La Casa Del Fauno Inés Messore IT
La Casa Del Fauno Inés Messore IT
La Casa Del Fauno Inés Messore IT
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Generato da Zeus, nacque storpio per via del fuoco.
Mani veloci, precise e amorevoli lo pulirono e lo perfezionarono.
Lentamente e a fatica iniziò a ballare.
Il padre era il dio di tutti gli dei e per suo figlio scelse il bronzo.
Il bronzo era eterno. Avrebbe potuto optare per il venato e duttile
pentelico, ma preferì lasciare il marmo agli artisti, osservatori attenti del
corpo umano, capaci di far scaturire dalla pietra i movimenti e i muscoli
a colpi di scalpello.
Voleva che suo figlio fosse così potente da sconfiggere la morte e rinascere
all’infinito.
Ma non gli riservò un posto accanto a sé tra gli dei maggiori.
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Isola di Samo, Mare Egeo, II secolo a.C.
Quel giorno di novembre, Samo era splendida. Teodoro, il mattino presto, era andato alla bottega
a preparare il gesso per fondere una statua che gli sembrava davvero magnifica. L’aveva ricevuta il
giorno prima dalle mani dell’autore, il suo amico e scultore Reco; gliel’aveva portata avvolta in un
panno di cotone, come se fosse un figlio amato. Era uno splendido Dioniso danzante, alto settanta
centimetri, modellato in argilla cruda con una tecnica squisita.
Lavorando come fonditore in più di un’occasione aveva avuto modo di vedere, o meglio di
percepire, con quanta riverenza e timore gli artisti gli consegnavano le loro creazioni affinché lui le
trasformasse in opere durevoli. Dalla fragile argilla al bronzo dorato; la fusione è, forse, una delle
poche arti che delega ad altri l’interpretazione e la realizzazione dell’oggetto finito. Forse i
compositori e i drammaturghi provano una sensazione simile di fronte all’interprete musicale o
teatrale delle loro opere, ma l’arte della fusione si distingue per un motivo: spesso l’originale va
perduto e rimane solo la copia.
Teodoro era figlio d’arte, erede di una famiglia di scultori, architetti ed esperti fonditori di
bronzo. Pretendeva da se stesso la massima precisione. Era andato di buon’ora ai magazzini del
porto per cercare il gesso fine migliore, quello proveniente da Creta. E adesso doveva approntare il
calco: senza dubbio, uno dei momenti più delicati del processo di fusione.
Appena tornato nella sua bottega, accese il fuoco e iniziò a cuocere le pietre di gesso per
disidratarle e trasformarle in polvere, intanto osservava la statua d’argilla e studiava il miglior modo
di procedere. “Vorrei essere capace di riprodurre fedelmente la sua bellezza, di rado ho ricevuto un
oggetto di tale maestria” pensò mentre continuava a muovere nel paiolo le pietre ormai informi.
La quantità di gesso da polverizzare era grande e poi restava ancora molto lavoro da fare. Per
prima cosa sistemò la figura di argilla su un tavolo e, con l’aiuto di un pennello a setole fini, iniziò a
coprirla di un sottilissimo strato di stagno fuso. Questo procedimento serviva a impermeabilizzarla
e a preservarla. Poi la cosparse tutta d’olio. Con la polvere di gesso aggiunta all’acqua preparò
l’impasto per la colata. In una grande cassaforma di legno svuotò metà del liquido senza riempire
del tutto il recipiente. In quel letto denso e pastoso depose, di schiena, la figura nuda di Dioniso,
facendo molta attenzione a non rovinarne i fragilissimi dettagli. Osservò la sua impudicizia, le mani
alzate, la precisa muscolatura delle gambe in movimento, i capelli ricci ornati da due piccoli corni e
il volto provocante: “L’immagine perfetta di un allegro ubriacone; chi sa in quale cerimonia Reco
ha scovato questo personaggio” pensò Teodoro. In quel momento sentì un brivido; il gesso si stava
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asciugando, iniziava a fare presa sprigionando calore, era tempo di coprirlo con una seconda colata.
Unse una seconda volta con l’olio la statuetta e lo stampo per facilitarne la successiva apertura. Poi
rovesciò il nuovo impasto fino a coprirla per intero. Questa cerimonia lo rendeva sempre inquieto:
era in balia dei materiali. Per tacitare pensieri e paure, si allontanò dalla cassaforma e si dedicò agli
altri lavori rimasti in sospeso.
Reco si affacciò alla porta. Di solito lavorava su commissione, per conto delle famiglie
importanti della città, ma in questo caso era diverso: si era dedicato alla statua di Dioniso per motivi
personali.
Era attratto dalla figura di quel dio antico, androgino, nato da una gamba di Zeus. Dioniso era il
dio dei popoli del mare. Lui, che era il protettore del teatro ma anche dell’agricoltura, aveva donato
e insegnato ai pelasgi l’arte della coltivazione della vite. Reco ne aveva sentito parlare nelle
riunioni nell’Agorà, dicevano che era figlio del dio Zeus Eleuterio, diventato protettore dell’isola
per decisione di Meandro secoli prima, quando Samo si era liberata dall’oligarchia e dalla tirannia.
Il giovane artista aveva sempre apprezzato l’armonia compositiva, il rigore delle arti esatte.
Essendo figlio di un ricco commerciante del porto, era stato allievo di ottimi maestri di filosofia e
matematica. Gli intensi allenamenti in palestra gli avevano irrobustito il corpo. Aveva anche
frequentato la bottega del padre di Teodoro, dove aveva studiato le regole dell’architettura e della
scultura e aveva dato prova di una notevole destrezza tecnica. Aveva compiuto da poco vent’anni,
sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto aiutare il padre nel commercio, ma prima voleva lasciare
un segno; una testimonianza di quell’arte che amava tanto. Per questa ragione cercava esperienze
stimolanti che sovvertissero la sua forma mentis disciplinata e razionale.
Così aveva partecipato alle celebrazioni e alle teatralizzazioni rituali in cui si magnificavano le
virtù e le imprese di Dioniso; a volte era il coro a lodare il dio che solcava i mari in direzione
dell’India, con il suo seguito di satiri e menadi e la nave, scortata da delfini, su cui erano cresciuti
alberi di vite; altre volte, a prendere la parola, era lo stesso Dioniso, innamorato di Arianna che gli
aveva dato sei figli; in suo onore il dio aveva lanciato tra le stelle il diadema nuziale dando origine
alla cosiddetta corona cretese. I canti lo mostravano infine mentre tornava in cielo per prendere il
suo posto alla destra di Zeus, tra i dodici grandi dei, dopo aver instaurato il suo culto e quello della
vite in tutto il mondo conosciuto. In suo onore si celebrava la festa della primavera, quando gli
alberi rinverdivano, tutti gli esseri viventi ardevano di desiderio e il popolo si emancipava da tutte le
sue preoccupazioni e dall’oscurità dell’inverno. Dioniso passeggiava con in mano una melagrana, il
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frutto maturo che si apre come una ferita sanguinante, simbolo di morte e promessa di resurrezione.
Reco si divertiva enormemente, assieme alla gente di Samo, nelle notti serene sotto un cielo pieno
di stelle; si sedeva con gli altri su tavole di legno digradanti, situate su un terreno in pendenza verso
il mare. Famiglie al completo vi giungevano fin dalla mattina con cibi, bevande e via dicendo per
potersi godere a lungo e comodamente, e dalla posizione migliore, quello spettacolo
incredibilmente procace e immorale, a cui nondimeno tutti assistevano con religioso rispetto.
I cittadini approfittavano di quelle giornate per intrattenere scambi sociali ed esprimere
liberamente le proprie opinioni. Era un pubblico volubile, litigioso, che mangiava in abbondanza,
applaudiva e incitava quando apprezzava lo spettacolo, faceva pernacchie con le mani a imbuto,
lanciava fichi, frutti marci e perfino pietre quando non gli piaceva. Pubblico e coro formavano uno
strano insieme discordante.
Si drammatizzava la vita del dio attraverso canti, balli, dialoghi e monologhi satirici, volgari e
triviali, allusivi a fatti della sua vita, accompagnati dalla musica dei flauti. La liturgia voleva che
tutto avvenisse in presenza della statua di Dioniso, situata al centro affinché tutti la potessero vedere
bene. Prima dello spettacolo una capra veniva sacrificata al dio.
Reco sapeva che era finalmente giunto il momento di aprire il primo stampo, decise pertanto di
aiutare il suo amico Teodoro. Erano tesi perché non potevano essere certi del risultato. Talvolta gli
originali si rompevano o rimanevano incollati al gesso, e così si perdevano dettagli importanti. In
quest’arte i compiti dell’autore e del fonditore si univano in una reinterpretazione comune. L’artista
doveva confidare nell’artigiano e quest’ultimo doveva mostrare tutta la sua perizia e la sua
destrezza nell’uso del cesello.
Per uno scultore era più semplice scegliere un bel blocco di marmo pentelico, rielaborare
l’immagine interiore e portare alla luce, a colpi di scalpello, l’oggetto desiderato senza intermediari.
Le famiglie benestanti avevano iniziato a commissionare statue per le case avite e per i loro
giardini; avevano perso interesse per la bidimensionalità della pittura murale; pretendevano
immagini naturali, e solo ispirandosi a modelli in carne e ossa l’artista poteva ottenere sculture
realistiche.
Reco alternava diversi materiali; lavorava con il legno, la terracotta, il marmo, talvolta l’avorio,
ma anche se fondere una statua di bronzo era un compito ingrato, per questo Dioniso, il “suo”
Dioniso, dio liberatore e ispiratore dell’estasi, sentiva la necessità di utilizzare quel materiale e non
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un altro. Il marmo, il bel marmo pentelico con le suggestive venature ferrose, era destinato alla
statuaria domestica e laica. Per i miti e gli dei occorreva il bronzo.
Alcuni mesi prima, intorno alla metà di agosto, mentre attraversava i campi al mattino, sulle
colline di Samo, tra i vigneti e i muri bassi di pietra attraversati da spini aveva sentito i canti e le
grida delle donne che raccoglievano l’uva e il chiasso degli uomini che trasportavano le ceste piene
di grappoli. Con il suo splendore intenso e brillante, il sole abbagliava l’azzurro imperturbabile del
cielo. Soffiava un soave Zefiro, vento portatore di un clima favorevole alla vegetazione, che quando
raggiungeva il mar Egeo, annunciava l’arrivo del tempo felice, dei fasti, dell’abbondanza e della
navigazione.
La curiosità aveva trasformato Reco in un eterno spettatore. L’artista dedicava lunghe ore a
preparare bozzetti di quelle figure muscolose e agili. Le aveva osservate tagliare i pampini, riposare
sotto gli alberi, ridere, conversare e mangiare formaggio di capra e pagnotte. Si era sforzato, per
mesi, di catturare le immagini migliori; gesti particolari da immortalare nella creta o nel marmo.
Aveva percorso le colline, aveva visto raccogliere cereali, legumi e frutti che venivano poi lasciati a
seccare sui tappeti stesi sulle terrazze, in vista dell’inverno, fichi, che erano l’alimento principale, e
poi mandorle, pistacchi, bacche di ginepro, pinoli, noci e nocciole.
Terminata la vendemmia sull’isola, l’uva veniva esposta al sole per dieci giorni per farla candire;
poi la lasciavano per altri cinque giorni all’ombra, fino a farla diventare quasi passita. Reco aveva
visitato i magazzini e aveva sentito l’odore dolciastro, acre e alcoolico. Si avvicinava il momento di
trasformarla in vino.
Sopra ceste di vimini piene di grappoli o dentro botti di legno, gruppi di uomini e donne si
mantenevano abilmente in equilibrio tenendosi a corde e tavole, mentre schiacciavano l’uva con i
piedi. Intorno al torchio, alcuni musicisti li accompagnavano suonando il flauto, l’aulòs,
allegramente, con un ritmo sempre più eccitato. Facevano un gran baccano. Mentre i giovani
sfrenati ballavano e ridevano con le gambe macchiate di rosso scuro, il mosto, come il sangue di un
sacrificio rituale, scorreva in un recipiente dove decantava; quindi veniva versato in alte giare di
terracotta di forma ovoidale e lasciato a fermentare.
Su tavolette di legno dipinte di bianco, Reco tratteggiava i movimenti, gli ancheggiamenti, gli
sguardi e i baci furtivi. Ma cercava qualcosa in particolare: una figura che gli permettesse di
rappresentare, nel modo più sublime, Dioniso, il dio liberatore, Eleuterio, colui che dava un senso
alla vita della gente spingendola a liberarsi della normalità, della paura della tirannia, per
abbandonarsi alla follia e all’estasi.
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Poi era giunto il momento di travasare il vino ed erano iniziati i grandi festeggiamenti. Si
provava, per la prima volta in quell’anno, il sangue del dio.
Era stata una notte straordinaria che aveva rotto la monotonia dell’esistenza e preannunciato i
Misteri della nascita di un nuovo ciclo vitale. Durante la cerimonia, migliaia di persone avevano
danzato freneticamente fino allo sfinimento, agitandosi in circolo attorno agli alberi sacri. Il vino
greco, dolce e aromatico, scuro e ricco di alcol, alterava lo spirito degli stolti, facilitava in modo
prodigioso le transazioni, stimolava l’ardore e l’amore.
