PDF Arabella Georgette Heyer All Chapter

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Arabella Georgette Heyer

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Nell’ora stessa della notte all’altra estremità del palazzo vegliava il
Duca in convegno coll’astrologo Ebreo.
La camera ove essi stavano sorgeva a guisa di torre all’angolo
orientale della Rocca, e non si poteva colà pervenire che per mezzo
di un ponte coperto e chiuso, il quale veduto dal basso s’aveva
forma d’un arco altissimo che congiungeva due parti dell’edifizio.
Quella camera conteneva ogni specie di macchine, stromenti e
arnesi ch’erano stati sino a quell’epoca inventati per segnare la
misura del tempo, e per lo studio delle sfere celesti; era insomma un
osservatorio astronomico, quale si può immaginare ginare che fosse
al principio del secolo decimoquinto; e ciò che meglio caratterizzava
il tempo e le idee erano gli utensili alchimistici che si vedevano
ovunque frammisti a quelli che unicamente servivano alle operazioni
dell’astrologia.
Fra i quadranti, i lambicchi, i cerchii, le clessidre e i gnomoni,
distinguevasi sopra larghi sostegni d’oro un ampio globo stellato e
dipinto a figure d’uomini e d’animali. Il Duca lo aveva comperato per
ingente somma da un mercante saraceno, e pretendevasi fosse il
celebre Planetario arabico, stato mandato in dono dal Califfo di
Bagdad ad Abderamo re di Granata.
Una gran lampada rifletteva la sua viva luce su quel globo, di cui gli
anni avevano alquanto annerito lo splendido azzurro. Il Duca stava
seduto in atto attentivo, tenendo fisi gli occhi sul Planetario, mentre il
vecchiardo Elìa con una verga d’ebano nella destra, toccando i segni
rappresentanti lo zodiaco, andava spiegandogli i nomi, i moti, gli
influssi delle varie costellazioni, le quali erano ripetute in un grosso
libro ch’ei sosteneva coll’altra mano.
Un colpo dato al battitojo di bronzo di quella camera fece
sospendere le parole alll’Astrologo; il Duca porse orecchio, e avendo
udito succedersi due altri tocchi leggierissimi, quindi uno più risentito
— Entra — gridò con impazienza.
La porta s’aprì, ed avanzossi un uomo pressochè interamente
avvolto nel mantello; s’accostò al Duca e gli parlò all’orecchio.
Filippo Maria ai detti di colui mostrò prima sdegnarsi, poi sogghignò
fieramente; dopo pochi istanti di secreto colloquio tra loro, fecegli un
cenno, quegli uscì, e la porta si serrò di nuovo.
Elìa era intanto rimasto immobile cogli occhi sul suo libro, nella
lettura del quale sembrava interamente assorto.
«Proseguite, maestro (disse con calma il Duca). Non parlavate voi
delle stelle che compongono la coda allo Scorpione?
«In cauda venenum» — profferì lentamente il Filosofo israelita come
se ripetesse le parole che stava leggendo; poscia alzò la testa e
divisi sulle labbra i peli della bianca barba, ritoccando colla verga sul
globo la nera figura, proseguì in sua nasale cantilena — «Quest’è il
celeste Scorpio che s’abbranca al Sagittario e colla coda percuote la
Libra. Efraim Afestolett Mammacaton ne’ precetti del decimo mese,
insegna essere tre volte sette il numero degli effetti nefasti che piove
sul mondo questo freddo animale. Esso è propizio a chi annoda
occulte trame, e attenta colpi proditorii; siccome d’indole sua penetra
nelle case e sta celato presso le coltri ove ferisce nel sonno...
«Un mostro di tal natura, uno scarabeo avvelenito in sembianza
umana, abita presso di noi (disse interrompendolo e con subitaneo
rancore Filippo Maria).
«Non vi prendete di ciò pensiero (rispose l’Ebreo); quando la sua
traccia verrà scoperta tutti si affretteranno a schiacciarlo.
«Eppure non è così. Una donna lo accoglie, lo accarezza e si lascia
da lui aizzare contro di me (replicò il Duca misteriosamente, fatto più
truce nell’aspetto). Ma essi non sanno che queste mura s’infuocano
e fanno contorcere le membra ai traditori come se fossero collocati
sopra lastre roventi.
«Le tenebre non lo terranno lungamente avvolto. Guai se lo
scellerato si palesa!
«Io li conosco già i suoi delitti: essi sono troppo gravi (profferì Filippo
con feroce freddezza). Gettate per lui le sorti, o maestro, questa
notte medesima. Domani allo svegliarmi entrerete a riferirmi ciò che
avrà prescritto il destino; rammentatevi che attendo voi pel primo.
