Certo, in Italia è sempre stato così.
Ma l’impossibilità dell’alternanza al potere, il blocco al ricambio delle
classi dirigenti non potevano che peggiorare la situazione.
Un partito si prendeva lo Stato, una banda – e il suo capo –
diventavano padroni di tutto. Le clientele si allargarono; i fondi
pubblici finirono al Pnf e ai suoi gerarchi; gli squadristi vennero
sistemati nelle imprese di Stato.
Scrive Renzo De Felice, il biografo che ha avuto il merito di
inquadrare la storia del Duce nel contesto storico: «A parole Mussolini
era per un’intransigenza morale assoluta … Questa regola in realtà
l’applicava però solo con i “pesci piccoli” … Tutt’altro atteggiamento
teneva, invece, nei casi più gravi, che riguardavano personalità in
vista e che potevano suscitare scandalo».
Appena conquistato il potere, Mussolini scioglie la commissione
parlamentare d’inchiesta sui profitti della prima guerra mondiale. È
vero che il Duce ha tuonato per anni contro i «pescicani» e i
profittatori che si sono arricchiti mentre i figli del popolo morivano
nelle trincee; ma poi il fascismo è stato sostenuto proprio da quelle
forze che la commissione avrebbe potuto colpire. Le banche che
finanziavano Mussolini erano le stesse che finanziavano l’industria
pesante. E fin dall’inizio i provvedimenti del regime, al di là della
retorica sull’Italia proletaria, favoriscono i grandi capitali e i grandi
patrimoni.
Per sapere quanto avessero rubato i fascisti, bisognò ovviamente
attendere che il fascismo cadesse. Come scrivono Mauro Canali e
Clemente Volpini nel loro fondamentale saggio «Mussolini e i ladri di
regime», l’inchiesta sugli arricchimenti, iniziata dopo il 25 luglio 1943
e durata anni, accerterà profitti illeciti per 118 miliardi di lire, quasi 40
miliardi di euro; l’erario riuscirà a recuperarne appena un decimo.
Già il mattino del 26 luglio, la folla penetra nella villa dell’ex
federale di Torino, Andrea Gastaldi. Trova diciotto chili di zucchero,
altrettanti di nocciole, venticinque chili di riso, 223 bottiglie di vino
scelto, trenta di liquori, e poi scatole di conserve, di carne, sardine,
pesche sciroppate, miele, biscotti… L’ex capo del fascismo torinese
viene denunciato per accaparramento di merci vincolate.
Piero Calamandrei, in quell’estate del 1943, racconta nel suo diario
la storia di Umberto Puppini, che nove anni prima era stato nominato
ministro delle Comunicazioni, cui spettava tra l’altro approvare il
bilancio della Provvida, un’associazione di impiegati statali. Infilata
nel bilancio, il ministro trova una busta con un assegno da un milione.
Gli spiegano che è il solito contributo che ogni anno viene dato al
ministro di turno. Puppini rifiuta e racconta tutto a Mussolini. Il Duce
lo ascolta e gli chiede: «Voi dunque questo assegno non lo volete? Ciò
vi fa onore; ritiratevi pure, darò io disposizioni in proposito». Il giorno
dopo il ministro Puppini trova sulla scrivania una lettera in cui si
accettano le sue dimissioni.
Nel giro di pochi giorni, in quell’estate di ritrovata libertà, la
commissione che dovrebbe investigare sui gerarchi riceve centinaia di
segnalazioni. Terreni comunali venduti sottocosto agli amici, stipendi
del tutto fuori mercato, tangenti da dividere con progettisti, impresari,
procacciatori d’affari e familiari di tutti questi potenti, orologi d’oro
che non si trovano più…
Quando però dopo l’8 settembre 1943 Mussolini torna al potere –
sia pure dall’esilio dorato del lago di Garda –, decide di proseguire
l’indagine iniziata dal governo Badoglio. Non vuole insabbiare
un’inchiesta decisamente popolare, e apparire così il complice, se non
il capo, dei ladri. Ma su 2075 indagati, solo sei vengono condannati.
