Mussolini Il Capobanda - Aldo Cazzullo

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Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Mussolini il capobanda
Uno. «Toglietemeli di torno». Storia di Ida Dalser e di Benitino
Due. Il terrorista. Bombe e olio di ricino: i delitti delle camicie nere
Tre. Il pokerista. Cronaca della marcia su Roma
Quattro. La vendetta fascista. Legato al camion e trascinato per la città
Cinque. Vittime. Storia di Giacomo Matteotti, don Giovanni Minzoni, Giovanni
Amendola, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli
Sei. La cappa di piombo. Vita agra sotto il Duce
Sette. Il repressore. Botte, galera, confino e polizia segreta
Otto. Il criminale di guerra. Le stragi fasciste in Libia, Etiopia, Spagna
Nove. Il razzista. Le leggi contro gli ebrei
Dieci. Guerra criminale contro il popolo italiano. Congelati e abbandonati in
Francia, Grecia, Russia
Undici. Il truce. Le atrocità di Salò
Dodici. Il mito del Duce buono
Copyright
Il libro

«C
ent’anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva
nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un
uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto;
persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la
donna che l’aveva messo al mondo».
Comincia così il racconto di Aldo Cazzullo su Mussolini. Una
figura di cui la maggioranza degli italiani si è fatta un’idea sbagliata:
uno statista che fino al ’38 le aveva azzeccate quasi tutte; peccato
l’alleanza con Hitler, le leggi razziali, la guerra.
Cazzullo ricorda che prima del ’38 Mussolini aveva provocato la
morte dei principali oppositori: Matteotti, Gobetti, Gramsci,
Amendola, don Minzoni, Carlo e Nello Rosselli. Aveva conquistato il
potere con la violenza – non solo manganelli e olio di ricino ma
bombe e mitragliatrici –, facendo centinaia di vittime.
Fin dal 1922 si era preso la rivincita sulle città che gli avevano
resistito, con avversari gettati dalle finestre di San Lorenzo a Roma, o
legati ai camion e trascinati nelle vie di Torino. Aveva imposto una
cappa di piombo: Tribunale speciale, polizia segreta, confino, tassa
sul celibato, esclusione delle donne da molti posti di lavoro. Aveva
commesso crimini in Libia – 40 mila morti tra i civili –, in Etiopia –
dall’iprite al massacro dei monaci cristiani –, in Spagna. Aveva usato
gli italiani come cavie per cure sbagliate contro la malaria e per
vaccini letali. Era stato crudele con tanti: a cominciare da Ida Dalser e
dal loro figlio Benitino.
La guerra non fu un impazzimento del Duce, ma lo sbocco logico
del fascismo, che sostiene la sopraffazione di uno Stato sull’altro e di
una razza sull’altra. Idee che purtroppo non sono morte con
Mussolini. Anche se Cazzullo demolisce un altro luogo comune: non
è vero che tutti gli italiani sono stati fascisti. E l’antifascismo
dovrebbe essere un valore comune a tutti i partiti e a tutti gli italiani.
L’autore

Aldo Cazzullo (Alba, 1966) da oltre trent’anni


racconta sui giornali le principali vicende italiane
e internazionali. Ora cura la pagina delle Lettere
del «Corriere della Sera», di cui è vicedirettore ad
personam. Da Mondadori ha pubblicato libri sul
Risorgimento (Viva l’Italia!), sulla prima guerra
mondiale (La guerra dei nostri nonni), sulla
Ricostruzione (Giuro che non avrò più fame), sugli
anni Cinquanta (I ragazzi di via Po) e sugli anni Settanta (I ragazzi che
volevano fare la rivoluzione e Testamento di un anticomunista. Dalla
Resistenza al golpe bianco con Edgardo Sogno). I suoi due libri su Dante
(A riveder le stelle e Il posto degli uomini) hanno venduto oltre
trecentomila copie.
Aldo Cazzullo

MUSSOLINI IL CAPOBANDA
Perché dovremmo vergognarci del fascismo
Mussolini il capobanda
Alla memoria di
don Giovanni Minzoni (1885-1923)
Giacomo Matteotti (1885-1924)
Piero Gobetti (1901-1926)
Giovanni Amendola (1882-1926)
Antonio Gramsci (1891-1937)
Carlo Rosselli (1899-1937)
Nello Rosselli (1900-1937)
e di tutte le vittime del fascismo
Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di
questa associazione a delinquere.
BENITO MUSSOLINI

E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui, ritto sull’ultima
collina, guardando la città, la sera del giorno della sua morte. Ecco
l’importante: che ne restasse sempre uno.
BEPPE FENOGLIO
Cent’anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani
di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo.
Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in
manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo.
Oggi in Italia ci sono gli estimatori di Mussolini: pochi, ma non
pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non
moltissimi. E poi c’è la maggioranza. Che crede, o a cui piace credere,
in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria.
La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le
aveva azzeccate tutte; e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce
aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando
ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi.
Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di
anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù.
Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per
raccogliere «qualche migliaia di morti» ed essere ammessi al tavolo
della pace. Peccato, davvero.
In realtà, non è andata così. E non solo perché i tedeschi avrebbero
fatto volentieri a meno del nostro ingresso in guerra: sapevano di
doverci sostenere su ogni fronte, come poi hanno fatto – dall’Africa
alla Grecia – perdendo tempo, risorse e uomini preziosi. E non solo
perché la frase sulle «migliaia di morti» tradisce una volgarità
d’animo e un cinismo rivoltanti.
La guerra non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La
guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo
giorno. Il fascismo nasce con la guerra e muore (purtroppo non del
tutto) con la guerra. L’idea della violenza come levatrice della storia,
della guerra come modo di imporre una nazione su un’altra, e una
razza sull’altra, accompagna il fascismo dalla sua nascita alla sua
morte (apparente). Il germe del fascismo è già negli spaventosi
massacri della prima guerra mondiale – «trincerocrazia!» ringhia il
Duce –, e nei torbidi dei primi anni del dopoguerra, segnati dagli
scioperi rossi e dalla durissima reazione nera.
Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di
vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri
popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei
campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con
il gas; fa bombardare paesi e città inermi in Spagna; poi ordina le
sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia,
regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei
nostri soldati, ma dell’impreparazione, dell’insipienza, della miseria
morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per
vent’anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a
congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo
scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso
popolo.
Non solo. Nel 1938, lo «statista» Mussolini e i suoi uomini avevano
già provocato la morte di tutti i principali esponenti dell’opposizione:
Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni
Amendola – attaccato cento contro uno –, Carlo e Nello Rosselli.
Avevano bastonato un prete, don Luigi Sturzo. Avevano aggredito un
santo, Piergiorgio Frassati. Avevano incarcerato uno statista vero,
Alcide De Gasperi. Nessuno di loro era comunista. Anche se tra le
vittime va ovviamente ricordato Antonio Gramsci, che si spense in
clinica dopo undici anni passati sotto custodia, senza aver mai
commesso un gesto violento, senza alcuna colpa che non fossero le sue
idee.
Poi, certo, il fascismo non spuntò dal nulla. Lo stesso Gobetti lo
definì «l’autobiografia della nazione». Seppe approfittare con
spregiudicatezza del clima di paura creato dal «biennio rosso»,
seguito al trauma della Grande Guerra e alla rivoluzione bolscevica in
Russia. Molti liberali e molti cattolici si illusero di poterlo usare contro
la sinistra, senza rendersi conto del mostro che avevano contribuito a
rafforzare.
Certo, il fascismo ebbe anche consenso, in particolare negli anni
segnati dalla conquista dell’Etiopia. Ma c’è un altro mito da sfatare.
Non è vero che gli italiani sono stati tutti fascisti. È solo un’altra
sciocchezza autoassolutoria.
È sempre difficile misurare il grado di consenso a una dittatura;
quando non hai alternative, quando non voti se non per finta, quando
devi prendere la tessera del partito per lavorare, quando devi fare
attenzione a non parlare male del dittatore se no ti aspettano sotto
casa e ti sfasciano la testa, ti umiliano davanti ai tuoi figli, ti tolgono
casa, libertà, lavoro. Organizzare un’opposizione era quasi
impossibile, pena il carcere, il confino, l’esilio. Anche per questo il
numero degli antifascisti militanti fu ovviamente ridotto, pur se
prezioso e significativo.
Ma se gli italiani fossero davvero stati tutti fascisti, che motivo c’era
di mantenere una polizia politica e il Tribunale speciale? Che ragione
c’era di imporre un clima plumbeo e soffocante, di perseguitare gli
omosessuali o chiunque venisse percepito come «diverso», di
costringere gli italiani al rituale un po’ retorico un po’ ridicolo del
sabato fascista? Senza dimenticare quel che subirono le donne,
considerate «fattrici» e sottomesse agli uomini: non tutti ricordano che
alle italiane fu reso sempre più difficile lavorare fuori casa, rendersi
indipendenti, decidere del proprio destino.
La bonifica dell’Agro Pontino – iniziata prima del regime e
terminata dopo –, la costruzione di qualche bella casa dell’architetto
Terragni ripagano gli italiani della vita agra che è stata loro imposta
per oltre vent’anni, compresi tre anni di guerra mondiale e due di
guerra civile? Per dirla con lo scrittore Carlo Fruttero: «I fascisti erano
brutti. Tutti neri come corvi, i fez, i teschi, i manganelli, i pugnali, le
brutalità. Orrendi». Neanche Carlo Fruttero era comunista, anzi. Era
torinese, però; e a Torino la vendetta fascista fu particolarmente
crudele.
Dopo la marcia su Roma, dopo aver preso il potere, gli squadristi
sistemarono i conti con i quartieri e con le città che avevano loro
resistito. Per prima cosa assaltarono San Lorenzo, presero i popolani
che avevano tentato di fermarli e li scaraventarono giù dal balcone di
casa: ci furono morti, decine di lavoratori rimasero paralizzati, con la
spina dorsale spezzata. Poi devastarono i quartieri popolari di Torino,
uccisero quattordici operai, forse più, legarono il segretario della
Camera del Lavoro a un camion e lo trascinarono per le strade. Scene
da Far West. Da delinquenti in senso tecnico. Il tutto sapendo di avere
le spalle coperte dal regime che avevano instaurato. Si può
immaginare qualcosa di più vigliacco, di più odioso? Purtroppo, si
può.
La razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti. Ma ad andare a
prendere gli ebrei di Venezia casa per casa – i bambini all’asilo, i
vecchi negli istituti – furono fascisti italiani. Era la notte tra il 5 e il 6
dicembre 1943. Oltre trecento non sono mai tornati dai campi di
sterminio, dove morirono più di ottomila ebrei italiani.
Del resto, fu lo stesso Mussolini a dirlo, in Parlamento: «Se il
fascismo non è stato altro che un’associazione a delinquere, io sono il
capo di questa associazione a delinquere». Certo, lo diceva
provocatoriamente. Ma come delinquenti si erano comportati i fascisti,
fin dagli esordi. E come tali si comporteranno, con il coltello dalla
parte del manico, fino al 25 aprile 1945.
«Capobanda» fu definito Mussolini nel 1923 dal socialista Filippo
Turati, che lo conosceva bene. «Capobanda» lo definì un ventennio
dopo il gerarca Giuseppe Bottai, che lo conosceva benissimo.

Si sente dire: i nazisti erano peggio. È vero. I nazisti erano una


banda di criminali. Si riproponevano apertamente di eliminare il
popolo ebraico, di sopprimere zingari e omosessuali, di uccidere i
bambini Down; e quando andarono al potere lo fecero. I pochi
neonazisti, i tanti filofascisti, i tantissimi italiani che del nazifascismo
hanno un’opinione indulgente non hanno forse mai sentito parlare di
von Galen, che denunciò la strage dei bambini «non sani» che il
regime stava perpetrando nella stessa Germania, e rischiò di finire
impiccato. Von Galen non era comunista. Si chiamava Clemens
August Joseph Pius Emanuel, era figlio del conte Ferdinand Heribert
Ludwig von Galen e di una contessa. Di mestiere faceva il vescovo di
Münster, e la denuncia la fece dal pulpito della meravigliosa
cattedrale romanico-gotica. La reazione dei nazisti fu furiosa,
qualcuno invocò la forca. Fu Goebbels a far notare che impiccare un
vescovo non era una buona idea. (E comunque, quando Sophie Scholl
e altri studenti cattolici dell’università di Monaco furono sorpresi a
distribuire volantini antinazisti, vennero arrestati, torturati e
decapitati). Il caso – ma forse non il caso – volle che tra i più accaniti
resistenti alla barbarie naziste ci fosse un generale francese, Charles de
Gaulle. La persona che amava di più al mondo, sua figlia Anne, era
affetta dalla sindrome di Down. Morì a vent’anni, tra le braccia dei
genitori. Allora de Gaulle e la moglie Yvonne fondarono un istituto
dove venissero accolti e seguiti bambini come quelli che i nazisti
sopprimevano. È utile ricordarlo; perché la scelta tra il nazifascismo e
la democrazia non è una scelta tra destra e sinistra, ma tra civiltà e
barbarie.
Con quei criminali tedeschi, e con il loro capo, i delinquenti italiani
si allearono. Mussolini e i suoi accoliti copiarono da loro le odiose
leggi contro gli ebrei (dopo aver già introdotto leggi razziste in
Africa). Seguirono i nazisti in una serie di guerre di aggressione,
condotte con l’eliminazione fisica dei prigionieri, dalla Jugoslavia alla
Russia, e con la caccia sistematica agli ebrei, compresi i bambini e i
neonati (ma a volte difesi dai nostri soldati, ad esempio in Francia). E
rimasero loro fedeli sino all’ultimo giorno, quando l’Italia e la
Germania erano diventate campi di battaglia, cosparsi da centinaia di
migliaia di morti innocenti.
Purtroppo, noi italiani ci siamo autoassolti da tutto questo.
Dall’avere inventato un’idea – il fascismo – esportata in mezzo
mondo, che ovunque sia andata al potere, anche dopo la seconda
guerra mondiale, ha significato carcere, polizia politica, soppressione
degli oppositori, razzismo, xenofobia, predominio dell’uomo sulla
donna.
Per dimenticarlo, per far finta che non sia andata così, ci siamo
inventati una storia a nostra misura. Ci siamo immaginati un Duce
lungimirante, virile, onesto, severo ma giusto, seduttore ma buon
padre di famiglia, duro ma generoso. Uno «con due palle così».
È tempo di raccontare, e dimostrare, che Benito Mussolini era
diverso dall’idea che ce ne siamo fatti. Che del fascismo noi italiani
dovremmo vergognarci. Ma che per fortuna non tutti gli italiani sono
stati fascisti. E che l’antifascismo non è «una cosa di sinistra»; è una
cosa di tutti, è un valore in cui ogni italiano dovrebbe riconoscersi.
Uno
«Toglietemeli di torno»
Storia di Ida Dalser e di Benitino

«La presi lungo le scale, la gettai in un angolo dietro la porta e la feci


mia. Si rialzò piangente ed avvilita e fra le lacrime mi insultava.
Diceva che le avevo rubato l’onore. Non lo escludo. Ma di quale onore
si parla?».
È di fatto il racconto di uno stupro. Ma Benito Mussolini se ne
compiace. Lei è una delle sue prime «conquiste»: Virginia B. Questo
era il rapporto del futuro Duce con le donne. Poi, certo, negli anni del
potere molte gli si offriranno: anche una al giorno, raccontano.
Violento lo era stato sin da bambino. A scuola andava con un
coltello in tasca, e in una rissa lo estrasse per ferire alla mano uno dei
compagni. Altri li prendeva a sassate. Da ragazzo aveva sempre con
sé un pugno di ferro e un coltello a serramanico, che usò per colpire
una donna, Giulia Fontanesi.
Giulia aveva il marito lontano, militare a Sulmona. «Disponevo di
lei a mio piacere» annota Mussolini. Che però era gelosissimo, anzi
possessivo. Pretendeva che Giulia non uscisse mai di casa. Un giorno
che la sorprese per strada la assalì urlando e le addentò un braccio.
Durante un altro litigio, quando lei gli disse che era libera di
comportarsi come credeva, lui diede mano al coltello e le conficcò la
lama in una coscia.
Dopo gli anni passati da emigrante in Svizzera, andò a fare il
maestro a Tolmezzo, dove visse – sono parole sue –
«nell’abbrutimento, nella dissipazione fisica e spirituale». Sembrava
detestare tutto e tutti, in particolare i sacerdoti – «gendarmi neri al
servizio del capitalismo» –, il cristianesimo, «obbrobrio dell’umanità»,
e il tricolore, «uno straccio da piantare nel letame». Un giorno il suo
amico Dante Marpillero lo trovò con una pistola in mano, deciso a
farla finita. Poi sedusse la padrona della locanda dove alloggiava,
Luigia Pajetta Nigris, e di fronte alle rimostranze del suo uomo reagì a
pugni: «Nel pugilato la peggio toccò al marito di Luigia, più vecchio e
più debole». Entrava e usciva di galera, e non sempre per motivi
politici: la prima volta fu arrestato per aver minacciato un agrario, tale
Emilio Rolli – «ti svirgolo!» –, agitando un grosso bastone. Con la
sciabola, invece, ferirà Claudio Treves, in un duello furibondo (non si
libererà mai, però, della paura del dolore fisico, in particolare del
terrore per le iniezioni).
Racconterà la sorella, Edvige Mussolini, che i suoi rapporti con le
donne erano «assai rapidi, poco importanti, con qualche crudeltà, più
crudeltà che abbandono». Il «disprezzo per la donna» teorizzato dai
futuristi fu da lui praticato.
Ma se c’è una storia che rivela davvero chi fu Benito Mussolini, è
quella del figlio Benito Albino, e di sua madre Ida Dalser. Una storia
che ancora oggi viene liquidata, anche nei libri non apologetici, in
modo sbrigativo: lei era una pazza, il figlio pure; e i pazzi all’epoca
finivano, e morivano, in manicomio.

Un fidanzamento pistola in pugno


In realtà, né Ida Dalser, né Benitino – così lo chiamavano – erano
pazzi. Erano semplicemente fastidiosi. Ricordavano al padrone
d’Italia che, prima di diventarlo, si era infilato in una storia d’amore
divenuta un pasticcio. Un ostacolo. E come un ostacolo madre e figlio
erano stati rimossi.
La vera storia di Ida e Benitino, della donna e del figlio del Duce, è
venuta alla luce grazie a una lunga inchiesta giornalistica, durata
decenni. Il primo a occuparsene fu Alfredo Pieroni: trentino, cronista
nella Germania della ricostruzione e nella Roma della dolce vita,
grande amore di Oriana Fallaci. Su suggerimento di Luigi Barzini,
Pieroni nel 1946 lavorò alla storia del figlio segreto del Duce. Fu lui a
trovare, a casa di Adele Dalser, sorella di Ida, le lettere di Mussolini.
Negli anni Trenta il dittatore aveva dato l’ordine di recuperarle e
distruggerle; ma la famiglia le aveva nascoste dentro un pappagallo
impagliato. Grazie a questi documenti, e ad altre carte ritrovate da
Marco Zeni e Fabrizio Laurenti, oggi possiamo ricostruire la vicenda,
che ha ispirato il film di Marco Bellocchio «Vincere!» (dove Benitino è
interpretato da Filippo Timi).
Siamo nel 1914. Mussolini ritrova a Milano una giovane donna
trentina, che ha conosciuto – e con cui forse ha avuto una relazione –
cinque anni prima, al tempo del suo soggiorno a Trento. Ida Dalser è
una donna moderna. Volitiva, determinata. Ha amato un uomo
potente, Giuseppe Brambilla, l’amministratore delegato della Carlo
Erba, che le ha promesso di sposarla ma non ha mantenuto. Ora è
single. Si è diplomata a Parigi in medicina estetica, nel 1913 si è
trasferita a Milano, e ha aperto quello che oggi definiremmo un centro
estetico: il Salone orientale di igiene e bellezza Mademoiselle Ida. È un
successo. Milano è già la città più ricca d’Italia, le signore della
borghesia cittadina apprezzano. Ida ha talento per gli affari, guadagna
bene, mette i soldi da parte.
Di soldi Mussolini ha molto bisogno. Il giornale che ha fondato, Il
Popolo d’Italia, può contare sui capitali dei tanti che hanno interesse
all’intervento dell’Italia nella guerra, dagli industriali ai francesi. Ma il
Duce non riesce a far breccia in quello che sperava fosse il suo
pubblico: tranne qualche eccezione, i socialisti restano contrari al
conflitto. Le tirature non crescono, il denaro non basta mai. Ida accetta
di aiutarlo. Considera Benito il suo uomo. Non sa, o finge di non
sapere, che lui vive con un’altra donna, Rachele Guidi, che gli ha dato
una figlia, Edda.

Rachele è molto diversa da Ida. È una contadina romagnola, figlia


di Annina, la compagna del padre di Mussolini, Alessandro, il fabbro
di Dovia. Benito ha visto Rachele e l’ha presa, dopo averci provato con
la sorella, Augusta, che l’ha respinto a ceffoni. Un giorno ha sorpreso
Rachele a ballare con un altro, gliel’ha strappata di mano e l’ha
riaccompagnata a casa, tormentandola per tutto il percorso con
pizzichi e spintoni. Poi l’ha trascinata in campagna, a casa di un’altra
sorella, e le ha ordinato di non muoversi da lì e non farsi vedere da
nessuno.
La madre di Rachele sapeva quanto Benito fosse violento e
manesco, ed era contraria all’unione. Ma lui si è presentato davanti a
lei e al padre tenendo con una mano la ragazza e con l’altra una
pistola, gridando: «Se non mi date Rachele, qui ci sono sei colpi. Uno
per lei, e cinque per me». In sostanza, stava minacciando di morte il
padre e la madre della donna che voleva sposare. Nessuno dei due
osò correre il rischio.
Ora Rachele vive per lui. È gelosa, ma accetta i suoi tradimenti. È
quasi analfabeta, non sa scrivere molto più della propria firma, può
fare poco per aiutarlo nella sua ascesa giornalistica e politica.
Mussolini del resto non c’è quasi mai. Gli interessa avere,
all’occorrenza, il letto fatto, il cibo pronto, i vestiti puliti. Rachele – che
lui chiama Chiletta – non è felice a Milano. Quando potrà disporre
degli agi di Villa Torlonia, a Roma, negli anni del potere, ritroverà la
propria dimensione domestica, si prenderà cura dell’orto, dei due
maiali tenuti all’ingrasso, del pollaio. Darà a Mussolini altri quattro
figli, anche se subirà sempre la personalità della primogenita Edda,
cui il Duce è legatissimo. E quando si tratterà di decidere la sorte di
Galeazzo Ciano, Rachele spingerà per la fucilazione: occorreva punire
il genero che aveva tradito.
Anche di «donna Rachele» gli italiani hanno un’immagine
edulcorata, quasi tenera. In realtà, dietro la maschera della rezdora
romagnola, c’era una donna attenta e arcigna, piena di diffidenze e
rancori contadini, con una sua rete di collaboratori e informatori,
anche nella polizia. Del resto, Rachele vedrà sempre la tragedia in cui
il fascismo aveva precipitato l’Italia soltanto dal punto di vista del suo
uomo, e di come quella tragedia potesse influenzarne gli interessi e
l’umore.

Un figlio riconosciuto e mai più visto


Ida Dalser, invece, è sinceramente appassionata alla vicenda politica
del suo amante. Lo appoggia, lo finanzia, partecipa alle infuocate
assemblee in cui i socialisti inveiscono contro Mussolini («voi mi
odiate, perché mi amate ancora…»), schiaffeggia uno dei suoi
accusatori. A lui piace tutto di lei: la erre arrotata, una certa allure
francese da Belle Époque, e anche il denaro.
Sono anni in cui Mussolini è attratto da donne che possono
sostenerlo nella sua ascesa sociale. Tenta invano di sedurre Leda
Rafanelli, eccentrica figura di scrittrice convertita all’Islam («Quando
vorrò portare una parentesi nella mia vita tumultuosa, congestionata e
solitaria, verrò da voi» le scrive. «Mi farete vivere ore orientali…»). A
Leda confida: «Ci sono due donne che mi amano follemente. Ma una è
troppo brutta, pur avendo un’anima nobile e generosa». È Angelica
Balabanoff, esule russa. «L’altra è bella, ma ha l’anima subdola, avara,
sordida anzi. È ebrea». Il suo nome è Margherita Sarfatti.
Mussolini è attratto dalle donne. Ma dopo averle prese – è lui stesso
a scriverlo, in una nota autobiografica citata da Antonio Scurati – si
sente «irresistibilmente attratto dal proprio cappello», cioè spinto
dall’impulso a mollare lì la preda e ad andarsene. Il disprezzo per la
donna è tale che al futuro Duce piace l’orrenda definizione coniata da
Giovanni Papini: «orinali di carne». Papini: un personaggio citato
nelle antologie su cui abbiamo studiato come grande scrittore. Capace
in realtà di frasi come queste, in occasione dell’entrata in guerra: «Ci
voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e
tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne … Non si rinfaccino,
ad uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono
servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando
furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere …
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai. La guerra è
spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e
distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi».
Papini però la guerra non la fece: era molto miope e si fece riformare,
evitando così le lacrime a sua madre. Non a caso, aderirà al fascismo,
dedicherà il primo – e ultimo – volume della sua storia della
letteratura italiana «al Duce amico della poesia e dei poeti», firmerà
l’infame Manifesto della razza; dopo l’8 settembre troverà scampo in
convento.
Con le parole, Mussolini ci sa fare. Le sue lettere a Ida del 1914 e del
1915 denotano complicità – «i miei nemici cominciano a tremare» – e
anche coinvolgimento: «Anch’io ti amo, mia cara Ida, quantunque non
abbia potuto dartene una prova». E ancora: «Ti ho nel sangue, mi hai
nel sangue». Lei lo ama davvero, non solo a parole: lo protegge con il
suo corpo da un esaltato con un pugnale in mano, che vorrebbe
punire Mussolini in quanto traditore del socialismo.
All’inizio del 1915, Ida rimane incinta. Per lui è un momento
particolarmente difficile: le casse del Popolo d’Italia sono vuote, e il
suo biografo più accreditato, Renzo De Felice, ipotizza che la
principale fonte di finanziamento sia proprio il capitale della Dalser;
che per pagare la tipografia e i giornalisti è arrivata a cedere il suo
salone di bellezza, a portare i suoi gioielli al Monte di Pietà, a vendere
il suo appartamento di via Foscolo. Ora vive in una piccola stanza
d’albergo. E inizia a dubitare della sincerità dell’amante. Lui le
promette di sposarla. E la rassicura: «Carissima, a mezzanotte, mentre
affrettavo il mio lavoro per passare qualche ora con te, non sei venuta.
Io comprendo il tuo stato d’animo, ma ti prego, ardentemente ti
prego, di non precipitare le cose. In questi giorni trovati un
appartamentino e io troverò il danaro per pagarlo. Sarai ancora bella,
felice, adorabile. Tu sai come stanno le cose. Perché questi
scoraggiamenti, queste disperazioni?».
Il piccolo Benito Albino nasce l’11 novembre 1915. Mussolini è al
fronte da due mesi. Prima di partire ha giurato a Ida eterno amore. Le
ha anche intestato il sussidio militare cui ha diritto: è la conferma della
solidità apparente del loro rapporto, e anche del fatto che lei è rimasta
senza soldi per lui. Un documento del Comune di Milano attesta che
«la famiglia del militare Mussolini è composta dalla moglie Ida Dalser
e da figli numero uno». In realtà, non c’è stato nessun matrimonio;
solo un escamotage per mantenere Ida e il bambino.
Il 18 dicembre 1915 lei lo va a trovare all’ospedale di Treviglio,
dove il bersagliere Mussolini è ricoverato per un attacco di itterizia. In
braccio ha il bambino che non ha ancora un padre. Lo implora di
riconoscerlo. Lui le promette di sistemare definitivamente le cose, di
sposarla al più presto, non appena recupererà le forze. In realtà si è
sposato tre giorni prima. Con Rachele. Che è di nuovo incinta; stavolta
di un maschio, che si chiamerà Vittorio, come auspicio per il trionfo
finale.
Sono i giorni in cui il futuro Duce scrive il diario di guerra, che
diventerà un libro di culto dopo la sua presa del potere. Si presenta
come «soldato tra i soldati», costretto ad accontentarsi del grado di
caporale: il corso ufficiali gli viene negato per i suoi trascorsi
socialisti… In realtà, Mussolini non è certo abbandonato a se stesso in
trincea. L’ordine superiore è evitargli i rischi: serve di più come
direttore di un giornale interventista. Non gli viene risparmiato però
un rimprovero, per la sua crudeltà. È lui stesso a raccontare l’episodio:
«Stamani, all’alba, ho dato il buon giorno ai tedeschi, con una bomba
Excelsior tipo B, che è caduta in pieno nella loro trincea. Il puntino
rosso di una sigaretta accesa si è spento, e probabilmente anche il
fumatore». Nessun rimorso, nessun ripensamento, anzi: «Stanotte
conto di dormire a lungo». Il giorno dopo si scopre che il lancio di
quella bomba ha fatto quattro o cinque morti. Il suo capitano lo
rimprovera. Un conto è uccidere in combattimento; un altro è
ammazzare così, per il gusto di farlo, fuori da qualsiasi logica, con la
conseguenza di inasprire il nemico e rendere difficile anche la
quotidianità dei commilitoni. «Perché hai fatto questo, figliolo?» gli
chiede l’ufficiale. «Erano in crocchio, fumavano, forse parlavano
dell’amorosa». E lui, impettito e seccato: «Signor capitano, allora
andiamo tutti a spasso in Galleria a Milano, che è meglio!».
Tanto agli assalti Mussolini non partecipa. E quando resta ferito da
una bombarda che esplode durante un’esercitazione, sarà prima
ricoverato in ospedale, poi congedato.

La madre di suo figlio in camicia di forza


Ida ha saputo. Ha scoperto che Benito si è sposato con un’altra, e l’ha
ingannata. Nel gennaio 1916 si rivolge al tribunale. Lui è costretto a
riconoscere il figlio. Ma ormai quella donna ingombrante è diventata
una seccatura; a maggior ragione adesso che non ha più un soldo.
Meglio tenersi Chiletta, che non crea problemi.
Ida non si rassegna. Ha perso tutto per causa sua. Ha un figlio da
mantenere. Ha amato Benito totalmente, e lo ama ancora. Si agita, si
affanna. Alterna dolcissime dichiarazioni d’amore a sceneggiate, va
nel cortile del Popolo d’Italia con il bambino in braccio a urlare:
«Vigliacco, porco, assassino, traditore, vieni giù se hai il coraggio!».
Lui il coraggio di affrontarla non ce l’ha: si affaccia alla finestra e le
risponde bestemmiando, con un revolver in mano.
Ida tiene duro, si presenta come la signora Mussolini, incontra
Rachele e tra loro scoppia una lite furibonda. Tenta di trascinare dalla
propria parte il grande rivale di Mussolini: il proprietario e direttore
del Corriere della Sera, primo quotidiano del Paese, Luigi Albertini.
Gli scrive, lo supplica di pubblicare la sua storia, di aprire una
sottoscrizione per il mantenimento del bambino. Albertini le risponde
con parole di conforto, però rifiuta di usare vicende private per
screditare un avversario.
Si va per avvocati. Il tribunale di Milano condanna Mussolini a
versare alla Dalser duecento lire al mese; ma lui non lo farà. Non vuol
saperne di vedere il bambino né tanto meno sua madre. Riesce anzi a
farli allontanare dalla città, con il pretesto che lei è «cittadina
austriaca», e quindi pericolosa per la patria. Ida e Benitino sono
costretti a partire per Caserta. Per un anno, lui è tranquillo. Alla fine
della guerra lei ritorna; ma vivere a Milano è troppo caro, e decide di
trasferirsi a Sopramonte, il paesino in provincia di Trento dov’è nata, a
casa della sorella Adele e di suo marito, Riccardo Paicher.
Mussolini, implacabile, scrive a un funzionario romagnolo in
servizio alla questura di Trento: «La persona di cui mi parli è una
pericolosa squilibrata e criminale ricattatrice. Falla sorvegliare e
cacciala in galera, che è il suo posto naturale». Ma siccome motivi per
arrestare Ida proprio non ce ne sono, Mussolini tenta un’altra strada.
Si rivolge al fratello: «Vedi tu se riesci a togliermela di torno».
Arnaldo Mussolini ha un carattere mite, è molto cattolico. Prende a
cuore la questione. Fa avvicinare Ida e le propone una somma
importante, centomila lire, per farsi da parte. Il cognato e la sorella le
consigliano di accettare; lei rifiuta. Non si rassegna alla prospettiva di
crescere un figlio da sola, nell’ambiente bigotto della provincia
italiana, lontano dall’uomo che ama e da cui si sente defraudata. Ma
Mussolini nel frattempo è diventato il capo del governo.
Nel 1926 il ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, va in visita a
Trento. Ida lo conosce e tenta di farsi ricevere. Ha 46 anni, sa ancora
truccarsi e vestirsi con eleganza. Vuole un colloquio con il Duce. La
reazione è fulminea. La Dalser viene ricoverata a forza nel manicomio
di Pergine Valsugana.
Il dottor Tullio Banfichi, otorinolaringoiatra ma soprattutto
centurione della Milizia fascista, la dichiara pazza. Altri medici
compiacenti confermano la diagnosi. Per undici anni Ida Dalser
sopravviverà tra veri malati di mente, urla deliranti, cimici, «celle
puzzolentissime», camicie di forza. Lei però non è affatto pazza, lo
confermano le lettere che scrive dalla sua prigione, che gli incaricati di
Mussolini – informato su tutto – le impediscono di spedire. Sono
messaggi che rivelano un animo acceso da una passione eccessiva, ma
certo lucido e padrone di sé.
Così Ida descrive il suo arresto: «Al mio apparire fui presa,
picchiata, legata, narcotizzata, beffeggiata, gettata nell’auto col
bavaglio alla bocca fino alla questura. Colà, dopo avermi perquisita e
torturata nei modi più volgari, mi hanno gettata per terra stretta fra
una camicia di forza». Eppure lei si illude ancora che Mussolini possa
essere estraneo a quello che le stanno facendo: «Tu non sai nulla, tu
non hai mai dato alcun ordine e con questo certissimo pensiero sfiderò
tutti». Gli chiede di farla uscire da quel «putridissimo manicomio,
dove non hai alcun diritto di farmi seppellire». Lo implora di non
«fare insultare la madre di tuo figlio, almeno per la pace della tua
coscienza». Gli offre il suo perdono, «perché sei il padre di mio figlio».
Ida scriverà centinaia di lettere, anche al Papa e al re, tutte inutili:
nessuna sarà mai spedita, la direzione del manicomio ha ordini
precisi; Ida Dalser ufficialmente non esiste più. Tenta una fuga
disperata, ma la prendono subito. Alla fine si rassegna: «Sono una
povera morta stesa nel suo sudario». Si spegne nell’ospedale
psichiatrico di San Clemente, a Venezia, il 3 dicembre 1937, a 57 anni,
prostrata da un duro regime carcerario, segnato dalla camicia di forza
e da pesanti cure farmacologiche che ne hanno logorato il corpo e la
mente.

Benitino narcotizzato dalla polizia


Ancora più crudele sarà la sorte di Benitino. Pochi giorni dopo che la
madre è stata chiusa in manicomio, si presenta a casa Dalser un
gruppo di poliziotti. Stavolta sono lì per il figlio. Con loro c’è il
commissario prefettizio di Sopramonte, Giulio Bernardi, nominato
tutore del bambino, che ha solo undici anni: una scelta
incomprensibile e disumana; Benitino vive con gli zii, che gli vogliono
bene, ricambiati, e potrebbe restare tranquillamente con loro. Infatti il
piccolo non vuole seguire quello sconosciuto e i poliziotti, reagisce con
forza, chiede aiuto. Adele e il marito si oppongono a quello che a tutti
gli effetti è un rapimento.
Tra urla e spintoni, un poliziotto afferra un fazzoletto imbevuto di
cloroformio, lo preme sul volto di Benitino, lo narcotizza, lo strappa ai
familiari. Portato via di peso, il figlio del Duce viene caricato sull’auto
che attende sotto casa e condotto a Rovereto, all’Istituto educativo
provinciale di Sant’Ilario.
Il posto è orribile. La gente lo chiama «il ricovero dei derelitti». È
un orfanotrofio costruito dagli austriaci, dove sono rinchiusi i figli
illegittimi e ragazzi che hanno alle spalle famiglie difficili, violente,
alcolizzate.
Secondo le testimonianze, Benitino è sempre in disparte. Triste e
taciturno, non partecipa ai giochi degli altri bambini. Si anima solo
davanti alla foto del Duce appesa in corridoio: «Quello è mio padre»
dice fiero. Essere il figlio dell’uomo più potente d’Italia diventa la sua
ragione d’essere, il suo motivo di orgoglio, la sua identità; non si
rende conto che è la sua condanna.
Come spesso accade in questi casi, la somiglianza fisica conferma
che Benitino è davvero il primo figlio maschio di Benito. Un motivo in
più di allarme per le autorità. E poi il piccolo non sta quieto: tenta la
fuga, racconta in giro la tragica storia della madre portata via e
rinchiusa chissà dove. La voce corre, troppi occhi in città sono puntati
sull’istituto.
Se ne occupa di nuovo Arnaldo Mussolini. Il fratello del Duce si è
sinceramente affezionato a Benitino, che a sua volta lo considera
davvero uno zio. Così viene trovata un’ottima sistemazione: il Real
Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, dove studiano i rampolli
dell’aristocrazia e della ricca borghesia torinese.
Neanche lì, però, il ragazzo riesce a fare amicizia con i compagni.
Lo descrivono «troppo orgoglioso, troppo ostinato nelle sue certezze»:
come se avesse preso dal padre pure il carattere. Gli somiglia anche
nel gestire e nel parlare, tanto che a volte diverte gli altri studenti con
imitazioni esilaranti. Zio Arnaldo viene a trovarlo e gli scrive lettere
come questa, del luglio 1929, l’anno della conciliazione con la Chiesa:
«So che sei ubbidiente verso i tuoi buoni superiori. Di questa ultima
cosa ti faccio una speciale raccomandazione. Spero di venirti a trovare
fra non molto tempo. Ad ogni modo rassicurati che penso spesso a te
e al tuo avvenire. Sii buono e sii bravo e ricevi un abbraccio dal tuo
affezionatissimo Arnaldo».
Benitino vive finalmente un periodo tranquillo. Ma nel dicembre
1931 Arnaldo Mussolini muore all’improvviso, d’infarto, a soli 46
anni. Viene meno un elemento di moderazione, prezioso per il
dittatore. E il suo figlio segreto, che mai ha voluto vedere, perde
l’unico punto di riferimento.
Pochi mesi dopo, a 17 anni, Benito Albino torna a Trento, dal tutore
Giulio Bernardi, quello che l’ha portato via da casa con i poliziotti e il
cloroformio. Viene iscritto prima all’istituto tecnico, poi all’istituto
agrario di San Michele all’Adige, infine alla scuola navale di La
Spezia. Il ragazzo è a disagio, soffre, e non smette di proclamarsi figlio
del Duce, nonostante i divieti e gli avvertimenti a stare zitto. I
testimoni lo raccontano come spigliato, divertente, e simile al padre in
modo impressionante. Una minaccia ancora più insidiosa dopo la
firma del Concordato con il Vaticano: nulla di peggio di un figlio
illegittimo, proprio ora che il Duce deve mostrarsi buon padre di
famiglia.
Si decide così di spedire Benito Albino il più lontano possibile: in
Estremo Oriente, dove tra le concessioni di Tientsin e di Shanghai c’è
una piccola flottiglia italiana. Il ragazzo ha diciotto anni. Anche ai
commilitoni si presenta come il figlio di Mussolini. Non resta che una
soluzione: farlo sparire.
Nel 1935 riceve un falso telegramma, che gli annuncia la morte
della madre: è una scusa per rimpatriarlo. Appena arrivato in Italia
viene preso in consegna dalla polizia, che lo porta al manicomio di
Mombello di Limbiate, vicino a Milano. Medici compiacenti lo
dichiarano pazzo e lo rinchiudono nel reparto Agitati, tra pidocchi e
scarafaggi. Dopo qualche mese lo spostano tra i Semiagitati. La
diagnosi parla di «delirio di persecuzione»: è chiaro che la sua unica
follia è dirsi figlio di suo padre.
Nel 1942 Benito Albino muore. Non ha ancora ventisette anni. Non
sappiamo nulla di preciso delle sue sofferenze. Secondo i documenti,
le cause del decesso sono «consunzione» e «deperimento fisico».
Probabilmente è solo il modo di mascherare un omicidio, compiuto
con trenta massicce iniezioni di insulina: vere e proprie torture,
autorizzate dagli psichiatri, che lo mandano in coma per nove volte,
come dimostrano le cartelle cliniche ritrovate dal giornalista Marco
Zeni. Il giorno della morte è il 26 agosto: al padre resta meno di un
anno di potere.
Mussolini sapeva che Benito Albino era sepolto vivo in manicomio?
Gli si può attribuire l’atrocità di aver fatto sopprimere il proprio stesso
figlio? Non ci sono prove. Ma la maggioranza dei ricercatori che si
sono occupati di questa storia afferma categoricamente di sì. La
polizia di Mussolini era al suo personale servizio, lo informava di ogni
dettaglio della vita privata dei gerarchi, di amici e nemici:
difficilmente avrebbe taciuto al Duce notizie di suo figlio. E
difficilmente l’apparato repressivo del fascismo avrebbe disobbedito
alla richiesta di commettere un delitto. Fosse anche quello di
eliminare, o di lasciar morire, un ragazzo innocente.
Due
Il terrorista
Bombe e olio di ricino: i delitti delle camicie nere

La prima azione politica del fascismo si fa a colpi di pistola. È il 15


aprile 1919.
I Fasci di combattimento sono nati da poco, il 23 marzo. In piazza
San Sepolcro, a Milano, Mussolini ha fatto capire che il programma è
la violenza: se i rossi «hanno pronte le barricate, gli arditi e il Fascio
sono disposti a opporre barricate a barricate».
Tre settimane dopo, cinquecento tra fascisti, arditi, futuristi lo
prendono in parola, e guidati da Filippo Tommaso Marinetti vanno
all’attacco di un corteo di anarchici, nel centro di Milano. È lo stesso
Marinetti a darne la cronaca: «Un colpo di rivoltella, due, tre, venti,
trenta. Sassi, randelli volanti e randellate precise. Il cordone dei
carabinieri scompare. Poi, di slancio, a passo di corsa, contro i
nemici».
Scompaginato il corteo, i fascisti assaltano la redazione dell’Avanti!,
il quotidiano socialista di cui Mussolini è stato direttore fino a cinque
anni prima. Prendono a revolverate giornalisti, tipografi e pure i
militari che dovrebbero difenderli. La tipografia è ridotta a rottami,
mentre la redazione viene incendiata, i mobili gettati nel Naviglio.
Scrive ancora Marinetti: «La colonna, ormai padrona di Milano
riconquistata, ritorna in piazza del Duomo, ritmando la sua marcia col
grido “L’Avanti! non è più” e portando in testa l’insegna di legno del
giornale incendiato, che fu donata a Mussolini, nella redazione del
Popolo d’Italia». Sul terreno restano 39 feriti e quattro morti: un
soldato e tre socialisti. Il futuro Duce apprezza: «Noi dei Fasci non
abbiamo preparato l’attacco al giornale socialista, ma accettiamo tutta
la responsabilità morale dell’episodio». E ancora: «Tutti gli squadristi
del Fascio milanese sono andati all’assalto dell’Avanti! come
sarebbero andati all’assalto di una trincea austriaca… Questo è
eroismo. Questa è violenza. Questa è la violenza che io approvo, che
io esalto. Questa è la violenza del Fascismo milanese». Infine: «Il
primo episodio della guerra civile ci è stato».
Il ministro della Guerra, il generale Enrico Caviglia, convoca
Marinetti e i suoi per ringraziarli.

Frustini e mazze ferrate


Fin dall’inizio si spara. Dello squadrismo abbiamo un’immagine quasi
goliardica: canti, olio di ricino, tirapugni, manganelli, financo
stoccafissi; le squadre mantovane di Carlo Buttafuochi li usavano per
colpire alla testa gli avversari, frantumarne i nasi, spezzarne le
mascelle; e quando il capo fu eletto alla Camera lo chiamarono
l’onorevole Baccalà. Ma non soltanto i manganelli – bastoni rivestiti di
cuoio o con la punta di piombo, spesso inalberati sul pube come
prolungamento del fallo – potevano esser armi mortali, anche perché a
volte erano sostituiti da mazze ferrate. Non soltanto le vittime
venivano spesso picchiate a oltranza in modo da essere storpiate e
rovinate per sempre. Non soltanto essere costretti a bere l’olio di
ricino con un imbuto significava subire un’umiliazione pubblica a
volte più definitiva di una morte da martire. I fascisti avevano pistole,
fucili, bombe a mano, e più avanti mitragliatrici montate sui camion, e
pure cannoni; oltre ai nerbi di bue con cui frustare i «sovversivi», tipo
schiavisti nelle piantagioni.
Mussolini aveva al proprio servizio un esercito privato, spesso
armato e incoraggiato dall’esercito quello vero.
Comincia così una «guerra civile», come la definisce il fondatore
del fascismo, che intende chiudere con le armi la partita tra padroni e
operai, tra latifondisti e contadini, tra capitale e lavoro, cominciata con
l’inizio di un secolo che si annuncia grandioso e terribile, il
Novecento. E non è vero che il Duce – come si fa chiamare fin
dall’inizio – lasci fare, e a volte subisca gli eccessi degli squadristi.
Mussolini è il mandante, il regista, il beneficiario delle aggressioni. È
lui a tirare le fila, e finanche a procacciare le armi.
All’inizio del Novecento, l’Italia aveva vissuto gli anni migliori
della sua storia unitaria. Gli anni della nostra rivoluzione industriale.
Nascono le prime grandi fabbriche, tra Torino, Milano, Genova. Luce
elettrica, trasporti, telegrafo, telefono: le città cambiano volto. Si
combatte la piaga dell’analfabetismo. Viene introdotto il suffragio
universale, purtroppo solo maschile. Vinciamo persino una guerra,
con l’Impero ottomano, cui strappiamo le isole del Dodecaneso e due
province africane, la Tripolitania e la Cirenaica, unite in una colonia
cui viene dato un nome greco, lo stesso con cui gli antichi ateniesi
chiamavano l’Africa: Libia.
Lo statista che diede la sua impronta a quella stagione fu il migliore
che l’Italia abbia avuto, tra Cavour e De Gasperi: Giovanni Giolitti.
Grande avversario dell’ingresso nella prima guerra mondiale; anche
perché era presidente del Consiglio quando si truccavano i bollettini
in Libia, dove vincevamo solo se eravamo cinque contro uno. Giolitti
insomma sapeva quanto poco valessero i generali. Purtroppo perse la
partita: nel 1915 il governo Salandra entrò in guerra forzando la
volontà del Parlamento; e il prezzo della «vittoria mutilata», come la
definirà D’Annunzio, si rivelerà terribile.
Seicentocinquantamila morti, che gravano sulla coscienza di coloro
che la guerra l’hanno voluta, Mussolini compreso. Un milione di
mutilati e feriti, la cui vita è segnata per sempre. Disoccupazione
dilagante. Impennata dei prezzi. Conflittualità sociale. Risentimento
verso gli ufficiali, l’esercito, lo Stato, le istituzioni, compreso il
Parlamento.
Gli operai occupano le fabbriche. Una parte dei socialisti, quella che
non si riconosce nel riformismo di Turati, sogna la rivoluzione, come
in Russia. Scioperi, scontri, violenze, morti. Il 1919 e il 1920 passano
alla storia come il «biennio rosso». Giolitti, tornato al potere, tiene a
bada sia i sovversivi, sia i reazionari. E quando Giovanni Agnelli, che
reazionario non è ma vorrebbe riprendersi la Fiat occupata, chiede
l’intervento dell’esercito, Giolitti risponde: «Benissimo, darò l’ordine
di bombardarla». L’occupazione finirà da sé. Ma gli industriali, e più
ancora gli agrari, non si fidano più dell’esercito, e neppure di
carabinieri, poliziotti, guardie regie.
Ai reazionari, Mussolini offre un braccio armato. Il movimento
fascista nasce con qualche velleità sociale; ma fin da subito il suo
spazio politico e la sua azione concreta sono all’estrema destra. Il Duce
si schiera dalla parte dei più forti, cui promette di aiutarli a restare tali,
in cambio di denaro. Riceverà finanziamenti dai latifondisti, dai
proprietari agricoli, dai padroni delle ferriere; e in cambio sfascerà la
testa dei braccianti, dei lavoratori, degli operai riottosi.
Certo, dall’altra parte non c’erano dei santi. Anche la sinistra
esercitava la violenza. Anche gli anarchici, i socialisti e poi i comunisti
fecero vittime. Ma non ci fu mai proporzione tra i fascisti e i loro
avversari per quanto riguarda l’esercizio della forza, l’uso delle armi,
l’organizzazione militare, la metodicità delle aggressioni, la
spietatezza dei colpi, il numero dei morti lasciati sul terreno. E
soprattutto, quando i fascisti incrudelirono e presero il potere, il
«biennio rosso» era finito da tempo, e non c’era nessuna possibilità
che la sinistra facesse la rivoluzione in Italia. Nessuna. La paura dei
bolscevichi può aver avuto un ruolo nella nascita e nella crescita del
fascismo; ma non l’ha avuto, almeno non direttamente, nell’ascesa al
governo e nell’imposizione della dittatura.

Il Duce dal «covo» alla galera


Il 1919 è un anno elettorale. Si vota il 16 novembre, per la prima volta
con una legge proporzionale. I fascisti faticano a presentare le liste. A
Milano, dove sono nati, ottengono la miseria di 4657 voti; Mussolini
raccoglie 2427 preferenze.
I socialisti sono il primo partito con il 32%: una media tra le Regioni
industriali del Nord e quelle agricole del Sud. In Piemonte hanno il
50%, in Basilicata il 5; in Emilia il 60%, in Campania il 6. L’unico modo
che resta ai fascisti per farsi notare è prendere le armi contro di loro.
A Lodi, la sera dell’11 novembre, i socialisti avevano interrotto il
comizio di un candidato fascista, l’avvocato Enzo Ferrari. Due giorni
dopo, Ferrari torna a Lodi con sessanta uomini armati, che aprono il
fuoco sugli avversari, ne uccidono uno, ne feriscono sette, di cui due
moriranno in ospedale. I carabinieri fanno il loro dovere e arrestano 48
fascisti, che saranno rilasciati dopo pochi mesi. Tra loro c’è Albino
Volpi, che sotto la divisa degli arditi – come scrive Mimmo Franzinelli
nel suo bellissimo libro «Squadristi» (Feltrinelli) – indossa «una
maglia nera con ricamato sul petto un grande teschio bianco col
pugnale tra i denti; alla cintura porta un pugnale con manico di
madreperla». Scarcerato anche il capo delle squadracce bolognesi, ex
meccanico, ex ferroviere, ex sindacalista rivoluzionario, fisico da
pugile: Leandro Arpinati.
Per irridere Mussolini dopo il suo insuccesso elettorale, i socialisti
mettono in scena un macabro funerale in effigie. Volpi, quello della
maglia con il teschio sotto la divisa, insieme con il camerata De Grada
getta contro il corteo due bombe a mano: otto feriti.
Il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, stavolta
reagisce e telegrafa al prefetto di Milano, Angelo Pesce: chi nasconde e
usa le bombe deve essere arrestato. Nel comitato elettorale fascista
vengono trovate bombe a mano, pistole, munizioni, pugnali, mazze
ferrate. La polizia apre la cassaforte di Mussolini, nel suo ufficio al
Popolo d’Italia in via Paolo da Cannobio, che lui stesso chiama
«covo», e trova tredici rivoltelle, una pistola lanciarazzi austriaca,
quattordici bossoli, 419 cartucce. Il prefetto telegrafa a Nitti: «Benito
Mussolini è stato tradotto alle carceri». Altri fascisti sono arrestati per
attentato alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate.
Al presidente del Consiglio, però, il provvedimento pare eccessivo:
Mussolini deve essere liberato.

Da Milano il terreno di scontro si sposta a Trieste. Dopo la prima


guerra mondiale, all’Italia sono stati annessi anche territori abitati da
sloveni e croati: la convivenza non è facile, e il fascismo soffia sul
fuoco. La linea fin da subito è dichiaratamente razzista. Il leader è
Francesco Giunta, toscano, capitano di cavalleria, marito della
marchesa Zenaide Del Gallo di Roccagiovine. Sul suo giornale, Il
Popolo di Trieste, scrive: «Respingiamo la connivenza e la fratellanza.
E non vorremmo gli slavi al Parlamento italiano. E faremo di tutto per
non farceli andare».
A Trieste c’è un palazzo, il Narodni Dom, che ospita le associazioni
slave, oltre all’hotel Balkan: «un colosso gonfio di tradimento e di
minaccia» lo definisce Giunta. Durante un comizio fascista in piazza
Unità d’Italia, un ragazzo di 17 anni, cuoco in un albergo vicino, viene
accoltellato a morte, in circostanze mai chiarite. Parte il pogrom
antislavo. Gli squadristi devastano negozi e case delle comunità
slovene e croate, la sede del consolato jugoslavo, lo studio del leader
politico Josip Vilfan, che a Trieste è nato e cresciuto. Poi con taniche di
benzina danno fuoco al Narodni Dom: per sfuggire al rogo un
farmacista di Lubiana, ospite del Balkan, si getta dalla finestra e
muore.
Nei mesi successivi si scatena la violenza fascista: decine di Case
del Popolo e di circoli culturali sono distrutti, a volte con la complicità
di militari e forze dell’ordine. Viene coniato un motto molto gradito a
Mussolini, che lo farà proprio: «Pronti a uccidere, pronti a morire».
Preferibilmente, a uccidere.

Alle armi pensa Mussolini


Il luogo comune vuole che il Duce non si sia mai sporcato le mani di
sangue, non sia mai stato coinvolto personalmente, non abbia
responsabilità dirette; si sarebbe limitato ad approfittare dei torbidi.
In realtà, Mussolini è il vero organizzatore delle squadre. Si occupa
anche della logistica. E dell’aspetto più importante: le armi. Il ras
marchigiano Raffaello Riccardi va a incontrarlo di persona: «Prese un
foglio di carta, scrisse poche parole e mi disse d’andare all’indirizzo
che aveva segnato sulla busta … Andai all’indirizzo indicatomi, esibii
la lettera, ebbi le armi. Due grosse valigie piene di rivoltelle e bombe a
mano».
Il 17 febbraio 1921 gli squadristi fiorentini vanno a esercitarsi alle
cave di Maiano. Uno studente diciottenne, Mario Piazzesi, ne ha
lasciato testimonianza nel suo diario. Si comincia con il tiro da fermo,
poi i capi avvertono: «Loro non stanno fermi. Non sono mica fessi da
fermarsi quando tu spari». Così si prendono a sassate le anatre di uno
stagno, «e quando il bersaglio svolazza via spaventato, uno sgranare
di colpi lo accompagna». Dieci giorni dopo, anziché le anatre, il
bersaglio mobile sono i popolani di San Frediano, che si sono ribellati
alle camicie nere. La rivolta è domata dopo cinque giorni di
combattimenti, in cui i fascisti sono stati affiancati dai militari: almeno
dodici i morti tra gli abitanti dell’Oltrarno. Mussolini teorizza: la
violenza è «una necessità chirurgica, una dolorosa necessità».
Nelle squadracce c’è di tutto. Il nerbo è costituito dagli arditi, i
veterani della Grande Guerra. Molti sono giovanissimi. Altri sono
criminali di professione. Alcuni sono inesperti: accade che si feriscano
da soli, anche se poi la responsabilità viene scaricata all’avversario. È
una sorta di lotta di classe al contrario. Lo testimonia un altro fascista
fiorentino, Umberto Banchelli, detto il mago. Non un tipo tenero:
bastona i commercianti che rifiutano «la giustizia fascista» e il ribasso
dei prezzi; compila liste di proscrizione con i nomi dei sovversivi,
costretti a scegliere tra la morte e l’esilio, come al tempo delle guerre
civili nell’antica Roma. Ma Banchelli è di origine popolare, e non gli
garbano le cose che ha visto fare dai «figli dell’avvocato, del dottore,
del fornitore»: «Bastava che uno stuolo di questi incontrassero gente
vestita da operaio, perché i giustizieri picchiassero di santa ragione».
Il 4 novembre 1920, secondo anniversario della vittoria della
Grande Guerra, i fascisti scortano i cortei militari, e al grido di «giù il
cappello!» impongono con la forza il saluto al tricolore e l’omaggio
agli ufficiali, spesso insultati dai reduci delle trincee. Ma presto la
priorità diventano le vendette degli agrari e degli industriali.
I cortei sindacali, le riunioni nelle sedi dei partiti di sinistra, le
sedute dei consigli comunali vengono interrotte dalle irruzioni delle
camicie nere, che picchiano, a volte sparano, e poi si vantano con
comunicati beffardi: «Deputazione provinciale rossa. Presidente:
Leprendo; consiglieri: Leprendiamo. Ordine del giorno: Schiaffi». Le
squadracce hanno nomi immaginifici: Me ne frego, Indomita, Satana,
Folgore, e pure Asso di bastoni e Ramazza. Mussolini fa dell’ironia: «È
evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dobbiamo a
suon di randello toccare i crani dei refrattari».
Il sangue di Bologna
L’episodio più grave avviene nella città che già allora è la capitale
della sinistra italiana: Bologna.
Il 31 ottobre i socialisti hanno stravinto le elezioni comunali con il
58,2% dei voti. Ma i fascisti si sentono pronti per la prova di forza e il
4 novembre vanno all’assalto della Camera del Lavoro, difesa da un
centinaio di guardie rosse, arrivate da Imola con fucili e pistole. La
Camera del Lavoro è guidata dal parlamentare socialista Ercole Bucco,
che si spaventa, nasconde le armi in casa propria, e chiede aiuto alla
questura. I poliziotti trovano le armi e arrestano Bucco. I fascisti
entrano nella Camera del Lavoro indifesa e le danno fuoco.
Il 21 novembre si dà l’assalto a Palazzo d’Accursio, sede del
Comune, dove quel giorno si insedia l’amministrazione socialista.
Trecento camicie nere armate invadono piazza Maggiore, la folla
sbanda, molti si rifugiano dentro il Palazzo. Gli avvenimenti sono
caotici, e non saranno mai ricostruiti con chiarezza. Le guardie rosse
dimostrano tutta la loro imperizia; ma non bisogna dimenticare che
sono i fascisti a provocare, ad assalire, a tentare di impedire
l’insediamento di un consiglio comunale eletto dai cittadini. Il servizio
d’ordine getta cinque bombe a mano sulla piazza, le esplosioni si
sentono nella sala del consiglio, una guardia rossa spara sui consiglieri
di opposizione e uccide Giulio Giordani, liberale. I fascisti ne faranno
un loro martire. Sulla piazza si contano dieci morti: sette uccisi dalle
camicie nere, tre dal servizio d’ordine. Il risultato è che il sindaco Enio
Gnudi e la giunta non si insediano neppure, al loro posto arriva il
commissario prefettizio. I fascisti hanno vinto, la democrazia ha perso.
Vale la pena ricordare il giudizio espresso da Salvemini, esule negli
Stati Uniti, durante una delle sue lezioni ad Harvard: «Nel corso dei
due anni della loro “tirannia”, i “bolscevichi” non devastarono
neppure una volta l’ufficio di un’associazione degli industriali, degli
agrari o dei commercianti; non obbligarono mai con la forza alle
dimissioni nessuna amministrazione controllata dai partiti
conservatori; non bruciarono neppure una tipografia di un giornale;
non saccheggiarono mai una sola casa di un avversario politico. Tali
atti di “eroismo” furono introdotti nella vita italiana dagli
“antibolscevichi”».
Ora che le cose si mettono bene, Mussolini può traslocare. Lascia la
piccola redazione milanese del suo giornale per trasferirsi in una più
grande, in via Lovanio, una traversa di via Moscova, a due passi dal
Corriere della Sera. Il direttore carica personalmente in una cassa
l’armamentario del «covo»: bombe a mano, pistole, manganelli e il
drappo nero con al centro un teschio con un pugnale tra i denti.
Sarebbe grottesco, se i fascisti non avessero già sparso molto sangue.

È possibile che Antonio Gramsci esageri, quando traccia questo


bilancio delle violenze, nell’agosto 1921. L’anno precedente «2.500
italiani (uomini, bambini e vecchi) hanno trovato la morte nelle vie e
nelle piazze, sotto il piombo della pubblica sicurezza e del fascismo.
Nei trascorsi 200 giorni di questo barbarico 1921, circa 1.500 italiani
sono stati uccisi dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del
fascista. Circa 40.000 liberi cittadini della democratica Italia sono stati
bastonati, storpiati, feriti … circa 300 amministrazioni comunali elette
col suffragio universale sono state costrette a dimettersi; una ventina
di giornali socialisti, comunisti, repubblicani, popolari sono stati
distrutti; centinaia e centinaia di Camere del lavoro, di case del
popolo, di cooperative, di sezioni comuniste e socialiste sono state
saccheggiate ed incendiate; 15 milioni di popolazione italiana
dell’Emilia, del Polesine, delle Romagne, della Toscana, dell’Umbria,
del Veneto, della Lombardia sono stati tenuti permanentemente sotto
il dominio di bande armate, che hanno incendiato, hanno
saccheggiato, hanno bastonato impunemente».
Ma anche i dati del ministero dell’Interno disegnano un quadro
drammatico. Nel 1920 sono stati assassinati 172 socialisti, e altri 578
sono stati feriti; i morti fascisti sono quattro. Nei primi sei mesi del
1921 le vittime dello squadrismo sono almeno trecento.
Anche le leghe bianche, cattoliche, sono perseguitate: i fascisti le
sciolgono a bastonate, distruggono trebbiatrici e trattori, costringono i
soci a iscriversi alle «corporazioni» fasciste. Il fondatore del partito
popolare, don Luigi Sturzo, scrive al governo per denunciare che i
carabinieri non intervengono. In effetti accade che riunioni di
carabinieri siano chiuse dalla fanfara che suona Giovinezza.
Gli agrari chiamano, anche per risolvere questioni sindacali o
evitare di onorare i debiti, e i fascisti rispondono: il 17 gennaio 1921 gli
squadristi cremonesi aggrediscono un contadino, rappresentante della
lega cristiano-democratica, che ha chiesto al padrone della cascina il
pagamento degli arretrati, e lo bastonano a sangue, senza dire una
parola.
Il 4 aprile 1921 Mussolini è in visita a Ferrara: arringa i sostenitori
da un palco tappezzato con settanta bandiere rosse, trofeo di guerra
delle squadracce. Su ventuno amministrazioni socialiste della zona,
diciassette si sono dovute dimettere dopo le aggressioni.
A volte si spara per uccidere. Altre volte si picchia per intimidire:
come Paolo Gori, contadino di Pistoia, bastonato sino a perdere l’uso
delle gambe e del braccio destro. Altre volte ancora si usano tecniche
per umiliare l’avversario, costretto a bere l’olio di ricino. Scrive
Franzinelli: «Un amministratore comunale o un capolega, costretto a
sfilare in paese imbrattato dei suoi escrementi, ne usciva sminuito ai
propri occhi e a quelli dei suoi compagni che avevano assistito allo
“spettacolo” senza la forza di interromperlo. Se l’avversario era
incorreggibile, all’olio di ricino si sostituiva l’olio lubrificante e la
salute delle vittime ne risentiva per tutta la vita». L’umiliazione
pubblica tocca, tra gli altri, a Foscolo Scipioni, leader dei socialisti di
Cortona, Arezzo. Al deputato repubblicano Ulderico Mazzolani,
veterano della Grande Guerra. E al socialista Giacinto Menotti Serrati,
successore di Mussolini alla direzione dell’Avanti!, viene tagliata la
barba per sfregio.
Il 18 dicembre 1920 due deputati e avvocati socialisti, Genuzio
Bentini e Adelmo Niccolai, entrano nel tribunale di Bologna, dove
difendono braccianti accusati di violenze. All’uscita li aspettano i
fascisti, che li bastonano a sangue. Anche la madre di Niccolai, che
tenta di proteggere il figlio, viene picchiata. Bentini è l’avvocato che
aveva difeso il giovane Mussolini, allora socialista, arrestato per le
proteste contro la guerra di Libia. Altri deputati vengono aggrediti,
seviziati, banditi dalle loro città.
Legato al cofano della macchina
Il 1921 è l’anno della caccia all’uomo. Ad aprile il deputato friulano
Marco Ciriani viene preso, obbligato a ingurgitare un litro di olio di
ricino e a defecare sul testo dei suoi discorsi parlamentari; poi i fascisti
lo legano sul cofano di una macchina e lo portano in giro per l’Alto
Friuli, prima di tornare a Udine e tagliargli un baffo, nella convinzione
di umiliarlo, in realtà svelando se stessi.
Il 13 maggio viene ucciso Eriberto Ramella Germanin, socialista,
consigliere provinciale di Biella, aggredito dodici contro uno. Il 29
maggio un centinaio di fascisti, nascosti dai passamontagna tipo
rapinatori o membri del Ku Klux Klan, danno la caccia ai socialisti di
Coniolo Monferrato casa per casa: almeno nove vengono aggrediti.
La notte del 22 luglio ad Acquaviva, Siena, tre squadristi armati di
rivoltella bussano alla porta di un contadino, Gino Castellani: «Scendi,
ti dobbiamo parlare». Aprono la porta i familiari: «Cosa volete?».
Quelli sparano, muoiono due suoi fratelli, Ottorino e Bruno Castellani.
I fascisti di Conversano, in Puglia, condannano a morte il
parlamentare socialista Giuseppe Di Vagno: per due volte lui riesce a
sfuggire agli agguati; ma il 25 settembre è assassinato con tre colpi di
pistola e una bomba a mano durante un comizio a Mola. La lapide in
sua memoria, inaugurata dallo storico capo dei braccianti, Giuseppe
Di Vittorio, viene distrutta, ricostruita, di nuovo infranta. Dieci
assassini sono condannati, ma dopo pochi mesi Mussolini, preso il
potere, li fa liberare: i colpevoli vengono portati in trionfo per le vie di
Conversano, si fermano sotto la casa della vedova Di Vagno, lanciano
grida di scherno e di trionfo.
Cerignola, dov’è nato Di Vittorio, e gli altri paesi agricoli del
Tavoliere sono terrorizzati dalle squadre a cavallo di Giuseppe
Caradonna, che lasciano sul terreno almeno dodici morti. I rivenditori
di «Spartaco», il settimanale socialista, vengono bastonati, le copie
bruciate in piazza. Le violenze non risparmiano le donne. La lega dei
contadini di San Ferdinando, nel Foggiano, viene distrutta. Antonio
Di Corato, socialista, la riapre; nel gennaio 1922 è ucciso con un colpo
di pistola alla schiena.
(Mi rendo conto che l’elenco rischia di diventare ripetitivo. Chiedo
scusa al lettore per questo. I nomi delle vittime sono oggi appunto
puri nomi, che non suonano, che rischiano di lasciarci indifferenti;
perché nessuno li ricorda, nessuno li conosce. Anche i loro figli sono
morti; e molti, uccisi in giovane età, di figli non ne hanno avuti. La
loro memoria è del tutto spenta. Questo però è un buon motivo per
tentare di ridestarla. Anche perché le violenze che sto raccontando
sono soltanto una parte di quel che è accaduto, di quel che i fascisti
hanno fatto).

L’11 dicembre 1921 le camicie nere di Cremona tendono un agguato


lungo una strada di campagna ad Attilio Boldori, socialista, invalido
di guerra. Lui tenta di fuggire ma la sua auto si guasta, il camion degli
squadristi gli è addosso, lo bastonano e lo finiscono con un calcio in
testa. Il capo, Roberto Farinacci, li scagiona con queste odiose parole:
«Non è colpa loro se le ossa del cranio di Boldori si erano rivelate
troppo deboli».
A volte i fascisti sono eccitati dall’alcol e dalla droga. Tommaso
Beltrani, braccio destro di Balbo, è un cocainomane. Un’altra squadra
di Ferrara è detta la Celibano, nome derivato dalla storpiatura di
«cherry brandy», l’ordinazione abituale al bar del capo, Arturo
Breviglieri, ex ardito. Nel 1923, quando il Duce è al potere da un anno,
le camicie nere bastonano il direttore della farmacia dell’ospedale di
Alfonsine, in Romagna, che ha negato un grammo di cocaina a una di
loro. Nell’arruolamento non si bada ai dettagli. Il capo del fascio di
Alfonsine, Abele Faccani, è un ex anarchico, pregiudicato per reati
comuni. Nella sua squadra ci sono tre giovani riformati per pazzia,
quattro condannati per renitenza alla leva, un ex comunista
condannato per violenze, un omicida che si è fatto otto anni di carcere.
Altrove i capi sono aristocratici, o presunti tali: a Crema il conte Ercole
Premoli, a Piacenza il conte Bernardo Barbiellini Amidei, a Firenze
Dino Perrone, che si è fatto aggiungere il cognome della madre,
Compagni, e si fa chiamare marchese.
Poi ci sono le tante piccole soperchierie quotidiane. Il ciabattino
socialista di Bevagna, in Umbria, che si vede le vetrine del negozio
infrante, le scarpe gettate in mezzo alla strada, la casa devastata. Gli
squadristi al servizio degli agrari, che tingono di nerofumo i volti
delle donne che spigolano nei campi e schiaffeggiano i contadini per
indurli a reagire. I quaranta «fascisti ciclisti» che devastano la
cooperativa di Calvignasco, nel Milanese, gettano i viveri in una
roggia, vanno in cantina e per sfregio aprono le botti piene di vino. La
fruttivendola di via della Vite, a Roma, aggredita dalle camicie nere
che vogliono costringerla ad abbassare i prezzi; suo figlio tenta di farsi
giustizia da sé e viene ammazzato.
Quando devastano i giornali a loro ostili, i fascisti si procurano
l’elenco degli abbonati, poi vanno a far loro visita, sempre in gruppo,
sempre armati. Tentano di aggredire il direttore de Il Paese,
quotidiano riformista, ma la scorta lo difende; per vendetta gli
bastonano il figlio.
Nel giugno 1921 tutti i parlamentari ricevono un dossier preparato
dal partito socialista, che ricostruisce decine di delitti del fascismo.
Certo, è una versione di parte. Ma il sangue versato non è
immaginario. Scelgo una storia tra tante, l’omicidio di Giovanni
Salvadeo, contadino, assassinato il 27 aprile 1921 da un gruppo di
uomini mascherati nella sua cascina, in Lomellina. «I malviventi,
vedendo che il Salvadeo non rispondeva loro, forzarono il cancello,
penetrarono nel cortile e quindi nella casa. La moglie e i figli del
Salvadeo al loro comparire si diedero a urlare terrorizzati. E ce n’era
ben donde! Essi erano armati di poderosissime mazze, di pugnali e
rivoltelle alla cintura. Le maschere poi davano loro un aspetto
macabro. Il povero Salvadeo, sentendo le urla di terrore dei suoi
bimbi, non ebbe cuore di fuggire e tornò verso la corte. Comparve
sull’uscio e con voce incerta disse, allargando le braccia: “Volete
proprio me? Eccomi!”. Il più alto degli assassini gli vibrò subito sulla
testa una mazzata formidabile che lo fece quasi cadere e gli altri ne
seguirono l’esempio, mentre la moglie e i figli del poveretto
assistevano alla terribile scena agghiacciati dallo spavento.
Grondando sangue e barbugliando scomposte parole di pietà, il
Salvadeo si trascinò barcollante nel cortile e cadde bocconi sovra un
mucchio di sabbia. Allora gli assassini gli furono addosso e lo
percossero selvaggiamente colle mazze. Quando non si mosse più, il
più alto cavò un revolver dalla cintura e gli sparò un colpo a
bruciapelo nel dorso».