Elìa chinò il capo in segno d’obbedienza. Il Duca alzossi; poscia ad
una sua chiamata si spalancò di nuovo la porta, ed ei ne uscì
preceduto per le scale ed i corritoi da due paggi che recavano i
doppieri.
Da quanto fu detto colà è agevole comprendere che i progetti di
Macaruffo non erano rimasti ignoti. L’intrattenersi ch’ei faceva
soventi ora con uno, ora coll’altro dei capi delle antiche bande di
Facino; il trarli seco a convegno nei battifredi più appartati del
Castello mentre mostravasi taciturno e selvatico con tutte l’altre genti
di Corte, aveva eccitati i sospetti e destata la vigilanza della turba dei
delatori del Duca. Ogni suo passo fu quindi numerato, sorvegliate
diligentemente le sue azioni.
La notte susseguente a quella in cui avvenne il colloquio da noi
riferito, il Venturiero passando meditabondo sotto il portico che dal
cortile interno della Rocca metteva all’andito della torre, sentì
afferrarsi per un braccio. Rivoltosi riconobbe Scaramuccia, valletto di
confidenza del Duca, con cui aveva stretta conoscenza militando
insieme sotto le insegne del Conte.
«Rendi grazie a’ tuoi santi protettori ch’io t’abbia ritrovato — disse
pianissimo Scaramuccia traendolo in un canto dietro le spalle
dell’arco, fuori della lista di luce che mandava la lampada. Il
Venturiero con voce aspra rispose:
«Renderei grazie sì, ma quando potessi al tuo padrone....
«Zitto, zitto (proseguì l’altro) non è tempo da far parole. Ascolta. Se
fra poche ore non sei lontano le molte miglia da queste mura tu
finirai di mala morte. Hanno girato per te la luna, il sole e le stelle: il
tuo nome sta in mano al Giudeo, e la gola del pozzo in fondo alle
vôlte fu aperta e t’aspetta. Pensa a’ tuoi casi. Addio. — Ciò detto lo
lasciò frettolosamente e scomparve nell’ombra.
Macaruffo benchè non suscettivo di timidi pensieri e omai
indifferente ad ogni sventura, non dubitò a tale inaspettato
avvertimento, che in realtà la sua morte fosse stata ordinata da
Filippo Maria, sia per avere scoperto i di lui tentativi, sia per togliere
un amico fedele alla Duchessa. Quindi non volendo cadere vittima
invendicata dell’abborrito Visconte determinò di cercare salvezza
nella fuga.
Deposta ogni arma e tramutate le vesti, presso l’albeggiare potè
uscire inosservato dal Castello. Comunque grande però fosse il suo
pericolo rimanendo in queste vicinanze, non sapeva staccarsi dai
luoghi ove l’infelice sua Signora, serbando solo i titoli e le apparenze
della sovranità, gemeva prigioniera d’un inesorabile tiranno.
Per lunghi giorni andò errando nelle terre prossime a questa città, e
la notte accostavasi guardingo alla tremenda ducale dimora, spiando
se qualche lume apparisse nelle finestre dal lato occidentale della
Rocca, e s’affisava in quello come in una luce amica, consolatrice,
poichè sembravagli illuminasse la camera della Duchessa, ch’ei si
rappresentava assisa a quel mesto chiarore in atto pensivo e col
volto irrigato di lagrime. Chi potrebbe ridire quanta fosse la potenza
che l’immagine di lei esercitava su quell’anima, chiusa in ributtanti
spoglie, ma sì nobile e generosa che avrebbe con gioja, e senza
ch’ella pure il sapesse, sagrificata l’esistenza per procurarle un
istante di contento e di pace?
Dovette però convincersi alfine Macaruffo ch’era vano ogni tentativo
per rivederla, e sarebbe stata follìa l’intraprendere di sottrarla suo
malgrado alle mani del Duca. Pensando d’altronde che se si fosse
scoperto ch’ei s’aggirava quivi d’intorno avrebbe potuto far cadere su
di lei il dubbio che per suo mezzo tramasse congiure o tradimenti, si
decise con pena indescrivibile ad abbandonare questo suolo, e
riprese cammino verso la patria.
Allorchè calando da una delle Alpi che fiancheggiano il mare di
Liguria, distinse tra il verde della valle le torri del castello di Tenda,
vide il lago de’ palombi, e poco lungi scorse tra il folto degli alberi le
merlate mura del maniero de’ Gualdi, non dolci affetti si sollevarono
in lui con soave tumulto, non esclamò, non sorrise; solo un grave
sospiro uscì dal suo petto affranto dalla fatica e dalla doglia, e
s’asciugò due amare stille di pianto che gli caddero sulle arsiccie
guancie.
Visse colà inconsolabile, solingo.