Tra questi, quattro sono gerarchi che hanno votato contro Mussolini al
Gran Consiglio, la notte del 25 luglio: Grandi, Acerbo, Bottai e Alfieri.
Il Duce e Margherita
Tra le vittime delle leggi razziste c’è Margherita Sarfatti. Mussolini
non esita a far perseguitare e trattare da persona non degna la donna
che l’ha amato di più, e a cui più deve.
Margherita Sarfatti non è stata solo una tra le tante amanti del
Duce. Prima critica d’arte italiana, amica dei grandi artisti del tempo,
da Umberto Boccioni a Mario Sironi, è stata lei a introdurlo nel salotto
di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, i capi del socialismo italiano. È
stata lei a finanziare la marcia su Roma e a convincere un Mussolini
impaurito a rischiare. Gli ha insegnato tutto sull’arte, i libri, financo
sul modo di stare a tavola. Gli ha scritto lettere piene d’amore,
accettando la sua scelta di restare con la moglie e anche i suoi
tradimenti. E ha scritto un libro, «Dux», un best-seller internazionale,
che ha forgiato il mito del Duce anche all’estero.
Mussolini l’ha usata e l’ha abbandonata quando non gli serviva più.
Nella fase dell’ascesa ha preso da lei tutto quello che poteva dargli:
appoggio morale, sostegno culturale, denaro. Ma fin dai primi anni
del potere l’ha tenuta a distanza. Non le ha dato retta neppure quando
lei aveva ragione.
Nel 1934 Margherita va in America. Scrive su Time e Life, i giornali
del gruppo Hearst. È amica di Diego Rivera, che aveva appena visto
distruggere l’affresco al Rockefeller Center in cui aveva ritratto Lenin
nel tempio del capitalismo. Soprattutto, il presidente Roosevelt
conosce il suo rapporto con Mussolini. La riceve, e le affida un
messaggio per il Duce: l’America non gli è nemica; ma lo diventerebbe
se lui si gettasse tra le braccia di Hitler. Al ritorno a Roma, la Sarfatti
chiede udienza al suo antico amante, che a lungo rifiuta di incontrarla.
Quando finalmente accetta, la ascolta con impazienza, e la liquida
sbuffando: «L’America non conta». Insomma, Mussolini non ha capito
in quale direzione vanno il mondo e la storia.
L’anno dopo il Duce attacca l’Etiopia. Ad ascoltare la dichiarazione
di guerra c’è anche Margherita Sarfatti, che scuote il capo. L’amico che
la accompagna le chiede: «Donna Margherita, pensa che perderemo la
guerra?». E lei: «No, purtroppo credo che la vinceremo; e lui perderà
la testa».
La sua grande paura, l’alleanza con l’antisemita Hitler, prende
corpo. Per tentare di evitarla, la Sarfatti cerca l’appoggio di Gabriele
D’Annunzio, anch’egli contrario all’abbraccio fatale con la Germania
nazista. Gli scrive lettere preoccupate e appassionate, va a incontrarlo.
Ma il Vate è ormai vecchio e malato. Muore il primo marzo 1938.
Due mesi dopo, Hitler è a Roma. La Sarfatti è invitata al
ricevimento offerto dalla famiglia reale per l’alleato tedesco.
Margherita è donna sensibile e intelligente: vede il Führer, lo ascolta,
ha la conferma dei peggiori sospetti: quell’uomo è un diavolo; e il
Duce che lei ha creato sta per affidarsi a lui, per giocare la partita
finale al suo fianco, sulla pelle dell’Europa e del popolo ebraico.
Margherita è sconvolta. Disperata. Beve. Afferra un bicchiere da ogni
vassoio che passa. Si ubriaca. Il principe Umberto si preoccupa per lei
e la fa riaccompagnare a casa dall’autista. Mussolini neppure se ne
accorge: ha altro per la testa. Semmai i suoi occhi sono per Fiammetta,
la figlia della Sarfatti. E ovviamente per la propria giovanissima
amante: Clara Petacci, che passerà alla storia come Claretta.