La presa delle città


Ora i fascisti si sentono pronti per lo scontro aperto. Non si tratta più,
o almeno non soltanto, di aggredire militanti isolati. È il momento di
prendersi le città.
Il 13 luglio 1921 un migliaio di camicie nere vanno all’assalto di
Treviso con bombe e mitragliatrici: distruggono le tipografie dei
giornali Il Piave e La Riscossa, le sedi del partito repubblicano e del
partito popolare. La città brucia, le forze dell’ordine intervengono
soltanto il giorno dopo, arrestano decine di fascisti che saranno presto
rilasciati.
I processi sono farse, segnate dalle minacce e dalle violenze. I
testimoni, intimiditi, ritrattano le denunce. I medici che certificano le
ferite delle vittime vengono bastonati. Se l’imputato è un
«sovversivo», le camicie nere affollano il tribunale, per impedire agli
avvocati difensori di parlare. In caso di assoluzione, all’uscita
l’innocente, i suoi familiari, i suoi legali sono attesi dai manganelli.
L’anarchico Primo Bassi, di Imola, viene aggredito per strada,
estrae la rivoltella per difendersi; scoppia una sparatoria in cui muore
un passante, Edgardo Gardi, che i fascisti fanno passare per uno di
loro. La perizia balistica esclude che il colpo sia partito dalla pistola
dell’anarchico, che viene lo stesso condannato a vent’anni. Gli
squadristi festeggiano bastonandogli la moglie, il fratello e lo zio.
Chi va in carcere non sfuggirà comunque alla vendetta. Espiata la
pena, lo attende l’esecuzione sommaria per mano dei fascisti, nel
frattempo andati al potere; ma in almeno due casi la vendetta colpisce
in cella. Si ammazza anche la sera di Natale. Pietro Falchi, 26 anni,
invalido di guerra, comunista, viene condannato a quattro anni per
aver ferito due fascisti. Amnistiato, evita la sua Mantova e si nasconde
a Milano; ma quando tornerà a casa, il 25 dicembre 1923, verrà ucciso
a rivoltellate.

In questo clima, nel maggio 1921 si è votato. Nonostante le


violenze, i socialisti – sia pure in calo – si sono confermati il primo
partito; secondi i popolari; solo terzo il blocco nazionale che include i
fascisti: Mussolini entra a Montecitorio con altri 34 camerati. I liberali,
divisi in molti gruppi, a fatica riescono a esprimere un governo
debolissimo, sostenuto dai popolari. Per punizione, gli squadristi
aggrediscono il deputato cattolico di Cremona, Luigi Miglioli.
Incapace di ripristinare l’ordine e la giustizia, il governo tenta la
carta della pacificazione. Il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi e
il presidente della Camera Enrico De Nicola provano a mediare tra
fascisti e socialisti. A sorpresa, Mussolini accetta. Il 3 agosto a
Montecitorio delegati delle camicie nere, del Psi e della
Confederazione generale del lavoro, il sindacato di sinistra, si
impegnano a far cessare «minacce, vie di fatto, rappresaglie,
punizioni, vendette, pressioni e violenze personali».
Subito nei Fasci di combattimento scoppia la rivolta. Italo Balbo, ras
di Ferrara, fa sapere che lui il patto non lo riconosce. Rifiutano la
pacificazione sia duri come Farinacci sia un uomo che diventerà
esponente dell’ala moderata del regime, Dino Grandi. Si parla di
scissione.
Mussolini simula la ritirata e si dimette: «Il fascismo esce da questa
prova sconfitto. La partita è ormai chiusa. Chi è sconfitto deve
andarsene. Ed io me ne vado dai primi posti. Resto e spero di poter
restare semplice gregario del Fascio milanese». Ovviamente è una
finta. Nessuno dei gerarchi ha la personalità, la durezza, la
spregiudicatezza per guidare il partito e le sue squadracce. È la prima
volta, ma non sarà l’ultima, che Mussolini assume l’atteggiamento del
narcisista offeso, del grand’uomo immalinconito dalla propria stessa
grandezza.
La pacificazione in realtà non è mai esistita. I socialisti che ci
avevano creduto capiscono subito di essersi illusi. I fascisti continuano
a picchiare e a uccidere come prima. Il 15 novembre il Popolo d’Italia
titola che l’accordo è «morto e sepolto». Il governo reagisce
includendo le squadracce tra le formazioni illegali. Il giornale di
Mussolini rivendica ancora una volta la violenza: «Squadre e Fascismo
sono la stessa cosa. Squadre e Partito non sono un’antitesi ma
costituiscono un’identità perfetta».
I fascisti toscani, guidati dal «marchese» Perrone Compagni, vanno
all’assalto dei Comuni socialisti della Maremma. Sono costretti a
dimettersi i sindaci di Grosseto, Orbetello, Scansano, Manciano,
Roccalbegna, Cinigiano, Arcidosso. Soltanto Roccastrada, paese di
diecimila abitanti, resiste. Perrone Compagni scrive al sindaco Natale
Bastiani un avvertimento in perfetto stile mafioso, comprese le
minacce in caso di denuncia: «Vi consiglio a dare, entro domenica 17
aprile, le dimissioni, assumendovi voi, in caso contrario, ogni
responsabilità di cose e persone. E se ricorrete alle autorità questo mio
pio, gentile ed umano consiglio, il termine suddetto sarà ridotto a
mercoledì 13, cifra che porta fortuna». Il sindaco non si dimette.
Il primo luglio i fascisti piombano su Roccastrada, bastonano gli
abitanti, incendiano la lega boscaioli e il circolo contadino, devastano
la casa del sindaco; poi lo sequestrano e lo obbligano a firmare
l’impegno di dimettersi. Ma Natale Bastiani non intende riconoscere
una firma estorta, e resta al suo posto.
La vendetta è durissima. All’alba del 24 luglio le camicie nere
arrivano sui camion, pestano chiunque trovano in giro, sfasciano un
bar, distruggono i negozi, gettano mobili per strada, appiccano
incendi. Poi ripartono verso Sassofortino, un altro paese da punire.
Lungo il percorso uno dei fascisti, Ivo Saletti, viene ucciso da una
fucilata. Siccome non si vede lo sparatore, i camerati bruciano le
cascine della zona e uccidono i proprietari. Otto contadini vengono
sgozzati con i pugnali o colpiti da fucilate a bruciapelo. Nessuno di
loro faceva politica. Tra le vittime c’è un vecchio che ha rifiutato di
dare la figlia in sposa a uno degli squadristi; che poi ritornano a
Grottasecca e ammazzano altri due passanti.
I carabinieri non si sono mossi. Il giorno dopo l’ispettore di polizia
annota di aver visto i segni di una «inaudita ferocia». Un calzolaio
storpio, Checcucci, ha ricevuto sei rivoltellate al petto ed è stato finito
con un colpo di fucile. A casa Bartaletti un ragazzo e suo padre sono
stati uccisi davanti alla madre, che impazzita ha passato l’intera
giornata ad asciugare il sangue che esce dalle ferite. Dal rapporto
scritto dall’amministrazione comunale di Roccastrada: «La poveretta
narra che avendo rialzato il figlio mortalmente ferito, mentre se lo
stringeva al seno questi aprì gli occhi e fu l’ultimo sguardo, perché
una belva avendo ciò osservato tirò ancora un colpo al capo del
poveretto, facendo cadere nel grembo della madre atterrita sangue e
materia cerebrale. Tutti i morti vennero finiti con orrende sgozzature e
con molteplici fucilate, o lasciati languire al suolo per molte ore».
Nel dicembre 1922 i fascisti che hanno fatto dieci morti a
Grottasecca saranno amnistiati. Anarchici e comunisti del paese
andranno a processo e saranno condannati a vent’anni di carcere.

I forconi di Sarzana
L’Italia viene conquistata pezzo a pezzo, e le spedizioni punitive si
concentrano sulle zone ribelli. Come le Alpi Apuane, la terra dei
cavatori di marmo, dove resiste una forte tradizione anarchica e
operaia. Il questore di Massa, severo con i fascisti, viene rimosso e
sostituito dal suo vice Giustiniani: il figlio è uno dei capi delle
squadracce. Il procuratore di Massa informa che la magistratura non
procederà contro i fascisti, i quali sentono di avere le mani libere. Il 5
giugno 1921 entrano a Pontremoli, il 12 ripuliscono Portovenere
uccidendo un anarchico.
Sarzana invece resiste. La popolazione non ama i fascisti, a maggior
ragione da quando trenta uomini armati sono entrati in città e hanno
aperto il fuoco a casaccio, uccidendo un settantenne affacciato alla
finestra.
Il 15 luglio viene ucciso in un agguato vicino a Carrara un
imprenditore. È un delitto «rosso», che scatena la rappresaglia nera.
Due giorni dopo, cento uomini distruggono la cooperativa e il circolo
socialista di Monzone, un paesino di montagna, uccidendo due operai
e un contadino. Scrive Mimmo Franzinelli: «La sosta per il pranzo ad
Aulla fu movimentata dalla bastonatura di un anarchico; nel
pomeriggio le squadre si diressero a Santo Stefano di Magra, dove
massacrarono il contadino Edoardo Vannucci e perquisirono diverse
abitazioni alla ricerca di armi (ma l’operazione fruttò denaro e
gioielli). I camion giunsero in serata nei pressi di Sarzana e gli
squadristi freddarono Rinaldo Spadaccini mentre tornava a casa dopo
la pesca pomeridiana». Stavolta le forze dell’ordine reagiscono e
arrestano il capo delle camicie nere, Renato Ricci, con altri dieci
camerati.
I fascisti rispondono, dalla Toscana e dalla Liguria puntano su
Sarzana diverse colonne armate. Un’avanguardia uccide a fucilate un
contadino di Ameglia, al lavoro nei campi. La popolazione si ribella.
Due giovani squadristi, Augusto Bisagno di 19 anni e Amedeo Maiani
di 17, mandati a cercare rinforzi, vengono catturati e linciati. Una
morte orribile: i corpi mutilati e gettati in un burrone saranno
rinvenuti solo dopo una settimana.

Ormai è battaglia. Cinquecento fascisti furibondi attaccano Sarzana,


dove però c’è un capitano dei carabinieri, Guido Jurgens, deciso a fare
il proprio dovere. Ha represso i rivoluzionari nel biennio rosso, e ora
intende fare altrettanto con i reazionari. Lo aiuta un caporale di
fanteria, Paolo Diana, che ha ai suoi ordini tre soldati.
Le camicie nere sparano, i carabinieri rispondono al fuoco:
muoiono il caporale e otto squadristi. Gli altri fuggono, ma i contadini
che si erano armati per resistere li attendono al varco. Stavolta sono
loro, i fascisti, le vittime della caccia all’uomo. Dante Bertozzi, 44 anni,
padre di otto figli, sarà riconosciuto a stento dai parenti. Arnaldo
Puggelli, 18 anni, vaga per la campagna, cerca soccorso, viene
respinto; quando vede un uomo con un fucile si lancia contro di lui,
ma quello gli pianta l’arma nell’addome e spara. Paolo Pelù, 21 anni,
studente di Massa Carrara, ferito nella sparatoria, viene ucciso a colpi
di forcone e di accetta (il suo pronipote Piero Pelù, rocker e uomo di
sinistra, ne racconterà la storia nella sua autobiografia «Spacca
l’infinito»).
Fedele alla promessa di impunità fatta agli uomini di Mussolini, il
procuratore di Massa libera Ricci e gli altri. Viene predisposto un
treno speciale per portare via le camicie nere da Sarzana. Appena i
vagoni si mettono in moto, i fascisti sparano all’impazzata sui
ferrovieri e sugli abitanti, che rispondono al fuoco: cadono un
casellante e uno squadrista di vent’anni, Piero Gattini, figlio di un
industriale del marmo.
Nei giorni successivi infuriano le spedizioni punitive. Una
squadraccia battezzata «Plotone d’esecuzione» si presenta a Fossola
con una lista di persone da giustiziare, e uccide due operai e un
muratore. Altri tre innocenti vengono assassinati a Bergiola. L’ordine
viene ristabilito quando arriva a Massa Carrara un ispettore di polizia
serio e imparziale, Vincenzo Trani.
Nel novembre 1922, una delle prime preoccupazioni del nuovo
governo Mussolini sarà collocare a riposo – senza pensione –
l’ispettore Trani. Il capitano dei carabinieri Jurgens verrà trasferito e
indotto a cercarsi un altro lavoro. Il sindaco socialista di Sarzana sarà
costretto a dimettersi. Per punizione verranno spostati a La Spezia il
tribunale, la corte d’Assise e la sede vescovile. I contadini che avevano
difeso le loro case saranno mandati sotto processo; chi non verrà
condannato sarà bastonato all’uscita dell’aula.

Il prefetto di ferro
Il 22 novembre 1921 viene istituito il comando generale dell’esercito
fascista, modellato «sull’organizzazione militare romana». A leggere il
documento non si sa se ridere o piangere. Sembra un esercito da
operetta; in realtà, è una macchina di violenza efficiente e feroce. In
campo aperto sarebbe spazzata via facilmente («in un quarto d’ora»
ironizza il generale Pietro Badoglio); ma nella guerriglia, negli assalti
alle sedi nemiche, nelle bastonature dei dissidenti è un’arma spietata e
sanguinosa nelle mani del capo.
Gli iscritti al partito sono divisi in «prìncipi», soldati attivi, e
«triari», riservisti. Ogni squadra, composta da venti a cinquanta
uomini, ha un capo e due vice, i decurioni. Quattro squadre formano
una centuria, guidata da un centurione; quattro centurie fanno una
coorte, comandata dal seniore; da tre a nove coorti compongono una
legione, guidata dal console.
Ogni squadrista è tenuto a indossare una divisa: camicia nera,
fascia nera o cintura di cuoio, pantaloni con fasce, gambali, fez nero
(facoltativo). Il decurione ha diritto di portare un cordoncino d’oro
lungo cinque centimetri, il caposquadra due cordoncini, il centurione
tre, il seniore un cordone più grande; il console porta un fascio littorio
in campo rosso con la stella d’Italia, e finalmente ai quattro ispettori
generali spetta l’aquila romana, in campo d’argento.

L’esercito privato del Duce ora colpisce lo Stato liberale. Vuole


dimostrare di saper ottenere per i suoi aderenti e per i lavoratori cose
che il governo non sa o non vuole dare. Così Italo Balbo organizza la
marcia su Ferrara: 40 mila disoccupati sono indotti o costretti a
prendere la città. Cibo e vino sono gratis; ma gli operai e i contadini
vengono obbligati a sdraiarsi attorno al Castello, per presidiarlo,
mentre i capi degli agrari con la rivoltella in pugno gridano: «Chi si
muove è un uomo morto!». Camion di squadristi girano attorno alla
piazza, trascinando latte vuote che provocano un rumore d’inferno.
Le guardie regie vengono derise, insultate, disarmate: per entrare e
uscire da Ferrara occorre il lasciapassare dei fascisti. Scoppia una
bomba in municipio e un’altra in tribunale. Il governo è lieto di cedere
alle richieste di Balbo, e stanzia due milioni e mezzo per lavori
pubblici. Il prefetto Gennaro Bladier chiede l’intervento dell’esercito;
viene sostituito con un funzionario filofascista, Cesare Di Giovara.
Ma il grande nemico di Mussolini è il prefetto di Bologna: Cesare
Mori. È arrivato in città nel febbraio 1921, e in pochi mesi ha fatto
arrestare 84 camicie nere. Soprattutto, ha tolto loro il controllo del
mercato del lavoro nelle campagne. I giornali di estrema destra lo
definiscono «viceré asiatico», «lurido questurino», «quel cane di
Mori».
Il 26 maggio Mussolini ordina l’attacco a Bologna, mandando
avanti Balbo e Arpinati con diecimila uomini. Le squadre occupano il
centro, tagliano le linee del telefono e del telegrafo, assediano la
prefettura. Cesare Mori si trova prigioniero: per tre giorni nessuno
può uscire dal palazzo. Arrivano reparti di cavalleria, ma i fascisti
gettano petardi tra le zampe degli animali, che si imbizzarriscono e
disarcionano i cavalieri. Gli industriali, la stampa, i liberali fanno il
vuoto attorno a Mori; il governo lo chiama a Roma «per
consultazioni» e lo sostituisce con il viceprefetto di Genova, Rossi,
gradito a Mussolini, che ordina di togliere l’assedio.
Bologna è domata. Ma quando il Duce avrà bisogno di un «prefetto
di ferro» per combattere la mafia in Sicilia – almeno in un primo
tempo, fino al 1929 –, si ricorderà di quel nome: Cesare Mori.

Nell’estate del 1922 fallisce l’ultimo tentativo di resistenza. I


socialisti indicono per il primo agosto uno «sciopero legalitario», per
protestare contro le violenze. È un fallimento, ed è un regalo a
Mussolini. Molti vanno al lavoro comunque, per timore di ritorsioni. I
fascisti da una parte sostituiscono ferrovieri, tranvieri, postini che allo
sciopero hanno aderito; dall’altra si scatenano contro gli operai.
Centinaia di lavoratori vengono pestati, violati, torturati.
Scrive Mussolini: «Il contrattacco fascista si è sferrato; mentre
tracciamo queste linee fumano ancora gli incendi delle superstiti
Camere del lavoro, dei circoli comunisti».
A luglio sono espugnate Ravenna, Rimini, Novara, Viterbo,
Cremona. L’amministrazione socialista più importante d’Italia, quella
di Milano, cade sotto la violenza: il 6 agosto i fascisti espugnano
Palazzo Marino, la sede del Comune, e ne cacciano la giunta socialista
eletta dai cittadini; dal balcone D’Annunzio arringa le camicie nere
festanti. La redazione dell’Avanti! viene distrutta per la seconda volta.
La prova di forza della sinistra si è trasformata nella prova di forza
dell’estrema destra. I tempi sono maturi per la presa del potere.
Tra fine luglio e inizio agosto cadono 221 amministrazioni
comunali socialiste: Ancona, Bari, Terni, Varese, e poi Civitavecchia,
Savona, infine Bolzano, Trento, Vicenza, Belluno… La colonna che il 2
agosto prende Ancona è descritta così dai testimoni: «Camicie e
berrette nere. Uno era con una tunica celeste. Uno aveva un elmetto di
ferro. Un altro aveva un moschetto da cavalleria. Molti portavano
dipinti grossi teschi sul petto. Tutti con clave e bastoni nodosi
inverosimili. Recavano una bandiera tricolore e si sono annunciati con
spari di revolver e con canti…». E ancora: «Sono migliaia, armati con
rivoltelle e bombe a mano che, munite di sicura, fanno rotolare per
strada, forse per far vedere che non hanno paura di morire».
Soltanto Parma resiste. Diecimila fascisti guidati da Italo Balbo
assediano l’Oltretorrente, il quartiere operaio, tenuto dagli Arditi del
popolo di Guido Picelli, cui si è unita la popolazione. Per difendere la
loro città cadono tra gli altri il consigliere comunale Ulisse Corazza,
popolare, due meccanici, Carluccio Mora di 24 anni e Mario Tomba di
17, e un ragazzo di appena quattordici anni, Gino Gazzola. Interviene
l’esercito, Balbo è costretto a ritirarsi. Valuta di aver perduto quindici
uomini, ma non ne cita i nomi.

Il linciaggio del comunista


Il 20 settembre 1922 Mussolini parla a Udine, e fa un’apologia dei reati
commessi ogni giorno dai suoi: «E vengo alla violenza. La violenza
non è immorale. La violenza è qualche volta morale … La violenza è
risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in quarantotto ore di
violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non
avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda.
Quindi quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione
cancrenosa, è moralissima, è sacrosanta, è necessaria».
Qualche giorno dopo le parole del Duce hanno un’eco a Forlì. La
città è occupata dai fascisti. L’operaio comunista Domenico Martoni,
23 anni, viene catturato di notte in casa, bastonato, legato a un camion
e trascinato per le vie della città. Poi gli orinano in bocca, gli sparano,
e lo abbandonano agonizzante. Martoni, o quel che ne resta, spira la
mattina del primo ottobre all’ospedale di Forlì.
Il 30 settembre la rivista Il littore pubblica una «poesia» intitolata
San Manganello:

Le teste di legno
in alto e in basso
son state domate
con quattro legnate
lor desti il cervello
o San Manganello.
Un tronco piallato
su teste, su schiene
con forza è cascato
e a posto le tiene
sanato a un tratto
ne fu il mentecatto
tornogli il cervello
per San Manganello.
E se il comunista
solleva la cresta
arriva il fascista
gli rompe la testa
orsù, vivaddio,
chiamatelo dio
ché torna a cappello
di San Manganello.
Un popolo pieno
di tante fortune
non può far a meno
del senso comune
Italia! Hai domato
il bruto arrabbiato!
Evviva il randello
di San Manganello!

Il 10 ottobre 1922, il ministro della Giustizia Giulio Alessio, in una


lettera a Giovanni Giolitti, capo del suo partito, traccia il bilancio delle
violenze. In 40 giorni si contano per motivazioni politiche «74 omicidi,
79 lesioni personali, 75 violenze private, 72 danneggiamenti, 37
appiccati incendi. Certe regioni vivono sotto un regime di terrore per
cui non si possono nemmeno tenere i processi penali, in quanto le
parti lese e i testimoni si guardano bene dal deporre per tema d’essere
ammazzati o almeno bastonati».
I fascisti ormai agiscono alla luce del sole. Non si spostano più di
notte in camion; pretendono di salire in treno, ovviamente senza
pagare il biglietto; e se i ferrovieri protestano, sono botte. Squadristi di
Gallarate uccidono il macchinista Vanzetti. Un capotreno di Roma
viene bastonato. Il capostazione di Bologna è ferito gravemente. A
volte gli altri viaggiatori vengono taglieggiati; altre volte il treno viene
fermato con il segnale d’allarme per far scendere o salire i camerati.
I fascisti si sentono forti. Incrudeliscono. E si dimostrano capaci
delle più efferate atrocità.

Non so quanti hanno mai sentito il nome di Giuseppe Valenti. Era


un militante comunista di Fossombrone, in provincia di Pesaro. Non
aveva fatto male a nessuno. I fascisti però lo accusano di aver insultato
uno di loro. E decidono di punirlo.
Vanno a prenderlo a casa in nove contro uno, armati di bastoni e
pistole. Gli gridano: «Esci con le mani alzate!». Valenti si cala nella
stalla, e si nasconde nel buio. Ma quelli entrano, accendono una
candela, lo scoprono. Vistosi perduto, il comunista spara e uccide un
caposquadra, Antonio Fiorelli, 25 anni. I fascisti rispondono al fuoco,
nello scontro cade un altro di loro, Furio Fabi, vent’anni. Valenti
fugge. Comincia la caccia.
Il federale di Pesaro, Raffaello Riccardi, mobilita le squadre delle
Marche. Arrivano i componenti dell’Asso di bastoni di Pesaro e della
Ramazza di Urbino. Sono mille uomini. Hanno un Libro Nero – lo
chiamano proprio così – con i nomi e gli indirizzi degli avversari
politici. Li prendono uno a uno. È lo stesso Riccardi a vantarsi di avere
appiccato oltre cento incendi: «La grande fiaccola durò tutta la notte».
Intanto Valenti vaga per le colline. Qualche contadino lo sfama, lo
nasconde; «uno di questi, individuato, ebbe i pagliai in fiamme ed il
bestiame abbattuto» scrive Riccardi tutto fiero. La sera del 7 ottobre il
comunista braccato si rifugia nel cascinale di Francesco Cini, che lo
accoglie. Il figlio però è iscritto al fascio, e il mattino presto avverte i
camerati, che arrivano con tre automobili.
In dodici sono addosso a Valenti. Uno squadrista si toglie la cintura
e gli lega le mani dietro la schiena. Cominciano a picchiarlo. Poi lo
trascinano per i sentieri di montagna, mentre lui perde sangue e grida
per il dolore. Lo caricano in macchina, avvolto in una coperta grigia
per non sporcare i sedili, mentre due fascisti di Fano lo tormentano
con i pugnali. Arrivati a Fossombrone, lo legano al cofano posteriore,
come una preda cacciata; poi lo spingono a manganellate dentro la
sede del fascio. Due carabinieri assistono alla scena e vanno ad
avvertire il maresciallo, che rifiuta di intervenire.
Valenti fatica a stare in piedi. Ha le braccia spezzate, le giunture
disarticolate, il volto pieno di sangue. Il padre della fidanzata di
Fiorelli, uno dei due fascisti uccisi, lo colpisce con una bastonata alla
testa. Ma il padre dell’altro fascista, Fabi, impietosito, tenta di fargli
scudo con il suo corpo, e si prende la propria dose di colpi.
Il ras Riccardi tiene a infliggere personalmente due pugnalate a
Valenti. Poi grida alla folla: «E ora, signori, al teatro!». I fascisti ormai
sono padroni di Fossombrone. Ad ascoltare il comizio minaccioso di
Riccardi c’è anche il pretore, che ordina al maresciallo dei carabinieri
di intervenire; stavolta l’ufficiale non può far finta di niente; ma
arrivato davanti alla sede del fascio desiste, con la scusa che non lo
lasciano entrare.
Giuseppe Valenti è portato fuori dal paese, nella cava di pietra
accanto al cimitero, dove viene finito a pugnalate e a colpi di arma da
fuoco. Ogni fascista fa un punto d’onore di infliggergli una ferita.
Attorno al cadavere saranno ritrovati decine di bossoli, di cui almeno
25 sono di cartucce in dotazione ai militari.
Poco più tardi arriva un ignaro ispettore di polizia, il
vicecommissario Pileri. Riccardi subito lo minaccia: «Non fate la
fesseria di farmi arrestare, perché altrimenti io faccio concentrare qui
diecimila fascisti!». L’ispettore non si lascia impressionare e nel giro di
una settimana denuncia il ras per omicidio volontario, insieme con
una decina di camerati. Riccardi fugge in Sicilia. Sarà amnistiato,
diventerà sottosegretario e ministro. Ma a lungo una processione
popolare porterà fiori e accenderà ceri sulla tomba di Giuseppe
Valenti.

Il 28 ottobre 1922 la rivista fascista Il littore pubblica questo


minaccioso annuncio, sotto il titolo «Diffida netta, precisa, definitiva»:
«Da oggi chi rusca busca! Le responsabilità non saranno nostre. Con le
mani nella cintola non ci faremo trovare certamente. Le donne, le
isteriche, se non sanno cosa fare stiano in casa a rattoppare. I bimbi, gli
innocenti, siano tenuti – è molto meglio – a studiare il sillabario. Gli
uomini, i responsabili, pensino un poco a curare le loro famiglie e i
loro affari, e i giovanotti, gli esperti, a convincersi ch’è tardi e che non
c’è più nulla da sperare. Per uno la pagano tutti e… i tutti sono
elencati! Chi non sa ancora adattarsi sa come fare a rimediarvi; cambi
paese e… buon viaggio. Per noi è indifferente! In un modo o in un
altro la nostra strada dobbiamo batterla: chi ci ostacola e ci insidia non
può aspettarsi che il fatto suo. Siamo chiari e concisi per non ripeterci
inutilmente. Gli interessati ci intendano». La firma è ovviamente
anonima: «Il direttorio».
In sostanza, i fascisti lanciano un proclama agli italiani con un
linguaggio tecnicamente da delinquenti: chiudetevi in casa, che passa
l’onda di piena della brutalità e della violenza. I neri hanno
dimostrato di poter sconfiggere sia i rossi, sia i liberali; sia i
rivoluzionari, sia lo Stato. Per tre anni e mezzo hanno seminato. È
l’ora del raccolto.
Tre
Il pokerista
Cronaca della marcia su Roma

La marcia su Roma non fu un fortunato azzardo, né un’avventata


scommessa. Fu il frutto avvelenato di tre anni di violenze, la
conseguenza di una campagna sistematica. Fu quasi la certificazione
di un fatto: i fascisti erano i più risoluti, crudeli, spietati, quindi i più
forti. Il Duce non si arrampicò audacemente sull’albero per afferrare la
mela che pareva impossibile cogliere; si limitò a dare all’albero una
scrollata, e la mela ormai matura cadde da sola. Venne alla luce del
sole un impasto di viltà, di fragilità, di inadeguatezze dell’Italia
liberale, su cui l’energia, il cinismo, la spietatezza di Benito Mussolini
prevalsero agevolmente.
Certo, i fascisti non erano ancora del tutto i padroni d’Italia. Ma
avevano battuto i loro nemici: prima socialisti e comunisti, poi
moderati e cattolici.
Certo, non avevano in pugno le istituzioni e i poteri dello Stato; ma
avevano dimostrato di poterli mettere fuori gioco. Avevano già
costretto alle dimissioni prima i sindaci di sinistra regolarmente eletti,
poi i prefetti fedeli allo Stato. Avevano stretto alleanze ai vertici delle
forze armate e della famiglia reale, a cominciare da Emanuele Filiberto
d’Aosta, il comandante dell’«invitta Terza Armata», e dalla madre del
re, la popolarissima regina Margherita, quella della pizza.
Certo, il re avrebbe potuto e dovuto firmare lo stato d’assedio, far
arrestare Mussolini, mettere fuori gioco i fascisti; ma se l’avesse fatto,
avrebbe rischiato di scatenare una guerra civile, senza nessuna
certezza di vincerla. Certo, l’esercito avrebbe potuto spazzare via
facilmente le squadre, meno numerose e agguerrite di quel che
andavano raccontando Mussolini e i suoi. Ma quando il re chiese ad
Armando Diaz, il vincitore della Grande Guerra, se poteva contare
sull’esercito, si sentì dire: «Certo, Maestà. Ma sarebbe meglio non
metterlo alla prova». La risposta, nella sua apparente ipocrisia, era
lampante: no, sull’esercito non si poteva contare.
Questo ovviamente non significa che il re, dopo essersi illuso di
poter affidare il governo a Salandra o a qualche altro vecchio arnese,
abbia fatto bene a cedere a Mussolini, e a mettere il potere nelle sue
mani. Anzi, fece malissimo. Questo però va detto: il re non era né
pazzo, né complice. Fu uno dei tanti uomini giocati e alla lunga
travolti dalla spregiudicatezza di Mussolini.
Molti, che poi avrebbero cambiato idea, in un primo tempo
pensarono che il Duce fosse una figura di passaggio, da cui si poteva
ricavare pure qualcosa di buono. Lo credettero Benedetto Croce – che
nel 1925 avrebbe scritto il Manifesto degli intellettuali antifascisti – e
Alcide De Gasperi, Giovanni Giolitti e il suo acerrimo nemico Gaetano
Salvemini. Altri intuirono ben presto che sarebbe stato un disastro.
Anzi, «una catastrofe», come scrisse Piero Gobetti. Tra i pochi che
rifiutarono fin da subito di collaborare ci fu l’ambasciatore a Parigi, il
conte Carlo Sforza. Si dimise perché non poteva portare in Francia la
voce di un governo golpista e di un uomo di cui non aveva alcuna
stima. Mussolini lo convocò a Roma e tentò invano di fargli cambiare
idea. E come argomento definitivo il nuovo presidente del Consiglio
disse a Sforza: «Ma lei non ha capito ancora che posso farla mettere al
muro con dodici pallottole?».
Ditemi voi, lettori, se non è tecnicamente una frase da delinquente.
Da capobanda.

Il fatale 28 ottobre
Sabato 28 ottobre è una giornata insolita per Roma. A Roma anche
d’autunno le piogge sembrano temporali: sono frequenti e
improvvise, ma non durano a lungo. Il 28 invece piove quasi di
continuo.
Quattro giorni prima, a Napoli, in piazza del Plebiscito, Mussolini
ha minacciato un’azione destinata a «prendere per la gola la
miserabile classe politica dominante». Alle camicie nere, venute
indisturbate da ogni parte d’Italia per assistere all’annuncio di un
colpo di Stato – qualche giornale scrive che sono 50 mila, il governo ne
calcola 15 mila –, il Duce ha proclamato: «Io vi dico con tutta la
solennità che il momento impone: o ci daranno il governo o lo
prenderemo calando su Roma». Poi si è chiuso nell’hotel più bello
della città, il Vesuvio, per concordare il piano con i più stretti
collaboratori.
L’insurrezione sarà guidata da quattro uomini, che nella retorica
fascista saranno chiamati quadrumviri. Il più interessante è Italo
Balbo: un delinquente, non uno stupido. Ha appena ventisei anni, è il
ras di Ferrara. Picchiatore tra i più spietati, violento al limite della
crudeltà. In pieno regime, porterà in tribunale chi lo indicherà come
mandante del vile assassinio di don Giovanni Minzoni, e perderà la
causa. L’uomo è coraggioso, e lo dimostrerà trasvolando in aereo
l’oceano Atlantico, e anche prendendo posizione contro le leggi
razziali e contro l’entrata in guerra al fianco di Hitler. Mussolini non
apprezza. All’ingresso dell’Italia in guerra, Balbo riunirà la famiglia
per avvertire: «Io non ne uscirò vivo». Pochi giorni dopo verrà
abbattuto nel cielo di Tobruch dalla contraerea italiana, molto
probabilmente per errore.
Alla vigilia della marcia su Roma, Balbo ha spiegato la sua
strategia, basata sull’«esaltazione della violenza come il mezzo più
rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario. Davanti
all’ideale conquista dello Stato, nessuna borghese ipocrisia e nessun
sentimentalismo: l’azione rude e aspra, condotta a fondo, a qualunque
costo». Questa è la morale fascista: «Siamo i più forti perché più decisi.
E i più forti hanno sempre ragione».
Gli altri quadrumviri sono Michele Bianchi, quarant’anni,
calabrese, di salute fragile: ex socialista, squadrista, massone,
segretario del partito. Emilio De Bono, 56 anni, di Cassano d’Adda,
generale nel conflitto ’15-18: ha scelto Mussolini dopo essersi proposto
come ministro della Guerra ai popolari di don Sturzo, forse anche ai
socialisti di Turati. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, 38 anni,
piemontese: D’Annunzio, suo grande estimatore, lo definisce «una
nullità tonante» e anche «un cazzo con i baffi».
A Bianchi restano solo sette anni di vita; oggi una piazza a Cosenza
porta il suo nome. De Vecchi e De Bono voteranno contro il Duce, al
Gran Consiglio del 25 luglio 1943: ma il primo avrà l’accortezza di
mettersi sotto la protezione di Badoglio e del re; il secondo finirà in
mano ai tedeschi e sarà fucilato.
Nel fatale ottobre del 1922, però, nessuno di loro presagisce la
sventura che li attende. Anzi, i quadrumviri si sentono pronti a grandi
imprese. Coordineranno l’azione da Perugia, sempre dall’hotel più
bello della città: il Brufani, in cima al colle che domina mezza Umbria.
Da lì terranno i contatti con le squadre che dovranno occupare
prefetture, questure, stazioni, uffici postali, e con le colonne che
caleranno sulla capitale. Mussolini resterà prudentemente a Milano,
nella redazione del Popolo d’Italia, ad attendere gli sviluppi. Ma
almeno una notte la passerà al Soldo, la villa vicina al lago di Como
della sua amante Margherita Sarfatti, a due passi dalla frontiera
svizzera: una via di fuga ideale, se non dovesse mettersi bene. Una via
di fuga, quella verso la Svizzera, che tenterà – invano – alla fine della
sua avventura, più di vent’anni dopo.
Al governo a Roma c’è un uomo debole: Luigi Facta, 61 anni,
piemontese di provincia come Giolitti, di cui è fedele seguace. Molti
sono convinti che stia tenendo in caldo la poltrona per il capo, che
proprio venerdì 27 ottobre ha compiuto ottant’anni.
La fragilità dell’esecutivo è tale che, quando Mussolini ha costituito
la Milizia, vale a dire un esercito privato ai suoi ordini, lo Stato non ha
mosso un dito. Il 3 ottobre il futuro Duce ha fatto pubblicare il
regolamento della Milizia sul suo quotidiano. Poi ha commentato con
i suoi: «Se in Italia ci fosse un governo degno di questo nome, oggi
stesso dovrebbe mandare qui i suoi agenti e carabinieri, scioglierci e
occupare le nostre sedi». Nulla di tutto questo accade; anzi, nessuno ci
pensa.
I socialisti sono ormai fuori dai giochi. Hanno 123 deputati (appena
quindici i comunisti), ma sono troppo divisi. A inizio ottobre si sono
riuniti a congresso, e ne sono usciti con l’ennesima scissione: i
riformisti guidati dal leader storico, Filippo Turati, sono stati cacciati e
hanno creato il partito socialista unitario. Tra loro c’è un giovane
deputato di Rovigo, risoluto avversario del fascismo. Il suo nome è
Giacomo Matteotti.
Il re è in vacanza, nella tenuta toscana di San Rossore. Facta è
indeciso a tutto. Mercoledì 25 ha telegrafato a Vittorio Emanuele III:
«Credo che nota calata a Roma sia definitivamente tramontata». Poi
però si è preso paura, e nella notte tra giovedì e venerdì ha chiesto al
sovrano di tornare nella capitale. È andato ad accoglierlo alla stazione
Termini, poi ha parlato a lungo con lui nella sua residenza di Villa
Savoia, la palazzina nel parco di Villa Ada (oggi ospita l’ambasciata
egiziana) che il sovrano preferisce al fasto del Quirinale.
Facta ne esce rinfrancato. Non dubita che il re sia dalla sua parte, e
che Mussolini stia bluffando. Preferisce non tornare al Viminale, sede
del governo, anzi manda gli uscieri a dormire; e si ritira pure lui
nell’albergo dove risiede, l’hotel Londra, in via Nazionale. Quando
Giuseppe Beneduce, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
va ad avvertire Facta che l’insurrezione fascista è cominciata, lo trova
in camicia da notte.

«Piacere, Dumini, nove omicidi»


Siccome al Viminale non c’è nessuno, la prima riunione d’emergenza
si fa al ministero della Guerra, retto da un uomo energico: Marcello
Soleri, cuneese di quarant’anni, giolittiano, già capitano degli alpini. I
primi rapporti che arrivano dalle città del Nord sono allarmanti: i
fascisti occupano gli uffici del telegrafo e assediano le prefetture.
Quella di Perugia è già caduta: una squadra ha intimato la resa,
promettendo in cambio di evitare «spargimento di sangue»; una frase
da banditi, cui il prefetto, Sante Franzè, si è piegato.
I ministri concordano: occorre reagire, subito e con forza. Dove i
carabinieri hanno difeso le istituzioni aprendo il fuoco, i fascisti hanno
avuto la peggio: il ras di Cremona, Roberto Farinacci, un fanatico che
diventerà il gerarca più vicino a Hitler, ha dovuto ritirarsi, lasciando a
terra sette morti; altre vittime tra le camicie nere di Bologna.
Quanto a Mussolini, sembra non darsi troppo pensiero: siccome
l’altro ieri è stato a teatro con la Sarfatti, ora deve portare pure la
moglie, Rachele, con la figlia Edda; così ha prenotato tre biglietti al
Manzoni, dove danno Il Cigno di Molnár. Nel frattempo, i suoi
emissari fanno il giro delle redazioni, per portare ai direttori un
messaggio minaccioso, in pieno stile mafioso: non prendete posizione
contro il colpo di Stato; sostenetelo, altrimenti rinunciate a uscire in
edicola; in caso contrario, preparatevi alle «più violente sanzioni», a
«conseguenze gravissime».
A Firenze, Italo Balbo va di persona nella sede della Nazione, a
ispezionare la prima pagina; e siccome non gli piace, la fa riscrivere,
inventando di sana pianta notizie di grandi successi degli insorti,
compreso un incontro mai avvenuto tra Mussolini e una delegazione
inviata dal re. Il direttore, Aldo Borelli, non si oppone. Sarà premiato
anni dopo con la direzione del Corriere della Sera.
All’Avanti! è di turno il caporedattore centrale, Pietro Nenni, che
resta imperturbabile: lui prende ordini solo dai capi del suo partito,
che oltretutto non ci sono; convinti che il golpe fascista sia un bluff,
hanno preso il treno per Mosca, dove si tiene il congresso della Terza
Internazionale. Anche i rappresentanti comunisti sono in viaggio.
Insomma, i capi della sinistra non hanno capito nulla di quello che sta
per accadere.
Al Corriere della Sera il direttore e editore, Luigi Albertini, non c’è.
È suo fratello Alberto a ricevere i minacciosi ambasciatori di
Mussolini, e a respingere le loro pretese: il Corriere uscirà, con un
editoriale in cui esorta il governo a non cedere e a far rispettare lo
Statuto. Invano i messaggeri insistono. Sono in quattro; e nessuno di
loro, a dispetto della vittoria imminente, farà una bella fine.
Il primo è Cesare Rossi, segretario personale di Mussolini.
Arrestato per il delitto Matteotti, pensa di salvarsi accusando il Duce;
ma è il Duce a salvarsi, e lui, Rossi, a finire in rovina. Fugge in Francia,
però la polizia fascista gli tende una trappola, lo attira a Campione
d’Italia, lo cattura. Nel 1929 l’uomo che è stato tra i più stretti
collaboratori di Mussolini è condannato a trent’anni di carcere per
attività antifascista: ne sconta undici, poi viene mandato al confino a
Ponza. Nel dopoguerra sarà di nuovo arrestato, sempre per l’omicidio
Matteotti, e assolto per insufficienza di prove.
Il secondo è Aldo Finzi: pilota della squadriglia di D’Annunzio,
campione di motociclismo, deputato fascista, futuro sottosegretario
all’Interno (il ministro è Mussolini). C’è solo un problema: Finzi è
ebreo. Dopo le leggi razziali sarà condannato al confino. Sceglie la
Resistenza: arrestato, torturato, assassinato alle Fosse Ardeatine.
Il terzo è Manlio Morgagni: ex socialista di Forlì, da sempre legato a
Mussolini, che l’ha nominato amministratore del Popolo d’Italia, e nel
1924 lo vorrà alla testa dell’agenzia di stampa ufficiale, intitolata al
patriota risorgimentale Guglielmo Stefani. Il 26 luglio 1943, dopo aver
dato la notizia che il Duce è stato arrestato per ordine del re, Morgagni
gli scrive un’ultima lettera per assicurargli la sua fedeltà, e si spara un
colpo di rivoltella alla tempia. È l’unico suicida tra i notabili del
fascismo (due anni dopo, il 27 aprile 1945, Giovanni Preziosi, prete
spretato, fanatico antisemita, si getterà dal quarto piano di un palazzo
in Corso Venezia, a Milano, abbracciato alla moglie, lasciando un
messaggio: «Di questo gesto, un giorno, nostro figlio Romano andrà
orgoglioso»).
Il quarto uomo della squadra che è andata al Corriere a minacciare i
fratelli Albertini è un tizio dalla faccia patibolare, responsabile di
alcune tra le azioni più efferate delle squadracce. A Carrara ha
assassinato il militante socialista Renato Lazzeri e la madre Gisella,
che ha cercato di salvarlo. Emilio Lussu ricostruirà così l’episodio:
incontrata una ragazza con un garofano rosso, lui l’ha schiaffeggiata, e
alle proteste della mamma e del fratello ha risposto uccidendoli a
colpi di pistola. Il suo nome è Amerigo Dùmini, con l’accento sulla u.
Un galantuomo che ama presentarsi così: «Piacere, Dumini, nove
omicidi».

Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, i ministri hanno scritto un


appello alla nazione, da far firmare al re. È tutto un inno alla
«solidarietà patriottica e umana», alla «concordia», all’«ordine», e poi
ancora «fervida speranza», «pace serena», «oblio dei passati dissensi»,
«grande avvenire», «augusto richiamo» della Patria, con la maiuscola.
In sostanza si chiede a ogni fazione di abbassare le armi, senza
nominare mai l’unica che le ha impugnate: quella fascista.
Il re firma. Ma è inquieto per le notizie dei primi successi
squadristi, delle prefetture cadute, delle centrali del telegrafo
occupate. Apostrofa Facta: «È questa dunque la fedeltà delle
istituzioni? È questa la fedeltà dell’esercito?». Non è con gli appelli e le
buone parole che si ferma l’insurrezione. Si deve decretare lo stato
d’assedio, per consentire alle forze armate di intervenire, se
necessario. Il re lo sollecita; in caso contrario – avverte il suo aiutante
di campo, generale Arturo Cittadini – dovrà abdicare.
Lo stato d’assedio entrerà in vigore a mezzogiorno. I ministri sono
tutti d’accordo, tranne uno: Arnaldo Dello Sbarba, ministro del
Lavoro, che proprio non si trova.
Il comandante della divisione di Roma, generale Edoardo Ravazza,
è in ferie. A fine ottobre. La capitale tuttavia è ben difesa, grazie al suo
sostituto, un generale serio: Emanuele Pugliese. Quarantotto anni,
nato a Vercelli, ebreo, ha combattuto in Libia e nel Dodecaneso. Ha
fatto tutta la Grande Guerra, dall’Isonzo al Grappa: al comando di un
battaglione della brigata Sassari sull’Altopiano di Asiago, è stato ferito
tre volte. Deciso a fermare gli insorti, manda gli uomini del Genio a
bloccare le stazioni ferroviarie dove sono attese le colonne delle
camicie nere: Orte, Viterbo, Segni, Avezzano, Civitavecchia. L’ordine è
di far saltare i binari, se necessario. I ponti sul Tevere sono presidiati,
così come le vie di accesso alla capitale. Eppure la situazione è in
bilico.
Alle 3 del mattino, Pugliese è convocato al ministero della Guerra.
Il presidente del Consiglio Facta gli chiede conto dei primi cedimenti.
Lui replica alzando la voce: la colpa è del governo, che non ha
diramato ordini chiari. Un mese prima il generale Pugliese ha
elaborato un piano di difesa, e l’ha sottoposto al suo comandante,
Ravazza; che però l’ha inoltrato al ministero solo il 17 ottobre, prima
di partire per la sua curiosa vacanza autunnale. Tra le misure del
piano, l’arresto dei capi del partito fascista. Facta chiede se ci si può
fidare dell’esercito. Pugliese risponde di sì: «Ve ne do piena
assicurazione».
Alle 6 del mattino i soldati prendono posizione davanti ai ministeri
e alla stazione Termini. Il generale ha pronto il bando con cui
annuncia di aver assunto «i poteri militari per la tutela dell’ordine
pubblico» a Roma, e comunica ordini che dovrebbero stroncare sul
nascere la rivolta: vietate le riunioni pubbliche di più di cinque
persone; vietato girare armati; vietata la circolazione di automobili e
tram. Inoltre, «gli esercizi pubblici dovranno essere chiusi alle 21.
Sono sospesi tutti i pubblici spettacoli. Firmato, il maggior generale
comandante della Divisione, Emanuele Pugliese».
Nel frattempo, però, alla stazione di Firenze trecento fascisti hanno
preso il controllo di un treno che è riuscito a sfuggire ai militari e a
partire per Roma: l’arrivo è previsto per le 9 e 50 del mattino. E
l’uomo che per il generale Pugliese dovrebbe essere il primo della lista
degli arrestati sta tirando, indisturbato, i fili della tela che ha tessuto
negli ultimi giorni.

Mussolini afferra il fucile


Mussolini ha giocato su tutti i tavoli; e ha giocato tutti i leader politici
italiani, con una spregiudicatezza impressionante. A ognuno ha
lasciato credere di essere il candidato dei fascisti alla guida del
governo; così ognuno si è convinto di essere l’interlocutore
privilegiato del capo delle squadracce che stanno sottomettendo il
Paese.
Il 23 ottobre scorso, scendendo a Napoli da Milano, Mussolini si è
fermato a Roma per far visita al vecchio capo dei nazionalisti, Antonio
Salandra, e gli ha garantito il suo appoggio in cambio di cinque
ministeri. Ma Dino Grandi ha fatto sapere all’altro leader storico della
destra liberale, Vittorio Emanuele Orlando, che un suo ritorno al
potere sarebbe per i fascisti la soluzione ideale; ringalluzzito, Orlando
ha incontrato in pubblico D’Annunzio, con cui si è scambiato non due
ma quattordici baci (almeno così scrive Facta alla moglie). Un’offerta
analoga è arrivata a Francesco Saverio Nitti, che non è rimasto
indifferente e ha avuto caute parole di apertura per il fascismo,
almeno per la sua «parte ideale», che andrebbe incanalata nelle
istituzioni. Ma il prefetto di Milano, Alfredo Lusignoli, ha assicurato a
Giovanni Giolitti che Mussolini riconosce solo la sua autorità. Mentre
Michele Bianchi, il segretario del partito, ha avuto la faccia tosta di
garantire allo stesso Facta che i mussoliniani entrerebbero volentieri in
un nuovo governo sempre presieduto da lui.
Insomma, gli uomini dell’Italia liberale esitano a prendere una
posizione esplicita contro i fascisti, nella speranza di poter trarre
vantaggio dalla loro ascesa.
Per ultimo, Mussolini si preoccupa di blandire il concorrente che
teme di più: Gabriele D’Annunzio. Il Vate l’ha accusato di slealtà e
pirateria: non gli ha perdonato di essersi tenuto buona parte dei soldi
raccolti con la sottoscrizione lanciata dal Popolo d’Italia per i legionari
fiumani.
Ora Mussolini non si illude che D’Annunzio possa fare qualcosa
per lui; gli basta che non faccia nulla contro di lui. Così nella notte
fatale gli scrive: «Mio caro Comandante, i giornali e il latore ti diranno
tutto. Abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una
situazione miserabile. Siamo padroni di gran parte d’Italia,
completamente, e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali
della Nazione. Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco, il che ci
gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro
questa meravigliosa gioventù che si batte per la vostra e nostra Italia.
Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una
grande parola da dire. Vi saluto, con devozione cordiale. Vostro
Mussolini». In sostanza: lascia fare a me.

All’alba del 28 ottobre, il presidente del Consiglio Facta passa


finalmente al Viminale. Vi trova il suo capo di gabinetto, Efrem
Ferraris, scosso e preoccupato perché ha appena ricevuto una
chiamata dalla prefettura di Perugia. «Parla il cavalier Argenti» diceva
la voce al telefono, ma Ferraris ha riconosciuto Michele Bianchi, uno
dei quadrumviri. Vistosi scoperto, Bianchi si è fatto minaccioso: «Sono
proprio io, e la incarico di dire a sua eccellenza Facta che la macchina
è in movimento e nulla la fermerà. È giunto il momento di assumere
da parte del governo responsabilità nette e precise. Io mi auguro che
sua eccellenza Facta non vorrà far scorrere sangue d’italiani».
Facta reagisce in modo melodrammatico: «È la rivolta, e alla rivolta
si resisterà!». Poi aggiunge, in dialetto piemontese: «Se a voelo avnì, a
devo porteme via a toc»; se vogliono venire, devono portarmi via a
pezzi. Un suo ministro, il liberale Giovanni Amendola, tenta di
rincuorarlo: «Questi scalzacani saranno messi a posto». Ma il re non
deve esserne così convinto.
Alle 7 e mezza Vittorio Emanuele III riceve uno dei capi della
Milizia, Ernesto Civelli, che un po’ lo blandisce e un po’ lo avverte: «I
fascisti stanno col re, sicuri che il re starà coi fascisti». Poi la spara
grossa: settantamila camicie nere stanno confluendo su Roma, di fatto
a pretendere che il sovrano affidi i pieni poteri al loro capo. Una
pressione inaudita, mai vista nella storia unitaria italiana. Il re
congeda Civelli con cordialità.
In realtà, i fascisti che stanno tentando di raggiungere Roma in
treno per il momento sono poco più di cinquemila. Nel suo ottimo
libro «Il giorno che durò vent’anni» (Edizioni Clichy), il giornalista e
storico Antonio Di Pierro ricostruisce ora per ora i loro movimenti.
Alle prime luci del giorno, quattro colonne stanno tentando di partire
da Pisa, dall’Abruzzo, dal Sud, oltre che da Firenze. I militari sono
schierati per intercettarle. Altre migliaia di camicie nere si stanno
avvicinando a Roma a piedi o in camion, sotto la pioggia battente; ma
al momento nessuno sa dove siano. Pare che un gruppo sia bloccato a
Santa Marinella, senza viveri, in attesa di ordini che non arrivano. Il
generale Pugliese calcola che i fascisti possano mobilitare in tutto
26.900 uomini; meno di quelli che ha a disposizione lui, 28 mila
soldati, che dispongono di sessanta mitragliatrici e ventiquattro
cannoni.
A Perugia il quartier generale è in due camere al pianterreno
dell’hotel Brufani. Annota uno dei quadrumviri, De Vecchi, appena
arrivato da Roma: «Le stanze dove si è vegliato tutta la notte sono
piene di vassoi, di bicchieri e di bottiglie di spumante. I portacenere
traboccano di mozziconi di sigarette e di rimasugli di tabacco. C’è
odore di vino, di fiati pesanti e di gente addormentata. È odore di
baldoria notturna più che bivacco di soldati. La situazione è quanto
mai confusa e le idee sono poco chiare e discordi».
Da Roma, Facta comincia a spedire telegrammi. Il primo è per il
prefetto di Milano Lusignoli: l’ordine è di arrestare «senza eccezione
capi e promotori del moto insurrezionale contro poteri Stato». In
sostanza, il prefetto dovrebbe sbattere in galera il suo amico
Mussolini, che il giorno prima gli ha promesso il ministero
dell’Interno nel prossimo governo. Va da sé che Lusignoli non ci
pensa neanche. Tanto più che il presidente del Consiglio ha mandato
un altro telegramma, per annunciare lo stato d’assedio; quindi, se
proprio bisogna arrestare Mussolini, che ci pensino i militari.
In effetti, tre blindati e un battaglione di guardie regie marciano
verso la redazione del Popolo d’Italia, dove il capo degli insorti è
asserragliato. Per la prima volta, le cose si mettono male. Alle 8 del
mattino, i treni partiti da Pisa sono stati fermati dall’esercito: le
camicie nere si sono rifiutate di scendere, ma i binari sono stati divelti.
Sui muri di tutta Italia vengono affissi i manifesti in cui si proclama lo
stato d’assedio. I fascisti sono chiamati a fronteggiare una situazione
imprevista: qualcosa sta andando storto, il governo ha reagito in
modo più energico del previsto; se la macchina della rivolta non si
ferma, rischia di andare a sbattere contro il muro eretto dalle forze
armate, e di far scorrere il sangue.

Mussolini però non arretra. Vogliono venire a prenderlo? Lui si farà


trovare armato, pronto a sparare. Afferra il fucile che tiene
nell’armadio dietro la scrivania, e scende in strada, insieme con Aldo
Finzi e Cesare Rossi, che impugnano le loro pistole. Un ufficiale si
ritrova davanti un invasato che con il moschetto puntato gli grida in
faccia: «L’Italia è nostra!». «L’Italia è degli italiani» risponde, calmo. E
Mussolini: «Maggiore, lei non conosce il movimento che c’è in tutta
Italia! Milano sarà assorbita come dallo spandersi di tante macchie
d’olio!». «Preferisco le macchie d’olio alle macchie di sangue» replica
l’ufficiale. «Perciò ordini ai suoi di rientrare alla sede del giornale e
tutti siamo a posto».
Mussolini insomma se l’è cavata. Ma a trarlo d’impaccio sarà il re in
persona. Mentre il governo ha dato l’ordine di arrestare i capi
dell’insurrezione, il sovrano convoca al Quirinale uno di loro, De
Vecchi. E qui la situazione si fa paradossale. Perché De Vecchi in quel
momento è a Perugia e sta fronteggiando il generale Francesco
Cornaro, che ha ordinato ai fascisti di sgomberare la prefettura, e pure
l’hotel Brufani. Cornaro, comandante della brigata Alpi, durante la
Grande Guerra ha avuto ai suoi ordini proprio De Vecchi, che cerca di
sottrarsi ostentando il massimo rispetto: «Generale, le assicuro che in
poche ore la situazione cambierà da così a così. Devo scappare perché
mi ha chiamato Sua Maestà. Arriveranno altri ordini, ne sono certo
come è vero che sono vivo». Ma nel frattempo il generale deve
eseguire gli ordini che ci sono, e tiene il punto: «La città è isolata, da
fuori non avrete aiuti di sorta. Le mitragliatrici sono in postazione e lei
sa, per esperienza, che so postarle. Resistere in queste condizioni è
una pazzia». De Bono e Bianchi sono per la resa, Balbo invece è per
combattere, e accusa i camerati di voler «calare i pantaloni».
Alla fine De Vecchi ottiene un po’ di tempo. Un deputato
filofascista, Romeo Gallenga Stuart, aristocratico perugino che è anche
uno spericolato pilota – si vanta di guidare «alla Mussolini» –, si è
offerto di portarlo a Roma sulla sua macchina, in sole quattro ore.
Anche nella capitale le cose si mettono male per le camicie nere.
Alle 9 del mattino la guardia regia occupa la sede del fascio di via
degli Avignonesi. Ricompare pure il ministro Dello Sbarba: ha
mancato la riunione con i colleghi perché era con l’amante; ora
implora di poter apporre anche la sua firma al verbale del Consiglio
che ha approvato lo stato d’assedio, e viene accontentato: può così
salvare la faccia davanti al Paese, e soprattutto alla moglie.
Ma il colpo di scena deve ancora arrivare.

Il re non firma più


Quando Facta sale al Quirinale per far sottoscrivere al re il decreto
sullo stato d’assedio, Vittorio Emanuele se lo fa consegnare, non lo
firma, e lo chiude in un cassetto. Il presidente del Consiglio lo osserva
esterrefatto; ma il sovrano ha già deciso. «Il governo dispone di
appena ottomila uomini per la difesa della capitale, i fascisti armati
giunti presso la città sono più di centomila ed è quindi impossibile
impedire l’occupazione di Roma» spiega il re.
I numeri sono clamorosamente sbagliati, i fascisti sono molti di
meno, e sono ancora lontani. Forse Vittorio Emanuele non ha il
coraggio di riferire quel che gli ha detto il generale Armando Diaz, il
duca della Vittoria, uomo di grande prestigio: l’esercito farà il suo
dovere, «però sarebbe meglio non metterlo alla prova». Altri generali
cui il re si è rivolto per chiedere rassicurazioni, compreso Guglielmo
Pecori Giraldi – comandante della Prima Armata, quella che difese
l’Altopiano di Asiago e prese Trento –, hanno risposto più o meno la
stessa cosa.
Vittorio Emanuele ha voluto evitare la guerra civile. Ha avuto
paura che una parte dell’esercito, di aperte simpatie fasciste, potesse
disobbedirgli e passare con gli insorti. Ha temuto per il Paese, e pure
per sé: non è un mistero che suo cugino Emanuele Filiberto duca
d’Aosta, sostenitore di Mussolini, sia pronto a sottrargli il trono.
Persino sua madre, la regina Margherita, il 16 ottobre ha ricevuto
Balbo, De Vecchi e De Bono all’Hotel Du Parc di Bordighera, e li ha
benedetti: «Andate, io sono sempre per le cose buone e belle». Non a
caso, il re continua a ripetere a Facta: «Viene il duca d’Aosta, viene il
duca d’Aosta…».
Qualche giorno prima, Emanuele Filiberto ha informato il re da
Torino che l’insurrezione era imminente. Vittorio Emanuele gli ha
ordinato di non muoversi e di non impicciarsi; ma il cugino gli ha
disobbedito e si è portato nella sua villa di Bevagna, vicino a Perugia,
dove forse si è già incontrato con i capi fascisti.
A questo punto la situazione si è davvero ribaltata da così a così.
Facta si dimette irrevocabilmente. Il re si illude ancora di poterlo
sostituire con qualcuno che non sia Mussolini: si parla di Salandra,
Orlando, Giolitti, che però è lontano, in Piemonte, nella sua villa di
Cavour. Il Duce sente di avere la partita in pugno, senza bisogno di
altre violenze. Ad Alfredo Rocco, il giurista vicino ai nazionalisti, che
è andato a proporgli di entrare come ministro dell’Interno in un
esecutivo Salandra, risponde che il presidente del Consiglio deve
essere lui. Rocco lo abbraccia: «Hai ragione, tu porterai fortuna
all’Italia» (di sicuro porterà fortuna a Rocco, che diventerà ministro
della Giustizia e legherà il proprio nome al nuovo codice penale). Una
delegazione di industriali guidata da Alberto Pirelli, che il 26 ottobre
ha consegnato a Mussolini un assegno da due milioni di lire, torna a
trovarlo per chiedergli di entrare nel governo Salandra, e si sente
rispondere: «Non Salandra più Mussolini, ma Mussolini senza
Salandra, signori».
Il direttore del Corriere della Sera Albertini va in prefettura per
capire quello che sta succedendo, e vi trova Aldo Finzi, che è lì per
ordinare al prefetto di non far uscire il Corriere il giorno dopo. Finzi
ormai si sente il padrone: rimprovera aspramente Albertini per il
commento critico uscito la mattina. Il direttore chiede al prefetto
garanzie per l’incolumità dei giornalisti, ma non le ottiene.
A Roma, il ministro Dello Sbarba adesso vorrebbe ritirare la firma
dal verbale del Consiglio, ma il collega Soleri rifiuta: «Al coraggio non
si addicono i viaggi di andata e di ritorno».

Al Quirinale cominciano le consultazioni sul nuovo governo. Per


primo viene ricevuto il presidente della Camera, Enrico De Nicola, che
suggerisce di dare l’incarico a Giolitti; ma ha l’impressione che il re
abbia un altro nome in testa. Poi tocca al capogruppo liberale alla
Camera, un altro giolittiano, Francesco Cocco Ortu, notabile sardo,
forte personalità. Il sovrano esordisce facendogli gli auguri per i suoi
ottant’anni, che ha compiuto dieci giorni prima, però Cocco Ortu non
è in vena di convenevoli, vuole scuotere il re: la minaccia fascista è
grave, ammonisce, ma può ancora essere «fermata e vinta». Vittorio
Emanuele replica che è stato lui stesso a mettere in guardia Facta del
pericolo, ma ormai è troppo tardi, i fascisti sono invincibili. L’anziano
politico liberale insiste: «Per la difesa dello Stato vi è una forza, il re.
Questo ho detto in un mio recente discorso a Cagliari, ricordando che
vostra Maestà ha ereditato, con il nome, la lealtà costituzionale del suo
grande avo». Cocco Ortu si riferisce all’ora più drammatica del
Risorgimento: Vittorio Emanuele II, appena salito al trono dopo la
sconfitta di Novara e l’abdicazione del padre Carlo Alberto, firmò
l’armistizio con il maresciallo Radetzky, ma rifiutò di ritirare lo
Statuto: avrebbe governato da monarca costituzionale, non da sovrano
assoluto. L’evocazione del nonno, di cui porta il nome, risveglia
l’orgoglio di Vittorio Emanuele III: «Io, se fosse necessario, saprei
prendere una carabina!» esclama. Cocco Ortu capisce di aver toccato
la corda giusta: «Del coraggio di vostra Maestà nessuno può dubitare.
Occorre la virtù dell’autorità del capo dello Stato. La sua voce sarà
ascoltata». Ma il re subito si schermisce: «Non credo che io abbia
questo ascendente in tutta Italia».
Non c’è niente da fare. Dal Quirinale fanno sapere a Mussolini che
il sovrano lo attende a Roma per consultazioni: meglio partire subito,
se necessario in aeroplano. Giolitti, invece, può starsene
tranquillamente nella sua villa.

Nel frattempo il conte Gallenga Stuart, deputato e pilota, si è


rivelato di parola: in quattro ore ha portato De Vecchi da Perugia a
Roma. Il quadrumviro passa in hotel a darsi una sistemata e a
consultarsi con un altro capo fascista, Costanzo Ciano, il padre del
giovane Galeazzo, futuro marito di Edda Mussolini.
Sono le 16 quando De Vecchi incontra il re, che gli riassume così la
situazione: «Il movimento che voi fascisti avete iniziato ha indotto il
presidente Facta a propormi lo stato d’assedio. Ho respinto la
proposta e non ho firmato nulla». Quanto alla crisi di governo, «io
sarei favorevole a una soluzione Salandra. È l’unica, e la più
ragionevole». Neppure Vittorio Emanuele ha compreso davvero quel
che sta accadendo: si illude ancora di poter ricondurre una situazione
eccezionale su antichi binari, resuscitando il vecchio leader della
destra che già aveva condotto l’Italia nella prima guerra mondiale.
De Vecchi non osa contraddire il sovrano. Non ha ancora parlato
con Mussolini, e pensa che il capo si accontenterà del risultato
raggiunto: anziché finire in galera, potrà entrare nel nuovo governo
Salandra. «A meno che» aggiunge De Vecchi «vostra Maestà non
pensi di affidare la presidenza a Mussolini…». Il diniego è netto: «No.
No. L’uomo che io vorrei è sempre Giolitti, ma i popolari lo detestano.
Per loro è come il diavolo. Ciò che dicono sul conto di Giolitti più che
assurdo è iniquo. Il loro errore è imperdonabile ma, purtroppo, senza
il partito popolare non si può fare un governo. Lei, dunque,
accetterebbe una soluzione Salandra?». «Senz’altro» risponde De
Vecchi. «Ma ho bisogno della conferma di Mussolini».
Il quadrumviro sente di vivere un’ora solenne e si commuove:
«Maestà, gli italiani non dimenticheranno mai il suo gesto, e le
saranno sempre grati». Il re lo abbraccia: «Faccia sapere che ho
rifiutato di firmare lo stato d’assedio per non buttare gli italiani nella
guerra civile». Poi ritrova il proprio lato cinico: «Sì, penso anch’io che
gli italiani se ne ricorderanno, ma certamente per farmene una colpa.
O forse se ne dimenticheranno tra una settimana. È successo diverse
volte, e succederà anche adesso».
Gli italiani non se ne dimenticheranno; anche per questo il 2 giugno
1946 voteranno in maggioranza per abolire la monarchia.

Minacce al Corriere
Alla notizia che il Corriere non uscirà, molti lettori lasciano in via
Solferino messaggi di protesta e di incoraggiamento per il direttore
Albertini. Il libro di Di Pierro cita in particolare quello di Giacinto
Motta, consigliere delegato di Edison: «Per carità, faccia ogni sforzo
perché non si aggiunga anche questa debolezza alla sciagurata
situazione presente! Il Corriere è il pane spirituale non di Milano
soltanto. Oggi ho parlato con un centinaio di persone. Sono tutti
concordi nel ritenere indispensabile la resistenza. Che non si abbia
domani la sensazione della vittoria avversaria! Sarebbe la fine per
tutto quanto di buono ci ha animato fin qui. Ecco la mia ardente
invocazione».

Tutto sta cambiando. L’esercito sgombera la Casa del fascio di


Roma e la restituisce alle camicie nere. A Genazzano, un paese tra
Frosinone e la capitale, fascisti e socialisti si sono presi a fucilate: è
morto uno squadrista di Palestrina, Lello Lulli, subito vendicato dai
camerati, che dopo un processo sommario hanno giustiziato l’uomo
che considerano responsabile. Alle porte di Roma, Balbo è stato
fermato dai carabinieri, che però l’hanno lasciato passare.
Il generale Cittadini chiede al ministro della Guerra Soleri di
mandare viveri ai «manipoli» che bivaccano sotto la pioggia a Santa
Marinella: non hanno acqua, qualcuno ha tentato di filtrare e bere
quella del mare e ha avuto mal di pancia.
Mussolini fa sapere al Quirinale che il governo vuole farlo lui. Ma
Vittorio Emanuele pensa ancora che sia una schermaglia per alzare la
posta, e alle 18 convoca Salandra per chiedergli di formare il nuovo
esecutivo. Il presidente incaricato deve farsi largo tra una folla di
fascisti: festeggiano la vittoria che si profila al grido di «eia eia eia
alalà».
Tornato a casa, Salandra invita De Vecchi, Ciano e Grandi per
capire cosa ha intenzione di fare Mussolini. Ma a sorpresa arriva
prima Facta. Il presidente del Consiglio in carica va a trovare il
presidente del Consiglio incaricato, e lo consiglia di rinunciare. Facta
ha appena ricevuto un fonogramma da Milano, firmato da personalità
lombarde tra cui Luigi Albertini e Silvio Crespi, azionista del Corriere,
che lo mettono sull’avviso: Mussolini vuole la guida del governo per
sé. Salandra non ci crede, vorrebbe leggere il messaggio, ma Facta lo
piega e se lo rimette in tasca.
Così, quando finalmente arrivano gli emissari fascisti, Salandra è
arrabbiatissimo: «Adesso basta. Vi chiedo formalmente: primo, voglio
sapere se Mussolini intende entrare nel governo con me, anche come
ministro dell’Interno; secondo, se in alternativa acconsente che vi
entrino i suoi amici; terzo, in caso affermativo quanti posti vuole e
quali. Aspetto una risposta definitiva entro domani mattina».
Dal canto suo, Mussolini ha ben chiaro di avere la partita in pugno.
Non ha fretta di rispondere alle richieste di chiarimenti che arrivano
da Roma: sa che il peggio è passato, i pericoli di fare una brutta fine
sono scongiurati, e il tempo ormai gioca a suo favore. In ogni caso, il
tempo a lui non manca: ne trova per controllare i compiti della figlia
Edda, che il primo settembre ha compiuto dodici anni, e per far visita
alla Sarfatti. Ha però un ripensamento sul Corriere: sarebbe meglio
che fosse in edicola, per non allarmare la borghesia milanese; l’ideale
sarebbe però che non prendesse posizione contro la vittoria fascista.
Così alle 9 meno un quarto di sera telefona ad Albertini, che risponde:
«Non riprenderemo la pubblicazione se non ci sarà garantita la più
ampia libertà di giudizio e di parola». E a Mussolini, che gli chiede
quale sia, questo suo giudizio, il direttore del Corriere dice: «Penso
che lei avrebbe dovuto essere arrestato».
Mezz’ora dopo, invece, Mussolini riceve un telegramma dal
Quirinale: è il generale Cittadini, che lo convoca a Roma per conto del
re. Vittorio Emanuele spera ancora di avere il via libera al governo
Salandra; Mussolini lo intuisce, e non risponde.
A questo punto rientra in scena il generale Ravazza, il comandante
delle truppe che dovrebbero presidiare Roma. Ha capito dove si va a
parare; così torna all’improvviso dalle ferie, esautora il suo sottoposto
Pugliese, che aveva saputo tenere testa ai fascisti, e ordina la
smobilitazione. Alle 22 e 30 Ravazza detta un comunicato dal
ministero della Guerra, indirizzato a tutti i reparti: «Dato l’attuale
orientamento verso un probabile gabinetto Mussolini, le direttive date
ai vari corpi di armata sono di evitare possibile spargimento di
sangue, usando mezzi pacifici e persuasivi».
Ormai solo un intoppo imprevisto può impedire al futuro Duce la
presa del potere. Così lui si preoccupa come d’abitudine di tenere
buono D’Annunzio, e gli scrive un altro messaggio: «Mio caro
Comandante, le ultime notizie consacrano il nostro trionfo. L’Italia da
domani avrà un governo. Saremo abbastanza discreti e intelligenti per
non abusare della nostra vittoria. Sono sicuro che Voi la saluterete
come la migliore consacrazione della rinata giovinezza italiana. A Voi!
Per Voi! Mussolini». Poi scrive l’editoriale per il Popolo d’Italia, che si
conclude così: «Il fascismo vuole il potere e lo avrà!».
Alla fine il direttore del Corriere ha deciso che domenica 29 ottobre
il giornale non uscirà: rinunciare a prendere una posizione critica
contro il colpo di Stato non è pensabile; ma se il Corriere prenderà una
posizione critica, la redazione sarà devastata, la tipografia distrutta;
non a caso, le truppe che dovevano proteggere via Solferino si sono
dileguate; e a quel punto le pubblicazioni sarebbero interrotte per
giorni. «Più dignitoso» conclude Albertini «è lasciar corso alla
violenza, farne prendere nota alla cittadinanza e giustificare la nostra
rassegnazione col desiderio di non fare spargere sangue per causa
nostra, anche per la mancanza di un’efficace tutela da parte delle
autorità».
In effetti sul prefetto di Milano non c’è da contare. Lusignoli ha la
spudoratezza di scrivere al presidente del Consiglio Facta e di
avvertirlo che Mussolini è «irritatissimo» per l’incarico a Salandra:
«Prevedo che domani sarà giornata assai triste». E ancora: «Vorrei
sbagliare ma prevedo che insistere in questa via, anche poco, porterà a
gravissime conseguenze».
Più ottimista è una cartomante di Cornigliano Ligure, Aida
Settimina Magnani, cui si è rivolto un anonimo dirigente del partito
popolare, per sapere come andrà a finire: «Grande vittoria fascista.
Entro tre giorni sarà composto il ministero con a capo Mussolini. Tutta
l’Italia sarà imbandierata». Fin qui la profezia si rivelerà giusta. Ma
poi la veggente si lascia trascinare dall’entusiasmo e aggiunge:
«Soltanto lui potrà ottenere pace, lavoro, grandezza, fortuna». E qui
decisamente si sbaglia.