Quando nelle paterne mura ribombò con terrore e desolazione
l’orrendo annunzio che Beatrice, dannata per scellerata sentenza dal
Marito, aveva lasciata la testa sul patibolo nel castello di Binasco, il
Venturiero quivi più non si rinvenne.
Alcuni giorni dopo apparve un Pellegrino in vicinanza al castello del
supplizio, e fu veduto starsi ogni notte immobile per lunghe ore,
pregando alla ferriata della cappella dei morti, ove i resti della
Contessa erano stati deposti. Nè andò guari che chiuse gli occhi
esso pure alla vita, e nessuno scoprì mai la sua storia o il suo nome.
Un Cadavere antico [7]

.... Orrendo e vero


Simulacro di morte!...
H.

Era il cielo cinericcio; oscurava. Ad ogni istante rendevasi più fosco il


colore delle alte mura della Basilica, che la Longobardica Regina
eresse in Monza al divino Precursore, e più visibile traspariva dalle
sue arcuate finestre il chiarore delle lampane solitarie.
Io camminava a lenti passi sotto l’atrio contiguo a quella vetusta
Chiesa attendendo l’un de’ custodi. Il silenzio universale, la tenebria
della sera che s’avanzava m’avevano reso mesto e meditabondo,
onde le impressioni della mia mente consuonavano all’intutto
coll’idea del lugubre oggetto che una viva curiosità mi aveva tratto
quivi ad ammirare. Venne alfine la guida recando un torchio acceso
e m’accennò di seguirla; le tenni dietro: ed essa arrestatasi ov’era
un’imposta alla parete, la spalancò ed offrì al mio sguardo un
cadavere, una specie di mummia, quivi serbata in una nicchia.
Fatto immobile, affisai avidamente gli occhi in quella salma antica, e
i molti gravi pensieri che sorsero in me, attutarono il profondo
ribrezzo che suol sempre assalire alla vista di umane carni
inanimate. Sta ritto quel cadavere, rigido, giallognolo: il diseccare de’
muscoli, de’ tendini, l’indurare delle cartilagini l’ha alcun poco
contratto e impicciolito, ma mantiene tuttavia intatte le forme,
conserva i denti, i capelli, le ciglia, e mostra illesa ovunque la cute,
fuorchè alla nocca d’un piede. Lo esaminai con tutta attenzione
facendo appressare mano mano il lume ad ogni sua parte, e provava
il mio spirito certo qual solenne diletto nel contemplare un corpo, che
senza bende egizie o balsami trinacrii, si sottrasse alle possenti
consuntrici leggi della natura; un corpo, che serbando per quattro
secoli le primiere sembianze, giunse da spente e trapassate
generazioni sino a noi come l’unico resto d’un gran naufragio sopra
ignoti lidi.
Quella salma non fu d’uomo volgare, poichè s’ascrisse anch’esso fra
i dominatori dei popoli. Oltre d’avere padroneggiato Monza, venne
salutato signore di Milano, e sebbene qui non tenesse il comando
che per brevissimo spazio di tempo, collegò milizie, impose tributi,
stampò monete, attribuzioni esclusive della sovranità. Portò il nome
di Estore, e vanta per padre Bernabò Visconte, principe temuto e
crudele, che perì di veleno nel Castello di Trezzo.
Estore non condusse una fiacca o codarda vita. Pugnò
possentemente contro i due duchi suoi cugini, Giovanni e Filippo
Maria, figli di Galeazzo. Seppe tenere il campo a fronte di Facino
Cane, di Lancillotto Beccaria e di Valperga ch’erano fra i più valenti
condottieri dell’epoca. A Filippo Maria contrastò con vigore il
possesso dello Stato; assalito in Milano da forte schiera d’uomini
d’armi, oppose nelle stesse contrade della città la più ostinata
resistenza. Cedette alfine e ritirossi in Monza nel di cui Castello
sostenne un lungo assedio, respingendo più volte gli assalti di tutto
l’esercito ducale. Per ordine di Filippo, che sterminato voleva un sì
audace rivale, non cessavano mai le offese contro le assediate
mura, le quali dall’assiduo lavoro de’ mangani e delle bricolle già
scoperchiate e cadenti in più luoghi, non offrivano ai difensori che
debole e incerto riparo.
Un giorno (era in settembre del 1412) Estore Visconte se ne stava
nel mezzo del cortile del suo Castello presso al pozzo ove si
abbeveravano i cavalli. Nel momento forse che all’udire le esterne
grida de’ nemici meditava sdegnato una tremenda uscita, o che
l’anima sua sorpresa dall’idea dell’instante periglio cominciava a
vacillare invilita, una grossa pietra slanciata con tutta veemenza
venne dall’alto e lo colse in una gamba che gli spezzò presso
l’attaccatura dei piede, onde cadette, e perdendo sterminata quantità
di sangue, in capo a poco tempo rimase esanime.