Reco si era unito alla folla degli spettatori che accompagnavano i ballerini coperti con foglie
d’edera, mentre portavano falli, petali di fiori e dolci frutti; tra scherzi e risate, alla luce delle
fiaccole, mettevano in scena allegri giochi, esibivano la maschera del dio e cantavano in coro:
«Oh, Dioniso, nato da Zeus Liberatore, ricevi in offerta il nostro raccolto, oggi ti onoriamo
affinché questo vino che sgorga dalle viscere della terra fruttifichi per sempre!».
Era giunto il momento di conservare sotto terra il vino nuovo. Il dio personificato, sull’altare
d’onore, riceveva le preghiere nella confusione generale; pretendeva svergognati simboli fallici e
ditirambi, canti dal ritmo concitato che celebrassero le magiche forze del sesso, della fecondità e
della procreazione, garanzia della continuità della vita. In quella notte mistica l’impudicizia aveva
regnato sovrana, giovani e vecchi, femmine e maschi avevano violato ogni regola; tutto sarebbe
stato dimenticato al sorgere del sole.
Vignaioli ubriachi, mascherati da Menadi e Satiri, dopo aver masticato foglie d’edera, si erano
messi a correre eccitati dalla presenza del dio. Le donne, con disegni sulle braccia, quasi fossero
pitture di guerra, copulavano selvaggiamente con i fauni per onorare Dioniso, rappresentato da un
atletico uomo nudo che ballava esibendo il corpo in gesti procaci e sfrenati; quest’ultimo aveva una
corona con corte corna, una rossa guarnizione in cuoio di capra che simulava un gran fallo e una
coda di vitello. Non era bello, aveva un volto ferino, con lineamenti grossolani, ma il corpo
armonioso e muscoloso, la sua agilità e la destrezza nella danza, erano perfetti e lo avevano posto al
centro dell’attenzione.
Quando lo aveva visto muoversi, Reco aveva riconosciuto in lui il modello reale che stava
cercando. Il suo spirito, di solito equilibrato e sereno, all’improvviso, era stato travolto da un misto
di attrazione e repulsione che non aveva mai provato prima. Circondato da coreuti sensuali che
intonavano serenate caotiche e provocanti, il ballerino aveva continuato a esibire il suo corpo
lubrico. Lo scultore non era riuscito restare fermo nel ruolo di osservatore, una pulsione interna lo
aveva spinto a unirsi a quel groviglio. Dopo pochi passi, aveva abbandonato ogni pudore e quando
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si era avvicinato agli altri, l’energia centripeta del gruppo lo aveva mandato in estasi. Era stato
preso dal vortice della danza, aveva iniziato a ballare, a toccare, ad accarezzare, a lasciarsi
abbracciare, ad ardere di passione. Aveva perso il controllo, era stato travolto dall’emozione,
risucchiato in un’estasi senza ritorno. Le rivelazioni sensoriali di solito segnano in modo definitivo
la vita. Reco aveva scoperto che era un viaggio di sola andata e che la sua mente non avrebbe più
potuto dimenticare quella esperienza. In quella notte febbrile, aveva scoperto qualcosa che gli
avrebbe fatto cambiare rotta, aveva capito che l’arte era il suo destino, che la creazione richiedeva
sia la misura armoniosa, il rispetto della forma, che la sregolatezza assoluta, senza limiti. Avrebbe
dovuto mettere insieme quei due aspetti e conoscerli, solo unendo Apollo e Dioniso, le sue opere
avrebbero avuto un’anima, ánemos, un soffio vitale.
L’alba lo aveva trovato addormentato sotto un olivo sacro. Pallade Atena gli aveva offerto riparo,
dandogli la sapienza necessaria per affrontare il futuro.
Era tornato alla sua bottega con i bozzetti. Con mani rapide, facendo affidamento sulla sua
memoria visiva, fortemente segnata dalle recenti esperienze, aveva iniziato a mescolare l’argilla e a
modellare la figura. Muovere le dita e gli attrezzi era una sofferenza, il piacere era ancora lontano.
Poi a poco a poco aveva trasferito il suo tormento alla materia, che generosa aveva accolto l’energia
negativa per trasformarla in bellezza.
Quando entrò nella bottega di Teodoro, lo trovò che si apprestava all’operazione della
scassettatura. Stava separando con delicatezza l' armatura dal gesso già secco e indurito. Impresse
nella superficie del parallelepipedo bianco si riconoscevano le venature del legno e una linea
orizzontale irregolare che indicava il punto di separazione delle due metà.
Usando un attrezzo di punta piana a mo' di leva, Teodoro percorse lentamente la linea divisoria
tutt’intorno, fino a sentire che le parti si separavano con un lievissimo rumore. Apparve di nuovo, in
bella vista, la leggiadra rappresentazione di Dioniso.
Gli stampi erano la matrice, l’alveo che avrebbe contenuto le nuove riproduzioni, questa volta in
un bronzo magnifico.
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Porto di Baia, a nord di Napoli
62 d.C., luglio
L’equipaggio della nave mercantile si stava preparando per gettare l’ancora a porto Giulio. Gli
ordini del timoniere, la vela quadra che nella virata sbatteva per il vento di prua, i marinai che
correvano alle loro postazioni, trasformavano la manovra in uno spettacolo rumoroso e disordinato.
Eppure il movimento preciso dei remi che fungevano da timone, permise a Erone di far avanzare
con dolcezza l’immensa imbarcazione di cedro libanese fino a farle sfiorare con lo scafo la
banchina d’ormeggio. I gabbieri ammainarono rapidamente la vela color porpora, per evitare che la
nave continuasse a muoversi, mentre altri marinai da prua a poppa lanciavano robuste cime di
canapa ai bozzelli di pietra del molo. Sulla costa i trasportatori attendevano con i muli, pronti per
scaricare la mercanzia; un nutrito gruppo di curiosi assisteva sbalordito a quell’insolito evento. La
nave, che proveniva dalle isole Egee, era carica di prodotti d’ogni sorta: perline di vetro, tessuti
preziosi, profumi, anfore di olio d’oliva, vino, datteri e frutta secca. Era di una bellezza
straordinaria: le due estremità della nave, perfettamente simmetriche, disegnavano una graziosa
curva sormontata da una testa di anatra dorata. Sulla ruota di prua svettava la figura della divinità
che dava il nome alla nave. Tutto era stupefacente: la decorazione, la pittura, la vela di gabbia rossa,
le ancore con i loro tornichetti, le cabine a poppa. L’equipaggio sembrava un esercito. Sulla
spiaggia, una folla in attesa ammirava e festeggiava chiassosamente quell’evento eccezionale.
Dopo tanta paura era subentrata l’allegria.
La nave trasportava anche una straordinaria collezione di costosi calchi in gesso delle opere dei
migliori scultori greci, che molti aspettavano con ansia per abbellire le ville pompeiane in piena
ricostruzione dopo il terremoto di febbraio.
Tra gli attenti spettatori presenti sulla costa c’era Lucio, responsabile del deposito di sculture di
Baia. Lavorava per Gauto, che attendeva impaziente, già da diversi mesi, l’arrivo di quel carico, con
il quale avrebbe soddisfatto le richieste di moltissimi clienti. Pompei, Ercolano e Stabia erano state
devastate, e molte case erano rovinate. Gli abitanti della Campania Felix sapevano che non
sarebbero mai stati al sicuro dalle grandi calamità naturali, ma il loro spirito rimaneva inalterato, la
loro voglia di vivere intatta, nonostante il loro paese fosse stato, già tante volte, abbattuto dalla
paura e dal dolore. La ferrea intenzione di continuare a vivere stimolava la creatività e faceva fiorire
la bellezza sopra le macerie. È per questo che maestri costruttori e paesaggisti ricevevano in
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continuazione incarichi dai loro clienti e dovevano inventarsi soluzioni sempre nuove per decorare
le residenze e i giardini.
Nella zona portuale di Pozzuoli e Baia il sisma era stato violento. A Punta Epitaffio e in buona
parte della villa del potente Lucullo la terra era sprofondata, la sua struttura era mutata ed era
cambiato il profilo costiero. I vivai, dove venivano allevate le murene, erano rimasti, in parte,
sommersi. Lo stessa cosa era accaduta in altre zone, come a Porto Giulio. Era successo sotto gli
occhi di tutti, seminando ovunque il terrore. Dopo il terremoto, il mare aveva continuato a muovere
le sue viscere come un mostro addormentato, facendo salire e scendere la terra come preso da un
respiro affannoso e ci era riuscito con una tale facilità da far tremare gli abitanti della zona, indifesi
e impotenti.
Anche se erano trascorsi alcuni mesi da quel terribile evento, Lucio restava ancora sveglio la
notte, spaventato e in attesa, in un contraddittorio stato d’allerta; nonostante il sonno, cercava di
vincere il desiderio di dormire e si sforzava di dominare la stanchezza, nel caso fosse stato
necessario fuggire all’aperto da un momento all’altro. Il corpo e la mente sentivano ancora
quell’intensa e spaventosa sensazione. I primi giorni dopo il sisma avvenuto nel gelido inverno, si
era rifugiato assieme ai suoi vicini nella piazza del popolo, sotto il cielo stellato, l’unico posto che
sembrava offrire un po' di sicurezza. Migliaia di persone erano fuggite verso nord, ma nessuno era
sicuro di potersi salvare. Intorno a lui tutto era diventato instabile, inconoscibile; quello che fino a
ieri era un rifugio, oggi era un luogo estraneo e minaccioso. Giorni dopo l’interminabile e
terrificante bradisismo, uno stanco Lucio aveva preso a poco a poco coraggio ed era tornato a casa
sua: ma aveva continuato a sentire le scosse e a rivivere il terrore senza poterci fare nulla. Si era
detto: “Goditi la vita finché ce l’hai, perché il domani è incerto”. E quella frase, letta chissà dove,
gli aveva dato la forza di andare avanti.
Appena la nave ormeggiò, Lucio salì velocemente sul pontile e si presentò al capitano per
chiedergli di verificare, prima dello sbarco, lo stato delle matrici nella stiva. Era fondamentale che
durante il viaggio non si fossero danneggiate, rotte o bagnate. Gli stampi in gesso sono vulnerabili
all’acqua. E nella maggior parte dei casi si trattava di oggetti antichi, realizzati secoli prima da
artigiani greci di straordinaria maestria, la cui perdita sarebbe stata un danno incalcolabile. Li aveva
messi in vendita un artigiano, e Gauto li aveva acquistati senza un attimo di esitazione.
Lucio era pronto a proteggere i calchi a qualsiasi costo durante il loro trasporto sulla terraferma.
Ma prima doveva assicurarsi che non ci fossero stati problemi durante il viaggio per mare.
Controllò il carico stipato nella stiva e, vedendo che era andato tutto bene, rese grazie agli dei;
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quindi pagò a Erone il prezzo del trasporto, poi si sporse dalla murata di babordo, la più vicina alla
terra, e gridò il nome del capo dei mulattieri. Questi girò la testa mostrando di aver capito e ordinò
ai suoi uomini di salire sulla nave per iniziare a scaricare. In lenta processione la mandria di muli
che trasportava i preziosi manufatti si diresse verso il deposito del porto. Lì Gauto andava su e giù
impaziente, aspettava con ansia l’arrivo di uno stampo eccezionale, un Satiro o un Dioniso in una
vivace posa di danza, che aveva trovato in vendita in una scalcagnata bottega di fusione del bronzo
durante un viaggio nelle isole Egee. Era un amante della scultura e, sopra ogni cosa, era un
collezionista. Quella passione gli permetteva di accumulare beni in modo virtuoso, come se fosse
un culto e non un vizio. Trascorreva buona parte della giornata a contemplare in estasi i suoi averi.
“Quanta bellezza, quanta perfezione troviamo a volte nelle creazioni dell’uomo”.
Lucio capiva e condivideva quella passione, anche lui provava una piacevole inquietudine
all’idea di avere dinanzi a sé, imprigionati nel marmo, un Ulisse che offriva una coppa di vino al
ciclope Polifemo o un giovane Dioniso incoronato d’edera che giocava con una pantera. Quello che
più lo turbava era la suggestiva imprevedibilità dei calchi che, come uteri, lasciavano soltanto
intuire la forma che l’oggetto avrebbe assunto una volta versato il metallo fuso nelle concavità.