«Se ci fosse il babbo…»


Mentre Mussolini scrive il suo editoriale trionfante, De Vecchi, Ciano
e Grandi hanno riunito i fascisti romani, e hanno deciso di accettare la
proposta di entrare nel governo Salandra. Devono solo informare il
capo. Le linee telefoniche sono ancora interrotte, si può chiamare
Milano soltanto dal Quirinale o dal Viminale. Disturbare il re pare
troppo; a Facta invece un po’ tutti stanno mettendo i piedi in testa.
Così il segretario amministrativo del partito fascista, Giovanni
Marinelli, e il deputato Gaetano Postiglione si portano nella sede della
presidenza del Consiglio, appunto il Viminale, e chiedono di
telefonare al Popolo d’Italia. Finalmente l’onorevole Postiglione riesce
a parlare con Mussolini, e gli chiede di venire a Roma il prima
possibile: «Non si tratta di mutilare la vittoria, ma di affermarci con
senso di responsabilità, di equilibrio e di forza…». La risposta rimarrà
tra le frasi celebri del Duce: «Non ho fatto quello che ho fatto per
assistere alla resurrezione di don Antonio Salandra»; dove la parola-
chiave è «don», da cui traspare anche l’insofferenza del ribelle
romagnolo per il notabile meridionale. «La presidenza del Consiglio
spetta a me» chiarisce Mussolini. Ovviamente, Postiglione si rimangia
tutto: «Va bene».
Il mattino dopo, alle 9, De Vecchi, Ciano e Grandi vanno di persona
ad avvisare Salandra che Mussolini non lo vuole. Salandra sale al
Quirinale per rinunciare all’incarico. Ma ora il re ha un soprassalto di
dignità: non può farsi dettare le condizioni da Mussolini, che vorrebbe
stravincere; provi Salandra a formare lo stesso il governo, imbarcando
altri fascisti, facendo il vuoto attorno al loro capo.
Uscito dallo studio del sovrano, Salandra incontra De Vecchi, che
attende di essere ricevuto, e ci prova subito: «Lei, De Vecchi, da
questo momento è ministro della Guerra!». Ma il quadrumviro allarga
le braccia e scuote la testa: «No, eccellenza, non posso accettare e non
può neppure Ciano. Sono sicuro che Mussolini non aderisce». I
notabili liberali non hanno capito con chi hanno a che fare, ma loro
Mussolini lo conoscono, e sanno che se gli disobbedissero
rischierebbero grosso.
Al re, De Vecchi spiega in belle parole lo stesso concetto. Vittorio
Emanuele capisce: «Chiamerò Mussolini e gli darò l’incarico». Però si
incaponisce su un punto: «Quando vedrò Mussolini gli dirò che è in
errore. Ha sbagliato a non farsi varare da Salandra. Fra qualche tempo
sarebbe rimasto solo al governo; ora è male». L’Europa come la
pensiamo oggi non c’è ancora, ma c’è una potenza che esercita la sua
egemonia sul continente, presso la quale occorre accreditarsi.
Mussolini, prevede il re, «avrà gravi fastidi con l’Inghilterra contro la
quale, sul suo giornale, ha scritto articoli roventi. Quelli sono come gli
elefanti, non dimenticano…».
All’uscita, De Vecchi trova Grandi e un giornalista del Popolo
d’Italia, Gaetano Polverelli, futuro capufficio stampa del Duce. È
Polverelli l’incaricato di annunciare la buona notizia. Mussolini però
non si fida, teme una trappola, chiede un telegramma di conferma da
parte del generale Cittadini. Il telegramma arriva un’ora dopo: «Sua
Maestà il re la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle
l’incarico di formare il ministero. Ossequi. Generale Cittadini».
Soltanto allora, dopo giorni e notti vissuti sul filo, Mussolini ha un
cedimento emotivo. Si commuove, e dice in dialetto al fratello
Arnaldo: «Sui fos e ba’…», se fosse qui nostro padre… Alessandro
Mussolini, in effetti, era morto nel 1910, piegato dall’alcol, e mai
avrebbe potuto immaginare che il primogenito chiamato con un nome
da liberatore sudamericano, Benito, sarebbe diventato il padrone
d’Italia.
Un giornalista si affaccia sul balcone del Popolo d’Italia, e annuncia
alla folla che Mussolini ha ricevuto dal re l’incarico di guidare il
nuovo governo. Subito parte un corteo, che per festeggiare occupa la
redazione dell’Avanti!. Un’altra squadra si presenta al Corriere della
Sera. Albertini chiama il prefetto, il questore, il generale comandante
della piazza di Milano, e da tutti ottiene la stessa risposta: facesse
entrare i fascisti, per evitare guai peggiori. A tutti chiude il telefono in
faccia.
Intanto Mussolini passa da casa a prendere la valigia che gli ha
preparato Rachele. Sotto in auto lo attende Margherita Sarfatti, per
accompagnarlo alla stazione Centrale. Alle 20 e 30 il treno parte per
Roma, salutato dalle grida e dai canti delle camicie nere; il nuovo capo
del governo prende posto in vagone letto.
Nella notte, il convoglio accumulerà un’ora e quaranta minuti di
ritardo: arriverà a Termini solo alle 11 meno dieci del mattino. Non c’è
tempo di cambiarsi d’abito.
Mussolini si presenta davanti al re vestito come la sera prima:
camicia nera, pantaloni grigio-verde, stivaloni. Il colloquio dura meno
di un’ora. Al Duce verrà attribuita un’altra frase storica – «Maestà, le
porto l’Italia di Vittorio Veneto» – che in realtà non ha mai
pronunciato.
La notizia della svolta suscita reazioni contrastanti in tutto il Paese.
Nel salotto del più importante intellettuale d’Italia, Benedetto Croce,
si litiga. Giustino Fortunato, il grande meridionalista, è affranto: «Dio
onnipotente, Dio onnipotente, ma questa è la fine della borghesia!».
Ma Croce non è d’accordo: «Don Giustino, vi siete scordato quello che
dice Marx, che la violenza è la levatrice della storia?». Offeso, il
professor Fortunato se ne va.
Mussolini fa il governo in poche ore. Non consulta nessuno, tanto
meno i capi dei partiti. Convoca i prescelti in albergo, l’hotel Savoia di
via Ludovisi, e comunica loro la nomina, senza indicare i nomi dei
colleghi. Ministro della Guerra sarà Armando Diaz. All’Istruzione va
Giovanni Gentile, il filosofo. Il resto è un misto di fascisti, nazionalisti
come Luigi Federzoni – alle Colonie –, liberali di destra; ma al Tesoro
e al Lavoro vanno due popolari, all’Industria un giolittiano. Il prefetto
di Milano Lusignoli non avrà la poltrona degli Interni per cui aveva
tramato; Mussolini la riserverà a sé, così come gli Esteri; per dispetto,
Lusignoli al Senato si unirà all’opposizione.
Alle 7 di sera il Duce torna dal re con la lista dei ministri. Non ha
un abito adatto, si fa prestare i pantaloni da Finzi; la giacca però va
stretta; si scatena la gara per abbigliare degnamente il capo. Tornare al
Quirinale in camicia nera sarebbe scortese, ma quella bianca è senza
bottoni, Rachele non ha messo in valigia i gemelli, e non ci si può
neppure presentare con i polsini slacciati. Si affaccia Gustavo Nesti, il
condirettore dell’agenzia Stefani: vuole congratularsi con il nuovo
padrone. Mussolini lo apostrofa bruscamente: «Avete dei gemelli?».
«No, Eccellenza, solo una figlia». «Perdio, dei gemelli ai polsini!». «Sì,
Eccellenza». «Datemeli». «Eccoli, Eccellenza».

I primi busti del Duce


La sera di venerdì 17 novembre la Camera vota la fiducia al nuovo
governo. Su 429 presenti, 306 dicono sì, 116 no, sette si astengono. Da
notare che i fascisti a Montecitorio sono appena 35: la calata di braghe
dei deputati è impressionante. La maggioranza piega la testa, nella
convinzione che Mussolini, che ha appena trentanove anni, non sia
qui per restare.
Il discorso che pronuncia nella prima seduta del 16 novembre è
truculento: «Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a
tutto e quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo castigare
tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo…».
Con l’aria di atteggiarsi a magnanimo padre della nazione, il nuovo
capo del governo continua in realtà la sua minaccia permanente:
«Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli.
Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo
esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo
tempo, voluto». Presto vorrà; e la democrazia sarà solo un ricordo. E
l’aspetto più surreale è che, quando socialisti coraggiosi – tra cui
Giacomo Matteotti – gridano «Viva il Parlamento!», comunisti e
massimalisti urlano invece «Abbasso il Parlamento!». Loro non
vogliono difendere le istituzioni borghesi; vogliono la rivoluzione; e
non si accorgono che qualcun altro l’ha già fatta, anche se a ben
guardare è una restaurazione dei rapporti di forza, a suon di
bastonate.
L’intervento più atteso è quello di Filippo Turati, storico leader
socialista. Mussolini, denuncia Turati, ha trattato la Camera «da
supina e arrendevole femmina consumata…». «Come si merita!» gli
urla il presidente del Consiglio, compiaciuto della propria ribalderia.
Prosegue Turati: «La Camera non è chiamata a discutere e a deliberare
la fiducia, è chiamata a darla; e, se non la dà, il governo se la prende. È
insomma la marcia su Roma che prosegue dentro il Parlamento, in
redingote inappuntabile…». E Mussolini, ormai in trance agonistica:
«Con la camicia nera sotto!». Turati prevede che le prossime non
saranno libere elezioni, e subito il deputato fascista Francesco Giunta
gliene dà conferma: «Le faremo col manganello!».
Votano la fiducia tutti gli uomini che Mussolini ha lusingato e
ingannato: Orlando, Giolitti, Ivanoe Bonomi, e pure «don» Antonio
Salandra. Dicono sì anche i capi del partito popolare: il futuro
presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, e l’uomo che rifonderà
la democrazia italiana, Alcide De Gasperi. Meno di cinque anni dopo,
Mussolini lo farà arrestare.
La classe dirigente si adegua, a volte per convinzione, più spesso
con il retropensiero che il fascismo sia un male necessario, per domare
socialisti e comunisti e rinvigorire lo Stato liberale. Il sindacato stesso
non ha mosso un dito. Gaetano Salvemini, che si era scagliato con
tutte le sue forze contro Giolitti, purtroppo non fa altrettanto contro
Mussolini. Non lo apprezza, però lo sottovaluta: il fascismo, secondo
lui, «minaccia di sfasciarsi con troppa rapidità».
Piovono le felicitazioni. Si congratula anche Guglielmo Marconi.
Comincia il merchandising del regime: il Popolo d’Italia ospita
pubblicità in cui si offrono i primi busti del Duce a trenta lire; vanno a
ruba fez e camicie nere; ma un sedicente fascista che vende per strada
saponette con l’effigie di Mussolini viene arrestato in quanto
impostore, siccome non è iscritto «ad alcuna sezione del partito».
Filippo Tommaso Marinetti firma un messaggio plaudente, insieme
con gli artisti Achille Funi, Carlo Carrà, Mario Sironi. Sironi, uno dei
più grandi pittori europei del Novecento, resterà fascista sino alla fine,
sino a Salò. Alla Liberazione tenta di fuggire in Svizzera, da solo in
auto con il suo cane, ma viene fermato da un gruppo di partigiani
comandati da Gianni Rodari, il poeta delle nostre infanzie. Rodari ha
appena riconosciuto John Emery, l’inglese che parlava alla radio
nazista, e l’ha consegnato alle autorità britanniche: subito tradotto a
Londra, Emery sarà processato da un giudice imparruccato che gli
dirà: «Tu hai tradito la tua patria e il tuo re; non meriti di vivere». Il
traditore sarà impiccato e sepolto in una fossa comune. Ma ora Rodari
sta leggendo il nome sul documento di un altro fermato, Sironi Mario,
e chiede: «Siete voi il pittore delle periferie?». Sironi risponde: «Sono
io». Rodari, che non vuole far uccidere un artista che ama, gli dice di
andare via in fretta. Ma Sironi ribatte che al prossimo posto di blocco
ci saranno partigiani ignari di arte moderna, che lo metteranno al
muro. Allora Rodari firma con il suo nome un lasciapassare intestato a
Sironi Mario; e gli salva la vita.

Già nel fatale autunno del 1922, però, c’è qualcuno che dice no a
Mussolini. Cocco Ortu, l’ottantenne giolittiano che aveva messo
invano in guardia il re, non vota la fiducia e si dimette da capogruppo
alla Camera. Sui quotidiani si levano voci critiche. Luigi Salvatorelli,
su La Stampa di Torino, e Mario Missiroli, su Il Secolo di Milano,
protestano contro le violenze che limitano la libertà dei giornali. Luigi
Albertini rifiuta la nomina di ambasciatore a Washington; Alfredo
Frassati, editore della Stampa, lascia l’ambasciata di Berlino. Si
dimette anche l’ambasciatore a Parigi, Carlo Sforza. Mussolini lo
convoca a Roma, tenta invano di fargli cambiare idea, e alla fine lo
apostrofa: «Ma lei non ha capito ancora che posso farla mettere al
muro con dodici pallottole?». Sforza non si lascia impressionare: «E
poi? Chi si troverà nell’imbarazzo sarà lei». Ignora che tra poco
Mussolini dimostrerà di non avere esitazioni a far bastonare e anche
uccidere i suoi oppositori.
Quattro
La vendetta fascista
Legato al camion e trascinato per la città

Alla Camera il Duce ha mentito. Non è vero che abbia evitato di


stravincere. Anzi. Divenuti signori d’Italia, i fascisti non vedono l’ora
di dimostrarlo. Nell’unico modo che conoscono: la forza, la violenza, il
sangue. E questo accade fin dal primo giorno del regime.
La mattina del 29 ottobre 1922, le camicie nere sono ormai alle porte
di Roma. Nessun ostacolo le ha fermate: l’esercito ha rinunciato ai
blocchi ferroviari e stradali. Ora però gli ufficiali tentano di convincere
i fascisti a non entrare nella capitale: il loro capo ha appena avuto
l’incarico di formare il governo; l’ingresso del suo esercito privato non
sarebbe il modo migliore di cominciare, tanto più che sarebbero
inevitabili gli scontri con i militanti di sinistra.
I capetti da convincere sono tre. Ulisse Igliori guida la colonna
arrivata da Monterotondo. Mutilato di guerra – ha perso il braccio
sinistro nell’assalto al monte Maronia –, medaglia d’oro al valor
militare, volontario a Fiume dove ha comandato La Disperata, la
guardia di D’Annunzio, Igliori (in un primo tempo ostile a Mussolini
che ha pure sfidato a un duello mai combattuto) ora è l’uomo forte dei
fascisti nel Lazio. Al suo fianco c’è il generale a riposo Gustavo Fara,
63 anni, veterano dell’Eritrea e della Libia, ferito nella presa del
Sabotino, medaglia d’oro; ma il suo principale merito è aver
comandato l’undicesimo reggimento dei bersaglieri, dove ha prestato
servizio Mussolini. La colonna giunta da Tivoli è invece comandata da
Giuseppe Bottai, 27 anni: talmente giovane che, eletto alla Camera, è
decaduto perché non ha l’età. Diplomato al liceo Tasso, volontario in
guerra, laureato in giurisprudenza, massone, ha cultura e coraggio.
«L’uomo migliore del regime», lo definirà Giorgio Bocca. Ma quando
nel 1995 la giunta di sinistra di Roma penserà di dedicargli una via, la
comunità ebraica dovrà ricordare che Bottai fu un antisemita
convinto; ed è mortificante che – al di là del valore degli uomini; e
sicuramente Bottai valore ne dimostrò, anche quando dopo l’8
settembre si arruolò nella Legione Straniera per combattere i nazisti –
debba essere la comunità ebraica la sentinella, a volte solitaria, pronta
giustamente a denunciare torti e crimini che dovrebbero essere
percepiti come tali da tutti gli italiani.
Fatto sta che sia Igliori, sia Fara, sia Bottai insistono per entrare in
Roma. I fascisti hanno in pugno la vittoria, e intendono celebrarla. Gli
ufficiali dell’esercito chiedono almeno di concordare il percorso, in
modo da evitare le zone popolari, dove l’accoglienza non sarebbe
festosa.
Igliori e Fara accettano. Bottai no: si impunta per percorrere la
Tiburtina e attraversare San Lorenzo, il quartiere più rosso di Roma.
Unica concessione: la colonna farà una sosta al piazzale del Verano, in
modo che i militari possano trovare un accordo con i militanti
socialisti e comunisti. Il generale Pugliese se ne incarica di persona: il
patto è che, se i fascisti eviteranno provocazioni, potranno sfilare
indisturbati, e pure cantare i loro inni.
San Lorenzo accoglie le camicie nere con le serrande abbassate e le
persiane chiuse. Per sicurezza, il corteo è aperto dal generale Renato
Piola Caselli e chiuso dal tenente colonnello Angelo Sagna. Tutto
sembra procedere con tranquillità, ma a un tratto si sente un colpo di
fucile, cadono tegole da un tetto, cominciano gli scontri, che infuriano
sin quasi a mezzanotte. Non si saprà mai chi ha sparato per primo.
Mentre Mussolini porta al re la lista dei ministri, si contano sul
selciato tredici morti: tutti abitanti di San Lorenzo, tutte vittime del
fascismo. Vengono seppelliti in fretta, per evitare altri scontri ai
funerali.
Anche negli altri quartieri – al Trionfale, a Prati, a Trastevere, nel
centro storico – le camicie nere non mantengono i patti, e vanno
all’attacco degli avversari. Le redazioni dei giornali considerati ostili,
compresi quelli liberali come Il Paese e L’Epoca, vengono devastate, si
accendono roghi dove bruciano copie, archivi, rotative. Sorpreso alla
sua scrivania, un giornalista de Il comunista viene gettato a terra e
derubato del portafogli; riesce però a fuggire saltando dalla finestra e
correndo sui tetti: il suo nome è Palmiro Togliatti.
L’ex comandante degli Arditi del popolo, Argo Secondari, è
aggredito a casa, in via Sicilia: reso incosciente dalle bastonate alla
testa, passerà il resto della vita recluso in manicomio.
Vengono devastate le case di Francesco Saverio Nitti, ex presidente
del Consiglio liberale, di Arturo Labriola, già ministro di Giolitti, e di
Nicola Bombacci: socialista, poi comunista, amico personale di
Mussolini, sarà fucilato con lui a Dongo e appeso al suo fianco a
piazzale Loreto.
Nelle vie di Roma si scatena la caccia al «rosso»: decine di persone
sono costrette a bere olio di ricino; un socialista viene assassinato in
via Crescenzio, un altro in via Cola di Rienzo, a due passi da San
Pietro. In piazza Barberini bruciano in un falò le carte portate via dalla
Casa del Popolo; altri roghi ardono in centro e nelle periferie.

Spedizione punitiva a San Lorenzo


Per una volta, non è Mussolini il mandante delle violenze. Anzi, ne è
scontento: in quel momento gli squadristi non gli servono più, e lui
deve dimostrare al re che sa tenerli a bada. Ma chi è responsabile di
aver portato nella capitale migliaia di uomini armati? Di aver fondato
le bande, di averle lasciate libere di ferire e uccidere, di averle usate
come arma e minaccia per prendere il potere? Fatto sta che ora
Mussolini ordina al responsabile delle Ferrovie di organizzare treni
speciali per riportare a casa tutti i fascisti – accampati a Villa Borghese
– il giorno dopo. E quando si sente rispondere che è impossibile, se ne
esce con una frase già da Duce: «Lei cominci a cancellare la parola
impossibile dal suo vocabolario». Come se la volontà, da sola, potesse
tutto.
Il 31 ottobre, dopo aver giurato al Quirinale, Mussolini passa in
rassegna le camicie nere, che sfilano tronfie per le vie della capitale.
Nei mesi cupi di Salò, il Duce rimpiangerà quella scelta: «Nel
pomeriggio del 31 ottobre vi fu un piccolo errore nel determinare
l’itinerario. Invece di passare davanti al palazzo del Quirinale, sarebbe
stato meglio penetrarvi dentro».
Poi una parte degli squadristi si avvia verso la stazione Termini.
Ma altri hanno organizzato una spedizione punitiva a San Lorenzo, il
quartiere ribelle. Arrivano all’alba, stanano i «rossi» uno per uno,
entrano nelle loro case, li gettano giù dalla finestra. Decine di uomini
resteranno paralizzati e storpiati, le loro famiglie condannate alla
miseria, segnate come nemiche dei nuovi signori d’Italia.

A Milano i fascisti si ritirano dalla redazione dell’Avanti!. Il


giornale che è stato di Mussolini è distrutto. Scrive un testimone:
«Hanno gettato i mobili non trasportabili dalle finestre. Cataste di
scrivanie, sedie, scansie, persiane. Tutto sventrato. Sudiciume.
Gavette. Pagnotte. Elmetti militari. Paglia. Redazione e
amministrazione sparite. Vetri infranti. Porte abbattute. Specchi rotti.
Tutto rubato. Peggio in tipografia. Un campanello suona, suona
disperatamente. I banchi dei tipografi rovesciati. I caratteri gettati alla
rinfusa… Dovunque il segno di un odio feroce, inesplicabile».
Il sindacato dei giornalisti protesta, Mussolini promette di
salvaguardare la libertà di stampa, «purché la stampa sia degna della
libertà. La libertà non è soltanto un diritto, è anche un dovere». Giri di
parole per dire che i giornalisti avranno la libertà di scrivere quel che
piace a lui; e così sarà, per oltre vent’anni, con rare eccezioni spesso
pagate a caro prezzo.
I direttori delle banche di molte città italiane ricevono visite da
fascisti armati che chiedono soldi come risarcimento per le spese della
marcia su Roma, quantificate in 730 mila 271 lire e 5 centesimi. Il capo
dei fascisti pugliesi, Caradonna, manda una squadraccia alla filiale di
Foggia del Banco di Napoli, per chiedere «a titolo di prestito» 40 mila
lire, «volente o nolente». Il direttore ne anticipa 13 mila. Caradonna fa
occupare da picchetti armati e muniti di taniche di benzina tutte le
banche della città, fino a quando non arrivano le 27 mila lire mancanti.
Ad Alessandria il bottino è ancora più cospicuo: il capo della
Tesoreria provinciale è costretto a versare centomila lire ai ras locali,
che rilasciano ricevute «assicurando regolarizzazione da parte
Presidente Consiglio Ministri»: paga Mussolini.

I prefetti e i questori ricevono l’ordine di compilare elenchi dei


nomi di chiunque trami o possa tramare «ai danni della Patria, dello
Stato, del Governo». Basta un sospetto per essere arrestato, senza
spiegazioni. Chi rifiuta perde il posto: vengono cacciati sette questori,
quattro vicequestori, venti commissari, sei commissari aggiunti,
cinque vicecommissari; il Duce ordina «un colpo di ramazza» alla
questura di Milano, che non gli era «mai piaciuta».
Alfredo Misuri, fascista eletto alla Camera nel 1921, che già aveva
preso le distanze dai bastonatori, avvisa Mussolini che terrà un
discorso contro gli eccessi del regime. Il Duce gli ordina di tacere. Lui
parla ugualmente. La sera stessa lo aspettano fuori da Montecitorio e
lo mandano in ospedale, a forza di bastonate e pugnalate. Il capo degli
aggressori è uno squadrista tra i più feroci, già guardia del corpo di
Mussolini: i carabinieri lo arrestano, Balbo lo fa liberare; il suo nome è
Arconovaldo Bonacorsi.
La Milizia diventa ufficialmente un esercito parallelo. Il Duce
chiarisce: «Chi tocca la Milizia avrà del piombo. Chi tocca la Patria e il
Fascismo muore».
Picchiatori toscani e lombardi formano un’organizzazione
specializzata nelle spedizioni punitive. La chiamano Ceka, come la
polizia sovietica. Il capo è Amerigo Dumini. L’esordio è l’aggressione
contro un altro fascista dissidente, Cesare Forni, bastonato nella
stazione centrale di Milano, sotto gli occhi dei passeggeri.
Il Duce si è trasferito a Roma, dove ha preso casa in via Rasella.
Rachele e i figli (nel 1918 è nato il terzo, Bruno) possono restare a
Milano. Gli fanno compagnia le bestie feroci, prima un puma poi una
leonessa, legata alla gamba del pianoforte. La accarezza spesso, poi si
porta le dita al naso, esclamando: «Odoro di leone!». Nel marzo 1923,
dovendo indicare la data sul registro di un’associazione musicale,
scrive: «Anno primo della nuova era».
La strage di Torino
A Torino, però, c’è un ragazzo che non si rassegna. Non è socialista,
né comunista, anche se ha conosciuto Antonio Gramsci e lo apprezza.
È il figlio di un droghiere, ha appena ventun anni. Il suo nome è Piero
Gobetti. «Alto, magro, con una gran testa di capelli scaruffati biondo
castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo e occhi
vivacissimi e penetranti dietro le lenti» (così lo descriverà Carlo Levi).
La drogheria dei suoi genitori è in centro, in via XX Settembre 60.
Nella stessa casa abitava una ragazzina, Ada Prospero, «una bimba
deliziosa con le trecce sulle spalle, i grandi occhi pieni di fuoco, e tutto
fuoco la parola, tutto ardore per i libri che le piacevano» (la
descrizione è di Barbara Allason). Piero le ha chiesto di aiutarlo a
trovare abbonati per le piccole riviste che ha fondato, prima Energie
nove, poi La Rivoluzione liberale, su cui scrivono i migliori
intellettuali della città.
Lui è andato a bussare alla porta del più importante, il titolare della
cattedra di Scienza delle Finanze, Luigi Einaudi, per chiedergli un
articolo, specificando che non ha i soldi per pagarlo. Un barone
universitario di oggi lo guarderebbe come un matto. Einaudi
ringrazia, scrive, consegna.
Sul numero del 2 novembre 1922, Gobetti annota: «È disgustoso che
si considerino senza turbamento le violenze fasciste contro il direttore
del Lavoro, contro Il Paese, il Mondo, e i giornali socialisti e
comunisti». Ma il numero esce mutilo: l’editore, Arnaldo Pittavino, ha
censurato un titolo in prima pagina, per non irritare i fascisti. Alle
proteste del giovanissimo direttore, risponde: «Caro Gobetti, ma tu
hai proprio voglia di farmi incendiare la tipografia!». Il numero
successivo è ancora più duro verso il nuovo governo, e Pittavino si
rifiuta di stamparlo, per timore della rappresaglia. Gobetti insiste e
una settimana dopo riesce a mandare il suo giornale in edicola. Le
critiche non risparmiano nessuno: «Né Mussolini né Vittorio
Emanuele Savoia hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene
animo di schiavi». E ancora: «Noi siamo come la dura scorza di una
noce: proteggeremo i nostri ideali dalla sopraffazione con tutte le
nostre forze e fin quando possibile».
Non è un caso che Piero Gobetti scriva da Torino. La città più
operaia d’Italia è tra le poche che i fascisti non hanno ancora domato.
Mussolini, che la detesta, intende piegarla, e con la forza.
I capi del comunismo italiano sono o saranno torinesi, di nascita o
di formazione: Gramsci, Togliatti, Secchia, Longo, Pajetta, Terracini,
Viglongo, Tasca. All’inizio anche loro hanno sottovalutato il Duce.
L’ordine per i militanti è «non assumere alcuna iniziativa e agire solo
in caso di attacchi e provocazioni dirette contro il proletariato».
Ma a Torino non sono soltanto socialisti e comunisti a opporsi al
regime. Molti liberali e moderati si riconoscono nella Stampa di
Alfredo Frassati, giolittiano. Poi ci sono i cattolici. Frassati ha un figlio,
Piergiorgio, che ha fama di santo: vive per i poveri, cui distribuisce i
suoi averi; è critico con il fascismo e con i popolari che al fascismo si
sono piegati.
Il primo dicembre 1922 Mussolini è in città. Arringa una platea
amica. E avvisa: «Gli operai hanno creduto di doversi e potersi
rendere estranei alla vita nazionale … Se vi saranno minoranze ribelli
e faziose che cercheranno di opporsi, esse saranno inesorabilmente
colpite». È il presidente del Consiglio, ma parla ancora come un
capobanda. L’occasione per tradurre in pratica le sue minacce arriva
molto presto.
La sera del 17 dicembre 1922 è fredda e nebbiosa. Un giovane
militante comunista, Francesco Prato, ha finito la sua giornata di
lavoro – fa il bigliettaio sui tram – e sta andando a trovare la fidanzata.
Tre fascisti lo attendono per strada e gli sparano, ferendolo a una
gamba. Ma Francesco è armato, risponde al fuoco, e uccide due
assalitori: Giuseppe Dresda, ferroviere, e Lucio Bazzani, studente. Il
terzo, l’artigiano Carlo Camerano, vero ispiratore dell’agguato, fugge
e va ad avvertire i camerati.
Prato trova rifugio in casa di amici; un medico dell’Alleanza
Cooperativa lo opera, gli estrae il proiettile, lo medica. I fascisti lo
cercano, e il partito comunista decide di farlo espatriare. Ma la caccia
all’uomo è già cominciata. Più che vendicare i due morti, l’obiettivo è
annientare con il terrore l’opposizione al fascismo della classe operaia
torinese.
La repressione è guidata da Piero Brandimarte, braccio destro del
quadrumviro De Vecchi, e uomo forte dello squadrismo piemontese.
Capitano degli arditi durante la Grande Guerra, Brandimarte è finito a
fare il commesso in una merceria. Il fascismo per lui rappresenta la
grande occasione. Ai suoi ordini, e nel disinteresse delle autorità, le
camicie nere si scatenano in una violenza cieca.
Il primo a cadere è il segretario del sindacato ferrovieri, Carlo
Berruti, consigliere comunale del Pci. È il 18 dicembre. Il mattino
dopo, un ex brigadiere dei carabinieri, Angelo Quintagliè, che ora
lavora alle ferrovie come usciere, chiede notizie della sorte di Berruti.
Gli rispondono che l’hanno ammazzato; lui esprime rammarico per il
delitto. Un’ora dopo sei squadristi entrano nel suo ufficio, gli si
gettano addosso, lo bastonano e lo uccidono a colpi di pistola. Matteo
Chiolero, fattorino, è assassinato davanti alla moglie e alla figlia.
Viene ucciso anche Leone Mazzola, un oste che non fa politica, ma è
stato additato da un delatore come simpatizzante comunista. Almeno
altri due torinesi perdono la vita per caso, perché capitano nel posto
sbagliato al momento sbagliato.
Matteo Tarizzo, ex operaio Fiat, ha aperto una sua officina, ma non
ha perso l’abitudine di leggere L’Ordine Nuovo, il giornale di
Gramsci. Sta dormendo quando i fascisti gli sfondano la porta di casa,
in via Canova 35, lo costringono a seguirlo, lo portano in un prato e gli
sfondano il cranio a bastonate, prima di lasciare sul cadavere alcune
copie dell’Ordine Nuovo.
I feriti della spedizione punitiva sono decine. Molti circoli operai
vengono presi d’assalto, la Camera del Lavoro di corso Siccardi
incendiata. Qui i fascisti trovano il segretario della Federazione dei
metalmeccanici, Pietro Ferrero, e lo picchiano a sangue. Ma la sera,
anziché rientrare a casa, Ferrero torna alla Camera del Lavoro, forse
per controllare i danni, forse perché intontito dalle botte. I fascisti lo
riconoscono, lo prendono a calci e pugni, lo trascinano dentro, lo
rinchiudono in una stanza trasformata in prigione. Poi a mezzanotte
lo riportano in strada, con una corda lo legano per una gamba al loro
camion, e lo trascinano per le vie della città, sino al monumento a
Vittorio Emanuele. C’è da sperare che fosse già morto quando –
secondo le testimonianze – gli squadristi gli cavarono gli occhi e gli
strapparono i testicoli. Scene da linciaggio del Ku Klux Klan, che
purtroppo si ripeteranno più di vent’anni dopo, al tempo della
Repubblica di Salò.
I morti ufficialmente sono quattordici, ma Brandimarte ne
rivendica molti di più. Rilascia un’intervista al Popolo di Roma in cui
assicura che la rappresaglia è stata «ufficialmente comandata e da me
organizzata. Noi possediamo l’elenco di oltre tremila nomi sovversivi.
Tra questi tremila ne abbiamo scelti 24 e i loro nomi li abbiamo affidati
alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia». Il giornalista
obietta che secondo questura e prefettura i morti sono di meno,
Brandimarte protesta: «Cosa vuole che sappiano in questura e
prefettura? Io sarò ben in grado di saperlo più di loro. Gli altri
cadaveri saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si
troveranno nelle fosse, nei burroni o nelle macchie delle colline
circostanti».
Brandimarte tiene però a precisare che «il capo del fascismo
torinese è l’on. De Vecchi. Egli ci ha telegrafato, com’è noto, per
condividere in pieno la responsabilità della nostra azione». Azione che
De Vecchi aveva già rivendicato in un teatro, davanti a migliaia di
persone.
Non ci sono prove che l’ordine sia arrivato direttamente da
Mussolini, il quale però non appare dispiaciuto che le sue minacce
siano state tradotte in fatti. Così telefona al prefetto di Torino: «Come
capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati di più;
come capo del governo debbo ordinare il rilascio dei comunisti
arrestati». Non ci sono leggi infatti per tenerli in carcere; ma il Duce
troverà un rimedio anche a questo.
Il 22 dicembre 1922 il governo vara un decreto di amnistia per i
colpevoli di reati politici, purché commessi «per un fine, sia pure
indirettamente, nazionale». Restano punibili i crimini commessi «da
sovversivi», diretti ad «abbattere l’ordine costituito, gli organi statali e
le norme fondamentali della convivenza sociale». Tradotto in italiano:
i reati commessi dai fascisti non si perseguono; quelli commessi dagli
antifascisti sì. Il re firma senza indugi.
Brandimarte non farà una grande carriera. Rimasto a Torino, come
capo della Milizia, vive anche un guaio giudiziario. Aiuta la sua
amante, Amalia Guglielminetti (già musa del poeta Guido Gozzano),
a vendicarsi dell’uomo che l’ha lasciata: Dino Segre, in arte Pitigrilli,
romanziere di dubbio gusto ma di grande successo. Amalia falsifica
alcune sue lettere, inserendo giudizi offensivi sul Duce.
Arrestato, Pitigrilli riesce a svelare la trappola organizzata contro di
lui. Brandimarte è condannato a dieci mesi e 17 giorni di reclusione
per concorso in falso e abuso d’ufficio. La giustizia di regime lo
manda assolto in appello. Lui schiaffeggia in pubblico Pitigrilli
minacciando vendetta. Anche per paura della Milizia, il romanziere
diventa delatore, e consegna gli intellettuali antifascisti torinesi: Leone
Ginzburg, Sion Segre Amar, Franco Antonicelli, Massimo Mila,
Michele Giua, Giuseppe Levi, Gino Levi Martinoli, Carlo Levi e suo
fratello Riccardo, Carlo Mussa Ivaldi Vercelli, Barbara Allason.
Dopo la caduta di Mussolini, Brandimarte viene denunciato per
essersi arricchito con la borsa nera: nella sua casa di via Rattazzi gli
trovano viveri, liquori, denaro, gioielli. Dopo la Liberazione sarà
arrestato per la strage del dicembre 1922. Al processo – trasferito a
Firenze per motivi di ordine pubblico – negherà le colpe di cui si era
vantato in pieno regime, ma sarà condannato a 26 anni e tre mesi, per
essere poi assolto in appello. Non pagherà mai per il male commesso.
Cesare Maria De Vecchi ottiene prima il titolo di conte di Val
Cismon, poi il governatorato della Somalia, infine quello del
Dodecaneso. Due mesi prima dell’aggressione fascista alla Grecia, fa
affondare l’incrociatore Elli, pare su richiesta di Mussolini: i morti
sono nove, decine i feriti; un autentico crimine di guerra, in tempo di
pace. Ma quando c’è da combattere gli inglesi, i suoi ordini portano la
flotta al disastro. Il comando della marina chiede la sua testa, e il Duce
gliela concede: De Vecchi è solo uno dei tanti gerarchi che non ha mai
stimato, ma di cui si è circondato perché gli obbediscono e non gli
fanno ombra.
Come premio per aver votato l’ordine del giorno Grandi, che porta
alla caduta del regime, Badoglio affida a De Vecchi il comando della
215 a divisione costiera in Toscana. Dopo l’8 settembre De Vecchi
autorizza prontamente l’ingresso delle truppe naziste nel porto di
Piombino; ma il comandante della piazza, il capitano di corvetta
Giorgio Bacherini, decide di resistere e riunisce soldati, marinai e
operai delle acciaierie che contrattaccano i tedeschi, catturandone
trecento. Il giorno dopo De Vecchi li libera e restituisce loro le armi;
poi firma vilmente la resa della sua divisione, consegnando Piombino
all’invasore.
Nel timore della vendetta del Duce per il 25 luglio, la «nullità
tonante» (ricordate la definizione di D’Annunzio?) si nasconde nei
conventi dei salesiani, che lo proteggono anche dai partigiani dopo il
25 aprile. Espatriato in Sud America, ritornerà solo nel giugno 1949,
dopo che la Cassazione avrà annullato la sentenza con cui la corte
d’Appello di Roma l’aveva condannato a cinque anni. De Vecchi
morirà nel suo letto, senza aver passato in carcere un solo giorno.
Quanto a Francesco Prato, il comunista ferito, viene portato in auto
a Milano da Rita Montagnana, la compagna di Togliatti, insieme con
la sorella Elena e suo marito Paolo Robotti. In quel terribile inverno
del 1923, altri compagni lo trasferiscono a Zurigo, e da qui in Unione
Sovietica. Ma la «patria del socialismo» non sarà un rifugio ospitale:
sfuggito per miracolo agli sgherri di Mussolini, Francesco Prato
morirà nel 1943 in un gulag di Stalin.

Bastonare Piero Gobetti, il figlio del droghiere


Il primo giugno 1924, il Duce telegrafa al prefetto di Torino, Enrico
Palmieri: «Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a
Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere
nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e
fascismo». È un’istigazione a colpire. In effetti Gobetti, che è già stato
arrestato due volte, tenta di tessere le fila tra i gruppi antifascisti. Otto
giorni dopo, Piero viene massacrato di botte nell’androne di casa dagli
squadristi, che devastano il suo appartamento e gli portano via libri e
carte. Molti tra i volumi che ha pubblicato vengono dati alle fiamme. È
il 9 giugno, il giorno che precede la scomparsa di Giacomo Matteotti.
Gobetti lancia un appello a tutti gli oppositori del regime, perché si
uniscano per salvare la democrazia. Viene aggredito dai fascisti per
una seconda volta. Eppure insiste. Dalla sua rivista, La Rivoluzione
liberale, punta il dito contro Amerigo Dumini come responsabile
dell’assassinio di Matteotti: il numero viene sequestrato.
Gobetti fonda un’altra rivista, Il Baretti, cui chiama a collaborare
Montale, Croce, Natalino Sapegno e Augusto Monti, il professore che
farà scuola di antifascismo al liceo D’Azeglio.
L’11 gennaio 1923 Gobetti si è sposato con la ragazza dalle lunghe
trecce, Ada, che ora aspetta un bambino. Ma lui non si sottrae a quello
che sente come un dovere. Scrive: «Bisogna amare l’Italia con orgoglio
di europei e con l’austera passione dell’esule in patria».
Il 5 settembre 1925 viene pestato selvaggiamente per la terza volta
dagli squadristi. Il potere di Mussolini è ormai consolidato, ma quel
ragazzo con gli occhiali continua a dare fastidio.

Le voci dell’antifascismo torinese si spengono una a una. Dopo


essersi salvato da un’aggressione fascista, Piergiorgio Frassati muore il
4 luglio 1925, per una poliomielite fulminante, contratta nella casa di
uno dei poveri che frequenta. Ai funerali si presenta una grande folla,
come quella che aveva dato l’ultimo saluto a don Bosco: sono gli
assistiti di Piergiorgio. Il padre Alfredo si commuove: «Io non
conoscevo mio figlio…».
Piero Gobetti parte per l’esilio. In patria non può più scrivere e
lavorare. Gli pesa moltissimo lasciare il figlio neonato e la moglie. «Il
mio ideale» ha scritto di Ada nel suo diario «l’ho incarnato in lei,
l’avevo incarnato in lei già senza conoscerla, nella gentilezza del suo
viso che parlava la voce del vero. Io sono stato tanto tempo un egoista.
Un’educazione familiare poco forte moralmente mi aveva tenuto
sempre in uno stato di incoscienza morale … Ho dovuto rifarmi un
senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a
diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei glie ne sarò grato
sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso
immediato di elevazione». Ma ora Piero non può più restare accanto a
Ada. Semmai dovrà essere lei a raggiungerlo. Finché durerà il
fascismo, giura Gobetti, «non metterò più piede in Italia, morto o
vivo».
Il regime ha soppresso La Rivoluzione liberale e la casa editrice, che
ha appena pubblicato la più importante raccolta di poesie del
Novecento italiano: Ossi di seppia, del ventottenne Eugenio Montale.
E non è peregrino leggere, nei versi che negano la possibilità di
esprimere l’assoluto, anche il rifiuto della prepotenza fascista:
«Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Il 28 dicembre 1925 nasce il figlio Paolo. Il 3 febbraio 1926 Gobetti


parte per Parigi, da solo. Ada vorrebbe impedirglielo, ha come un
presentimento, ma non osa: «Non potevo e non dovevo» scriverà.
«Sarebbe stato tradirti, mancarti, farti soffrire». Alla stazione va a
salutarlo Montale. Ricorderà anni dopo: «Viaggiava in terza classe; ci
siamo anche abbracciati; sono stato l’ultimo amico che ha visto in terra
italiana».
Piero sta male. Soffre di scompensi cardiaci, conseguenza delle tre
bastonature fasciste, aggravati da una bronchite. Nel giro di pochi
giorni, la situazione precipita. Lo ricoverano in una clinica di Neuilly-
sur-Seine, dove muore a mezzanotte del 15 febbraio. Non ha ancora 25
anni, ma ha già lasciato una traccia prodigiosa di sé.
La moglie Ada, incredula, distrutta, rimasta sola con un bambino di
due mesi, scrive: «Non è vero, non è vero: tu ritornerai. Non so
quando, non importa, non importa. Ritornerai e il tuo piccolo ti
correrà incontro e tu lo solleverai tra le tue braccia. E io ti stringerò
forte forte e non ti lascerò più partire, mai più. È un vano sogno, tutto
questo, una prova a cui hai voluto pormi: tu mi vedi, mi senti: e io
saprò mostrarmi degna del tuo amore. Quando ti parrà che la prova
sia durata abbastanza, tornerai per non più lasciarmi. Saranno passati
molti anni ma immutati splenderanno i tuoi occhi e ritroverò le
espressioni di tenerezza della tua voce. Mio caro, mio piccolo mio
amore, ti aspetterò sempre: ho bisogno di attenderti per vivere».
Ada Gobetti sarà tra le fondatrici del partito d’Azione e un punto di
riferimento della Resistenza piemontese, accanto al figlio Paolo.
Piero riposa a Parigi, nel cimitero del Père-Lachaise. L’epistolario
con Ada è stato pubblicato con il titolo «Nella tua breve esistenza»,
che prende spunto da questa lettera postuma che gli scrive la donna
amata: «Nella tua breve esistenza c’è stato tanto ardore, tanto lavoro,
tanta gioia, da farla più ricca e felice di tante altre lunghissime vite: e
non c’è stato in essa nulla di laido, di imperfetto, di malsicuro. È stata
tutta luce: parabola breve, dall’intensità luminosissima. E penso che tu
non vorresti che ti si piangesse, ma si considerasse la tua vita un
capolavoro e un esempio».
Cinque
Vittime
Storia di Giacomo Matteotti, don Giovanni Minzoni, Giovanni
Amendola, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli

L’ultimo libro scritto e pubblicato da Piero Gobetti prima di morire si


intitola «Matteotti». Il suo successo è pari alla tenacia con cui i fascisti
tenteranno di farlo sparire. Oggi la prima edizione del 1924 è molto
ricercata dai collezionisti, anche perché è difficile trovare le copie
sfuggite alla caccia del regime, deciso a cancellare il ricordo della più
celebre delle sue vittime.
Più celebre; non certo l’unica. Come abbiamo visto, e come
vedremo, le vittime del fascismo sono molte di più. Ma la vita e la
morte di Giacomo Matteotti, autentico martire, restano il simbolo di
un’Italia che è esistita, e non si è piegata.

Giacomo Matteotti (1885-1924)


Matteotti sarebbe stato un leader naturale della socialdemocrazia
europea. Se fosse stato vivo nel secondo dopoguerra, avrebbe potuto
dialogare alla pari con figure come Clement Attlee, Willy Brandt, Olof
Palme. Era rigoroso eppure pragmatico, dotato di una visione
internazionale, competente in economia. Tra le sue molte
responsabilità, Mussolini ha anche quella di aver privato il Paese di
figure – il liberale Giovanni Amendola, il marxista eretico Antonio
Gramsci, il socialista Giacomo Matteotti, il riformista Carlo Rosselli
assassinato con il fratello Nello – che avrebbero contribuito a costruire
un’Italia migliore. Il Duce ha distrutto una classe politica a suon di
bastonate – si pensi solo ai cattolici: don Sturzo costretto all’esilio, De
Gasperi e Gronchi fuori gioco per vent’anni, don Giovanni Minzoni
assassinato – per sostituirla con un ceto mediocre (tranne qualche
eccezione), ottuso e xenofobo, autoritario e violento, selezionato in
base all’obbedienza e non all’intelligenza.
Matteotti era di Fratta Polesine, all’epoca una delle zone più povere
d’Italia. Fame, malattie, analfabetismo, emigrazione: un abitante su tre
tenta la sorte in Sud America. La sua famiglia è benestante, grazie al
duro lavoro: colpisce come spesso vengano rilanciate le accuse di
usura, mai provate, utili però a liberarsi l’anima da un rimorso
collettivo; come a dire che pure il martire del fascismo aveva le sue
ombre in casa.
Matteotti viaggia all’estero, impara il francese, l’inglese, il tedesco.
Socialista da sempre, organizza leghe e cooperative di braccianti. Nel
1914, al congresso provinciale del partito di Rovigo, incontra per la
prima volta Benito Mussolini, e capisce subito di avere davanti un
uomo del tutto privo di scrupoli. Matteotti è un riformista, Mussolini
un massimalista: non gli interessa migliorare le condizioni dei
lavoratori, gli interessa la rivoluzione; almeno a parole. In realtà, quel
che gli preme è il potere. Una sera, a un gruppo di giornalisti amici
che gli chiedono quale sia davvero il suo programma, risponderà in
un accesso di sincerità, in dialetto romagnolo: «Me a voi cmandè!», io
voglio comandare. Fatto sta che quel congresso a Rovigo lo vince
Mussolini: 309 voti contro 198.
Quando il futuro Duce diventa interventista, Matteotti resta sulla
linea della neutralità: per lui, dalla prima guerra mondiale l’Italia ha
solo da perdere. Lo mettono sotto processo per disfattismo, sarà
assolto solo in Cassazione.
Matteotti è sì un riformista; ma ha un temperamento focoso,
battagliero. Liberali e moderati non lo perdonano, lo additano come
un traditore della propria classe, «il socialista milionario», «il
rivoluzionario impellicciato». Lui resiste, grazie anche alla forza che
gli viene dall’amore per Velia Titta, una studentessa della Normale di
Pisa conosciuta in una vacanza all’Abetone.
Velia e Giacomo vogliono sposarsi, ma lei insiste per il matrimonio
religioso, contrario ai principi di lui. Alla fine Velia si convince a
celebrare solo il matrimonio civile, a Roma, in Campidoglio: «Vieni,
saremo felici lo stesso, tu continuerai la tua vita, e io non posso in
questo giorno mentire e dirti cosa non vera o nascondere il mio cuore.
Sarò religiosa lo stesso, ci vorremo bene lo stesso, vivendo uniti in
qualsiasi lotta. Sii tranquillo, nulla potrebbe mai separarmi da te».
Velia è la sorella minore di Titta Ruffo, uno dei più importanti baritoni
italiani, che si lega a Giacomo con una profonda amicizia, destinata a
costargli molto.

Alle elezioni del 1919 Matteotti è eletto deputato. Il partito


socialista a Rovigo è al 70%; l’anno dopo conquista tutti i 63 comuni
del Polesine. Giacomo entra nella commissione Finanze e Tesoro.
Studia moltissimo, «sino a notte alta». Condanna gli eccessi del
biennio rosso. Di fronte alle violenze fasciste, invita i socialisti a
evitare ritorsioni, a confidare nella giustizia e nello Stato.
Nel gennaio 1921 gli squadristi lo aggrediscono per la prima volta,
a Ferrara. La moglie gli scrive di stare attento, di badare alla propria
salvezza, ma nello stesso tempo sa già quello che lui farà: «Mi è
difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa
alcuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita».
Il 31 gennaio 1921 Matteotti prende la parola alla Camera per
denunciare i crimini dei fascisti: «Oggi in Italia esiste una
organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti,
nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate,
le quali dichiarano apertamente (hanno questo coraggio, che io
volentieri riconosco) che si prefiggono atti di violenza, atti di
rappresaglia, minacce, violenze, incendi…».
Nessuno finora ha avuto il coraggio di raccontare nei dettagli in
Parlamento quello che accade nel Paese, come lui torna a fare il 10
marzo: «Mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire,
arrivano i camions di fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle
frazioni composte di poche centinaia di abitanti; arrivano
accompagnati naturalmente dai capi dell’agraria locale, sempre
guidati da essi, perché altrimenti non sarebbe possibile conoscere
nell’oscurità in mezzo alla campagna sperduta la casetta del capolega
o il povero miserello ufficio di collocamento, si presentano davanti
alla casetta e si sente l’ordine: “Circondate la casa!”. Sono venti, sono
cento persone armate di fucili e rivoltelle. Si chiama il capolega e gli si
intima di scendere; se il capolega non discende, gli si dice: “Se non
scendi ti bruciamo la casa, tua moglie, i tuoi figlioli”. Il capolega
discende: se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion,
gli fanno passare le torture più inenarrabili, fingendo di ammazzarlo,
di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo,
legato ad un albero. Se il capolega è un uomo di fegato e non apre e
adopera le armi per la sua difesa, allora è l’assassinio immediato che si
consuma nel cuore della notte. Cento contro uno. Questo è il sistema
del Polesine».
Nel 1922 diventa segretario del partito socialista unitario, che a
dispetto del nome è nato da una scissione: i massimalisti hanno
espulso Turati e i riformisti, che hanno visto in Matteotti il leader
naturale della nuova generazione. Le minacce delle camicie nere sono
costanti. Velia con i tre figli si è rifugiata in Liguria, a Varazze, ma la
trovano anche lì: «Sono venuti a dirci che se ritorni non garantiscono
neanche le famiglie più» scrive al marito. «Non so altro perché fuori
non vado. Insultano su la strada come fossimo la peggior gente di
spregio».
Matteotti è sempre più solo. I comunisti lo annoverano tra i loro
nemici, alla pari di Mussolini e di Sturzo, e lo definiscono
«socialtraditore». Lui se ne ricorderà, e quando Togliatti gli proporrà
un’alleanza per le elezioni del 1924 risponderà di no. Il governo gli
ritira il passaporto, ma lui riesce ad andare lo stesso in Inghilterra, a
indagare sulle tangenti pagate al regime sulle forniture di petrolio
dell’americana Sinclair Oil. Sa leggere i bilanci, scopre le prove di un
grave scandalo politico. Anche questo gli sarà fatale.

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti prende la parola alla Camera,


per denunciare le violenze e i brogli che hanno reso palesemente
irregolari le elezioni. La custodia dei seggi affidata ai militi fascisti in
uniforme; molte commissioni elettorali composte esclusivamente da
iscritti al fascio; militanti – tra cui balilla in divisa – che hanno votato
decine di volte. Matteotti parla a fatica, tra continue interruzioni,
grida, minacce. Mussolini, sempre più torvo, mostra la sua irritazione
muovendosi di continuo, scuotendo la testa, agitando le mani,
roteando gli occhi. Alla fine, dopo più di un’ora, Matteotti stremato
replica ai compagni che gli si stringono attorno per congratularsi: «Io
ho fatto il mio discorso. Voi ora preparate il mio discorso funebre».
Il primo giugno, sul Popolo d’Italia, Mussolini definisce il suo
intervento «mostruosamente provocatorio». Sono giorni terribili.
Molti parlamentari vengono aggrediti fuori dalla Camera: Giovanni
Amendola, Arturo Labriola, Tito Zaniboni, Enrico Molè e Giovanni
Colonna di Cesarò, che pure è stato ministro di Mussolini sino a pochi
mesi prima. Il Duce si agita, sobilla i suoi collaboratori più stretti. Al
capufficio stampa Cesare Rossi – è lui stesso a raccontarlo –, e al
segretario amministrativo del partito Giovanni Marinelli, chiede:
«Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel
discorso non dovrebbe più circolare!».
Marinelli lo prende in parola. Ed esegue. Gli assalitori, se non
agiscono eseguendo un ordine preciso del Duce, sanno bene di fargli
cosa gradita, anche se magari non utile, anzi dannosa. Almeno
all’apparenza.
Matteotti intende rivelare tutto quello che ha scoperto sulle
tangenti sul petrolio. Gli studi più recenti, a cominciare da quelli di
Mauro Canali, confermano che il delitto serviva a far tacere una voce
pericolosa, anche per gli affari del regime.
Il pomeriggio del 10 giugno 1924 cinque assassini aspettano
Giacomo Matteotti sotto casa, in lungotevere Arnaldo da Brescia, nel
pieno centro di Roma. Uno è sicuramente Amerigo Dumini. La loro
auto – una Lancia di proprietà di Filippo Filippelli, direttore del
Corriere Italiano, quotidiano velinaro del ministero degli Interni –
attende con il motore acceso. Lo afferrano, cercano di trascinarlo verso
la macchina, ma lui dimostra il suo coraggio anche nell’ultima
occasione: si dibatte, si libera, tenta di mettersi in salvo, fugge lungo la
scaletta che scende al fiume. Lo colpiscono alla nuca. Matteotti sviene.
Lo portano di peso nella Lancia, che parte verso Ponte Milvio. Lui
riprende conoscenza, perde sangue dalla bocca, tenta di liberarsi.
Uno dei sequestratori, probabilmente Albino Volpi, lo minaccia con
un pugnale, poi lo colpisce, due volte, all’inguine e al torace,
uccidendolo. Gli assassini proseguono la corsa verso nord, scavano in
fretta una buca in un bosco della Quartarella, a Riano Flaminio. La
sera stessa, Dumini avverte il Duce. Due giorni dopo i quotidiani
danno la notizia della scomparsa di Matteotti.
Comincia una tragicommedia di pessimo gusto: Mussolini finge di
non sapere nulla; in realtà sa tutto. Mentre l’Italia è pervasa da
un’ondata di commozione popolare, il dittatore chiede ai suoi di
mettere in giro una voce: Matteotti è scappato all’estero. Poi la rilancia
alla Camera, e impartisce «ordini tassativi» di cercare il fuggitivo «ai
passi di frontiera».
Velia ha capito. Si fa ricevere da Mussolini e gli dice: «Eccellenza,
sono venuta a chiederle la salma di mio marito per vestirlo e
seppellirlo». Si racconta che il Duce sia rimasto impietrito.
La svolta arriva quando viene ritrovata l’auto del sequestro:
l’hanno portata in un’officina di Roma a farla sistemare, ha ancora i
sedili insanguinati. Dumini viene arrestato alla stazione Termini
mentre tenta di fuggire nottetempo, un suo complice è preso a Milano.
Finiscono in carcere Marinelli, Filippelli, Volpi e il giornalista Pippo
Naldi, implicato negli affari finanziari del fascismo.
Il regime è chiamato a superare la sua prima vera crisi.
Praticamente gli uomini più vicini a Mussolini sono tutti in galera. Lui
parla a Montecitorio, sostenendo che se qualcuno ha ucciso Matteotti
l’ha fatto per danneggiarlo: gli avevano «gettato un cadavere tra i
piedi», come scrive a D’Annunzio. Gli oppositori gli chiedono
ovviamente di riferire tutte le notizie che conosce, ma il Duce, pallido
e a braccia conserte, scuote il capo: non dirà più una parola. «Lei è
complice!» grida il repubblicano Eugenio Chiesa; Bottai cerca di
aggredirlo.
Con l’aiuto del presidente Rocco, Mussolini fa chiudere la Camera,
approfittando della protesta delle opposizioni che hanno lasciato
l’aula, e cede il ministero degli Interni a Federzoni. Si dimettono il
sottosegretario Aldo Finzi e il capo della polizia Emilio De Bono.
Cesare Rossi, vero braccio destro del Duce, si costituisce prima di
essere arrestato. Teme di passare per capro espiatorio. Così scrive a
Mussolini una lettera in cui si dichiara «esecutore di azioni illegali»
ordinate da lui, e lo minaccia di rivelare tutto sulle aggressioni ad
Amendola, a Misuri, a Forni, sull’irruzione in casa di Nitti e sui soldi
versati a Dumini.
Mussolini sta male. Il conte Sforza, suo nemico giurato, affonda il
colpo. Comunque la si rigiri, il responsabile dell’assassinio di
Matteotti è lui: «Potete scegliere: o colpevole, come mai niun fu, o
incompetente, come mai niun fu». L’ulcera con cui convive da tempo
si è riacutizzata, a volte lo vedono piegato dal dolore. A casa si ritrova
tra i piedi la leonessa, ormai cresciuta: decide di togliersela di torno, la
fa portare allo zoo.

Il 16 agosto 1924 viene scoperto il corpo di Matteotti. L’emozione


nel Paese è enorme, una folla sterminata partecipa al suo funerale.
Velia scrive al ministro degli Interni: «Chiedo che nessuna
rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno; nessun
milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno
sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia
nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio,
né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio
viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter
esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessun
scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma
nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta
dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico
impongono un servizio d’ordine, sia esso affidato solamente a soldati
d’Italia». La vedova tenta ancora di distinguere tra le istituzioni e il
regime, tra lo Stato e il governo. Ma l’assassinio di suo marito servirà
proprio a far saltare questa differenza.
Le squadracce reagiscono alla difficoltà nell’unico modo che
conoscono: la violenza. Fanno morti e feriti a Napoli, a Torino
bastonano Gobetti, in Toscana commettono aggressioni e saccheggi.
Rinfrancato, il 31 agosto Mussolini tiene un comizio ai minatori del
monte Amiata: «Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma
perfettamente innocuo … Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione
molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro
faremmo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere». Gli
estremisti del fascismo si sentono di nuovo forti: «Se non è sufficiente
la scopa, si adopri la mitragliatrice» scrive Farinacci. «Con la carne di
Matteotti/ ci faremo i salsicciotti» cantano le squadracce, e anche, sulle
note di una canzone di successo, Mimosa: «Matteotti, Matteotti,
quanta malinconia nel tuo sorriso./ Avevi un posticino in Parlamento/
te l’ha levato il Fascio in un momento». A Firenze viene incendiata la
redazione del Nuovo Giornale, a Roma si bruciano le copie dei
quotidiani di opposizione, a Milano si tenta l’assalto al Corriere della
Sera.

Si esprimono contro il governo Orlando e Giolitti, e pure i generali


Caviglia e Giardino. Sarebbe ipocrita tacere che è purtroppo questo il
momento in cui grandi artisti come Giacomo Puccini e Luigi
Pirandello aderiscono al regime. Ma altri uomini di cultura
rispondono all’appello antifascista di Amendola, dallo scrittore
Corrado Alvaro al pittore Felice Casorati. Ernesta Battisti, la vedova di
Cesare, in polemica con Mussolini che intende usare il nome del
marito, si reca al Castello del Buonconsiglio di Trento, per velare di
nero – in segno di lutto per il martire socialista Matteotti – il cippo che
segna il luogo dove fu impiccato il martire socialista Battisti. Dal
carcere, Cesare Rossi fa filtrare un memoriale: ogni delitto è stato
commesso «per la volontà diretta o per l’approvazione o per la
complicità del Duce».
Si è molto enfatizzato sull’udienza concessa da Mussolini ai
trentatré consoli della Milizia, che sguainano i pugnali per offrirgli la
loro forza ma anche per minacciarlo; come se il Duce avesse reagito
perché trascinato, costretto dai suoi estremisti. In realtà, superata la
crisi grazie al terrore, al controllo delle piazze, al monopolio della
violenza, Mussolini ancora una volta mostra di saper approfittare
delle opportunità. Alla fine l’assassinio di Matteotti non è un danno
per lui; anzi, è l’occasione per instaurare definitivamente la dittatura.
Il 3 gennaio 1925 il Duce fa riaprire la Camera. E tiene il suo ultimo
discorso parlamentare degno di nota. I prossimi li farà dal balcone.
Definisce «accesso di necrofilia» la ricerca del corpo di Matteotti e
l’inchiesta sul suo assassinio. Poi il passaggio decisivo: «Ebbene, io
dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il
popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale,
storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate
bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il
Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una
superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il
Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze
sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale,
a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e
morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino
ad oggi».
Infine la conclusione, in tono di minaccia, con l’esaltazione più
chiara possibile della violenza: «Viene il momento in cui si dice: basta!
Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è
nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà
mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo
e Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi
avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo,
che il Partito fosse morto perché io lo castigavo … Voi state certi che
nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su
tutta l’area».
Subito dopo, Mussolini mobilita la Milizia. Ordina ai prefetti di
impedire ogni protesta, di sciogliere le organizzazioni antifasciste, di
sopprimere o sequestrare i loro giornali.
Gli storici disquisiscono molto sul significato della svolta. Si obietta
che quello costruito da Mussolini non fu uno Stato totalitario, ma uno
Stato autoritario. Come se una manganellata autoritaria facesse meno
male di una manganellata totalitaria.
In realtà, il giro di vite è spietato. Si ritirano i passaporti: nessuno
potrà espatriare senza il consenso del dittatore. Addio sindaci; arriva
il podestà, nominato dal regime. Istituiti il Tribunale speciale e la
polizia segreta. Ristabilita la pena di morte, che era stata abolita dal
granduca di Toscana nel 1786. Sciolti tutti i partiti, tranne quello di
regime. Espulsi 123 deputati di opposizione; i parlamentari del partito
popolare, che tornano alla Camera per commemorare la regina madre
Margherita, vengono accolti a schiaffi. Saccheggiate le case di Croce,
di Arturo Labriola, di Emilio Lussu. Confiscati i beni degli antifascisti
esuli all’estero. Arrestati i capi del partito comunista: Antonio
Gramsci, Palmiro Togliatti, Giuseppe Di Vittorio, e poi Scoccimarro,
Grieco, Roveda…
Le carceri e le isole – Ponza, Ventotene, le Tremiti – si riempiono di
persone che non hanno fatto nulla di male: molte sono state
semplicemente sorprese a parlare male del Duce.
Il Papa, che ha iniziato una trattativa segreta per riconciliare la
Chiesa con lo Stato italiano, si compiace dell’uomo che regge «le sorti
del Paese con tanta energia da far ritenere periclitare il Paese
ogniqualvolta periclita la sua persona». Il Popolo d’Italia traduce: «Il
paese è in pericolo quando è in pericolo la persona di Mussolini». Leo
Longanesi scrive: «Mussolini ha sempre ragione».
Ci si conta, ci si divide. Giovanni Gentile scrive il Manifesto degli
intellettuali fascisti, cui aderiscono tra gli altri Giuseppe Ungaretti,
Ugo Ojetti, Luigi Barzini, Ardengo Soffici. Benedetto Croce risponde
con il Manifesto degli intellettuali antifascisti, firmato tra gli altri da
Luigi Einaudi, Luigi Albertini, Arturo Carlo Jemolo, Piero
Calamandrei, Gaetano Salvemini. Non tutti si sono piegati. Commenta
Farinacci: «Il fascismo deve infischiarsi di tutti i consensi». Il re tace.
Quel che resta dell’opposizione viene ridotto al silenzio. Albertini è
costretto ad abbandonare il Corriere della Sera; con lui lasciano Luigi
Einaudi, Carlo Sforza, Ferruccio Parri. Scrive il Times: «La fine del
Corriere indipendente è una grave perdita per la civiltà europea».
Il re si preoccupa; non per l’Italia, per sé. Corre voce che il Duce
voglia liberarsi di lui e instaurare la Repubblica. Gliene chiede conto,
ma viene tranquillizzato: «È un’invenzione balorda di alcuni generali
con la prostata in disordine».
L’unica soluzione per liberarsi di Mussolini appare quella di
ucciderlo. Più d’uno comincia a pensarci, e a provarci. Ma ci sono
anche episodi oscuri, mai chiariti. Il 31 ottobre 1926, dalla folla di
Bologna parte uno sparo verso il Duce: viene incolpato un ragazzino
di quindici anni, Anteo Zamboni, linciato sul posto. L’episodio non è
chiaro, si sospetta una faida interna al regime, il ras di Bologna
Leandro Arpinati cade in disgrazia. La sera stessa dell’attentato,
Mussolini scrive a matita le nuove norme: scioglimento di tutte le
associazioni non fasciste, compresi i boy scout; deportazione di tutti i
sospetti di antifascismo; ordine di far fuoco senza preavviso su
chiunque tenti di varcare la frontiera.
Ora il Duce è decisamente di buon umore. L’ulcera è molto
migliorata. Lui si riprende il ministero degli Interni, si attribuisce
definitivamente gli Esteri di cui aveva l’interim, e già che c’è assegna a
se stesso pure Guerra, Marina, Aeronautica, Colonie e il nuovo
ministero delle Corporazioni, che sostituiscono i sindacati, di cui non
c’è più bisogno. Celebra il matrimonio religioso con Rachele, dieci
anni dopo quello civile. Ricomincia a strimpellare il violino. Ogni
tanto va allo zoo di Villa Borghese, a trovare la sua leonessa. L’ha
battezzata Italia. Entra nella sua gabbia e la accarezza, come ai vecchi
tempi. Una mattina un gruppo di visitatori si incuriosisce: il Duce è
allo zoo ad accarezzare una leonessa. Lui sorride con aria allusiva:
«Italia ha già diciotto mesi e, come vedete, l’ho addomesticata alla
perfezione».

Il processo per l’assassinio di Matteotti è una farsa. I magistrati e gli


avvocati che lo prendono seriamente vengono allontanati. Pasquale
Galliano Magno, il legale che rimane a fianco di Velia, paga il suo
coraggio con quindici anni di persecuzioni: gli perquisiscono più volte
l’ufficio, gli sequestrano gli atti; alla fine viene aggredito, picchiato,
costretto a bere l’olio di ricino. Dovrà chiudere lo studio e trasferirsi a
Pescara, dove altri avvocati firmeranno gli atti da lui curati. Non
accetterà mai denaro da Velia, soltanto un dono: la stilografica
appartenuta a Giacomo.
(Scusate se mi fermo un attimo. Per l’ennesima volta, riferendo quel
che hanno fatto i fascisti, mi trovo a scrivere «aggredito», «picchiato»,
«bastonato», «percosso», «costretto a bere l’olio di ricino»; quando non
«pugnalato» o «ucciso a fucilate». Mi rendo conto che la cosa viene a
noia. Si potrebbero citare molti altri casi, e diventare ancora più noiosi.
Dopo un poco le parole, ripetute, perdono il loro significato. La
variante potrebbe essere raccontare le sevizie, a volte anche sessuali,
che spesso rimangono a livello di voci – anche sul conto di Matteotti –,
di cui la vittima non parla volentieri, ma di cui i carnefici si fanno
forti.
Proviamo però a pensare cosa significa per una persona sapere che
può essere colpita in qualsiasi momento. Che nessuno la difenderà,
perché il potere sta dalla parte degli aggressori. La violenza è sempre
da condannare, ma la violenza del più forte – dieci contro uno, con le
spalle coperte, con lo scopo di far male, di umiliare, di denigrare, di
punire, di distruggere una persona innocente – è ancora più odiosa).

Mussolini non ha nessuna pietà della vedova Matteotti. Nel suo


narcisismo e nella sua cattiveria, vuole punirla per aver osato tenergli
testa. Gli ordini sono di questo genere: «Pregasi intensificare vigilanza
sulla vedova e sui figli on. Matteotti tenendo sempre particolarmente
presente eventualità tentativi uscire clandestinamente dal Regno …
Attuazione eventuali tentativi del genere deve essere resa
impossibile».
L’«intensa vigilanza», che Velia in una lettera definisce una
schiavitù, dura sino alla fine. La signora Matteotti non vedrà la caduta
del regime. Muore nel 1938, a 48 anni, in ospedale. Mussolini,
soddisfatto, commenta con il genero Ciano: «I miei nemici sono finiti
sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici».
Ai funerali di Velia partecipano quattordici persone. Viene ordinata
un’indagine minuziosa su ognuna di loro. Sul feretro sono deposti
due mazzi di fiori rossi. Vengono sequestrati.
Nel 1927 il sindaco socialdemocratico di Vienna Karl Seitz chiamò
Matteottihof un grande complesso residenziale da 452 appartamenti,
costruiti con criteri all’avanguardia, per far vivere dignitosamente
anche le famiglie operaie. Il regime di Dolfuss per compiacere
Mussolini abolì il nome, che è stato ripristinato nel 1945. Il
Matteottihof esiste ancora.
Amerigo Dumini spadroneggiò per tutti gli anni del regime.
Riprocessato dall’Italia repubblicana, fu condannato all’ergastolo, ma
uscì dopo cinque anni. Si iscrisse al Movimento sociale. Ebbe un
incidente domestico, che lo condusse alla morte il giorno di Natale del
1967. Nel Paese dei partigiani cattivi, nella patria delle terribili
vendette rosse, nella terra del «sangue dei vinti», l’assassino di
Matteotti è morto fulminato nel tinello di casa sua, a 73 anni,
cambiando una lampadina.

Don Giovanni Minzoni (1885-1923)


Era un sacerdote battagliero. Se fosse vissuto nei primi anni della
Repubblica, i suoi rapporti con gli avversari socialisti e comunisti di
Argenta, al confine tra l’Emilia e la Romagna, sarebbero stati forse
come quelli tra don Camillo e Peppone, raccontati da Guareschi.
Purtroppo gli toccò in sorte un altro tempo. E sulla sua strada c’erano
gli squadristi di Italo Balbo.
Il padre aveva una locanda. Lo zio era prete. Giovanni Minzoni
entra in seminario a dodici anni, e ne esce sacerdote. In terra di
socialisti, capisce subito che per riportare la gente in chiesa deve stare
in mezzo al popolo. Con la sinistra ha un rapporto competitivo: non
vuole che i lavoratori rinuncino alla fede per passare dall’altra parte.
Così fonda cooperative bianche di braccianti e di operai, in
concorrenza con quelle rosse. Aderisce alle idee moderniste di don
Romolo Murri, e resta deluso quando Papa Pio X lo scomunica.
Patriota convinto, nella prima guerra mondiale don Minzoni è
tenente cappellano militare: nella battaglia del Solstizio, quando nel
giugno 1918 gli italiani rintuzzano sul Piave l’ultimo attacco austriaco,
è in prima fila a soccorrere i feriti e confortare i morenti: viene
insignito della medaglia d’argento al valor militare, di cui andrà
sempre fiero.
Da parroco si inventa il doposcuola, i circoli ricreativi, il teatro
parrocchiale, la biblioteca circolante, e fonda due sezioni dei boy
scout. È un uomo buono, un sacerdote attivo nel sociale, un mite.
Proprio per questo i fascisti gli fanno orrore.
La giunta socialista di Argenta è costretta a dimettersi a suon di
manganellate. Natale Gaiba, consigliere comunale, viene bandito dal
paese, ma rifiuta di andarsene e tenta di riorganizzare il partito. I
fascisti lo catturano, lo portano in campagna, lo massacrano a
bastonate, lo finiscono con due colpi di pistola. Quando lo viene a
sapere, don Minzoni, furibondo, sbatte la porta della canonica, va a
larghi passi verso il bar della piazza dove si riuniscono i fascisti e
grida: «Siete dei criminali! Dovrete render conto davanti a Dio!». È la
sua versione del «verrà un giorno» di fra’ Cristoforo, la scena dei
Promessi Sposi in cui il frate cappuccino rimprovera don Rodrigo per
le sue soperchierie.
Dopo la marcia su Roma, si impegna con il partito popolare,
«contro la vita stupida e servile che ci si vuole imporre», come scrive
nelle ultime pagine del diario. Da sacerdote è preoccupato all’idea che
lo scontro politico e sociale possa inasprirsi. Ma decide comunque di
«passare il Rubicone», come dice lui stesso, consapevole che la scelta
di non tacere di fronte al male può costargli la vita.
In molti paesi della pianura padana i fascisti distruggono le
cooperative bianche per impadronirsene, costringendo i contadini a
seguirli. Ad Argenta non accade, perché don Minzoni la cooperativa
la difende. Alla fine del luglio 1923, impartisce la prima comunione a
una decina di figli di socialisti, e li festeggia con un pranzo in
canonica. Protegge anche gli scout, che i fascisti mettono fuori legge:
nelle piazze vogliono sfilare soltanto loro.
Le camicie nere cercano di portare quel prete coraggioso dalla loro
parte. Gli offrono i gradi di centurione cappellano della Milizia. Don
Giovanni rifiuta. E sono due miliziani, Giorgio Molinari e Vittore
Casoni, ad aggredirlo la sera del 23 agosto 1923, mentre rientra con un
amico. Gli sfondano il cranio a randellate. Portato a casa a braccia, don
Giovanni Minzoni spira nella notte. Sul diario lascia scritto: «A cuore
aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei
persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il
trionfo della causa di Cristo».
L’emozione popolare è grande. La Chiesa però non appare turbata,
non contrasta le voci, messe in giro dai fascisti, secondo cui don
Minzoni è stato ucciso per una storia di donne. L’inchiesta viene
archiviata. Ma, dopo la morte di Matteotti, la Voce Repubblicana
pubblica un articolo in cui indica in Italo Balbo il mandante
dell’assassinio di don Minzoni. Balbo querela e perde clamorosamente
il processo: un giudice integerrimo manda assolto il giornale, difeso
da Randolfo Pacciardi.
A quel punto l’inchiesta per omicidio viene riaperta. È il dicembre
1924, il fascismo pare sul punto di crollare. Ma il processo si tiene nel
luglio 1925, in un clima politico del tutto cambiato. La corte d’Assise
di Ferrara mette in scena una parodia della giustizia. Gli squadristi
minacciano i giurati, intimidiscono testimoni e cronisti. Balbo esprime
la sua solidarietà agli imputati, che ovviamente vengono assolti.
Il processo sarà riaperto nel 1947, i superstiti condannati per
omicidio preterintenzionale e mandati liberi per intervenuta amnistia.
Gli assassini di don Giovanni Minzoni, una delle figure più
luminose del cattolicesimo del Novecento, non hanno fatto un solo
giorno di carcere.