Eccolo innanzi a me coi segni del fatal colpo, che ha lacerate le
carni, infranto l’osso, e lasciò su quello le traccie del sangue
aggrumolato.
— O arido ed annerito carcame, tu dunque fosti un guerriero
d’intrepido cuore, e ricoperto di ferro vivesti tra l’armi e le battaglie?
Ah perchè schiavando i denti che serrò morte, non puoi narrare tu
stesso i fatti de’ tuoi giorni, o rivelare ai mortali i segreti delle tombe
tra cui sì lungamente dimorasti! Ma l’ironia ferale dei tuoi tratti è fisa
e impassibile, e nel rimirarti mi fai sentire più amaro e truce il
pensiero che mentre ogni oggetto vivente con somma rapidità
trapassa e si solve, un cadavere s’innoltra incorrotto verso le ridenti
età future.

FINE.
IL BACIO FATALE

....... Ei nell’amata
Donna s’affigge, ode uno squillo: il suono
Quest’è che serra le stridenti porte.
Un istante gli resta, un bacio invola
A quella fronte gelida, una croce
Alle sue mani impallidite, e come
Luce nell’aer per le mute logge
Inosservato e celere dispare.
Tealdi-Fores.

Chi ignorava la beltà di Evelleda, la prigioniera d’Oriente divenuta


sposa del cavaliero Unfredo de’ Rodis?... Dal lago alle Alpi tutta la
valle dell’Ossola risuonava delle lodi di lei e si portavano a cielo non
solo le avvenenti sue forme, ma le virtù e la dolcezza soavissima
dell’animo. Nel mirarla era un’estasi che infondevano in petto la
leggiadrìa e la nobiltà delle sue movenze, l’armonìa della voce che
serbava ne’ suoni alcun che di straniero e la luce celeste di che
erano animati i suoi sguardi. Oh! gli sguardi di Evelleda superavano
quanto mai l’immaginazione più ardente sa figurarsi d’incantevole e
d’angelico: quegli su cui quelle nere pupille si posavano con
tenerezza o con mesto sorriso provava in cuore un ineffabile
commovimento e sentiva circondarsi da un’aura più pura.
Questo fiore di bellezza era nato sotto altri soli e dalle falde del
Libano era stato trapiantato presso quelle delle Alpi. Il cavaliero
Unfredo valente di braccio quanto d’animo ardente e vendicativo,
offeso in cuore da secrete ingiurie, determinò sino dall’età sua
giovanile d’abbandonare la patria; radunò una schiera de’ più prodi
suoi vassalli Ossolani, fece voto di combattere per la liberazione di
Gerusalemme e raggiunse in Oriente l’esercito dei Baroni Crociati.
Ebbe parte nelle imprese più ardue e famose; venne ferito e si
ritrasse a Bisanzio sotto la protezione de’ greci Imperatori.
Ricuperata colà la salute e il vigore, tornò in Palestina ove
capitanando una parte dell’esercito prese d’assalto una ricca città
de’ Saraceni, di cui gli furono cedute in premio le spoglie. Egli
trascelse per sè le più preziose; abbandonò l’altre a’ soldati, e dei
vinti non tenne in suo potere che una donna bellissima fra tutte,
madre d’unica fanciulletta, vezzosa come l’amore, la quale fu trovata
dai guerrieri cristiani nel solitario harem custodita da due schiavi muti
e neri al paro della pece.
Vinta Nicea ed Antiochia, Unfredo, a cui le ferite benchè rimarginate
rendevano l’armeggiare penoso, volle far ritorno alle patrie terre, e
caricate su una nave Pisana le conquistate ricchezze, afferrò le
spiaggie d’Italia. Morì attrita dai lunghi affanni, anzichè toccasse i
nostri lidi, la bella prigioniera saracena, e il Cavaliero le rese meno
penosi gli ultimi istanti giurandole sulla croce che a lui segnava il
petto, che avrebbe con ogni studio vegliato al bene dell’orfana
fanciulla ch’ella abbandonava nelle sue mani.
Toccava questa appena il tredicesimo anno, nè altri che la propria
madre conosceva sulla terra che potesse intenderla, guidarla e che
le fosse di sostegno e d’aita. Vedendo la genitrice languire per
mortale angoscia gemeva profondamente, sinchè giunta al punto
estremo ne raccolse disperata l’ultimo sospiro e si dovette strapparla
a forza dalla fredda salma di lei.
Per lunghi giorni le sgorgò incessante un pianto inconsolabile: alla
fine però le tenere e più che paterne cure del generoso Unfredo le
ridonarono la calma; cessarono le lagrime d’irrigarle le pallide
delicate guancie, ed ei si dispose a condurla alla propria valle nelle
mura dell’avito castello.