Gauto aveva acquistato personalmente tutti quei manufatti nei suoi tanti viaggi alla ricerca delle
creazioni sublimi degli antichi maestri. Gli stampi non avevano una forma ben precisa; era difficile
capire cosa proteggessero, ma a poco a poco Lucio imparò a osservarli; riconobbe le leggendarie
Amazzoni di Policleto, vincitore di una singolare contesa artistica con Fidia e altri grandi scultori
dell’epoca per la realizzazione di un insieme di statue della triade destinate, a detta di Gauto, al
santuario di Efeso. Di Fidia restavano frammenti della splendida immagine di Atena, mentre non si
sapeva bene a chi appartenessero Apollo e Afrodite e le maschere di Armodio e Aristogitone, gli
eroici tirannicidi ateniesi. “Anche Gauto è un gran maestro, ogni volta che torna da uno dei suoi
viaggi ci racconta la storia delle statue che ha trovato. Senza dubbio più degli dei che rappresentano
ammira gli artisti che le hanno create” pensò Lucio. Con doti da istrione, Gauto descriveva nei
minimi dettagli le sculture e gli stampi sotto gli sguardi affascinati degli abitanti di Baia. Al ritorno
dai suoi viaggi li invitava, li faceva sedere in circolo sotto gli alberi, offriva olive, vino, formaggio e
pane, poi poggiava i tesori sull’erba e li presentava all’attento pubblico, uno alla volta, come se
fossero personaggi di una immaginaria rappresentazione.
L'altro aspetto che Gauto attendeva con ansia era la necessità di vendere quegli oggetti, perché in
fondo era quello il suo lavoro, di quello vivevano lui e la sua famiglia, Lucio e altri ancora. In un
certo senso i calchi erano gli oggetti più gratificanti, perché poteva consegnarli ai maestri bronzisti,
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per poi recuperarli e conservarli. Sapeva che il calco di Dioniso danzante, appena arrivato, aveva
già un destinatario. Ma si rasserenava pensando a Felicione, esimio artista del fuoco e del bronzo,
nonché suo amico, che aveva una fonderia a Pompei, nei pressi di Porta Nola dove lui andava a
trovarlo spesso. Avrebbe consegnato il calco a lui per poterlo poi riprendere in un secondo
momento. A Felicione era stato commissionato un lavoro: fondere una statua con doti particolari
per l’impluvio della villa del potente Cassio, una delle dimore più grandi e antiche della città situata
ai piedi del Vesuvio e di fronte al mare.
Felicione viveva lontano, sotto la montagna fumante che dominava Pompei ed Ercolano, in una
zona verdeggiante di vigneti ombrosi, dove l’uva traboccava dai tini; su questo monte, che Bacco
amò più dei colli di Nisa e che era la dimora di Venere e del divino Ercole, i Satiri sciolsero le loro
danze. Gauto decise di portare personalmente al suo amico il calco, per far sì che non accadesse
nulla lungo il tragitto e forse anche per averlo con sé per un po’ più di tempo.
Man mano che arrivavano dal porto i trasportatori sistemavano metodicamente le merci negli
appositi scaffali di legno. Nel giro di due giorni avevano completato il lavoro. Lasciarono in un
posto facilmente raggiungibile solo la matrice di gesso del Dioniso, con il guscio aperto e in bella
vista, in attesa che venisse portata nella bottega dell' aerarius Felicione. Così Lucio poteva andarlo
a guardare ogni volta che voleva e lo fece in tutti i momenti liberi della sua giornata. Le cavità del
gesso rivelavano una volumetria agile, ma proprio per questo, proprio perché erano così dinamiche
e riproducevano così bene il movimento, mentre molti particolari dell’opera, come le intricate
volute dei capelli, le dita e altre protuberanze, restavano nascosti ed era impossibile farsi un’idea
precisa della forma che ne sarebbe risultata.
Gauto e Lucio partirono all’alba, accompagnati da un pugno di uomini. In altre occasioni, per
arrivare a Pompei avrebbero preso la strada locale da Pozzuoli a Neapolis e poi si sarebbero
incamminati verso Ercolano e Oplonti percorrendo impervie vie costiere con una straordinaria vista
sul mare. Era un viaggio bellissimo e sconvolgente, che durava almeno una settimana; di solito i
paesaggi e la ricca vegetazione ricompensavano abbondantemente di tutti i sacrifici, ma questa volta
le difficoltà sarebbero state davvero troppe: i crolli e le valanghe di fango causati dal terremoto
avevano infatti reso impraticabili alcuni tratti della strada selciata. Come se non bastasse, il calco
che dovevano trasportare era fragilissimo: l’unica soluzione era fare gran parte del percorso via
mare. In quel mese di luglio il caldo era soffocante, ma dal mare soffiava il maestrale che avrebbe
gonfiato le vele e rinfrescato l’aria assicurando una navigazione serena. Sarebbero arrivati a
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destinazione in due o tre giorni e siccome, per fortuna, il vento era favorevole, Gauto decise di
partire subito.
Si imbarcarono nel porto di Baia su una nave più piccola e agile rispetto a quella che aveva
portato il carico dall’Egeo, una nave mercantile leggera e sicura, idonea per tragitti lungo la costa
tra i vari porti del golfo. Avrebbero fatto una breve sosta a Neapolis e poi avrebbero puntato verso il
porto di Pompei.
L’equipaggio era formato da quattro persone: un timoniere e tre marinai.
Il vento soffiava da poppa e gonfiò la vela della nave che, liberata dalle sue cime, puntò la prua
verso l’isola di Capri, dimora degli imperatori. Il timoniere mantenne saldamente la rotta,
muovendo di tanto in tanto la pala per evitare la deriva. Una volta superato il capo dove Enea aveva
sepolto il suo amico Miseno, virò verso Neapolis, sfruttando, oltre al timone, anche la vela per
tenere la direzione.
La navigazione procedeva senza intoppi, così Gauto poté finalmente riposare dopo il trambusto
dei giorni passati. Nel frattempo Lucio osservava ogni cosa con attenzione. Era la sua prima
traversata per mare ma stava bene, dopo i lunghi mesi in cui la terra aveva tremato, si sentiva
finalmente al sicuro. “Che strana situazione! Qui tutto si muove e non mi fa paura, invece la terra,
che dovrebbe essere ferma, mi terrorizza tanto che vorrei solo scappare…”. Al crepuscolo
raggiunsero Neapolis, dove avrebbero trascorso la notte; l’equipaggio scaricò le mercanzie e le
attrezzature. I canti dei pescatori che rincasavano, la luna enorme, intensa e rossa che nasceva dal
mare, il profilo conico del Vesuvio appena visibile in controluce, ma sempre onnipresente a
coronare la città, lasciarono un segno così profondo nella mente di Lucio, che solo grazie al
dondolio delle onde riuscì a prendere sonno.
All’alba furono svegliati dai rumori della manovra di partenza, il vociare dell’equipaggio, le
grida che incitavano a mollare gli ormeggi e il gracchiare dei gabbiani che volteggiavano a poppa
seguendo la scia di indaco e spuma. Erano di nuovo in viaggio, questa volta diretti verso il porto di
Pompei.
Dopo alcune ore iniziarono a distinguere all’orizzonte il profilo della cittadella marittima, che
sorgeva su una sorta di piedistallo naturale. Le sagome degli edifici urbani, a una trentina di metri
sopra il livello del mare, il tempio di Venere che proteggeva i marinai delle navi mercantili e il cui
biancore si stagliava sopra il grigio del Vesuvio adesso molto più vicino, molto più visibile che a
Neapolis. Lucio rimase colpito da quella vicinanza e, senza saperne il motivo, si sentì turbato.
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Allontanò quei pensieri osservando la penisola alla sua destra, con le rocce affilate a picco sul
mare e la vegetazione costiera di un verde intenso ed esuberante. Dall’altro lato si stagliava l’erta
Neapolis, brillante tra i riflessi del sole; e più lontano, appena visibile, la sua terra natale chiudeva il
golfo. Alle sue spalle, il mare immenso e azzurro.
Avvicinandosi all’ingresso del porto, l’imbarcazione virò e imboccò il canale di passaggio sicuro
segnalato da una stilizzata torretta circolare di pietra che si ergeva su una rocca e indicava la foce
del fiume; sull’altro lato c’era una lunga successione di arcate e gli horrea pieni di grano. La nave
rallentò, e l’equipaggio si preparò alla manovra d’attracco. Il porto fluviale-marittimo era protetto
da un braccio del fiume Sarno. La sua curva naturale offriva riparo alle navi mercantili che
importavano ed esportavano prodotti da Stabia, Pompei e altri paesi dei dintorni.
Sulla costa li attendeva Felicione, accompagnato dai suoi aiutanti seduti su un carro tirato da
muli. Per proteggere il pregiato manufatto e attutire i colpi più bruschi era stato preparato un letto di
morbidi panni di lino. Tutto era predisposto in modo da rendere la parte finale del tragitto comoda
come lo era stato il resto del viaggio. Tutto doveva essere perfetto.
«Ave, caro amico! Gli dei ci hanno concesso di ritrovarci e questa volta per una cosa che dà
molto piacere a entrambi. Andiamo a casa mia, dove potrete riposare». Poi, sia pure con un certo
contegno e senza dimenticare il suo ruolo di anfitrione, si mise a sbirciare nella cassa che conteneva
lo stampo, ma riuscì a vedere ben poco.
La casa-laboratorio di Felicione si trovava lungo la via di Nola, in una zona lontana dal mare, un
sobborgo di botteghe di artigiani e case modeste. Per arrivare al porto dovevano percorrere la via
che collegava Pompei a Stabia. Superato il primo tratto in salita e, oltrepassata la necropoli,
attraversarono la porta protetta da due centurioni che tutto facevano tranne stare di guardia, erano
spensierati, distratti, ridevano e conversavano con un gruppo di marinai, dimentichi del loro
compito. In fondo alla strada, proprio di fronte a loro, si vedeva di nuovo il Vesuvio.
Si inoltrarono nella città, lasciandosi alla loro sinistra una serie di magnifici edifici pubblici: il
tempio con la statua di Venere, che avevano già visto dal mare, ma di cui ora potevano ammirare i
colori e il bianco abbagliante sotto il sole di mezzogiorno. Più avanti costeggiarono altri due edifici
molto alti e pieni di iscrizioni; Lucio, che a Neapolis era già entrato in un posto del genere, dedusse
che si trattava di teatri. Il gruppo, come una strana processione, continuava ad avanzare, facendosi
largo tra gente che gridava, vendeva o trasportava merci e offriva i servizi più strani.
Il carro principale procedeva con difficoltà, dondolando pericolosamente perché le ruote
poggiavano in malo modo sulle pietre rotonde e irregolari della strada selciata. Come se non
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bastasse, per forza di cose, dovevano fermarsi e stare attenti a non investire l’enorme quantità di
passanti che in quel momento affollava le strade della città. A fatica, e grazie all’abilità dei
conduttori del carro, riuscirono a raggiungere le strade principali, attraversarono il decumano
massimo, ancora più affollato di quelli trasversali, dal momento che era la via più lunga e
importante della città nonché il centro commerciale dove tutto accadeva. Superato quel punto,
proseguirono per duecento metri fino a un incrocio con una strada perpendicolare. Felicione indicò
l’edificio delle terme e suggerì di andarci nei giorni successivi. Girarono a destra, in direzione di
porta di Nola; alla fine della strada c’era la casa dell’aerario.
Felicione e Gauto scaricarono la cassa con il calco e l’aprirono con estrema cautela, sperando
che nel trasporto fosse andato tutto bene. Evidentemente gli dei erano propizi: il calco era in
perfette condizioni, senza un graffio. Solo allora andarono a mangiare e a riposarsi così da essere
pronti per il lavoro che li attendeva.
Il mattino successivo, Felicione accese il fuoco nella fucina, così da trovarlo pronto al suo
ritorno; lasciò le braci che ardevano e portò gli ospiti a vedere la casa del suo cliente Cassio, dove
sarebbe stata sistemata la scultura che si apprestavano a fondere. Era una delle abitazioni più
antiche della città, risaliva ai tempi degli osci e dei sanniti, era anche una delle più grandi. I
proprietari, esponenti di una nobile famiglia del patriziato romano, dopo il recente terremoto
avevano deciso di riparare le parti danneggiate della casa e abbellire anche quelle che non avevano
subito danni, convinti che le nuove decorazioni avrebbero dato alla loro abitazione maggior lustro e
prestigio.
La villa di Cassio si trovava nella stessa strada della bottega di Felicione, ma dal lato opposto,
dopo l’incrocio su cui si affacciavano le terme, in una zona che, essendo più vicina al foro, era
abitata dalle famiglie più ricche.
Camminavano rilassati, Gauto e Felicione parlavano con entusiasmo dei dettagli del lavoro di
fusione, Lucio li seguiva a un passo di distanza, incuriosito: visto che raramente accompagnava
Gauto a comprare opere d’arte, quel viaggio era per lui un’assoluta novità. Mentre percorrevano la
via in direzione sud-est, si fermò, si girò verso destra e rimase in estasi per alcuni istanti ad
osservare, vicinissima, l’imponente montagna che dominava l’intero paesaggio. La mole grigia si
stagliava contro il cielo azzurro, intenso e limpido; sui pendii si distinguevano le chiazze verdi dei
vigneti, dei frutteti e degli orti. Quasi tutti gli alimenti freschi che arrivavano in città venivano da lì.
Il resto lo offriva il mare.