Giovanni Amendola (1882-1926)


Giovanni Amendola è a Montecatini Terme per una breve vacanza,
quando vengono nel suo albergo per ucciderlo. È il luglio 1925, gli
stessi giorni del processo farsa agli assassini di don Minzoni. I turisti
in abito di lino bianco, le signore con le cappelliere venute a passare le
acque, gli stranieri in viaggio in Toscana sono stupefatti. Perché tutta
quella cagnara? Cosa vogliono quelle centinaia di persone in camicia
nera, arrivate da Lucca agli ordini di Carlo Scorza, il vicesegretario del
partito al potere, l’unico rimasto? Chi c’è in quell’hotel di tanto
pericoloso?
Giovanni Amendola era un giovane liberale. Veniva da una
famiglia della piccola borghesia meridionale. Si è innamorato di una
ragazza ebrea di origine lituana, Eva Oscarovna Kühn, da cui ha
avuto quattro figli; il primo si chiama Giorgio. Eva è estrosa e ribelle,
vive altre relazioni sentimentali, a volte le sue crisi nervose la
costringono al ricovero in casa di cura.
Amendola insegna filosofia teoretica a Pisa e scrive sul Corriere
della Sera. È interventista, combatte sull’Isonzo, viene decorato con
una medaglia di bronzo al valor militare; però denuncia gli errori di
Cadorna, la ferocia con cui gli ufficiali mantengono la disciplina tra le
truppe.
Nel 1919 entra in Parlamento. Si oppone sia ai socialisti
rivoluzionari, sia allo squadrismo fascista. Nel governo Facta è
ministro delle Colonie. Una mattina il primogenito Giorgio è in
ritardo, e chiede un passaggio al padre che sta andando al lavoro con
l’auto di servizio: tanto la scuola è sulla strada. Giovanni Amendola
dice no: «Questa è un’automobile dello Stato, non un taxi».
Non è un uomo di sinistra; è un monarchico che vuole salvare la
libertà e lo Statuto. E ha una visione: al convegno di Locarno sostiene
l’idea di un’Europa liberaldemocratica, che oggi è alla base
dell’Unione europea.
A differenza di altri liberali, capisce fin da subito quale pericolo
rappresenti Mussolini. Per contrastarlo fonda un quotidiano, Il
Mondo, la cui testata sarà ripresa dal settimanale di Mario Pannunzio.
Sarà Il Mondo di Amendola a pubblicare il Manifesto crociano degli
intellettuali antifascisti.
Nel 1923 le camicie nere lo aggrediscono per la prima volta. Dopo il
delitto Matteotti, Amendola sostiene l’Aventino, cioè il ritiro dal
Parlamento dei deputati antifascisti: una scelta a posteriori ritenuta
sbagliata, ma che forse all’epoca era il solo modo per imporre una
linea comune alle opposizioni.
Mussolini decide di mettere a tacere la sua voce. Per questo, nel
luglio 1925, gli squadristi arrivati da mezza Toscana assediano
l’albergo in cui Amendola è asserragliato. C’è un primo tentativo di
invasione. Lui viene chiuso in una stanza, dove resta da solo per un
pomeriggio. Si sente in colpa per i disagi causati agli altri ospiti, in
particolare alle signore.
Così racconta il figlio Giorgio, nel suo libro «Una scelta di vita»:
«Un tenente dei carabinieri si impegnò a salire con lui nell’automobile.
L’eterna e fatale illusione! Appena uscito dall’albergo fu travolto da
un primo assalto: colpi di manganello, lancio di pomodori, sputi ed
insulti. Fu buttato di peso su una macchina e si trovò solo tra quattro
fascisti. Il tenente dei carabinieri non c’era più. Dietro seguiva
lentamente un camion dei carabinieri, ma al primo bivio prese un’altra
strada. L’automobile dei fascisti portò Amendola al luogo prestabilito
per l’agguato, in località Ponte a Nievole. La macchina si fermò perché
– dissero – c’era un tronco che sbarrava la strada. Piombarono su
Amendola un gruppo di squadristi di Montecatini e lo colpirono con
meticolosità. Egli non poté difendersi. Si era raggomitolato coprendosi
il capo ed esponendo le spalle ai colpi che avrebbero provocato il
fatale trauma. A un certo punto apparvero i fari di un’automobile che
si avvicinava veloce. Si seppe dopo che era una macchina straniera.
Allora gli squadristi si ritirarono e gli accompagnatori portarono il
corpo esanime di Amendola all’ospedale di Lucca».
Sopravvissuto, Giovanni Amendola va a farsi curare a Parigi. Viene
operato ai polmoni. I chirurghi trovano un ematoma causato «dal
violento traumatismo prodotto sulla regione corrispondente
all’emitorace sinistro nel luglio 1925». Lo portano in clinica a Cannes.
Scrive ancora il figlio Giorgio: «Il rantolo diventava sempre più
straziante, poi egli si sollevò, si guardò attorno, levò una mano per
farmi una carezza, ricadde, e fu tutto». Aveva 44 anni.
Formalmente era ancora deputato. La notizia andava data alla
Camera. Con un’oscena menzogna, l’on. Casertano comunicò che
Giovanni Amendola era stato ucciso «da un male incurabile». In realtà
il legame tra l’aggressione fascista e la malattia e la morte di
Amendola è provato dal referto chirurgico che il professor Lardennois
stilò a Parigi nel 1925, e confermato dalle sentenze della corte d’Assise
di Pistoia del 23 maggio 1947 e di quella di Perugia del 27 luglio 1949.

Antonio Gramsci (1891-1937)


A Torino, capitale dell’antifascismo, vive anche un giovane sardo,
Antonio Gramsci. Viene da una famiglia povera: il padre, vittima di
una faida tra amministratori locali, è finito in carcere e ha perso lo
stipendio; la madre deve mantenere sei figli. A diciotto mesi Antonio
ha manifestato i primi segni del morbo di Pott, una tubercolosi ossea
che causa il cedimento della spina dorsale. Resterà gracile, piccolo,
con la gobba; ma si costruisce da sé rudimentali attrezzi ginnici, per
irrobustire le braccia.
Intelligenza prodigiosa, sensibilità acutissima. A scuola è il
migliore. Nell’estate tra la quarta e la quinta elementare va a lavorare
come inserviente all’ufficio del catasto a Ghilarza, nella sua Sardegna.
Legge di tutto, da Marx a Grazia Deledda – che non ama –, da Croce a
Carolina Invernizio. Capisce fin da subito l’importanza della cultura
popolare.
Il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, lo stesso dove andrà
Benito Albino Dalser, ha bandito un concorso per 39 borse di studio,
riservate agli studenti poveri delle vecchie province del Regno di
Sardegna. Il primo classificato è Leonello Vincenti, futuro germanista.
Gramsci è nono. Secondo è un giovane torinese che però ha fatto il
liceo a Sassari, Palmiro Togliatti (una piccola vittoria che Togliatti
ricorderà, al momento di scrivere la propria nota biografica per la
Navicella dei parlamentari).
Gramsci a Torino vive in miseria. Non ha neppure un cappotto,
d’inverno cammina su e giù in casa, per scaldarsi. La famiglia gli
manda 25 lire al mese. Bastano appena per pranzare in latteria e
affittare una stanza nel condominio a fianco di quello di Togliatti, che
avverte il fascino di quel «giovane bruno, piccolo, egli pure
poverissimo in apparenza, dal corpo tormentato e sofferente e dagli
occhi grandi, luminosi».
Antonio è iscritto a Lettere, Palmiro a Giurisprudenza.
All’università conoscono un ragazzo che fa già politica e quattro anni
prima ha fondato il fascio giovanile, un’organizzazione di sinistra,
Angelo Tasca, che invita spesso il giovane Gramsci per sfamarlo. Un
giorno gli regala un libro, un’edizione francese di «Guerra e pace»,
con la dedica: «Al compagno di studi – oggi –, al mio compagno di
battaglia – spero – domani». Insieme Gramsci, Togliatti e Tasca
saranno gli animatori prima dell’Ordine Nuovo, poi del partito
comunista.
A 28 anni, Gramsci è già un leader: il 3 dicembre 1919 mobilita in
un’ora 120 mila operai che marciano sul centro «come una valanga», a
spazzare «dalle strade e dalle piazze tutto il canagliume nazionalista e
militarista». Torino è in stato d’assedio, presidiata da 50 mila soldati
con i cannoni, sulle colline. È l’inizio del biennio rosso.
Il partito lo manda a Mosca. Il capo dell’Internazionale comunista,
Grigorij Zinovev, impressionato dai suoi problemi di salute, lo fa
ricoverare in un sanatorio alla periferia della capitale. Lì Gramsci
incontra prima un’altra ricoverata, Eugenia Schucht, per cui ha una
breve passione, e poi sua sorella Giulia, violinista, più bella e più
fragile psicologicamente, di cui si innamora. Il maschilismo vige anche
tra i comunisti, ma secondo molte testimonianze Gramsci è l’unico a
praticare davvero la parità tra uomo e donna; ad esempio, nelle
riunioni a casa dei compagni, è il solo ad alzarsi per aiutare la moglie
del padrone di casa a sparecchiare e lavare i piatti.
È il suo tratto umano: rigoroso – «odio gli indifferenti…» – ma
capace di comprensione, di rispetto per gli interlocutori, anche per gli
avversari. Giulia lo affascina, con la sua aura aristocratica, l’apertura
cosmopolita – ha vissuto in diverse capitali europee –; ma è una
creatura sofferente, a volte cade nella depressione. Nascono due figli,
Delio e Giuliano. Lui le scrive lettere dolcissime: «Mi pare di vederti
sempre seria, abbuiata. Vorrei perciò averti vicina; troverei, mi pare, le
cose più ingegnose per farti contenta, per farti sorridere. Farei degli
orologi di sughero, dei violini di cartapesta, delle lucertole di cera con
due code, insomma esaurirei tutto il repertorio dei miei ricordi
sardeschi. Ti racconterei delle altre storie, sempre più meravigliose,
della mia fanciullezza un po’ selvaggia e primitiva, tanto diversa dalla
tua. E poi ti abbraccerei e ti bacerei tante volte per sentirti tutta
vivente in me, vita della mia vita, come sei».

Nel 1924 Gramsci è tra i diciannove comunisti eletti alla Camera.


Cerca di creare un fronte antifascista. Dopo l’assassinio di Matteotti si
illude che Mussolini sia finito. Ma quando i comunisti tornano alla
Camera vengono accolti a botte; poi sono arrestati.
Umberto Terracini, l’uomo che firmerà la nostra Costituzione,
rimarrà nelle carceri fasciste per diciassette anni; e ogni sera avrà cura
di piegare il suo unico paio di pantaloni sotto il materasso, per averli
stirati il giorno dopo, e non cedere ai carcerieri nulla della sua dignità.
Gramsci è recluso prima a Regina Coeli, poi a Ustica, quindi a San
Vittore. L’Unione Sovietica tratta con il Vaticano la sua liberazione, in
cambio del rilascio di cattolici prigionieri a Mosca; tiene i contatti
segreti il cardinale Pacelli, futuro Papa Pio XII; ma il negoziato fallisce.
Anche il processo a Gramsci è una macabra farsa. Dura otto giorni.
Il Tribunale speciale si riunisce il 28 maggio 1928. Il presidente è un
generale, i giurati sono cinque consoli della Milizia fascista; tutti in
divisa, anche gli avvocati. Presidia l’aula un doppio cordone di militi
in elmetto nero, pugnale al fianco, moschetti con la baionetta in canna.
L’accusa – retroattiva, con spregio del diritto – è di attività cospirativa,
istigazione alla guerra civile, apologia di reato, istigazione all’odio di
classe.
Il 4 giugno la condanna, durissima: vent’anni, quattro mesi e
cinque giorni di reclusione. Non è vero però che il pubblico ministero
abbia detto la frase che gli è stata attribuita: «Per vent’anni dobbiamo
impedire a questo cervello di funzionare». Anche perché i «Quaderni
dal carcere», tradotti in tutto il mondo, rappresentano un testo
importante per il pensiero politico di ogni tempo.
Gramsci viene rinchiuso a Turi, in Puglia. È stato scritto che godeva
di un trattamento privilegiato; e probabilmente è così, visto che agli
altri detenuti comunisti, tra cui molti operai e contadini, erano
riservate condizioni durissime: poco cibo, nessuna cura medica, tanto
che molti si ammalavano di tubercolosi. Gramsci era conosciuto
all’estero, su di lui si scrivevano articoli, era al centro di campagne
internazionali: al Duce non conveniva usare una mano troppo
pesante. Ma era un parlamentare di cui era stata violata l’immunità,
un leader politico che aveva ricevuto una condanna disumana per
reati d’opinione.
In carcere, Gramsci elabora uno schema di studio, di lettura, di
lavoro. Dal febbraio 1929 gli viene concesso di scrivere; lui ne
approfitta per mandare lunghe lettere a Giulia. Gli fanno visita
un’altra sorella di Giulia, Tatiana, che lo assiste teneramente, e
l’economista Piero Sraffa, misteriosa figura di comunista in incognito,
docente di economia a Cambridge, che tiene i rapporti tra lui e
Togliatti.
Da tempo Gramsci sta maturando un distacco dalla politica di
Stalin, e avverte attorno a sé una freddezza crescente: quando alla fine
del 1930 comincia a tenere lezioni di educazione politica agli altri
detenuti, si ritrova in un clima di ostilità, a volte di scherno. Lui
reagisce condannando la grottesca idea del «socialfascismo», espressa
dal sesto congresso dell’Internazionale comunista, che tratta i socialisti
come nemici. Aveva ragione Gramsci, come gli stessi Togliatti e Stalin
dovranno implicitamente riconoscere, cambiando linea al tempo della
guerra di Spagna. Ma al momento Antonio si ritrova sempre più
isolato. L’unico a confortarlo è un prigioniero socialista: Sandro
Pertini.
Già nel marzo 1928, prima del processo, Gramsci aveva ricevuto da
un dirigente comunista, Ruggero Grieco, una lettera che violava la
regola del partito clandestino di non trattare «in chiaro» questioni
politiche: intercettato dalla censura, il testo sarebbe potuto diventare
una prova a carico. Gramsci per anni si arrovellò sul sospetto che
potesse essere stata una manovra per liberarsi di lui, a causa delle sue
critiche all’Unione Sovietica.

Nella notte del 3 agosto 1931, il detenuto ha un grave sbocco di


sangue. Il fratello Carlo, che come l’altro fratello Gennaro simpatizza
con le sue idee, va a visitarlo. La cognata Tatiana denuncia la gravità
delle condizioni di Gramsci, da tutta Europa giungono petizioni
affinché sia liberato. Passano più di due anni, prima che il 17
novembre 1933 possa lasciare Turi. Il 7 dicembre, sempre in stato di
detenzione, viene ricoverato alla clinica Cusumano di Formia. I
sovietici ne chiedono la liberazione; il regime rifiuta.
Nel 1935 il trasferimento a Roma, alla clinica Quisisana. Quasi
certamente il conto viene pagato da Tatiana, con i soldi del Soccorso
rosso internazionale. Il 25 aprile 1937, proprio il giorno in cui doveva
essergli concessa la libertà definitiva, Gramsci viene colpito da
un’emorragia cerebrale, e resta semiparalizzato. Le condizioni sono
disperate: un prete e alcune suore accorrono al capezzale; ma Tatiana
chiede loro di andarsene.
Assistito dalla cognata, Antonio Gramsci si spegne alle 4 e 10 del
mattino del 27 aprile. Lo seppelliscono il giorno dopo, sotto un
temporale. La bara è seguita da una sola carrozza, con Tatiana e il
fratello Carlo. L’urna con le ceneri, che daranno il titolo a un libro di
Pier Paolo Pasolini, è custodita nel cimitero acattolico di Roma.
Sono false le voci di una sua conversione al cattolicesimo, o al
liberalismo. È falso che Gramsci abbia mai fatto atto di sottomissione
al Duce, per essere liberato. È falso anche il mito del fratello «fascista
di Salò», cui vanamente gli Alleati avrebbero cercato di strappare
un’abiura alla sua fede mussoliniana. È vero che Mario Gramsci aderì
al fascismo. Dopo una serie di rovesci finanziari, si arruolò – come
comprova una serie di ricerche – anche per sfuggire ai creditori e
mantenere la famiglia. Combatté in Etiopia. Capo di una banda di
irregolari, fu poi in Africa settentrionale con il grado di capitano e già
nel 1940 venne fatto prigioniero e condotto in Australia. Laggiù, forse
anche per ragioni di opportunità, cambiò idea. Esiste un documento in
cui durante la prigionia in Australia Mario Gramsci viene definito
«monarchico convinto»; «perciò è stato trasferito al comparto
monarchico». A differenza di quanto è stato scritto, non fu torturato; si
ammalò ma venne curato, come testimonia lui stesso in una lettera
inviata alla famiglia nel 1944: «Nessuna clinica italiana mi avrebbe
operato e trattato come fatto qua». Nel 1945 al ritorno in Italia deve –
come tutti gli ufficiali rimpatriati – rispondere alle domande della
Commissione per l’interrogatorio degli ufficiali reduci dalla prigionia.
Mario Gramsci qui si spinge ancora oltre: «Dopo il bando di Badoglio
ho subito aderito chiedendo di combattere contro i tedeschi» dichiara.
«Sono stato riconosciuto cooperante dal governo inglese». Nel viaggio
di rientro si era ammalato di tifo; morirà a 52 anni, pochi mesi dopo
essere tornato a casa.
L’adesione alla Repubblica di Salò che gli è stata attribuita – con
tanto di sede cagliaritana di CasaPound a lui dedicata, e di cori
neofascisti scanditi ogni 25 aprile sulla sua tomba – non è mai
avvenuta.

Carlo (1899-1937) e Nello Rosselli (1900-1937)


Il 1926 fu un anno disastroso per gli antifascisti, divisi e sconfitti.
Mussolini consolidava la sua dittatura. Gli oppositori del regime
venivano braccati, arrestati, costretti al silenzio. In un clima
drammatico, seppero cogliere però un piccolo, significativo successo.
Riuscirono a mettere in salvo Filippo Turati.
Il vecchio leader del socialismo milanese era la bestia nera del
Duce, da lui per primo definito «il capobanda». Mussolini odiava
Turati fin da quando capeggiava i rivoluzionari contro i riformisti.
Preso il potere, ordina di rendergli la vita impossibile. Turati viene
pedinato, privato di ogni fonte di sostentamento, la sua casa
sistematicamente perquisita. Lui chiede di poter espatriare; il Duce
glielo vieta negandogli il passaporto. È evidente che ci ha preso gusto.
L’episodio più vergognoso avviene ai funerali di Anna Kuliscioff, da
quasi quarant’anni la compagna di Turati. È il 29 dicembre 1925. I
fascisti non rispettano neppure la morte e il dolore. Aggrediscono le
persone che seguono il feretro, strappano i nastri delle corone funebri,
costringono lo stesso Turati a fuggire, saltando su un taxi, dalle
esequie della sua donna. Gli squadristi cantano: «Con la barba di
Turati noi farem gli spazzolini/ per lustrare gli stivali di Benito
Mussolini».
È allora che un gruppo di personaggi d’eccezione decide, a rischio
della propria stessa vita, di salvare il vecchio leader dalle persecuzioni
e dalle umiliazioni. Le menti della fuga sono due. Il primo è Ferruccio
Parri: eroe della Grande Guerra, più volte ferito, tre medaglie
d’argento al valor militare, decorato pure dagli alleati francesi e
americani; sarà il punto di riferimento morale della Resistenza. Il
secondo è Carlo Rosselli.
Ventisette anni, è figlio di una famiglia ebraica, di ascendenze
risorgimentali: Giuseppe Mazzini ha trovato rifugio ed è morto a Pisa
a casa di suo nonno, Pellegrino Rosselli. Sua madre è la zia di un
giovane scrittore, Alberto Pincherle, che diventerà celebre con il nome
di Alberto Moravia. Suo fratello maggiore, Aldo Rosselli, è andato in
guerra da volontario ed è caduto in combattimento nel 1916, gli hanno
dato una medaglia d’argento alla memoria. Carlo è amico di Piero
Gobetti. A Firenze ha frequentato il «Circolo di Cultura» di Gaetano
Salvemini, più volte devastato dagli squadristi e chiuso dal prefetto
con questa motivazione: «La sua attività provoca il giusto
risentimento del partito dominante».
Carlo Rosselli è antifascista e antistalinista. Teorizza un socialismo
liberale. Con suo fratello Nello ha fondato un giornale clandestino e
l’ha chiamato «Non mollare». Vi collaborano Ernesto Rossi e Piero
Calamandrei, oltre a Salvemini. Scrive Rosselli: «Forse non avrà
apparentemente alcuna positiva efficacia, ma io sento che abbiamo da
assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza
morale alla generazione che viene dopo di noi».
Il regime se ne accorge, e cominciano le violenze. Salvemini è
arrestato per «vilipendio del governo»; liberato in attesa del processo,
si rifugia dai fratelli Rosselli; gli squadristi lo seguono e devastano la
casa. Altre camicie nere aggrediscono Carlo Rosselli a Genova, dove
insegna economia politica all’università. Il governo interviene; non
per punire i bastonatori, ma per togliere la cattedra al bastonato.
C’è però un’occasione per segnare un punto, per vincere almeno
una battaglia, piccola eppure significativa: mettere in salvo Turati. La
sua casa è sorvegliata, ma Rosselli lo conduce fuori, con un berretto
calato sulla testa, lungo un passaggio che attraversa i solai del palazzo
e sbuca alle spalle delle guardie.
Turati viene nascosto prima a Ivrea, nella casa di un imprenditore
antifascista, Camillo Olivetti, e poi a Torino, da Giuseppe Levi: in
famiglia c’è anche una bambina che ricorderà per sempre quella notte,
Natalia Levi, che sposerà un martire del nazifascismo, Leone
Ginzburg.
Parri ha verificato che passare in Svizzera o in Francia via terra è
impossibile, i valichi sono presidiati. Si decide per la fuga via mare, in
Corsica, partendo da Savona. Il punto di riferimento sul posto è un
giovane avvocato, che è già stato aggredito tre volte dai fascisti:
l’hanno bastonato perché portava una cravatta rossa, e perché rendeva
omaggio alla memoria di Matteotti; quaranta giorni prima gli hanno
spezzato un braccio a manganellate. È stato anche in carcere, per aver
diffuso un opuscolo dal titolo «Sotto il barbaro dominio fascista». Si
chiama Sandro Pertini.
Con il denaro di Carlo Rosselli un amico di Pertini, Lorenzo Da
Bove, si procura un motoscafo. Al timone c’è Italo Oxilia, capitano di
lungo corso. La sera dell’11 dicembre 1926, un’auto corre veloce da
Torino a Vado Ligure, evitando i posti di blocco. Turati è a bordo. La
guida il figlio di Camillo: Adriano Olivetti.
La barca attende attraccata a un molo dismesso. È notte. Il mare è in
tempesta, cadere in acqua equivale a morte certa, ma rimandare non si
può. Oxilia e Da Bove si alternano al timone, e la loro abilità si rivela
provvidenziale.
La traversata dura dodici ore. Turati, Pertini, Parri e Rosselli
attraccano al molo di Calvi, dove vengono arrestati. Ma quando i
gendarmi corsi capiscono chi hanno di fronte, l’atteggiamento cambia:
il circolo repubblicano di Calvi organizza un ricevimento in onore di
Turati, che viene poi portato a Nizza. Non tornerà più in Italia. Morirà
a Parigi sei anni dopo. Il suo corpo sarà traslato in patria nel 1948. Ora
riposa al Monumentale di Milano, accanto ad Anna Kuliscioff.
Dei quattro protagonisti di quell’avventura, il primo – Parri –
diventerà presidente del Consiglio, il secondo – Pertini – presidente
della Repubblica, il terzo – Adriano Olivetti – sarà il più innovativo
industriale della Ricostruzione. Il quarto, Carlo Rosselli, verrà
ammazzato dal regime.

Parri e Rosselli ritornano con il motoscafo a Marina di Carrara,


dove vengono arrestati. Mussolini è furibondo per lo smacco
internazionale.
Il processo si apre il 9 settembre 1927. Quando la parola spetta agli
imputati, Rosselli dichiara: «Il responsabile primo e unico, che la
coscienza degli uomini liberi incrimina, è il fascismo … che con la
legge del bastone, strumento della sua potenza e della sua nemesi, ha
inchiodato in servitù milioni di cittadini, gettandoli nella tragica
alternativa della supina acquiescenza o della fame o dell’esilio». Poi
tocca a Parri: «Io che ho creduto nel valore civile della storia
nazionale, che insegnavo in iscuola, io che nel 1916 ho inteso
combattere per la grandezza morale della Patria e per un’idea augusta
di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del
Risorgimento e il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi».
Difficile farli passare per sovversivi e anti-italiani.
I giudici del tribunale di Savona sono uomini di coraggio. Rifiutano
di trasmettere gli atti al Tribunale speciale, appena istituito da
Mussolini, e applicano la pena minima di dieci mesi. Rosselli ne ha già
scontati otto; tra poco sarà libero. Le leggi speciali, però, consentono al
regime di infliggergli altri tre anni di confino, da scontare a Lipari.
Il 27 luglio 1929 Carlo Rosselli evade dall’isola, insieme con due
compagni dalla vita avventurosa. Uno è Francesco Fausto Nitti: figlio
di un pastore evangelico bastonato dai fascisti, pronipote dell’ex
presidente del Consiglio, combatterà in Spagna contro Franco e nella
Resistenza francese contro i nazisti. L’altro è Emilio Lussu, l’autore del
più bel libro scritto da un italiano sulla prima guerra mondiale, «Un
anno sull’altipiano». Nel 1929, però, quelle vicende sono soltanto
dentro la sua memoria; Lussu le fisserà sulla carta otto anni dopo. Nel
1926 i fascisti sono andati all’assalto della sua casa a Cagliari; abituati
a picchiare vittime inermi, si sono dimenticati che di fronte hanno un
«balente», un capitano della brigata Sassari. Lussu non si è fatto
intimidire e ha affrontato gli aggressori con le armi in pugno, ne ha
ucciso uno che stava scavalcando la ringhiera di casa, ha messo in
fuga gli altri. Il tribunale ha dovuto riconoscergli la legittima difesa. È
al confino in quanto antifascista.
Rosselli, Nitti e Lussu fuggono da Lipari in motoscafo. Al timone
c’è di nuovo Italo Oxilia, che li porta in Tunisia. I tre raggiungono la
Francia, dove con altri fuoriusciti fondano Giustizia e Libertà.
Furibondo, il Duce fa arrestare la moglie di Carlo Rosselli, Marion
Catherine Cave, incinta di una bambina. Londra protesta: Marion non
ha fatto nulla, inoltre è cittadina britannica, deve essere rilasciata. La
figlia Amelia, detta Melina, nasce il 28 marzo 1930.
«Insorgere! Risorgere!». È il motto che Lussu scrive sui 150 mila
volantini che due giovani di Giustizia e Libertà, Giovanni Bassanesi e
Gioacchino Dolci, fanno piovere su Milano, per poi tornare con il loro
piccolo aereo in Svizzera, da dove erano partiti. Bassanesi è uno strano
aviatore, che soffre di mal d’aria. L’episodio ispira un altro
antifascista, un poeta, Lauro De Bosis, che nel 1931 si inabissa nel
Tirreno dopo un romantico volo su Roma, e dopo aver lasciato cadere
sulla capitale migliaia di volantini per incitare alla rivolta contro il
regime. Gesti simbolici. Ma se non altro mostrano che il dominio dei
cieli è solo uno degli elementi della retorica fascista; come gli italiani
sperimenteranno dolorosamente durante la guerra.

Dall’esilio francese, Rosselli e i suoi scrivono i «Quaderni di


Giustizia e Libertà», e tentano di farli arrivare in Italia. Un gruppo di
giovani torinesi, tra cui alcuni allievi del professor Augusto Monti al
liceo D’Azeglio, si riuniscono per leggerli e discuterne. Non hanno
alcuna esperienza politica, sono lontanissimi da qualsiasi idea di
violenza, non si rendono neppure conto del pericolo che corrono.
Scoperti dall’Ovra, la polizia segreta del regime, pagheranno un
prezzo altissimo. Mussolini se ne occupa personalmente, anche perché
l’episodio risveglia la sua idiosincrasia per Torino: così dà indicazione
al tribunale di essere particolarmente severo. Per un giornale e
qualche chiacchiera poteva succedere, nell’Italia del Duce, di essere
condannati a quindici anni di carcere, come accade a Vittorio Foa, che
ne sconterà otto, sino alla caduta del regime.

Quando nel 1936 scoppia la guerra civile spagnola, Carlo Rosselli


prende le armi. Ad agosto combatte la sua prima battaglia, alla testa di
una colonna di 150 antifascisti reclutati in Francia: si spara sul fronte
dell’Aragona, su un’altura che uno dei volontari, il repubblicano
Mario Angeloni, prima di cadere in combattimento chiama Monte
Pelato, e così passerà alla storia. È il tempo del fronte popolare contro
il fascismo; per i comunisti ora Rosselli non è più un «ideologo
reazionario», un «fascista dissidente», come l’aveva definito Togliatti.
Rosselli però avrà sempre un rapporto teso con i comunisti;
simpatizzerà semmai con gli anarchici.
Il 13 novembre 1936 pronuncia a Barcellona parole destinate a
restare: «È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna.
Oggi qui, domani in Italia. Fratelli, compagni italiani, ascoltate. È un
volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Non prestate
fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i
rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia
della sconfitta…». «Oggi in Spagna, domani in Italia» è quello che
rimane della sfortunata ma dignitosa avventura degli antifascisti nella
guerra contro Franco.
Ammalato, Carlo Rosselli passa in Francia per curarsi, a Bagnoles-
de-l’Orne, in Normandia. Lo raggiunge il fratello Nello, cui
stranamente il regime ha concesso il passaporto. È una trappola: Nello
serve per arrivare a Carlo. Ciano ha ordinato al generale Mario Roatta,
capo dei servizi segreti, di organizzare un complotto per uccidere i
due fratelli. Il Duce ovviamente sa. Gli esecutori materiali saranno i
miliziani della Cagoule, formazione eversiva della destra francese.
A Carlo e a Nello viene teso un agguato. Li fanno scendere
dall’automobile, poi sparano. Nello è il primo a cadere. Carlo muore
sul colpo, il fratello è ancora vivo: viene finito a pugnalate. I corpi
saranno trovati due giorni dopo e sepolti a Parigi, al Père-Lachaise. Ai
funerali partecipano 150 mila antifascisti italiani e francesi. La
Cagoule ha ricevuto in cambio dal regime una partita di armi, mille
fucili che devono servire a un colpo di Stato contro il Fronte popolare,
che l’anno prima ha vinto le elezioni. Una voce sostiene che
nell’assassinio fosse coinvolto anche il futuro presidente socialista
François Mitterrand, che a vent’anni simpatizzava per la Cagoule.
Non ci sono prove; ma il fatto che Mitterrand e i suoi successori non
abbiano mai rimosso il segreto posto da De Gaulle sul dossier dei
Cagoulards ha finito per alimentare un sospetto magari infondato.
Nessuno ha mai pagato per quel delitto, né in Francia né in Italia.
Dopo la guerra il generale Roatta troverà scampo nella Spagna
franchista. Nel 1951 le spoglie di Carlo e Nello saranno traslate nella
loro Firenze, nel cimitero di Trespiano, sulla via Bolognese. Riposano
vicino a Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Spartaco Lavagnini,
assassinato dai fascisti nel 1921, e Piero Calamandrei. Fu proprio
Calamandrei a dettare l’epitaffio inciso sulla lapide di Carlo e Nello
Rosselli:

GIUSTIZIA E LIBERTÀ
PER QUESTO MORIRONO
PER QUESTO VIVONO.
Sei
La cappa di piombo
Vita agra sotto il Duce

Eppure, nonostante i crimini e le persecuzioni, nonostante la paura e il


conformismo, non è vero – vale la pena ripeterlo – che gli italiani siano
stati tutti fascisti.
Ci furono gli antifascisti attivi: ovviamente una piccola minoranza,
per quanto eroica, come abbiamo visto. Gente disposta a perdere
tutto, anche la vita. Uomini e donne pronti ad affrontare il confino, la
prigione, le botte, l’esilio, talora la morte.
Ci furono coloro che vissero la propria ostilità al regime in silenzio,
a volte con gesti piccoli ma preziosi: il rifiuto di prendere la tessera del
partito, una scritta sul muro, un simbolo esibito il giorno del primo
maggio, una foto di Matteotti nascosta in casa dietro il quadro della
Madonna.
Ci furono coloro a cui non importava molto. Nei locali era scritto:
«Qui non si parla di politica»; e loro si adeguarono. È la zona grigia
che nella storia è quasi sempre maggioritaria, e può oscillare tra
l’indifferenza, il dissenso o il consenso a seconda delle circostanze.
Vincere le guerre, magari con un nemico più debole, aiuta; perderle,
magari avendole dichiarate a un nemico più forte, no. Sentirsi dire, a
quarant’anni dall’umiliazione di Adua, che eravamo «entrati in Addis
Abeba», aiuta. Vedere la propria casa e la propria città distrutte dai
bombardieri inglesi e poi americani, indisturbati dalla contraerea, no.
Poi certo molti italiani furono fascisti, con maggiore o minore
convinzione. Ma è sempre difficile, se non impossibile, misurare
l’adesione a una dittatura, quando non si può scegliere, quando
manca un’altra possibilità che non siano manganellate, olio di ricino,
arresti, processi, condanne.
Nell’era di Mussolini
La vita sotto il fascismo era a volte plumbea, a volte ridicola. «Servile e
stupida» la definì don Minzoni. Poi certo l’esistenza continuava, ci si
innamorava, si facevano figli, si abitava un Paese meraviglioso. Però
la vita pubblica poteva diventare mortificante. E non era mai libera.
Non premiava il merito ma l’obbedienza. Non favoriva la discussione
ma il silenzio. Il motto del regime era «servire tacendo, obbedire in
umiltà». In alternativa: credere, obbedire, combattere.
Gli italiani non erano tutti uguali. Quelli con la tessera del partito
erano più uguali degli altri.
Il 28 ottobre diventò il giorno zero del calendario dell’«era fascista»,
come venne chiamata. Tutti gli atti pubblici dovevano recare due date:
quella calcolata dalla nascita di Gesù Cristo; e quella calcolata dalla
marcia su Roma ed espressa in numeri romani. I anno dell’era fascista,
II anno dell’era fascista, III anno dell’era fascista… Così, senza sprezzo
del ridicolo.
La mancanza di libertà non era limitata alla politica.
Gli italiani non potevano andare all’estero e neppure cambiare città
senza l’autorizzazione del regime. Il cattolicesimo doveva essere «la
sola religione dello Stato»; così fu stabilito dal Concordato del 1929
(era scritto già nello Statuto albertino; ma l’Italia prima del Duce era
uno Stato laico, se non anticlericale).
Ci sono liste di persone da arrestare, quando in città arrivano
Mussolini o qualche gerarca. Quando il Duce parla, molti ricevono la
cartolina precetto, di colore rosa: bisogna presentarsi; di persona in
piazza Venezia, o davanti ai microfoni che portano la sua voce nelle
città d’Italia. Ignazio Silone ha raccontato dei «cafoni» della Marsica,
ribattezzati «rurali», portati nei centri di raccolta dai camion, con i
carabinieri a bordo. Quando Mussolini cominciò a parlare, «un grido
altissimo si levò dai gruppi dei notabili e dei militi, un grido ritmico,
un’invocazione appassionata al capo: DU-CE, DU-CE, DU-CE, DU-
CE». La folla si unì al grido, al punto che del discorso non si sentì
nulla. «Le due stesse sillabe dell’invocazione finirono per perdere ogni
significato, erano scandite come una formula di esorcismo. A un certo
momento i più vicini alla radio fecero segno che la trasmissione era
terminata».

Il Duce celebra il proprio mito. Sarà minatore, trebbiatore a torso


nudo, aviatore, cavallerizzo, tennista, marinaio, spaccapietre: un
giorno a Predappio strappa il mazzuolo dalle mani di un vecchio
amico d’infanzia – «fatti in là, Pipòn» – e manda un masso in
frantumi.
Un maresciallo dei carabinieri che l’aveva arrestato a Forlì si
dichiara pentito, e gli porta in dono la mazza con cui l’aveva pestato
quando era un rivoluzionario.
Finalmente la famiglia, accresciuta dalla nascita di Romano e Anna
Maria, l’ha raggiunto a Roma. I Mussolini abitano in uno splendido
parco, Villa Torlonia, che il principe ha munificamente concesso in
affitto per una lira all’anno. Benito e Rachele, dopo anni di
separazione, continuano a dormire in appartamenti diversi. Lui
preferisce pranzare da solo. La sera qualche volta indossa il frac e va
all’Opera: palco numero 11, dove talora reclina il capo e sprofonda in
un sonno ristoratore.
Anche nell’ora del trionfo, il Duce non perde mai quell’aria
corrucciata, da terribilista, e quel suo tono torvo, minaccioso. Nel
settimo anniversario della marcia su Roma, parla al balcone di piazza
Venezia. Si dice pentito di «non aver cacciato al muro davanti ai
plotoni di esecuzione, nell’ottobre del 1922», i suoi oppositori. Ma è
sempre in tempo a farlo, rivalutando un antico strumento: «È un
arnese che vi era molto simpatico, e forse avete già compreso che cosa
io voglio dire». La folla grida: il manganello! E lui, pettoruto: «Ebbene
sì. Un po’ di polvere c’è sopra; basterà spolverarlo». Ma non mancano
neppure i fucili, con cui «piantare il piombo della rivoluzione fascista
nella schiena dei traditori della patria».
Kurt Suckert, che ora si fa chiamare Curzio Malaparte, non lo critica
più, anzi gli dedica questi versi:

Dacci pane pei nostri denti


fantasie e cazzottature
ogni sorta di ardimenti
di mattane e d’avventure
Spunta il sole e canta il gallo
O Mussolini monta a cavallo.

Viene ricompensato con la direzione della Stampa.


Conscio di se stesso, il Duce esclama in un discorso all’Augusteo:
«Italiani! Siate orgogliosi di vivere nel tempo di Mussolini!».

In realtà, più che di mattane e di avventure, la vita quotidiana è


fatta di piccole e grandi vessazioni.
L’orario viene portato da otto a nove ore al giorno. In compenso il
sabato pomeriggio non si lavora. Ma non si è liberi: si deve andare al
sabato fascista. Stivaloni, camicia nera, orbace. Addestramento,
inquadramento, esercizi ginnici.
Il regime tiene alla salute dei sudditi, e pure dei gerarchi. Il nuovo
segretario del partito, Achille Starace, li costringe a gettarsi nel cerchio
di fuoco, a impegnarsi in gare di nuoto e di corsa.
«Duce, Starace è un cretino» si lamenta Arpinati, nel frattempo
riabilitato. «Lo so, ma è un cretino obbediente» si sente rispondere. La
sua prima decisione è imporre di scrivere sui giornali la parola Duce
tutta maiuscola, così: DUCE. Il 12 dicembre 1931 Mussolini convoca i
capi del regime a Palazzo Venezia. Starace li vede tutti riuniti in
attesa, chiede silenzio e propone una prova generale, perché
l’accoglienza al Duce «sia veramente bella». I gerarchi sorridono,
Starace non coglie l’ironia e spiega: «Il Segretario del partito», cioè lui,
«come il Duce sarà entrato, farà quattro passi per andargli incontro, si
fermerà quindi sull’attenti e, tenendo il braccio ben teso, dirà forte:
“Saluto al Duce!”; i presenti risponderanno: “A noi!”». Seguirà
Giovinezza, eseguita da apposita fanfara. Il governatore di Roma,
Francesco Boncompagni Ludovisi, raffinato aristocratico, sussurra:
«Questo non dura tre mesi». Ma il presidente della Camera, Giovanni
Giuriati, che conosce meglio Mussolini, risponde: «Non avete capito.
Questo dura dieci anni». Ci andrà vicino: Starace guiderà il partito
fino all’ottobre 1939.
Il Duce è astemio, e non ama che gli altri bevano. Certo, è uomo
colto, sa bene che «liquidi fermentati si bevono fin dai tempi
preistorici», e togliere il vino agli italiani sarebbe troppo pure per il
fascismo; però il capo si compiace di aver fatto chiudere
venticinquemila osterie, «fonte di rovinosa felicità». Quando poi la
Germania travolgerà l’eroica resistenza polacca, Mussolini attribuirà
la sconfitta all’alcol: i polacchi sono «un popolo alcolizzato»; «io non
mi stancherò mai di raccomandare agli italiani di bere acqua fresca».
Il Duce si occupa di tutto. Dalla Sala del Mappamondo tiene
d’occhio i vigili, si lamenta che chiacchierano invece di regolare la
circolazione. Un mattino vede che sono spariti e manda a chiamare il
questore. Impaurito, il poveruomo sostiene che ormai i romani hanno
imparato ad attraversare sulle strisce, e dei vigili non c’è più bisogno.
Mussolini lo afferra per il braccio, lo trascina alla finestra, gli indica la
piazza: «Non è vero! Guardate voi stesso! Vedete che non sanno
camminare? Mi vanno sotto le automobili!».

A scuola di fascismo
Il Duce si ripropone di creare l’italiano nuovo, l’italiano fascista.
L’italiano nuovo deve muoversi come lui, per linee rette, sempre in
tensione, gli occhi fissi in avanti, la pancia in dentro, la testa eretta un
po’ all’indietro. Soprattutto, l’italiano nuovo deve pensare come lui.
La scuola deve diventare fascista. Il Duce lo dice apertamente:
«Quello che è avvenuto nell’ottobre del 1922 non è un semplice
cambiamento di ministero, ma è una profonda rivoluzione politica,
morale, sociale». Tutto deve cambiare. «Il Governo esige che la scuola
non sia, non dico ostile, ma nemmeno estranea al fascismo o agnostica
di fronte al fascismo. Esige che tutta la scuola, in tutti i suoi gradi e i
suoi insegnamenti, educhi la gioventù italiana a comprendere il
fascismo, a rinnovarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato
dalla rivoluzione fascista».
Un clima plumbeo, oppressivo, conformista, segnato dalla censura,
dalla violenza permanente, dalla rappresaglia. Manca qualsiasi forma
di circolazione delle idee, con la stampa imbavagliata, i partiti
soppressi, le associazioni vietate.
Non si fa informazione, ma propaganda. E la propaganda fascista a
volte si rivela rozza e grottesca; a volte anticipa il nostro tempo,
perché il Duce ha capito una cosa fondamentale: «La disposizione
dell’uomo moderno a credere è incredibile».
Le cattive notizie sono abolite. I delitti e gli scandali non sono
ovviamente scomparsi; ma è vietato parlarne (non a caso dopo la
Liberazione ci sarà un boom di riviste specializzate in gialli e omicidi,
tra cui una intitolata Crimen). Il Duce in persona rimprovera il
prefetto di Milano per non aver sequestrato un giornale,
l’Ambrosiano, reo di aver messo in un titolo la parola «camorra».
Tutti sono inquadrati in una scala gerarchica, che dal Duce arriva
fino al capo caseggiato, pronto a riferire a chi di dovere le opinioni e la
vita privata degli inquilini.
Tutti, non solo i militari, devono indossare la divisa. Tutti, dai
dipendenti pubblici ai giovani: avanguardisti, balilla, figli della lupa,
che hanno appena sei anni. Gli impiegati ne hanno almeno una, i
gerarchi decine, autarchiche o coloniali, militari o fasciste. Ma la cosa
più importante, ripete il Duce, è che «gli alunni indossino la camicia
nera anche spiritualmente».
Gli insegnanti non sono più insegnanti, bensì «apostoli e sacerdoti»,
cui toccano «responsabilità tremende e ineffabili: quelle di lavorare sul
cervello, sulla coscienza, sull’anima».
Ai bambini vengono assegnati temi dal titolo: «Perché amo il
Duce». A un ragazzino di Napoli che sostiene – forse perché viene da
una famiglia antifascista, forse per spirito di contraddizione – di non
amare il Duce arriva la polizia a casa.
Nascono cattedre universitarie di mistica fascista. Tutti i professori,
come ogni dipendente pubblico, devono avere la tessera del partito. E
il partito è un luogo da cui non si torna indietro, l’articolo 33 dello
Statuto prevede: «Il Fascista che viene espulso dal Partito Nazionale
Fascista deve essere messo al bando della vita pubblica».
L’acronimo Pnf viene riletto come «per necessità familiare». Per
esservi ammessi, i giovani devono recitare una formula solenne:
«Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con
tutte le mie forze e, se è necessario, col mio sangue la causa della
Rivoluzione Fascista».

Anche ai professori universitari è richiesto il giuramento di fedeltà.


Prima di disprezzare la grande maggioranza che, pena la perdita del
lavoro, obbedì, dobbiamo distinguere. Molti ci credevano davvero.
Molti altri erano antifascisti che non intendevano lasciare il monopolio
dell’insegnamento al fascismo. Lo stesso Togliatti consigliò ai docenti
comunisti, ad esempio al latinista Concetto Marchesi, di giurare.
Analogo invito fu rivolto da Benedetto Croce a liberali come Luigi
Einaudi.
Poi ci furono gli eroi che lasciarono la cattedra e molto spesso anche
il Paese. Vale la pena ricordare i loro nomi, senza per questo gettare il
discredito su tutti gli altri. All’università di Torino rifiutarono di
giurare Mario Carrara – genero di Lombroso e suo successore sulla
cattedra di antropologia criminale –, il grande storico dell’arte
Lionello Venturi, Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico), già aggredito
dai fascisti nel 1928, e suo figlio Edoardo, in cattedra a Perugia. A
Roma, Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo), Gaetano De
Sanctis (storia antica), Antonio De Viti De Marco (scienza delle
finanze), Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche) e il fisico Vito
Volterra. A Pavia, il chimico Giorgio Errera. A Macerata, il giurista
Fabio Luzzatto. A Milano, il filosofo Piero Martinetti. A Bologna, il
chirurgo Bartolo Nigrisoli. A Napoli, l’amministrativista Enrico
Presutti. Non giurarono neppure Floriano Del Secolo, docente di
lettere al Collegio militare della Nunziatella, il filosofo Cesare Goretti
e il segretario della Normale di Pisa, Aldo Capitini.
Vittorio Emanuele Orlando andò in pensione anticipata pur di non
giurare. Giuseppe Antonio Borgese partì esule per l’America. Piero
Sraffa, che già insegnava a Cambridge, si dimise dall’università di
Cagliari. Padre Agostino Gemelli ottenne che i docenti dell’università
Cattolica da lui fondata fossero esentati dall’obbligo: va ricordato, a
loro discredito, che tutti tranne quattro – tra cui lo stesso Gemelli –
vollero giurare lo stesso.
Il servilismo contagia anche coloro che non ne avrebbero bisogno. Il
decano dei giornalisti italiani, Luigi Barzini, va in America e scrive un
articolo imbarazzante: «Non vi è più un giornale negli Stati Uniti che
non incoraggi il presidente Roosevelt sulla via delle riforme
dittatoriali. La parola fascismo non fa più paura. L’America ha visto in
Mussolini un guidatore portentoso che faceva galoppare un cavallo
notoriamente recalcitrante e capriccioso, e lo portava a vincere la
corsa…». Roosevelt, il presidente democratico, viene presentato come
un aspirante Duce. Mentre il Duce, quello vero, di lui dirà che nella
storia non c’era mai stato un popolo «retto da un paralitico»: ci sono
stati «re calvi, re grossi, re belli e magari stupidi», ma mai un re che
«per andare al gabinetto avesse bisogno di essere sorretto da altre
persone».
Quanto a Barzini, verrà convocato d’urgenza a Palazzo Venezia per
discolparsi della foto che ha pubblicato in prima pagina sul giornale
che dirige, Il Mattino: si vede Italo Balbo, giovane e bello, accanto a un
Mussolini ormai cinquantenne, dall’aria stanca. «Tutta colpa dello
zincografo» si difenderà Barzini. Ma il Duce non si lascerà convincere:
Il Mattino avrà un nuovo direttore, più attento.
Pure il Papa comincia ad avere qualche dubbio, quando vede che
nonostante il Concordato continua la persecuzione dell’Azione
cattolica, e i fedeli vengono angariati con «durezze e violenze fino alle
percosse e al sangue». Il Duce sostiene l’esigenza di imprimere ai
giovani «il senso della virilità, della potenza, della conquista», e Pio XI
gli risponde: «Quello che si fa in uno Stato si potrebbe fare anche in
tutto il mondo. E se tutti gli Stati allevassero alla conquista, che
accadrebbe?».
Mancano poco più di tre anni all’ascesa di Hitler, meno di dieci allo
scoppio della seconda guerra mondiale. Il Duce ordina ai direttori dei
giornali: «Ignorare il Papa», o anche: «Poco Papa».

Più si consolida il regime, più la divisa diventa un’ossessione, un


modo per marchiare i «diversi» che la rifiutano, per segnare una
gerarchia di zelo e di soperchieria. Tutto, dagli stivali al cappello, è
nero, il colore della morte; ravvivato solo dai galloni d’argento o d’oro
che segnano il grado, popolarmente detti «lasagne». Così Piero
Calamandrei descrive un negozio nel pieno centro di Roma, in via del
Corso, di fronte allo storico caffè letterario Aragno: «Era una vetrina
tutta addobbata in nero come una cappella mortuaria, che esibiva,
infilzati in cima a altrettanti pioli verniciati di nero, una ventina e più
cappelli da parata, di quelli di tipo nazista, ma colla visiera ancora più
calata e bieca e la cresta ancor più aggressiva e protuberante … Alla
base di ogni piolo un cartellino bianco indicava il grado del gerarca al
quale era destinato il copricapo: segretario federale, consigliere
nazionale, ministro, segretario del partito; col salire della gerarchia
crescevano i luccichii delle lasagne. Al centro una specie di gigantesco
tegame, fabbricato su misura per un augusto cranio macrocefalo,
dominava fra i tegamini satelliti: tutto nero, senza neanche un filo di
gallone, ma con in cima alla cresta un fierissimo uccellone d’oro. E il
suo cartello spiegava: DUCE. I passanti, fermi davanti alla vetrina,
guardavano dentro in silenzio; e non osavano guardarsi tra loro».
A un certo punto fu abolito il Capodanno. Non è uno scherzo. Nel
1937 il Duce soppresse la cerimonia che si svolgeva al Quirinale per
gli auguri del corpo diplomatico al re: il Capodanno non aveva più
senso, da quando l’anno fascista cominciava dal giorno della marcia
su Roma. E siccome gli italiani continuavano ovviamente a far festa la
notte di San Silvestro, Starace annotò sul «Foglio di disposizioni»:
«Chissà perché ci si attarda ancora a considerare la fine dell’anno al
metro del 31 dicembre piuttosto che a quello del 28 ottobre».
E poi basta con la stretta di mano, «saluto borghese, femmineo»; il
saluto deve essere a braccio teso. «Dedito alla stretta di mano» viene
scritto come nota negativa nella cartella personale degli italiani che
«persistono in questa esteriorità rivelatrice, quasi sempre, di scarso
spirito fascista».
Abolito pure il «lei», obbligatorio il passaggio al «voi». L’ironia
popolare non si fa attendere: «Vorrà dire che anziché Galilei diremo
Galivoi». Una battuta che il Duce, molto irritato, trova cretina.
«Chi non è padre non è uomo»: guai a scapoli e omosessuali
Chi non si sposava doveva pagare una tassa.
Neanche questo è uno scherzo: i celibi tra i 25 e i 65 anni venivano
tassati. Non importa se avessero liberamente scelto di non prendere
moglie, o non avessero trovato una donna da amare, o fossero stati
respinti dalla donna che amavano, o amassero invece gli uomini. In
ogni caso, non facevano il loro dovere di dare figli alla patria; e quindi
pagavano. Fin qui ci sarebbe anche da sorridere; ma poi verrà
introdotta pure la tassa sui «matrimoni infecondi». Come se non
riuscire ad avere un figlio fosse una colpa.
Per il Duce, però, «non è uomo chi non è padre».
La legge, una vera e propria abnormità giuridica, entra in vigore il
13 febbraio 1927. La tassa sul celibato varia a seconda dell’età. Tra i 25
e i 35 anni si versano 70 lire, circa 60 euro di adesso: una somma non
enorme, ma neppure trascurabile in un Paese in cui di denaro ne gira
poco; inoltre, a seconda del reddito viene applicata un’aliquota
aggiuntiva. Per gli over 35 la tassa sale a cento lire; passati i
cinquant’anni, scende a 50 lire. L’importo verrà aumentato due volte,
nell’aprile 1934 e nel marzo 1937.
L’abolizione della tassa sul celibato sarà tra i primi provvedimenti
del governo Badoglio, il 27 luglio 1943: segno che non era così
popolare. (Le leggi razziali, per intenderci, saranno abolite solo nel
gennaio 1944).
Devono pagare oltre tre milioni di italiani celibi. Esentati sacerdoti,
frati, militari vincolati a ferme speciali e grandi invalidi di guerra.
L’evasione non è tollerata: se ci provi, finisci in galera. La Stampa del
27 febbraio 1932 dà notizia di tre alessandrini celibi di 34, 40 e 56 anni,
incarcerati per non aver pagato la tassa e la relativa multa di 200 lire.
Una sorta di lettera scarlatta, per uomini che non si riconoscevano
nella morale corrente, nell’obbligo di sposarsi e fare figli.
La legge è vessatoria anche nelle modalità di pagamento. Entro il 31
gennaio si deve dichiarare il proprio status. Chi si sposa nel corso
dell’anno deve pagare lo stesso, e solo l’anno dopo, dietro formale
dichiarazione, potrà essere cancellato «dai ruoli dei celibi».
La motivazione non è economica, ma politica. Il Duce lo dichiara,
nel «discorso dell’Ascensione» alla Camera, il 26 maggio 1927: «Ho
approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla
nazione. Questo vi può sorprendere, e qualcuno di voi può dire: ma
come, ce n’era bisogno? Ce n’è bisogno. Qualche inintelligente dice:
siamo in troppi. Gli intelligenti rispondono: siamo in pochi! …
Parliamoci chiaro. Che cosa sono 40 milioni di italiani di fronte a 90
milioni di tedeschi e a 200 milioni di slavi? … Tutte le nazioni e tutti
gli Imperi hanno sentito il morso della loro decadenza, quando hanno
visto diminuire il numero delle loro nascite».
Mussolini indica come esempio le regioni più prolifiche, che sono
anche le più povere: Basilicata, Puglia, Calabria, Campania. Si lamenta
invece di Genova e Milano, dove la curva demografica è stabile, e
ovviamente di Torino, «che nel 1926 è diminuita di 538 abitanti». «Se
si diminuisce, signori, non si fa l’Impero; si diventa una colonia».
Sfugge del tutto al Duce che la ricchezza delle nazioni si costruisce
con la produzione, la tecnologia, l’istruzione libera, il commercio
internazionale. Mentre le sue scelte vanno nella direzione opposta:
l’Italia deve restare un Paese agricolo e diventare un Paese autarchico,
che basta a se stesso.

Gli importi della tassa sul celibato vanno all’Opera nazionale


maternità e infanzia. Detto così, può sembrare un provvedimento
sociale. E in effetti tra i successi attribuiti al Duce c’è la politica di
natalità. Purtroppo si tratta di un falso clamoroso.
Durante il fascismo il tasso di natalità è diminuito. Nel 1926 erano
nati 29 bambini ogni mille abitanti; nel 1930 si è scesi a 25,2; nel 1937 a
23,3. Con Mussolini al potere, gli italiani hanno fatto meno figli. La
curva demografica si è abbassata. Il Duce stesso ne è consapevole e
proclama: «L’intera razza bianca, la razza dell’Occidente, può venire
sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un ritmo
ignoto alla nostra. Negri e gialli sono dunque alle porte? … Falsa è la
tesi che la qualità possa sostituire la quantità … Falsa e imbecille è la
tesi che la minore popolazione significhi maggiore benessere … La
mia politica demografica non può avere dato ancora i suoi frutti. Ma
qui si pone il problema. Le leggi demografiche … hanno avuto o
possono avere una efficacia qualsiasi? Su questo interrogativo si è
discusso animatamente e si continuerà a discutere ancora. La mia
convinzione è che se anche le leggi si fossero dimostrate inutili,
tentare bisogna».
E in effetti il Duce le tenta tutte. Gli sposati con prole vengono
favoriti nell’assegnazione delle case e nelle assunzioni nel settore
pubblico. Si inscenano manifestazioni imbarazzanti, in cui le madri
prolifiche sollevano l’ultimo nato e si presentano urlando: «Duce,
cinque figli!», «Duce, sette figli!», «Duce, dieci figli!». Lo scrittore
Lucio D’Ambra fa notare che, se Napoleone decorava con il nastro
rosso gli eroi di guerra, il Duce festeggia invece le mamme: «Col
nastro bianco delle culle, Mussolini fregia il seno fecondo delle donne
italiane che, benedette da Dio nella gloria della maternità, preparano –
primavera di fanciulli – l’Italia di domani». Non è inutile ricordare che
il Duce prepara in realtà una guerra che spezzerà, tra soldati e civili,
427 mila vite di italiani.

La tassa sul celibato è anche un modo per rendere la vita difficile


agli omosessuali. Hitler li elimina fisicamente. Mussolini li rimuove
psicologicamente. Li nega. In Italia, Paese vitale e virile,
l’omosessualità maschile non esiste; quella femminile poi non è
neppure concepibile.
In Germania paradossalmente il nazismo ha il lavoro facilitato dalla
Repubblica di Weimar, che aveva introdotto un clima di libertà in cui
gli omosessuali erano usciti dall’ombra, avevano i loro locali di
ritrovo, rivendicavano i propri diritti. In Italia vigeva invece una
persecuzione sommersa: più dei divieti o delle punizioni dello Stato,
contava lo stigma sociale. Il fascismo avalla questa situazione, cui
aggiunge talora la violenza. Gli insulti e i pestaggi delle camicie nere
sono un peso ulteriore per gli italiani omosessuali.
Le cose peggiorano sotto l’influenza della Germania nazista.
Comincia una politica di persecuzione, senza norme specifiche: il
confino è un provvedimento di polizia, che non richiede una legge o
un processo.
È un giro di vite, non un piano preciso. Vengono erogate novanta
condanne al confino, di cui 42 per iniziativa di un solo questore,
quello di Catania, che si impegna in una repressione che i colleghi non
prendono molto sul serio. Il direttore del carcere delle Tremiti deve
scrivere al Duce per chiedergli di intervenire sul funzionario zelante:
le isole si sono riempite di omosessuali catanesi, e non si sa più dove
metterli.
Siccome ufficialmente l’omosessualità non esiste, i condannati
vengono catalogati in quanto «politici». Come motivazione del
confino è indicata «la difesa della razza».
Non avere figli diventa una caratteristica sospetta. La campagna
assume toni grotteschi. Scrive La Stampa: «Sopra 100 suicidi di
coniugati se ne contano infatti quasi 150 dei celibi ed oltre 250 di
vedovi … Quando non trovi ragioni morali o sanitarie, quando non
s’ispiri ad idealità religiose o a obblighi militari, la persistenza nel
celibato costituisce già di per sé stessa l’indizio di un’anormalità
costituzionale».
La condanna dell’«anormalità», l’avversione per il diverso, il clima
claustrofobico, le vessazioni della libertà e della vita privata imposte
da Mussolini hanno ispirato il capolavoro di Ettore Scola, «Una
giornata particolare». Gabriele, l’omosessuale interpretato da Marcello
Mastroianni, confessa a Sophia Loren, la massaia che punta agli
incentivi economici per le famiglie con più di sette figli, di essere
scapolo e di pagare la tassa sul celibato. E commenta, amaro: «Come
se la solitudine fosse una ricchezza…». Alla fine del film, due
personaggi all’apparenza antitetici trovano il loro modo di intendersi,
forse anche di amarsi. Mentre i figli e il marito della donna sono
andati a festeggiare la visita di Hitler a Roma – 6 maggio 1938:
appunto la giornata particolare –, e al rientro commentano,
soddisfatti: «Certo che l’alleato ce lo siamo scelti bene…».

Fuorilegge le professoresse di lettere


Le donne per il Duce sono una «gradevole parentesi» nella vita
dell’uomo; ma più gli uomini sono «virili e intelligenti», meno ne
hanno bisogno. Nei momenti di sfiducia, pensa che gli dedicheranno
al più un busto al Pincio, e commenta: «Le balie e le serve vi si
ritroveranno per i loro appuntamenti». In altre occasioni mette
insieme il disprezzo delle donne con quello dell’amore per gli animali.
Sul treno che lo porta in Germania a un incontro con Hitler, si confida
con Ciano, a proposito degli inglesi: «Quando in un Paese si adorano
le bestie al punto di far per loro cimiteri, ospedali, case; quando si
fanno dei lasciti ai pappagalli è segno che la decadenza è in atto. Ciò
dipende anche dalla composizione del popolo inglese: quattro milioni
di donne in più. Quattro milioni di insoddisfatte sessualmente che
creano artificialmente una quantità di problemi per eccitare o placare i
loro sensi. Non potendo abbracciare un uomo solo, abbracciano
l’umanità».
Non a caso, nel 1931 Mussolini impone una tassa per i possessori di
cani: 150 lire per i cani da compagnia, 50 per quelli da caccia e da
guardia, 15 per i cani pastore.
Il Duce è molto soddisfatto del Tribunale speciale. Alla Camera
spiega che funziona «egregiamente» anche perché si è badato a
«escludere dalle sue mura l’elemento femminile» – i deputati ridono e
approvano –, «che porta nelle cose serie il segno incorreggibile della
sua frivolezza». Altre risate.
Per Mussolini, la missione delle donne è essere madri. Il lavoro
fuori casa viene ostacolato in ogni modo, a volte apertamente vietato.
Le tasse scolastiche sono più alte per le femmine che per i maschi:
meno ragazze studiano, meglio è.
Si introducono limiti alla presenza delle donne nella pubblica
amministrazione, e pure nella scuola.
Si comincia nel 1925, vietando alle donne i concorsi per diventare
presidi o direttrici delle scuole private. L’anno dopo si proibisce alle
donne di insegnare lettere nei licei e le materie scientifiche negli
istituti tecnici. (Avete letto bene: il Duce mette fuorilegge le
professoresse di lettere). Nel 1934 si limita l’accesso delle donne agli
organi di governo locali. Viene introdotto un tetto alla loro presenza
negli uffici pubblici: al massimo le donne possono essere il 20%; nei
ruoli direttivi, il 5.
Nel 1938 si va oltre, e con un provvedimento odioso si fissa un tetto
del 10% di donne sia negli impieghi pubblici sia nelle aziende private:
di fatto, il 90% dei posti – una gigantesca quota azzurra – è riservata
agli uomini. Nelle piccole imprese, con meno di dieci dipendenti, le
donne non possono più lavorare. Una legge inutilmente crudele,
rimasta di fatto inapplicata (le aziende hanno tre anni di tempo per
adeguarsi, ma nel frattempo scoppia la guerra e i maschi partono per
il fronte); che però mette a rischio il posto di migliaia di operaie,
segretarie, impiegate, e in teoria chiude alle giovani il mondo del
lavoro.
Ed è incredibile che questa ingiustizia sia oggi del tutto assente
dalla memoria nazionale.

Il codice penale prevede dal 1930 il delitto d’onore: chi trova la


moglie o la sorella con un altro uomo e la uccide a volte non finisce
neppure in galera; una vergogna che sarà cancellata solo nel 1981. Lo
stupro e l’incesto vengono derubricati a reati contro la morale, non
contro la persona; per rimediare a questo obbrobrio bisognerà
attendere il 1996. Vengono inasprite le pene per l’aborto, in quanto
crimine contro lo Stato e «contro la razza». Un’altra norma codifica il
matrimonio riparatore: chi violenta una donna e la sposa, vede estinto
il reato; e la donna di fatto è costretta a passare la vita con il suo
violentatore. Sarà una giovane siciliana, Franca Viola, nel 1965, la
prima a rifiutare pubblicamente il matrimonio riparatore – «nessuno
può costringermi ad amare una persona che non rispetto; l’onore lo
perde chi le fa certe cose, non chi le subisce» –, aprendo una via che
tante altre ragazze, non soltanto del Sud, hanno seguito.

C’è una sola donna cui Mussolini tiene davvero: la sua


primogenita. Prova tenerezza per l’ultima nata, Anna Maria, che a
sette anni viene colpita dalla poliomielite. Ma il suo vero amore è
Edda.
Da bambina la faceva addormentare suonando il violino. Angelica
Balabanoff la ricorda come una bambina denutrita. Ora che il padre è
il capo del governo, Edda vive una vita meravigliosa, al fianco del suo
nuovo fidanzato: Galeazzo Ciano, figlio di Costanzo, fascista della
prima ora, che ha ottenuto il titolo di conte di Cortellazzo (per la gioia
di oppositori e mugugnanti che coniano questi versi: «Galeazzo
Ciano/ conte di Cortellazzo/ Bella la rima in ano/ migliore quella in
azzo»).
Il Duce è gelosissimo. Facilita la carriera del genero, ma quando
scopre che la sera prima ha portato Edda in un locale notturno lo
aggredisce: «Il vostro gesto è deplorevole e inqualificabile!».
Le nozze si celebrano a Villa Torlonia. Anziché sotto manciate di
riso, gli sposi passano sotto un macabro arco di pugnali, sguainati in
loro onore dai moschettieri del Duce, in alta uniforme nera. Poi Edda,
indossato un abito sportivo, sale al volante di un’Alfa Romeo, con
Galeazzo al fianco, e parte, salutando romanamente. Mussolini
impazzisce. Spinge Rachele su un’altra auto e si getta
all’inseguimento. La figlia si diverte un poco, poi accosta: «Fin dove
vuoi arrivare, papà? Sei ridicolo e mangi solo polvere!». Soltanto lei
poteva trattarlo così. Lui abbozza: «Stavo già per tornare indietro…».

Si stava peggio quando si stava peggio


Il fascismo ha impoverito gli italiani, anche a causa di una politica
economica sbagliata.
La sterlina, moneta di riferimento in Europa, valeva 150 lire.
Mussolini impone quota 90. Si arresta l’inflazione, però si strozza lo
sviluppo. Il Duce di economia non sa niente; ragiona in termini di
prestigio; ma così crea un circolo vizioso di deflazione, restrizione del
credito, crollo della produzione industriale, caduta dei redditi agricoli.
L’ordine è onorare i debiti di guerra con gli americani e con gli
inglesi, i quali ovviamente apprezzano: anche così si spiega il favore
con cui talora si è guardato a un regime che ha stabilizzato l’Italia e
messo in riga gli italiani. Spesso i visitatori stranieri sono bene
impressionati, compreso il Cancelliere dello scacchiere (noi diremmo
il ministro dell’Economia): Winston Churchill. I conservatori
britannici non hanno grande stima di noi, ci considerano un popolo
inadatto alla democrazia; il bastone del Duce andrà benissimo.
L’economia ristagna. Certo, nel 1929 c’è il crollo di Wall Street, cui
segue una lunga crisi internazionale. Ma la politica monetarista è il
contrario di quella espansiva che servirebbe. I salari pubblici vengono
tagliati del 12%, quelli privati poco meno.
Ci sono anche mosse in controtendenza, come la creazione dell’Iri.
All’inizio l’Istituto per la ricostruzione industriale dovrebbe rilevare le
quote delle aziende possedute dalle banche in difficoltà, rilanciarle,
rivenderle; diventerà dopo la guerra uno dei volani del miracolo
economico, sia pure al prezzo di clientelismo, sprechi, corruzione. Ma
questa è un’altra storia.
Resta un dato: alla fine degli anni Trenta, gli italiani stanno peggio
che all’inizio degli anni Venti. Il fascismo non ha fatto il loro bene.
Nel 1939, ultimo anno di pace, i salari operai sono in valore reale
più bassi di quelli del 1922, ultimo anno di libertà. Le paghe dei
braccianti, secondo i calcoli dello storico Federico Chabod, sono
diminuite di un terzo. Non c’è da stupirsi: il fascismo ha abolito i
sindacati, il diritto di sciopero, la libera contrattazione tra le parti. Ma
anche i contadini e i piccoli proprietari, che restano la grande
maggioranza degli italiani, stanno peggio di prima.
Sono diminuiti i consumi di grano, di ortaggi, di carne, di grassi. Il
consumo dello zucchero si è ridotto di un quarto. È aumentato solo
quello del latte e del pesce. Il potere d’acquisto è diminuito. Il divario
tra i redditi degli italiani e quelli dei francesi e dei tedeschi è
nettamente cresciuto.
Quando poi il fascismo si avventurerà nelle guerre, dall’Etiopia alla
Spagna, il debito pubblico esploderà, l’inflazione comincerà a
galoppare.
Alla fine della seconda guerra mondiale, i risparmi degli italiani
non varranno più nulla.

Eppure, è sufficiente un giro anche veloce attraverso Roma, per


cogliere come la memoria del fascismo nella capitale d’Italia sia
tutt’altro che negativa. Il faccione del Duce occhieggia da molti muri,
il suo nome viene esaltato in più luoghi, dall’obelisco del Foro Italico
con l’incisione Mussolini Dux ai graffiti dei simpatizzanti
contemporanei.
L’elogio di Mussolini non è affatto raro anche nelle conversazioni in
società. Quasi sempre, a parlare di antifascismo si viene guardati
come patetici retori di un’Italia che non esiste più.
Il vero nostalgico è l’antifascista.
Roma, in realtà, non è una città di destra. Anzi, quasi sempre le
elezioni amministrative e politiche sono state vinte dalla sinistra. Però
è una città con una forte destra, che nel fascismo affonda le sue radici,
mai del tutto recise.
I motivi di questa diffusa riconoscenza di molti romani verso il
Duce sono vari. Il fascismo ha investito parecchio su Roma. Ha
dilatato i posti pubblici. Ha creato il parastato. Ha dato a Roma un
hinterland, con le borgate e le nuove città a sud della capitale. Ha
costruito stazioni, università, ospedali, l’Eur (terminato dopo la
guerra); anche se spesso il criterio ispiratore dell’edilizia fascista, più
che la bellezza o la qualità della vita, è la monumentalità, quindi la
propaganda. Roma è stata poi relativamente risparmiata dai
bombardamenti e dagli orrori della guerra, se non per i nove mesi
dell’occupazione nazista. (Va ricordato però, quando si fa il bilancio
dell’eredità «edilizia» del regime, che sul resto d’Italia i
bombardamenti hanno imperversato: alla fine della guerra dichiarata
dal Duce si conteranno due milioni di vani distrutti, un altro milione
danneggiato).
Inoltre, Mussolini ha rilanciato il mito di Roma, sia pure nelle
forme rozze e antistoriche dell’impero di cartapesta, con i fasci littori,
le parate, i tripodi, le aquile. Ha accentrato tutto nello Stato, e ha
messo Roma al centro, sia dal punto di vista amministrativo sia
simbolico. Lui stesso se ne vantava: «Noi abbiamo decapitato tutte le
piccole capitali d’Italia per fare di Roma la grande Roma imperiale,
l’anima immensa del mondo latino».
E poi il Duce ha demolito, proseguendo – ancora una volta –
un’operazione cominciata dai governi dell’Italia liberale. Sparisce ad
esempio la secolare Spina di Borgo, per aprire via della Conciliazione.
Spariscono le case attorno alla tomba di Augusto (dove Mussolini
vagheggia di essere seppellito lui, il più tardi possibile). E qui le
opinioni divergono. Modernizzare, ampliare; certo. Ma, alla luce della
sensibilità di oggi, abbattere interi quartieri antichi, anziché
recuperarli, appare un delitto; tanto più se lo si commette per
consentire alle truppe di sfilare al cospetto del dittatore.
La collina della Velia, con le sue costruzioni secolari, viene rasa al
suolo per aprire via dell’Impero, da Palazzo Venezia al Colosseo;
quattromila abitanti sono deportati nelle baracche delle periferie. Il
primo colpo di piccone è del Duce in persona, deciso a liberare Roma
«dalle anticaglie», a restituire alla capitale la grandiosità perduta. Non
un praticante in cerca di gloria, ma Ugo Ojetti, tra il 1926 e il 1927
direttore del Corriere della Sera, commenta: «È l’opera più vasta e
audace mai compiuta d’un solo impeto a Roma per liberare alla vista
monumenti antichi celebri nell’intero mondo. È in atto la volontà di
Benito Mussolini. Archeologi, architetti, soprastanti, manovali
lavorano, si può dire, per lui, aspettano la visita sua, le domande sue,
il consenso suo, quel sorriso che comincia in un lampo degli occhi e
talora si ferma lì». Per fortuna il Duce vigila: «Dalle sue finestre a
palazzo Venezia s’affaccia spesso a osservare le squadre che lavorano
al foro Traiano, e se gli sembra che siano più rade e più lente dopo un
attimo un suo messo piomba lì a svegliare i dormienti».