La fama delle sue gesta lo avevano preceduto: accorsero i vassalli
esultanti ad incontrarlo ed ei ricalcò festeggiante dopo tanti anni di
lontananza l’antico ponte del suo fiume nativo. Nel guerresco
corteggio che lo seguiva attraevano gli sguardi di tutti i due schiavi
Etiopi abbigliati nella loro barbarica foggia; ma ciò che destava più
vivamente la curiosità generale era la fanciulla che sedeva sopra un
placido e bellissimo palafreno guidato a mano da un paggio,
ricoperta da fitto velo il quale l’avviluppava pressochè interamente.
Allorchè dopo molti mesi il dolore della perdita della madre fu
alquanto più mitigato nell’animo della giovinetta, Unfredo che sentiva
nascere in seno per lei ardentissima fiamma, la fece istruire nei sacri
misteri di nostra religione e poscia rigenerare nelle acque del
Battesimo. Profuse quindi tesori per rendere il proprio castello il più
sontuoso che mai si vedesse e per prevenire ed appagare ogni lieve
brama dell’adorata fanciulla, un di cui sorriso lo rendeva felice.
Riconoscente essa pure a tante affettuose dimostrazioni del suo
guerriero vincitore, benchè non lo amasse che quale amoroso padre,
cedere dovette alle lunghe ripetute istanze e condotta da Unfredo
all’altare con pompa regale divenne sua sposa.
Sorgeva il castello di Unfredo sulle sponde della Toce là dove questo
fiume abbandonati i nativi dirupi, scende limpido e tranquillo ad
irrigare l’esteso piano della valle dell’Ossola. Il ponte levatojo di quel
castello rimaneva sempre abbassato, e sebbene numerosa schiera
d’armati vi stesse a guardia continuamente, erane però a tutti libero
l’ingresso, poichè colà venivano accolti con eguale cortese ospitalità
il povero pellegrino, il ricco barone, il questuante eremita e lo
sfarzoso Abate che vi giungeva cavalcando con gran seguito di
monaci e di laici. Infiniti erano quivi entro gli scudieri, i paggi, i servi,
tutti abbigliati con vaghe e ricche assise. Nei portici, negli atrii, sulle
scale miravasi scolpito in marmo o dipinto lo stemma della possente
famiglia de’ Rodis, ch’era una stella d’oro con due ali in campo
azzurro, circondato da una nera fascia.
Le stanze superiori nelle quali abitava il Signore del castello erano
tutte magnificamente addobbate; ma ove si poteva dire veramente
esausto quanto mai il lusso de’ tempi sapeva creare di più
sorprendente e ricercato, era la grande aula di ricevimento e
l’oratorio di Evelleda. Nella sala entravasi per due ampie porte alle
quali corrispondevano vaste finestre, divisa ognuna in due archi
acuti sostenuti da sottilissima colonna spirale: ne chiudeva il varco
una vetriata a colori su cui si diramavano simetrici arabeschi. Le
pareti erano coperte da purpurei arazzi trapunti in oro: marmoreo era
il pavimento ed istoriata la volta: i larghi sedili finamente intagliati, e
sulle tavole, ricoperte di lastre di preziosi marmi, posavano gemmati
doppieri. Sulla parete frammezzo alle porte d’ingresso stavano
sospese a modo di trofeo le armi più ricche d’Unfredo: nel mezzo era
collocato l’usbergo coi guanti, i bracciali e gli schinieri; a sinistra lo
scudo collo stemma rilevato a cesello; a destra la spada e la lancia,
ed al di sopra l’elmo di massiccio argento con cimiero d’altissime e
candide penne.