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Quando finalmente raggiunsero la casa, la trovarono con le fauces spalancate, poiché era ora di
ricevimento; anche le taverne e i negozi limitrofi erano in piena attività. I due amici, scortati da
Lucio, attraversarono il vestibolo in cui un’iscrizione sul pavimento dava il benvenuto agli ospiti e
si ritrovarono in uno splendido peristilio del colonnato toscano di un colore rosso intenso che
incorniciava un piccolo impluvio rettangolare; il pavimento era rivestito con tessere di marmo di
vari colori, segno evidente dell’esotismo, del gusto raffinato e dell’originalità dei proprietari. La
statua di Dioniso sarebbe stata sistemata su un lato, in uno spazio di proporzioni evidentemente
adeguate. Il peristilio era il più piccolo tra i vari che aveva la casa, e l’impluvio si armonizzava alla
perfezione con il resto. La statua tanto attesa sarebbe stata alta approssimativamente settanta
centimetri, e i due uomini, dopo aver osservato con attenzione il posto prescelto, non poterono che
avallare la decisione. «È l’elemento che manca per completare questo meraviglioso ambiente»
commentò Gauto. Era importante per lui che la cornice fosse bella come l’opera da esporre.
Mentre i due continuavano a discorrere e discutevano su come realizzare il piedistallo della
statua, Lucio se la svignò verso il secondo peristilio, più grande del precedente. Osservò sbalordito
le varie sale che si aprivano ai lati; anche se era un giorno lavorativo, alcune erano vuote perché la
casa era molto grande. In una sala che sembrava una camera da letto vide un affresco in cui un
satiro era ritratto in atteggiamento sensuale con una baccante. In un’altra sala, più spaziosa, c’erano
immagini di maschere teatrali; un’altra ancora, mostrava rappresentazioni di caccia e nature morte:
gatti che inseguivano pernici e colombe. Quella parte della casa aveva un che di erotico,
intimidatorio ed era di una bellezza irresistibile. Lucio iniziò a sentirsi eccitato; il sole alto, le luci e
le ombre nette, il cinguettare idilliaco degli uccelli, il gorgogliare dell’acqua nelle fontane e il
movimento lieve di foglie e fiori, agitati da una brezza calda, tutto gli faceva sentire l’imminenza di
qualcosa di intenso e nuovo. Un’ombra furtiva tra le colonne lo inquietò ancora di più. Ma era un
turbamento gioioso, sereno. L’ombra si mosse di nuovo e rivelò il profilo di un corpo esile,
femminile. Lucio si mise a fischiettare per attirare la preda senza spaventarla; la figura misteriosa si
affacciò incuriosita. Il suo cuore prese a battere violentemente, togliendogli il respiro e facendogli
morire le parole sulle labbra. Lucio si avvicinò al nascondiglio e vide lì rannicchiata la creatura più
bella che nella sua giovane vita gli fosse mai capitato di incontrare. No, non era la più bella, era
bella come le statue di marmo che tante volte lo avevano affascinato, e per di più era viva: “È più
bella delle dee di Fidia o Prassitele che ho tanto ammirato” pensò Lucio tremando. Poi raccolse un
po’ di coraggio e chiese: «Oh, stupenda luce che hai abbagliato i miei occhi, come ti chiami?».
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«Mi chiamo Clelia e servo in questa casa fin da quando ero bambina» fu la soave risposta. Lucio
si avvicinò di un passo, lei non solo non fuggì, ma lo guardò in volto. Gli occhi a mandorla lo
scrutarono con attenzione e desiderio, e la bocca disegnò una smorfia allegra. «Sto visitando questo
posto con l’artigiano Felicione; è entusiasmante, non ho mai visto un palazzo del genere, ma tu sei
perfino più bella di questa reggia!» fu la risposta quasi sfrontata del giovane. Clelia gli tese la mano
e lo invitò a seguirla; senza pensarci un istante, Lucio la prese e si lasciò condurre, in uno stato di
ebbrezza, fuori di sé. La mano di Clelia, soave e intensa, lo trascinava attraverso portici, giardini e
stanze di ogni forma e grandezza. Il susseguirsi di temperature e colori, luci e ombre, suoni e odori
contribuiva a esaltare il suo stato emotivo, e lei schivava abilmente i luoghi in cui avrebbero potuto
incontrare qualcuno che avrebbe rotto l’incantesimo.
Gauto e Felicione cercarono per un pezzo Lucio e, non trovandolo, decisero di tornare alla
bottega perché dovevano iniziare il lavoro che gli era stato assegnato. Il ragazzo sarebbe tornato da
solo, in quella casa era difficile perdersi. Una volta arrivati al laboratorio, sistemarono un paiolo di
rame sopra un braciere e iniziarono a fondere la cera rossa per riempire lo stampo, di cui avevano
già unito e stretto insieme le parti.
Lucio sentiva girare tutto attorno a lui, si afferrava a quella mano e sfiorava la pelle di quella
gazzella ad ogni cambio di direzione. Lei lasciava che si avvicinasse e lo provocava. Arrivarono in
una sala rettangolare vasta e ombrosa, con un portico sorretto da due robuste colonne; sul
pavimento spiccava un magnifico mosaico raffigurante re ed eroi che si affrontavano in una feroce
battaglia, così bello da catturare l’attenzione di Lucio. Lo splendore lo assediava in tutte le sue
forme.
Lei si fermò, i corpi si scontrarono e subito si abbracciarono con forza.
La fucina era accesa. Senza sosta il mantice soffiava aria ravvivando la fiamma. Quando la cera
rossa raggiunse una temperatura e una fluidità sufficienti, la versarono delicatamente nel foro fino a
riempire completamente la cavità.
Si spogliarono senza staccarsi nemmeno per un istante l’uno dall’altro, si stesero sull’immagine
della eroica contesa, si unirono in un bacio intenso, stringendosi e accarezzandosi.
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Una longilinea figura di cera, brillante e rosea, uscì dalle viscere della matrice di gesso, l’artista
la prese con delicatezza e iniziò a definirne amorevolmente i dettagli, con spatole e bulini.
La passione li bruciava, una volta e un’altra ancora li faceva ardere senza inibizioni. Scivolavano
di continuo l’uno nel corpo dell’altro.
Il fuoco crepitava, proiettando effimere stelle roventi che illuminavano i volti umidi, imperlati di
sudore. Il calore del forno fece sciogliere completamente la cera, lasciando uno spazio vuoto, pronto
a ricevere il bronzo fuso.
Le cavità dei loro corpi ardevano e, come crateri in eruzione, vomitavano fluidi incandescenti,
prorompevano in esplosioni mortifere, in preda a una disperata irrefrenabile necessità.
Il crogiolo incandescente di colori accesi, rosso ciliegia e bianco brillante, spalancò la bocca
spargendo il dorato liquido bollente, che riempì le cavità, le fosse, i buchi e tutte, assolutamente
tutte, le ondulazioni.
In una danza sregolata e rituale, la baccante volteggiava con i vestiti in disordine; la testa e le
braccia ruotavano all’indietro, la schiena e il petto si curvavano in un sinuoso contorcimento. I
capelli fluttuavano disordinati. Impugnava sonagli e apriva le gambe, impudiche e rilassate, mentre
il dio Pan le danzava accanto, nudo, con il sesso impetuoso ed eretto.
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Castrum Sancta Maria del Monte,
Apulia, 1235 d.C.
«Che magnifico panorama». In quel pomeriggio d’agosto, dinanzi al portone, proprio al centro,
Michele osservava la pianura circostante, ben visibile dalla collina su cui sorgeva il castello.
Poteva vedere a occhio nudo tutta la zona pianeggiante intorno a lui, spostandosi lungo il
perimetro della fortezza, la cui costruzione armonica e la perfezione matematica lasciavano
intendere, dietro l’aspetto e la struttura decisamente militari, non tanto a scopo difensivo quanto per
una sorta di codice segreto, misterioso, che poteva essere rivelato solo ai prescelti dall’imperatore
Federico tra gli accoliti più lucidi.
La notte precedente, in sogno si era ritrovato nel magico giardino dei cinque sensi, in un luogo,
forse inesistente, in cui l’architetto aveva voluto riprodurre il paradiso con aiuole di profumate rose
cremisi, zagare e gelsomini, sorvolate da farfalle multicolori, allodole canterine e pettirossi; c’erano
orti e aranceti dolci e aromatici, l’acqua scorreva nei corrimani cavi di una scala, ad ogni
pianerottolo rallentava formando dei vortici, per poi riprendere il suo percorso e continuare a
scendere fino a tuffarsi nelle belle fontane ornate di ugelli e ritmici salti d’acqua.
Camminando nel dormiveglia, si era affacciato nell’enorme e sontuosa sala quadrata che
costituiva la base della solida torre a strapiombo su una fertile pianura.
Per l’incontro era stato scelto quel giorno perché ci sarebbe stata luna piena. Le ombre proiettate
dal sole del pomeriggio disegnavano sul cortile centrale una figura perfettamente composta: tre
degli otto lati identici e precisi che racchiudevano la fortezza, dividevano sul suolo la luce
dall’ombra.
Al centro del salone, pavimentato con grandi lastre di marmo bianco e ricoperto di tappeti
colorati, sedeva su un morbido divano il biondo imperatore, diverso dai suoi compagni dai capelli
corvini, ma perfettamente integrato, in sintonia con loro per spirito e pensiero. Conversavano
amabilmente dell’importanza della poesia, della lingua parlata e delle scienze matematiche. I muri
partecipavano al dibattito con i loro magnifici arabeschi di lode all’Onnipotente.
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All’orizzonte in direzione di Andria, dal lato del mare, nonostante la bruma del crepuscolo
offrisse alla vista un’immagine confusa, Michele intravide un gruppo di cavalieri che si avvicinava
velocemente al galoppo. C’era anche un carro su cui, quando furono più vicini, riuscì a distinguere
sei donne, alcune delle quali erano distese. Continuavano ad avvicinarsi, ora Michele poteva sentire
il rumore degli zoccoli e le voci, ma non riusciva più a vederli, perché erano coperti dagli alberi che
orlavano l’ultimo tratto del percorso, tangente all’accesso.
«La scienza è la maggiore virtù dell’uomo, la più importante di tutte perché è riuscita a
distinguerci dagli altri esseri del creato» affermò un invitato. «È la parola, invece, scritta e orale, e
soprattutto la poesia, a dare agli uomini la tenerezza e la capacità di comprendere, che ci permettono
di elevarci al di sopra degli animali» ribatté un altro.
L’imperatore osservava attento, senza intervenire, ma prendeva nota di ogni frase e di ogni acuto
commento. La tiepida brezza primaverile agitava gli stendardi e le tende che, quasi desiderassero
prendere parte alla conversazione, producevano suoni simili agli accordi di un liuto o a dolci voci
femminili. L’intensa luce che penetrava dalle gelosie tracciava segni sul pavimento, quasi fossero
parole sulla carta.
Tra i molti compiti che gli aveva affidato il supremo, lo stupor mundi, l’essere illustre di cui era
il fedele servitore, c’era quello di trovare decotti e procedimenti per la cura di alcuni mali che
tormentavano il regno. I maestri arabi, eredi della sapienza di Avicenna, avevano portato ricette,
miscugli odorosi, erbe curative ed eruditi trattati su come usarle. Ma per Michele l’esperienza di
quel giorno aveva a che fare con qualcosa di nuovo, che non proveniva da oscuri cubicoli pieni di
alambicchi e pergamene coperte di polvere, di matracci e pietre macinate, di vapori infetti e scienze
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occulte. Era un sapere che apparteneva a gente comune, persone che non avevano misure né regole,
né tantomeno la consapevolezza del loro potere.
Federico parlò: «Cerchiamo, da sempre, di trovare un rimedio che possa sanare le pene; abbiamo
provato a trasmutare lo zolfo e lo zinco in oro, ma abbiamo perso le tracce dell’oricalco, molto più
prezioso, che tingeva di un colore igneo l’acropoli di Atlantide, le cui mura rivestite di bronzo e
stagno facevano concorrenza al sole. La scienza dell’uomo, grazie alla curiosità e a un lavoro
affannoso, ha conquistato e perduto molte cose, e lo stesso avverrà in futuro, ma la lingua, in
particolare la poesia, sotto forma di canzone amorosa, racchiude in sé unità, stabilità e armonia che
nessun’altra attività umana è in grado di raggiungere. Creerò una scuola di poeti, abbandoneremo
l’epica dei cavalieri e delle battaglie, ci dedicheremo all’amore».
Un grave male affliggeva i paesi del sud. Nelle campagne e nei fienili i contadini venivano punti
dalle tarantole che provocavano terribili rantoli e convulsioni, feroci sudorazioni e raptus di follia
collettiva. Perfino la morte. Erano tutti preoccupati, atterriti e spesso erano costretti a fuggire dalle
proprie case.
Sogno o realtà? Ricordi di dialoghi intavolati tempo prima alla corte siciliana, racconti che gli
avevano fatto dei viaggiatori o una costruzione onirica della sua mente? Michele non avrebbe
saputo dirlo.
La luna iniziò a mostrarsi, piena e intensa, le ombre si fecero più scure e la parte illuminata del
pavimento di pietra divenne più brillante. Il contrasto feriva gli occhi, la musica ebbe inizio. Al
centro del cortile ottagonale fecero stendere le tre malate, e intorno a loro formarono un girotondo.