Le bonifiche e le cavie del Duce


Nel marzo 2019 è uscito un ottimo libro, scritto dallo storico Francesco
Filippi, con la prefazione di Carlo Greppi, e pubblicato da Bollati
Boringhieri: «Mussolini ha fatto anche cose buone». Il suo successo –
120 mila copie vendute – è un prezioso segnale in controtendenza
rispetto alla vulgata corrente.
Filippi smonta uno a uno i falsi miti sull’efficienza del regime. Il
Duce ha fatto le autostrade? Ma no, il regime realizzò brevi tratti, la
Milano-Laghi (progettata nel 1921), la Milano-Bergamo, la Napoli-
Pompei, e poi la Milano-Torino, a una sola corsia; ma la rete
autostradale è del dopoguerra, a cominciare ovviamente
dall’Autostrada del Sole. Il Duce ha dato le pensioni agli italiani? Ma
no, il primo sistema di protezioni pensionistiche è del 1895 con Crispi,
poi ampliato tre anni dopo da Pelloux, infine nel 1919 da Giolitti;
Mussolini fece riforme che servivano più che altro a legare il sistema
allo Stato, quindi a lui; «il fascismo non inventò la previdenza in Italia,
se ne impossessò» conclude Filippi. Il Duce ha sconfitto la mafia?
Diciamo che ne dichiarò la sconfitta, quando nel 1929 sollevò Cesare
Mori dall’incarico di prefetto di Palermo; in realtà la mafia fu
silenziata, le estorsioni derubricate a rapine, gli omicidi a delitti
d’onore.
Filippi smonta anche il mito più duro a morire: le bonifiche. Il
regime annuncia di voler risanare otto milioni di ettari. Dopo dieci
anni di lavori e di spese, proclama di aver bonificato quattro milioni
di ettari; in realtà, «erano effettivamente completi o a buon punto solo
i lavori su poco più di due milioni di ettari. Di questi due milioni, un
milione e mezzo erano bonifiche concluse dai governi precedenti il
1922». Il resto si farà dopo la guerra, con i soldi del piano Marshall. E
il Ddt stroncherà la malaria, che nel ventennio ha continuato a
imperversare.
Interessante il caso della piana di Terralba, in Sardegna. La bonifica
venne avviata da Giolitti e completata dopo la guerra. I lavori
proseguirono durante il fascismo, senza che fosse debellata la malaria;
il che non impedì al Duce di fondare una città il cui nome somigliasse
il più possibile al suo. Nacque così Mussolinia di Sardegna. Doveva
nascere pure, alla periferia di Caltagirone, Mussolinia di Sicilia,
ispirata a un’antica città romana: la prima pietra fu posata già il 12
maggio 1924, alla presenza del Duce, che si informava di continuo sui
lavori. Purtroppo il progetto si incastrò in una storia di tangenti e in
una faida tra i capetti locali. Il cantiere fu abbandonato. Nel 1927 un
nuovo commissario tentò di riaprirlo, ma il Duce offeso comunicò che
non voleva più saperne. Mussolinia di Sicilia vive oggi solo nelle
pagine di Sciascia e di Camilleri, entrambi ispirati da quella storia di
vanagloria e di impotenza, una delle tante metafore del regime. Anche
se purtroppo, dietro la farsa, la storia del Duce cela sempre anche la
tragedia.

Mussolini si fece personalmente promotore di una tragica


operazione che merita di essere raccontata, anche perché anticipa gli
esperimenti nazisti su cavie umane. Con una differenza: i nazisti li
conducevano sui loro nemici o coloro che ritenevano tali; il fascismo
su contadini italiani. Inermi e inconsapevoli.
È una pagina nera e poco conosciuta della nostra storia, rivelata da
uno storico di Yale, Frank M. Snowden, che ha studiato la battaglia
contro la malaria.
Anche di medicina, come di economia, Mussolini non sa nulla. Ma
nel 1925 autorizza due medici, Giacomo Peroni e Onofrio Cirillo, a
condurre una sperimentazione su centinaia di persone. I due, a
differenza di altri ricercatori, non sono esperti di malaria; ma sono di
provata fede fascista e hanno – in particolare Peroni – un rapporto
diretto con il Duce.
L’indagine comprende due procedure moralmente ripugnanti, in
contrasto con l’etica di qualsiasi medico. La prima consiste nel non
somministrare il chinino, un farmaco efficace e facilmente reperibile, a
un gruppo di pazienti affetti da gravi forme di malaria; la seconda
consiste nel somministrare il mercurio al posto del chinino, sia per la
terapia, sia per la profilassi, contro l’opinione dell’intera classe medica
e gli avvertimenti del Consiglio Superiore di Sanità.
Dai primi del Novecento si sa che il mercurio non cura la malaria,
aumenta le sofferenze dei malati e spesso li porta alla morte. Il dottor
Peroni ha già tentato esperimenti con il mercurio durante la prima
guerra mondiale, ed è stato fermato. Ma stavolta si muove
personalmente il Duce, e lui viene autorizzato all’esperimento su
duemila uomini, impegnati nelle bonifiche di Stornara e Santeramo, in
Puglia, e di Alberese, in Toscana.
I lavoratori sono suddivisi in due gruppi. Il primo viene fatto
infettare intenzionalmente, evitando di somministrare il chinino e
sottoponendo quei poveri disgraziati a un duro lavoro all’aperto
durante la stagione malarica. Al secondo gruppo viene iniettato il
mercurio per via intramuscolare; in parte come prevenzione, in parte
alla comparsa dei primi sintomi di malaria. Il criminale esperimento si
protrae senza interruzioni per quattro anni.
I dati pubblicati sono del tutto imprecisi; ma il regime per un po’
grida al successo. Nel 1930 il Consiglio Superiore di Sanità può
effettuare un’indagine indipendente: i risultati sono terrificanti. I
ricercatori affermano con certezza quel che già si sapeva: il mercurio
non fornisce alcuna protezione contro la malaria. Non sappiamo però
quante persone nel frattempo abbiano perso la vita, tra sofferenze
terribili e inutili.

Durante la bonifica delle paludi pontine, il regime dà un’altra


dimostrazione del suo assoluto disinteresse al dolore delle persone
comuni. La manodopera viene reclutata tra i disoccupati, che dopo la
crisi del ’29 non mancano. Si arriveranno a contare 124 mila addetti:
un’enorme forza lavoro a basso costo, priva di qualsiasi tutela
sindacale, sottoposta a turni massacranti in zone ad altissimo rischio
malarico, senza assistenza sanitaria, senza alcuna misura protettiva. Si
dorme in baracche prive di zanzariere, o all’addiaccio. Inevitabilmente
le vittime saranno molte; e nulla viene fatto per limitarne il numero.
Molti anni dopo uno dei tecnici della bonifica, l’ingegner Francesco
D’Erme, esperto di idraulica, testimonierà: «Conosco, come chiunque
altro sia ancora vivo, la storia della bonifica dell’Agro Pontino, e so
che moltissimi lavoratori impiegati nel progetto morirono per varie
cause, soprattutto incidenti e malattie. Se ci limitiamo a citare i decessi
per malaria, i lavoratori che perirono per quest’unica causa furono
non meno di tremila. Tuttavia Mussolini era del tutto indifferente al
loro destino, quanto meno in privato. Affermava che i bonificatori
erano soldati e il compito del soldato era morire in battaglia. In
pubblico però, il Duce si vantava del fatto che meno di un centinaio di
lavoratori era morto nell’attuazione del progetto».
Ma gli esperimenti del regime su cavie umane non sono finiti. Nel
1933 Gruaro è un piccolo Comune della provincia di Venezia, quasi al
confine con il Friuli. La posizione decentrata e la povertà degli abitanti
ne fanno un laboratorio ideale. I bambini di Gruaro sono scelti per
testare un nuovo vaccino contro la difterite. In realtà un vaccino esiste
già, provato e sicuro; ma è di produzione estera, e richiede tre diverse
somministrazioni. Il Duce vuole subito un vaccino autarchico, che
richieda una sola dose e costi meno.
Il medico del paese è contrario; ma non gli si dà retta. I sacerdoti
subiscono pressioni per convincere i parrocchiani ad accettare
l’esperimento. La preparazione del test è del tutto approssimativa:
uno dei contenitori del vaccino, arrivato da un laboratorio di Napoli,
non è stato trattato in maniera appropriata; il batterio viene iniettato
ancora attivo.
I risultati purtroppo arrivano rapidamente. Un bambino di tre anni
inizia a non muovere più le gambe. Ben presto i casi di paralisi
diventano sempre più frequenti tra i piccoli che il regime ha usato
come vere e proprie cavie umane. Alla fine, ventotto bambini
muoiono in seguito all’esperimento, e decine di altri subiscono
menomazioni più o meno gravi, inclusi casi di paralisi permanente.
Quando il regime se ne rende conto, si preoccupa soprattutto di
censurare la notizia. Le voci vengono cancellate: nessuna inchiesta,
nessun colpevole. Le famiglie saranno tacitate ognuna con settemila
lire, circa ottomila euro: molto per una comunità contadina;
pochissimo per una giovane vita. Le famiglie accettano, e la strage
viene dimenticata. Sino a quando alcuni bravi giornalisti della stampa
locale inizieranno a mobilitarsi, affinché restasse memoria di un
capitolo minore, ma non per questo meno significativo, del fascismo.
Sette
Il repressore
Botte, galera, confino e polizia segreta

C’è una cosa in cui Mussolini obiettivamente ha successo. C’è un


settore in cui il regime si dimostra efficiente. È la repressione.
Viene istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, cioè
del regime, cioè del Duce. Al tribunale vengono deferiti 15.086
antifascisti, di cui 5619 finiscono sotto processo. La prima sentenza è
del febbraio 1927, l’ultima del luglio 1943. Si contano 4596 condanne al
carcere e circa diecimila al confino, oltre a 160 mila ammoniti. Le
condanne a morte eseguite sono trentuno.
La percentuale delle sentenze di condanna – 81% – è altissima,
considerato che le accuse non riguardano quasi mai atti di violenza,
ma militanza clandestina e diffusione di giornali proibiti.
Spesso si tende a dire che sono cifre basse. Ma molti altri antifascisti
vengono giudicati direttamente dalle commissioni di partito. Altri
ancora sono condannati dai tribunali ordinari: i giudici di Savona che
danno a Rosselli il minimo della pena rappresentano l’eccezione; nella
grande maggioranza dei casi le sentenze sono durissime. Nel suo
coraggioso libro «Stirpe e vergogna», Michela Marzano racconta del
nonno, giudice fascista, che applica il massimo della pena a un gruppo
di contadini che in osteria, dopo una cena, hanno cantato Bandiera
rossa. Durante il regime, in effetti, accade di finire in galera per un
bicchiere e una canzone di troppo. Succede ad esempio a Sestilio
Gamboni e a Leo Bartocci, due operai di Pietralata, una borgata di
Roma, che una sera per strada hanno avuto la cattiva idea di intonare:
«Avanti popolo, alla riscossa…».
Ogni tanto a qualcuno scappa di dire, dopo aver bevuto, cose che
da sobrio non direbbe mai. Un manovale disoccupato di Primavalle,
Guglielmo Tocchetti, viene sorpreso a parlare male del Duce da un
caposettore del fascio sull’autobus 236. La storia promette bene:
Tocchetti confessa di appartenere a una pericolosa associazione
sovversiva che conta 4500 iscritti a Trastevere, 7800 a San Lorenzo e
settemila lì a Primavalle. Peccato che l’uomo sia palesemente ubriaco.
Nel dubbio, lo mandano lo stesso al confino.
Vengono colpiti soprattutto i ceti popolari: quasi quattromila tra gli
imputati che compaiono davanti al Tribunale speciale sono operai o
artigiani. Prima disseminati in varie carceri, dopo il 1932 vengono
concentrati a Fossano, Castelfranco Emilia, Civitavecchia. Il viaggio lo
fanno in catene.
Le istruttorie sono molto lunghe: tanto il Duce può aspettare; gli
imputati sono quasi sempre in galera o al confino. In compenso, il
processo è brevissimo: due o tre giorni al massimo; talvolta bastano
poche ore.
Le istruttorie sono segrete, sino a poco prima del processo gli
imputati non sanno nulla delle accuse; quando poi compaiono in aula,
tutto è già deciso.
La forma però è solenne. Si deve trasmettere un segnale forte,
incutere timore. Ogni dettaglio deve manifestare la potenza dello
Stato totalitario, o autoritario che sia. Le sedute si tengono nella
grande aula IV del Palazzo di Giustizia di Roma. I giudici scelti tra i
capi della Milizia sono in alta uniforme con decorazioni; solo i pochi
giudici tratti dalla magistratura ordinaria o militare portano la toga. Il
pubblico e i giornalisti sono selezionati con attenzione.
La procedura è sbrigativa. Rari i testimoni a discarico: possono
essere a loro volta incriminati, e magari manganellati all’uscita. Gli
avvocati difensori vengono spesso intimiditi. Altre volte sposano le
tesi dell’accusa, con cui talora sono apertamente conniventi.
L’avvocato difensore di Tito Zaniboni, il socialista che voleva uccidere
Mussolini, era in realtà un agente dell’Ovra.
L’ordine è evitare che l’oppositore possa approfittare dell’occasione
per contestare il tribunale, il regime, il Duce. Emilio Lussu testimonia
che «ai fianchi di ogni imputato vengono collocati due carabinieri, con
la precisa consegna di imbavagliare chi tenti profanare la solennità
della giustizia con dichiarazioni irriverenti». Il 30 novembre 1929
Sandro Pertini viene pestato in aula perché, sorprendendo i
carabinieri di guardia, riesce a gridare prima della sentenza: «Abbasso
il fascismo! Viva il socialismo!».
L’argomento dei difensori di Mussolini è noto: Hitler e Stalin ne
incarcerarono e ne uccisero un numero incomparabilmente superiore.
Ed è vero. Non ci è di nessun imbarazzo riconoscerlo. Ma a noi è
toccato il fascismo.
C’è un dettaglio, semmai, che ci sfugge. Oggi noi sappiamo che il
regime sarebbe caduto il 25 luglio 1943, dopo una guerra perduta. I
carcerati però non lo sapevano. Per loro la dittatura non aveva una
data di scadenza, né Mussolini una data di morte. Pensavano invece
di dover scontare la lunga pena detentiva sino all’ultimo giorno. In
ogni caso, finire nel mirino delle camicie nere significava botte,
umiliazioni, perdita del lavoro, fame per sé e per la propria famiglia:
in una parola, la morte civile.

Cos’era davvero il confino


Altro che vacanza. Il confino era spesso una variante del carcere. Con
un isolamento certo più pesante di quello inflitto ai detenuti di oggi.
Sull’isola di Ventotene viene creata una cittadella per i confinati,
con una caserma per le guardie e dodici padiglioni per gli antifascisti,
veri e propri prigionieri. Ogni padiglione è diviso in due camerate,
con venticinque brandine allineate su due file e bagni in comune. C’è
una mensa per i socialisti, due per gli anarchici, sette per i comunisti.
Alle 21 in estate, alle 18 in inverno i carcerieri staccano l’elettricità e
sprangano le porte: si resta al buio e non si può uscire sino al mattino
dopo. Di giorno, il carcerato può passeggiare sull’isola, ma soltanto
lungo un percorso segnato da cartelli e filo spinato. Vietato parlare
con gli isolani, vietato entrare nei locali pubblici se non per pochi
minuti, vietato parlare di politica, vietato ascoltare la radio, vietato
scrivere, tranne una sola lettera alla settimana, massimo 24 righe,
soggetta alla censura.
Il confinato doveva essere dimenticato dalla società, meglio se
anche dalla sua famiglia.
Fu in queste condizioni che nel 1941, mentre in Europa infuriava la
guerra e pareva che i nazisti la stessero vincendo, tre antifascisti
confinati a Ventotene – Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio
Colorni – scrissero il manifesto in cui prefiguravano un’Europa unita,
nella convinzione che solo un patto tra i popoli del continente avrebbe
posto fine per sempre ai conflitti armati. Sarà Colorni a stampare e
diffondere il Manifesto di Ventotene nella Roma occupata dai nazisti.
Verrà scoperto e ucciso per strada dalla banda Koch, alla fine del
maggio 1944, pochi giorni prima della liberazione della capitale.

Anche negli altri luoghi di confino, sulle isole o nei paesi sperduti
dell’Appennino abruzzese, lucano, calabrese, la vita degli antifascisti è
durissima. Il trasferimento avviene in catene, a volte attraverso mezza
Italia, con lunghi e penosi tragitti in treno, affinché sia chiaro che i
confinati sono di fatto prigionieri. All’arrivo vengono loro sottratti i
documenti, sostituiti da un libretto con le generalità, da mostrare
durante il soggiorno coatto. Possono muoversi soltanto a certe ore e
lungo certi percorsi, sempre sotto sorveglianza. Non possono stringere
nessuna relazione con gli abitanti del posto, se non per lo stretto
necessario. Qualche fortunato, come Carlo Levi, può affittarsi una
casetta. Altri stanno tutti insieme dentro grandi dormitori, in
condizioni igieniche pietose. Non ci sono cure mediche.
Alcuni divieti sono chiaramente vessatori e crudeli. Proibito
possedere un mazzo di carte, scrivere lettere tranne quella famosa alla
settimana, parlare una lingua straniera, avere in tasca più di cento lire,
parlare di politica, commentare fatti d’attualità, entrare in un bar,
andare al cinema o a teatro. Serve l’autorizzazione anche per entrare
in chiesa a pregare.
I confinati non possono lavorare. Per non farli morire di fame, il
regime passa loro una piccola cifra, detta «la mazzetta», che allo
scoppio della seconda guerra mondiale viene dimezzata. Molti la
mettono in comune, per cercare di procurarsi tutti insieme qualche
razione di cibo decente. La situazione è particolarmente drammatica
per operai e contadini, che hanno lasciato le famiglie nella miseria
assoluta.
Con un misto di narcisismo e volgarità d’animo, il Duce alla
Camera rivela che molti confinati politici gli hanno scritto «per
implorare mercé». Il suo non è terrore; «è igiene sociale, profilassi
nazionale. Si levano quegli individui dalla circolazione come un
medico toglie dalla circolazione un infetto». Poi, rivolgendosi
idealmente agli antifascisti, grida con la mascella di fuori: «Sepolcri
imbiancati! Siete sepolcri pieni di fetido elemento!».

La polizia che non c’è: l’Ovra


Formalmente, l’Ovra non è mai esistita. Questo consente ancora oggi
ai tanti sostenitori e ai tantissimi difensori del Duce di dire che il
regime non aveva una polizia politica segreta. Invece l’aveva, ed è
stata tra le più efficienti di cui una dittatura abbia mai potuto
disporre.
L’obiettivo è la difesa di Mussolini. Della sua persona, e della sua
immagine.
Già nel 1925 è stato introdotto il reato di offesa al Duce. I colpevoli
sono puniti con il carcere e con una multa. Il codice penale riformula
poi il reato e inasprisce la pena, da uno a cinque anni di reclusione;
infine il codice militare di pace lo accresce ancora, da tre a dodici anni.
Almeno cinquemila italiani vengono denunciati per aver parlato male
del Duce: trecento finiscono in prigione, oltre millecinquecento al
confino, gli altri sono ammoniti o diffidati.
Mussolini concepisce l’idea di creare un ispettorato di polizia
politica già nel 1926. L’artefice sarà il capo della polizia, nominato il 13
settembre di quell’anno: Arturo Bocchini.
Bocchini non è considerato un’anima nera. E in effetti non mette nel
suo lavoro alcuna carica ideologica. Ma è un uomo spietato: quando il
14 aprile 1929 Sandro Pertini viene arrestato a Pisa, sebbene sia malato
è subito spedito al confino a Ponza, anziché in ospedale. «Niente
ricovero. È un irriducibile» sentenzia Bocchini. Dal suo punto di vista,
ha ragione. Pertini arriverà a rimproverare la madre, cui è legatissimo,
perché ha implorato la clemenza del Duce, senza avvertirlo.
Bocchini non è un fanatico; è un abile funzionario al servizio del
potere; e finisce per accumularne moltissimo, al punto da essere
soprannominato il viceduce. Ha totale copertura politica, massima
libertà d’azione, e soprattutto libero accesso al capo. Mussolini lo
incontra regolarmente, ne ascolta i rapporti e i pettegolezzi, e lo
accontenta in tutto; a cominciare dai soldi.
I fondi per la polizia vengono subito quintuplicati, e cresceranno
per tutto il tempo della dittatura. Inoltre Bocchini può disporre di un
fondo segreto da 500 milioni di lire, oltre 400 milioni di euro: un
autentico tesoro, che amministra di persona. Il Duce teorizza:
«Signori, è tempo di dire che la polizia non va soltanto rispettata, ma
onorata. Signori, è tempo di dire che l’uomo, prima di sentire il
bisogno della cultura, ha sentito il bisogno dell’ordine. In un certo
senso si può dire che il poliziotto ha preceduto nella storia il
professore … Io devo assumermi il compito di governare la nazione
italiana ancora da dieci a quindici anni. È necessario. Non è ancora
nato il mio successore».
Bocchini è scaltro. Convince il Duce che la sua augusta persona è in
pericolo. Conosce e nutre la sua ossessione per la sicurezza. Non
soltanto gli organizza una scorta imponente, «la Presidenziale»: 500
uomini, un terzo carabinieri, un terzo poliziotti, un terzo miliziani in
camicia nera. Alimenta anche le paranoie del dittatore. Come ha
testimoniato Guido Leto, messo proprio da Bocchini a guidare la
divisione di polizia politica del ministero dell’Interno, il capo «fu
sempre attentissimo alle voci, anche le più inverosimili e stravaganti,
che si riferissero a propositi violenti contro Mussolini»; al punto che
molti informatori avevano compreso «il lato debole della situazione»,
e «si sbrigliavano con frequenza nel concepire piani per uccidere
Mussolini».
Fin dall’inizio, Bocchini ha capito che l’Italia è ormai uno Stato di
polizia; e questo per la polizia è un ottimo affare. L’obiettivo è evitare
che le opposizioni possano riorganizzarsi, in patria e all’estero. E il
primo modo per riuscirci è incutere timore, reclutare spie ovunque,
dare l’impressione che chiunque può essere ascoltato; e nello stesso
tempo muoversi con discrezione, in modo da non suscitare troppe
proteste dai Paesi democratici.
Anche all’estero, però, la polizia di Bocchini dimostra la sua
efficienza. I fuoriusciti e le loro organizzazioni sono regolarmente
infiltrati; quando qualche antifascista prova a rientrare in patria, molto
spesso trova gli agenti del regime ad attenderlo; non a caso si sparge
la voce che la missione suicida di tornare in Italia tocchi più facilmente
ai dissidenti, ad esempio ai comunisti antistaliniani.

L’aspetto più inquietante, e per certi versi geniale, è che la nascita


dell’Ovra non sarà mai ufficializzata, e proprio questo alone di
mistero contribuirà a renderla temuta. Il primo ispettorato di polizia
politica del 1926 si estende e si ramifica, e nel 1930 rappresenta ormai
una struttura a sé.
Nessuno ha mai capito bene però che cosa il nome Ovra volesse
dire. Sono state tentate molte spiegazioni, nessuna convincente; forse
perché spiegazione non c’è. Lo stesso Bocchini sosteneva che la sigla
Ovra fosse stata un’invenzione giornalistica di Mussolini, forse scelta
per assonanza leggendo un comunicato di polizia in cui si parlava di
una rete antifascista che «si stende come una piovra sull’intero
territorio del Regno». Di certo la sigla prende piede rapidamente,
anche perché la cita il Popolo d’Italia, ad esempio il 3 dicembre 1930:
«La Sezione speciale OVRA della direzione generale di P.S., dipendente
direttamente dal ministero dell’Interno, ha scoperto
un’organizzazione clandestina che ordiva delitti contro il regime,
alcuni dei quali dovevano avvenire in occasione dell’ottavo annuale
della marcia su Roma…».
Qualunque cosa significasse il suo nome, l’Ovra è un’arma potente
nelle mani del Duce, presente in modo capillare su tutto il territorio,
diviso in dieci zone. Anche se gli agenti provengono in buona parte
dalla polizia, il loro lavoro di investigazione e di repressione è tenuto
nascosto anche alle questure, almeno fino ai fermi e agli arresti dei
sospettati. Le reti antifasciste vengono smantellate più volte, in
particolare quella comunista, considerata la più pericolosa.
Le spese sono illimitate, assoluta la libertà d’azione, compreso il
ricorso alla violenza e alla tortura. A Perugia nel 1928 muore sotto le
sevizie nelle camere di sicurezza dell’Ovra il comunista Gastone
Sozzi. Il fratello dello scrittore Ignazio Silone, Romolo Tranquilli,
accusato ingiustamente di aver preso parte all’attentato dinamitardo
contro il re alla Fiera campionaria di Milano, viene selvaggiamente
torturato: non si riprenderà più, morirà nel 1932 nel carcere di
Procida, a ventotto anni.
L’Ovra è così importante da distrarre fondi e uomini alla lotta alla
criminalità e alla mafia. Non è vero che nel ventennio non si rubi, non
si stupri, non si uccida, non si paghi il pizzo. Semplicemente, non se
ne dà notizia. I poliziotti non ne informano i giornalisti, e i giornalisti
anche se fossero informati non ne scriverebbero. Tutti, in patria e
all’estero, devono sapere, o almeno pensare, che l’Italia è tranquilla, e
tutto è sotto controllo.
Mussolini si compiace, e incarica Bocchini, già che c’è, di tenere
d’occhio pure eventuali dissidenze interne al regime: è nota la
passione del Duce per gli scandali, le ruberie, gli amori dei gerarchi,
compresi i brogliacci delle intercettazioni telefoniche; non tanto per
punire, quanto per accumulare armi di ricatto.
Dedito alla bella vita, smodato nel mangiare e nel bere, Bocchini
muore per un ictus nel 1940. La fine è degna di una novella del
Boccaccio: la sua amante, di trent’anni più giovane, convoca al
capezzale due medici affinché facciano da testimoni, e l’arcivescovo
Angelo Lorenzo Bartolomasi, assistente spirituale dei balilla, perché
celebri le nozze con il moribondo. L’obiettivo ovviamente è mettere le
mani sul suo notevole patrimonio. Bocchini spira nella notte tra il 19 e
il 20 novembre. Per il funerale arrivano da Berlino, commossi, due
suoi sinceri ammiratori: Reinhard Heydrich, famigerato capo delle SS,
che morirà in seguito all’attentato dei patrioti cecoslovacchi a Praga
nel 1942, e Heinrich Himmler, capo della sicurezza del Terzo Reich,
suicida con il cianuro per evitare di essere impiccato a Norimberga.

«Il Duce deve morire»


A un certo punto si pensò che l’unico modo per sconfiggere il Duce
fosse ucciderlo. Ma, tranne alcune eccezioni, si trattò di pasticci più
che di complotti. Progetti di giovani anarchici, più romantici che
violenti. Ma perfetti per consentire al regime di mostrare la faccia
feroce. Tanto da destare qualche sospetto sull’autenticità delle
confessioni, spesso strappate a botte. Di sicuro, a volte vennero punite
con la pena capitale non gli attentati, non i preparativi, ma le
intenzioni, o meglio le velleità.
Michele Schirru è un ragazzo del ’99. Sardo, di famiglia popolare,
diventa socialista al fronte. Dopo la guerra è a Torino, partecipa
all’occupazione delle fabbriche. Deluso dalla sconfitta, nel 1920 emigra
in America: meccanico a Pittsfield, Massachusetts; venditore di frutta
a New York. Alcune foto ce lo mostrano come un bel ragazzo, capelli
scuri e occhi chiari.
Michele si sposa con un’americana, ha due figli, ma non rinuncia
alle proprie idee. Nel tempo libero lavora nella redazione
dell’Adunata dei Refrattari, un giornale su cui scrivono diversi
anarchici sardi. Si scontra con gli italoamericani fascisti, partecipa alle
proteste contro la condanna di Sacco e Vanzetti. È allora che matura in
lui l’idea di tornare in patria per uccidere Mussolini. Il suo mito è
Gaetano Bresci, l’anarchico regicida, che nel 1900 è rientrato
dall’America per uccidere Umberto I e vendicare così le cannonate con
cui il generale Bava Beccaris aveva «sfamato col piombo» i popolani
milanesi.
Per un anno, il 1930, Schirru viaggia tra Milano e Parigi, indeciso
sul da farsi. In Francia entra in contatto con Giustizia e Libertà, in
particolare con Emilio Lussu, che nel gennaio 1931 lo accompagna alla
Gare de Lyon, da dove l’anarchico parte con due bombe artigianali. È
cittadino americano, riesce a entrare in Italia con una certa facilità.
A Roma prende una stanza all’hotel Royal di via XX Settembre,
lungo il tragitto che Mussolini percorre ogni mattina per andare da
Villa Torlonia a piazza Venezia, ma non riesce mai a intercettarlo.
Esclude di far esplodere le bombe durante un evento pubblico, per
non causare vittime innocenti. Comincia a scoraggiarsi; inoltre è
distratto dall’incontro con una bellissima ballerina ungherese, Anna
Lukowski. Anche per questo sembra avere ormai rinunciato ad
assassinare il Duce, come confermerà lo stesso Guido Leto, braccio
destro di Bocchini: «Era chiaro, per una serie di elementi, che Schirru
aveva già da tempo desistito dal proponimento maturato in America».
Lo arrestano il 3 febbraio 1931, mentre è in albergo con Anna.
Durante la colluttazione è ferito al volto da un colpo di pistola.
Interrogato, probabilmente torturato, ammette di aver avuto
l’intenzione di attentare alla vita del dittatore ma, consapevole delle
difficoltà, aveva oramai rinunciato e stava per tornare in America.
L’occasione per dare un esempio e compiacere il capo, però, è
irresistibile. Si riunisce prontamente il Tribunale speciale; il presidente
Guido Cristini apre il processo il 27 maggio 1931. Cristini è un amico
personale del Duce: era tenente nello stesso reggimento di bersaglieri
in cui Mussolini era caporale. Soprannominato dal suo biografo Pablo
Dell’Osa «la jena del Tribunale speciale», in quattro anni Cristini
infligge 1725 condanne, 8806 anni di carcere e nove condanne a morte,
tutte eseguite.
Schirru ha il volto deturpato dalle ferite. La sentenza arriva nel giro
di ventiquattr’ore: morte. Motivazione: «Chi attenta alla vita del Duce
attenta alla grandezza dell’Italia, attenta all’umanità, perché il Duce
appartiene all’umanità». Sono le stesse assurdità giuridiche che
verranno introdotte in Germania per proteggere la figura del Führer.
In realtà, Schirru non ha fatto nulla di concreto. Ma il Tribunale
speciale non prevede appello e il giorno dopo, il 29 maggio 1931, alle 4
e 27, viene eseguita la sentenza di morte. Tutto in tre giorni.
Mussolini pretende che siano 24 camicie nere sarde a presentarsi
volontarie per la fucilazione, come a lavare l’onore dell’isola. La
sorella, fervente fascista, chiede di cambiare cognome. Schirru si
comporta con coraggio e davanti al plotone d’esecuzione grida: «Viva
l’anarchia, viva la libertà, abbasso il fascismo!».
La stampa ne dà notizia, ma l’indicazione è di non esagerare: la
vicenda va chiusa in fretta; nessuno in fondo vuole davvero male al
Duce, se non qualche matto isolato. Tutti i giornali plaudono alla
sentenza, assicurando che gli antifascisti in futuro verranno colpiti
ancora più duramente. Tutti, eccetto uno. L’Osservatore Romano, il
quotidiano del Papa, scrive che è stato fucilato l’anarchico Schirru
«reo di aver avuto l’intenzione di uccidere il capo del governo
italiano». Il Duce si irrita assai e protesta con il Vaticano: qualcuno ha
osato far notare che in Italia si mette a morte la gente non in base ai
fatti, ma appunto alle intenzioni.

La stessa sorte avrà un altro anarchico, Angelo Sbardellotto. Quinto


di undici fratelli di una famiglia poverissima, è costretto a lasciare la
sua Belluno per emigrare all’estero: Francia, Lussemburgo, infine
Belgio, dove lavora come minatore. Prima di partire ha visto con i suoi
occhi la violenza fascista. Non aveva ancora quindici anni quando è
rimasto profondamente turbato dall’uccisione del socialista Edoardo
Mattia, per mano dei fascisti, il primo maggio 1922.
In miniera diventa anarchico. La madre, devota cattolica, lo invita a
tornare: è stato chiamato al servizio di leva. Angelo le risponde che
non vuole, perché è contrario al fascismo; ma la madre, analfabeta, si
fa leggere la lettera dalla maestra del paese, che segnala Sbardellotto
alla polizia. L’Ovra lo scheda.
Della sua vicenda non si sa molto. Alcune fonti affermano che
Sbardellotto torna in Italia e tenta per due volte di avvicinare il Duce,
senza riuscirci. Non è chiaro chi gli abbia fornito la rivoltella e
l’ordigno con cui viene arrestato il 4 giugno 1932 a Roma,
all’apparenza per caso, a causa di un passaporto falso. Viene
sottoposto a interrogatori durissimi, quasi certamente seviziato. A
quel punto confessa, ammettendo la propria identità e raccontando un
complicato intrigo per un attentato a Mussolini che lui stesso avrebbe
dovuto eseguire.
L’istruttoria dura solo due giorni, tra l’11 e il 13 giugno 1932. Pare
che anche Sbardellotto, come Schirru, dichiari di aver rinunciato a
gettare una bomba per non colpire la folla.
L’udienza finale, il 16 giugno, comincia alle 9. Alle 11 e un quarto è
già finita. La camera di consiglio che decreta la condanna a morte
dura dieci minuti. Con lui sarà giustiziato un altro antifascista,
Domenico Bovone, che ha avuto la casa distrutta e la madre uccisa
dall’esplosione della bomba con cui progettava di eliminare il
dittatore.
All’alba del 17 giugno, Sbardellotto è fucilato a Forte Bravetta. Ha
25 anni. Gli propongono di chiedere la grazia; rifiuta. Gli chiedono se
vuole un prete. Rifiuta anche quello.

Il mugugno del popolo


Non soltanto organizzare un’opposizione in modo duraturo è di fatto
impossibile; anche lamentarsi è difficile. Soffocato il grido del popolo,
il Duce vorrebbe cancellarne pure il mugugno. Persino parlare male
del governo, attività secolarmente tollerata, diventa un reato. Di
conseguenza, anche piccoli gesti privi di significato politico vengono
considerati segni di diffidenza (i burocrati del regime dicono
«refrattarietà»). Ad esempio, molti rifiutano la monetina da venti lire
con la scritta «meglio vivere un giorno da leone che cento anni da
pecora»; la voce popolare dice che porta sfortuna.
A Torino, nel linguaggio degli operai i fascisti sono i «moru», i neri,
e Mussolini diventa «cerüti». Le frasi solenni tracciate dalla
propaganda sui muri delle case vengono riscritte: «W il Duce che alla
vittoria ci conduce» diventa «W il Duce che alla morte ci riduce». I
giochi di parole si diffondono attraverso biglietti o frasi incise sui
«luoghi di decenza», come vengono definiti nei rapporti della
questura.
Quando Mussolini dichiara guerra a Francia e Inghilterra, e
annuncia la parola d’ordine: «Vincere! E vinceremo», nelle fabbriche
di Torino compaiono scritte più realiste. Alla Fiat Ricambi: «Perdere! E
perderemo». In un gabinetto del reparto manutenzione della Fiat di
via Cigna: «Vincere! Vinceremo?». Nel gabinetto del reparto 82 della
Fiat Mirafiori: «Vincere, eterna illusione». La questura annota che «il
capo officina Giovanni Garino della Carburatori Zenith sta
dileggiando le istituzioni del regime, col chiamare la Gioventù italiana
del littorio (Gil) “Gioventù incretinita lentamente”»; e, più
significativamente, «l’accusato molto spesso faceva cancellare le scritte
sovversive che si rinvenivano nella fabbrica senza riferirne al
direttore». Alcune rime vengono interrotte a metà, forse dall’arrivo
della polizia o di un passante: «Qui giace Starace Vestito di orb(ace)»;
«15 anni di fascismo e 2 di impero si m(angia pane nero)».
A San Lorenzo, il quartiere attraversato e punito dai fascisti nei
giorni della marcia su Roma, l’ostilità al regime è evidente. Il punto di
riferimento resta Renato Gentilezza, il vecchio comandante del
battaglione degli Arditi del popolo. Elettricisti, fabbri, meccanici
hanno mantenuto l’abitudine di ritrovarsi per commentare i fatti del
giorno e scambiarsi notizie pubblicate sui giornali stranieri, liberi dalla
censura. Ci si vede nell’osteria di via degli Equi o nell’officina di via
dei Marsi, dove lavora Giuseppe Mattiocco, comunista. Arriva la
polizia, in dieci vengono arrestati e spediti al confino.
Un altro quartiere ribelle è la Garbatella, in particolare gli Alberghi,
case popolari dove gli sfrattati dal centro dopo gli sventramenti del
regime dovrebbero vivere temporaneamente, in attesa di una
sistemazione. Già allora in Italia nulla è più definitivo del provvisorio;
così gli abitanti degli Alberghi finiscono nella lista dei sovversivi,
divisi in tre categorie di pericolosità. Però ci sono anche i delatori, che
denunciano gli antifascisti o anche solo i mugugnanti al Tribunale
speciale.
La maggior parte degli sfrattati finisce nelle borgate, che spesso
sono ancora fatte di baracche. Prive di tradizione politica, abitate
sovente da disoccupati, da una parte sono un incubatore naturale
della protesta, dall’altra sono esposte alla delazione. C’è un
approfondito studio dello storico Luciano Villani, ricercatore alla
Sapienza e alla Sorbona, dedicato appunto a «Le borgate del fascismo»
(Ledizioni). È una miniera di piccole storie, che ci aiutano meglio a
capire come si viveva alla periferia della capitale del Duce.
A Primavalle, Alessandro Caccianti si presenta al lavoro con il
fazzoletto rosso: viene confinato a Pisticci, Matera. Alla borgata
Gordiani, un operaio della Snia Viscosa avverte i compagni dei
pericoli per la salute: «Il capo dello Stato non provvede al benessere di
chi soffre e altrettanto fa quel rinnegato di Mussolini» mormora; viene
confinato pure lui. Filippo De Cupis, meccanico, è trovato «in
possesso di stampa sovversiva»: cinque anni a Lipari, poi ridotti a tre;
ma siccome è un irriducibile, allo scoppio della guerra lo mandano
altri tre anni a Ventotene. Alla Breda di Torre Gaia si tenta uno
sciopero, represso con una retata: arrestato il capo, l’operaio Francesco
Abiuso, per «disfattismo politico».
Finire nel mirino del regime significa perdere casa e lavoro. Non c’è
da stupirsi se molti si rivolgono al commissariato, per farsi cancellare
dalle liste dei sorvegliati politici, e anche per chiedere la tessera del
partito e trovare così un impiego.
Semplici discussioni da bar finiscono in tribunale e hanno il loro
epilogo in carcere. Un socialista, Cesare Stampanoni, colto durante
una «conversazione sospetta» in trattoria, viene redarguito da un
fascista. Gli risponde che «il partito non è lo Stato». Viene denunciato
e diffidato. Nel 1939 a Tor Marancia un altro socialista, Rodolfo
Antonelli, dichiara di tifare per la Francia; viene arrestato e confinato.
Luigi Galeotti, selciarolo, litiga giocando a carte e accusa i compagni
di essere spie del regime; finisce pure lui in Basilicata, a Pisticci. Al
Tiburtino Terzo una donna viene minacciata da un miliziano di essere
segnalata al fiduciario, e lei lo manda a quel paese («Vai a fare in culo
te, Mussolini e il fiduciario!»).
L’accusa di antifascismo diventa un modo per regolare i conti con il
suocero, l’amante della moglie, il nemico personale. Sempre al
Tiburtino Terzo, tre inquilini accusano il portiere, Giuseppe
Quaresima, di disfattismo. Quattro testimoni confermano. La moglie
protesta: il suo Giuseppe è fascista della prima ora; gli altri vogliono
solo vendicarsi dello zelo con cui li ha sempre redarguiti e richiamati
all’ordine.
Sul muro della Federazione giovanile di Val Melaina compare una
scritta: «Abbasso il Duce!». Si indaga prontamente, e si scopre che è
stato l’ex usciere: ha perso il posto, e sperava di recuperarlo facendo
cadere i sospetti sul sostituto. Al Tiburtino Terzo spunta invece un bel
disegno di Mussolini con la scritta «W il Duce». Qualcuno osa
deturparlo aggiungendo la barba e una pipa rossa. Scattano le
indagini. Si trova un giovane con vernici e pennello ancora fresco, che
però si difende: lui è l’autore del primo disegno, quello in cui il Duce
fa bella figura; lo lasciano andare.
In piena guerra, la polizia smaschera i «disfattisti di Pietralata»: un
gruppo di borgatari che si riunisce all’osteria di via Feronia.
Riferiscono gli agenti che «nessuno di loro si augurava la vittoria
italiana»; non hanno tenuto conto però che l’oste ha la tessera del
partito fin dal 1923. In otto vengono mandati al confino. I funzionari
del commissariato di polizia di Sant’Ippolito sono ricompensati con
un fuoribusta; gli agenti devono accontentarsi di un encomio.
A volte viene criminalizzato non il dissenso, ma la povertà. Villani
documenta la storia di due erbivendoli di borgata Gordiani, Donato
Cresta e Antonio Simonetti, sorpresi una mattina all’alba da un
fascista a mormorare: «Mussolini ha voluto mettersi in ballo in
Spagna, invece di pensare che noi si muore di fame…». Sono i giorni
dell’intervento fascista nella guerra civile spagnola. I due malcapitati
vengono condotti nella caserma dei carabinieri di Torpignattara.
Negano l’accusa di aver diffamato il Duce: non sono avversari del
regime, assicurano; sono soltanto stanchi di campare raccogliendo
cicoria. Vengono arrestati e sottoposti a vigilanza.

I gerarchi ladri
Un altro mito da sfatare è che i fascisti fossero onesti.
In realtà, il malaffare era diffuso. Certo, in Italia è sempre stato così.
Ma l’impossibilità dell’alternanza al potere, il blocco al ricambio delle
classi dirigenti non potevano che peggiorare la situazione.
Un partito si prendeva lo Stato, una banda – e il suo capo –
diventavano padroni di tutto. Le clientele si allargarono; i fondi
pubblici finirono al Pnf e ai suoi gerarchi; gli squadristi vennero
sistemati nelle imprese di Stato.
Scrive Renzo De Felice, il biografo che ha avuto il merito di
inquadrare la storia del Duce nel contesto storico: «A parole Mussolini
era per un’intransigenza morale assoluta … Questa regola in realtà
l’applicava però solo con i “pesci piccoli” … Tutt’altro atteggiamento
teneva, invece, nei casi più gravi, che riguardavano personalità in
vista e che potevano suscitare scandalo».
Appena conquistato il potere, Mussolini scioglie la commissione
parlamentare d’inchiesta sui profitti della prima guerra mondiale. È
vero che il Duce ha tuonato per anni contro i «pescicani» e i
profittatori che si sono arricchiti mentre i figli del popolo morivano
nelle trincee; ma poi il fascismo è stato sostenuto proprio da quelle
forze che la commissione avrebbe potuto colpire. Le banche che
finanziavano Mussolini erano le stesse che finanziavano l’industria
pesante. E fin dall’inizio i provvedimenti del regime, al di là della
retorica sull’Italia proletaria, favoriscono i grandi capitali e i grandi
patrimoni.
Per sapere quanto avessero rubato i fascisti, bisognò ovviamente
attendere che il fascismo cadesse. Come scrivono Mauro Canali e
Clemente Volpini nel loro fondamentale saggio «Mussolini e i ladri di
regime», l’inchiesta sugli arricchimenti, iniziata dopo il 25 luglio 1943
e durata anni, accerterà profitti illeciti per 118 miliardi di lire, quasi 40
miliardi di euro; l’erario riuscirà a recuperarne appena un decimo.
Già il mattino del 26 luglio, la folla penetra nella villa dell’ex
federale di Torino, Andrea Gastaldi. Trova diciotto chili di zucchero,
altrettanti di nocciole, venticinque chili di riso, 223 bottiglie di vino
scelto, trenta di liquori, e poi scatole di conserve, di carne, sardine,
pesche sciroppate, miele, biscotti… L’ex capo del fascismo torinese
viene denunciato per accaparramento di merci vincolate.
Piero Calamandrei, in quell’estate del 1943, racconta nel suo diario
la storia di Umberto Puppini, che nove anni prima era stato nominato
ministro delle Comunicazioni, cui spettava tra l’altro approvare il
bilancio della Provvida, un’associazione di impiegati statali. Infilata
nel bilancio, il ministro trova una busta con un assegno da un milione.
Gli spiegano che è il solito contributo che ogni anno viene dato al
ministro di turno. Puppini rifiuta e racconta tutto a Mussolini. Il Duce
lo ascolta e gli chiede: «Voi dunque questo assegno non lo volete? Ciò
vi fa onore; ritiratevi pure, darò io disposizioni in proposito». Il giorno
dopo il ministro Puppini trova sulla scrivania una lettera in cui si
accettano le sue dimissioni.
Nel giro di pochi giorni, in quell’estate di ritrovata libertà, la
commissione che dovrebbe investigare sui gerarchi riceve centinaia di
segnalazioni. Terreni comunali venduti sottocosto agli amici, stipendi
del tutto fuori mercato, tangenti da dividere con progettisti, impresari,
procacciatori d’affari e familiari di tutti questi potenti, orologi d’oro
che non si trovano più…
Quando però dopo l’8 settembre 1943 Mussolini torna al potere –
sia pure dall’esilio dorato del lago di Garda –, decide di proseguire
l’indagine iniziata dal governo Badoglio. Non vuole insabbiare
un’inchiesta decisamente popolare, e apparire così il complice, se non
il capo, dei ladri. Ma su 2075 indagati, solo sei vengono condannati.
Tra questi, quattro sono gerarchi che hanno votato contro Mussolini al
Gran Consiglio, la notte del 25 luglio: Grandi, Acerbo, Bottai e Alfieri.

L’Italia liberata finirà per indirizzare le inchieste non sui gerarchi


del ventennio, ma su quelli di Salò. Tra loro spiccano le figure di
Alessandro Pavolini e di Roberto Farinacci. E la fonte più ricca di
dettagli è proprio l’Ovra: la polizia segreta sapeva tutto sui capi del
regime, e sui loro beneficiati.
Il direttore tecnico dell’Istituto Luce, Eugenio Fontana, ad esempio,
viene descritto come «un raro esemplare di uomo parolaio, venditore
di fumo, affarista senza scrupoli, specialista in debiti». Per i suoi
traffici viene arrestato il 30 marzo 1933 e spedito al confino per cinque
anni; ma per Natale è già libero.
Fontana è uomo di Farinacci, già segretario del partito dopo
l’assassinio di Matteotti, capo dell’ala dura del fascismo. Inoltre,
Farinacci è l’amante di Gianna Pederzini, cantante lirica e moglie di
Fontana. Il quale, perso il posto all’Istituto Luce, fonda una società di
produzione cinematografica, la Nazionalcine. Amministratore è Pier
Filippo Gomez Homen, grande amico fin dai tempi del liceo del
nuovo ministro per la Cultura popolare, Alessandro Pavolini. La
Nazionalcine produce un film dopo l’altro. La protagonista è sempre
la stessa: Doris Duranti, amante di Pavolini, che le intesta una casa in
piazza Ungheria ai Parioli e una tenuta a Lucca.
Doris si salverà dalla bufera, fuggendo in Svizzera nei giorni della
Liberazione, e scriverà una romanzesca autobiografia, rivendicando
«cento e più amanti». Pavolini sceglie invece di restare e di
combattere. Bloccato dai partigiani a Dongo, in riva al lago di Como, il
27 aprile 1945, rifiuta di arrendersi, esce dall’autoblindo sparando
raffiche di mitra, si getta in acqua, e tenendo l’arma in alto raggiunge
uno scoglio. Lo catturano la sera, ferito ai glutei, semiassiderato. Lo
fucilano il giorno dopo.
Ma il gerarca che dà più lavoro ai magistrati è Farinacci. L’inchiesta
sui suoi arricchimenti illeciti dura dal 1943 al 1956. Il suo patrimonio è
valutato oltre 600 milioni di lire, che nel dopoguerra equivalgono a
111 milioni di euro, ma ai tempi del regime erano molto, ma molto di
più. Per dare un’idea, Canali e Volpini ricordano che nel 1938 un
senatore guadagnava all’anno 25 mila lire, un maestro circa diecimila,
un operaio meno di cinquemila.
A parte le tenute, le case, le ville, le tredici casse stipate di
argenteria – vassoi, candelabri, vasi, anfore, piatti, servizi da tavola…
–, Farinacci possiede un giornale, Cremona Nuova. Da piccola testata
dello squadrismo è diventata monopolista dell’informazione in zona.
Farinacci non ha studiato, ma con il fascismo al potere vuole fare
l’avvocato, e si laurea in legge sbrigativamente. Il titolo della tesi dice
tutto sulla statura morale del personaggio: «La somministrazione
dell’olio di ricino ai sovversivi non può essere considerata violenza
privata, ma semplice ingiuria e nella peggiore delle ipotesi lesione o
minaccia lieve». Il suo mentore, il professor Alessandro Groppali, che
insegna filosofia del diritto a Modena, gli fa notare che in
commissione c’è un professore non fascista, che non apprezzerebbe;
gli passa però un’altra tesi di laurea, di un altro studente, da copiare.
Farinacci copia. Quando lo beccano, probabilmente su delazione dei
suoi avversari interni, se la caverà con un «rimprovero».
Il suo braccio destro è Enrico Mario Varenna, amministratore del
quotidiano Il Regime Fascista. È l’Ovra a documentare i metodi con
cui Farinacci e Varenna chiedono agli industriali contributi per la
stampa di regime: vere e proprie estorsioni. Varenna si infila
dappertutto, banche e giornali, istituzioni benefiche e imprese,
dall’Istituto italiano per la terapia antitubercolare alle funivie di
Claviere. La polizia del Duce lo intercetta al telefono con un amico,
Guido Finzi, preside della facoltà di veterinaria a Milano, che gli offre
aiuto per comprare un certo terreno. «Dove sei andato a rubare i
soldi?» chiede Varenna. E Finzi: «Non lo sai? Sono nel partito».
«Quindi mangi a tutto andare anche tu». «Già» conclude Finzi.
Varenna uscirà indenne dalla fine del regime. Ha accumulato un
patrimonio immobiliare enorme: sessanta case solo a Milano. Lo Stato
repubblicano gliene chiede conto, lui patteggia e se la cava con poco,
dodici milioni di lire: la mediazione è condotta dal giovane ministro
delle Finanze, Giulio Andreotti.

Da segretario del partito, Farinacci mette le mani sulle banche. Fa


cacciare il direttore dell’Istituto nazionale di Credito per la
Cooperazione, la futura Bnl, e piazza al suo posto Arturo Osio, che
l’Ovra descrive come «un arrivista ambizioso», «un profittatore senza
scrupoli», «immorale», «disonesto», «gangster». Tuttavia è
«invulnerabile», perché «fa guadagnare» Ciano e «i figli di Mussolini,
nonché un gran numero di personalità importanti del Regime». Osio
resterà al suo posto dal 1925 al 1942.
Farinacci ha preso il controllo pure della Banca Popolare Agricola
di Parma, affidata a uomini suoi, in particolare Luigi Cuppini e Luigi
Lusignani. Ma quando Farinacci è sostituito alla guida del Pnf dal
moderato Augusto Turati, la banca fa crac. Cuppini scappa in Grecia.
Fugge anche il ragioniere dell’istituto, Marcello Azzali, che però
muore in circostanze mai chiarite. Lusignani finisce in galera insieme
con i membri del consiglio d’amministrazione, tra cui Groppali, il
professore che aveva fatto copiare la tesi di laurea a Farinacci, uno che
si ricorda degli amici. Lo scandalo è enorme e i giornali faticano a
silenziarlo; a maggior ragione quando Lusignani si suicida in carcere
ingurgitando una scatola di sonniferi. Anche Farinacci rischia la
galera, ma lo squadrista ha un asso nella manica: sa che nei traffici
finanziari del regime è implicato Arnaldo Mussolini.
In particolare il fratello del Duce è il regista del prestito – 600
milioni di lire – concesso al Comune di Milano dalla banca americana
Dillon, Read&Co. Le condizioni non sono particolarmente favorevoli,
anzi; ma la banca ha pagato una maxitangente da cinque milioni di
lire al podestà, Ernesto Belloni, che l’avrebbe spartita con il federale di
Milano, Mario Giampaoli, e appunto con Arnaldo Mussolini.
Giampaoli viene arrestato e spedito al confino. Belloni deve
dimettersi, diventa deputato, ma finirà al confino pure lui. Arnaldo
ovviamente non si tocca.
Il Duce è costretto a dare soddisfazione a Farinacci, rimuovendo il
suo grande nemico Turati dal vertice del partito. Prima, però, si è tolto
la soddisfazione di mandare a Farinacci – che si vanta di essere povero
e di non aver mai approfittato della sua posizione per fare soldi –
questa lettera, oggettivamente ben scritta: «Quanto alla pezzenteria e
alle fortune, io non contesto che tu fossi pezzente nel 1922, ma nego
nella maniera più recisa che tu sia rimasto pezzente nell’anno di
grazia 1928 – sesto del regime. I veri pezzenti non vanno in
automobile e non frequentano alberghi di lusso. La demagogia del
falso pezzentismo mi è odiosa».

Il mito del Duce povero


Eppure, quella demagogia si è applicata proprio a lui, al Duce, ed è
rimasta viva ancora oggi: Mussolini è pensato come ascetico, frugale,
allergico ai lussi, disinteressato alle cose materiali, quasi povero.
Purtroppo non è andata così. Anzi, Canali e Volpini dimostrano
quanto la famiglia fosse impegnata a incrementare il patrimonio
immobiliare, in particolare dopo lo scoppio della guerra; e come le
operazioni fossero guidate con una certa spregiudicatezza dalla
«rezdora» di casa, Rachele.
Alla fine del ventennio, Mussolini era un uomo molto ricco. Non
immensamente ricco, come un Putin o uno sceicco. Ma non si può dire
che fosse disinteressato al denaro e soprattutto al bene che sta più a
cuore agli italiani: la casa.
La commissione d’inchiesta gli attribuisce un patrimonio da due
miliardi di lire del 1943, l’equivalente di 665 milioni di euro di oggi. I
Mussolini possedevano tredici proprietà agricole in Romagna. Due a
Ostia. E Villa Carpena, vicino a Forlì, da lui non amata perché – come
confidò alla Petacci – gli ricordava il tradimento, forse l’unico, di
Rachele, consumato con l’amministratore dei beni di famiglia,
Corrado Varoli: «Non è un mistero, lo sanno tutti. Anche a Parigi,
dove stampavano in prima pagina “chi è lo stallone di casa Mussolini?
Corrado Varoli”. Villa Carpena era villa Varoli, capisci. Da allora l’ho
odiata, così come la odio in questo momento».
Il castello medievale della Rocca delle Caminate, enorme e di
inestimabile valore, fu restaurato a spese della comunità e donato a
Mussolini, in quanto capo del governo. Deciso a tenerselo, il Duce
onesto inscenò una finta vendita alla moglie per un prezzo simbolico;
così il maniero divenne un bene di famiglia, compreso il faro la cui
luce si irradiava per sessanta chilometri, e veniva accesa solo quando
il dittatore era in casa. Ma la storia che meglio spiega il senso per il
mattone dei coniugi Mussolini è quella di Riccione.

Il Duce e i suoi cari ci vanno in vacanza dal 1926, prima al Grand


Hotel, poi in affitto, a Villa Margherita: due piani, tredici stanze. I
padroni di casa sono due commercianti, Giulia e Armando Bernabei,
che non hanno simpatie fasciste. Rachele rifiuta di pagare l’affitto. Poi,
siccome la villa le piace, decide di comprarla. Giulia però non vuole
venderla. La moglie del Duce la minaccia e la fa minacciare dal
podestà di Riccione, Frangiotto Pullè. I Bernabei cedono. I Mussolini
pagano 170 mila lire una casa che vale più del triplo.
Non è finita. Il Duce vuole farsi costruire un campo da tennis sul
retro della sua nuova villa; dove però c’è un albergo, sempre di
proprietà dei Bernabei. Tocca di nuovo al podestà convincerli,
comprare l’albergo, abbatterlo e cedere il terreno a Mussolini, che può
così perfezionare il rovescio (il suo maestro di tennis era Mario
Belardinelli, futura chioccia della squadra italiana che vincerà la
Coppa Davis del 1976. Pare che il Duce faticasse appunto con il
rovescio, e a Belardinelli che insisteva a volerglielo insegnare rispose:
«Camerata, noi tireremo sempre diritto!». Così almeno raccontava
Belardinelli a Panatta).
Però Rachele non è contenta. Vuole altre case, per i figli, per i futuri
nipoti, o come investimento. I proprietari dei terreni circostanti creano
un consorzio per tentare di resistere; vengono convinti uno a uno.
L’ultima a cedere è la signora Maria Tegoni: devono convocarla alla
questura di Bologna e minacciare di spedirla al confino.
Insomma, il Duce era un pessimo vicino di casa. Ci sarebbe da
sorridere, se in questa storia l’aspetto grottesco o ridicolo non ne
celasse sempre uno tragico.
Rachele ha messo gli occhi anche sulla più bella villa di Riccione:
288 metri quadri, nell’angolo più elegante del centro. Il proprietario,
Nissim Matatia, commerciante di pellicce, rifiuta di vendere. Le leggi
razziste risolvono il problema. Matatia è costretto a cedere la villa e
viene espulso dall’Italia. Nel novembre 1943 sarà deportato ad
Auschwitz con tutta la famiglia. Ritornerà solo il figlio maggiore,
Nino, annientato al punto che morirà di lì a poco, a 21 anni.
Fatto sta che il 4 ottobre 1940, primo autunno di guerra, il Comune
di Riccione vende a Mussolini seimila metri quadri di terreno, al
prezzo simbolico di una lira al metro quadro. Il Duce può far costruire
così una villa di due piani, con una dépendance, un alloggio per i
custodi, il campo da bocce e il rifugio antiaereo. Poco, al confronto
degli oligarchi di oggi. Molto, per l’aura ascetica e disinteressata che
ancora adesso lo circonda. Anche perché la frenesia edilizia di
Mussolini aumenta durante la guerra, quando pure lui comincia a
pensare al futuro, e alla sua famiglia numerosa.
Nel 1942 Rachele compra due nuove ville a Riccione, e ne
commissiona altre al suo architetto preferito: Dario Pater, che alterna
committenze pubbliche – ha costruito le borgate romane di Tor
Marancia, Acilia, San Basilio – a lavori privati per la famiglia del
dittatore e altri gerarchi. Ha pure inventato il «brevetto Pater»: case
prefabbricate con pannelli «costituiti da trucioli di legno impastati».
Ciano, che non deve aver apprezzato la villa disegnata da Pater per
lui, lo definisce un «poco di buono, costruttore di case in segatura e
cartone».
Al Duce non dispiaceva neppure il denaro. È vero che aveva
rifiutato lo stipendio da capo del governo, ma ogni tanto il Senato
votava un donativo personale per lui: nel 1938, ad esempio, un
milione di lire, quasi un milione di euro di oggi. Inoltre disponeva di
un generoso fondo di rappresentanza, da cui attingeva milioni per
acquistare titoli di Stato. Tutto o quasi sparito durante la fuga e la
cattura; da qui il giallo dell’«oro di Dongo».
Ma la vera banca della famiglia Mussolini era Il Popolo d’Italia, con
la meravigliosa sede di piazza Cavour a Milano, oggi chiamata
«palazzo dei giornali», impreziosita dal grande mosaico di Sironi.
Però l’archivio del Popolo, con i rendiconti finanziari, fu
deliberatamente distrutto prima del 25 aprile. Altri beni sparirono:
scrivono Canali e Volpini che il calzolaio di Predappio si portò via
dalla Rocca delle Caminate «l’intera camera da letto di gran lusso» di
Edda Ciano; qualcuno trafugò pure la preziosa «spada dell’Islam»,
che in effetti non si trova più.
Non bisogna pensare invece che il Duce possedesse una grande
collezione d’arte. Eppure conobbe Umberto Boccioni, Mario Sironi gli
fu vicino sino all’ultimo, ai futuristi certo il fascismo non dispiaceva; e
la sua amante Margherita Sarfatti era il capofila di Novecento, il
gruppo che comprendeva Achille Funi, Ubaldo Oppi, Leonardo
Dudreville… Il Duce però detestava l’arte moderna: «Quelle manone,
quei piedoni» commentò una volta con disgusto. A casa aveva croste
post-romantiche, quadri veristi, ritratti di stile accademico e
passatista. Quando la Sarfatti vide la modestia della collezione del suo
uomo, gli scrisse una lettera di fuoco: «Avresti potuto ricordarti che,
quando si è a capo del governo, le proprie espansioni ammirative
devono essere dettate da criteri meno personali e più severi».
Tradotto: anche di arte il Duce non capiva molto più di nulla.
Otto
Il criminale di guerra
Le stragi fasciste in Libia, Etiopia, Spagna

Pure all’estero il Duce vorrebbe adottare fin da subito i metodi


squadristici, che hanno funzionato così bene in Italia. Resteranno la
sua bussola, al di là delle prudenze, delle retromarce, dei successi
tattici. Anche prima di trovare un alleato potente come la Germania
nazista, Mussolini conduce un’azione aggressiva e spietata,
preferibilmente contro popoli che non hanno le nostre stesse armi per
difendersi.
La politica estera del fascismo comincia a cannonate.
Il 27 agosto 1923 il generale Enrico Tellini, presidente della
commissione che deve tracciare i confini tra Grecia e Albania, viene
assassinato con quattro suoi uomini (due ufficiali, l’autista e
l’interprete). Non si sa se siano stati i greci o gli albanesi, che si
accusano a vicenda. Il conte Sforza ipotizza che il delitto sia maturato
nell’entourage di Mussolini, in cerca del pretesto per occupare Corfù e
cogliere il primo successo, la prima conquista; ma certo esagera, del
resto Sforza è l’arcinemico del Duce. Fatto sta che la rappresaglia è
feroce.
Le navi italiane bombardano il forte di Corfù, dove sono ammassati
i profughi greci cacciati dalla Turchia. Muoiono almeno dieci
innocenti, molti altri restano feriti. Atene protesta con la Società delle
Nazioni. Mussolini fa emettere un francobollo in onore di Corfù
italiana; ma presto è costretto da Francia e Inghilterra a sgomberare.
È l’inizio di una lunga serie di provocazioni, di rodomontate, di
crisi che non portano a risultati concreti, ma isolano l’Italia da chi
comanda davvero in Europa.
Campi di concentramento in Libia
L’occupazione della Libia è tribolata fin dall’inizio. Per il nostro
esercito, sbarcato sulla «quarta sponda» nel 1911, spingersi nel
deserto, affrontando rivolte e imboscate, è sempre stato difficile. Con
lo scoppio della prima guerra mondiale, poi, il controllo italiano si
limita alla fascia costiera.
Nel 1919 di fatto la Libia è da riconquistare. Giolitti pensa al
modello con cui gli inglesi governano l’India, concedendo autonomia
ai signorotti locali, e badando a metterli l’uno contro l’altro. Ma poi
arriva Mussolini, che ha altre idee.
Il problema principale è la Cirenaica, dove la popolazione – unita
nella confraternita musulmana dei Senussi – è ostile agli italiani. Il 6
marzo 1923 il governatore della Cirenaica, Luigi Bongiovanni,
proclama lo stato d’assedio e inizia le operazioni per la riconquista,
denunciando tutti gli accordi sull’autogoverno con i capi libici.
La guerra però si trascina negli anni. L’esercito si dissangua invano.
Viene nominato governatore un generale controverso, all’inizio ostile
al fascismo. Il re, che lo stima, l’ha proclamato marchese del Sabotino,
per ricordare quando le sue truppe presero in trentotto minuti la
montagna che sbarrava la via di Gorizia: «Sembrano le legioni
romane» commentò compiaciuto Vittorio Emanuele guardando nel
binocolo; D’Annunzio scrisse: «Fu come l’ala che non lascia impronte/
al primo grido avea già preso il monte». La vox populi però lo chiama
anche duca di Caporetto: non si è mai capito bene perché le sue
artiglierie abbiano taciuto, all’alba del 24 ottobre 1917, mentre le
avanguardie tedesche sfilavano indisturbate nel fondovalle. Poi però,
come vice di Diaz, ha avuto un ruolo fondamentale nel riorganizzare
l’esercito sul Piave e sul Grappa. Il suo nome è Pietro Badoglio. Ai
suoi ordini ha un sottoposto deciso e spregiudicato, Rodolfo Graziani.
I due militari applicano le indicazioni del Duce, che ha ordinato di
porre fine all’insurrezione in Cirenaica, senza alcuna preoccupazione
umanitaria. E in effetti tra il 1930 e il 1931 le forze italiane scatenano
un’ondata di terrore sulla popolazione civile.
È un capitolo della nostra storia sconosciuto a noi stessi. La
repressione è durissima. Secondo gli studi più aggiornati, in due anni
vengono giustiziati 12 mila resistenti. Le colonne italiane stroncano la
guerriglia con l’appoggio dell’aviazione, che bombarda, mitraglia e –
come confermano Giorgio Rochat e Angelo Del Boca – usa i gas.
Nell’estate del 1930 Graziani si sente abbastanza forte per
conquistare l’oasi di Cufra, e per preparare l’attacco il 31 luglio
vengono bombardate le oasi di Taizerbo. Gli storici hanno ritrovato
negli archivi il rapporto di Graziani al ministro delle Colonie: quattro
aerei sganciarono 24 bombe da 21 chili, 12 bombe da 12 chili e 320
spezzoni da due chili. Tutte le bombe erano caricate con l’iprite, il
tremendo gas vescicante della prima guerra mondiale, bandito dalle
convenzioni internazionali. Graziani scrive di suo pugno: «Il
bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di
Giululat e di El Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente
efficace».
Ma non basta colpire i guerriglieri. Bisogna eliminare i villaggi
dove trovano sostegno. Ripulire le retrovie. Così la popolazione
nomade della Cirenaica settentrionale, la regione del Gebel, viene
deportata in enormi campi di concentramento lungo la costa desertica
della Sirte. È un autentico crimine contro l’umanità, il primo del
regime. Oltre centomila donne, vecchi e bambini devono lasciare le
loro capanne, e marciare per quasi mille chilometri nel deserto verso
Bengasi, tormentati dalla sete e dalla fame. Diverse testimonianze
concordano: chi non tiene il ritmo della marcia viene fucilato sul
posto; in altri casi, gruppi di indigeni sono abbandonati tra le dune,
senza acqua né cibo.
I superstiti vengono chiusi in spaventosi lager circondati dal filo
spinato. Sovraffollamento, poco cibo, mancanza di igiene: i morti si
contano fin da subito a migliaia.
La politica di Badoglio è feroce: «Bisogna anzitutto creare un
distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e
popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di
questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione
cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi
dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione
della Cirenaica». Il Duce approva calorosamente.
Nei campi di concentramento la pena per chi si mostra ostile o
cerca di ribellarsi è la morte. I condannati vengono impiccati, i corpi
lasciati appesi per giorni come monito: una pratica che i fascisti
useranno contro altri italiani, durante la guerra di Liberazione.
La propaganda del regime assicura che i libici non se la passano poi
così male. In realtà, in ogni campo sono ammassate fino a ventimila
persone, spesso con i loro cammelli e altri animali, in condizioni
terrificanti. Manca quasi del tutto l’assistenza sanitaria: per i 33 mila
reclusi nei campi di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c’è un solo
medico. Il tifo e altre malattie si diffondono rapidamente, anche
perché i deportati sono indeboliti dalla scarsità di cibo e dal lavoro
forzato. La loro unica ricchezza, il bestiame, viene distrutta: muoiono
il 90-95% degli ovini e l’80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica.
Leggerne su Wikipedia, alla voce dedicata a Omar al-Mukhtar – il
capo della resistenza libica –, è impressionante. La popolazione non
viene deportata, ma «fatta affluire». Non è l’unico caso in cui non si
trova traccia delle atrocità del regime, anzi ne viene data
sull’«enciclopedia popolare» una versione palesemente edulcorata.
Chi ha scritto quella voce sostiene, di fatto, che la tattica fosse
inevitabile, se non giusta.
Per evitare che i guerriglieri e i civili perseguitati possano riparare
in Egitto, viene costruita alla frontiera una fascia di reticolati di filo
spinato larga alcuni metri e lunga 270 chilometri, dal porto di Bardia
all’oasi di Giarabub.
Badoglio e Graziani istituiscono un tribunale militare che si sposta
in aereo per la Cirenaica, e celebra processi-lampo davanti alla
popolazione, spesso conclusi dall’esecuzione immediata dei
condannati. È una vicenda ben ricostruita dagli storici Alessandro
Volterra e Maurizio Zinni in un libro basato sulla raccolta fotografica
di un magistrato militare, Giuseppe Bedendo. Le immagini sono
impressionanti, e documentano anche l’esecuzione di Omar al-
Mukhtar.
L’eroe nazionale libico viene catturato nel 1931, quando ormai la
guerriglia sta per essere sconfitta definitivamente. Il processo è
sommario, la condanna già decisa. Il difensore d’ufficio, capitano
Roberto Lontano, è un ufficiale gentiluomo: obietta che l’imputato non
si è mai sottomesso agli italiani, quindi non può essere considerato un
traditore; semmai un nemico, un resistente. Gli tolgono la parola e lo
chiudono per dieci giorni in cella di rigore.
Badoglio ordina che la sentenza sia eseguita nel campo più
importante, Soluch, davanti a ventimila cirenaici. Nel 1981 la storia di
al-Mukhtar diventerà un film con Anthony Quinn, intitolato «Il leone
del deserto»; ma nelle sale cinematografiche italiane non arriverà mai.
Quando i campi vengono chiusi, nel settembre 1933, erano morte 40
mila persone, colpevoli al più di aver aiutato patrioti che, ci piaccia o
no, si battevano per l’indipendenza del loro popolo.

Il Duce può così partire per la Libia pacificata. Entra a Tripoli su un


cavallo bianco. Gli viene consegnata la «spada dell’Islam», uno
spadone con l’elsa in oro massiccio intarsiato. Sobrio il racconto del
Popolo d’Italia: «Sta la salda figura del Duce, con il forte volto
imbrunito dal sole, alta sulla duna e si staglia maestosamente nella
serenità splendente del cielo. La cerimonia è compiuta. Il Duce lascia
la duna e si avvia verso Tripoli, seguito dai duemila cavalieri
galoppanti, fra turbini di polvere, in una visione guerresca tra le
schiere delle palme».
Tempo dopo, tutti i giornali italiani informano che un gruppo di
arabi in pellegrinaggio alla Mecca ha pregato Allah per la fortuna e la
gloria del Duce. Scoppia uno scandalo internazionale, i musulmani
gridano al sacrilegio. Si scopre che i mussoliniani islamici vengono dal
Marocco spagnolo, dov’è scoppiata la rivolta franchista, e sono in
contatto con gli emissari del regime. Il Vaticano, sempre più critico,
definisce l’episodio «una pagliacciata».