Quell’appartata camera che nella dimora d’una ricca dama viene a
lei unicamente consacrata e sta presso la stanza di riposo, servendo
così ai misteri dell’addobbamento, come alle solitarie letture ed alle
meditazioni, la quale ora noi chiamiamo Gabinetto, appellavasi nei
bassi tempi Oratorio, poichè conteneva una specie di domestico
altare avanti a cui soleva la Dama profferire le serali e mattutine
preghiere. L’oratorio d’Evelleda non era spazioso ma rinserrava
tesori. V’avevano due entrate, l’una da una porta che s’apriva
nell’atrio vicino alla sala, e l’altra più ristretta che riusciva nella
camera contigua ove era eretto il talamo nuziale. Di contro all’arcata
finestra d’egual forma di quelle della sala, stava nell’oratorio una
nicchia, dentro la quale sorgeva sopra un piedestallo il simulacro
della Vergine col divino infante, coronati l’uno e l’altro di un serto di
gemme: sul petto della celeste Madre pendeva appeso ad un serico
nastro un’anforetta in un cerchio d’oro che conteneva un frammento
del velo di Lei, reliquia rarissima acquistata per cento bisanti dallo
stesso Unfredo in Palestina da un Maronita di Betlemme. Davanti al
simulacro stava un ginocchiatojo tutto rivestito da ricco e morbido
drappo. In giro alla camera vedevansi arche ed armadietti d’ebano e
d’avorio, elegantemente intarsiati con fili d’oro e tempestati di pietre
preziose: alcuni di essi rimanendo aperti, mostravansi ripieni di vasi
lucenti, di cassette d’aromi, di odorosi unguenti; altri di fermagli
d’oro, vezzi di perle, spille, colanne, braccialetti e di quanto può
concorrere ai più sontuoso e variato femminile adornamento. Le
seggiole andavano ricoperte di velluto azzurro frangiato in argento, e
ad una di esse co’ bracciuoli, i quali avevano la forma di morbidi colli
di cigno, pure d’argento, stava dinanzi un tavoliere su cui posava un
vaso di cristallo cilestrino con fogliature in oro che conteneva i più
vaghi fiori, e vicino v’erano varj libri in pergamena con leggiadre
miniature. Da un lato del tavoliere stava un tripode in bronzo con
coperchio a traforo che serviva ad ardere profumi, dall’altro lato eravi
un elegante leggìo a cui stava sospeso un arpicordo saracinesco
con bischeri d’oro. Dalla volta pendeva una lampada alabastrina
sostenuta da tre catene in figura di serpi. La luce che dalla finestra
entrava in quella camera era mitigata a piacere, poichè le ampie
tende bianche e turchine che la fiancheggiavano potevansi
variamente panneggiare, ed ora si simulava con esse il soave
chiarore dell’aurora, ora la luce moribonda del crepuscolo e per sino
il bianco irradiare della luna.
Varia poi e spaziosa era la veduta che s’appresentava da quella
finestra, se ne venivano spalancate le imposte. Vedevasi l’intera
corona degli alti monti che formano parete alla valle, e tutta la
chiudono fuorchè a mezzodì ove ne lambiscono il confine le acque
del Lago Maggiore; miravasi più da presso la merlata roccia di
Vogogna eretta sopra scoscesa rupe, e scorgevasi nel piano il lucido
esteso serpeggiare della Toce che toccava mormorando a quelle
mura. Al di là del fiume quasi a prospetto sorgeva un edificio di
semplice architettura ma che s’aveva del castello insieme e del
convento: constava di massiccie mura, aveva porte e finestre ad
archi acuti, ma non era merlato nè munito di torri. Tale edificio
chiamavasi la Masone ed era ospizio de’ cavalieri Templari, i quali
solevano ivi stanziare ogni qual volta recavansi in Francia o ne
redivano.
Prediletto ad Evelleda era quell’oratorio ed ella passava in esso le
più lunghe ore del giorno o con qualche fida ancella occupata ai
lavori della spola e dell’ago, o da sola leggendo i canzonieri degli
amorosi Trovatori, o traendo dalle corde melodiosi suoni. Talvolta
nell’ora più tacita della sera ella univa a que’ suoni la sua voce:
arrestavansi negli atrii i paggi ed i donzelli ad ascoltarla, sospendeva
il passo per fino il rude arciero che stava a guardia a piè delle mura.
Eravi in quel canto un non so che di nuovo che rapiva, era una
melodìa ispirata da un altro cielo, da una più ridente natura.
Il raggio candidissimo della luna brillava sulle acque del fiume, ed
illuminava la fronte della Masone dei Templari. Ritto nel varco
dell’arcuata porta si stava uno dei guerrieri dell’Ordine appoggiato
alla sua lunga spada; la bianca sopravveste eragli serrata ai lombi
dal pendone della spada stessa, e in mezzo al suo petto si scorgeva
un’ampia croce rossa. Teneva scoperto il capo, il quale aveva da
nera inanellata capellatura rivestito, bruno e regolare era il giovanile
suo viso. In atto mesto e pensieroso lasciava errare le pupille ora
sulle correnti acque, ora sulla pallida verdura, ed ora le alzava al
disco della luna. Ad un tratto un irrompere di dolcissime note tratte
da sonoro stromento gli ferisce l’orecchio; guarda al castello di
prospetto da cui quel suono partiva e quasi tratto da magica forza
s’accosta alla sponda del fiume, onde meglio bearsi in quell’armonìa.
S’alza una voce... ma qual gioja inaspettata, qual soave sorpresa
manifesta il Cavaliero del Tempio!... quella voce canta
nell’armoniosa lingua dei poeti dell’Alambra, essa ripete gli accenti
che richiamano al Yemen felice la memoria dell’avventuroso
guerriero. Ecco come canta quella voce celebrando il suolo nativo.