Alcune donne presero le sofferenti sotto le ascelle per sollevarle, mentre un’altra batteva sul
tamburello accompagnata da uomini che suonavano freneticamente le chitarre, i mandolini e i
cembali per tenere lontana la morte. Altri uomini, vestiti in bianco e nero, cantavano e saltavano in
circolo al ritmo degli strumenti, sollevando alternativamente le braccia e i piedi e costringendo le
inferme a rispettare quella cadenza. A mano a mano che l’intensità aumentava, le malate
mostravano segni di un miglioramento eccitato, il pallore diminuiva e i volti si ravvivavano, madidi
di sudore sotto il riflesso lunare. I corpi si rizzavano, riprendevano forza, a poco a poco, l’intero
gruppo fu contagiato dall’allegria.
In disparte, Michele osservava, combattuto, dentro di sé, tra ragione e credulità.
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Era abituato ad analizzare i dati in modo rigoroso, cercando di trovarvi leggi e sequenze
ripetibili. Quella danza profana, irrazionale, sfrenata, non aveva niente a che vedere con i suoi
codici e unguenti, né con le storte, crogioli accesi gorgoglianti di zolfo e mercurio o con le pietre
filosofali.
Però loro stavano guarendo e lui era sveglio.
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Napoli, 1870 d.C.
Nella fossa il calore diminuiva lentamente, il suolo bianchiccio e polveroso permetteva già di
avvicinarsi alla bocca di fusione. Il procedimento era stato portato a termine con estrema cautela,
evitando in ogni modo i bruschi sbalzi di temperatura.
L’officina della fonderia era stata da poco allestita in uno spazio al piano terra del Real Albergo
dei Poveri.
Gennaro concepiva il suo lavoro come un’arte industriale e istruttiva; era convinto che le sue
creazioni, pur non avendo la nobiltà delle opere originali e spontanee nate dal genio di un artista,
avevano con quelle un’enorme affinità. Erano il miracoloso risultato di un lavoro così solerte e
sapiente, e di un tale senso di comunione che, se non fosse stato per la quantità di riproduzioni che
si realizzavano di ogni oggetto, anche la fusione sarebbe stata considerata una vera e propria arte.
Soprattutto nelle piccole botteghe dove singoli artigiani lavoravano gomito a gomito e in piena
sintonia con l’artista. “Non è più l’arte che si prostituisce all’industria, ma l’industria che si
perfeziona e si nobilita grazie all’arte” così rifletteva. È per questo che aveva voluto a tutti i costi
installarsi nell’Albergo, perché anche lì c’era una volontà didattica e lui, con le sue conoscenze,
avrebbe potuto insegnare il mestiere a tutti gli allievi che avevano voglia di impararlo. La sua
scuola era stata l’Accademia delle belle arti, i suoi maestri gli artisti del mondo classico e,
naturalmente, Cellini e i rinascimentali; tra quelli in carne e ossa senz’altro Pietro che, nonostante
fosse anziano, aveva ancora molto da insegnare. Era stato proprio lui a incoraggiarlo ad aprire una
bottega, la sua fonderia artistica e accademica. Così Gennaro aveva allestito, in quegli ampi locali, i
diversi ambienti necessari a portare a termine il procedimento della fusione del bronzo e alla sua
perfetta finitura, e aveva convocato un buon numero di artigiani e di artisti che in passato avevano
lavorato con il suo mentore. Sarebbe stato allievo, maestro e direttore.
Da più di un secolo erano iniziati i lavori di scavo a Pompei ed Ercolano, due città sepolte dal
vulcano nel 79 d.C.; all’inizio senza molto rigore scientifico, poi, a poco a poco, cercando di
rispettare i principi dell’archeologia, una disciplina agli inizi e ancora in via di definizione.
Il re Carlo delle Due Sicilie e i suoi successori vivevano questo momento storico con interesse e
passione, era una priorità dello Stato, e anche personale, di tutti e di ciascuno, continuare gli scavi.
Lentamente vennero predisposti spazi dove esporre le opere d’arte e gli oggetti ritrovati, nacque
infatti prima un museo a Portici e poi uno a Napoli. Si discuteva animatamente sul da farsi, gli
addetti ai lavori avanzavano opinioni opposte e proponevano soluzioni, a volte, improvvisate; altre
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volte, tuttavia, grazie a un’idea felice, si riusciva a preservare in modo corretto i manufatti. Il suo
maestro aveva partecipato ad alcuni di questi dibattiti e aveva contribuito a trovare soluzioni
assieme ai dotti e scrupolosi professori della corte. Tra le altre cose fu introdotta la tecnica di
riempire con il gesso le sagome dei corpi trovati a Pompei, e così tutti poterono vedere, con
sgomento, i terribili segni del dolore patito dagli abitanti. La stessa tecnica venne usata anche per
uno scopo meno macabro e più produttivo: copiare le magnifiche sculture ritrovate sotto la lava.
Questo patrimonio straordinario, un vero e proprio capitale, fu il germe da cui scaturirono tutte le
successive creazioni di Pietro, di Gennaro e degli altri suoi discepoli.
Gli apprendisti iniziarono a demolire il mantello di terra refrattaria, l’informe massa ovoidale che
nascondeva l’oggetto appena fuso. A poco a poco comparvero i lunghi chiodi di metallo che erano
serviti per fissare e far respirare la colata. I cannelli di fuoriuscita e i distanziatori sarebbero stati
rimossi in un secondo momento, con grande cautela. Questo compito delicato poteva essere portato
a termine solo dal maestro; era la sua impronta e la sua firma d’autore. In questo consisteva
l’eccellenza della sua arte e della sua identità creativa. La sublime scultura che in quel momento
stavano riproducendo era stata ritrovata circa quarant’anni prima tra le rovine di un’incredibile villa
pompeiana. Quell’opera squisita rappresentava un fauno, un satiro o più probabilmente lo stesso dio
Dioniso.
Intorno al milleottocento e nei decenni successivi molti studiosi europei erano accorsi a Pompei
e a Ercolano, attratti dall’ambizione di svelare, prima di altri, le meraviglie sepolte in quelle città.
Tra questi, alcuni archeologi tedeschi, scavando con delicatezza nella lava del Vesuvio, avevano
riportato alla luce un’enorme e sontuosa casa di circa tremila metri quadrati di superficie. Nella
zona nobile, ad abbellire un piccolo e proporzionato impluvio, c’era un’impressionante statua, di
piccole dimensioni ma dotata di una grazia singolare e magnificamente modellata. Attribuita a
qualche antico e qualificato artista greco o romano, ostentava una posa leggiadra e delicata, con le
due mani nell’identica posizione: i pollici, gli indici e i medi rivolti verso il cielo, e l’anulare e il
mignolo ripiegati, in un gesto mistico che ricordava le antiche immagini delle divinità indù.
La rigidità del bronzo non impediva alla graziosa e scattante figura di alternare i piedi e le
braccia in un movimento libero, sollevandoli in un passo di danza ben calibrato, forte e giovanile. Il
corpo completamente nudo, sorta di icona iniziatica primitiva, la testa coronata di alloro e ornata da
due piccoli corni e una coda caprina, che ne accentuavano la natura zoomorfa, fecero sì che la
notizia di questa folgorante scoperta si diffondesse, alla velocità del lampo, nei cenacoli di tutta
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l’Europa. E la sua fama e il suo successo furono tali che, sebbene a differenza di altri fauni e satiri
trovati in precedenza non avesse un aspetto licenzioso e libertino, suscitò nei collezionisti un
intenso desiderio di possesso.
Le richieste di riproduzioni non si contavano, Gennaro e i suoi assistenti facevano fatica a
portare a termine tutte le commesse. I suoi migliori apprendisti, ormai quasi esimi maestri, gli
avvicinarono l’oggetto appena fuso, ancora sporco di resti di materiale friabile, pieno di sbavature
di bronzo, opaco, rugoso e per certi versi repellente. L' osservò con attenzione. “Devo trasformare
questa mostruosità in bellezza”.
Trascorse giornate intere nel nuovo museo in compagnia di Teresa e Vincenzo, due dei suoi
migliori discepoli, per realizzare bozzetti e disegni dell’originale che avrebbero dovuto riprodurre.
Grazie a una decisione illuminata ed encomiabile dei re delle Due Sicilie, anche le orfanelle
dell’Albergo potevano ricevere un’istruzione e imparare, tra le altre cose, i segreti della delicata
tessitura della seta, la raffinata lavorazione della porcellana nelle botteghe di Capodimonte o, come
in questo caso, a cesellare sculture di bronzo. Teresa era una di loro; studiosa e metodica, aveva
manifestato da subito le sue non comuni doti artistiche. Gennaro lo aveva capito appena aveva
iniziato a lavorare nel laboratorio e le aveva affidato, giorno dopo giorno, nuove sfide, che lei aveva
onorato con dedizione e talento. Vincenzo, invece, un apprendista di ventidue anni, era arrivato a
Napoli da Casanova, un piccolo paese confinante con la magnifica Reggia borbonica di Caserta. Un
viaggio del genere a quei tempi era una vera e propria migrazione e ci voleva un gran coraggio.
Napoli, seppur distante circa venticinque chilometri da casa sua, era un altro mondo. Era partito con
la sua unica ricchezza, una chitarra, da quel paesino ai piedi del monte Tifata, dove sul pendio
orientale, in un tempo lontano, era stato edificato il tempio di Giove Tifatinatus, della cui esistenza
rimanevano tracce solo nella Tabula Peutingeriana, la famosa carta stradale di epoca romana, e nel
vecchio nome del suo paese, Casajovis, porta e casa di Giove, di Zeus il più grande, il padre di tutti
gli dei.
L’accesso al museo era limitato, bisognava chiedere con settimane di anticipo un permesso che
non sempre veniva concesso. La vittoria dei Savoia sui Borbone aveva cambiato le cose, talvolta in
peggio. Ma Gennaro, che era apprezzato per la sua maestria e aveva accesso ai depositi e alle
botteghe, fu accolto cordialmente. Era di casa, e gli diedero appuntamento per il lunedì prima della
Settimana Santa.
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Negli anni passati, durante il regno dei Borbone, le opere recuperate negli scavi che erano state
giudicate oscene erano state messe sotto chiave nel Gabinetto Segreto ed era possibile vederle solo
con una speciale autorizzazione: chi aveva un atteggiamento troppo licenzioso o al contrario
sembrava troppo sensibile non poteva entrare, la decisione spettava al custode che deteneva le
chiavi. Per nessuna ragione al mondo avrebbero consentito a una donna di entrare in quel luogo di
perdizione. Pertanto, per ordine del professor Giuseppe, il direttore, gli unici ammessi a vedere il
fauno furono Gennaro e Vincenzo, accompagnati da Goffredo, esperto di calotipia, una tecnica
recente che permetteva di riprodurre un oggetto, stampandone l’immagine su carta sensibile. Teresa,
invece, piangendo di rabbia per l’esclusione, fu costretta a restare fuori a copiare oggetti decorativi
conservati nelle altre sale.
Nel rivedere il dio danzante, avvertirono di nuovo il suo magnetismo, osservarono rapiti lo
sguardo provocante e seducente, il corpo perfetto ed elastico, che con fare disinibito si muoveva
verso di loro. Era il dio che aveva insegnato agli uomini l’agricoltura, che aveva portato ovunque i
germogli della vite e la cultura del vino, il dio implorato da re Mida affinché lo liberasse
dall’insensato desiderio di trasformare tutto ciò che toccava in oro, ma anche il dio che un giorno
aveva visto proibire gli sfrenati baccanali che si celebravano in suo onore. Tuttavia, nonostante il
divieto, i paesi del Sud d’Italia avevano continuato a rendergli omaggio. Il dio rinato da Zeus, dopo
essere stato squartato dai titani, il dio della follia ma anche della sregolata creatività.
La scultura era così bella, che l’enorme casa in cui era stata trovata, dal momento che non se ne
conosceva il vero proprietario, era stata attribuita a lui, a Dioniso, e da quel momento era stata
chiamata “La Casa del Fauno”.
I due artisti osservarono la statua da tutti i punti di vista, fin nei minimi dettagli, poi la
disegnarono, mentre Goffredo otteneva riproduzioni dei singoli particolari utilizzando la moderna
calotipia. Notarono la patina verde scura e le macchie di calcare, chiaro segno che la statua era stata
esposta agli acidi solforosi al momento dell’eruzione del vulcano. Il processo di ossidazione del
bronzo deformava alcuni volumi, ma le dava un’aria suggestiva, il marchio indelebile della sua
storia.
Quando uscirono dal Gabinetto Segreto, trovarono Teresa un poco più serena, ma Vincenzo,
commosso, le si avvicinò e le sorrise affettuosamente per esprimerle la sua solidarietà. Era ingiusto
che non l’avessero lasciata entrare, dal momento che sarebbero state le sue mani abili con lo
scalpello a riprodurre i più delicati e sottili dettagli dell’opera artistica. Teresa lo ringraziò per il
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gesto e ricambiò il sorriso. Tra loro c’era del tenero fin da quando si erano conosciuti, sebbene non
fosse mai successo niente.