La Petacci è gelosa del prestigio della Sarfatti e dell’influenza che
ha avuto sul suo «Ben». Per rabbonirla, lui arriva alla volgarità di dirle
che «puzzava»; e in ogni caso non l’ha mai amata, quell’ebrea. Non un
crimine, come chiudere e far morire in manicomio Ida Dalser e il figlio
Benito Albino; ma comunque un comportamento spregevole.
Finito il ricevimento al Quirinale, all’una di notte, Hitler chiede una
donna. Sconcerto e panico a Palazzo. Poi si chiarisce l’equivoco: non
vuole una prostituta, ma una cameriera; il capo del Terzo Reich non
riesce a prendere sonno, se non vede con i suoi occhi una donna
rifargli il letto. Così almeno scrive Galeazzo Ciano, riferendo il
racconto del re, secondo cui «Hitler si fa iniezioni eccitanti e di
stupefacenti». Mussolini si limita ad annotare che il Führer ravviva le
guance con il rossetto, per attenuare il suo inquietante pallore.
Il tempo dell’amore per Margherita è sideralmente lontano. A
Paolo Thaon di Revel, suo vecchio ministro e uomo del re, il Duce
ricorda di aver avuto un’amante ebrea: «La Sarfatti, donna
intelligente, fascista, madre di un autentico eroe». Roberto Sarfatti si
era arruolato volontario nella Grande Guerra a 17 anni ed era caduto
in combattimento. «Eppure, cinque anni fa,» prosegue il Duce
«prevedendo che il problema ebraico si sarebbe imposto anche a noi,
io ho provveduto a liberarmene. La feci licenziare dal Popolo d’Italia e
dalla direzione di Gerarchia… con regolare liquidazione, s’intende».
Dopo le leggi razziste, Margherita Sarfatti fugge. Spera di
raggiungere gli Stati Uniti, ma non ci riesce, e si rifugia in Sud
America. Sua sorella Nella morirà ad Auschwitz.
Lei tornerà dall’esilio solo nel 1947. Ormai è condannata alla
damnatio memoriae: in pochi – da Indro Montanelli a Renzo De Felice
– sono disposti a riconoscerle il ruolo che ha avuto nella critica d’arte e
nella cultura italiana. Nessuno nel nostro Paese pubblicherà il libro
che scrisse in Sud America, intitolato «Mea culpa», che uscirà
postumo negli Stati Uniti, con il titolo «My fault». Il suo errore era
stato creare l’uomo che l’ha distrutta; e l’Italia con lei.
Verso l’abisso
Nel 1939 compaiono nelle vetrine dei negozi delle città italiane cartelli
che vietano l’ingresso agli ebrei. Un commerciante di macchine da
scrivere accanto al Battistero di Firenze precisa che l’ingresso è vietato
«ai cani e agli ebrei». Le violenze per il momento sono soltanto
verbali. Mussolini si scaglia contro i «pietisti», che non dimostrano
sufficiente odio razziale.
Renato Cingoli è un medico. È stato capitano nella Grande Guerra,
lavora per istituzioni pubbliche. Lo licenziano, gli tolgono le
decorazioni meritate al fronte. Per sopravvivere esercita privatamente;
lo cancellano dall’ordine dei medici. Il primo giugno 1940 il pretore di
Alessandria lo multa per esercizio abusivo della professione: ha
prestato gratuitamente soccorso in un caso di urgenza.
A Novellara il cavaliere Carlo Segré, uomo anziano e rispettato, si
trova adesso ai margini della società, i conoscenti non lo salutano più
per strada. Una sera, al teatro comunale, giovinastri in camicia nera lo
apostrofano: «Oh te, rabbi, seneghin!», ehi tu, rabbino, ebreuccio!
Carlo Segré si suicida con il veleno il 6 giugno 1939.