Etiopia: la strage degli indovini e dei monaci cristiani


Nella seconda metà degli anni Trenta, tutto precipita verso la guerra.
Al Duce pare un’evoluzione naturale, da lui sempre desiderata. Alla
ricerca di una vittoria considerata facile, per quanto dispendiosa,
mette gli occhi sull’unico grande Paese africano indipendente. Intende
vendicare la disfatta di Adua. «Con l’Etiopia» proclama dal balcone,
con voce minacciosa «abbiamo pazientato quarant’anni. Ora basta!».
L’Etiopia è un Paese sovrano, fa parte come l’Italia della Società
delle Nazioni. È vero che sia la Francia sia l’Inghilterra hanno imperi
coloniali, e dopo la prima guerra mondiale si sono spartite quello
tedesco. Ma l’impresa di Mussolini va contro il vento della storia. E
isola l’Italia. Chiude la nostra economia in un vicolo cieco: le sanzioni
ci negano le materie prime di cui abbiamo bisogno, peggiorano la
nostra vita quotidiana, non tanto per le piccole rinunce – il karkadè al
posto del tè, il caffè di cicoria, il cioccolato con le nocciole al posto del
cacao: nasce allora l’idea della nutella –, quanto per l’isolamento
politico, economico, culturale.
Cinquantadue Stati votano le sanzioni contro di noi, finendo per
rafforzare il regime, almeno all’inizio. L’Austria è contraria; la
Germania è uscita dalla Società delle Nazioni nel 1933, anche se è
talmente nostra amica da fornire clandestinamente al Negus d’Etiopia
armi e munizioni. Il petrolio continua ad arrivare dall’Unione
Sovietica.
La vita degli italiani si fa ancora più difficile. Lo Stato impone la
raccolta del ferro, dei rottami, degli stracci. Si deve fare economia su
tutto, anche sulla carta bollata: per gli atti basterà mezzo foglio.
Razionata la benzina. Ci sono giorni in cui non si può vendere la
carne. In mancanza di lana naturale e in attesa di quella sintetica, il
Duce invita a filare la ginestra: «La ginestra cresce spontanea
ovunque. Era conosciuta da molti italiani soltanto perché Leopardi vi
dedicò una delle più patetiche poesie, ma oggi essa può essere
industrialmente sfruttata». Parole davvero ingenerose, perché i versi
della Ginestra, anziché patetici, sono i più rischiarati dalla speranza
tra quelli scritti da Leopardi. E comunque, oltre agli stracci e ai
rottami, si devono donare alla patria pure le fedi d’oro: gli italiani
rispondono, aderiscono anche gli oppositori del regime, da Luigi
Albertini a Benedetto Croce, che donano le loro medaglie da senatori
«in omaggio al nome della Patria».
Dunque, è guerra. Mussolini cede il ministero degli Esteri al genero
Galeazzo Ciano, che ha appena 33 anni e non è amato nel Paese, anche
per gli arricchimenti illeciti della sua famiglia e del suo clan. Per sé il
Duce tiene Interni, Guerra, Marina, Aeronautica.
Si parte anche per il mal d’Africa, per riscattare le sconfitte dei
padri, per i martiri della nostra colonizzazione povera, e se ne
contamina la memoria con la retorica del regime: «Vieni con noi
Toselli/ vieni con noi Galliano/ il nostro comandante è Galeazzo
Ciano». Grandi folle salutano le navi in partenza per il Corno d’Africa,
ma le reclute scrivono versi meno epici: «Imbarcato sul Biancamano/
mentre attorno la folla plaudisce/ tutti restano, ei solo partisce/
legionario, cornuto e soldà».
Partono anche i gerarchi, ufficialmente per combattere. Pochi lo
faranno davvero. Roberto Farinacci resta ferito e perde una mano, ma
non in battaglia; stava pescando in un lago con cariche esplosive.
L’ordine ai camerati è perentorio: «Ohè, mi raccomando, noi stavamo
facendo un’esercitazione. Nessuno dica che eravamo a pesca». La voce
corre, ma il regime è generoso: Farinacci viene insignito del Gran
Cordone dell’Ordine coloniale della Stella d’Italia, avrà anche la
medaglia d’argento al valor militare; ma quando riceve la tessera da
mutilato di guerra persino nell’Italia fascista c’è un sussulto di sdegno,
l’Associazione nazionale mutilati – gente che ha perso davvero un
braccio o una gamba o la vista in combattimento – protesta per la
penosa messinscena.
Si muove pure il primogenito maschio di Mussolini, Vittorio, che
descrive i bombardamenti come una battuta di caccia grossa: «Un
abissino col fucile correva verso sud, una bella sventagliata e
l’abissino era a terra. Era dunque una caccia isolata all’uomo, come al
solito, e ogni apparecchio, per conto suo, frugava ogni buco
annusando l’abissino».
Viene bombardata pure la Croce Rossa. È la prima volta nella
storia. Ma occorre impedirle di soccorrere gli etiopi e testimoniare le
atrocità italiane.
De Bono muove dall’Eritrea, Graziani dalla Somalia. Mussolini l’ha
autorizzato a «impiegare i gas come ultima ratio». Sarebbero vietati
dalle norme internazionali; ma Graziani tira diritto, e infatti li usa,
sterminando con l’iprite le truppe di ras Destà.
L’avanzata di De Bono, però, è troppo lenta. Mussolini capisce che
non bastano i meriti fascisti del quadrumviro, per vincere la guerra ci
vogliono i generali veri, e in Italia il migliore con tutti i suoi limiti è
ancora Badoglio. Neanche il maresciallo si fa scrupoli. L’iprite cala
sulle truppe abissine nella conca del lago Ascianghi, la «rugiada della
morte» fa migliaia di vittime, asfissiate, piene di vesciche. Muoiono
anche i civili, le donne. La via per Addis Abeba è aperta.
Mussolini a più riprese approva questi crimini. Il 19 gennaio 1936
ordina di «impiegare tutti i mezzi di guerra – dico tutti – sia dall’alto
come da terra». Il 4 febbraio ribadisce a Badoglio l’autorizzazione a
«impiegare qualsiasi mezzo». Ancora più esplicito il 29 marzo,
quando invita il maresciallo «all’impiego di gas di qualunque specie e
su qualunque scala».
Il 5 maggio il Duce annuncia dal balcone «al popolo italiano e al
mondo» che la guerra è finita; in realtà due terzi dell’Etiopia sono
fuori dal nostro controllo. Comincia la guerriglia. Gli etiopi sono
decisi a resistere, e a loro si unisce un gruppetto di comunisti italiani
guidati da Ilio Barontini, rivoluzionario di professione; il Negus lo
nominerà vice-imperatore. «Annuncio al popolo italiano e al mondo
che la pace è ristabilita» informa la voce stentorea del Duce. «Non è
senza emozione e senza fierezza che io, dopo sette mesi di aspre
ostilità, pronuncio questa grande parola. Ma è strettamente necessario
che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana, che
si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione:
l’Etiopia è i-ta-lia-na».
La piazza che esplode in un grido liberatorio non può sapere che
tra cinque anni gli inglesi ci sloggeranno dall’Etiopia e la restituiranno
al Negus. Quella sera gli ammiratori lo inducono a uscire sul balcone
dieci volte, per ricevere gli applausi, come a teatro. Il Duce ci prende
gusto e convoca altre due adunate serali in pochi giorni: la prima per
ringraziare le donne per la «magnifica disciplina» con cui hanno fatto
«di ogni famiglia italiana un fortilizio per resistere alle sanzioni»; la
seconda per proclamare l’Impero. Stavolta viene richiamato sul
balcone quarantadue volte; neanche la Duse. Ma l’anno dopo la
polizia francese troverà nella casa della sua amante Magda de
Fontanges, fra trecento foto del Duce, una con la dedica: «Per un’ora
con te darei tutta l’Etiopia. Benito».

In realtà, l’Etiopia è una polveriera, e Badoglio, che non è uno


sprovveduto, lo sa bene. Torna in Italia, carico di denari e prebende, e
lascia volentieri a Graziani il pennacchio di Viceré. Il Duce affida un
titolo altisonante e un compito delicatissimo a un uomo che in fondo
non stima. Se ne serve, perché è il perfetto generale fascista: crudele,
spietato, indifferente non solo all’umanità ma anche al rispetto delle
leggi di guerra. Graziani ha scarse capacità militari e poco coraggio
personale, come vedremo quando si troverà di fronte gli inglesi. Per
ora, rintanato nel ghebì imperiale di Addis Abeba, è nervoso e adirato.
I collegamenti con l’Eritrea e il mare sono precari, molti ras sono
rimasti fedeli ad Hailé Selassié. La capitale stessa è insicura. Graziani
teme di restare bloccato da una rivolta generale, si vede come il nuovo
Gordon Pascià assediato a Khartoum. Insomma si è pentito, e impreca
contro chi l’ha lasciato solo in terra straniera. Poi, vincendo la paura,
pensa a una manifestazione propagandistica: il 19 febbraio 1937
distribuirà un po’ di talleri ai poveri di Addis Abeba. È un’antica
usanza dell’imperatore; Graziani avrà cura di aumentare i donativi,
affinché la sua generosità sia evidente a tutti.
La cerimonia va per le lunghe: è quasi mezzogiorno; il Viceré non
aveva idea di quanti poveri ci fossero ad Addis Abeba, la fila dei
questuanti non finisce mai. Graziani palesemente non ne può più.
Proprio in quel momento due resistenti lanciano tre bombe a mano.
Due non fanno danni; ma la terza esplode accanto a lui. Scrive un
testimone, il giornalista Beppe Pegolotti: «Graziani, che aveva fatto un
balzo sugli scalini, l’aveva vista passare sopra la testa e gli era esplosa
alle spalle: ecco la spiegazione delle sue ferite tutte sul dorso e sulle
spalle. Cadde a terra bestemmiando». Viene portato in macchina
all’ospedale e operato; le sue condizioni migliorano, e può dare ordini.
Comincia la vicenda più terribile della storia coloniale italiana. Il
Corriere della Sera è da oltre dieci anni sotto il controllo del regime,
ma il suo corrispondente Ciro Poggiali non può esimersi dallo scrivere
quello che vede: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno
assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i
sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di
manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano
ancora in strada … Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un
vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a
parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro
gente ignara e innocente».
Un altro testimone italiano aggiunge: «Nel tardo pomeriggio, dopo
aver ricevuto disposizioni alla Casa del Fascio, alcune centinaia di
squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici si riversarono
nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al
moro” che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul con la
benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di
fuggire … Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo
serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un
colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori e una carica di
violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta. Il solo
rischio che si correva era quello di guadagnarsi una medaglia». Viene
data alle fiamme anche la cattedrale ortodossa di San Giorgio.
I morti sono migliaia. Gli etiopi parlano di trentamila vittime; i
giornali francesi, inglesi e americani di una cifra oscillante tra 1400 e
seimila. Mussolini è informato da Graziani passo a passo, e lo
incoraggia: «Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere
passati per le armi. Attendo conferma». Ma i diplomatici stranieri
cominciano a girare per Addis Abeba per documentare le stragi con le
loro macchine fotografiche; inevitabile fermarsi. Il peggio però deve
ancora venire.
Il Viceré è in preda al terrore. È convinto che gli abissini vogliano
penetrare in ospedale per finirlo, e trasforma la sua stanza in un
bunker; quando torna in sala operatoria per togliere le ultime schegge,
fa piazzare due mitragliatrici pure lì. Testimonia il ministro delle
Colonie, Alessandro Lessona: «Graziani ebbe un gravissimo
esaurimento nervoso, che accentuò i suoi scatti d’ira, la sua mania di
persecuzione e la sua pavidità».
In realtà, gli attentatori fanno parte di un gruppo isolato. Ma il
Duce e il Viceré credono che l’Abissinia sia sull’orlo dell’insurrezione.
Graziani fa rastrellare oltre settanta tra alti funzionari, giovani
ufficiali, collaboratori del Negus deposto. Sono la parte più avanzata e
aperta del Paese, quella con cui dovremmo trattare. Vengono tutti
massacrati. Ci si premura di non far sapere che sono morti gridando
«Viva l’imperatore» e «Viva l’Etiopia indipendente». Su più larga
scala, faranno lo stesso in Polonia i sovietici, con la strage di ufficiali
polacchi a Katyn, e i nazisti, assassinando i membri delle élites
culturali polacche, a cominciare dai professori dell’università
Jagellonica di Cracovia: l’ateneo di Copernico, uno dei più antichi e
prestigiosi d’Europa.
Il fascismo tocca in questa circostanza i vertici della sua barbarie ai
limiti della follia. Graziani si convince che i cantastorie e gli indovini
di cui è piena Addis Abeba costituiscano una minaccia, e ne fa
ammazzare un centinaio. Mussolini, informato, telegrafa: «Approvo
quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli. Occorre insistere sino a che
la situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla».
Si massacra in tutta l’Etiopia. Per fortuna, nella regione dell’Harar
comanda il generale Guglielmo Nasi, uomo intelligente: capisce che
non possiamo metterci contro milioni di etiopi, e cerca di mitigare la
repressione. Graziani lo rimprovera aspramente: gli ordini del regime
vanno eseguiti senza discutere. Nasi è uno dei pochi comandanti
italiani che nella seconda guerra mondiale impegnerà a fondo gli
inglesi; sarà l’ultimo ad arrendersi a Gondar, il 28 novembre 1941.
Prigioniero in Kenya, dopo la morte del duca d’Aosta diventerà il
punto di riferimento di 60 mila soldati italiani nelle mani dei
britannici. Fedele al giuramento fatto al re, Nasi proporrà agli Alleati
di costituire reparti di volontari tra i nostri prigionieri, per tornare in
patria e combattere i nazifascisti.
Ma alla fine del 1936 la vendetta di Graziani deve ancora mostrare
il suo volto più spaventoso. Ne è bersaglio il clero copto, quindi
cristiano, accusato di favorire i ribelli.
Nel villaggio conventuale di Debra Libanòs, il più importante
dell’Etiopia, vivono centinaia di monaci e preti, riuniti intorno a due
grandi chiese. Gli indizi di una collusione con gli attentatori sono
praticamente inesistenti, e certo non riguardano l’intero convento.
Incaricato dell’operazione è il generale Maletti. Non Gianadelio
Maletti, coinvolto nei depistaggi delle stragi fasciste degli anni
Settanta; suo padre, Pietro. Specialista nel comando di truppe
indigene e nella guerra «sporca», non ha gli scrupoli del generale
Nasi; raduna più di trecento religiosi e li fa massacrare con le
mitragliatrici pesanti.
In un primo tempo si decide di risparmiare i diaconi: ragazzi
giovanissimi, seminaristi diremmo noi, che non possono essere
colpevoli di nulla. Ma Graziani cambia idea e ordina di ammazzare
pure quelli. Maletti fa scavare due fosse, dove cadono altri 129
innocenti; in tutto le vittime tra i religiosi sono 449. «Liquidazione
totale» scrive Maletti a Graziani, che ne informa il Duce. Lo storico
inglese Ian Campbell sostiene che il Viceré abbia mentito per difetto:
tra pellegrini, studenti, monaci di altri conventi, le vittime della
comunità di Debra Libanòs sarebbero oltre duemila.
Invito chiunque di voi, cari lettori, a trovare un italiano
consapevole di questa storia, che dovrebbe essere di pubblico
dominio.
Dopo la seconda guerra mondiale, Graziani cercherà di scaricare le
colpe del massacro sui sottoposti e sul suo Duce, ormai defunto. A
lungo si è raccontato che Giulio Andreotti sia andato a omaggiarlo,
durante la campagna elettorale del 1953; il Divo smentirà di averlo
mai abbracciato. Di sicuro il sindaco di Affile (Frosinone), Ercole Viri
di Fratelli d’Italia, vorrà dedicargli un mausoleo nel cimitero del
paese. Viri è fiero della sua opera e ha definito Graziani un grande
condottiero. Il mausoleo, malgrado proteste, denunce, processi, è
sempre lì.
Sono iniziative che possono indignare o immalinconire, ma non
vanno neppure enfatizzate. Libero ognuno di pensare se si fanno per
finire sui giornali, o perché a una parte della gente del posto
piacciono. Torna in mente la frase di un personaggio di Beppe
Fenoglio: «Tutto il male che capita su queste Langhe la causa è la forte
ignoranza che abbiamo».
Ma torna in mente anche la lezione di politica e di umanità
impartita da Hailé Selassié a Mussolini e a tutti noi, quando dirà alle
sue truppe, rientrate ad Addis Abeba nel 1941: «Vi raccomando di
accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti gli
italiani che si arrenderanno con o senza le armi. Non rimproverate
loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro
che siete soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore
umano».

Dopo l’Etiopia, però, il mito di Mussolini è al culmine; e il primo a


crederci è lui. Scrive Antonio Spinosa che «era spesso dominato da
una sorta di delirio psicomotorio alla Charlot. Non stava fermo un
attimo. Nella stessa giornata si spostava continuamente da una parte
all’altra della penisola, e il Popolo d’Italia ne registrava con minuzia il
carosello».
Il Duce pilota di persona il proprio aereo, si ferma a trebbiare con i
contadini, fa visita agli operai, si concede una nuotata per la gioia dei
bagnanti, fa una sorpresa ai bambini della colonia della federazione
fiorentina dei fasci: «Da tutte le parti i bimbi, incuranti degli ordini
delle loro insegnanti che invano cercano di inquadrarli, si sono
precipitati incontro al Duce, chiamandolo a voce altissima e
affollandoglisi intorno, agitando i berretti in un delirio di entusiasmo.
I più coraggiosi gli hanno baciato le mani. Il Duce sorrise a lungo, ha
accarezzato i più vicini, e infine ne ha baciato uno per tutti, tra nuove,
vibrantissime acclamazioni dei piccoli…».
L’obiettivo è creare un’atmosfera impregnata di militarismo: una
mobilitazione permanente, «per le opere di pace e per quelle di
guerra». Mussolini se ne compiace: «Gli stranieri ci compativano; ora
invece ci odiano e di questo odio, ampiamente ricambiato, siamo
fierissimi».
Ora che l’Italia ha l’Impero, si discute tra i gerarchi se liberalizzare
il regime, se introdurre qualche forma di libertà civile. Il consenso non
è forse al culmine? Perché tutti questi timori? Ma il Duce è
fermamente contrario. Non ne vuole sapere. Si può fare qualche
concessione; ma solo decisa da lui, e solo nella forma di benevolenza
verso qualche ex nemico. Autorizza così Mario Missiroli a firmare i
propri articoli, e Nicola Bombacci a pubblicare una piccola rivista
intitolata come la Pravda sovietica: La verità. Ma gli italiani non
hanno nulla di nuovo da attendersi.
Un articolo su Gerarchia, chiaramente ispirato da Mussolini,
definisce «inutile coltivare assurde speranze in una trasformazione del
PNF». Non si vedono ragioni per «smobilitare le armi della sua
organizzazione guerriera». Più tardi il dittatore dirà a Ciano che il
popolo «bisogna tenerlo inquadrato e in uniforme dalla mattina alla
sera. E ci vuole bastone, bastone, bastone». Perciò avanti con polizia
segreta e tribunali speciali. A maggior ragione adesso, che si avvicina
la guerra grossa, quella in Europa.

Da Guernica ai grandi cimiteri sotto la luna


C’è una grande confusione sotto il cielo di Spagna; per chi come
Mussolini è ansioso di menare le mani, il momento è propizio. Nel
1931 la sinistra ha vinto le elezioni e ha cacciato il re; è nata la
Repubblica spagnola. Due anni dopo sono andati al potere i cattolici
di destra. Ma alle elezioni del 1936 prevale il Fronte popolare.
Dal Marocco spagnolo i generali organizzano il Pronunciamiento,
una rivolta contro la Repubblica; presto tra loro emerge il più spietato,
Francisco Franco. Comincia la guerra civile: da una parte le truppe
franchiste e la Falange filofascista; dall’altra i militari rimasti fedeli
alla Repubblica e i volontari delle Brigate internazionali. Partono per
la Spagna alcuni tra gli scrittori più affascinanti del secolo: Ernest
Hemingway, George Orwell, André Malraux, John Dos Passos. «Oggi
in Spagna domani in Italia» proclama Carlo Rosselli, che pagherà
questa frase con la vita. Per combattere il fascismo arrivano Pietro
Nenni, Randolfo Pacciardi, Palmiro Togliatti – che si macchierà delle
fucilazioni degli anarchici a Barcellona –, Luigi Longo, Giuseppe Di
Vittorio. Il Duce manda dodici aerei per aiutare i franchisti a passare
lo Stretto di Gibilterra; tre precipitano durante le operazioni.
Anche in Francia è al potere il Fronte popolare. Il capo del governo,
il socialista Léon Blum, propone che tutti i Paesi europei evitino di
intervenire in Spagna e di armare gli eserciti rivali. Mussolini e Hitler
accettano; ma subito violano il patto, inviando a Franco cannoni e
soldati.
Tra i primi a partire è Bruno Mussolini, il figlio del Duce, alla testa
di una squadriglia che si esercita a bombardare villaggi indifesi. È in
Spagna anche il capo dei servizi segreti, il generale Mario Roatta. Alla
fine l’Italia appoggia Franco con 80 mila uomini, ufficialmente
«volontari», molti in realtà indotti a combattere per la paga. E poi
ottocento aerei, duemila cannoni, 3500 mitragliatrici, novanta tra navi
da guerra e sommergibili. Il tutto senza vantaggi strategici decisivi,
ma per il gusto di influire sulla storia del mondo, e di espandere la
sfera di influenza del fascismo. L’unico Paese che invece si impegna
per la Repubblica è l’Unione Sovietica; i comunisti, all’inizio
nettamente minoritari, conquistano così un peso crescente nel governo
e nell’esercito antifranchista.

Fin da subito la guerra di Mussolini non si limita a violare gli


accordi internazionali; nega le regole più elementari. E configura così
una lunga serie di crimini. Purtroppo non sono molti gli studiosi che
hanno approfondito il tema, con alcune importanti eccezioni, tra cui
Edoardo Mastrorilli, che insegna storia moderna a Barcellona.
Il Duce ordina alla marina di condurre una vera e propria guerra
pirata. Ufficialmente, le nostre navi nel Mediterraneo devono
pattugliare un settore per evitare l’intervento straniero nella questione
spagnola. In realtà, hanno l’ordine di silurare i mercantili che tentano
di rifornire la Spagna repubblicana. Si muovono anche i sommergibili,
per attaccare le navi sovietiche. Siccome la nostra è una guerra segreta
e fuori dalle regole, non sono previsti interventi per salvare gli
equipaggi delle navi affondate, anche solo per comunicarne la
posizione, in totale spregio alla solidarietà tra gli uomini di mare.
Inoltre, il Duce ordina alla marina di cannoneggiare nottetempo e
senza preavviso le coste spagnole, per terrorizzare la popolazione e
favorire l’avanzata franchista.
Lo stesso fa l’aviazione. Nominalmente le forze aeree italiane sono
inquadrate nel Tercio spagnolo; in realtà sono autonome, agli ordini
diretti di Mussolini. Ci sono anche tre bombardieri e dieci caccia
italiani con la Legione Condor che il 26 aprile 1937 rade al suolo un
villaggio basco inerme, uccidendo trecento civili: per dirla con Picasso,
Guernica l’abbiamo fatta anche noi.
È Mussolini in persona a ordinare bombardamenti sulle città
repubblicane, in particolare Barcellona, senza riguardi per la
popolazione. Il 30 gennaio 1938 una bomba italiana penetra nella
chiesa di San Filippo Neri e uccide quarantadue bambini, profughi da
varie zone della Spagna, che hanno cercato riparo nei sotterranei. Nel
solo mese di gennaio le vittime delle bombe italiane sono 482. Il 2
febbraio Ciano annota nel suo diario: «Mussolini ha fatto intensificare
i bombardamenti sulle coste, che spezzano i nervi alle popolazioni».
Ma il Duce non è soddisfatto. Sono i giorni in cui Hitler invade
l’Austria: l’esercito tedesco si affaccia sul Brennero, la Germania si
allarga sino ai nostri confini nord-orientali; Mussolini vuole
dimostrare al Führer di non essere meno spietato di lui. Il 16 marzo
scrive un telegramma urgentissimo al generale Vincenzo Velardi,
comandante dell’aviazione delle Baleari: deve seminare la morte su
Barcellona, concentrandosi sul «centro demografico» della città; il
bersaglio sono proprio i civili.
Si comincia la notte stessa, alle 22, e si va avanti sino al pomeriggio
del 18 marzo. Su Barcellona cadono 44 tonnellate di bombe, senza che
la debole contraerea repubblicana riesca a contrastare i bombardieri
italiani. I morti sono almeno 670, i feriti migliaia: una strage
terroristica, ai danni di un Paese contro cui formalmente non siamo in
guerra, contro una città che oggi è il mito di generazioni di giovani
italiani.
Lo scempio è tale che deve intervenire Franco per fermarlo. Il
Caudillo non è pietoso con gli avversari; ma non può tollerare che
Mussolini rada al suolo la seconda metropoli del Paese. Interviene
anche la diplomazia britannica: Londra non simpatizza per la
Repubblica, ma l’ambasciatore a Roma Perth protesta per il massacro
compiuto dagli italiani. È lo stesso Ciano a lasciarne testimonianza nel
suo diario: «La verità sui bombardamenti di Barcellona è che li ha
ordinati Mussolini … pochi minuti prima di pronunciare il discorso
per l’Austria. Franco non ne sapeva niente e ieri ha chiesto di
sospenderli per tema di complicazioni con l’estero. Mussolini pensa
che questi bombardamenti siano ottimi per piegare il morale dei rossi
… Quando l’ho informato del passo di Perth, non se ne è molto
preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano
a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come
mandolinisti. Ciò, a suo avviso, ci fa salire anche nella considerazione
dei tedeschi che amano la guerra integrale e spietata».
Se muoiono i bambini di Barcellona, è un bene; le loro vite non
contano, anzi servono a dimostrare a Hitler e al mondo che gli italiani
sanno essere crudeli. Purtroppo lo saranno anche gli inglesi e gli
americani, quando bombarderanno le città italiane, dopo che il Duce
avrà dichiarato loro la guerra.

Le forze che Mussolini getta nella fornace di un conflitto cui


ufficialmente non partecipa sono impressionanti; le spese sono
conseguenti. Dopo lo sforzo per l’Etiopia, il bilancio dello Stato è fuori
controllo, l’esercito e l’aviazione ne risentiranno per anni.
Il Ctv, Comando truppe volontarie, è uno strano mix di contadini
poveri, spesso del Sud, che si sono arruolati per sfuggire alla fame, e
di camicie nere, ansiose di menare le mani contro democratici e
comunisti.
Va detto che gli italiani in Spagna tentano di tenersi lontani dai
crimini cui assistono. Dopo la caduta di Malaga, ad esempio, non
partecipano alla mattanza dei prigionieri repubblicani cui si
abbandonano i franchisti; e tranne qualche eccezione risparmieranno
la vita ai nemici che si sono arresi. Ma quando al fianco della
Repubblica scendono in campo le Brigate internazionali, tra cui molti
volontari italiani, il Duce in persona ordina di farli fucilare tutti. Per
molti non c’è nessuna pietà: vengono uccisi sul posto, dopo essere
stati brutalmente percossi.
Il problema è che a volte i fascisti le battaglie le perdono. Come a
Guadalajara, dove i repubblicani fermano i franchisti che puntano su
Madrid; e in particolare il battaglione Garibaldi, composto da
antifascisti italiani, sconfigge le camicie nere. È la prima disfatta del
regime.
(Mi perdoni il lettore un ricordo personale. Quando andavo a
Madrid da giovane, ero ospite del mio amico Antonio De Arjona,
veterano della guerra civile. Uomo dalla vita avventurosa, aveva
sposato una splendida ragazza tedesca, Helga, e custodiva una bella
collezione di tele del Novecento italiano. Ogni volta, la sera, mi facevo
raccontare da Antonio la battaglia di Guadalajara. Lui c’era, e vide i
volontari di Mussolini arrendersi, salutare a pugno chiuso e cantare
Bandiera rossa, nella speranza di essere risparmiati. E il bello è che il
comandante del battaglione Garibaldi era un anticomunista: Randolfo
Pacciardi, repubblicano, l’uomo che aveva indicato in Italo Balbo il
mandante dell’assassinio di don Minzoni. Ferito al volto a Jarama,
Pacciardi era arrivato a Guadalajara nella fase conclusiva dello
scontro, retto fino a quel momento dal suo vice: Ilio Barontini, il
rivoluzionario che aveva militato nell’esercito di Mao in Cina, si era
formato nell’Unione Sovietica e l’anno dopo sarebbe andato a
combattere per il Negus. Sulle note di Faccetta nera, gli antifranchisti
cantavano: «Guadalajara no es Abisinia…». E comunque ai prigionieri
imploranti Pacciardi disse: «Giratevi, vi do un calcio in culo, e vi
rimando dalla mamma»).
La guerra di Spagna è la prova generale della guerra nazifascista,
come si vedrà in Italia dopo l’8 settembre 1943: l’obiettivo è
terrorizzare la popolazione, anche attraverso l’eliminazione fisica dei
prigionieri.
Ma la pagina più nera è ancora da scrivere.
Le isole Baleari sono in mano ai franchisti, tranne Minorca. Da qui
parte un corpo di spedizione, guidato dal comandante Alberto Bayo,
che tenta invano di riprendersi Maiorca. I nazionalisti chiedono aiuto
a Mussolini, che fiuta l’occasione – è la tesi di Enric Juliana,
intellettuale spagnolo che ha studiato l’intervento fascista nella guerra
di Spagna – di fare bottino, e magari prendersi quelle isole nel cuore
del Mediterraneo.
Il Duce manda a Maiorca per reprimere i rossi un vecchio amico:
Arconovaldo Bonacorsi, l’uomo che nel 1925 ha massacrato fuori dalla
Camera il fascista dissidente Alfredo Misuri, colpevole di aver preso
la parola nonostante il divieto di Mussolini.
Bonacorsi non è un soldato, non è un politico. È un fanatico. Ha
preso la laurea in giurisprudenza grazie all’intercessione del dittatore;
come ci siamo detti, tra i gerarchi è pratica comune acquisire una
laurea grazie a professori acquiescenti o terrorizzati. Bonacorsi ha
aperto uno studio legale a Bologna, e ha risolto la concorrenza alla sua
maniera: devastando gli studi dei rivali antifascisti. Accade agli
avvocati Primo Montanari, Giulio Zaccardi, Corradino Fabbri, Dante
Calabri, Giuseppe Angelici, Eugenio e Mario Jacchia. Per fare la faccia
feroce, dopo il fallito attentato di Bologna attribuito ad Anteo
Zamboni ha telegrafato al Duce: «Criminalità avversari fascismo et
traditori patria impone esemplare punizione colpevoli. Offromi come
boia per decapitare arrestati». E come boia si comporterà in Spagna.
Alla guida della falange locale, nome di battaglia «conte Rossi»,
Bonacorsi si mette a caccia di sovversivi. In realtà a Maiorca ce ne
sono pochissimi; inoltre il comandante Bayo se n’è andato, e sull’isola
non c’è alcun pericolo per i franchisti (dopo la guerra, Bayo andrà in
esilio in Messico, dove sarà l’istruttore militare di un giovane
rivoluzionario cubano e di un suo amico argentino: Fidel Castro e Che
Guevara). Ma il «conte» è lì per spargere sangue.
Ogni sera Bonacorsi e i suoi uomini vanno casa per casa a prelevare
famiglie indifese e innocenti, le portano al cimitero di Porreres e le
fanno fucilare.
A Maiorca vive uno scrittore francese, Georges Bernanos, che ha da
poco pubblicato «Diario di un curato di campagna» (inquietante e
splendido il titolo dell’altro suo capolavoro: «Sotto il sole di Satana»).
Bernanos è un cattolico conservatore. Monarchico, da giovane ha
militato nell’Action française. Non a caso a Maiorca è ospite del
marchese Alfonso de Zayas, che capeggia le forze monarchiche. Il suo
stesso figlio a 17 anni si è arruolato nella falange. Bernanos è insomma
un uomo di destra; però è innanzitutto un uomo, e non può che
indignarsi di fronte ai massacri di Bonacorsi, che nel frattempo ha
ammazzato tremila persone, finendo con il disgustare pure i
nazionalisti maiorchini. Nasce così «I grandi cimiteri sotto la luna», il
libro in cui Bernanos denuncia i crimini della guerra civile spagnola, e
in particolare quelli di cui è stato testimone alle Baleari. Commessi da
un fascista italiano, inviato da Mussolini.
Il Duce è costretto a richiamare in patria il massacratore. Bonacorsi
parte allora per Addis Abeba, dove entra subito in urto non solo con il
generale Nasi ma pure con il comandante della Milizia, Giovanni
Passeroni, che lo detesta: in Etiopia la situazione è difficile, e avere tra
i piedi un criminale sanguinario non è di aiuto. Lui sostiene che gli
etiopi vanno governati «con la forza, con insulti e violenze», «col pane
e colla frusta. Ogni altro sistema è fatale».
Nella seconda guerra mondiale, Bonacorsi capeggerà il Reparto
Speciale Autonomo della Milizia, pomposo nome per indicare
trecento arditi che dovrebbero compiere atti di sabotaggio dietro le
linee britanniche; ma i gurkha e i King’s African Rifles non sono i
placidi civili maiorchini; Bonacorsi alza le braccia e viene fatto
prigioniero. Tornerà in Italia nel 1946: processato per l’omicidio di
Anteo Zamboni, sarà prosciolto. Aderirà al Movimento sociale, da
avvocato difenderà il boia tedesco Otto Wagener, che ha fatto fucilare
i nostri soldati a Rodi e deportato gli ebrei italiani del Dodecaneso:
Wagener viene condannato a quindici anni. Bonacorsi si consola
facendo visita al Caudillo a Madrid.
Morirà nel 1962. Il Secolo d’Italia scriverà, a proposito dei giovani
che ne hanno accompagnato la salma: «Rimpiangono di non poter
ripetere le imprese che Bonacorsi ha vissuto, ma di poterle solo
sognare».
Nove
Il razzista
Le leggi contro gli ebrei

Mussolini vede Hitler per la prima volta all’aeroporto di Venezia. È il


1934. Il Führer è pallido, smorto, sotto un cappello grigio e floscio. Il
Duce gli va incontro imperioso, nella divisa di caporale onorario della
Milizia. S’alza un soffio di vento che scompiglia il ciuffo di Hitler.
Mussolini mormora: «Non mi piace». Al sottosegretario agli Esteri, il
triestino Fulvio Suvich, confida: «Questo Hitler, che pulcinella».
Lui è al potere da dodici anni, l’altro da pochi mesi; ma fin
dall’inizio è il tedesco a tenere la parola, a impartire lezioni, a imporre
la propria visione razzista, sanguinaria, delirante dell’uomo e della
storia. «Mi ha letto lunghi brani del suo Mein Kampf e mi ha
catechizzato sulla superiorità razziale dei tedeschi» racconterà
Mussolini dopo l’incontro.
Oltretutto, c’è un altro problema: il Duce parlotta un po’ di tedesco,
ma non lo padroneggia; però per orgoglio rifiuta l’interprete, e molte
parole gli sfuggono; anche perché quell’altro parla velocissimo.
Nel giro di poco, il Duce comincia a invidiare il Führer, e a temerlo.
Talvolta ha per lui parole di autentico odio, come quando i nazisti
austriaci uccidono un suo amico, il cancelliere austriaco Engelbert
Dollfuss; ed è lo stesso Mussolini a dare la terribile notizia alla moglie
e ai figli della vittima, che sono in vacanza nella sua villa di Riccione.
Annota il Duce: «Sarebbe la fine della civiltà europea se questo popolo
di assassini e di pederasti dovesse invadere l’Europa. Hitler è
l’assassino di Dollfuss, è un orribile degenerato sessuale, un pazzo
pericoloso». Un giudizio lucido, quasi oggettivo. Ma all’assassino, al
degenerato, al pazzo pericoloso lui legherà la sua sorte personale e
quella degli italiani.
Il nazismo è più forte; per questo bisogna imitarlo. Noi siamo
troppo buoni. Occorre che gli italiani «siano meno simpatici e
diventino duri, implacabili e odiosi, cioè padroni». Parole che oggi
possono fare sorridere; ma all’epoca significano che davvero
Mussolini si è messo in testa di cambiarci; e il cambiamento non può
che passare attraverso la guerra e la persecuzione delle «razze
inferiori».

Il passo degli assiri


Del nazismo Mussolini copia le cose più ridicole e quelle più odiose.
Le parate, le facce truculente, il passo dell’oca, «che i sedentari, i
panciuti, i deficienti, le cosiddette mezze cartucce non potranno mai
fare» (il re si riconosce nella definizione di mezza cartuccia e si
offende). E, quel che è più grave, la persecuzione dei «diversi», dei
«non ariani», dei «non italiani». A cominciare dagli ebrei.
Ovviamente, il Duce nega di voler seguire Hitler. Negli aspetti
bizzarri come in quelli atroci. Il 2 febbraio 1938 il Corriere della Sera
informa – o è costretto a informare – i lettori che il passo dell’oca non
è, «come sostengono alcuni ignoranti e malevoli», copiato dai nazisti;
«si ricollega alle tradizioni militariste assire, egiziane e soprattutto
romane che, perse nel Medioevo, sono state riprese dal XVIII secolo».
Papa Pio XI – Achille Ratti, brianzolo di Desio, il Pontefice che ha
firmato con il Duce i patti lateranensi – ha già condannato il razzismo
e l’antisemitismo con un’enciclica scritta non a caso in tedesco, «Mit
Brennender Sorge», con viva preoccupazione. Ora critica il Duce: «Ci
si può chiedere come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto
bisogno di andare a imitare la Germania!». Il Duce reagisce
rabbiosamente: «Dire che il fascismo ha imitato qualcosa o qualcuno è
semplicemente assurdo». Il Papa tiene il punto: «Il razzismo è un
errore». Mussolini si fa aggressivo, sino all’insulto: «Coloro i quali
fanno credere che noi nella questione razziale abbiamo obbedito a
imitazioni, o peggio a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali
non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà». E a
Ciano confida: «Io non sottovaluto la forza del Papa; ma lui non deve
sottovalutare la mia. Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto
l’anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare non
poco per ingurgitare un Dio ebreo».

Da decenni gli storici discutono se Mussolini sia sempre stato


razzista e nemico degli ebrei, o se lo sia diventato su influenza di
Hitler. In realtà hanno tutti ragione, almeno a seconda della fonte che
citano. Perché Mussolini poteva essere tutto e il suo contrario: dipende
dall’interesse del momento, dalla persona che ha di fronte. Così a
Chaim Weizmann, capo dell’organizzazione sionista, assicura: «Io
sono sionista». Ma al telefono con Giorgio Pini, direttore del Popolo
d’Italia, afferma: «Come lei sa, io sono antisemita».
Qualche frecciata agli ebrei l’ha sempre rivolta, fin dall’inizio: i
«pallidi giudei» hanno contribuito alla decadenza di Roma e
all’avvento del comunismo; così il giovane Mussolini si scagliava
contro «gli irati numi dell’olimpo semitico che dirige il bolscevismo».
Eppure sono ebrei persone a lui vicinissime, da Margherita Sarfatti ad
Aldo Finzi, da Angelica Balabanoff a Enrico Rocca, fondatore del
fascio romano. Mussolini si fa intervistare da uno scrittore ebreo –
Emil Ludwig, che si chiama in realtà Emil Cohn – e gli dice: «Un
problema ebraico in Italia non esiste». Ma già nel 1936, quando
l’alleanza con la Germania si rinsalda, ai giornali arrivano ordini
precisi: «Siete invitati a non interessarvi mai di alcuna cosa
riguardante Einstein»; «ignorare le notizie su personalità di origine
ebraica».
Il 6 novembre 1937 viene a Roma Joachim von Ribbentrop, il
ministro degli Esteri del patto di spartizione della Polonia con
l’Unione Sovietica, uno che sarà impiccato a Norimberga come
criminale di guerra. Mussolini fa di tutto per compiacerlo: «Sto
combattendo una battaglia antisemita molto decisa e sempre più
intensa». E con gli intimi si lascia andare a frasi grottesche e crudeli,
tipo questa che Ciano annota nel suo diario: «La proposta di
concentrare gli ebrei nella Migiurtinia e di adibirli alla pesca del
pescecane mi pare vantaggiosa anche perché, in un primo tempo,
molti finirebbero mangiati» (sono andato a cercare in Rete il luogo
dove il Duce avrebbe voluto deportare gli ebrei: la Migiurtinia è una
regione nel Nord della Somalia).
Gli ebrei italiani intuiscono che qualcosa sta cambiando, che
arrivano tempi duri; alcuni cominciano a dimettersi dai pubblici uffici.
Il 12 marzo 1938 Hitler si prende l’Austria, e Mussolini accetta il fatto
compiuto: l’esercito nazista è alle nostre frontiere.
Il 14 luglio 1938 viene pubblicato il Manifesto della razza, firmato
da dieci scienziati: si va da Arturo Donaggio, presidente della Società
italiana di Psichiatria, a Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di
Zoologia dell’università di Roma. Il più noto è Nicola Pende,
l’endocrinologo. Mussolini ci ha messo le mani, anzi si vanta con
Ciano di averlo scritto tutto lui. Certo sono sue frasi come questa:
«Giacché da molti secoli non vi è stato in Italia un afflusso di altri
popoli capace di turbare l’equilibrio razzistico, esiste ormai in Italia
una razza pura». Siamo alla pseudostoria, alla pseudoscienza.

Via i bambini da scuola


Ci sono due leggende da sfatare. La prima: le leggi razziali furono
blande al confronto di quelle tedesche; ma non è così, anche perché
non escono tutte insieme, vengono inasprite, a volte con inutili
crudeltà. La seconda: le leggi razziali non furono applicate con
severità. Purtroppo non è vero neppure questo.
Il 5 settembre 1938 entra in vigore una disposizione su proposta del
Gran Consiglio del fascismo: è vietato agli ebrei insegnare nelle scuole
pubbliche, iscriversi all’università, far parte di istituti, accademie,
associazioni delle scienze e delle arti.
Dal 17 novembre è proibito il matrimonio tra ariani ed ebrei; gli
ebrei stranieri saranno espulsi, gli ebrei italiani non potranno più
iscriversi al partito – premessa necessaria per molti lavori e per fare
impresa –, prestare il servizio militare, dirigere aziende con più di
cento dipendenti, possedere più di cinquanta ettari di terra.
Tutti gli ebrei, anche i bambini, devono lasciare la scuola. Duecento
studenti universitari, mille liceali, quasi 4500 scolari sono costretti ad
abbandonare le loro classi, senza avere fatto niente di male, senza che
apparentemente sia cambiato nulla nella vita loro e dei compagni.
Di fatto viene introdotta l’apartheid. Un regime segregazionista.
Gli ebrei italiani sono attoniti, increduli, annichiliti. Umberto Saba
scrive: «Sono un poeta italiano che, per essere nato da madre ebrea,
sarò, così all’improvviso, tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho
tanto amato». La stampa li addita come estranei alla nazione; il che
non è solo odioso, è contraddetto dalla storia; molti ebrei sono stati tra
i protagonisti del Risorgimento, molti sono caduti nelle trincee della
Grande Guerra. Qualcuno cerca la salvezza, ottiene di essere
«discriminato» per meriti fascisti, per benemerenze militari, per aver
sposato un uomo o una donna cattolica. Altri preferiscono l’esilio, o la
morte. Si tolgono la vita alcuni militari costretti a lasciare l’esercito. Gli
ebrei suicidi a causa delle leggi razziali – prima dell’invasione nazista
– sono almeno trenta.
A Torino Emilio Foà, padre di famiglia, sceglie la morte nella
speranza che i figli e la vedova non siano più perseguitati: «Vi lascio.
Salvo così la mia famiglia. Sarebbe stata la miseria».
Angelo Formiggini, editore modenese, uomo colto e grande
umorista, la mattina del 29 novembre 1938 sale sul campanile del
Duomo, la Ghirlandina, e si getta nel vuoto, gridando «Italia, Italia,
Italia!»; come a scuotere le coscienze. Le leggi del Duce lo avrebbero
privato del suo lavoro, che coincideva con la sua vita. Come accade
alle anime romantiche, ha pensato a lungo alla propria morte, e ha
predisposto tutto. Scrive che si getterà con le tasche piene di soldi,
perché i fascisti non possano dire che si è ucciso per motivi economici.
Prevede che cadrà sul selciato in un punto che ironicamente chiede di
chiamare «al tvajol ed Furmajin», il tovagliolo di Formaggino; una
lapide oggi così lo ricorda. Ma poi il suo sorriso amaro cede il posto
all’indignazione. Alla moglie lascia scritto: «Non posso rinunciare a
ciò che considero un mio preciso dovere. Io debbo dimostrare
l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti». Così dovremmo
chiamarli. Non leggi razziali, come le definì Mussolini; leggi razziste,
come le definì un uomo che diede la vita per protestare. Così è più
chiaro.
I giornali non danno notizia del suicidio di Angelo Formiggini:
pubblicare notizie sugli ebrei è vietato. Ma, come scrive Renzo De
Felice, «gli italiani degni di questo nome, ebrei o ariani che fossero,
compresero … il significato di quel gesto disperato e al tempo stesso
eroico: la discriminazione – checché dicessero Mussolini e i suoi corifei
– era persecuzione, la più barbara e la più ingiusta che da secoli la
terra italiana avesse conosciuta, e il Formiggini con il suo estremo
gesto lo aveva gettato in faccia al fascismo intero».
Il commento di Achille Starace è indicativo della miseria morale
sua, del suo capo, del regime di cui è stato uno dei principali
esponenti: «È morto proprio come un ebreo. Si è buttato da una torre
per risparmiare un colpo di pistola».

L’italiano medio non si è sempre distinto per coraggio e solidarietà


verso le piccole comunità colpite da ingiustizie e disgrazie; ma
stavolta non capisce questo problema inventato, non comprende la
ragione per cui far soffrire inutilmente famiglie, bambini, persone che
sono pur sempre sue compatriote. Ciano parla di «commozione»
generale. Ma forse l’italiano medio non esiste. Esistono gli zelanti,
ansiosi di compiacere il padrone. Esistono italiani che hanno la forza
di dire no. Ed esistono italiani che girano la testa dall’altra parte.
A Torino, che resta la città meno fascista d’Italia, un giovane che
pure ha combattuto in Spagna da volontario con i franchisti, Edgardo
Sogno, passeggia sotto i portici di via Po con una stella gialla
appuntata sul petto: è il suo modo di esprimere solidarietà ai
perseguitati. Ma nella stessa città i dirigenti della Toro Assicurazioni
recapitano in giornata la lettera di licenziamento agli impiegati ebrei.
Altrettanto fanno banche, compagnie di assicurazioni, istituzioni
finanziarie di tutta Italia, mettendo sul lastrico famiglie che non
troveranno altri lavori. Eppure la federazione torinese scrive al partito
a Roma per testimoniare «il profondo senso di compatimento che si
riscontra nell’opinione pubblica … Circa il problema degli ebrei
perdura l’incertezza e il malcontento di tutti. Quasi nessuno sente la
campagna razzista come è stata fatta».
Gli ebrei ricevono lettere di solidarietà: «Un cordiale saluto con
l’antica amicizia»; «in questa ora triste ti prego di gradire il mio
affettuoso saluto. Dimmi quando posso venire a trovarti». Persino Il
Popolo d’Italia riceve lettere di protesta. Il Duce, informato, si irrita, e
ordina a Pini di titolare: «Noi tireremo diritto sulla questione della
razza».
La Difesa della Razza si chiama il giornale diretto da Telesio
Interlandi. Segretario di redazione è Giorgio Almirante. Parte bene, 85
mila copie il primo numero, 105 mila il secondo, poi precipita a
ventimila copie. Le comprano i fanatici del partito e gli stessi ebrei,
che tentano di capire quel che potrà accadere loro. Scrive Giorgio
Bocca, nella sua «Storia d’Italia nella guerra fascista»: «Al lettore
comune sono bastate le sciocchezze dei primi numeri, soprattutto quel
campionario fotografico di tipi ariani, uomini e donne alti con i capelli
chiari e gli occhi cerulei in cui nessuno, salvo forse i triestini, si
riconosce». Interlandi gira sempre con il frustino da cavallerizzo
(come peraltro Starace). La sua ossessione per «il mito del sangue»
ispira i versi ironici di Mino Maccari, che pure non è certo antifascista:
«A Telesio Interlandi/ or ciascun si raccomandi/ presentando, com’è
logico/ l’albero genealogico».
A Trieste il federale Emilio Grazioli protegge le antiche famiglie
ebraiche della città, i Salem, i Morpurgo, e viene rimproverato per
questo da Roma. Il federale di Milano, Rino Parenti, è invece
amareggiato perché la campagna razzista incontra difficoltà, «per via
dei soliti ariani sentimentali».
Una giovane studentessa, Franca Norsa, che diventerà celebre con il
nome di Franca Valeri, lascia il liceo Parini e dà l’esame di maturità al
Manzoni; nessuno se ne accorge. «L’Italia» commenterà molti anni
dopo, al termine della sua lunghissima vita «ha sempre avuto le sue
inefficienze». Una ricercatrice, espulsa dall’università, si chiude nella
sua stanza a Torino e si dedica notte e giorno agli studi sul sistema
nervoso che le varranno il Nobel per la medicina: il suo nome è Rita
Levi-Montalcini.
Il re ha firmato senza fare storie. La regina Elena è preoccupata per
il suo medico personale, il dottor Ervino Stukjold, che è ebreo: chiede
aiuto a Ciano, perché Vittorio Emanuele non osa parlarne con il Duce.
Il Papa prepara un’enciclica ancora più dura, di aperta condanna
del nazismo e del fascismo, e fa sapere: «L’intera razza umana non è
che un’unica e universale razza di uomini». Mussolini reagisce
ricordando che nella sua Romagna le chiese erano sprangate, e ora la
gente è tornata a frequentarla solo perché lo vuole lui. Il Duce auspica
che il Papa muoia presto. Purtroppo sarà accontentato. A Ratti
succederà Eugenio Pacelli, uomo prudente, che metterà la nuova
enciclica nel cassetto.
Il 5 novembre 1938, a due mesi dall’entrata in vigore delle leggi
razziste, le famiglie «discriminate», cioè sottratte alla persecuzione,
sono già 3522 su 15 mila. Non sempre si tratta di solidarietà: avvocati
e magistrati fascisti intascano mazzette in cambio delle
«arianizzazioni». Farinacci ha fissato la tariffa: due milioni per ogni
caso.
Funzionari zelanti si macchiano di gesti che non si saprebbe se
definire turpi o ridicoli: a Rimini, per accertare se il signor Franco
Ascoli è ebreo, la questura verifica se il figlio morto in culla è sepolto
ad Ancona nel cimitero cattolico o in quello ebraico. A Bologna il
podestà cambia nome a via dei Giudei, che diventa via delle Due
Torri.
Restano le sofferenze ingiuste, le umiliazioni gratuite, quel senso di
disgusto, di stanchezza morale che si prova per i crimini che sono nel
contempo anche errori. Si allarga una crepa nel muro del consenso, si
comincia a capire che l’Italia è attesa da anni difficili, se non
drammatici.
Mussolini annota che sono soprattutto i vecchi a protestare: «Per
fortuna i giovani sono convinti; ormai ho inoculato l’antisemitismo nel
popolo italiano». In realtà non sono convinti neppure i quadrumviri:
Emilio De Bono sostiene che non si possono disconoscere come italiani
gli ebrei che hanno combattuto la prima guerra mondiale; Italo Balbo,
che ha amici nella comunità ebraica ferrarese, è contrario e non
introduce le leggi antisemite nella Libia di cui è governatore (vorrà
però una norma che obbliga i commercianti a tenere aperti i negozi il
sabato, pena la fustigazione). Anche Marinetti critica i persecutori
degli ebrei. Ezio Garibaldi, il nipote del generale, che ha aderito al
regime (mentre il fratello Sante anima in Francia gruppi antifascisti), è
indignato per le leggi razziste, e definisce le argomentazioni del
filosofo filonazista Giulio Cogni «cognonerie».
Roberto Farinacci, il più deciso assertore dell’alleanza con la
Germania, salva il posto alla sua segretaria Jole Foà. Il Duce si
incaponisce: «Tu non puoi avere con te un’ebrea. Licenziala».
Farinacci risponde che non ha i soldi per pagarle la buonuscita.
Mussolini finge di non ricordare che Farinacci è tutt’altro che
pezzente, e gli fa avere cinquantamila lire per la liquidazione.
I gerarchi incrudeliscono: ognuno si alza a proporre una nuova
norma persecutoria; gli altri la approvano. Vietato rappresentare
drammi e commedie di autori ebrei. Gli ebrei vengono cancellati dagli
elenchi del telefono. È proibito agli ebrei tenere conferenze e firmare
articoli, anche sotto pseudonimo. Vietato vendere ricordini in piazza
San Pietro. Vietato tenere banchi in campo de’ Fiori. Vietato
frequentare le località di cura e di villeggiatura. Gli ebrei non possono
ascoltare la radio, né avere una persona di servizio. Ma il massimo
della crudeltà è forse proibire di pubblicare sui giornali i necrologi
degli ebrei.
Vittorio Foa, che sta scontando una condanna a 15 anni, ha un
incubo in cella: sogna che una legge imporrà di bandire dai cimiteri di
guerra le salme dei caduti ebrei, mentre i giornali precisano che non si
sta copiando dalla Germania, perché quel provvedimento è del tutto
originale. Quasi un presagio della catastrofe che incombe sugli ebrei e
su tutti gli italiani.

Il Duce e Margherita
Tra le vittime delle leggi razziste c’è Margherita Sarfatti. Mussolini
non esita a far perseguitare e trattare da persona non degna la donna
che l’ha amato di più, e a cui più deve.
Margherita Sarfatti non è stata solo una tra le tante amanti del
Duce. Prima critica d’arte italiana, amica dei grandi artisti del tempo,
da Umberto Boccioni a Mario Sironi, è stata lei a introdurlo nel salotto
di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, i capi del socialismo italiano. È
stata lei a finanziare la marcia su Roma e a convincere un Mussolini
impaurito a rischiare. Gli ha insegnato tutto sull’arte, i libri, financo
sul modo di stare a tavola. Gli ha scritto lettere piene d’amore,
accettando la sua scelta di restare con la moglie e anche i suoi
tradimenti. E ha scritto un libro, «Dux», un best-seller internazionale,
che ha forgiato il mito del Duce anche all’estero.
Mussolini l’ha usata e l’ha abbandonata quando non gli serviva più.
Nella fase dell’ascesa ha preso da lei tutto quello che poteva dargli:
appoggio morale, sostegno culturale, denaro. Ma fin dai primi anni
del potere l’ha tenuta a distanza. Non le ha dato retta neppure quando
lei aveva ragione.
Nel 1934 Margherita va in America. Scrive su Time e Life, i giornali
del gruppo Hearst. È amica di Diego Rivera, che aveva appena visto
distruggere l’affresco al Rockefeller Center in cui aveva ritratto Lenin
nel tempio del capitalismo. Soprattutto, il presidente Roosevelt
conosce il suo rapporto con Mussolini. La riceve, e le affida un
messaggio per il Duce: l’America non gli è nemica; ma lo diventerebbe
se lui si gettasse tra le braccia di Hitler. Al ritorno a Roma, la Sarfatti
chiede udienza al suo antico amante, che a lungo rifiuta di incontrarla.
Quando finalmente accetta, la ascolta con impazienza, e la liquida
sbuffando: «L’America non conta». Insomma, Mussolini non ha capito
in quale direzione vanno il mondo e la storia.
L’anno dopo il Duce attacca l’Etiopia. Ad ascoltare la dichiarazione
di guerra c’è anche Margherita Sarfatti, che scuote il capo. L’amico che
la accompagna le chiede: «Donna Margherita, pensa che perderemo la
guerra?». E lei: «No, purtroppo credo che la vinceremo; e lui perderà
la testa».
La sua grande paura, l’alleanza con l’antisemita Hitler, prende
corpo. Per tentare di evitarla, la Sarfatti cerca l’appoggio di Gabriele
D’Annunzio, anch’egli contrario all’abbraccio fatale con la Germania
nazista. Gli scrive lettere preoccupate e appassionate, va a incontrarlo.
Ma il Vate è ormai vecchio e malato. Muore il primo marzo 1938.
Due mesi dopo, Hitler è a Roma. La Sarfatti è invitata al
ricevimento offerto dalla famiglia reale per l’alleato tedesco.
Margherita è donna sensibile e intelligente: vede il Führer, lo ascolta,
ha la conferma dei peggiori sospetti: quell’uomo è un diavolo; e il
Duce che lei ha creato sta per affidarsi a lui, per giocare la partita
finale al suo fianco, sulla pelle dell’Europa e del popolo ebraico.
Margherita è sconvolta. Disperata. Beve. Afferra un bicchiere da ogni
vassoio che passa. Si ubriaca. Il principe Umberto si preoccupa per lei
e la fa riaccompagnare a casa dall’autista. Mussolini neppure se ne
accorge: ha altro per la testa. Semmai i suoi occhi sono per Fiammetta,
la figlia della Sarfatti. E ovviamente per la propria giovanissima
amante: Clara Petacci, che passerà alla storia come Claretta.
La Petacci è gelosa del prestigio della Sarfatti e dell’influenza che
ha avuto sul suo «Ben». Per rabbonirla, lui arriva alla volgarità di dirle
che «puzzava»; e in ogni caso non l’ha mai amata, quell’ebrea. Non un
crimine, come chiudere e far morire in manicomio Ida Dalser e il figlio
Benito Albino; ma comunque un comportamento spregevole.
Finito il ricevimento al Quirinale, all’una di notte, Hitler chiede una
donna. Sconcerto e panico a Palazzo. Poi si chiarisce l’equivoco: non
vuole una prostituta, ma una cameriera; il capo del Terzo Reich non
riesce a prendere sonno, se non vede con i suoi occhi una donna
rifargli il letto. Così almeno scrive Galeazzo Ciano, riferendo il
racconto del re, secondo cui «Hitler si fa iniezioni eccitanti e di
stupefacenti». Mussolini si limita ad annotare che il Führer ravviva le
guance con il rossetto, per attenuare il suo inquietante pallore.
Il tempo dell’amore per Margherita è sideralmente lontano. A
Paolo Thaon di Revel, suo vecchio ministro e uomo del re, il Duce
ricorda di aver avuto un’amante ebrea: «La Sarfatti, donna
intelligente, fascista, madre di un autentico eroe». Roberto Sarfatti si
era arruolato volontario nella Grande Guerra a 17 anni ed era caduto
in combattimento. «Eppure, cinque anni fa,» prosegue il Duce
«prevedendo che il problema ebraico si sarebbe imposto anche a noi,
io ho provveduto a liberarmene. La feci licenziare dal Popolo d’Italia e
dalla direzione di Gerarchia… con regolare liquidazione, s’intende».
Dopo le leggi razziste, Margherita Sarfatti fugge. Spera di
raggiungere gli Stati Uniti, ma non ci riesce, e si rifugia in Sud
America. Sua sorella Nella morirà ad Auschwitz.
Lei tornerà dall’esilio solo nel 1947. Ormai è condannata alla
damnatio memoriae: in pochi – da Indro Montanelli a Renzo De Felice
– sono disposti a riconoscerle il ruolo che ha avuto nella critica d’arte e
nella cultura italiana. Nessuno nel nostro Paese pubblicherà il libro
che scrisse in Sud America, intitolato «Mea culpa», che uscirà
postumo negli Stati Uniti, con il titolo «My fault». Il suo errore era
stato creare l’uomo che l’ha distrutta; e l’Italia con lei.

Verso l’abisso
Nel 1939 compaiono nelle vetrine dei negozi delle città italiane cartelli
che vietano l’ingresso agli ebrei. Un commerciante di macchine da
scrivere accanto al Battistero di Firenze precisa che l’ingresso è vietato
«ai cani e agli ebrei». Le violenze per il momento sono soltanto
verbali. Mussolini si scaglia contro i «pietisti», che non dimostrano
sufficiente odio razziale.
Renato Cingoli è un medico. È stato capitano nella Grande Guerra,
lavora per istituzioni pubbliche. Lo licenziano, gli tolgono le
decorazioni meritate al fronte. Per sopravvivere esercita privatamente;
lo cancellano dall’ordine dei medici. Il primo giugno 1940 il pretore di
Alessandria lo multa per esercizio abusivo della professione: ha
prestato gratuitamente soccorso in un caso di urgenza.
A Novellara il cavaliere Carlo Segré, uomo anziano e rispettato, si
trova adesso ai margini della società, i conoscenti non lo salutano più
per strada. Una sera, al teatro comunale, giovinastri in camicia nera lo
apostrofano: «Oh te, rabbi, seneghin!», ehi tu, rabbino, ebreuccio!
Carlo Segré si suicida con il veleno il 6 giugno 1939.
Nonostante le censure e i divieti, le voci sui suicidi degli ebrei
circolano, si aggiungono particolari, diventa difficile distinguere il
vero dal falso o dal verosimile. Si racconta di un colonnello ebreo che
ha preso congedo dalle sue truppe, ha ringraziato per l’affetto
ricevuto, chiesto perdono per le proprie mancanze, annunciato di
voler partire per un lungo viaggio; e si è ucciso.
Un’informativa di polizia del 30 giugno 1939 è intitolata «Il
disfattismo provocato dagli EBREI che minacciano di togliersi la vita».
E fa i nomi, oltre che dell’editore Formiggini, del colonnello di Stato
maggiore Giorgio Morpurgo, del minore dei fratelli Funari, argentieri
a Roma in via Frattina. Inoltre riferisce voci su quattro ebrei stranieri
che si sarebbero suicidati a Taormina «spiccando un salto dalla
roccia», e addirittura di un bastimento di duemila ebrei tornato in
porto vuoto a Trieste dopo aver raggiunto il largo. «Tali voci hanno
un effetto disfattista» ammonisce un informatore «anche perché
ritengo un po’ ingenuo credere di poter cambiare il temperamento
naturalmente sentimentale degli italiani». Vi contribuiscono i
sacerdoti, con il loro «pietismo».
Di sicuro, molti se ne vanno. Tra il ’38 e il ’41 lasciano il nostro
Paese seimila ebrei, di cui metà italiani. Mussolini se ne rallegra, e nel
febbraio 1940 scrive al nuovo presidente dell’Unione delle comunità
israelitiche, Dante Almansi, che gli ebrei italiani devono andarsene
gradualmente ma definitivamente, tutti.
Neppure lo sport è risparmiato. L’allenatore del Bologna è un ebreo
ungherese, Árpád Weisz, in Italia da molti anni. Alla testa dei
rossoblu ha vinto due scudetti, dopo quello conquistato con l’Inter. Il
regime l’ha già costretto a cambiare la grafia del suo cognome in
Veisz; la moglie Ilona, anche lei ebrea ungherese, è diventata Elena.
Hanno due figli, nati a Milano, Roberto e Clara. Il presidente Renato
Dall’Ara, l’uomo cui è dedicato lo stadio della rossa Bologna,
obbedisce alle leggi fasciste e lo licenzia in tronco. Weisz è costretto a
lasciare l’Italia. Trova lavoro in Olanda. Ma con la guerra i nazisti
arrivano anche lì. Prendono lui, sua moglie, i suoi figli, e li portano ad
Auschwitz. Elena, Roberto e Clara finiscono subito nelle camere a gas.
Árpád sopravvive per quindici mesi in un campo di lavoro: una lunga
discesa agli inferi, interrotta dal ritorno ad Auschwitz. La morte arriva
come una liberazione.
Per fortuna il presidente del Grande Torino, Ferruccio Novo, è
uomo di un’altra tempra. Anche lui ha un allenatore ebreo, Ernest
Erbstein; ma non si lascia intimidire dal regime, e rifiuta di mandarlo
via. Quando il clima si fa più pesante, organizza uno scambio di
allenatori con il Feyenoord di Rotterdam; ma è sempre Erbstein a fare
la campagna acquisti del Toro. Finita la guerra, Novo lo attende al
Filadelfia per nominarlo direttore tecnico. Insieme vinceranno quattro
scudetti, e Ernest Erbstein troverà la morte sulla collina di Superga.

Quando l’Italia entra in guerra al fianco della Germania, gli ebrei


sono considerati nemici in patria. Seimila ebrei stranieri e quattrocento
italiani perdono la libertà. Vengono mandati al confino o chiusi in
campi di prigionia, spesso in zone malariche. Li trasferiscono in
manette, scortati dai carabinieri, come banditi. Le condizioni non sono
uguali dappertutto: il comandante del campo di Ferramonti, in
Calabria, Paolo Salvatore, commissario di polizia, è un uomo buono, a
volte carica i bambini ebrei in macchina e li porta a prendere il gelato;
non a caso il regime lo accusa di eccessiva indulgenza verso gli
internati. Ma a Pisticci, in Basilicata, la prigionia è molto più dura,
molti ebrei si ammalano di malaria. In ogni caso non è loro consentito
lavorare, non hanno denaro né prospettive, sono del tutto in balia
della sorte.
Con la guerra cominciano anche le violenze fisiche, i primi pogrom
all’italiana. Nell’ottobre 1941 gli squadristi di Trieste vanno a vedere
un odioso film della propaganda antisemita, «Süss l’ebreo», ne escono
indignati ed eccitati, e assaltano la sinagoga, rompono le vetrate,
imbrattano i muri. Lo stesso accade in un’altra città dove vive
un’antichissima comunità ebraica, Ferrara. Una squadraccia al
comando del gerarca Asvero Gravelli profana la sinagoga, distrugge i
marmi, gli altari, i vetri, i mobili, razzia gli arredi sacri e i libri di
preghiere. Poi va a casa del rabbino capo, Leone Leoni, e lo
schiaffeggia.
Il 28 ottobre 1942, a Pisa, per commemorare il ventesimo
anniversario della marcia su Roma, i fascisti percorrono il centro,
distruggendo insegne e vetrine dei negozi degli ebrei.
L’ultimo affronto di Mussolini prima della caduta è l’istituzione del
lavoro obbligatorio. Oltre duemila ebrei, tra cui anziani e
giovanissimi, sono costretti a corvée umilianti e talora inutili, spesso
lontano dalle città. La guerra va sempre peggio, gli italiani di religione
ebraica diventano i capri espiatori. Le speranze di pace si alternano al
terrore della vendetta tedesca. Quello che sta per accadere farà
sembrare le ingiustizie e le vigliaccherie degli anni tra il 1938 e il 1943
come il prologo di una tragedia incomparabilmente più grande.
Dieci
Guerra criminale contro il popolo italiano
Congelati e abbandonati in Francia, Grecia, Russia

Firmato il patto d’Acciaio il 22 maggio 1939, il Duce non ha più vie di


fuga. Purtroppo non ha compreso il guaio in cui si è andato a cacciare.
Il giorno dopo Hitler avverte i suoi generali: «La guerra è inevitabile».
Anche Mussolini la vuole: si illude ancora che sarà breve, poco più di
una passeggiata militare; non si rende conto che sarà invece una prova
dura e sanguinosa, che si volgerà in un disastro, anche a causa dei
suoi errori e dei suoi crimini.
Perché non soltanto aggredire un altro popolo è un crimine.
Anche mandare i propri soldati in guerra senza armi e senza
equipaggiamento adeguati è un crimine. Esporli al fuoco nemico, a
carri armati grandi come case, al freddo delle Alpi e dell’Epiro, al gelo
dell’inverno russo – e le scarpe con la suola di cartone non sono
purtroppo una fake news –: anche questo è un crimine. Contro il
proprio stesso popolo.

Vale la pena morire per Traù?


Alla conferenza di Monaco, il 29 e 30 settembre 1938, francesi e inglesi
hanno sperato di sfamare il lupo nazista dandogli in pasto i Sudeti, la
regione della Cecoslovacchia dove vive una comunità tedesca
(ovviamente il lupo sbranerà l’intero Paese: meno di sei mesi dopo, le
truppe di Hitler sfileranno per Praga). I giornali italiani presentano
Mussolini come arbiter mundi, il conciliatore delle grandi potenze, il
salvatore della pace. Migliaia di persone si assiepano lungo la ferrovia
che dal Brennero scende a Roma per applaudirlo: nelle piccole
stazioni si vedono donne vestite di nero in ginocchio, mani che si
levano a ringraziare il pacificatore.
Il Duce è delusissimo.
Ma come? Prepara la guerra da sedici anni, ha lavorato tanto per
cambiare gli italiani, per fare di loro un popolo guerriero, e questo è il
risultato? La gente lo applaude per ringraziarlo della pace, anziché
chiedergli di combattere?
A Roma in piazza Esedra gli hanno fatto trovare un arco di trionfo
composto da verdi fronde, con una grande lettera M. Mussolini va su
tutte le furie: «Cosa vuol dire questa carnevalata?».
Vuol dire che persino i gerarchi non vogliono la guerra. Gli italiani,
tranne chi ha da guadagnarci – ufficiali e industriali –, non hanno
nessuna voglia di combattere. Il clima è molto lontano da quello del
1915. Anche allora la maggioranza dei contadini e degli operai era
contraria; ma c’era un pezzo di Italia da liberare, c’era un movimento
autentico – studenti, artisti, borghesi – che la guerra la voleva. Non si
era ancora conosciuto il bagno di sangue, nessuno aveva sentito
attorno a sé il sibilo delle mitragliatrici, non c’erano nelle città italiane
un milione di mutilati. Era il tempo del futurismo e di D’Annunzio, di
retorica tonante ma anche di giuste rivendicazioni: Trento, Trieste, le
coste dell’Istria; terre italiane di lingua e di cuore, da ricongiungere
alla patria. Stavolta i manifestanti innalzano cartelli con i nomi di città
che nessuno ha mai sentito nominare – Traù, Biserta –, o invocano
Nizza, che è francese da quasi ottant’anni, e la Corsica, che lo è da
quasi due secoli.
Fatto sta che in un vespasiano lo scrittore Arrigo Cajumi trova una
frase, scritta il giorno degli accordi di Monaco: «La pace ha salvato
Mussolini, non viceversa». Ma forse quello del vespasiano è un
espediente per attribuire alla saggezza popolare una cosa che non solo
Cajumi, ma un po’ tutti pensano.
Neppure il re è entusiasta. Una mattina chiede a Mussolini se sa che
dopo la conferenza di Monaco è universalmente considerato il
Gauleiter, il proconsole di Hitler in Italia. Mussolini ci resta male e si
sfoga con Ciano: «Se Hitler avesse avuto tra i piedi una testa di cazzo
di re non avrebbe mai potuto prendere l’Austria e la Cecoslovacchia!».
Ma verrà anche per il Duce il momento delle audaci e rapide
conquiste: «Avete mai osservato il gatto, quando studia la preda e
d’un balzo le è sopra? Osservatelo. Io mi propongo d’agire nello stesso
modo».
Le reclute non hanno alcun entusiasmo. Nel 1939 il tribunale
militare infligge 365 condanne per diserzione o ammutinamento, il
doppio rispetto a due anni prima. Gruppi di richiamati finiscono in
carcere per «grida sovversive» a Thiene, Villanova Baltea, Caprino
Bergamasco, Milano, dove un reparto ha cantato: «Prendi il fucile e
buttalo per terra/ vogliam la pace, abbasso la guerra».
Quali sarebbero esattamente gli obiettivi di questo nuovo conflitto?
Quali sono i nostri nemici? Quali i nostri veri amici? L’atavica paura
del tedesco è rinfocolata dal cupo orizzonte di un’Europa dominata da
Hitler. Molti sono affascinati dalla sua forza, irretiti dalle velleità di
conquista. Molti altri capiscono che la vittoria dei nazisti sarebbe
peggio di una sconfitta. Man mano che le cose si metteranno male,
l’avvicinarsi degli inglesi e degli americani appariranno a un numero
crescente di italiani – pur con immenso dolore, dai bombardamenti
alla guerra civile – il ritorno della libertà, della democrazia,
dell’umanità.