Per raggiungere la scuola dal museo, che si trovava ai piedi della collina di Materdei, si scendeva
per un’ampia strada selciata, fiancheggiata da botteghe e laboratori di artigiani e artisti d’ogni tipo,
nonché venditori ambulanti di innumerevoli squisitezze, frutta, pizze fritte, sfogliatelle e caffè;
tentazioni irresistibili. Entusiasti di quello che avevano visto, camminarono accompagnati dalla
musica degli organetti, dalle risate e dalle grida di coloro che vendevano delizie.
A un tratto sentirono gridare: «Fratelli, venite a vedere!» e si fermarono. I pescatori di
Mergellina, vestiti di bianco e azzurro, giravano per le strade, chiamando a gran voce la gente del
vicinato e facendo la questua per Pasqua. Dai balconi, dove spuntavano facce pietose, calavano
rapidi cesti legati a una corda con dentro monete e altri oboli. I fujénti, in frotta, scendevano scalzi
da Santa Anastasia ai piedi del Vesuvio, accompagnati da una folla di penitenti in processione. I
dodici portatori, divisi in due file, tenevano poggiati sulle spalle i robusti pali di legno che
sorreggevano la base dell’immagine sacra racchiusa in una bella cornice dorata. Davanti, uno di
loro teneva con le mani le estremità dei due pali di castagno e guidava il gruppo camminando
all’indietro e dando il ritmo. Cantavano e facevano ballare l’immagine della Vergine con le loro
pertiche azzurre, rosse e dorate a un ritmo cadenzato, dondolandola da un lato all’altro come una
nave cullata dalle onde. I piedi scalzi non evitavano le pozze d’acqua né le irregolarità del selciato.
Trombe, trombette e piatti riempivano l’aria e voci potenti ripetevano in coro: «Madonna dell’Arco,
sì, Madonna ‘ell’Arco…». I fonditori rimasero a bocca aperta dinanzi a quello spettacolo. Erano
ancora assorti nei loro pensieri per la visita al museo, e quella irruzione tumultuosa, tra il sacro e il
profano, li riportò alla realtà. “Buon segno” pensò Vincenzo.
Allontanatisi da quella baraonda umana, continuarono a camminare e, una volta superato il
meraviglioso orto botanico, famoso per le innumerevoli specie di piante fatte arrivare da tutto il
mondo, giunsero a destinazione. In quella passeggiata lenta e piacevole, rinfrescata da una dolce
brezza, Vincenzo e Teresa si erano tenuti per mano e si erano sentiti più vicini. Quando se ne
accorse, Gennaro sorrise e in cuor suo diede alla coppia la sua benedizione.
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Bologna, dintorni di Napoli e Buenos Aires,
fine secolo XX e inizio del secolo XXI D.C.
Bologna, 1960
Franca e Gino avevano superato le nozze di bronzo da un bel pezzo. L’anniversario di
quest’anno, quarant’anni di matrimonio, forse non aveva una connotazione numerica significativa,
ma aveva un grande valore emotivo per entrambi. Franca aveva subito un penoso e inatteso
intervento chirurgico, ma ora stavano entrambi bene, si erano ripresi dallo shock dell’operazione,
così avevano deciso di rinnovare i voti del loro tenace e romantico amore facendo finalmente quel
viaggio al Sud che avevano sempre rimandato. Era come una seconda gioventù. Partirono una
mattina di primavera da Bologna, la loro casa, il loro rifugio. Erano andati in pensione da poco,
avevano insegnato storia all’università per tutta la vita, erano sopravvissuti alla guerra assieme e
tuttavia erano ancora molte le cose che non conoscevano del loro paese. In quel periodo l’Italia
stava rinascendo dalle ceneri e dal dolore, c’erano segnali di ripresa economica e soprattutto molta
voglia di vivere.
Il treno arrivò a Napoli Centrale alle dieci e trenta di mattina. Da lì, cercando di evitare il
frastuono e la folla – quella sua molteplicità di fisionomie e di lingue suscitava in loro un senso di
spaesamento –, ascoltando la musica dei mandolini e assaporando un piacevole odore di caffè, si
diressero alla stazione della Circumvesuviana da dove sarebbero partiti per Pompei.
Avevano deciso di iniziare il viaggio dalla città sepolta dal vulcano, che era sempre stata la loro
meta principale. Le avventure che avevano sognato da giovani approdavano costantemente in quel
luogo magico. Avevano imparato a conoscerlo nei libri, ma ora, per placare il desiderio, dovevano
viverlo con tutti e cinque i sensi.
La stazione di Pompei era poco più grande di una casa, zeppa di comitive di turisti provenienti
da tutte le parti del mondo, venditori di cianfrusaglie e un manipolo variopinto di guide che
dicevano di conoscere le lingue e offrivano i loro servigi presentandosi come gli unici esperti dei
segreti delle rovine. Non accettarono aiuti, volevano andarsene in giro da soli, nell’intimità religiosa
delle loro sensazioni. Solo da poco, dopo i recenti scavi, la città era stata riaperta al pubblico:
l’interesse era crescente, c’era una grande affluenza di viaggiatori da tutto il mondo, delegazioni
ufficiali, gruppi di studiosi, famiglie interessate a conoscere i tesori che erano stati riportati alla
luce.
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«La guerra ha lasciato un retaggio terribile, ma ora Pompei si sta svegliando e sta svegliando
l’Italia, troppo a lungo sepolta sotto una pesante coltre di lava. Stiamo ricominciando a vivere»
rifletté Franca a voce alta, con la tacita approvazione di Gino.
Iniziarono l’itinerario da Porta Marina. Tale era l’imponenza delle proporzioni che entrambi,
calati nelle reali dimensioni della città, si sentirono infinitamente piccoli. Dalla piantina non era
possibile, in nessun modo, farsi un’idea dell’estensione delle rovine. «Forse non ce la faremo a
vederla tutta in un giorno» commentò Gino. Decisero di fare le cose con calma e prendersi il tempo
necessario. Ad ogni modo erano liberi, non avevano fretta né scadenze da rispettare. Era comunque
una sensazione da custodire con cura: la terza giovinezza, i figli già grandi e ormai indipendenti, la
salute e soprattutto, la voglia di condividere una nuova vita, vivendola come fosse un gioco.
Le case scavate accessibili al pubblico non erano tante, in compenso c’erano molti monumenti
grandiosi. Percorsero tutta via Marina fino ad arrivare alla grande distesa verde dell’area del foro.
Alla loro sinistra si offriva loro uno spettacolo commovente: il profilo della statua di Apollo
incorniciato dal Vesuvio. Era così vicino, pensarono, che se ci fosse stata un’eruzione non sarebbero
riusciti a scappare. Non avrebbero avuto scampo. Franca scacciò via questo pensiero e commentò:
«I sacerdoti ellenici di Apollo e il centauro Chirone insegnarono ad Asclepio, il padre della
medicina, l’arte della cura. Penso che non ci sia luogo più significativo di questo tempio per iniziare
il nostro percorso». Gino sorrise: «Anche oggi la medicina ha qualcosa di magico. Forse è stato
Chirone in persona a curarti!» e risero della loro scarsa fiducia nelle tecniche di diagnosi moderne.
C’erano state complicazioni e una grande incertezza nelle consultazioni con le varie “eminenze”,
cosa che aveva accresciuto il loro scetticismo.
Il Foro poteva essere attraversato facilmente: il terreno era ricoperto d’erba e qua e là spuntavano
rossi papaveri selvatici. Seduti su un piedistallo di marmo solitario al centro dello spiazzo, avevano
di fronte a loro la cosiddetta via dell’Abbondanza, l’antico decumano massimo; avrebbero voluto
visitarlo, ma il vento che soffiava dal mare li spinse fino all’estremità più stretta del foro. Erano
come attratti dal Vesuvio. Si inoltrarono in una stradina sassosa, delimitata da rovine che non si
potevano visitare; spiarono all’interno dei muri fatiscenti, attraverso spiragli furtivi, penetrando con
l’immaginazione, e senza permesso, nella più profonda intimità degli abitanti, ancora presenti. Alla
fine della viuzza, furono guidati da una mano invisibile verso una porta, aperta per loro, su cui non
c’era nessuna indicazione, e finalmente varcarono il limite, la soglia.
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“Have”. Sul pavimento la scritta a mosaico, composta da sottili tessere di marmo rosso, verde,
giallo e rosato, indicava la volontà dei padroni di casa di offrire ai visitatori meravigliose sorprese
da scoprire. I lari familiari, ai due lati del vestibolo, sembravano approvare l’arrivo degli invitati.
Franca avvertì quelle presenze con un brivido e prese la mano di Gino in segno di affetto ma
anche per ritrovare la calma.
Grande fu la loro meraviglia quando si resero conto che il vestibolo li conduceva un’altra volta
in uno spazio scoperto. L’atrio che si trovarono di fronte in passato doveva aver avuto un tetto
splendidamente decorato, che però ora non esisteva più; ciò nonostante si intuiva chiaramente che
nell’antichità doveva essere uno spazio raccolto, intimo, dominato da un impluvio al cui centro
spiccava la statua di un satiro immortalato mentre balla, un fauno danzante; una figura impudente,
allegra e festosa che li accolse calorosamente. Quando la videro, marito e moglie sorrisero.
Si sedettero a un lato del recinto, per poter osservare meglio i dettagli della statua. Il materiale
con cui era fatta faceva risaltare la resa dinamica del movimento; il bronzo non era lucido come
quello delle altre sculture che avevano già visto, era opaco, grigio verdastro, tendente al marrone:
«È come se avesse delle rughe, sono le cicatrici che la vita che gli ha lasciato» commentò Franca.
«Quante mani e quante storie sono passate di qui».
Fecero pochi passi e dopo aver attraversato un secondo peristilio, si affacciarono su un’esedra
fiancheggiata da due larghe colonne, sul cui pavimento ammirarono, estasiati, un mosaico
eccezionale: migliaia di tessere di vari e precisi colori che rappresentavano la lotta feroce tra Dario
il Persiano e Alessandro Magno, i loro sguardi intensi, le lance in resta, la calca dei feroci cavalli
mori. Era la celebre battaglia di Isso che aveva cambiato il corso della storia. E a quella vista i due
viaggiatori avvertirono qualcosa di strano che all’inizio non riuscirono a decifrare. Un attimo dopo
si resero conto che non era timore, ma un intenso piacere sensuale.
Esausti, dopo aver camminato per ore, uscirono dall’edificio cercando un posto dove riposare e
mangiare. Nei dintorni degli scavi c’era una gran varietà di locande e pensioni; scelsero quella che
suscitava la maggiore empatia. In quella passeggiata pomeridiana, anche se forse non erano riusciti
ad apprezzarlo pienamente, si erano sentiti di nuovo giovani, come due studenti che se ne vanno in
giro innamorati e senza pensieri.
Ordinarono due pizze margherite e brindarono alla loro avventura con un vino rosso, la
“Lacryma Christi del Vesuvio”, come spiegò l’oste. Risero quando ricordarono di averlo già sentito
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nominare al cinema e nei libri. «Speriamo che la nostra mente non si perda in strane fantasie» disse
Gino, e Franca, maliziosa, replicò: «E perché no?».
Prima di andare a dormire, furono presi da una smania elettrizzante: non volevano perdere niente
di ciò che avveniva in quel posto magico e così uscirono di nuovo. I chioschi ambulanti offrivano di
tutto, il clima caldo rendeva la gente allegra e tumultuosa, si sentiva una musica da ballo, la guerra
era finita una volta per tutte, la vita rinasceva come i germogli sugli alberi.
Una porta semiaperta e illuminata dal chiarore interno destò la loro curiosità: un anziano
continuava a lavorare assorto nel suo compito, come se al mondo non esistesse altro. Si sorpresero
molto nel vedere che l’uomo stava lavorando a un oggetto che era una perfetta riproduzione, anche
se di dimensioni ridotte, di quel particolare fauno che avevano visto tra le rovine. Entrarono ed egli
sollevò lo sguardo dal suo lavoro accogliendoli con : «Buonasera, entrate prego, siete i benvenuti».
Si avvicinarono timidamente, cercando di non far svanire, con la loro presenza, quel clima magico.
«Da anni mi dedico a riprodurre quella statua, sono bronzista e fonditore, ho già realizzato
novantanove copie di questa affascinante figura. Non le ripulisco, lascio il colore verde pompeiano,
si chiama così, perché così era l’originale che gli archeologi riportarono alla luce dopo che per
ottocento anni era rimasto sepolto sotto la lava». Gli amanti, perché si sentivano di nuovo amanti,
rimasero a guardare con ammirazione l’artista che rifiniva ogni minimo particolare con finezza e
dedizione.
«Se è possibile, vorremmo comprare una delle sue riproduzioni. Questo viaggio per noi è una
sorta di rinascita, e questa statua è il segno che dobbiamo ricominciare a considerare la vita una
festa» disse Gino in preda all’emozione. Un attimo dopo ricevette quella magnifica figura dalle
mani del suo autore e la donò alla sua amata.
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Caserta, inizio agosto del 2002
Angelina aveva assegnato i posti a tavola: «Qua Anima; qua Marta…»; a Raffaele non disse
niente, lui aveva il suo posto fisso da sempre.