Nonostante le censure e i divieti, le voci sui suicidi degli ebrei
circolano, si aggiungono particolari, diventa difficile distinguere il
vero dal falso o dal verosimile. Si racconta di un colonnello ebreo che
ha preso congedo dalle sue truppe, ha ringraziato per l’affetto
ricevuto, chiesto perdono per le proprie mancanze, annunciato di
voler partire per un lungo viaggio; e si è ucciso.
Un’informativa di polizia del 30 giugno 1939 è intitolata «Il
disfattismo provocato dagli EBREI che minacciano di togliersi la vita».
E fa i nomi, oltre che dell’editore Formiggini, del colonnello di Stato
maggiore Giorgio Morpurgo, del minore dei fratelli Funari, argentieri
a Roma in via Frattina. Inoltre riferisce voci su quattro ebrei stranieri
che si sarebbero suicidati a Taormina «spiccando un salto dalla
roccia», e addirittura di un bastimento di duemila ebrei tornato in
porto vuoto a Trieste dopo aver raggiunto il largo. «Tali voci hanno
un effetto disfattista» ammonisce un informatore «anche perché
ritengo un po’ ingenuo credere di poter cambiare il temperamento
naturalmente sentimentale degli italiani». Vi contribuiscono i
sacerdoti, con il loro «pietismo».
Di sicuro, molti se ne vanno. Tra il ’38 e il ’41 lasciano il nostro
Paese seimila ebrei, di cui metà italiani. Mussolini se ne rallegra, e nel
febbraio 1940 scrive al nuovo presidente dell’Unione delle comunità
israelitiche, Dante Almansi, che gli ebrei italiani devono andarsene
gradualmente ma definitivamente, tutti.
Neppure lo sport è risparmiato. L’allenatore del Bologna è un ebreo
ungherese, Árpád Weisz, in Italia da molti anni. Alla testa dei
rossoblu ha vinto due scudetti, dopo quello conquistato con l’Inter. Il
regime l’ha già costretto a cambiare la grafia del suo cognome in
Veisz; la moglie Ilona, anche lei ebrea ungherese, è diventata Elena.
Hanno due figli, nati a Milano, Roberto e Clara. Il presidente Renato
Dall’Ara, l’uomo cui è dedicato lo stadio della rossa Bologna,
obbedisce alle leggi fasciste e lo licenzia in tronco. Weisz è costretto a
lasciare l’Italia. Trova lavoro in Olanda. Ma con la guerra i nazisti
arrivano anche lì. Prendono lui, sua moglie, i suoi figli, e li portano ad
Auschwitz. Elena, Roberto e Clara finiscono subito nelle camere a gas.
Árpád sopravvive per quindici mesi in un campo di lavoro: una lunga
discesa agli inferi, interrotta dal ritorno ad Auschwitz. La morte arriva
come una liberazione.
Per fortuna il presidente del Grande Torino, Ferruccio Novo, è
uomo di un’altra tempra. Anche lui ha un allenatore ebreo, Ernest
Erbstein; ma non si lascia intimidire dal regime, e rifiuta di mandarlo
via. Quando il clima si fa più pesante, organizza uno scambio di
allenatori con il Feyenoord di Rotterdam; ma è sempre Erbstein a fare
la campagna acquisti del Toro. Finita la guerra, Novo lo attende al
Filadelfia per nominarlo direttore tecnico. Insieme vinceranno quattro
scudetti, e Ernest Erbstein troverà la morte sulla collina di Superga.
La caduta
La mattina del 5 marzo 1943 gli operai di Mirafiori, umiliati da tre
anni di squadrismo e vent’anni di regime, entrano in sciopero. In
poche ore la protesta contro la guerra si estende alle altre fabbriche di
Torino, il giorno dopo a Milano. Mussolini è cauto. Ordina una serie
di arresti; i sospettati di appartenere al partito comunista sono
mandati al confino; ma la Milizia non si muove, nessuno osa sparare
sulla folla.