Mussolini non ci capisce più niente


Il Duce non prepara la guerra, ma le parate. «Cura di persona ogni più
piccolo particolare» annota Ciano. «Passa delle intere mezz’ore alla
finestra del suo ufficio, nascosto dietro la tendina azzurra, a
occhieggiare il movimento dei reparti. Ha voluto lui che tamburi e
trombe fossero sempre contemporanei. Ha istituito il bastone del
capobanda, e personalmente insegna il movimento che deve venire
fatto e corregge le proporzioni e la foggia del bastone stesso». Se poi il
presentat-arm riesce sciatto, o un ufficiale anziano fatica a sollevare la
gamba nel passo dell’oca, anzi «romano», succede l’ira di Dio.
Quando però il re, a una parata della marina, elogia i reparti per la
marzialità del nuovo passo, Mussolini si rallegra e sussurra
all’orecchio di Ciano: «Vorrei rispondergli: caro, nonché molto
fregnone amico, è stato proprio contro di te che ho dovuto sostenere la
polemica più dura per riuscire a introdurlo».
Hitler attacca la Polonia il primo settembre 1939, dopo essersi
assicurato la complicità dei sovietici, che chiudono i polacchi in una
morsa. Ciano, contrario all’intervento, annota che Mussolini è
combattuto: «Dapprima mi dà ragione. Poi dice che l’onore lo obbliga
a marciare con la Germania. Infine vuole la sua parte di bottino…».
Bottino. Ancora una parola tecnicamente da delinquente. Usata dal
ministro degli Esteri per definire le intenzioni del suocero.
Mussolini si agita: ordina richiami di reclute, oscuramento di città,
chiusure di locali pubblici, requisizioni. Ma decide di prendere tempo,
con uno stratagemma da magliari. Convoca i capi dell’esercito, della
marina e dell’aeronautica, e stila con Ciano un elenco di richieste: se i
tedeschi le accoglieranno, l’Italia entrerà in guerra al loro fianco.
Ovviamente si tratta di un libro dei sogni: due milioni di tonnellate di
acciaio, sei milioni di tonnellate di carbone, sette milioni di tonnellate
di petrolio… A un certo punto appare anche un minerale, il
molibdeno, che nessuno sa bene cosa sia; nel dubbio si chiedono
seicento quintali pure di quello. All’ultimo momento vengono
aggiunti seicento pezzi di artiglieria.
L’ambasciatore a Berlino, Bernardo Attolico, che conoscendo bene i
nazisti sa che è meglio restarne lontani, ne rimane colpito e commenta:
«Sì, mi pare che vada bene questa lista molibdeno». I generali di Hitler
la esaminano con il dubbio crescente di essere presi in giro, che
diventa certezza quando chiedono all’ambasciatore entro quanto
tempo l’Italia vorrebbe il molibdeno e il resto, e si sentono rispondere:
«Subito». Per portare il materiale servirebbero 17 mila treni di
cinquanta vagoni ciascuno, cioè 45 treni al giorno per un intero anno;
e se anche i tedeschi ci accontentassero, l’industria italiana non
saprebbe che farsene di tutta quella roba.
Insomma, per il momento la guerra l’Italia non la fa. Hitler è
sdegnato: «Si stanno comportando come nel 1914», quando Roma
abbandonò l’alleanza con Berlino e Vienna per intervenire al fianco di
Londra e Parigi. Il Führer non ha bisogno dell’Italia; ma ne teme
l’infedeltà. Il Duce convoca i gerarchi emiliani a Palazzo Venezia e fa
la faccia feroce contro i nemici; non gli stranieri, ma quelli interni:
bisogna «ripulire gli angolini» dove si sono rifugiati «i rottami
massonici, ebraici, esterofili dell’antifascismo», «montoni belanti,
pecore rognose», «una miserabile zavorra umana» ridotta a vivere
«negli angiporti, nei ripostigli e appunto negli angoli oscuri».

In realtà Mussolini, messo di fronte a cose più grandi di lui, si


smarrisce completamente. Abile e spietato nella conquista del potere,
ora che si affaccia sulla scena internazionale, ora che vive il momento
più importante della sua carriera di dittatore – la guerra –, non ci
capisce più niente. Così, quando Hitler schiaccia la Polonia d’intesa
con l’Unione Sovietica, gli scrive indispettito: «Führer, ho il preciso
dovere di aggiungere che un ulteriore passo dei vostri rapporti con
Mosca avrebbe ripercussioni catastrofiche in Italia, dove l’unanimità
antibolscevica è assoluta, granitica, inscindibile … la soluzione del
vostro Lebensraum è in Russia … sino a quattro mesi fa la Russia era
il nemico mortale numero uno; non può essere diventato e non è
l’amico numero uno».
Insomma Mussolini sta spingendo Hitler, che è in guerra con
l’impero britannico e con quello francese, ad affrontare anche la
seconda potenza industriale del mondo. Incoraggia cioè il Führer a
compiere quello che sarà il suo errore fatale. Del resto lui stesso, dopo
aver dichiarato guerra a Francia e Gran Bretagna, la proclamerà pure
all’Unione Sovietica e poi agli Stati Uniti. E c’è ancora qualcuno
convinto che sia stato un grande statista, un uomo lungimirante, un
genio.
Il 18 marzo 1940 il Duce incontra Hitler al Brennero, sotto la neve. Il
colloquio dura due ore e mezza; per due ore e dieci minuti parla il
Führer, ininterrottamente. Mussolini fa cenno all’interprete di aver
capito tutto, anche quando l’altro si è inoltrato nei suoi tortuosi
ragionamenti, a volte alzando la voce in strida acute, a volte
abbassandola in un sussurro appena percettibile. Ma il Duce ha tutto
chiaro: a Ciano confida di aver fatto un sogno che gli ha svelato il
futuro. Ormai ha scelto: l’Italia entrerà in guerra a fianco della
Germania. Non si tratta di decidere se, ma solo quando. Eppure
continua a irridere l’alleato: «Quell’Hitler è qualcosa di mezzo tra
Giovanna d’Arco e Charlot», «Goebbels merita di essere considerato
con una certa indulgenza, con la benevolenza alla quale hanno diritto
tutti gli sciancati», «quel Göring è un po’ troppo grasso per posare a
eroe». Ma allora perché è pronto a portare in dote l’Italia a quegli
uomini che un po’ disprezza, vedendoli ridicoli, e un po’ teme,
sapendoli criminali?
Nel primo inverno di guerra, gli studenti universitari sono invitati
a partire volontari per il fronte, in cambio delle «lauree di guerra», dei
18 regalati. La risposta è gelida. A Roma accettano 87 studenti su
settemila, a Genova trenta su tremila, a Torino e Milano meno di
duecento su oltre novemila.
Ci sarebbe la Milizia, i veterani dello squadrismo, affiancati da
fratelli minori e figli: 800 mila uomini, ufficiali scadenti, pessimo
armamento, nessun prestigio nel Paese. Perfetti per le sacre
rappresentazioni del partito, il culto del Duce, i giuramenti di fedeltà a
pugnale sguainato al cielo; ma in combattimento si riveleranno spesso
un peso morto, quasi sempre nelle retrovie, visti con sospetto dagli
ufficiali quelli veri, a volte guardati con aperta ostilità dagli alpini e
dai fanti che della guerra del loro Duce non vorrebbero saperne.
Neppure l’esercito è pronto. Ha tremila generali, ma armi vecchie e
insufficienti. Il capo di stato maggiore generale, Pietro Badoglio, è
ancora convinto che la guerra la facciano il cannone, l’uomo, il mulo e
il fucile; non c’è da stupirsi se l’Italia di fatto non dispone delle armi
che invece si riveleranno decisive, il carro armato pesante e l’aereo da
caccia e da bombardamento.
L’esercito è abituato alla vita di caserma e al compito di ordine
pubblico. Non è impregnato di spirito fascista; semmai, classista. Ogni
ufficiale ha un attendente, che gli fa da cameriere. Le divise degli
ufficiali sono di panno pregiato, quelle dei soldati sono ruvide; a volte
mancano, e se arriva un generale in visita i reparti devono
scambiarsele, si vedono reggimenti che si spogliano all’aperto accanto
a reggimenti che si rivestono. Gli ufficiali mangiano a una mensa
serviti in guanti bianchi, spaghetti carne e vino, i sottufficiali a
un’altra, i soldati in piedi, nella gavetta: una cosa incomprensibile per
gli inglesi, nel cui esercito vale l’assoluta parità di cibo; soltanto sul
finale della sciagurata aggressione alla Grecia Mussolini chiederà al
generale Ugo Cavallero se non è «il caso di far mangiare a ufficiali e
soldati lo stesso rancio. Cucina in comune, ma consumi a parte, si
intende». Cambierà poco, se non che le gavette ormai mancano, e i
soldati mangiano uno nella tazza, l’altro nel coperchio.
L’addestramento molto spesso è esaurito dal suddetto passo
dell’oca: lunghe marce, grandi parate; rare le esercitazioni tattiche. Si
spara con munizioni a salve; il fucile è ancora il 91 (dall’anno di
costruzione, appunto il 1891); le armi automatiche non esistono. La
potenza di fuoco di un reparto di fanteria italiano è un quarto di un
reparto francese e un nono di un reparto tedesco. In compenso il
nostro zaino è il più pesante: 35 chili, che trasformano ogni marcia in
una via crucis.
Mussolini è ministro della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica
da molti anni; eppure alla guerra non siamo affatto pronti. Non
abbiamo neanche i carri armati. Quello leggero non ha neppure i
cannoni ma solo la mitragliatrice, è protetto da una corazza che arresta
a malapena la fucileria: i soldati lo chiamano la scatola di sardine.
Quello medio nel 1939 è ancora in revisione per difetto di
puntamento. Quello pesante non è neppure in produzione. Mussolini
è rimasto colpito dalla fotografia di un gigantesco carro armato
sovietico, l’ha passata all’ispettore capo dei servizi tecnici, generale
Mario Caracciolo, con una nota a matita: «Farlo anche noi». Ci si
fermerà a un modello in legno, un giocattolone per i sogni del
dittatore, che non diventerà mai un carro armato vero. Non esiste
neppure la difesa contraerea, affidata alla Milizia: le città italiane
saranno lasciate indifese, alla mercé dei bombardieri nemici.
In sostanza: il Duce ha parlato di guerra per vent’anni, ma non l’ha
preparata. E ora, dopo averla a lungo annunciata, è impaziente di
farla. Tanto è convinto che durerà poco, e si concluderà con una
grande vittoria. A Filippo Anfuso spiega: «In Italia vi sono ancora
degli imbecilli e dei criminali che pensano che la Germania sarà
sconfitta: io vi dico che la Germania vincerà».
2631 congelati a giugno
Il 16 aprile 1940 Mussolini ordina le prime manifestazioni
antibritanniche. Squadre in camicia nera affiggono manifesti contro
l’Inghilterra; se qualcuno non è d’accordo, lo riempiono di botte. Il
dittatore sa che l’Italia non è in grado di combattere, ma minimizza:
«Se dovessi aspettare di avere l’esercito pronto» dice al generale
Francesco Rossi «dovrei entrare in guerra tra alcuni anni, mentre devo
entrare subito. Faremo quello che potremo». E poi la celebre frase,
rivolta all’ammiraglio Domenico Cavagnari: «La guerra sarà breve e io
ho bisogno solo di alcune migliaia di morti per sedere al tavolo della
pace».
Calcolo sbagliato, oltre che cinico. Nello stesso tempo un crimine, e
un errore.
L’occasione che gli pare propizia arriva a maggio, quando la
Germania invade il Belgio e l’Olanda, la Luftwaffe rade al suolo
Rotterdam, i carri armati di Heinz Guderian sfondano le difese
francesi. Ai primi di giugno i tedeschi sono in vista di Parigi. Per il
Duce è il momento ideale.
Ancora una volta uno dei pochi a non tacere è il conte Sforza,
quello che Mussolini dopo la marcia su Roma voleva far mettere al
muro con dodici pallottole. Ora l’anziano diplomatico liberale scrive
al re: «Se Vostra Maestà firma la dichiarazione di guerra, firmerà la
più terribile delle rovine per l’Italia e i disastri saranno tanto
spaventevoli che finiranno per distruggere anche la Vostra Casa». La
profezia si realizzerà nel giro di pochi anni. Ma per il momento è
troppo poco, e troppo tardi.
Hitler suggerisce all’amico Benito di entrare in guerra il 6 o l’8
giugno: «Il 7 andrebbe egualmente, ma è un venerdì, giorno che forse
da molti (nel popolo tedesco vi è tale credenza) non è ritenuto adatto
per un inizio fortunato». Il Duce opta per l’11, numero che gli aveva
sempre portato bene. Il re è d’accordo: è nato l’11 di novembre,
undicesimo mese dell’anno, e nell’esercito aveva la matricola 1111.
Il giorno prima, 10 giugno, Mussolini informa gli italiani dal
balcone di piazza Venezia che «la dichiarazione di guerra è già stata
consegnata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra». Annota un
agente della polizia politica: «Lo sfollamento fu rapido. Nessuna
donna aveva applaudito». Commenta Roosevelt: «La mano che teneva
il pugnale lo ha calato nella schiena del vicino». Un operaio torinese,
Decimo Baglione, viene portato in questura da un milite che lo sente
mormorare «bastardo!» durante il discorso del Duce (si giustificherà
magistralmente spiegando di aver imprecato contro se stesso, per il
rammarico di non poter arruolarsi volontario in quanto pregiudicato
per reati politici). Lo zelante Interlandi pubblica un articolo intitolato
«Sputi alla Francia»: del resto Mussolini non ha forse definito i
francesi «un popolo abbietto», non ha forse annunciato di voler
«gettare il sale» sulle loro città dopo averle distrutte?
Il mondo si attende una grande sorpresa italiana: la presa di Malta,
l’isola inglese che si frappone tra la penisola e la Libia, e che può
boicottare la nostra linea di rifornimento; il blocco del canale di Suez;
il bombardamento di Alessandria. Invece non accade nulla. L’Italia
dichiara la guerra ma non colpisce; viene colpita.
La notte stessa gli aerei inglesi bombardano indisturbati Genova e
Torino: le bombe mancano la Fiat ma distruggono le case operaie,
uccidendo 14 civili; i feriti arrivano negli ospedali prima che suonino
le sirene d’allarme; l’impreparazione è assoluta, la contraerea tace,
l’aeroporto di Caselle si è illuminato a giorno perché i Whitley inglesi
sono stati confusi con gli aerei italiani attesi da Udine. Abbiamo
dichiarato guerra e ci pare strano che gli altri vogliano farcela.
La negligenza è tale che ci si dimentica dei 225 piroscafi italiani che
il 10 giugno sono in navigazione nell’Atlantico, e si ritrovano alla
mercé degli inglesi. Molti sono catturati, qualcuno riesce a
raggiungere un porto neutrale; in ogni caso tutti sono perduti per la
causa bellica.
L’attacco italiano alla Francia non è una cosa seria. I generali stanno
su un treno fermo lungo un binario morto tra Alba e Bra: all’ora di
pranzo tutti a mangiare gli agnolotti e il bollito in trattoria. Hitler offre
a Mussolini di unire le sue truppe a quelle tedesche che stanno
dilagando nelle pianure di Francia, ma il Duce pensa al proprio
prestigio, vuole una vittoria militare, e ordina l’assalto sulle Alpi.
Il risultato è penoso.
Il 21 giugno 1940, con i tedeschi a Parigi da una settimana, ventuno
divisioni italiane vanno all’attacco di sei divisioni francesi, composte
da soldati anziani e riservisti. Purtroppo non muoviamo un passo. Sul
Piccolo San Bernardo si crea un’enorme coda di uomini e mezzi: un
vero e proprio ingorgo stradale, bersaglio perfetto per il nemico. Lo
Chaberton, il forte di cui la propaganda fascista dice meraviglie –
«quando sparerà lo Chaberton tremerà Parigi» –, viene colpito e
distrutto dall’artiglieria avversaria.
Al Colle del Ferro un battaglione alpino avanza nella nebbia, e
un’improvvisa schiarita rivela che si è infilato in una trappola: i
francesi dominano le vette attorno; attimi di terrore, poi in alto
sventola una bandiera bianca, un ufficiale medico scende a
parlamentare: «Siete sotto il tiro delle nostre mitragliatrici, ma
abbiamo compassione di voi; lasciate le armi a terra e ritiratevi». Un
altro battaglione di alpini, l’Exilles, rifiuta di combattere contro un
Paese amico, dove molti di loro vanno a lavorare d’inverno.
Ma l’episodio più pietoso è il tentato sbarco in Costa Azzurra.
Avremmo il battaglione San Marco, che è specializzato, ma il generale
Gastone Gambara, amico del Duce, vuole che siano i miliziani in
camicia nera i primi a mettere piede sul suolo nemico. I mezzi da
sbarco sono bagnarole con il motore fuoribordo: dopo una prova nella
notte del 21 giugno ne restano otto; si ritenta la notte dopo, ma il mare
li sbatte contro il promontorio della Mortola; si decide di rinunciare.
Alla fine l’unico successo è la presa di Mentone.
I francesi non vorrebbero firmare l’armistizio, con la motivazione
che «l’Italia ci ha dichiarato guerra, ma non ce l’ha fatta». Pieno di
vergogna, il Duce non osa chiedere nulla, neanche l’uso dei porti della
Tunisia, che consentirebbe di rifornire la Libia, dove dobbiamo
affrontare gli inglesi. Rinuncia anche alla consegna degli antifascisti
fuoriusciti in Francia: toccherebbe processarli, e ufficialmente gli
antifascisti non esistono. Poi parte a visitare i campi di battaglia, su e
giù per i passi alpini, mentre Hitler si fa fotografare a Parigi sulla
tomba di Napoleone. Doloroso l’incontro con i feriti: abbiamo avuto
2631 congelati, a giugno. A poche decine di chilometri dal fronte,
nell’ospedale torinese delle Molinette, c’era un reparto di chirurgia
vascolare all’avanguardia per il tempo; nessuno l’ha preso in
considerazione, in alta Val Susa hanno tagliato gambe e braccia di
alpini che avrebbero potuto essere curati.
I nostri morti sono 631, più 616 dispersi; quelli francesi sono 37.

Il disastroso attacco all’Inghilterra


Mentre è in visita alle valli, il Duce riceve una notizia: Italo Balbo è
stato abbattuto con il suo aereo nel cielo di Tobruch, per errore, dalla
contraerea italiana. La guerra industriale non è lo squadrismo, e
Balbo, governatore della Libia, non è un comandante in capo. Ai suoi
uomini ha scritto: «L’impiego dell’aviazione in questi giorni è
completamente sbagliato. Non si mandano gli aerei ad attaccare le
autoblindo». Poi parte su un aereo ad attaccare le autoblindo.
Non è una battuta: Balbo sale su un SM79 con il suo amico
giornalista Nello Quilici, il padre di Folco, e va a caccia di blindati.
Quando nota il fumo che si alza da Tobruch, bombardata dal nemico,
ordina al pilota di andare a vedere quel che succede; ma
dall’incrociatore San Giorgio pensano che stia arrivando un altro
aereo inglese, e lo centrano in pieno. Gli inglesi, quelli veri, lasciano
cadere sul deserto un messaggio avvolto in una bandiera italiana: «La
Royal Air Force esprime il suo sincero compianto».
In Italia si diffonde la voce di una vendetta di Mussolini: il Duce
avrebbe fatto eliminare il suo rivale, contrario alla guerra. Prove non
ce ne sono, gli storici lo escludono. Mussolini comunque non ne fa una
tragedia. Il maresciallo Badoglio, che è con lui, annota che accoglie la
notizia della morte del camerata Balbo «senza dimostrare il minimo
turbamento».
Il protagonista della guerra in Africa è il generale Graziani. Quando
si trattava di gasare libici e abissini o far assassinare indovini e
monaci, non ha avuto esitazioni. Ora è tremebondo. Il Duce gli ordina
di attaccare, ma lui esita per tutta l’estate. Il 12 settembre finalmente
avanza su Sidi el-Barrani, e manda a Roma un telegramma entusiasta:
«Ci si domanda quando gli inglesi comincino a capire che hanno a che
fare col più attrezzato esercito coloniale del mondo». Mussolini
raccomanda ai giornali di non pubblicare un simile sproloquio. Però
quando la flotta italiana viene seriamente colpita a Punta Stilo, ed è
costretta a fuggire sotto il fuoco britannico, il Duce anziché indagare
sulla sconfitta decora i comandanti per aver «insegnato al nemico che
non si viene impunemente verso le coste italiane».
La marina è la nostra arma migliore; ma per tutta la guerra tenterà
soprattutto di evitare gli inglesi. A volte riuscirà a mettere a segno
qualche colpo, non tanto in mare quanto grazie agli incursori; come
quando nel dicembre 1941 Luigi Durand de la Penne ed Emilio
Bianchi, con altri uomini della X Mas, affondano la Queen Elizabeth e
la Valiant nel porto di Alessandria. Altre volte la flotta viene colta di
sorpresa, come nella terribile notte di Taranto del novembre 1940: gli
aerosiluranti Swordfish centrano la Cavour, la Duilio, la Littorio, che
si adagiano sul fondo. «Solo una nave è stata colpita in maniera
grave» mente il bollettino del regime; ma i ricognitori inglesi hanno
scattato le fotografie, i giornali di tutto il mondo pubblicano le foto
delle tre corazzate semiaffondate.
Anche i nostri sommergibili vanno incontro a una dura punizione,
nonostante il coraggio e il sacrificio: dobbiamo ricordare almeno il
nome di Pietro Venuti, secondo capo silurista del Galvani. Il
sommergibile, colpito dagli inglesi nel Mar Rosso, sta affondando; c’è
un solo modo per salvare i compagni, chiudere il locale inondato; il
capitano Venuti sbarra sopra di sé la porta stagna, condannandosi a
una morte certa e orribile. Un gesto che non si potrebbe definire
altrimenti se non eroico. Trentuno marinai gli devono la vita; altri
venticinque muoiono con lui.

Il disastro più totale è quello dell’arma fascista per eccellenza:


l’aviazione. Sono aviatori Vittorio e Bruno, i figli del Duce. Sono
aviatori i ministri Ciano e Pavolini. È aviatore Ettore Muti, futuro
segretario del partito. Balbo si è coperto di gloria con le sue trasvolate
atlantiche. Pilota è lo stesso Mussolini, che ama farsi fotografare
vestito da aviatore. Un giorno, al campo di volo di Forlì, di buon
umore come sempre quando torna nella sua terra, il Duce apostrofa il
generale Francesco Pricolo: «Magnifico quel caccia che abbiamo visto
in prova!». Nessuno ha il coraggio di spiegargli che in realtà è un
aereo da turismo.
In Africa e in Spagna i bombardieri italiani hanno avuto buon gioco
volando incontrastati: il Duce è stato generoso di medaglie al valore
per «eroi» che colpivano civili inermi. Ma quando si tratta di battersi
con l’aviazione britannica, le cose si complicano.
Mussolini vuole mandare reparti italiani dappertutto, all’insegna
del «noi c’eravamo». E così sguarnisce il Mediterraneo e invia il nerbo
della nostra aviazione a farsi distruggere sulla Manica. La spedizione
è tragicomica. Sono duecento «apparecchi», come si chiamano allora.
Partono con due mesi di ritardo. Il primo stormo fa tappa in Belgio, e
già mancano all’appello aerei in avaria o che hanno perso la rotta e
tentato atterraggi di fortuna in Francia o in Germania. Mussolini
attende con ansia la notizia del bombardamento italiano di Londra, e
devono spiegargli che abbiamo mandato piloti non addestrati al volo
notturno – l’unica scuola italiana, a Guidonia, è stata chiusa – e aerei
non adatti al freddo nordico: in un’esercitazione due equipaggi,
vedendo il ghiaccio appesantire le ali, si sono salvati con il paracadute.
I tedeschi e gli inglesi combattono anche a dicembre, ma i nostri caccia
CR-42 sono rivestiti di tela.
Mussolini insiste. Dieci bombardieri tentano un assalto diurno su
Harwich, nell’Essex: sei vengono abbattuti, quattro abbandonati sulla
via del ritorno. Hitler suggerisce a Ciano di richiamare il corpo di
spedizione in patria. Almeno metà degli aerei è fuori combattimento;
alcuni tra i cinquemila avieri dovranno tornare mestamente in treno.
Più che mai, il nostro unico piano di battaglia è la vittoria
dell’alleato tedesco.

«Sior tenente, i greci sparano!»


Se la pagina più drammatica sarà la Russia, la pagina forse più nera
della guerra fascista è l’attacco alla Grecia. Condotto con una
faciloneria, un pressapochismo, una deliberata sottovalutazione del
nemico che configurano un crimine contro il nostro stesso esercito,
abbandonato a se stesso in condizioni durissime.
Il piano di Mussolini è semplice: «Stabilito l’inizio delle operazioni
il 26 ottobre. Prevista la liquidazione dell’Epiro verso il 10 novembre e
poi marcia vittoriosa su Atene». Infine aggiunge: «Questa è un’azione
che ho maturato lungamente, da mesi e mesi, prima della nostra
partecipazione alla guerra e anche prima dell’inizio del conflitto».
In realtà, l’impreparazione è assoluta. I tedeschi sbarcherebbero ad
Atene; noi attacchiamo sulle montagne, con l’inverno davanti. Ciano,
che si considera il signore dell’Albania, assicura di aver corrotto dal
suo feudo di Tirana i ministri e i generali greci.
Il comandante delle truppe, Sebastiano Visconti Prasca, rifiuta i
rinforzi: è un generale di corpo d’armata; se l’esercito d’Albania
dovesse ingrandirsi troppo, arriverebbe dall’Italia un generale più
anziano a guidarlo. È forse l’unico caso nella storia di un comandante
che deliberatamente sottovaluta il numero e la forza del nemico che ha
di fronte. Badoglio qualche perplessità la manifesta, ma il Duce lo
gela: «Mi dimetto da italiano se qualcuno trova difficoltà a battersi con
i greci».
Motivi per batterci con i greci non ne abbiamo. Assurdo distrarre
truppe dal vero fronte, quello africano, dove siamo in grave difficoltà
con gli inglesi. Ad Atene comanda un dittatore filofascista, Ioannis
Metaxas. L’ambasciatore italiano Emanuele Grazzi gli arriva in casa in
piena notte ad annunciargli l’ultimatum: l’Italia pretende di occupare
posizioni strategiche in territorio greco. Metaxas lo accoglie in
vestaglia, e chiede in francese: quali sarebbero queste posizioni
strategiche? L’ambasciatore non lo sa. «Alors c’est la guerre», allora è
guerra, dice Metaxas. «Non necessariamente» replica Grazzi. «No, è
necessaria» conclude il dittatore. È il 28 ottobre, anniversario della
marcia su Roma: per i greci diventerà il Giorno del No.
Rispetto al piano di Mussolini, l’attacco è stato rinviato di due
giorni per il maltempo. I greci non hanno un grande esercito, però
hanno una cosa che a noi manca: hanno un motivo. Difendono la loro
terra, che conoscono palmo a palmo. Gli italiani avanzano sotto la
pioggia sulle montagne dell’Epiro, a tentoni, nel gelo di un inverno
precoce, fino a quando non sbattono contro il muro nemico: «Sior
tenente, i greci sparano!».
I greci sparano e contrattaccano, con gli elmi a padella, al suono
delle trombe. Gli alpini non hanno voglia di combattere, nel viaggio
verso l’Albania sono avvenuti scontri non solo verbali con le camicie
nere; ma sono proprio gli alpini della Julia a salvare la spedizione, a
reggere l’urto nemico sul Pindo e al ponte di Perati (ne nascerà una
straziante canzone: «Sul ponte di Perati bandiera nera/ l’è il lutto della
Julia che va alla guerra/ la meglio gioventù che va sottoterra…»).
L’azione che Mussolini, a suo dire, prepara da anni sta volgendo al
disastro. Visconti Prasca viene richiamato e messo in congedo. Gli
alpini inveiscono contro la Bari, che chiamano «la divisione scappa
scappa»; in realtà non è colpa dei soldati della Bari, mandati al fronte
a tappe forzate appena sbarcati; resta il fatto che la Julia – motto: mai
daur, mai indietro – tiene, e consente alle altre truppe di ripiegare.
I greci invadono l’Albania, si inviano rinforzi in fretta e furia; gli
aerei che atterrano sul campo di Coriza vengono centrati dai cannoni
nemici: i morti sono stesi sulla pista, i feriti reimbarcati e portati in
Italia. I «fedelissimi» albanesi scappano ad ampie falcate. I giornali
francesi titolano: «Les Grecs à Coriza, les Italiens dans la merde». In
tutte le città della Grecia si scende in strada con le bandiere a
festeggiare. L’impressione in Europa è enorme. A Mentone i doganieri
espongono un cartello irridente: «Grecs arrêtez-vous, ici France»; greci
fermatevi, qui è Francia.
Il Duce non si capacita: «I greci odiano l’Italia come nessun altro
popolo. È un odio che appare a prima vista inspiegabile, ma è
generale, profondo, inguaribile, in tutte le classi, nelle città, nei
villaggi, in alto, in basso, dovunque. Il perché è un mistero». L’idea
che un popolo prenda le armi per difendere la propria patria anziché
asservirsi a un altro popolo non lo sfiora. Straparla: «Voi Santoro» dice
a un generale dell’aeronautica «raderete al suolo tutte le città greche
con più di diecimila abitanti!»; nel frattempo è la flotta inglese a
bombardare indisturbata Genova. Poi è costretto a giustificarsi con
Hitler, che è furibondo: gli italiani non l’hanno avvertito, e ora tocca a
lui intervenire, ritardando l’attacco all’Unione Sovietica.
A «spezzare le reni alla Grecia», per usare l’enfatica espressione del
Duce, saranno i tedeschi. Ma prima Mussolini vuole il riscatto, anche
personale.

Il nuovo comandante in Albania, Ugo Cavallero, ha arrestato


l’avanzata nemica. Ora i rapporti di forze sono nettamente a nostro
vantaggio. Così il Duce si porta in Albania, pilotando di persona
l’aereo, per guidare l’assalto finale.
I tedeschi stanno per scendere dalla Romania, quindi l’attacco
italiano sulle montagne albanesi è perfettamente inutile; ma ne va del
prestigio del dittatore. Cavallero lo lusinga: «A offensiva bene avviata,
voi, Duce, a un certo punto prenderete il comando». È il 9 marzo 1941.
Lui guadagna un osservatorio a 800 metri, dispiega le carte
geografiche – tedesche –, dà mano al binocolo Zeiss, omaggio
personale di Hitler, e si gode lo spettacolo. Inquadra gli obici che
sparano e se ne compiace: «Come pestano!».
Ma l’offensiva si arena subito. Il comandante della Cagliari,
generale Giuseppe Gianni, è ammalato, Mussolini si inquieta: «Questi
generali che si ammalano il giorno dell’offensiva danno da
pensare…». Si riprova il 13 marzo e la punizione è severa, ma il Duce
stavolta è di buon umore. Nel binocolo inquadra i morti che si
accumulano davanti alle trincee greche, ed è finalmente soddisfatto.
Telefona a Cavallero: «Molto bene oggi. Credo che i greci abbiano
barcollato perché l’azione è stata condotta con estrema energia, come
avevo detto io». Torna in mente quel che scrive Oscar Wilde di
Ezzelino da Romano, il più crudele tra i tiranni dell’Italia medievale:
«La sua malinconia poteva essere curata solo dallo spettacolo della
morte».
I greci barcolleranno pure, ma non mollano. Il Duce torna in Italia:
la vittoria non c’è stata. Tra morti e feriti, la battaglia di Mussolini è
costata 12 mila uomini. Lui lascia un ordine: «Raggiungere Klisura a
qualunque costo». I tedeschi puntano ormai su Atene, ma sulle
montagne dell’Epiro si continua a morire per l’orgoglio del dittatore.
Le trattative per l’armistizio ricordano quelle con la Francia: i greci
acconsentono ad arrendersi ai tedeschi, non agli italiani. Il Duce si
attribuisce la vittoria e ne ringrazia il generale Cavallero. Questo il
commento durissimo di Churchill alla Camera dei Comuni: «Con uno
speciale proclama il dittatore italiano si è congratulato con l’esercito in
Albania per gli allori gloriosi che ha conquistato con la sua vittoria sui
greci. Questo è senz’altro il record mondiale nel campo del ridicolo e
dello spregevole. Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare
la sua pelle ha reso l’Italia uno Stato vassallo dell’Impero di Hitler,
viene a far capriole al fianco della tigre tedesca con latrati non solo di
appetito – il che si potrebbe comprendere – ma anche di trionfo. Sono
sicuro che ci sono milioni e milioni di persone nell’Impero britannico
come negli Stati Uniti che troveranno una nuova ragione di vita
nell’assicurarsi che, quando giungeremo alla resa dei conti finale,
questo assurdo impostore sarà abbandonato alla giustizia pubblica e
al disprezzo universale». È una frase poco conosciuta e mai citata dai
tanti che ripetono quanto Churchill stimasse Mussolini.

Il Duce è atteso da un’altra prova: il 7 agosto 1941 il figlio aviatore,


Bruno, precipita con il suo quadrimotore a Pisa, durante un volo di
prova. Mussolini è distrutto. Scrive un libro, «Parlo con Bruno», ma
senza aprirsi davvero, più con la penna da comandante in capo che da
padre. Al funerale si mostra impenetrabile. Bottai sussurra al vicino:
«Speriamo che questo colpo del destino non l’inasprisca e non lo isoli
sempre di più». Il migliore tra i gerarchi ormai definisce Mussolini un
«capobanda», come aveva fatto Turati: «Furbo, piccolo, meschino, con
le minime gelosie e invidie degli uomini comuni, pronto alla bugia,
all’inganno, alla frode, dispensatore di promesse da non mantenere,
sleale, infido, vile, senza parola, senza affetti, incapace di fedeltà e
d’amore, capacissimo di sbarazzarsi calcolatamente dei suoi seguaci
più fidi».

La guerra parallela è durata poco più di sei mesi.


Comincia il tempo delle vane illusioni. Si vocifera di un raggio
della morte, capace di carbonizzare il nemico, inventato da Marconi,
peraltro morto da più di tre anni.
In realtà, all’inizio del 1941 saremmo fuori combattimento, se non
intervenissero al nostro fianco i tedeschi, in Grecia e in Africa, al
comando del maresciallo Erwin Rommel. Ma questo significa avere i
nazisti in casa: arrivano in Italia ufficiali e truppe; liberarsi di loro,
concludere una pace separata, sarà molto difficile.
Il 26 ottobre 1940 Mussolini ha scritto a Graziani per incitarlo
all’offensiva: «Al tavolo della pace porteremo a casa quello che
avremo militarmente conquistato…». Si pensa ancora che la vittoria
tedesca sia imminente; non si tratta di preparare seriamente
l’offensiva, ma di avanzare nel vuoto. Anche qui si va al disastro, gli
inglesi travolgono il nostro esercito, mandano a Londra rapporti
umilianti tipo «abbiamo due acri di ufficiali italiani prigionieri», e
Graziani perde la testa, passa dall’esaltazione allo scoramento, scrive
al Duce: «Riterrei mio dovere, anziché sacrificare mia inutile persona
sul posto, portarmi a Tripoli, se mi riuscirà, per mantenere almeno
alta su quel castello la bandiera d’Italia … Sia detto questo at mia
memoria testamentaria».
Spietato il giudizio di Bocca: «Il maresciallo Graziani fa spicco nella
mediocre schiera con il suo italiano da fureria, l’umorismo
involontario, la boria di chi si pone, essendo una nullità, a misura
della storia, il peggio del peggio dell’esercito e della società italiani,
peggio del classismo conservatore del gruppo piemontese e
dell’arditismo fascistico alla Muti. Graziani è la piccola borghesia
agraria, sfruttatrice di sottoproletari, incolta e retorica, permeata di
patriottismo astratto, disponibile a ogni esperienza totalitaria,
spavalda nel successo, pallida e lacrimosa nell’avversità».
È a quest’uomo, dopo il presunto suicidio di Cavallero che rifiuterà
di essere fino all’ultimo la marionetta dei tedeschi, che Mussolini e
Hitler affideranno il comando dell’esercito di Salò, vale a dire delle
truppe fasciste nella guerra civile che attende l’Italia. E «bandi
Graziani» saranno chiamati gli ordini di arruolamento al fianco dei
nazisti, che spingeranno migliaia di giovani italiani a salire in
montagna, unirsi ai primi resistenti – spesso reduci della Russia –, e a
combattere per l’indipendenza e la dignità della patria.
Ma non è certo Graziani il vero responsabile della tragedia che
incombe sull’Italia. È l’uomo che ha scelto lui e altri generali come lui,
per poi denigrarli e tentare di far ricadere le proprie colpe su di loro.
Nell’ora più drammatica della sua vita, Mussolini non riesce a essere
all’altezza del dramma, anzi, rivela i limiti della sua natura e del suo
carattere. E persevera nell’errore.

La tragedia degli alpini in Russia


Quando la Germania attacca l’Unione Sovietica – 22 giugno 1941 –, il
Duce vorrebbe partecipare. Da una parte spera che «i tedeschi ci
perderanno un po’ le penne, in Russia». Dall’altra pensa già alle
trattative di pace: non capisce che l’attacco all’Unione Sovietica è
l’estensione della guerra al mondo, e che l’Italia fascista si ritrova più
che mai nella triste parte del vaso di coccio.
Hitler lo sa, e cerca sinceramente di dissuadere Mussolini
dall’intervenire. Le sue lettere sono drammatiche, fin dall’inizio:
«Sono otto giorni che una brigata corazzata sovietica dopo l’altra
viene attaccata, battuta, distrutta e nonostante ciò non si è rimarcata
alcuna diminuzione nel loro numero e nella loro aggressività. Una
vera sorpresa è stato un carro armato russo di cui non avevamo idea,
un gigantesco carro armato di circa 52 tonnellate…». I tedeschi si
vedono davanti questi blindati giganti, autentici mostri, e riescono a
bloccarli solo sparando ad alzo zero con i cannoni. Incontrano
resistenze fanatiche, guarnigioni che si fanno uccidere fino all’ultimo
uomo: i russi si battono con il coraggio della disperazione, e sono
meglio armati di quanto si pensasse. Eppure Mussolini insiste: se non
manderà soldati contro Stalin, «anche la circostanza che io sia stato il
primo a combattere il comunismo non conterà nulla di fronte alla
considerazione che gli italiani non c’erano».
Parte così un corpo d’armata «autotrasportabile». I tedeschi
capiscono ovviamente autotrasportato. Invece i camion – che ancora
mostrano sotto una mano di vernice i nomi delle ditte cui sono stati
requisiti: Fratelli Gondrand, Birra Peroni – bastano a malapena per
metà della spedizione: i soldati sono addestrati al trasporto, insomma
salirebbero volentieri su un automezzo, preferibilmente altrui, visto
che i nostri mancano.
Fanti e alpini vengono gettati senza equipaggiamento, senza
neppure le scarpe adatte, nella fornace di una guerra spaventosa, che
Hitler definisce «una lotta tra ideologie e razze diverse: dovrà essere
combattuta con una durezza, una spietatezza e una inesorabilità senza
precedenti». Lo sterminio degli ebrei e del ceto dirigente sovietico è
sistematico. Masse di prigionieri vengono deportate o lasciate morire
di fame. Mussolini visita il fronte, e va riconosciuto che persino lui
inorridisce: «L’organizzazione tedesca è un conto, ma la gente non
può vivere aspettando di essere organizzata dai tedeschi e occorrerà
promettere all’Europa qualcosa di più positivo».
Nel frattempo arriva la notizia dell’attacco giapponese a Pearl
Harbor: la flotta americana è stata colta di sorpresa; si apre un altro
fronte. Il Duce si affretta a dichiarare guerra all’America; ma stavolta i
capi sezione fascisti faticano a radunare qualche migliaio di persone e
a indurle a inneggiare.
Il 1942 è l’anno delle illusioni perdute. Nel momento in cui il Terzo
Reich raggiunge la sua massima espansione, le sorti della guerra si
capovolgono. In Africa, dove i maligni raccontano che il Duce ha
spedito il suo cavallo e la spada dell’Islam con cui sfilare al Cairo,
italiani e tedeschi vengono travolti a El Alamein. Va detto che i nostri
soldati si battono con grande coraggio, interi reparti preferiscono farsi
uccidere sul posto piuttosto che arrendersi. Gli altri vengono fatti
prigionieri o iniziano una lunga marcia a ritroso nel deserto, che si
concluderà con la resa in Tunisia.
Ma è in Russia che si decide la seconda guerra mondiale.
L’impiego nella steppa sovietica di tre delle nostre migliori
divisioni alpine – la Cuneense, la Tridentina, la Julia – è un’assurdità.
Cavallero se ne rende conto, e insiste perché la partenza venga
rinviata; ma Mussolini è irremovibile. L’equipaggiamento è pessimo.
Abbiamo corde, piccozze, ramponi, tutto materiale inutile; non
abbiamo mine, bengala, reticolati; ma il problema principale si
riveleranno le scarpe, del tutto inadatte al gelo russo.
Gli alpini si schierano sul Don, si ritrovano ad armeggiare con le
barche e i pontili. I camion sono pochi, e mimetizzati a chiazze gialle e
verdi: sulla neve si vedono a chilometri di distanza, anche la divisa
grigioverde segna troppo il bersaglio; in compenso abbiamo 15 mila
muli, che sarebbero utili sui sentieri di montagna, ma nell’immensità
delle pianure del Don non servono a nulla. Il mulo più riottoso di ogni
reggimento, e il soldato più brutto, vengono ribattezzati Mussolini.
Ma siamo alla goliardia; non all’antifascismo. I montanari vanno alla
guerra per senso del dovere, spirito di corpo, attaccamento alla patria.
La punizione sarà terribile.
Il 16 dicembre 1942 i carri sovietici sfondano il fronte. Le divisioni
di fanteria – la Cosseria, la Ravenna, la Pasubio, la Torino, la Celere, la
Sforzesca – sono travolte: 11 mila prigionieri in un giorno. Gli alpini
invece sono fermi sul Don. L’ordine di ripiegare arriva in ritardo: il
comando tedesco li ha sacrificati, saranno la retroguardia incaricata di
rallentare l’attacco sovietico.
Inizia una marcia all’indietro lunga seicento chilometri, nei giorni
più gelidi dell’anno. Gli italiani sono circondati di continuo dai russi,
devono aprirsi più volte la strada andando all’assalto contro le
mitragliatrici. Camminare a trenta gradi sotto zero è impossibile;
migliaia di alpini cadono lungo la strada, i piedi blu per il
congelamento; altri trovano scampo nelle isbe, accolti con umanità dai
mugiki russi, dai contadini ucraini. L’ultima battaglia è Nikolajewka:
per aprirsi la via di casa muoiono cinquemila soldati italiani. Intere
divisioni non esistono più: della Cuneense sono rimasti in
milletrecento, della Vicenza in mille. I caduti sono almeno ottantamila.
I superstiti, ammalati, congelati, vanno ai campi di raccolta: vengono
fatti rientrare in Italia alla chetichella, ricevono l’ordine di non parlare.
Non è un caso che tra loro ci saranno i comandanti delle prime bande
partigiane: hanno visto cosa stanno facendo i tedeschi in Russia.
La reazione nazista è vergognosa. Hitler ha sollecitato a Mussolini
l’ordine di resistere o morire. I giornali del Reich scrivono che il
disastro è colpa degli italiani, gli operatori di guerra hanno ricevuto la
disposizione di filmare gli italiani in fuga, i negozi espongono vignette
con un contadino tirolese che bastona il gatto italiano traditore con la
scritta: «Ignominia per l’Italia».
La sconfitta costa il posto a Cavallero. Il nuovo comandante delle
forze armate è il generale Vittorio Ambrosio, che spiega a Mussolini:
si deve richiamare in patria il maggior numero di divisioni, chiedere
una pace separata, prepararsi a combattere i tedeschi.
Il Duce appare inebetito. Qualcuno ha l’impressione che non
capisca la catastrofe in cui ha precipitato la nazione. Altri credono che
sia stanco di tutto, e voglia mettersi nelle mani dei propri nemici
affinché facciano quello che lui non può o non vuole fare. Però al
ministro delle Comunicazioni Vittorio Cini, che lo informa che la flotta
è alla mercé della marina inglese, la guerra è perduta e occorre
ripensare l’alleanza, risponde: «Ciò equivarrebbe a staccarci dalla
Germania e a finire separatamente la guerra e questo non sarà mai».
È l’inizio della fine. Ma il Duce non se n’è accorto, o finge di non
accorgersene. E in suo nome si continua a morire, e ad ammazzare.

«Non si uccide abbastanza!»: i crimini in Jugoslavia


Seicentomila italiani sono impegnati nell’occupazione della Grecia e
della Jugoslavia. Il nostro uomo in Croazia è Ante Pavelić: un
criminale dichiarato. Mussolini si annette la provincia di Lubiana,
reclama l’intera costa e punta a ripulire i nuovi territori dagli slavi.
Questo il suo ordine: «Quando l’etnia non corrisponde con i confini
geografici e politici, conviene farla coincidere con gli scambi delle
popolazioni». Come a dire: sloveni e croati se ne vadano. Proprio la
sorte che sloveni e croati imporranno dopo la guerra agli italiani della
Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia.
L’esodo degli slavi è incoraggiato con azioni squadristiche,
minacce, bastonature, olio di ricino. Il segretario del partito, Aldo
Vidussoni, è di Trieste, e si occupa personalmente della
fascistizzazione delle terre annesse all’Italia. Proibiti giornali,
manifesti, simboli sloveni e croati. I cognomi devono essere tradotti in
italiano, come i nomi dei paesi e le scritte per strada. Sciolte le società
culturali e sportive, introdotto il saluto romano. Si impone di vendere
i terreni, da redistribuire agli ex combattenti italiani. Gli slavi
ovviamente si ribellano. Il prefetto di Trieste suggerisce al questore di
disperdere le proteste con il gas: «Consigliabile l’iprite»; si provvederà
poi ad affiggere un «cartello della avvenuta irrorazione» per non
nuocere agli italiani.
I tribunali speciali comminano le prime condanne a morte: sei a
Sebenico, otto a Benkovac, dodici a Vodice, diciannove a Spalato.
Numeri inquietanti ma minuscoli rispetto alle stragi dei nostri alleati,
gli ustascia di Pavelić, che ripuliscono la Croazia dai civili serbi con il
motto «oltre la Drina o dentro la Drina»: i morti sono almeno
trecentomila.
Aimone d’Aosta, duca di Spoleto, viene designato re di Croazia,
con il nome di Tomislavo II. Ma Aimone non è sciocco, si guarda bene
dal cacciarsi nel mattatoio balcanico, rimanda di continuo la partenza
per Zagabria e il suo regno di cartapesta; l’unica incoronazione
avviene in un ristorante romano, dove gli mettono in testa un
tovagliolo attorcigliato a mo’ di corona, tra brindisi dei convitati e
applausi dei camerieri. I Savoia rivendicano anche il trono del
Montenegro, patria della regina Elena: le truppe italiane entrano a
Cettigne, ma vengono attaccate sia dai comunisti di Tito, sia dai
cetnici serbi.
Mussolini chiede la massima spietatezza: «Deve cessare il luogo
comune che dipinge gli italiani come dei sentimentali incapaci di
essere duri quando occorre … Non vi preoccupate del disagio
economico della popolazione. Lo ha voluto. Attualmente la Balcania
costituisce per noi una forte usura e non sarei alieno dal trasferimento
di popolazioni in massa».
Il generale Gaspero Barbera, che comanda la regione di Zara,
stabilisce: «Non dente per dente, ma testa per dente». Segue l’ordine
di fucilare 65 ostaggi, per rappresaglia contro i partigiani jugoslavi che
hanno fatto saltare i piloni dell’elettricità. Ma il dispaccio più
sinistramente celebre è quello del generale Mario Robotti, che
raccomanda severità nelle fucilazioni, e conclude: «Non si uccide
abbastanza!». Quindi si uccide di più: 170 fucilati dalla divisione
Granatieri, 270 dalla Macerata, 118 a Podhum, in Istria, 300 nel
rastrellamento del gennaio 1943. Il generale Robotti specifica: «Non ha
importanza se nel corso degli interrogatori risulti che si ha a che fare
con persone inoffensive. Ricordatevi che per varie ragioni anche
questi elementi possono diventare dei nemici. Di conseguenza
deportazione totale. Io non mi opporrò a che tutti gli sloveni siano
internati e sostituiti da italiani». In pochi giorni vengono deportate 67
mila persone.
I nostri soldati scrivono a casa lettere terribili: «Noi abbiamo
l’ordine di uccidere tutti e di incendiare tutto quello che incontriamo
sul nostro cammino, di modo che contiamo di finirla rapidamente».
«Abbiamo distrutto tutto, da cima a fondo senza risparmiare gli
innocenti. Uccidiamo famiglie intere, ogni notte, a furia di colpi o con
le armi. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi
muore muore».

La Grecia occupata è alla fame. I tedeschi razziano tutto, anche il


vino e l’olio. Per procacciarsi un po’ di cibo la borghesia ateniese è
costretta a far prostituire le figlie. Nell’inverno del 1942 si muore di
inedia sui marciapiedi, i morti sono tra i 300 e i 400 mila. Va detto che
gli italiani si comportano in modo diverso dai tedeschi: spesso
dividono il rancio con i greci. Il generale Carlo Geloso rifiuta di
imporre agli ebrei la stella gialla, e manda un reparto a difendere la
sinagoga di Atene; a Salonicco il console Guelfo Zamboni salva 350
ebrei, cui rilascia documenti falsi.
(Mi consenta il lettore un piccolo ricordo personale. La prima volta
che andai in Grecia, per la Pasqua del 1982, il tassista che ci portò
dall’aeroporto al centro di Atene ci parlò a lungo dell’inverno di
quarant’anni prima, della fame che aveva patito da piccolo. Ci disse
che era stato salvato da un fante italiano, che ogni giorno spartiva con
lui la sua razione di cibo. Quando arrivammo all’albergo, al momento
di salutarci il tassista aprì un pacchetto di carta stagnola, ne estrasse
un panino, lo divise con le mani e ne offrì metà a mio fratello Enzo,
che aveva sette anni. Enzo si schermì: non aveva fame. Mio padre però
gli disse di ringraziare e di accettare la metà del panino: era il modo,
per quel tassista, di restituire a un bambino italiano quello che aveva
avuto da un nostro compatriota, quando lui era un bambino greco
affamato. Me ne sono ricordato quando tornai ad Atene da cronista,
per raccontare il referendum sull’Europa del luglio 2015. Quell’anno
la mortalità infantile era cresciuta molto, a causa delle restrizioni
anche alimentari che i greci avevano subito. I paragoni con la seconda
guerra mondiale sono ovviamente impossibili; ma pure allora i
tedeschi si comportarono, se non con crudeltà e spietatezza, di certo
senza generosità e senza lungimiranza).

Con dignità si comportano gli italiani in Francia. La Quarta Armata


occupa la Provenza, fino a Tolone, e stabilisce buoni rapporti con gli
abitanti. Molti sono di origine italiana, altri sono fuoriusciti
antifascisti. A volte i nostri fingono di non vedere i lanci inglesi di
armi destinate ai partigiani. Decine di migliaia di ebrei fuggono dalla
Francia occupata dai nazisti per rifugiarsi nella porzione dove
comandano gli italiani; e va riconosciuto che Mussolini non fa nulla
contro di loro, anzi. Cavallero, che di solito non dice no ai tedeschi, fa
sapere che «gli eccessi contro gli ebrei non sono compatibili con
l’onore dell’esercito italiano». Alle truppe in Jugoslavia, però,
Mussolini ordina di consegnare gli ebrei ai nazisti: ordine che verrà
disatteso. Purtroppo si comporteranno molto diversamente, come
vedremo, i fascisti di Salò, che in molti casi collaboreranno con i
tedeschi nella caccia e nella deportazione degli ebrei italiani.

«Chillo fetente sta a Roma»


All’inizio della guerra, il Duce ha stabilito che i comunicati del
comando supremo vanno ascoltati in piedi, sull’attenti. Una
disposizione ampiamente ignorata, soprattutto ora che neppure la
propaganda di regime può nascondere il disastro. Lo stesso Mussolini
dirà al capo della polizia: «Ma sì, quell’ordine è stato una sciocchezza.
E fossero almeno buoni comunicati». Ma poi, quando gli riferiscono
delle proteste contro la guerra in Sicilia, ha un eccesso d’ira, e
comanda di trasferire sul continente tutti i poliziotti di origine
siciliana: un’assurdità che nessuno prenderà sul serio. Gli italiani
ascoltano però volentieri Radio Londra, a basso volume.
Non si trovano benzina, scarpe, vestiti, sapone, e neppure caffè,
zucchero, carne, pane. Il Duce commenta: «Non è un male» se gli
italiani dimagriscono un po’; l’importante è «abbandonare la vita
pittoresca, disordinata di un tempo. Dobbiamo diventare
disperatamente un popolo serio».
Compaiono le prime scritte sui muri. A Napoli sui resti di una casa
bombardata una mano ignota ha tracciato: «Chillo fetente sta a
Roma». A Perugia è apparsa la scritta Fascismo Aeronautica Marina
Esercito, acronimo di FAME. Si sente canticchiare: «Duce, Duce/ a
morte ci conduce/ di giorno senza pane/ di notte senza luce». Il fabbro
Pietro Marietta viene strappato alla famiglia e mandato al confino
perché sorpreso a inveire ubriaco contro l’impero. Un operaio della
Villar Perosa, Luigi Valle, viene segnalato all’Ovra per aver mostrato
ai colleghi un biglietto con questo acronimo, che ricomparirà sul muro
di un «luogo di decenza» della Lancia: Morirai Ucciso Seconda
Settimana Ottobre Liberando Intera Nazione Italiana.
In 360 mila, su sollecitazione del governo, sono andati a lavorare in
Germania, dove sono trattati come schiavi; Mussolini protesta quando
viene a sapere che i sorveglianti tedeschi aizzano contro gli emigrati
italiani grossi cani da pastore che li azzannano alle gambe.
Il Duce passa da un estremo all’altro. Si rallegra per il gelo e il
maltempo: «Questa neve e questo freddo vanno benissimo, così
muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza
italiana. Una delle principali ragioni per cui ho voluto il
rimboschimento dell’Appennino è stata per rendere più fredda e
nevosa l’Italia». Si compiace quasi dei bombardamenti che temprano
la popolazione, tanto da infastidirsi per il fatto che gli Alleati
risparmiano la capitale; così fa suonare le sirene a vuoto, per il gusto
di far correre i romani nei rifugi. Si rallegra per le vittorie tedesche,
perché le folle, essendo «come le puttane», vanno con il «maschio
vincitore». Ma nello stesso tempo si duole: «Questa guerra non è fatta
per il popolo italiano. Non ha la maturità né la consistenza per una
prova così formidabile e decisiva. Guerra per tedeschi e per
giapponesi, non per noi».
Resta da capire perché il nostro esercito, al di là del valore
individuale, abbia subìto punizioni così severe su tutti i fronti in cui fu
impegnato. Certo, mancavano armi, equipaggiamento,
addestramento. Ma mancavano soprattutto le motivazioni, la voglia di
combattere. Si è realizzata la profezia di Adolfo Omodeo, grande
studioso del cristianesimo, allievo di Giovanni Gentile, da cui prese le
distanze per avvicinarsi a Benedetto Croce e agli antifascisti. Per
Omodeo, il mussolinismo era stato una disgrazia che aveva «corroso a
fondo tutte le strutture sociali». Quanto alla prospettiva della guerra,
«penso con sgomento a quel che succederebbe quando si dovesse
chiedere il sacrificio supremo a moltitudini avvilite e bastonate, o a
uomini che dal terrorismo piccolo o grande abbiano imparato a
chiudersi nel loro egoismo. Sarebbe una catastrofe da Secondo
Impero», il regime di Napoleone III crollato sotto i colpi dell’armata
prussiana.
Altro che «italiani tutti fascisti». Il regime e la sua guerra,
proclamata e preparata – almeno a parole – per vent’anni, avevano
talmente poco consenso che non soltanto gli oppositori, ma pure la
zona grigia andò incontro ai combattimenti e ai bombardamenti con
cupa rassegnazione, badando soprattutto a salvare la pelle. Con ben
altro spirito decine di migliaia di italiani prenderanno le armi contro
l’invasore nazista durante la Resistenza.

La caduta
La mattina del 5 marzo 1943 gli operai di Mirafiori, umiliati da tre
anni di squadrismo e vent’anni di regime, entrano in sciopero. In
poche ore la protesta contro la guerra si estende alle altre fabbriche di
Torino, il giorno dopo a Milano. Mussolini è cauto. Ordina una serie
di arresti; i sospettati di appartenere al partito comunista sono
mandati al confino; ma la Milizia non si muove, nessuno osa sparare
sulla folla.
I gerarchi cominciano a dubitare della sua salute mentale. Arriva la
notizia della caduta di Tripoli, italiana da oltre trent’anni; per
compiacerlo, lo accolgono comunque al grido di «vinceremo!», ma lui
si risente: «Non capite nulla, noi abbiamo già vinto!».
Il 9 marzo Mussolini riceve Rommel e gli intima di tenere la Tunisia
«a ogni costo». Il maresciallo gli spiega come stanno le cose. Gli
angloamericani avanzano sia dalla Libia sia dall’Algeria: l’Africa è
perduta. Il Duce si irrita: nel cassetto ha una medaglia d’oro per il
maresciallo, ma decide di tenersela. Rommel – non un oppositore; un
generale nazista – ne dà un giudizio severo: «Ora il Duce vedeva
svanire i suoi sogni, era un’ora amara per lui, ed era completamente
incapace di addossarsene le conseguenze. Forse avrei dovuto parlargli
alla fine differentemente; ma ero così cordialmente disgustato da tutto
questo eterno ottimismo che proprio non riuscii a farlo».
Mussolini si esibisce per l’ultima volta sul balcone di piazza
Venezia. Il tono all’inizio è patetico: «La grande impresa non è finita; è
semplicemente interrotta. Io so, io sento che milioni e milioni di
italiani soffrono di un indefinibile male, che si chiama il male d’Africa.
Per guarirne non c’è che un mezzo: tornare. E torneremo». Poi si fa
torvo: «Gli imperativi categorici del momento sono questi: onore a chi
combatte, disprezzo per chi si imbosca, piombo per i traditori di
qualunque rango e razza».
Gli avvenimenti incalzano. Il 12 maggio gli italiani si arrendono in
Tunisia. Il Paese è depresso, alla fame. Mussolini se la prende con la
parte «deteriore della nazione, composta da tutti coloro che sono
minorati fisici e minorati morali, da tutti coloro che sono ciechi, storpi,
sdentati, cretini, imboscati, deficienti. Tutti costoro, siccome non
hanno mai fatto la guerra, siccome non potranno mai fare la guerra,
trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si
doveva fare». Gli angloamericani bombardano le città indisturbati,
senza che l’aviazione o la contraerea reagiscano. Il Duce progetta di
ricostituire le squadre d’azione per colpire chi si oppone alla guerra.
L’11 giugno Pantelleria si arrende agli inglesi senza sparare un colpo.
Mussolini ordina: «Bisogna avere il coraggio, cari camerati, di
prendere per il collo i disfattisti, di denunciarli».
La situazione precipita. Il Duce proclama che il nemico non metterà
mai piede sul suolo italiano, e in ogni caso sarà «congelato su quella
linea che i marinai chiamano del bagnasciuga, la linea della sabbia,
dove l’acqua finisce e comincia la terra»; ma il bagnasciuga in realtà è
una parte della barca; il Duce l’ha confusa con la battigia. Fatto sta che
nella notte tra il 9 e il 10 luglio si presenta al largo della Sicilia la più
grande flotta d’invasione della storia (sarà superata solo l’anno
successivo, al tempo dello sbarco in Normandia). La resistenza è
sporadica.
Il 19 luglio i bombardieri nemici violano per la prima volta Roma:
San Lorenzo, il quartiere che nel 1922 aveva resistito ai fascisti, viene
raso al suolo, compresa la basilica. Il Papa in visita tra le macerie pare
«un angelo con gli occhiali», scriverà Francesco De Gregori.

La caduta si consuma nella notte tra il 24 e il 25 luglio. Sulla seduta


del Gran Consiglio che toglie al Duce i pieni poteri sulla guerra per
restituirli al re si è scritto molto; ma non è ancora chiaro quello che
pensasse Mussolini. Si è consegnato ai suoi nemici? O credeva ancora
che nessuno avrebbe osato alzare un dito contro di lui?
Di sicuro non dà retta alla moglie Rachele, che lo scongiura: «Falli
arrestare tutti Benito, falli arrestare tutti prima che la riunione
cominci. Non fidarti di Grandi e dei suoi compari. Guardati
soprattutto da Galeazzo». Galeazzo per ogni evenienza si è portato al
Gran Consiglio una bomba a mano nella tasca; Grandi e Bottai due a
testa.
La lettura dell’ordine del giorno di Grandi, che di fatto segna la sua
esautorazione, Mussolini la ascolta in una posa alla Giulio Cesare,
coprendosi gli occhi con una mano, e dando deliberatamente le spalle
al suo accusatore. Eppure la maggioranza dei gerarchi firma. Lui si
concede un’allusione ricattatoria: se si è aperta una frattura tra gli
italiani e il regime, «bisogna pur dire che fu determinata anche dalle
condizioni economiche di molti gerarchi».
Grandi è durissimo: «Che cosa hai fatto nei diciassette anni in cui
sei stato capo del governo e hai tenuto i tre ministeri militari?». Il vero
traditore, accusa, è lui: «Il popolo italiano fu da te tradito il giorno in
cui l’Italia ha cominciato a germanizzare. Ci hai condotto sulla scia di
Hitler, ci hai abbandonato ingolfati in una guerra che è contro l’onore,
gli interessi e i sentimenti del popolo italiano. Credi ancora di avere la
devozione del popolo italiano? Ci sono già centinaia di migliaia di
madri che dicono: Mussolini ha assassinato mio figlio!».
Quando prende la parola Ciano – il genero, il delfino – per spiegare
perché si schiera contro il suocero, comincia «il quarto d’ora di più
rabbiosa esasperazione mussoliniana» annota Federzoni, che c’era.
«Gli occhi roteanti lampeggiano d’ira. Tacite imprecazioni masticate
nella mascella. Sinistre minacce». Ciano commenta: «È un cinghiale
ferito».
Il 25 luglio il re attende il Duce alle 5 del pomeriggio, a Villa Savoia.
«Tu questa sera non torni» lo avvisa Rachele. E lui: «Devo mettere le
cose in chiaro, la guerra non l’ho firmata solo io». Crede ancora di
poter restare alla guida del governo, cedendo al re il comando delle
forze armate: «L’importante è avere rinforzi dalla Germania». Leo
Longanesi non pensa più che il Duce abbia sempre ragione, anzi:
«Mussolini regola tutto in rapporto alle sue ambizioni personali,
meschine e sconfinate».
Il re si prende la rivincita di quel che è accaduto nell’ottobre 1922. I
rapporti di forza si sono rovesciati. Ora è il Duce a subire. Vittorio
Emanuele lo informa che darà a un altro l’incarico di guidare il
governo: «L’Italia è in tocchi», a pezzi, e Mussolini è ormai «l’uomo
più odiato d’Italia».
Fuori dalla residenza del re, il Duce trova ad attenderlo i
carabinieri. Lui cerca con lo sguardo il suo fedele autista, Ercole
Boratto, ma non lo trova: l’hanno chiuso in uno stanzino con panini,
bibite e un mazzo di carte; lo libereranno solo a mezzanotte.
I carabinieri caricano Mussolini su un’ambulanza, lo portano in
caserma. Badoglio gli scrive: scelga l’ormai ex Duce il luogo dove
ritirarsi. Lui ringrazia e indica la Rocca delle Caminate, il maniero
nella sua Romagna, intestato alla moglie.

Il regime si liquefà in una notte. A Roma la folla invade Palazzo


Venezia, altri entrano a Villa Torlonia; Rachele si rifugia nella casa del
giardiniere. A Torino si dà l’assalto alla federazione del partito e al
consolato tedesco. Ovunque cortei con bandiere tricolori. I busti di
Mussolini vengono fatti a pezzi, i gagliardetti distrutti, le aquile
abbattute.
I fascisti non reagiscono. L’unico a morire, per mano propria, è
Morgagni, il direttore dell’agenzia di stampa del regime, che si spara
un colpo di pistola. A Bari i militari aprono il fuoco sui parenti dei
detenuti politici venuti a liberarli: 23 morti. In Emilia cadono nove
operai delle Officine Reggiane.
Goebbels commenta: «Il Duce entrerà nella storia come l’ultimo
romano, ma dietro la sua potente figura un popolo di zingari
terminerà di imputridire». In Italia sono scese diciotto divisioni
tedesche. Badoglio assicura che la guerra continua; in realtà tratta
l’armistizio; ma non riuscirà neppure a tenere Roma, quando arriva il
capo dei paracadutisti americani per vedere se può rischiare i suoi
uomini il maresciallo lo riceve in pigiama. Il re prepara la fuga.
I militari devono decidere tra la Germania e gli angloamericani, tra
il nazismo e la libertà: il grosso della marina fa rotta su Malta per
consegnarsi agli inglesi, la maggior parte degli aerei raggiunge i
campi siciliani; in pochi vogliono ancora combattere per Hitler. Ma
l’esercito è lasciato a se stesso: molti reparti combatteranno contro i
tedeschi, e a Cefalonia la divisione Acqui pagherà con la fucilazione di
massa. Ottocentomila soldati italiani vengono portati in Germania, e
quasi tutti sceglieranno di restare nei lager piuttosto che schierarsi con
il Führer e con il Duce. Anche questa fu Resistenza.
Mussolini si tormenta. Continua a non capire. Farnetica: «Un
giorno di vittoria su terra o nell’aria o sul mare avrebbe consolidato la
situazione anche nella primavera di quest’anno…».
Badoglio non è stato di parola. Non l’ha fatto portare alla Rocca
delle Caminate, ma – sempre sulla solita ambulanza – ad Anzio, e poi
in nave a Ponza. Ha pensato pure di eliminarlo, facendolo gettare in
mare: «Se le capita» dice Badoglio all’ispettore generale Saverio Pòlito
che lo scorta «una spintarella potrebbe risolvere tutto…». Invece il
Duce arriva sano e salvo a Ponza, dove aveva fatto esiliare il ras etiope
Immirù, il socialista Tito Zaniboni e il suo vecchio amico Pietro Nenni.
Dieci giorni dopo lo trasferiscono alla Maddalena perché, gli spiega
l’ammiraglio Francesco Maugeri, si teme che i tedeschi intendano
liberarlo e usarlo contro il nuovo governo. Mussolini si indigna, o
finge di indignarsi: «Questa è la più grande umiliazione che mi si
possa infliggere. E si può pensare che io possa andarmene in
Germania a tentare di riprendere il governo con l’aiuto dei tedeschi?
Ah, no davvero».
Invece è proprio quello che farà.
Undici
Il truce
Le atrocità di Salò

Alla Maddalena Mussolini resta solo tre settimane. Portato in un


rifugio di Campo Imperatore sul Gran Sasso, liberato da un’audace
missione tedesca, sopravvissuto a un decollo di fortuna e a un viaggio
rocambolesco con l’avventuriero Otto Skorzeny, il 18 settembre il
Duce parla da Radio Monaco. Annuncia di voler costituire un nuovo
Stato «nazionale e sociale, cioè fascista»; di voler riprendere le armi a
fianco della Germania; di essere intenzionato a punire «i traditori»,
compreso il genero, destinato al plotone d’esecuzione.
Estimatori e difensori di Mussolini sostengono ancora oggi che sia
stato costretto da Hitler a mettersi a capo di uno Stato fantoccio dei
tedeschi. Che l’abbia fatto per evitare agli italiani punizioni peggiori,
per creare un cuscinetto tra la popolazione e gli occupanti. In realtà sta
per cominciare la pagina più infamante della sua vita e del suo partito.
Una parte degli italiani finisce al servizio dei tedeschi. Collabora
alla persecuzione degli ebrei e alla repressione della Resistenza.
Inseguendo un sogno impossibile di vittoria, costruisce un incubo che
insanguina e lacera la patria.

I torturatori del nazifascismo


Le stragi naziste nel nostro Paese sono oggi quasi dimenticate. Molte
sono rimaste impunite. Né l’Italia repubblicana, né la Germania
federale avevano interesse a parlarne, a fare giustizia. Solo le
comunità locali mantengono viva la memoria dei massacri.
Gli italiani si trovarono alla mercé di un esercito di barbari.
Sull’Appennino le SS di Walter Reder danno la caccia ai civili come
avevano fatto in Russia, con criminale sadismo. Violenze sistematiche
su donne incinte, bambini, vecchi. Un rito pagano, consumato a volte
al suono di un grammofono o di un organetto, che precede i drappelli
dei massacratori. Fedeli bruciati vivi nella chiesa, corpi squartati,
crudeltà indicibili.
Sugli Appennini l’estate del 1944 è tremenda: 340 morti tra Vinca e
Fivizzano, 560 a Sant’Anna di Stazzema, almeno 1676 a Marzabotto.
Dopo Marzabotto Mussolini protesta con i suoi padroni tedeschi. In
risposta, viene mandato un medico sull’Appennino bolognese a
visitare i feriti, con la missione di convincerli a testimoniare che la
strage è stata opera dei partigiani. Purtroppo, tra le SS ci sono fascisti
italiani. Fanno da guida e da manovalanza. A Marzabotto qualcuno si
è rivolto ai contadini emiliani terrorizzati nel dialetto di casa, per
minacciarli, schernirli.
Migliaia di giovani obbediscono ai bandi Graziani e accettano di
combattere per la Repubblica sociale per paura – i renitenti alla leva
vengono fucilati – o per convinzione. Ma il Duce recluta anche tra i
fanatici, i criminali, i sadici, i delinquenti comuni.

Il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, chiede a un


prete vicino alla Repubblica sociale, don Luigi Corbella, di intercedere
presso Mussolini, per fermare le violenze più efferate. È un
documento interessante, perché viene da una fonte insospettabile:
«Scrivo a lei perché ella, nelle forme che troverà più sicure e
convenienti, informi il capo del governo di ciò che avviene
nell’archidiocesi dove i vari capi di polizia, i vari gerarchi della
Milizia, delle squadre mobili, autonome, Muti, eccetera, catturano,
flagellano, seviziano le loro vittime in forme tali che ogni animo
onesto e ogni popolo civile devono assolutamente condannare».
Schuster non è un sovversivo. Di famiglia bavarese, figlio del sarto
degli zuavi pontifici, nel ’35 ha celebrato una messa di ringraziamento
all’indomani dell’invasione dell’Etiopia per benedire le truppe italiane
(anche se poi in un’omelia ha condannato le leggi razziste). Alla
notizia delle atrocità commesse dalle bande di Salò, il cardinale scrive,
parlando di sé in terza persona: «Anche l’Arcivescovo deve registrare
dei suoi sacerdoti arrestati per insufficienti motivi, legati per ore e ore
a un albero, fustigati con nerbo di bue, seviziati sino a spezzare loro i
denti. Ormai sono parecchie le parrocchie i cui curati sono in prigione
o a domicilio coatto o fuggiaschi ed errabondi perché mal sicuri in
casa loro. Qui ogni gerarca autonomo si vanta di esercitare diritto
sulla vita e la libertà del clero e dei cittadini, avvengono tali scene di
orrore da degradare tutto il nostro secolo. Domani quale sarà la
reazione popolare? Scrivo questo perché il silenzio non sia imputato a
colpa innanzi a Dio e innanzi agli uomini e trattengo copia del
documento per la storia».
C’è un altro equivoco da sfatare. I «ragazzi di Salò», come vengono
chiamati con un’espressione indulgente, sono ora considerati i «vinti».
E lo furono, dopo il 25 aprile. Ma prima avevano il coltello dalla parte
del manico. E lo usarono. Salò si regge sulla formidabile e spietata
macchina da guerra nazista. E ci aggiunge del suo, grazie ad alcuni
terrificanti figuri.
A Milano la legione «Ettore Muti», intitolata allo squadrista ucciso
dai carabinieri mentre tentava di fuggire nella pineta di Fregene, ha il
suo comando in via Rovello, nei locali del dopolavoro del Comune:
fureria, autorimessa, armeria, camera di tortura, camera della morte.
Dopo la Liberazione prenderanno possesso di quelle stanze Paolo
Grassi e Giorgio Strehler, fondatori del Piccolo Teatro: «Quando Paolo
e io lo scoprimmo, questo teatro era abbandonato, era pieno di buio e
dentro c’era stato l’orrore» ricorderà Strehler. «Abbiamo trovato, una
mattina che era piena di sole, tracce di sangue sui muri. I camerini
erano stati celle di tortura durante la Resistenza, erano serviti per
rinchiudere il dolore dell’uomo, la rivolta di chi si rifiuta all’orrore e
alla sopraffazione».
Ma ci sono torturatori ancora più efferati, del tutto fuori controllo.
Sono quelli della banda Koch, dal nome del capo, Pietro Koch. Figlio
di un tedesco, è ufficiale di complemento dei granatieri, ma si congeda
nei primi mesi del 1940, alla vigilia della guerra. È un bel ragazzo,
piace alle donne. Vive di piccole truffe: ubriaca gli sconosciuti e li
deruba. Nel ’43 viene richiamato, ma non spara un colpo. Fa
esperienza con la banda di torturatori di Mario Carità, a Firenze; poi a
Roma si mette in proprio e recluta criminali, cocainomani, spie.
Nasce così il Reparto speciale di polizia: la banda Koch.
Specializzata in varie tecniche di tortura, per ferire e umiliare. La
doccia bollente. La «capriola»: la vittima viene lanciata contro il muro.
La corsa tra due file di uomini che bastonano. La sospensione con le
corde. La fustigazione con fruste di cuoio. L’isolamento nel «buco»,
una cella alta un metro e venti in cui si sta rannicchiati al buio. Le finte
esecuzioni.
Koch ha solo 25 anni ma è un uomo potente, fa amicizia con
Herbert Kappler, il ministro Guido Buffarini Guidi lo consulta. Nella
pensione Oltremare trasformata in carcere sottopone le sue vittime a
scosse elettriche, le tormenta con manici di scopa, spezza loro le ossa a
manganellate. Ma quando si mette a investigare anche sugli uomini di
Salò, da Farinacci al direttore della Stampa Concetto Pettinato, lo
fanno smettere: gli uomini della Muti lo portano a San Vittore. Koch
sarà giustiziato a Roma, al Forte Bravetta, il 5 giugno 1945.
L’esecuzione sarà filmata da uno dei suoi ex prigionieri: Luchino
Visconti.