Marta e Angelina si sedettero dalla parte della cucina per poter dare una mano nel via vai di
piatti e posate. La televisione, rumore di fondo onnipresente, monologo senza ascoltatori,
trasmetteva Amici, il programma condotto da Maria de Filippi, nota per la sua voce roca e
inconfondibile. Primo piatto, pasta, solo il primo per cena, contorno di verdure, vino della casa, un
grossa pagnotta fatta con il lievito madre, frutta estiva.
Il calore era intenso, la maggior parte degli italiani era in vacanza. Difficilmente Alma sarebbe
riuscita a trovare quello che era venuta a cercare.
Inquieta com’era, date le circostanze, non capiva che al momento non poteva fare nulla, solo
aspettare. Un'attesa esasperante per chi già da una settimana aveva lasciato a Buenos Aires, nel bel
mezzo di una spaventosa crisi economica, tutta la famiglia. Una bambina di sette anni, i figli
maggiori e il marito aspettavano sue notizie per svuotare la casa e raggiungerla in Italia. Ma anche
Alma era in una situazione difficile e rischiava di dover tornare in un’Argentina infuocata.
«Domattina ci alziamo presto: bisogna fare i pomodori». Raffaele lo disse come un ordine, una
convocazione obbligatoria per tutti, ma nessuno lo sentì come un’imposizione.
«Anche io?» chiese Alma.
«Sì, Anima, anche tu» disse Raffaele.
Di che si trattava? Alma cercava di capire cosa le stavano proponendo, ossessionata dal pensiero
di trovare lavoro, un posto nuovo dove rinascere dopo la catastrofe. Le spiegarono che un camion
aveva portato cinque quintali di “San Marzano”, pregiati pomodori provenienti dall’Agro
Sarnese-Nocerino, i migliori, a denominazione di origine protetta, che in quel periodo dell’anno
avevano raggiunto la completa maturità ed erano ideali per la passata di pomodoro casalinga. Tutti
dovevano lavorare per produrne abbastanza da farla durare tutto l’anno, e magari un po’ di più, per
regalarla ai parenti di Milano che, poveretti, non potevano godersi quella gloriosa passata.
Sarebbero venuti anche i vicini a dare una mano, perché era un lavoraccio e bisognava andare
avanti fino a sera.
La stanza in cui dormiva Alma era quella in cui aveva vissuto suo cugino prima di sposarsi. Si
trovava, al primo piano, accanto alla stanza di Marta. La persiana di legno non veniva mai abbassata
del tutto per lasciar passare l’aria: non c’erano ventilatori né aria condizionata nella vecchia casa di
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corte, enorme, maestosa nel suo classicismo. Dalle alte finestre semiaperte entrava la luce dell’alba,
le tende di voile bianco oscillavano per la brezza serena. Anche se si era in piena estate, c’era un
clima mite, senza grossi sbalzi: non c’erano tormente improvvise, né acquazzoni tremendi.
Casagiove si trova “nel ventre della vacca”, la zona del mezzogiorno italiano che, quando
l’anticiclone delle Azzorre si ferma nell’Atlantico, ne sfrutta i vantaggi. Era previsto un giorno
caldo e sereno, con un cielo sgombro e una leggera brezza, uguale al giorno precedente e a quello
successivo.
Dal piano terra giungevano rumori insoliti per quell’ora mattutina: bottiglie che cozzavano, un
gran brusio di voci, il campanello che suonava, il portone che si apriva, le macchine che
arrivavano… Alma si alzò, indossò il vestito di seta azzurra che le aveva regalato Angelina, sistemò
rapidamente la stanza e scese. Nella cucina c’era già il caffè con i biscotti di mandorle; intanto era
arrivata Maria, la sorella di Angelina, appena lei era tornata dalla messa del mattino, ed insieme si
misero a preparare la colazione. Alma divise la seconda caffettiera con Marta, che stava per andare
a lavoro, e intanto ascoltava Angelina e Maria che organizzavano la giornata. La lingua parlata
casertana, variante di quella napoletana, era difficile da comprendere, soprattutto quando le due
donne parlavano tra di loro, in modo rapidissimo. Alcune parole, ‘ncoppa, annànze, areto, le capiva
bene, ma il suo buon italiano si scontrava con quel dialetto locale che pure doveva essere iscritto nel
suo DNA. Era la lingua dei suoi nonni, questa cosa non la poteva dimenticare.
In giardino c’erano già Ciccio e Raffaele che disponevano le bottiglie vuote da lavare – erano
davvero tante! –, prendevano dalla cantina recipienti di plastica e la pompa e sistemavano le casse
di pomodori e basilico. Avevano già tirato fuori le quattro auto di famiglia che di notte sostavano
nel cortile della casa. Era un caso unico quella casa ancestrale, costruita dalla zia Bettina, sorella
della sua bisnonna, all’inizio del Novecento e successivamente ereditata dai nipoti adottivi. La casa
aveva conservato la purezza del suo stile, come la famiglia che la abitava; erano stati proprio quello
spirito, quella devozione nei confronti dei suoi antenati a permettere Alma a reinserirsi. Altre case
di corte del paese avevano ancora la facciata originaria, ma all’interno erano state alterate e offese
da interventi estemporanei e stonati. Alma, che amava l’architettura, soffriva per quegli obbrobri.
Ma nella casa di Raffaele e Ciccio questo non era successo, i suoi parenti avevano incorporato
strutture contemporanee per renderla più confortevole, senza intaccarne le proporzioni spaziali,
l’equilibrio e l’armonia.
Alma guardò il cielo terso, il sole radioso e pensò al cielo mattutino di Buenos Aires. In quel
momento in Argentina erano le tre del mattino? Sì, perché nell’estate italiana, con l’ora legale
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c’erano cinque ore di differenza, mentre dall’altro lato dell’Atlantico, nell’emisfero sud, era
inverno. Immaginò lo stesso il marito che guardava le stelle e la raggiungeva attraverso quella rete
immaginaria di nodi sfavillanti.
Provava un profondo senso di spaesamento. La calma casertana non riusciva a dissipare il
ricordo del tumulto di Buenos Aires, la crisi, la gente che protestava per strada battendo sulle
pentole e picchiando alle porte delle banche. Quelle immagini erano ancora così vive e dolorose che
sentendo Raffaele che la invitava a prendere parte al lavoro, aveva la sensazione di essere stata
trasportata non da un aereo, da un aeroporto all’altro, ma da una macchina del tempo che l’aveva
catapultata indietro di anni o di secoli, in una nuova dimensione in cui le ore scorrevano più
lentamente. E sia, passeremo i prossimi due giorni a preparare la passata di pomodoro, e i vicini ci
aiuteranno per solidarietà!
Cominciarono a lavorare subito. Bisognava lavare trecento bottiglie usate, cinque quintali di
pomodori ed enormi mazzi di basilico. Seduta su una sedia bassa nel grande cortile lastricato, Alma,
che qui tutti chiamavano Anima, doveva pulire le bottiglie con l’aiuto di uno spazzolone. Ogni
bottiglia andava lavata a fondo, esternamente e internamente, con la spazzola e l’acqua fredda,
quasi gelata, che sgorgava dalla canna, e poi immersa in uno dei recipienti di plastica che si
andavano accumulando, in bell’ordine, intorno a lei. Era seduta con la pompa appoggiata sulle
gambe aperte: con una mano manteneva una bottiglia dal collo lungo e con l’altra la spazzola per
pulirla; immergeva le mani nell’acqua fresca, che scorreva come un piccolo torrente dalla pompa. I
pensieri si succedevano, e come per magia l’eco delle immagini di Buenos Aires fluiva via insieme
all’acqua e faceva la sua comparsa un nuovo spazio-tempo sereno, lento, in cui quelle bottiglie, i
pomodori, le voci e quel gruppo di persone indaffarate e serene, che lavoravano assieme e
dividevano tutto, erano il presente.
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Costa del mar Ionio, 10 agosto 2003
Finalmente erano tutti assieme, la famiglia si era riunita. Era la prima estate in esilio.
La notte calava sul mare, dopo un tramonto degno di un’opera lirica. Dalla terrazza si vedeva la
molle vaghezza della costa, illuminata solo dalle luci dei paesi vicini.
Era un profondo spazio nero, intervallato qua e là dalle esplosioni rumorose, colorate e
interminabili dei fuochi d’artificio. A sinistra, Torre Colimena; a destra, San Pietro in Bevagna,
terra di sbarco del santo apostolo che portava la parola di Gesù.
Era la festa dell’amore e del ricongiungimento familiare. Sulla spiaggia, per chilometri, gruppi di
persone dalle voci festose preparavano la brace.
La notte calda li avvolgeva dolcemente, i tre si stesero supini sulla sabbia, ancora tiepida per il
sole, e guardarono il cielo.
L’incantesimo iniziò quando videro la prima stella cadente, poi una seconda e una terza. I
desideri si moltiplicarono e anche la meraviglia dinanzi a quello spettacolo. Le Perseidi erano
venute a salutarli, dandogli il benvenuto nell’emisfero nord. Il ciclo magico del semidio olimpico
tornava a ripetersi, la stella argentata del suo seme si spargeva nel firmamento cercando la bella
Danae, la terra, per fecondarla.
Sta nuttata ´e sentimento nun é fatta pe´durmí. Alla vigilia di San Lorenzo ebbero voglia, dinanzi a
tanta bellezza, di inginocchiarsi e rendere grazie con la fronte a terra.
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Napoli e Roma, 2006
Alma e Rosa erano diventate amiche grazie alla posta. In cerca di annunci di lavoro, da quando
era arrivata in Italia da Buenos Aires, nel 2002, Alma aveva girato diversi posti dove sperava di
trovare un impiego o stabilire nuove relazioni e alla fine era approdata nel laboratorio di un’artista
sensibile che le aveva offerto riparo. Lì si dipingeva, si decoravano oggetti di ceramica, tessuti e
vitreaux che poi venivano messi in vendita.
Un giorno aveva ricevuto una richiesta singolare. «Una signora è in contatto mail con un cugino
di Buenos Aires, ma i due non riescono a capirsi. Potresti fare da traduttrice?». Così era iniziata
l’amicizia, quasi letteraria, tra le due donne. Alma aveva cercato di essere il più oggettiva e fedele
possibile in quello scambio da una parte all’altra dell’oceano tra cugini di primo grado che non si
erano mai visti.
Dopo un po’, Rosa aveva smesso di essere solo una presenza virtuale e avevano iniziato a
frequentarsi e a condividere uscite, conversazioni, gusti e interessi. La sensibilità e la squisita
generosità di Rosa furono un balsamo per l’anima di una donna che combatteva con lo spaesamento
causato dall’esilio. D’altra parte Alma aveva portato alla nuova amica una ventata d’aria fresca
proveniente dal suo mondo lontano, novità contraddittorie e perfino un senso di libertà.
Durante uno dei molti dialoghi sull’arte, l’architettura e la storia, Rosa la invitò a conoscere un
luogo rimasto come incagliato nel passato: una fonderia artistica di bronzo nei dintorni di Napoli,
che aveva più di centocinquanta anni e dove si lavorava ancora il metallo alla maniera classica,
mediante la fusione a cera persa. I proprietari, pur non essendo i fondatori, amavano il proprio
lavoro proprio come quelli e lottavano strenuamente contro le avversità del mondo e l’economia
reale. Era un luogo unico e incantato, un enorme capannone strapieno di scaffali, affollato di calchi
di gesso a grandezza naturale di sculture superbe che loro, come un esercito assediato, difendevano,
nella speranza di sottrarle all’oblio.
Passeggiando per i corridoi si imbatterono, come se fosse una cosa normale, nel Mosè e nella
Pietà di Michelangelo divisi in due, distesi con estrema cura su podi di legno, e trovarono, come
fossero vecchi amici, diversi busti di imperatori o matrone romane in diverse fasi di elaborazione,
così come il magnifico gruppo scultoreo del Toro Farnese o le delicate figure della Villa dei Papiri
di Ercolano.
Artigiani di grande esperienza e abilità erano impegnati nelle diverse fasi del processo
produttivo, per far fronte alle richieste che arrivavano da tutte parti del mondo. Governi, re,
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milionari, sceicchi acquistavano riproduzioni di quei tesori dell’umanità, che pertanto dovevano
provenire da mani migliori. C’era chi spennellava con la cera rossa le concavità di un calco della
Vittoria alata di Samotracia, chi si affannava a staccare con estrema cura, usando scalpelli, seghe e
lime, i resti della fusione dalle due metà di un’effigie di papa Wojtila. In un altro laboratorio altri
ancora saldavano le parti già fuse, lasciando emergere finalmente la totalità di quei pezzi magnifici.
In un grande stanzone sgombro, sul pavimento ricoperto di polvere biancastra, c’era il fosso
dove venivano sistemati gli stampi pronti ad accogliere la colata di bronzo. Un supporto basculante
sosteneva l’enorme crogiolo incandescente e pieno di metallo fuso. Gli operai, con guanti e vestiti
isolanti, lavoravano con lunghe tenaglie, manipolavano gli elementi con maestria e diligenza, come
se stessero accordando strumenti musicali.