«Mia sfera è l’Oriente, splendida regione, ove sorge magnifico


il sole come un possente monarca e procede per le vie del
giorno sempre serene: così una nave d’oro voga sull’onde
azzurre portando l’Emiro di vasta contrada.
«I doni tutti del cielo furono versati sulla zona orientale: in
ogni altro clima il fatale destino fa germogliare amari frutti a
lato ai saporosi. Ma Iddio che guarda sorridendo le terre
dell’Asia, la riveste de’ fiori più puri e accorda maggiori stelle
al suo cielo, maggiori perle al suo mare.
«Quivi sono le ampie città che l’universo ammira. Laora dai
campi fiorenti: Golconda, Cascemira, Damasco la guerriera,
la reale Ispahan; Bagdad da baluardi coperta come da ferrea
armatura, e Aleppo il mormorìo delle cui immense contrade
sembra al lontano pastore il fremito dell’oceano.
«Misora è qual regina collocata sul trono. Medina dalle mille
torri irte d’aguglie colle punte d’oro rassembra al campo d’un
esercito nel piano che inalza sulle tende una selva di lucicanti
saette.
«Chi non brama contemplare sì grandi maraviglie? Chi non
desìa sedere su quei terrazzi simiglianti a canestri di fiori; o
seguire nei prati l’Arabo vagabondo? Al cader del sole
quando i cammelli s’arrestano spossati presso le fresche
acque dei pozzi, la giovinetta bajadera intreccia la sua danza
voluttuosa.
«Anch’io un giorno con passi infantili errando pensosa presso
al chiosco solitario sotto i rami delle palme beveva l’aure
imbalsamate che scendevano dagli azzurri monti! Ma ohimè!
io non potrò mai più rivedere nè le palme, nè quei monti
quantunque la mia anima voli incessantemente alle beate
regioni orientali.

Armando di Nerra, tal era il giovine Cavaliero, fu scosso da quel


canto sin nell’intime fibre del cuore. L’oriente era pure il suo sospiro:
in oriente egli aveva appreso ad amare; quando l’oggetto de’ suoi
deliri perì, egli da libero combattente divenne Cavaliero dell’ordine
del Tempio, consacrando sè stesso e la sua spada alla Religione ed
assoggettandosi ai voleri del gran Maestro.
Attese ansiosamente la sera successiva: una melodia parimenti
soave lo venne dal castello a beare sulla sponda della Toce.
L’incanto fu irresistibile. Seppe chi era Unfredo, lo riconobbe ed
entrò nel suo castello da lui stesso accoltovi ed onorato.
Unfredo era oltre modo bramoso che distinti personaggi
contemplassero il lusso e la magnificenza da lui spiegati entro le
proprie mura; e siccome andava superbo di possedere una
bellissima sposa, gioiva che venisse ammirata ed elevata a cielo da
tutti: fiero e contento che gli altri invidiassero a lui quella beltà
famosa, a lui già d’età provetto, a lui d’ispidi lineamenti, a lui che
giovane in quella patria aveva dovuto subire l’umiliazione d’un rifiuto
quando pretese alla mano di donzella uscita da un lignaggio ch’ei
stimava paro al suo. Aveva abbandonata la terra nativa giurando di
vendicarsi di quel disprezzo o morire: e la sua vendetta era completa
quando alcuno proclamava non esservi nell’Ossola castello più ricco,
nè sposa più leggiadra di que’ d’Unfredo. Raggiante di gioja, dopo
avere fatto osservare gli atrii fastosi e le stanze più addobbate;
condusse il giovine Templario nella gran sala ove fece dare annunzio
ad Evelleda di presentarsi.
Esiste un’arcana relazione fra i diversi sentimenti dell’uomo, per cui
allo svilupparsi di un solo, più altri s’intraveggono con secreto
presentimento. Armando di Nerra al primo mirare avanzarsi dalla
spalancata porta la Dama del castello, sentì con certezza che da
nessun altri che da lei sola potevano essere partite quelle
maravigliose note che avevano richiamate tante dolci e dolorose
memorie al suo spirito. Unfredo nominò alla moglie il Cavaliero,
magnificandolo per la nobiltà del sangue e le illustri sue gesta. Ella lo
salutò con sorriso gentile, e allorchè si fu assiso in prossimità di lei e
del marito, le chiese se recavasi allora nei campi della Palestina o ne
retrocedeva. Rispose il Cavaliero che di là veniva e ritornava nelle
sue terre di Francia per riabbracciare il padre cadente, che più non
aveva veduto dal giorno che s’indossò la bianca sopravveste dei
Templari.