Il «maestro» di Koch è Mario Carità. Squadrista fin dal 1920, si


specializza nel taglieggiare i commercianti. Elettricista in un negozio
di radio a Firenze, viene licenziato perché ruba. Avvia una sua
attività, fallisce, tiene aperto il retrobottega per farne una bisca e una
camera a ore. Con la guerra scopre un’altra fonte di sostentamento:
segnala alla polizia chi ascolta Radio Londra. Poi fonda la banda
Carità, ufficialmente Reparto dei servizi speciali: sadici e delinquenti
comuni.
Ma è sbagliato pensare Carità come una scheggia impazzita: è
ascoltato e temuto, scrive al Duce per spiegargli che «le fucilazioni
non debbono essere fatte solo nelle classi proletarie, le fucilazioni
debbono essere fatte soprattutto nella categoria dei dirigenti militari,
politici e aristocratici»; il Duce acconsente. Carità è anche promosso
«seniore» per i suoi successi, tra i quali la cattura del Comitato di
liberazione toscano: un generale, un colonello, un tenente colonnello,
un capitano, un magistrato, un professore, un avvocato. Servono
camere di tortura: si trovano prima a Villa Malatesta, poi nel villino di
via Bolognese, «Villa Triste». Della banda, oltre a Koch, fanno parte
anche un monaco benedettino, padre Ildefonso, al secolo Epaminonda
Troya, e don Gregorio Boccolini, cappellano delle SS. Le squadre
hanno nomi tra la goliardia e il girone dantesco: la squadra degli
assassini, la squadra della labbrata, la squadra dei quattro santi.
Questo è il ritratto che traccia di Carità una delle sue vittime, lo
scrittore Augusto Dauphiné: «Vestiva in borghese, ma a guisa
sportiva; camicia alla Robespierre e calzoncini corti. Sui capelli,
nerissimi, spiccava una candida ciocca in mezzo alla fronte, rivelatrice
di anomalie del sistema nervoso; questa fronte era bassa, il grugno
suino. Notai subito la bocca sensuale, carnosa, sul viso floscio e
giallastro, lo sguardo collerico, i pugni che stringeva continuamente
parlando. Il viso di un’asimmetria sconcertante, gli orecchi callosi,
piccoli, accartocciati, il mento prominente dalle favolose mascelle che
avrebbero fatto fare a Lombroso salti di gioia, e anch’io, per quanto
estraneo agli studi di medicina legale e sebbene distratto da altre
meditazioni, non seppi trattenermi dall’ammirare quello splendido
campione di delinquente. Vi avverto – disse Carità entrando subito nel
vivo – che vi sono due soluzioni per voi: o la fucilazione alla schiena o
la deportazione in Germania. Se direte tutto, vi do la mia parola di
vecchio soldato che mi limiterò a farvi deportare in Germania».
A dire il vero, Carità non è un soldato: quando il 14 ottobre 1943
guida l’attacco contro una delle prime bande partigiane, sul Monte
Morello, batte ignominiosamente in ritirata. Di esecuzioni sommarie
invece è grande esperto: è lui a finire con un colpo alla nuca i renitenti
alla leva fucilati al Campo di Marte; poi apostrofa la folla costretta ad
assistere: «Vi è piaciuto il cinematografo?».
Dopo la liberazione di Firenze, Carità ripara a Padova. La fine è da
romanzo noir, come il personaggio: per un mese si nasconde; lo
trovano gli americani nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1945, nella
stanza di una pensione all’Alpe di Siusi; lui è a letto con l’amante che
resterà ferita, forse è stato lo stesso Carità a spararle per farla tacere;
poi rivolge la pistola contro gli americani, ne uccide uno, è ucciso da
una raffica di mitra.

La X Mas è considerata a volte un reparto regolare, che avrebbe


voluto «difendere la patria» dagli americani e fu coinvolto
controvoglia e di rado nella repressione antipartigiana. In realtà, la
Decima si comporta in alcune occasioni come i nazisti. E si rivela
erede solo nel nome dell’unità speciale che ha condotto azioni
coraggiose contro gli inglesi, i cui ufficiali – incluso l’eroe di
Alessandria d’Egitto, Luigi Durand de la Penne – sono rimasti fedeli
al re, tranne il principe Junio Valerio Borghese e la sua cerchia.
La X Mas risale le valli liguri da La Spezia e terrorizza interi paesi.
Secondo la testimonianza di don Aristide Lavaggi, parroco di
Miseglia, il 24 agosto 1944 i militari della Decima incendiano Guadine,
dove uccidono tredici innocenti. Poi bruciano Gronda, Redicesi e
Resceto, sparando all’impazzata sulla popolazione.
A Forno di Massa, un reparto comandato da Umberto Bertozzi
affianca i tedeschi nella rappresaglia che fa 68 vittime. È Bertozzi che
interroga i prigionieri e decide chi deve essere deportato e chi fucilato
subito, davanti alla famiglia. Il suo reparto funesta poi l’intera
Lunigiana e il Canavese, trasformandosi in una squadra di torturatori,
che si diverte a incidere la X della Decima sui petti e sulle schiene di
donne e uomini.
Com’è scritto nella sentenza della corte d’Assise straordinaria di
Vicenza, «ragazzi poco più che bambini venivano torturati ed esposti
a mille disagi. Si ricorse anche a qualche novità, forse per porgere
qualche svago agli esecutori: una coppia di inquisiti, che dovevano
battersi l’un l’altro, come i lottatori del circo, aizzati dagli aguzzini, e
percossi da costoro, sol che diminuisse l’ardore della lotta. Più volte i
cani poliziotti furono aizzati e azzannarono i pazienti, e taluno giunse
persino a una sessantina di morsi. Qualcuno, battuto sulla schiena a
dorso nudo, con la pelle ridotta tutta a una piaga, fu costretto a
rivestirsi e a dover soffrire le torture dei panni che si attaccavano alle
piaghe. A vari patrioti, persino a un sacerdote, furono legati i testicoli,
e dati strappi e strattoni dolorosissimi … Vanno considerati alla stessa
stregua delle gravi sevizie materiali anche quelle morali, come lo
sputare ripetutamente in faccia a un invalido di guerra, l’inscenare la
macabra commedia della finta fucilazione per spaventare gli arrestati
e i loro congiunti, l’offendere deliberatamente il pudore delle donne
arrestate denudandole e percuotendole in presenza di molte persone,
o, col pretesto di una visita medica del genere di quelle che si passano
alle prostitute, costringendo le donne a esibire le parti genitali, o,
infine, offendendo il carattere sacro della persona, strappando al prete
le vesti sacerdotali e percuotendoli e insultandoli con le più sconce
bestemmie».
Sono ancora uomini della X Mas a torturare – gli strappano anche
la lingua – e a uccidere, sulla piazza principale di Ivrea, il partigiano
Ferruccio Nazionale. Il suo corpo resta appeso per ore, con un cartello
al collo: «Aveva tentato di colpire con le armi la X». Va detto che sarà
un ufficiale del battaglione Fulmine, tra le proteste dei camerati, a far
togliere il cadavere di Nazionale per seppellirlo con gli onori militari.
Oggi la piazza di Ivrea porta il suo nome.

La caccia agli ebrei


Il martirio degli ebrei italiani comincia subito dopo l’8 settembre.
Sostenere oggi che i «ragazzi di Salò» non ne sapessero nulla è
difficile: a cinque anni dalle leggi razziste e a quattro anni dall’inizio
della guerra, non è impossibile immaginare che fine faranno gli ebrei
catturati e consegnati ai tedeschi.
Di sicuro il Duce sa che gli ebrei italiani finiscono ad Auschwitz per
essere eliminati. E non ha nulla in contrario.
La Carta di Verona del 14 novembre 1943, il manifesto politico della
Repubblica sociale, stabilisce che tutti i membri della «razza ebraica»
sono «stranieri e parte di una nazione nemica». L’ordine di polizia
numero 5, emanato il 30 novembre 1943 e trasmesso il giorno seguente
alla radio, annuncia che tutti gli ebrei saranno inviati ai campi di
concentramento, fatta eccezione per quelli gravemente malati o di età
superiore ai settant’anni. Tutte le proprietà ebraiche saranno
sequestrate e «assegnate alle vittime dei bombardamenti alleati».
Comincia la grande rapina: alla Liberazione i decreti di confisca
saranno circa 8 mila. La Repubblica sociale si appropria di terreni,
case, aziende, titoli, mobili, gioielli, merci di famiglie ebraiche pari a
oltre due miliardi di lire, circa due miliardi di euro di oggi.
Il primo dicembre 1943 i fascisti cominciano ad arrestare gli ebrei e
a internarli in campi provinciali; a fine mese iniziano a trasferirli nel
campo nazionale di Fossoli, in provincia di Modena.
La prima razzia delle SS è quella del 16 ottobre 1943 a Roma: quel
sabato vengono rastrellati 1259 ebrei. Due giorni dopo, 1022 sono
deportati ad Auschwitz; tra loro vi è anche un bambino nato dopo
l’arresto della madre; solo 16 faranno ritorno. L’irruzione nel ghetto è
un crimine conosciuto e giustamente commemorato ora anche dalle
«pietre d’inciampo», poste nei luoghi dove vivevano le vittime; ed è
un crimine tedesco.
In pochi ricordano invece la notte del 6 dicembre 1943, quando 163
ebrei veneziani vengono arrestati dalla polizia italiana e da volontari
fascisti. La sera successiva il prefetto comunica al ministero
dell’Interno di Salò il successo dell’azione: «Notte sul sei corrente in
Venezia et provincia procedutosi in fermo numero 163 ebrei puri di
cui 114 donne et 49 uomini». Tutti vengono trasferiti a Fossoli e
consegnati ai nazisti. Non ci si ferma nemmeno di fronte agli anziani
della Casa di riposo israelitica, e a un gruppo di bambini che seguono
i genitori qualche settimana più tardi e condividono la destinazione
finale: Auschwitz.
Il convoglio degli ebrei veneziani e di altri deportati parte per il
campo di sterminio il 22 febbraio 1944. In tutto sono 649: Primo Levi è
tra loro, sarà uno dei pochissimi sopravvissuti. L’elenco dei bambini
viene comunicato dal questore di Venezia al comandante del campo
di Fossoli: «Levi Mario di Beniamino di anni 4; Levi Lino di
Beniamino di anni 6; Todesco Sergio di Eugenio di anni 4; Nacamulli
Mara di Eugenio di anni 3». Le loro case rimaste vuote vengono
saccheggiate.
È ormai accertato che i 4210 ebrei deportati dopo l’ordine di polizia
numero 5 siano stati arrestati quasi tutti dalle autorità italiane. Alcune
prefetture e comandi, scrive De Felice, ci mettono «uno zelo
veramente incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di
violenza, di rapacità».

L’8 febbraio 1944 il campo di Fossoli passa sotto il comando


tedesco. Che gli ebrei da lì vadano a morire, Mussolini lo sa
perfettamente. Già nel febbraio ’43 ha ricevuto il rapporto segreto di
Ciano sulle deportazioni e le «esecuzioni in massa degli ebrei» nei
territori occupati dell’Est Europa. Il 18 aprile 1944 il Duce compie un
ulteriore passo sulla via della persecuzione: istituisce l’Ispettorato
generale per la razza, alle sue dipendenze, e vi pone a capo un
fanatico, Giovanni Preziosi, convinto che il «primo compito» della
Repubblica sociale sia «eliminare gli ebrei».
Preziosi si adopera per inviare nei campi di concentramento non
solo gli «ebrei puri» ma anche i cittadini di «origine mista», e per
confiscare i beni anche degli «ebrei arianizzati». Quando gli Alleati
premono sull’Appennino, gli ebrei vengono trasferiti da Fossoli nel
campo di Bolzano-Gries, luogo di torture e di crimini, come la Risiera
di San Sabba a Trieste.
Il 5 settembre 1944 le SS, appoggiate da militi della Guardia
nazionale repubblicana, assassinano 17 prigionieri tra cui 11 ebrei, nei
pressi dell’aeroporto di Forlì. Le loro donne – madri, mogli, sorelle: in
tutto sette persone – sono scarcerate con la promessa della libertà;
vengono uccise subito dopo. La strage continua fino al 25 aprile,
quando un gruppo di militi fascisti in fuga verso la Francia si ferma a
Cuneo per prelevare sei ebrei stranieri e gettarli dal ponte sulla Stura.
I delatori esistono, se gli arcivescovi di Milano Schuster e di Firenze
Elia Dalla Costa esortano dal pulpito i fedeli a «evitare la vergogna»,
minacciando la scomunica per gli informatori che consegnano vite in
cambio di denaro. Le SS e la Milizia fascista possono contare su una
rete di spie e anche su due collaboratori ebrei, a Roma e Trieste, che
identificano i correligionari e li consegnano ai carnefici.
Ma la persecuzione trova un argine nella solidarietà che viene
offerta dalla Chiesa, dai partigiani che accompagnano vecchi e
bambini alla frontiera svizzera, dai civili che li nascondono nelle loro
case, pur sapendo che proteggerli può costare la vita. Si salvano così,
secondo i calcoli dello storico Michele Sarfatti, 35 mila perseguitati.
Almeno 500 si rifugiano nell’Italia meridionale, circa seimila trovano
riparo in Svizzera (ma almeno trecento vengono arrestati prima di
raggiungerla o dopo esserne stati respinti); gli altri 29 mila vivono da
clandestini nelle campagne e nelle città.
Ad Auschwitz muore pure Jole Foà, la segretaria di Farinacci; che
stavolta non farà nulla per salvarla.

Poi ci sono coloro che si battono. Circa duemila ebrei, tra cui Enzo
ed Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto
Terracini, Leo Valiani, Elio Toaff, partecipano attivamente alla
Resistenza. Almeno cento ebrei cadono in battaglia o, dopo essere stati
arrestati, sono uccisi in Italia (come accade a Leone Ginzburg, morto
sotto le torture nel carcere di Regina Coeli) o nei lager; cinque sono
medaglia d’oro alla memoria. Tra loro una donna, Rita Rosani, caduta
in combattimento in Valpolicella. Sulla lapide che la ricorda,
all’ingresso del tempio israelitico di Verona, è inciso in ebraico un
passo della Bibbia: «Molte donne si sono comportate valorosamente,
ma tu le superi tutte».
«Oggi ho combinato due guai: ho rotto i pantaloni e mi sono unito
ai partigiani» scrive alla madre dopo l’8 settembre Emanuele Artom,
giovane ebreo torinese. Prima con i garibaldini, poi con gli azionisti di
Giustizia e Libertà – il nome coniato dai fratelli Rosselli –, Artom
passa come commissario politico di banda in banda, marcia per intere
notti, partecipa ai combattimenti. Scrive un diario, che è anche una
testimonianza di assoluta sincerità: non tace nulla, emerge anche il
lato oscuro della lotta di Liberazione, i calcoli, le volgarità, i fanatismi,
le violenze. La Resistenza va raccontata per intero: «La vita di un
bandito è molto complicata e succedono infiniti incidenti… un
partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e viene portato in carcere
per qualche ora, poi rilasciato: un altro ingravida una ragazza: bisogna
scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica
patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei
purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in
parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte
soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte
spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli
uomini sono uomini».
Il 21 marzo 1944 i tedeschi cominciano il grande rastrellamento
contro i partigiani della zona. Il 25 marzo Emanuele, che si trova con
Franco Momigliano, Ugo Sacerdote, Gustavo Malan e Ruggero Levi, è
raggiunto da una pattuglia di SS italiane che risale la montagna: gli
altri riescono a fuggire, lui cade a terra sfinito; Ruggero Levi, un altro
giovane partigiano torinese, si ferma per non lasciarlo solo. I due
amici vengono portati nelle carceri di Luserna San Giovanni. Un
fascista, a cui Artom ha salvato la vita, lo denuncia come ebreo. I
«ragazzi di Salò» e i tedeschi lo sottopongono a spaventose torture.
Semisvenuto per le percosse, per umiliarlo lo caricano a forza sul
dorso di un mulo, gli mettono una scopa sotto il braccio, un
cappellaccio in testa, e con il volto tumefatto lo fotografano ed
esibiscono come trofeo di guerra. L’immagine appare sul settimanale
bilingue «Der Adler», diffuso in Italia, con la didascalia: «Bandito
ebreo catturato».
Il 31 marzo Emanuele Artom è trasferito alle Nuove di Torino, dove
muore il 7 aprile a causa delle sevizie. Due suoi compagni di prigionia
sono costretti a seppellirlo di notte in un bosco presso Stupinigi. Il
corpo non sarà mai ritrovato.
Finisce bene invece la storia di Giulio Bolaffi, figlio di Alberto, il
fondatore della più grande azienda filatelica italiana. Insomma, i
Bolaffi dei francobolli.
Con le leggi razziste, i suoi fratelli Roberto e Dante lasciano l’Italia.
Giulio resta. È tra i primi a salire in montagna, a combattere fascisti e
tedeschi. Guida la IV divisione Giustizia e Libertà, e la chiama Stellina,
dal nome di sua figlia Stella, che è ancora viva e ha scritto libri
bellissimi per ricordare la memoria del suo papà. Stellina è anche il
nome della capretta che fa da mascotte.
Bolaffi paga di tasca propria il soldo ai partigiani, che non pesano
così sulla popolazione, e ordina di evitare agguati che possano
provocare rappresaglie. Quando però alla fine di agosto del 1944 i
nazifascisti attaccano, la divisione Stellina li sconfigge: 163 nemici
cadono prigionieri. Per sottrarsi alla vendetta tedesca, il comando
della divisione si nasconde nel convento dei francescani di Susa;
quando si vedono tedeschi in giro, l’imprenditore ebreo gira in saio.
Oggi nel convento questa lapide ricorda l’alleanza tra frati e
partigiani:

In tempi oscuri
animati dalla fede e dalla speranza
di un giusto avvenire
i frati minori conventuali
formando un unico blocco
con la popolazione tutta di Susa
ospitarono il comando della lotta
per la liberazione della patria.
Con immutata riconoscenza,
I partigiani della IV divisione alpina Gl Stellina

(Anche della Resistenza ci siamo fatti un’idea del tutto


immaginaria. La Resistenza non è solo «una cosa rossa», così come
essere antifascista non significa essere comunista o di sinistra. Scelsero
di combattere i nazifascisti migliaia di giovani, tra cui c’erano certo
comunisti, socialisti, azionisti, ma anche liberali, cattolici, monarchici;
e soprattutto ventenni che non sapevano neppure cosa fossero i
partiti, ma rifiutarono di schierarsi con Mussolini e Hitler. E ci furono
molti modi di dire no ai nazifascisti. Un no pronunciato da donne,
ebrei, contadini, sacerdoti, carabinieri, militari, suore, internati militari
in Germania. E frati. Come i francescani di Susa).

Una fine ingloriosa


Mussolini ha accettato quindi di mettersi al servizio dei tedeschi, e di
prendere il comando dello Stato fantoccio, la Repubblica sociale, che
formalmente controlla il territorio italiano in pugno a Hitler. Vorrebbe
tornare a Roma, ma la capitale è insicura, potrebbe cadere da un
momento all’altro: i tedeschi gli impongono il lago di Garda, dove
possono controllarlo meglio.
Il problema è che il Duce odia il lago di Garda.
Risiede a Gargnano, a Villa Feltrinelli, dove si sente prigioniero. I
ministeri sono sparsi in vari paesi. A Salò ci sono il ministero della
Cultura popolare, quello degli Esteri e l’agenzia Stefani: le notizie
sono datate Salò, e quello diventerà il nome anche dell’effimera
Repubblica. Il controllo dei tedeschi è tale che pure gli articoli del
Duce devono passare il vaglio della censura.
Sotto la maschera di un programma sociale, di sinistra, va in scena
l’ultimo atto della tragedia iniziata il 28 ottobre 1922. Il mito di un
Duce caritatevole che tenta di stemperare gli eccessi di Hitler è falso.
A volte accade il contrario. Quando i polacchi sfondano il fronte a
Montecassino – dando «l’anima a Dio, il corpo all’Italia, il cuore alla
Polonia» come ricorda una lapide – e gli angloamericani arrivano alle
porte di Roma, il Führer ordina ai tedeschi di abbandonare la città
senza combattere. Mussolini avrebbe invece voluto difenderla strada
per strada, a prezzo di distruzioni incalcolabili: «Perché mai i romani
dovrebbero essere trattati meglio degli abitanti di Cassino?».
Poi, il 5 giugno 1944, mentre gli angloamericani stanno per sbarcare
sulle spiagge della Normandia, il Duce lancia un proclama ai romani,
per incitarli «a non cedere moralmente all’invasore»; cioè si illude che
gli italiani oppongano resistenza agli Alleati. Non sa o non vuol
sapere che a Roma si danza e si festeggia, dopo i mesi terribili
dell’occupazione nazista, segnati da torture ed esecuzioni sommarie.
La sua preoccupazione è un’altra: «Il pensiero che tra il Colosseo e
piazza del Popolo bivacchino truppe di colore assilla il nostro spirito e
ci dà una sofferenza che si fa di ora in ora più acuta. I negri sono
passati sotto gli archi e sulle strade che furono costruiti a esaltazione
delle glorie antiche e nuove di Roma. Gli italiani che non hanno
smarrito il senso dell’onore … sapranno finalmente essere compatti
nell’odio e nella vendetta contro il nemico».
La tragedia è inframezzata da scene da vaudeville. A Gargnano una
delle principali preoccupazioni del Duce è evitare la rissa tra le sue
due donne. Oltre a Rachele, è arrivata sul lago Clara Petacci, detta
Claretta.
Trent’anni meno di lui, innamorata del Duce fin da ragazzina,
Clara gli si è offerta e non l’ha più lasciato. Fare l’amante del capo è
diventata la sua vita. Ogni giorno, negli ultimi anni del regime, alle tre
del pomeriggio è a Palazzo Venezia. Nel tempo libero dipinge; le
organizzano una mostra al Collegio Romano, il critico Piero Scarpa
grida al capolavoro, intravede nelle sue opere «lirismo» e «crudo
verismo»; ma nella capitale si mormora che i quadri non siano suoi,
bensì di un pittore prezzolato. Mussolini la fa proteggere e insieme
sorvegliare dai carabinieri. Il clan dei Petacci, in particolare il fratello
Marcello, si è arricchito; il padre, medico, scrive sul Messaggero
articoli noiosissimi, che il direttore non osa tagliare. Annota Guido
Leto, dirigente dell’Ovra: «Il Dottor Petacci fa più male al Duce di
quindici battaglie perdute».
Anche nella disgrazia, Clara resta vicina a quello che ritiene il suo
uomo. Mussolini le vieta di risiedere a Gargnano; lei si sistema a
Gardone, a Villa Fiordaliso; ma gli fa visita regolarmente. Un giorno
Rachele decide di affrontarla e le urla in faccia il proprio disprezzo.
Lei si difende: «Lo amo e sono riamata». La moglie del Duce pensa al
suicidio con il veleno, poi rinuncia, per non fare un favore alla rivale.
Entrambe sono gelose di una ragazza dai capelli rossi che frequenta
Villa Feltrinelli e ogni mattina legge i giornali a Mussolini. Si chiama
Elena Curti, ma non è la nuova fidanzata; è la figlia che il dittatore ha
avuto dalla sua amante storica, Angela Cucciati, una sarta milanese.
A Gargnano c’è anche la primogenita, Edda, la donna cui da
sempre il dittatore è più legato. Eppure si mostra spietato anche con
lei. Edda lo implora invano di salvare il marito, Galeazzo Ciano,
condannato a morte con gli altri gerarchi che hanno firmato l’ordine
del giorno Grandi e non sono riusciti a sfuggire ai tedeschi. Rachele è
scatenata: «Galeazzo merita solo sputi in faccia». Il Duce all’inizio si
mostra indulgente: Ciano è «meno responsabile di altri», è vittima dei
«veri traditori», Grandi e Bottai. Poi cambia idea, o è costretto a
cambiarla. E dice a Edda: «Non posso fare nulla per Galeazzo». La sua
sorte è segnata, e sarà la più ignominiosa: fucilazione alla schiena,
legato a una sedia.
Edda si batte. Rivela al padre le ruberie dei Petacci, che hanno
trafficato in valuta, incassato tangenti, favorito la carriera degli amici e
stroncato quella dei nemici; Marcello Petacci è coinvolto anche in un
contrabbando d’oro dalla Spagna. Il Duce incassa in silenzio.
L’ultimo colloquio tra padre e figlia è drammatico. È lei stessa a
lasciarcene testimonianza: «Scandendo ogni parola, battendo i pugni
sul tavolo per sottolineare le mie frasi, gli gettai in viso tutto quello
che pensavo di lui, del suo atteggiamento, dei suoi alleati tedeschi, che
consideravo traditori e nemici, dopo essere stata la loro alleata più
fedele e leale»; a differenza del marito, che aveva sempre diffidato dei
nazisti, Edda nel suo narcisismo aveva apprezzato le accoglienze da
principessa che le aveva organizzato Hitler, mentre nell’Inghilterra
cara a Galeazzo era stata ricevuta con cordiale freddezza. Ma ora,
«senza tener conto di ciò che mio padre doveva provare in quel
momento, se davvero era stato costretto a piegarsi alle richieste degli
estremisti fascisti, gli dissi tutto il mio disprezzo e il mio disgusto».
Prima di uscire dalla stanza, sbattendo la porta, Edda gridò: «Siete
tutti pazzi. La guerra è perduta, è inutile che vi facciate illusioni! I
tedeschi resisteranno qualche mese, non di più. Tu lo sai, vero, quanto
io abbia desiderato la loro vittoria, ma adesso non c’è più niente da
fare. Te ne rendi conto? E tu, e voi uccidete Galeazzo in queste
condizioni?». Quella volta, a differenza del giorno del matrimonio,
Mussolini non corse dietro alla figlia.
Galeazzo Ciano fu fucilato l’11 gennaio 1944, a Verona, con il
vecchio maresciallo De Bono e altri tre «congiurati», per l’unico delitto
che non avevano commesso, e che era anzi un merito: avevano fatto
cadere il dittatore.
Edda si rifugia in Svizzera, travestita da contadina. Comunica con il
padre attraverso un sacerdote amico. In uno degli ultimi messaggi,
scrive all’intermediario: «Gli dica che la sua situazione mi fa pena. Gli
dica che due sole soluzioni potranno riabilitarlo ai miei occhi: fuggire,
o uccidersi».
Il Duce non ha il coraggio di fare né una cosa, né l’altra. Sogna
ancora il colpo di scena, la sorpresa che capovolga la situazione. Passa
ore davanti alla rassegna stampa, sottolinea e annota gli articoli che
giudica più interessanti: in particolare quelli sulle possibili vie di fuga.
Spera che Franco gli sia riconoscente, e lo accolga in Spagna. Ma con
chi fuggire? Con la famiglia? O con Clara?
Anche il carteggio con la Petacci dice molto sullo stato d’animo del
Duce, che passa dall’autocommiserazione alla speranza, dall’abulia
allo sdegno, dal senso di impotenza alla fede nel colpaccio. Il suo
consueto narcisismo oscilla verso il vittimismo. A volte sembra
credere ancora nella vittoria; altre si mostra preoccupato soprattutto di
farla franca. «Sembra che siano entrate in funzione le armi segrete. Lo
ha annunciato un ministro inglese» confida a Clara nel giugno 1944. E
ancora: «I tedeschi non perderanno la guerra perché non possono
perdere: sono costretti a vincerla e la vinceranno, con successivi
ritrovati uno più micidiale dell’altro…». Ma poi si definisce «cadavere
vivente», pensa di essere stato tradito e abbandonato, progetta la fuga.
Mai però Mussolini manifesta sentimenti antitedeschi. Anzi, appare
in competizione con gli estremisti alla Pavolini e alla Farinacci, per
accreditarsi presso Hitler come più filonazista di loro. Né ha mai una
parola di pietà per il disastro in cui ha precipitato gli italiani. Il 29
marzo 1944 scrive: «Delle tre nazioni totalitarie, comunisti e nazisti
hanno mostrato la loro tempra. La terza, quella dei fascisti, è crollata.
Non è il fascismo che ha guastato gli italiani, ma sono gli italiani che
hanno guastato il fascismo». La Resistenza, la lotta per la democrazia e
la libertà, gli appare incomprensibile: «Vaste zone del popolo italiano
sono entrate in uno stato confinante colla vera e propria follia».
Clara lo ossessiona con la sua gelosia, ma è anche una consigliera
politica; e gli raccomanda sempre la spietatezza. Lo aizza: «Io sono
antisemita per istinto razziale» gli scrive. In una lettera si firma
orgogliosamente «piccola criminale di guerra».
Con tutta la pietà umana, viene da chiedersi di quali persone
amasse circondarsi il Duce, come scegliesse i compagni e le compagne
della sua vita.
Nell’estate del 1944, Mussolini è sempre più cupo. È pure
sfortunato; va a trovare il Führer nella «Tana del Lupo» di
Rastenburg, ma la scelta di tempo è pessima: a Hitler è appena
scoppiata una bomba sotto il tavolo, è sopravvissuto per miracolo
all’attentato di Claus von Stauffenberg. Porge al Duce la mano sinistra
perché la destra è ferita dalle schegge, ha altro per la testa rispetto
all’Italia. Mussolini è disperato, non tocca cibo, si fa un bicchiere di
cognac.
Il 16 dicembre 1944 va a Milano e tiene un discorso al teatro Lirico.
Si è molto scritto sul «trionfo» del Duce, acclamato dal pubblico. Si
dimentica che la città era in mano ai nazisti. Che molti milanesi furono
costretti ad applaudire al suo passaggio e precettati per ascoltarlo. Poi
certo i fascisti non erano tutti scomparsi. Ma a leggere il testo, ci si
rende conto che non fu un discorso, bensì un delirio. «Noi vogliamo
difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po; noi vogliamo che
la valle del Po resti repubblicana, in attesa che tutta l’Italia sia
repubblicana». Con l’Armata Rossa a Varsavia, con gli americani ad
Aquisgrana in Germania e sulla linea gotica in Italia, il Duce si illude o
vuole ancora illudersi di poter vincere, perché Dio lo vuole: «Se
dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell’esistenza di
Colui che regola secondo giustizia le sorti degli uomini». E in ogni
caso «io sento, io vedo che domani sorgerebbe una forma di
organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la
vita impossibile agli invasori». Cioè Mussolini immagina una
resistenza, una guerra partigiana contro gli americani.

Sugli ultimi giorni del Duce sono state scritte migliaia di pagine.
Leggende e falsità sono fiorite, dai diari apocrifi alle ultime parole
inventate, per nascondere l’amara realtà: Mussolini non ha avuto una
fine gloriosa. Ha vagheggiato di combattere sino all’ultimo, di
chiudersi nel «ridotto della Valtellina» con le ceneri di Dante, come a
dire che l’Italia moriva con lui. Ma poi ha cercato banalmente di
salvarsi la pelle. Ha tentato di riparare in Svizzera, come avevano fatto
molte delle sue vittime, ebrei, antifascisti, resistenti. Ha portato con sé
denaro, oro, documenti, fedelissimi, e la sua amante, Clara Petacci,
che ha voluto morire con lui. È salito su un camion e si è travestito da
soldato tedesco, indossando un’uniforme non sua, tentando di
nascondersi sotto l’elmetto, simulando di dormire o di essersi
ubriacato. È stato riconosciuto da un partigiano, o forse è stato
venduto dai camerati nazisti, che hanno potuto proseguire
indisturbati dopo aver consegnato il Duce.

Tutto precipita, in un clima plumbeo e triste, almeno per quel che


resta del regime. Mussolini manda avanti il figlio Vittorio, per
prendere contatto con il cardinale Schuster. Cerca un rapporto con la
Resistenza, in particolare con i socialisti, che pure aveva perseguitato
per venticinque anni. Nega spudoratamente con i tedeschi di voler
trattare, e intanto parte verso Milano, per farlo.
È la sera del 18 aprile. «Non c’è più nulla da fare. È finita!» dice alla
moglie Rachele, che resta a Gargnano. Poi scrive a Clara e la informa
che il progetto coltivato per diciotto mesi è fallito: la fuga in Spagna è
impossibile. Anche la Petacci parte per Milano, qualche ora dopo di
lui. Nella notte un motoscafo getta nel lago una cassa piena di
documenti.
A Milano, Mussolini prende possesso della prefettura. I cavalli di
frisia proteggono quello che definisce «il quadrilatero di Monforte».
Non sa bene cosa fare. Ora vagheggia di portarsi in Valtellina, ora di
resistere in città e fare di Milano «la Stalingrado d’Italia», «l’Alcázar
del fascismo», evocando ora la resistenza dell’Armata Rossa, ora
quella dei franchisti. Rilascia un’intervista al Popolo di Alessandria,
un giornale che lo incuriosisce perché vende ben 300 mila copie: «Ho
sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte
ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che
seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di
comprensione, di evoluzione. Invece era isterismo collettivo». E
ancora: «Mi hanno tanto rinfacciato la forma tirannica di disciplina
che imponevo agli italiani. Come la rimpiangeranno! E dovrà tornare,
se gli italiani vorranno ancora essere un popolo e non un agglomerato
di schiavi».
Il 25 aprile, Mussolini chiede a Schuster di fargli incontrare i capi
della Resistenza. Il cardinale accetta. Fa persino preparare una stanza
nel palazzo arcivescovile, per ospitare il Duce una volta che si fosse
arreso, e nello stesso tempo proteggerlo.
I rappresentanti del fronte antifascista sono in ritardo. Mussolini
conversa, paragona la sua Repubblica ai cento giorni di Napoleone.
Finalmente, dopo un’ora, arrivano Riccardo Lombardi del partito
d’Azione, Achille Marazza per la Democrazia cristiana e il generale
Raffaele Cadorna (non è un omonimo: oggi quasi nessuno sa o ricorda
che il capo militare della Resistenza italiana era il figlio di Luigi
Cadorna, il nipote del Raffaele Cadorna capo dei bersaglieri che
presero Roma; insomma, non un bolscevico).
Gli uomini della Resistenza chiedono la resa incondizionata entro
due ore. Mussolini risponde che gliene basterà una per decidere. Si
intromette il generale Graziani, per urlacchiare che la lealtà e l’onore
impediscono di trattare all’insaputa dei tedeschi; Marazza lo informa
che i tedeschi stanno trattando la resa da più di dieci giorni.
Mussolini se ne va. Non ha alcuna intenzione di tornare dal
cardinale, anzi sbotta con i suoi: «Sapete cosa mi ha detto? Di pentirmi
dei miei peccati!». Sulle scale incrocia il rappresentante del partito
socialista, che però non lo riconosce, altrimenti – dirà – l’avrebbe
ucciso con la sua pistola: è Sandro Pertini.

Quello che accade dopo è abbastanza noto. Non è una pagina


gloriosa per nessuno; forse per questo la si è voluta ammantare di
fantasticherie e di misteri. Come per nobilitare la fine di un uomo che
sta soltanto cercando di salvarsi.
Il Duce, sempre seguito dalle SS che Hitler gli ha messo al fianco,
sale su un’auto del convoglio, accanto a Bombacci, che gli sente dire:
«Sono stato tradito dagli italiani e dai tedeschi». Clara lo segue
sull’Alfa Romeo del fratello. Tra i gerarchi e il loro corteo di familiari,
collaboratori, amanti c’è anche Graziani, che riuscirà a cavarsela. Il
Duce si è portato dietro pure la figlia, Elena Curti, e la cameriera,
Maria Righini. Nei bagagli ci sono bauli pieni d’oro e di denaro.
La notte arriva a Como, dove ci sono già Rachele con i figli piccoli,
Romano e Anna Maria. Mussolini non riesce o non vuole incontrarli. È
a un bivio. Può risalire il lago lungo la sponda orientale, verso la
Valtellina, o lungo la sponda occidentale, verso la Svizzera; la
resistenza a oltranza, o la fuga. Sceglie la Svizzera. Il valico di Chiasso
è chiuso, ma a Grandola c’è un passaggio ben noto agli spalloni, che la
notte precedente hanno portato in salvo Doris Duranti, l’attrice.
Clara ora siede accanto al suo uomo, tuta da aviatore e casco da
motociclista. Passa la notte in albergo con lui, a litigare per la presenza
della giovane Elena: il Duce nell’agitazione inciampa in un tappetino,
cade, si ferisce a uno zigomo.
Il giorno dopo cambia idea, torna sul lago, si aggrega a un gruppo
di duecento tedeschi diretti in Tirolo. Rinuncia alla macchina, sale
sull’autoblindo di Pavolini.
A Musso il convoglio viene fermato dai partigiani. L’accordo è che i
tedeschi possono passare; gli italiani no. Un tenente delle SS convince
il Duce a indossare un cappotto della Luftwaffe, l’aviazione nazista, e
a calarsi un elmetto sulla fronte. Gli mettono un paio di occhiali scuri e
un mitra in mano, per completare la messinscena. Ma forse sono
proprio i tedeschi a consegnarlo.
«Gh’è chì el Crapun», c’è qui il Testone, dice il partigiano Giuseppe
Negri al suo comandante, Urbano Lazzari, nome di battaglia Bill. Un
tedesco chiede di lasciare in pace il camerata, che si è ubriacato.
Qui le versioni divergono.
Secondo quanto è stato sempre raccontato, Bill lo scuote: «Siete
italiano?». È allora che Mussolini ha un fremito: «Sì, sono italiano».
Ma lo stesso Bill, nell’ultima intervista a Repubblica, racconta un
altro dialogo: «Lo chiamai. Prima gli dissi: “Camerata!”. Niente,
nessuna risposta. Allora feci: “Eccellenza!”. Ancora niente. Provai così:
“Cavalier Benito Mussolini!”. Ebbe come una scossa elettrica».

Lo portarono a Dongo. Gli Alleati lo reclamavano; ai partigiani


parve una ragione in più per fucilarlo alla svelta. I comunisti
mandarono da Milano Walter Audisio, il colonnello Valerio. Fu
crudele: finse di essere un fascista venuto a liberarlo, e poi riferirà la
frase sconnessa che gli avrebbe detto Mussolini: «Lo sapevo che non
mi avrebbero abbandonato. Bravo! Ti darò un impero!».
Lo fucilarono contro il cancello di una villa, insieme con Clara. Poi
li portarono a piazzale Loreto, dove il 10 agosto 1944 le camicie nere
avevano ucciso quindici partigiani, e li appesero a testa in giù.
Sarebbe stato meglio processare il Duce? Forse sì. Si sarebbe dovuto
rispettare il suo corpo? Certamente sì. Sarebbe stato meglio evitare di
ostenderlo, di mostrarlo in pubblico? Anche a questa domanda a noi
verrebbe da rispondere di sì. All’epoca parve necessario che tutti
sapessero che il dittatore era morto. Anche se poi nacque lo stesso la
leggenda secondo cui sul lago di Como era stato fucilato un sosia, che
quello non era il corpo del Duce, che il vero Mussolini era riuscito a
fuggire in Sud America e prima o poi, come Napoleone dall’Elba,
sarebbe tornato…

Infine, dopo il 25 aprile, arrivò la vendetta. Termine generico che


indica eventi molto diversi: esecuzioni di criminali; regolamenti di
conti privati; assassini dettati dalle ideologie.
La figura di Beppe Fenoglio, cui si deve la meravigliosa frase sul
partigiano «ritto sull’ultima collina» che apre questo libro, è ricordata
a cent’anni dalla nascita come quella dello scrittore che demitizzò la
Resistenza, raccontando i resistenti – compreso lui – per quello che
erano: esseri umani. Tutto vero. Ma Fenoglio ebbe sempre chiarissima
quale fosse la parte giusta e quale la parte sbagliata. Non solo. C’è una
pagina terribile di «Una questione privata», il suo capolavoro, in cui
un vecchio contadino delle Langhe dice al protagonista, Milton, cioè
Fenoglio stesso: «Tutti, tutti li dovete ammazzare, perché non uno di
essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più mite per il meno
cattivo di loro. Con tutti voglio dire proprio tutti. Anche gli infermieri,
i cucinieri, anche i cappellani. Ascoltami bene, ragazzo. Io ti posso
chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il
macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel
medesimo che ti dice: tutti, fino all’ultimo, li dovete ammazzare…».
Questo ovviamente non era il sentimento di Fenoglio, che non si
abbandonò a nessuna vendetta (e votò pure monarchia al
referendum). Ma era un sentimento che esisteva nei luoghi in cui la
guerra civile era stata più dura. Era un’attitudine diffusa tra molti
popolani che avevano avuto la casa bruciata, che avevano vissuto le
atrocità dei fascisti sulla propria pelle. Questo non giustifica; ma aiuta
a capire.
Prima che qualcuno ci lanci addosso l’accusa di apologia della
violenza – che invece va sempre condannata –, è importante chiarire
un punto, anzi due.
Tutto quello che hanno fatto i fascisti dal 1919 al 25 luglio 1943 è
rimasto, di fatto, impunito. Non soltanto gli apparati dello Stato, dalla
magistratura alla polizia, dall’alta burocrazia alle forze armate, sono
diventati gli apparati dello Stato repubblicano, a prescindere dal bene
e dal male, dalle competenze e dalle responsabilità. È accaduto
qualcosa di diverso e di più: i capi del fascismo, inclusi coloro che si
erano macchiati di delitti di sangue, non hanno in sostanza avuto
problemi nel dopoguerra. Neppure il maresciallo Graziani, il capo
dell’esercito collaborazionista.
Hanno pagato alcuni di coloro che scelsero Salò, cioè la Germania
nazista, con quello che comportava, compresa la persecuzione e lo
sterminio degli ebrei. Molto spesso hanno pagato con la giustizia
sommaria. A volte mirata; altre volte generica, e quindi
particolarmente ingiusta. Ci furono stragi indiscriminate, come a
Schio. E ci furono esecuzioni cui oggi guardiamo con occhi diversi da
quelli di chi c’era. All’epoca apparvero in alcuni casi giuste, o almeno
inevitabili. Per fare un solo esempio, che il federale di Torino sia stato
appeso all’albero dove aveva fatto impiccare i partigiani – compresi
ragazzi di 17 anni, compreso l’eroe di Boves, l’ufficiale cattolico
Ignazio Vian, tra i primi a salire in montagna, che tacque sotto le
torture fasciste – parve a molti torinesi giusto, o almeno inevitabile.
«Voi non potete capire quel che abbiamo sofferto» ha lasciato detto,
prima di andarsene, l’insospettabile Franca Valeri.
A bloccare la giustizia ordinaria e i processi furono l’amnistia
firmata nel 1946 dal ministro della Giustizia, che era Togliatti, e
l’interpretazione che ne diede la magistratura. L’amnistia non copriva
le torture «efferate e continuate»; furono mandati assolti uomini che
avevano evirato altri uomini, con il pretesto che non di tortura
continuata si era trattato.
Poi certo ci furono vendette private, e crimini dettati dall’ideologia,
in particolare – ma non solo – nel «triangolo della morte» emiliano,
dove molti comunisti, prima che Togliatti e i suoi li facessero smettere,
credevano che la rivoluzione fosse imminente e pensarono di
anticiparla eliminando «nemici di classe», dai proprietari terrieri ai
sacerdoti. Altre volte, anche durante la guerra civile, le vittime furono
partigiani «bianchi», come a Porzûs.
Sono crimini di cui per molto tempo si è parlato poco. Invece vanno
studiati e condannati. È una pagina nera, che noi antifascisti non
possiamo e non dobbiamo rimuovere. Noi per primi dobbiamo
conoscere e raccontare queste vicende; proprio come quelle dei
crimini fascisti, che le hanno precedute.
Nella storia la parte giusta e la parte sbagliata non coincidono con il
Bene e con il Male. Dalla parte dell’antifascismo c’era anche una
minoranza di persone malvagie, che commisero delitti che non
dobbiamo nascondere ma denunciare. E dalla parte del fascismo
c’erano sicuramente brave persone, che a volte pagarono per colpe
non loro. In ogni caso, l’antifascismo resta la parte giusta; il fascismo
quella sbagliata.
E l’antifascismo sarà anche fuori moda; ma non è fuori tempo.
Perché il fascismo non è morto del tutto con Mussolini. È finito il
fenomeno storico sorto in Italia tra le due guerre mondiali. Ma
migliaia di uomini, nel nostro Paese e altrove, hanno continuato a
professare quelle idee, e dove hanno potuto le hanno tristemente
realizzate. Aggiungendo sangue a sangue, crimini a crimini.
Dodici
Il mito del Duce buono

Il 9 maggio 2022 Ferdinand Marcos è stato trionfalmente eletto


presidente delle Filippine. Non è ovviamente il dittatore che
insanguinò il Paese per un ventennio, dal dicembre 1965 al febbraio
1986. È il figlio, che porta lo stesso nome, anche se tutti lo chiamano
con il vezzeggiativo da bambino, Bongbong.
Le Filippine hanno 110 milioni di abitanti, e 88 milioni di utenti
Facebook. Negli ultimi tempi, una massiccia campagna sul web ha
sistematicamente cancellato la memoria della dittatura di Marcos. Una
gigantesca rimozione digitale.
Per oltre dieci anni, una rete composta da influencer e blogger –
volontari o salariati – ha lavorato per smentire i fatti, negare i numeri,
cancellare le notizie sulle malefatte del regime e della famiglia.
Tremilacinquecento oppositori assassinati? Mai accaduto.
Trentaseimila torturati? Calunnie. Settantamila arrestati?
Esagerazioni. I quadri di Michelangelo e Picasso? «Investimenti per il
popolo». I dieci miliardi di dollari rubati allo Stato? «Ricchezze
private. Non è un reato essere ricchi». In Rete circola pure una
leggenda: il tesoro in effetti esiste, ma fu donato ai Marcos da un
antico monarca, cui è stato pure inventato un nome, Taliano;
Bongbong lo distribuirà al popolo.
Tuttavia il regista dell’operazione non è lui. È sua madre, la moglie
del dittatore: Imelda Marcos, il cui nome evoca una clamorosa
collezione da migliaia di scarpe. È stata lei a guidare la lenta e
inesorabile riconquista del potere. A cominciare dal culto del corpo
imbalsamato di Ferdinand Marcos, quello vero: riportato in patria
dall’esilio dorato delle Hawaii quasi di nascosto, e poi sepolto nel
Cimitero degli Eroi a Manila per volontà dell’ex leader Rodrigo
Duterte, suo grande fan. La figlia, Sara Duterte, ora è la vicepresidente
di Bongbong Marcos.
E i crimini del regime? L’assassinio di Ninoy Aquino,
nell’aeroporto di Manila che ora porta il suo nome? La lunga stagione
di speranza della moglie Corazon Aquino? La grande rivolta popolare
che cacciò i Marcos nel 1986? Tutto dimenticato, se non da una
minoranza dei filippini.

La domanda è inevitabile: può accadere qualcosa del genere in


Italia?
La risposta è no. Non soltanto i nipoti e pronipoti di Mussolini –
pur essendo stati eletti in Parlamento e al consiglio comunale di Roma
– non torneranno al potere. Il fascismo stesso non tornerà. E non solo
perché nulla torna mai davvero, e le cose non si ripetono mai allo
stesso modo.
Mentre scrivo queste ultime righe, nell’estate del 2022, tutti i
sondaggi indicano una grande vittoria elettorale della destra italiana.
Quando le leggerete, ne sapremo di più. Di sicuro, i primi due partiti
della destra sono guidati da due giovani leader, Giorgia Meloni e
Matteo Salvini. Meloni e Salvini non sono fascisti. Sono anti-
antifascisti. Non festeggiano il 25 aprile, lo considerano una festa di
parte, di sinistra. Nei loro partiti sono numerosi i casi di dirigenti e
militanti che hanno fatto e fanno apologia del fascismo. Nella galassia
dell’estrema destra, che qualche anno fa Salvini ha apertamente
corteggiato, accade qualcosa di più: l’elogio di Mussolini è pratica
costante, anche se la legge lo vieterebbe. Atteggiamenti estremi, ma
tollerati. Residuali, o in crescita? Forse di più la seconda. A opera di
persone che il fascismo, quello vero, non l’hanno conosciuto e
all’evidenza non lo conoscono. A condannarli di solito è la comunità
ebraica; e meno male che c’è, e lo fa. Però dovrebbe essere una
condanna condivisa.
Anche se la vera questione è un’altra. O comunque c’è una
questione altrettanto interessante. Che riguarda la nostra memoria. La
nostra comunità nazionale. E quindi ci riguarda tutti.
«Ma finitela con questa caccia al fascista, al saluto romano, al busto
del Duce, al cimelio dell’epoca, alla mezza frase nostalgica e al gesto
cameratesco» ha scritto su La Verità Marcello Veneziani. «Ponetevi
piuttosto un problema molto più serio e molto più attuale: perché
mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, non si
definisce antifascista, anzi nutre riserve e rigetto? È una domanda
seria da porsi, dopo che il fascismo fu sconfitto, abbattuto e
vituperato, dopo che furono appesi i corpi dei capi, dopo che fu
vietata ogni apologia, dopo che sono passati quasi ottant’anni tra
tonnellate di condanne, paginate infinite, manifestazioni antifasciste,
divieti, lavaggi del cervello a scuola e in tv, perché c’è ancora mezza
Italia che non vuole definirsi antifascista?». Per poi concludere: «Se
dopo tanti decenni di rieducazione, repressione, propaganda e
religione civile, mezza Italia e forse più non si riconosce
nell’antifascismo, il problema non è della Meloni ma è vostro, di voi
antifascisti in servizio permanente effettivo e dell’esempio che avete
dato. Diciamolo: avete fallito».
Vorrei poter scrivere che Veneziani – il cui giudizio sui busti del
Duce e in genere sul fascismo è agli antipodi dal mio – ha torto. Su
questo punto specifico, invece, devo riconoscere che ha ragione. Noi
antifascisti abbiamo fallito. Abbiamo perso. L’antifascismo oggi in
Italia è un sentimento di una minoranza. Ampia, ma pur sempre
minoranza.
Certo, non sono molti – ma neppure pochi – coloro che il Duce lo
rimpiangono e lo difendono. Ma sono moltissimi quelli che rifiutano
di condannarlo.
Conosciamo bene le loro argomentazioni. «Sono nato dopo la
guerra, il fascismo non l’ho conosciuto, come posso parlarne male?».
«I fascisti sono tutti morti». «L’antifascismo è superato, non ha più
senso». «Il fascismo è finito il 25 aprile».
Purtroppo, non è vero.
È vero che, all’indomani della Liberazione, la condanna di
Mussolini e della sua eredità era pressoché unanime. Nessun partito,
neppure quelli moderati, conservatori, anticomunisti, rivendicava la
continuità con il passato. Neppure il movimento populista dell’Uomo
Qualunque, il cui fondatore Guglielmo Giannini contestava semmai il
monopolio dell’antifascismo rivendicato dai partiti di sinistra: «Il
fascismo» diceva Giannini «ha fatto soffrire tutti gli italiani». I padri
costituenti – di destra e di sinistra, monarchici e repubblicani –
stabilirono che il fascismo non potesse essere né difeso, né rifondato.
Questo non impedì che negli anni successivi nascesse un partito,
piccolo ma non piccolissimo, guidato da esponenti sia pure minori
della Repubblica di Salò, chiamato non a caso Movimento sociale. Il
Msi si divise tra un’ala atlantista, schierata con la Nato, Israele, il
libero mercato, e guidata da Giorgio Almirante, e un’ala di destra
sociale, filoaraba, critica nei confronti dell’America, più esplicita nel
sostenere il legame con il fascismo, e ispirata da Pino Rauti, fondatore
di un movimento chiamato Ordine Nuovo. Arrestato e inquisito per le
stragi degli anni Settanta, Rauti è stato assolto per non aver commesso
il fatto.
Ma a destra del Movimento sociale è esistita una galassia, in cui le
menti della strategia della tensione hanno reclutato la manovalanza
che ha seminato morte e terrore nell’Italia del dopoguerra. Non
sempre i colpevoli sono stati individuati e condannati. Tuttavia la
magistratura ha accertato la matrice fascista delle stragi di piazza
Fontana – Milano, 12 dicembre 1969: diciassette morti, 88 feriti –, di
Peteano – tre carabinieri assassinati il 31 maggio 1972 –, di piazza
della Loggia – Brescia, 28 maggio 1974: otto morti, 102 feriti durante
una manifestazione sindacale –, del treno Italicus – San Benedetto Val
di Sambro, 4 agosto 1974: dodici morti, 48 feriti –, della stazione di
Bologna: 2 agosto 1980, 85 morti, duecento feriti.

Dittature fasciste o fascistoidi hanno governato il Portogallo fino al


1974 e la Spagna fino al 1975, quando il regime di Francisco Franco –
che Mussolini aveva contribuito a insediare – finì con la morte del
Caudillo e l’avvento della democrazia. Sino all’ultimo, le dittature
iberiche hanno combattuto sanguinose guerre coloniali in Africa –
Sahara spagnolo, Guinea, Mozambico, Angola – e hanno mandato a
morte gli oppositori. L’ultimo anarchico giustiziato da Franco – con lo
strumento dell’Inquisizione, la garrota – fu Salvador Puig Antich. In
quella stessa mattina del 2 marzo 1974, il grande pittore antifranchista
Joan Miró tracciava dopo anni di prove la riga definitiva sulla tela
bianca intitolata «La esperanza del condenado a muerte», custodita
nella Fondazione di Barcellona che porta il suo nome. Papa Paolo VI
implorò la grazia; il Caudillo non gli venne neanche al telefono.
In Grecia il colpo di Stato del 21 aprile 1967 depose il governo
democraticamente eletto e portò al potere la giunta dei colonnelli,
dalle aperte simpatie fasciste, e dagli stretti contatti con il neofascismo
italiano. Almeno duemila oppositori furono torturati. Alekos
Panagulis fu legato a un tavolo e l’uomo che gli si avvicinò, con una
pinza di ferro in mano, gli disse: «Ora ti faremo pentire di essere
nato». Il più importante compositore greco, Mikis Theodorakis, finì in
carcere; l’artista più nota, Melina Merkouri, scelse l’esilio. Il 19
settembre 1970, in piazza Matteotti a Genova, un esule greco, Kostas
Georgakis, si diede fuoco per protestare contro la dittatura. Il regime
ritardò per quattro mesi il rientro delle sue spoglie a Corfù, nel timore
che provocasse proteste popolari. Il suo nome oggi è del tutto
dimenticato.
I colonnelli furono deposti nel luglio 1974, dopo aver stroncato con
i carri armati e 24 morti la rivolta degli studenti del Politecnico di
Atene (novembre 1973). Ma fu solo quando la Giunta rischiò di
provocare una guerra con la Turchia per Cipro che i militari – e gli
americani – dissero basta. Molti esponenti del governo fascista greco
furono processati e condannati.
Negli stessi anni si consumava la tragedia del Cile e dell’Argentina.
L’11 settembre 1973 il presidente cileno eletto dal popolo, Salvador
Allende, moriva – probabilmente suicida – durante il golpe del
generale Augusto Pinochet. Gli oppositori vennero presi e rinchiusi
nello stadio di Santiago. Settecento persone si salvarono valicando il
muro dell’ambasciata italiana (sia reso merito ai nostri coraggiosi
diplomatici). Almeno tremila i morti.
Ma molte di più furono le vittime della dittatura argentina, i cui
rapporti con il neofascismo italiano e con la loggia massonica di Licio
Gelli, esponente di Salò, erano aperti e rivendicati. Trentamila
desaparecidos, i voli della morte con i dissidenti gettati dagli aerei, i
cani addestrati a ferire e a mutilare, i bambini sottratti ai genitori
«degeneri» perché non condividevano le idee del regime: tutto questo
è accaduto in un grande Paese, dove la maggioranza della
popolazione è di origine italiana.
Quanti tra i nostri ragazzi conoscono oggi questa storia? Quanti
sanno che giunte militari sono state a lungo al potere anche in Brasile,
e anche lì hanno significato polizia politica, arresti, torture, esecuzioni
sommarie?
Domande da cui ne derivano altre, che – arrivati al termine – non
possiamo eludere.

Perché? Perché qualche italiano è ancora fascista, molti difendono il


fascismo, e moltissimi rifiutano di condannarlo, di celebrare la sua
fine, di festeggiare la sua sconfitta? Possibile che quanto abbiamo
raccontato non conti nulla? I lutti e le violenze del tempo che precede
la marcia su Roma? La repressione e le vittime del regime? Le
distruzioni e le sconfitte della seconda guerra mondiale? Le
persecuzioni e le torture della guerra civile?
Di solito si tende a rispondere che la sinistra ha rivendicato il
monopolio dell’antifascismo, nelle sue frange estreme l’ha praticato in
modo violento negli anni Settanta, ed essere antifascista è diventato
un sinonimo per dire di essere comunista. E serve a poco ricordare che
il fascismo fu combattuto e sconfitto da uomini di destra come
Winston Churchill e Charles de Gaulle, e in Italia, come abbiamo
visto, da liberali come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, cattolici
come don Minzoni e Piergiorgio Frassati, monarchici come il generale
Raffaele Cadorna e il colonnello Giuseppe Montezemolo; oltre
ovviamente a socialisti, comunisti, azionisti.
Il punto è che la storia nazionale ci emoziona, ci indigna, ci
coinvolge soprattutto quando incrocia la storia della nostra famiglia. E
tanti hanno avuto un padre o un nonno fascista anche dopo l’8
settembre 1943. Dire oggi: mio padre, mio nonno, era cresciuto sotto il
fascismo, amava l’Italia ed era convinto che il fascismo fosse l’Italia, e
fece per questo, in buona fede, una scelta sbagliata, è un ragionamento
complesso. O, comunque, è un ragionamento. Queste scelte si fanno
invece d’istinto, di getto: era mio padre, era mio nonno; quindi aveva
ragione. Se poi scopro che anche dall’altra parte, quella considerata
giusta, ci furono uomini che si sono comportati male – e ci furono –,
vennero commessi errori e talora crimini – e vennero commessi –,
quale migliore occasione per dire che tutti gli italiani sono stati
fascisti, poi sono diventati tutti antifascisti almeno a parole, saltando
sul carro dei vincitori?
Ma non è andata così. Non è questa la storia d’Italia.
Nessuno, a mio avviso, può essere chiamato a vergognarsi per una
persona, per un antenato. Ma la vergogna di aver inventato ed
esportato il fascismo, quella un poco dovremmo sentirla nella nostra
coscienza nazionale. In troppi invece ne vanno fieri.
Io non so se esista un «fascismo eterno», come scriveva Umberto
Eco. Tendo a credere che il fascismo sia un fenomeno legato alla
parabola di un uomo, Benito Mussolini, su cui la maggioranza degli
italiani si è fatta un’idea sbagliata, edulcorata, consolatoria.
Un’assoluzione che è anche un’auto-assoluzione.
Mussolini sostenne e impose con la forza idee che esistevano già, e
che esistono ancora. Il fascismo non credeva che gli uomini nascessero
liberi e uguali. Non credeva alla libertà, perché pensava che più della
persona contasse lo Stato, che si identificava nel partito, che si
identificava nel dittatore. Non credeva nell’uguaglianza, nella
democrazia, nei diritti civili. Ogni volta che la libertà, l’uguaglianza, la
democrazia, i diritti civili vengono negati o messi in discussione, non
significa che stia tornando il fascismo; significa che le idee che il
fascismo sostenne e impose con la forza non sono morte.
Leonardo Sciascia lo scrive già nel 1979: «Troppo si è creduto che il
fascismo fosse ormai relegato nel folklore, come certe feste patronali
che soltanto sopravvivono per l’attaccamento dei vecchi e le offerte
degli emigranti … Le radici del fascismo sono tante, si allungano e
affondano in tante direzioni, in tanti strati: ma le più forti e
riconoscibili sono indubbiamente quelle che si diramano e si nutrono
nell’intolleranza».
Oggi partiti anti-antifascisti sono tornati sulla scena in Europa. In
Spagna Vox, che fa parte dei Conservatori europei di cui è presidente
Giorgia Meloni, non si può forse definire franchista, ma è senz’altro
anti-antifranchista. Lo stesso si può dire di Alternative für
Deutschland: non è nazista, ma è anti-antinazista; e in Europa è alleata
con la Lega di Matteo Salvini. Proprio come Marine Le Pen, arrivata
alle ultime presidenziali francesi al 42% dei voti. Mentre Viktor Orbán,
costretto per le sue idee nazionaliste e illiberali a lasciare il partito
popolare europeo, è al potere in Ungheria.
Non so se Meloni e Salvini, arrivati al governo, continueranno ad
avere gli stessi interlocutori, o si renderanno conto che è meglio avere
buoni rapporti con chi governa davvero l’Europa: liberali come
Emmanuel Macron, democristiani come Ursula von der Leyen,
socialdemocratici come Olaf Scholz. Lo vedremo. Non so se
volgeranno la testa all’indietro, verso l’era del nazionalismo, o si
convertiranno all’ideale di Amendola e Spinelli, di De Gasperi ed
Einaudi, di Ciampi e di Draghi: la costruzione di un’Europa unita, in
grado di far sentire ovunque la voce della libertà e della democrazia,
di contare nel mondo globale, di tener testa ai russi, ai cinesi, agli
indiani, agli stessi americani.
Probabilmente prevarrà lo spirito della realtà; e Meloni e Salvini
cercheranno di barcamenarsi. Ma ci sono fasi in cui il pragmatismo
non basta. Perché il momento di costruire gli Stati Uniti d’Europa
sarebbe adesso, mentre siamo chiamati a fronteggiare sui confini
orientali la più grave crisi militare, politica, umanitaria dai tempi della
seconda guerra mondiale.

Questo possiamo dire fin da ora. Teniamoci stretto l’articolo 3 della


Costituzione. Rileggiamolo. Mandiamolo a memoria e insegniamolo ai
nostri ragazzi: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali».
Questo testo rappresenta il capovolgimento del fascismo.
Per Mussolini, i cittadini non erano tutti uguali. Gli uomini
valevano più delle donne, i bianchi dei neri, gli italofoni degli slavi e
dei tedeschi che pure erano cittadini del Regno, i cattolici degli ebrei, i
fascisti degli antifascisti, gli eterosessuali degli omosessuali. E di fatto
tutta la sua politica, al di là delle parole e della retorica, privilegiò i
ricchi rispetto ai poveri, i padroni ai salariati, i possidenti ai proletari, i
forti ai deboli.
Se siamo arrivati a questo, se abbiamo potuto scriverci la nostra
Costituzione – cosa che altri popoli vinti della seconda guerra
mondiale non hanno potuto fare: la Costituzione giapponese l’hanno
scritta gli americani –, lo dobbiamo certo alla Quinta Armata che ha
liberato l’Italia, e pure ai russi che hanno fermato i nazisti. Ma lo
dobbiamo anche ai tanti italiani che hanno detto no al nazifascismo,
che hanno tenuto duro nel ventennio, che hanno resistito nei venti
mesi di occupazione tedesca. Talora a prezzo della vita. Persone di cui
non si parla in tv e nei social.
Questi sono gli italiani di cui possiamo andare orgogliosi. Non il
Duce; i suoi oppositori, e le sue vittime.
Per approfondire la figura di Mussolini non si può ovviamente
prescindere dalla biografia di Renzo De Felice, pubblicata da Einaudi.
Gli scritti sull’argomento sono sterminati. Io ho fatto riferimento
anche alla biografia di Pierre Milza, «Mussolini», pubblicata in Italia
da Carocci. Una lettura interessante è «Mussolini. Il fascino di un
dittatore» di Antonio Spinosa (Mondadori).
Il dettaglio sull’«attrazione per il cappello» e il disprezzo di
Mussolini per le donne è tratto da «M. Il figlio del secolo» di Antonio
Scurati (Bompiani), di cui segnalo anche «M. L’uomo della
provvidenza».
Il dettaglio sull’autista di Mussolini chiuso con un mazzo di carte in
uno sgabuzzino di Villa Savoia è tratto da «Perché Mussolini rovinò
l’Italia» di Bruno Vespa (Mondadori).

Sulla vicenda di Ida Dalser e di Benito Albino, fondamentali i libri


«Il figlio segreto del Duce», di Alfredo Pieroni, Garzanti, e «La moglie
di Mussolini», di Marco Zeni, Edizioni Effe e Erre.

Tra gli ottimi libri di Mimmo Franzinelli, oltre al più volte citato
«Squadristi», ho lavorato su «Il duce e le donne», «Il tribunale del
duce», «Il prigioniero di Salò», tutti pubblicati da Mondadori, e «I
tentacoli dell’OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia
politica fascista», Bollati Boringhieri.
Per ricostruire la marcia su Roma mi è stato molto utile «Il giorno
che durò vent’anni» di Antonio Di Pierro, Edizioni Clichy.
Per la vendetta fascista: Giancarlo Carcano, «Strage a Torino», La
Pietra.
Per il capitolo «Vittime» ho consultato:
Voce «Giovanni Minzoni» in Dizionario Biografico degli Italiani,
Istituto della Enciclopedia Italiana
Aldo Garosci, «Vita di Carlo Rosselli», Vallecchi
Paolo Spriano, «Gramsci e Gobetti», Einaudi
Paolo Spriano, «Storia del Partito Comunista Italiano» (volumi
vari), Einaudi
Cesare Pianciola, «Piero Gobetti», Gribaudo
Angelo D’Orsi, «Gramsci. Una nuova biografia», Feltrinelli
Giuseppe Fiori, «Vita di Antonio Gramsci», Laterza
Massimo Lunardelli, «Gramsci il fascista. Storia di Mario, il fratello
di Antonio», Tralerighe libri.
Giuseppe Castellani, «Il dibattito socialista sul Grido del Popolo»,
tesi di laurea.
Torno anche a citare il libro di Giorgio Amendola, «Una scelta di
vita», Rizzoli.
Su Giacomo Matteotti ha fatto un gran lavoro Stefano Caretti, che
con Jaka Makuc ha curato i suoi scritti raccolti in «Matteotti si
racconta. La famiglia, gli studi, la politica» (Pisa University Press).
Per quanto riguarda la pista affaristica dell’assassinio, è ormai un
classico «Il delitto Matteotti» di Mauro Canali (il Mulino). Ho
consultato inoltre Stefano Caretti, «Il delitto Matteotti», Lacaita
Editore.
Ho tratto le notizie sulla fuga di Turati in Corsica dallo studio di
Nicolò Zuliani intitolato «Quando Pertini e Olivetti salvarono Turati
dalla vendetta di Mussolini» e pubblicato sul sito «The Vision» il 19
febbraio 2019.

Ricco di notizie sulla vita quotidiana sotto il fascismo è il saggio


«Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-
1950» di Paul Ginsborg (Einaudi).
Alla figura dell’anarchico Schirru ha dedicato una bella biografia
Giuseppe Fiori: «Vita e morte di Michele Schirru. L’anarchico che
pensò di uccidere Mussolini» (Laterza).
Di Francesco Filippi, oltre al più volte citato «Mussolini ha fatto
anche cose buone» (Bollati Boringhieri, prefazione di Carlo Greppi),
segnalo anche «Noi però gli abbiamo fatto le strade» (Bollati
Boringhieri), altro prezioso libro che distrugge le bugie
autoconsolatorie sul colonialismo italiano, in particolare di quello
fascista.
Al fantasma di Mussolinia di Sicilia hanno dedicato un racconto
Leonardo Sciascia, raccolto nel libro «La corda pazza», e Andrea
Camilleri («Privo di titolo», 2005).
Per la parte sulla malaria: Frank Snowden, «La conquista della
malaria», Einaudi.
Sugli esperimenti di Gruaro, preziosa l’inchiesta sul Gazzettino,
condotta in vari articoli da Maurizio Marcon. Ho lavorato anche su
Ariego Rizzetto, «Gruaro, venti secoli di storia», Comune di Gruaro.
Le scritte antifasciste sui muri di Torino sono uno dei tanti spunti
di interesse del bel libro di Luisa Passerini «Torino operaia e
fascismo», pubblicato da Laterza.
Lo studio di Luciano Villani che ho già citato si intitola «Le borgate
del fascismo. Storia urbana, politica e sociale della periferia romana»,
ed è pubblicato dal Dipartimento di Studi storici dell’università di
Torino.
Inoltre ho consultato:
Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, «Storia d’Italia nel periodo
fascista», Einaudi
Mauro Canali, «Le spie del regime», il Mulino
Leonardo Pompeo D’Alessandro, «Giustizia fascista. Storia del
Tribunale speciale (1926-1943)», il Mulino
«Il Tribunale speciale fascista», a cura di Giuseppe Galzerano
Camilla Poesio, «Il confino fascista», Laterza.
Il bel libro di Michela Marzano «Stirpe e vergogna» è pubblicato da
Rizzoli.
Sugli scandali finanziari del regime, oltre al già citato «Mussolini e i
ladri di regime» di Mauro Canali e Clemente Volpini, da cui ho attinto
molte notizie, consiglio anche «Il fascismo dalle mani sporche.
Dittatura, corruzione, affarismo» (a cura di Paolo Giovannini e Marco
Palla).
Per i crimini di guerra del fascismo:
«Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana» di Ian
Campbell
Angelo Del Boca, «Gli italiani in Africa Orientale», Laterza
Angelo Del Boca, «Italiani, brava gente?», Neri Pozza
Edoardo Mastrorilli, «Violenza e guerra civile spagnola:
l’intervento dell’Italia fascista», tesi di dottorato.
Enzo Collotti, «L’occupazione nazista in Europa», Editori Riuniti
Giorgio Rochat, «Balbo», UTET
Giorgio Rochat, «Il colonialismo italiano», Loescher
Giorgio Rochat, «Le guerre italiane 1935-1943», Einaudi
Giorgio Rochat e Piero Pieri, «Badoglio», UTET
Alessandro Volterra e Maurizio Zinni, «Il leone, il giudice e il
capestro. Storia e immagini della repressione italiana in Cirenaica
(1928-1932)», Donzelli.

Sulla persecuzione degli ebrei fondamentale il libro di Mario


Avagliano e Marco Palmieri «Di pura razza italiana» (il Mulino).
Alla figura di Formiggini il professor Pancrazio Caponnetto ha
dedicato un interessante articolo, intitolato «Angelo Fortunato
Formiggini e la filosofia del ridere» e pubblicato il 10 maggio 2020 sul
sito di informazione giuridica www.litis.it. La citazione di Renzo De
Felice sul suicidio di Formiggini è tratta dalla sua «Storia degli ebrei
italiani sotto il fascismo» (Einaudi).
Le informazioni su Margherita Sarfatti sono tratte dalla biografia di
Rachele Ferrario, «Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia
fascista», Mondadori.
Tengo da sempre sul comodino, e l’ho utilizzato molte volte, il libro
di Giorgio Bocca che ho già citato, «Storia d’Italia nella guerra
fascista» (Mondadori).
Il biografo di Giuseppe Bottai è Giordano Bruno Guerri («Giuseppe
Bottai, fascista», Mondadori).
La citazione di Sciascia nell’ultimo capitolo è tratta da «Nero su
nero», Einaudi.
Le notizie su Ferdinand Marcos e sulla rimozione della memoria
nelle Filippine sono tratte dall’articolo di Raimondo Bultrini
pubblicato il 6 maggio 2022 dal Venerdì di Repubblica.
Concludo ringraziando il mio fraterno amico Lorenzo Castellani,
che mi ha affiancato nella ricerca delle fonti storiche.
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Mussolini il capobanda
di Aldo Cazzullo
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835720324

COPERTINA || COVER DESIGN E IMMAGINE: ANDREA GEREMIA


«L’AUTORE» || © FRANCO RABINO