Erano concentrati, ma al tempo stesso sereni. Amavano il loro lavoro, la gioia era palpabile, e
Alma ne fu commossa. Non aveva mai visto niente di simile, mai un ambiente lavorativo, quasi
industriale, le aveva trasmesso un tale senso di sacralità. Forse era successo solo un’altra volta,
ricordò di aver provato una sensazione simile da ragazza in un cantiere navale a San Isidro, in
Argentina.
Annunciarono che il treno diretto per Roma era in partenza dal binario tre della stazione di
Caserta. Alma teneva in mano una cassa di legno, un ingombrante parallelepipedo che sembrava
contenere un gioiello o un oggetto prezioso. Però il formato, cinquanta centimetri di altezza e una
base quadrata di circa venti centimetri per lato, suggeriva un contenuto particolare. Poteva ricordare
una bottiglia di spumante, e invece no, nella cassa c’era una meticolosa riproduzione del Fauno
danzante di Pompei, alta circa trentacinque centimetri – quasi la metà dell’originale trovato negli
scavi sotto la lava del vulcano –, in viaggio per Roma, dove sarebbe stata consegnata a un
acquirente nella sede del consolato di Spagna. Le qualità che avevano fatto ottenere l’incarico ad
Alma? La sua estrema socievolezza e la sua conoscenza della lingua spagnola.
Uscita dalla Stazione Termini, avendo un po’ di tempo a disposizione, si incamminò lungo via
Cavour in direzione del Colosseo. Amava Roma, soprattutto le piaceva andarsene in giro senza
limiti di tempo e senza una destinazione precisa e, ogni volta che aveva l’opportunità di farlo, senza
un attimo di esitazione, lo faceva. Giunta all’incrocio con via Principe Amedeo, senza pensarci, girò
di nuovo a sinistra e andò avanti per circa duecento metri in una strada lastricata non molto ampia,
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attraversata dai binari luccicanti del tram e incorniciata da grandi edifici signorili in bugnato di
pietra con i muri dipinti di rosso granata, ricordo di antichi encausti.
I negozi offrivano una mescolanza stravagante di chincaglierie per turisti, pizza e kebab. C’era
gente proveniente da ogni angolo del mondo, coloratissimi indumenti africani, kilt scozzesi, gellabe
e poi biondi ragazzoni nordici e venditori ambulanti senegalesi.
Arrivata a Piazza Vittorio, si trovò circondata da una folla che confluiva verso un punto ben
preciso. Gruppi di amici, coppie che si tenevano per mano, qualche solitario, ridevano e
chiacchieravano in varie lingue, alcuni portavano sediolini pieghevoli, altri cuscini. Accompagnata
dal fauno nella sua cassa di legno, Alma si unì a quella folla. Nella piazza stavano allestendo una
specie di palcoscenico, e alcune persone stavano collegando gli impianti audio e i microfoni.
Qualcuno le diede un volantino: tra mezz’ora avrebbe suonato, a offerta libera, l’Orchestra di
Piazza Vittorio, un ensemble composto da musicisti provenienti da vari paesi e continenti, che
cantavano in una decina di lingue diverse. “Trasformano le loro radici e le diverse culture in una
sola lingua” si leggeva sul volantino. “Partono dalle tradizioni musicali dei loro paesi d’origine e le
contaminano, le immergono nel rock, nel pop, nel reggae, nella musica classica ottenendo così un
suono unico”.
Alma non poteva farne a meno, doveva assolutamente chiedere a qualcuno di cosa si trattava. Si
avvicinò a un gruppo di persone che stavano chiacchierando in spagnolo, con un accento
centroamericano. «Salve, buon pomeriggio, sono argentina e mi piacerebbe sapere qualcosa di più
su questa orchestra. Potete aiutarmi?».
«Sì, certo, siamo dominicani, viviamo a Roma e uno dei nostri amici è un percussionista
dell’orchestra» rispose una giovane bassina, con il sorriso luminoso e la carnagione ramata. «È nata
quattro anni fa, è formata da un gruppo variabile di musicisti, alcuni arrivano e altri se ne vanno,
sono tutti immigrati. Per questo il suono dell’orchestra cambia in continuazione, non è mai lo
stesso, si aggiungono culture, tradizioni, ricordi, suoni vecchi e nuovi, strumenti sconosciuti,
melodie universali e tutte le voci del mondo». Poi aggiunse:
«Facendo parte dell’orchestra, il nostro amico è riuscito a ottenere il permesso di soggiorno e
adesso può riorganizzare la sua vita e tentare la fortuna».
Alma fu piacevolmente sorpresa e ringraziò. Non volendo allontanarsi troppo dai suoi nuovi
compagni, si sedette a meno di un metro di distanza da loro, come per far parte di quel gruppo di
centroamericani. In quel momento le pesava essere da sola e non avere qualcuno con cui parlare.
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Apparvero i musicisti, erano una ventina, vestiti ognuno secondo le proprie usanze o il proprio
gusto, formavano un insieme rilassato e variopinto, molto informale. Tamburi africani e creoli,
mandolini italiani, charanghi della Puna, oboi, violoncelli, trombe, violini e chitarre spagnole;
sassofoni e qualche altro strumento che non riuscì a identificare.
Iniziarono a suonare un pezzo intitolato Tarareando, un ibrido tra due ritmi diversi, una parte
lenta, simile a un valzer creolo o peruviano, e un movimentato joropo venezuelano. Il testo della
canzone consisteva, come indicava il nome, in una successione dei suoni privi di significato, in
questo modo tutti potevano intonarla: un solo motivo declinato in una straordinarietà di timbri e
colori.
Gli spettatori ballavano e si muovevano seguendo il ritmo, facevano girotondi o tentavano passi
di danza delle più varie latitudini.
Alma si rivolse al fauno: «Tu sì che mi hai portato fortuna! Ovunque tu vada, c’è allegria e si
scatenano le danze».
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Buenos Aires, 2010
Ritornata nella sua terra, nella sua casa, aveva ancora nella memoria e nel cuore gli echi di
quegli anni. Alma aveva patito l’immigrazione; e al ritorno, in un modo o nell’altro, aveva
continuato a sentirsi un’immigrata anche nel suo paese. Il tempo trascorso in Italia, nonostante i
momenti duri, di angoscia e di paura, le aveva lasciato il sapore dolce di un mondo nuovo, di aromi,
colori e suoni che ormai erano diventati suoi.
“Che peccato non aver comprato una copia del Fauno in quella fonderia” pensò un mattino. E
mentre faceva colazione con mate e pane tostato, iniziò a fare una ricerca su internet.
“Bologna, 2010,
Stimata signora, questa statua fu comprata dai nostri nonni, una cinquantina d’anni fa. In
quell’occasione andarono a visitare Napoli e Pompei. Dopo aver percorso le rovine, ebbero la
possibilità di conoscere un artista, piuttosto famoso da quelle parti, che aveva riprodotto, in bronzo
fuso e con l’antico metodo della cera persa, la statua del Fauno danzante (del secondo secolo a.C.)
ritrovata nel 1830. Questo artista, di cui disgraziatamente non conosciamo il nome, fece solo
novantanove copie, identiche all’originale fin nei minimi dettagli. La nonna amava le opere d’arte
raffinate, belle e insolite. Per questo motivo il nonno, in un raptus di follia amorosa, le regalò la
statuetta pagandola un prezzo esorbitante”.
Nel leggere la risposta alla sua mail, Alma sobbalzò per la sorpresa e chiamò immediatamente la
sua amica, per chiederle aiuto. Rosa, disponibile come sempre, comprò il Fauno.
Trascorsero due anni e finalmente Alma ebbe la possibilità di tornare in Italia, a Caserta, a casa
della sua cara complice, per prendere la statua.
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Buenos Aires, anno 2012
Finalmente il fauno aveva trovato la sua collocazione in casa di Alma, su una base di legno
lucido, in una posizione rilevante e con la luce giusta.
Fu accolto bene, la sua presenza suscitava commenti, sorrisi e anche qualche paragone
irriverente sui suoi attributi in bella vista.
Alma ogni tanto lo osservava e immancabilmente si metteva a riflettere sul senso di spaesamento
e decontestualizzazione. Gli attribuiva tratti umani come agli oggetti adorati nei culti animisti, quasi
potesse portare doni o fosse dotato di una potenza magica e terapeutica. Ovvio, non era un essere
reale, ma il suo spessore storico era tale che la donna non riusciva a toglierselo dalla testa. A volte
si sentiva triste e in colpa per averlo strappato al suo mondo, ai suoi suoni e profumi, al suo mare
con i ciottoli bianchi. Alla sua luce.
“In fondo, siamo tutti prigionieri di un’ossessione, e il più delle volte non ne capiamo il motivo
neppure noi che la viviamo… o la subiamo”, cose apparentemente inutili, perché la vita è piena di
sfide da vincere, di compiti da portare a termine nel tentativo di sopravvivere. In quei momenti le
venivano in mente pensieri di cui non riusciva a individuare l’origine, pensieri che, per quanti sforzi
facesse, non riusciva ad allontanare.
Le immagini si distorcevano, si dilatavano o si rimpicciolivano come per effetto di uno specchio
deformante, la luce si rifrangeva, le ombre la accecavano, risate risuonavano oscillando tra l’allegria
e il sarcasmo, il suo corpo perdeva l’equilibrio, si alzava dal pavimento e allo stesso tempo cadendo
si aggrappava come un liquido denso che si sparge lentamente. Volteggiava, girava, cercava di
vincere il delirio, di riportarlo a dimensioni conosciute, invano. Era stordita e stava perdendo
conoscenza, ma non voleva lasciarsi possedere; davanti agli occhi le scorrevano i fotogrammi di un
sogno che aveva a che fare con vecchie storie, non era chiaro se sue o di altri. A poco a poco Alma
smise di fare resistenza, lasciò che la sua mente si abbandonasse a quello sconosciuto ondeggiare.
Tutt’intorno a lei l’odore dell’alcol in fermentazione, una grotta profonda, freddo e silenzio. La
caverna scavata nel tufo giallastro, le pareti e il tetto formavano una linea unica che si curvava in un
arco a tutto sesto e poi riscendeva di colpo lungo un piano verticale perfettamente parallelo al
primo. Le bocche di lupo e le feritoie lasciavano passare la luce disegnando sui muri obelischi
luminosi che, come colonne, davano un ritmo sequenziale allo spazio; un ariete di legno lungo e
pesante fungeva da pistone del torchio, una delle sue estremità, lavorata in bronzo, rappresentava
una testa di caprone con grandi corna a forma di spirale.
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Dall’esterno le voci arrivavano rimbombando, riflesse da un cielo che si scorgeva appena. Alma
cercò il calore di un raggio di sole proiettato sulle lastre del pavimento, quel rettangolo brillante le
servì da rifugio, la avviluppò. Chiuse gli occhi per non essere abbagliata e sprofondò nell’oscurità
della memoria: vide templi mitraici, la luce zenitale che muovendosi produceva una successione
ordinata di ombra, luce, ombra, il vincolo tra l’universo e il trascorrere del tempo nella vita umana.
Un santuario, banchetti con una profusione di cibi, riti iniziatici, misteri orgiastici, rivelazioni
segrete, rosso sangue ovunque, edere e viti allacciate, una donna bella e nuda che offre a Dioniso un
vassoio d’argento carico di frutta, un bambino che studia le cerimonie occulte sotto lo sguardo
attento di una matrona, un gruppo di baccanti che balla in una celebrazione sacramentale, un sileno
che suona la lira mentre una giovinetta offre il suo seno a una capra, un vecchio ebbro che beve in
compagnia di un piccolo satiro, un uomo più giovane con il volto nascosto dietro una maschera
teatrale: si celebrano le nozze tra Dioniso e Arianna. Un toro ferito si contorce insanguinato, una
necropoli perduta dorme sotto strati di terra fertile, i contadini scavano solchi per la semina con
l’aratro, il metallo spacca il terreno e lascia intravedere una lapide di marmo, un ragazzo porta una
melagrana aperta in mano, salta nel vuoto, si tuffa verso la morte, nel mare dell’eternità. Apollo, il
Vaticinatore, la illumina con una luce splendente e divina. Sogno terapeutico, risanatore e profetico.
Ebbe un sussulto, ma la comoda bergère, che aveva ereditato dai nonni la sorresse. Aprendo gli
occhi si ritrovò nel mondo reale illuminato dal sole del pomeriggio e lo vide di fronte a lei. Allora
capì la sua richiesta, e fu così che decise di farlo vivere e raccontare la sua storia.
Una volontà potente le restituì la voce, la parola perduta, l’esperienza onirica congiunse il suo
sguardo alla mano che scolpisce, alla mano che scrive. La scrittura prende lo scalpello, colpisce,
corregge, leviga ed elimina il materiale eccedente per esaltare la bellezza della pietra.
In quell’atto creativo, riparatore ed spensierato, che libera la fantasia dell’artista, che attinge agli
strati più profondi dell’essere, capace di rendere la vita possibile e degna di essere vissuta, il
dio-scultore guidò i suoi passi.
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