I gerarchi cominciano a dubitare della sua salute mentale. Arriva la
notizia della caduta di Tripoli, italiana da oltre trent’anni; per
compiacerlo, lo accolgono comunque al grido di «vinceremo!», ma lui
si risente: «Non capite nulla, noi abbiamo già vinto!».
Il 9 marzo Mussolini riceve Rommel e gli intima di tenere la Tunisia
«a ogni costo». Il maresciallo gli spiega come stanno le cose. Gli
angloamericani avanzano sia dalla Libia sia dall’Algeria: l’Africa è
perduta. Il Duce si irrita: nel cassetto ha una medaglia d’oro per il
maresciallo, ma decide di tenersela. Rommel – non un oppositore; un
generale nazista – ne dà un giudizio severo: «Ora il Duce vedeva
svanire i suoi sogni, era un’ora amara per lui, ed era completamente
incapace di addossarsene le conseguenze. Forse avrei dovuto parlargli
alla fine differentemente; ma ero così cordialmente disgustato da tutto
questo eterno ottimismo che proprio non riuscii a farlo».
Mussolini si esibisce per l’ultima volta sul balcone di piazza
Venezia. Il tono all’inizio è patetico: «La grande impresa non è finita; è
semplicemente interrotta. Io so, io sento che milioni e milioni di
italiani soffrono di un indefinibile male, che si chiama il male d’Africa.
Per guarirne non c’è che un mezzo: tornare. E torneremo». Poi si fa
torvo: «Gli imperativi categorici del momento sono questi: onore a chi
combatte, disprezzo per chi si imbosca, piombo per i traditori di
qualunque rango e razza».
Gli avvenimenti incalzano. Il 12 maggio gli italiani si arrendono in
Tunisia. Il Paese è depresso, alla fame. Mussolini se la prende con la
parte «deteriore della nazione, composta da tutti coloro che sono
minorati fisici e minorati morali, da tutti coloro che sono ciechi, storpi,
sdentati, cretini, imboscati, deficienti. Tutti costoro, siccome non
hanno mai fatto la guerra, siccome non potranno mai fare la guerra,
trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si
doveva fare». Gli angloamericani bombardano le città indisturbati,
senza che l’aviazione o la contraerea reagiscano. Il Duce progetta di
ricostituire le squadre d’azione per colpire chi si oppone alla guerra.
L’11 giugno Pantelleria si arrende agli inglesi senza sparare un colpo.
Mussolini ordina: «Bisogna avere il coraggio, cari camerati, di
prendere per il collo i disfattisti, di denunciarli».
La situazione precipita. Il Duce proclama che il nemico non metterà
mai piede sul suolo italiano, e in ogni caso sarà «congelato su quella
linea che i marinai chiamano del bagnasciuga, la linea della sabbia,
dove l’acqua finisce e comincia la terra»; ma il bagnasciuga in realtà è
una parte della barca; il Duce l’ha confusa con la battigia. Fatto sta che
nella notte tra il 9 e il 10 luglio si presenta al largo della Sicilia la più
grande flotta d’invasione della storia (sarà superata solo l’anno
successivo, al tempo dello sbarco in Normandia). La resistenza è
sporadica.
Il 19 luglio i bombardieri nemici violano per la prima volta Roma:
San Lorenzo, il quartiere che nel 1922 aveva resistito ai fascisti, viene
raso al suolo, compresa la basilica. Il Papa in visita tra le macerie pare
«un angelo con gli occhiali», scriverà Francesco De Gregori.
Poi ci sono coloro che si battono. Circa duemila ebrei, tra cui Enzo
ed Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto
Terracini, Leo Valiani, Elio Toaff, partecipano attivamente alla
Resistenza. Almeno cento ebrei cadono in battaglia o, dopo essere stati
arrestati, sono uccisi in Italia (come accade a Leone Ginzburg, morto
sotto le torture nel carcere di Regina Coeli) o nei lager; cinque sono
medaglia d’oro alla memoria. Tra loro una donna, Rita Rosani, caduta
in combattimento in Valpolicella. Sulla lapide che la ricorda,
all’ingresso del tempio israelitico di Verona, è inciso in ebraico un
passo della Bibbia: «Molte donne si sono comportate valorosamente,
ma tu le superi tutte».
«Oggi ho combinato due guai: ho rotto i pantaloni e mi sono unito
ai partigiani» scrive alla madre dopo l’8 settembre Emanuele Artom,
giovane ebreo torinese. Prima con i garibaldini, poi con gli azionisti di
Giustizia e Libertà – il nome coniato dai fratelli Rosselli –, Artom
passa come commissario politico di banda in banda, marcia per intere
notti, partecipa ai combattimenti. Scrive un diario, che è anche una
testimonianza di assoluta sincerità: non tace nulla, emerge anche il
lato oscuro della lotta di Liberazione, i calcoli, le volgarità, i fanatismi,
le violenze. La Resistenza va raccontata per intero: «La vita di un
bandito è molto complicata e succedono infiniti incidenti… un
partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e viene portato in carcere
per qualche ora, poi rilasciato: un altro ingravida una ragazza: bisogna
scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica
patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei
purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in
parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte
soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte
spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli
uomini sono uomini».
Il 21 marzo 1944 i tedeschi cominciano il grande rastrellamento
contro i partigiani della zona. Il 25 marzo Emanuele, che si trova con
Franco Momigliano, Ugo Sacerdote, Gustavo Malan e Ruggero Levi, è
raggiunto da una pattuglia di SS italiane che risale la montagna: gli
altri riescono a fuggire, lui cade a terra sfinito; Ruggero Levi, un altro
giovane partigiano torinese, si ferma per non lasciarlo solo. I due
amici vengono portati nelle carceri di Luserna San Giovanni. Un
fascista, a cui Artom ha salvato la vita, lo denuncia come ebreo. I
«ragazzi di Salò» e i tedeschi lo sottopongono a spaventose torture.
Semisvenuto per le percosse, per umiliarlo lo caricano a forza sul
dorso di un mulo, gli mettono una scopa sotto il braccio, un
cappellaccio in testa, e con il volto tumefatto lo fotografano ed
esibiscono come trofeo di guerra. L’immagine appare sul settimanale
bilingue «Der Adler», diffuso in Italia, con la didascalia: «Bandito
ebreo catturato».
Il 31 marzo Emanuele Artom è trasferito alle Nuove di Torino, dove
muore il 7 aprile a causa delle sevizie. Due suoi compagni di prigionia
sono costretti a seppellirlo di notte in un bosco presso Stupinigi. Il
corpo non sarà mai ritrovato.
Finisce bene invece la storia di Giulio Bolaffi, figlio di Alberto, il
fondatore della più grande azienda filatelica italiana. Insomma, i
Bolaffi dei francobolli.
Con le leggi razziste, i suoi fratelli Roberto e Dante lasciano l’Italia.
Giulio resta. È tra i primi a salire in montagna, a combattere fascisti e
tedeschi. Guida la IV divisione Giustizia e Libertà, e la chiama Stellina,
dal nome di sua figlia Stella, che è ancora viva e ha scritto libri
bellissimi per ricordare la memoria del suo papà. Stellina è anche il
nome della capretta che fa da mascotte.
Bolaffi paga di tasca propria il soldo ai partigiani, che non pesano
così sulla popolazione, e ordina di evitare agguati che possano
provocare rappresaglie. Quando però alla fine di agosto del 1944 i
nazifascisti attaccano, la divisione Stellina li sconfigge: 163 nemici
cadono prigionieri. Per sottrarsi alla vendetta tedesca, il comando
della divisione si nasconde nel convento dei francescani di Susa;
quando si vedono tedeschi in giro, l’imprenditore ebreo gira in saio.
Oggi nel convento questa lapide ricorda l’alleanza tra frati e
partigiani:
In tempi oscuri
animati dalla fede e dalla speranza
di un giusto avvenire
i frati minori conventuali
formando un unico blocco
con la popolazione tutta di Susa
ospitarono il comando della lotta
per la liberazione della patria.
Con immutata riconoscenza,
I partigiani della IV divisione alpina Gl Stellina
Sugli ultimi giorni del Duce sono state scritte migliaia di pagine.
Leggende e falsità sono fiorite, dai diari apocrifi alle ultime parole
inventate, per nascondere l’amara realtà: Mussolini non ha avuto una
fine gloriosa. Ha vagheggiato di combattere sino all’ultimo, di
chiudersi nel «ridotto della Valtellina» con le ceneri di Dante, come a
dire che l’Italia moriva con lui. Ma poi ha cercato banalmente di
salvarsi la pelle. Ha tentato di riparare in Svizzera, come avevano fatto
molte delle sue vittime, ebrei, antifascisti, resistenti. Ha portato con sé
denaro, oro, documenti, fedelissimi, e la sua amante, Clara Petacci,
che ha voluto morire con lui. È salito su un camion e si è travestito da
soldato tedesco, indossando un’uniforme non sua, tentando di
nascondersi sotto l’elmetto, simulando di dormire o di essersi
ubriacato. È stato riconosciuto da un partigiano, o forse è stato
venduto dai camerati nazisti, che hanno potuto proseguire
indisturbati dopo aver consegnato il Duce.
Tra gli ottimi libri di Mimmo Franzinelli, oltre al più volte citato
«Squadristi», ho lavorato su «Il duce e le donne», «Il tribunale del
duce», «Il prigioniero di Salò», tutti pubblicati da Mondadori, e «I
tentacoli dell’OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia
politica fascista», Bollati Boringhieri.
Per ricostruire la marcia su Roma mi è stato molto utile «Il giorno
che durò vent’anni» di Antonio Di Pierro, Edizioni Clichy.
Per la vendetta fascista: Giancarlo Carcano, «Strage a Torino», La
Pietra.
Per il capitolo «Vittime» ho consultato:
Voce «Giovanni Minzoni» in Dizionario Biografico degli Italiani,
Istituto della Enciclopedia Italiana
Aldo Garosci, «Vita di Carlo Rosselli», Vallecchi
Paolo Spriano, «Gramsci e Gobetti», Einaudi
Paolo Spriano, «Storia del Partito Comunista Italiano» (volumi
vari), Einaudi
Cesare Pianciola, «Piero Gobetti», Gribaudo
Angelo D’Orsi, «Gramsci. Una nuova biografia», Feltrinelli
Giuseppe Fiori, «Vita di Antonio Gramsci», Laterza
Massimo Lunardelli, «Gramsci il fascista. Storia di Mario, il fratello
di Antonio», Tralerighe libri.
Giuseppe Castellani, «Il dibattito socialista sul Grido del Popolo»,
tesi di laurea.
Torno anche a citare il libro di Giorgio Amendola, «Una scelta di
vita», Rizzoli.
Su Giacomo Matteotti ha fatto un gran lavoro Stefano Caretti, che
con Jaka Makuc ha curato i suoi scritti raccolti in «Matteotti si
racconta. La famiglia, gli studi, la politica» (Pisa University Press).
Per quanto riguarda la pista affaristica dell’assassinio, è ormai un
classico «Il delitto Matteotti» di Mauro Canali (il Mulino). Ho
consultato inoltre Stefano Caretti, «Il delitto Matteotti», Lacaita
Editore.
Ho tratto le notizie sulla fuga di Turati in Corsica dallo studio di
Nicolò Zuliani intitolato «Quando Pertini e Olivetti salvarono Turati
dalla vendetta di Mussolini» e pubblicato sul sito «The Vision» il 19
febbraio 2019.
www.librimondadori.it
Mussolini il capobanda
di Aldo Cazzullo
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835720324