— Oh voi felice (esclamò con trasporto Evelleda), che avete la bella
sorte di ricalcare quel suolo ove apriste gli occhi alla luce
coll’indiscrivibile consolazione di esservi atteso dall’autore dei vostri
giorni! Quanti e quanti hanno posto il piede fuori della patria terra e
non la rivedranno mai più! —
Queste ultime parole furono pronunciate con tutta l’espressione della
soavità e della melanconìa, ed Armando assorto nel contemplare
quel volto e quell’angelico sguardo che s’abbassò con tristezza, vi
lesse la storia della profonda piaga d’un cuore senza amore e senza
speranze. — Oh figlia di una terra prediletta dal sole, perchè non ho
io pel tuo spirito languente un balsamo più dolce del frutto della
palma, più del ditamo fragrante? — così susurrò a bassa voce in
favella orientale il giovine Cavaliero e una gioja inaspettata si diffuse
sul volto alla bella. Ma Unfredo s’alzò, onde fu forza ad Armando
seguirlo, e ad Evelleda ritirarsi nelle proprie stanze.
Chi può descrivere i sogni d’una mente colpita dallo spettacolo
incantatore della bellezza, d’una bellezza mesta e pensierosa a cui
si sente il potere d’infondere nel cuore il sorriso della felicità? A tale
immagine la fantasìa vagando fra il sereno e le rose, dà forma alle
beatitudini eterne e si crede la favorita del cielo. Ahi troppo
ingannata! poichè non sa che il destino alla coppa dei beni aggiunge
irremissibilmente quella delle più crudeli amarezze.
Unfredo accolse più volte Armando nel proprio castello, sicchè
questi divenne famigliare a segno, che pure allorquando il Signore
n’era assente, o per sedere nel consiglio dei capi della valle o per
seguire le alpestri caccie, entrava liberamente tra quelle mura e vi
stanziava a suo talento.
Fragile è l’uman cuore e troppo possente incanto esercitano su di
esso le grazie, gli amorosi sospiri e le dolci animate parole che
giungono sommesse all’orecchio con un alito fragrante, carezzevole
e quasi affannoso, allora quando si è liberi da ogni altro umano
sguardo e il sole stesso non manda che timido il suo raggio a
traverso i cristalli colorati e le tende!
Nell’oratorio di Evelleda troppo felici scorrevano le ore per lei, per
Armando. Allorchè essa s’accompagnando con flebili o lieti suoni
cantava a piana voce canzoni piu tenere dell’usato, il Cavaliero in
un’estasi voluttuosa stava immobile contemplandola, sorreggendo il
mento col braccio appoggiato sul morbido velluto del sedile di lei, e
quando egli narrava le proprie imprese o ripeteva le novelle apprese
sulle rive del Giordano dagli Arabi pastori, ella pendeva beata dalle
labbra di lui, immemore per sino di sè medesima.
L’invidia rabbiosa e la vigilante maldicenza non concessero però che
lunghi corressero quei giorni di felicità. Tronche parole, maligni
sorrisi, inattese interpellazioni stillarono il veleno della gelosia nel
cuore d’Unfredo: si fece cupo e taciturno, parlava rado e sulla moglie
più non alzava che severo lo sguardo. Intese tremando Evelleda la
giusta causa di quel cangiamento, e risolvette di sacrificare anche sè
stessa al proprio dovere. Da fido messo fece recare un foglio ad
Armando in cui dicevagli «Non doversi essi rivedere mai più; averli il
cielo riuniti un istante per disgiungerli per sempre; solo giurava che
vivrebbe nell’anima sua eternamente la memoria di lui, che pregava
non dimenticarsi d’una infelice per la quale erano estinti tutti i beni
della terra.
La disperazione s’impossessò d’Armando. Il pensiero di non più
rivedere Evelleda era per lui tremendo come quello della morte: egli
sentiva di non potersi staccare da quei luoghi, di non poter
sopportare la vita se non le porgeva un addio, un ultimo addio, e se
non udiva ripetere dalla bocca stessa di lei il giuramento di
mantenere sempre impressa nel seno la sua immagine. Fece ogni
cosa disporre per la propria partenza, e messo frattanto uno
scudiero in agguato, quando seppe che Unfredo erasi allontanato a
cavallo dal castello, ei vi si recò e penetrò nell’oratorio di Evelleda.
Scorse però breve spazio di tempo da che egli aveva posto piede in
quelle soglie e già Unfredo, benchè discosto, n’aveva avuto avviso:
rivolge a furia il destriero, galoppa per una via fra’ boschi, rientra nel
castello e sale nella camera di riposo di Evelleda, da cui a passi
sospesi s’affaccia alla porta dell’oratorio, e vede... oh che vede egli
mai!... Il Cavalier del Tempio, un ginocchio a terra innanzi ad
Evelleda, con ambe le proprie mani premevasi al cuore una mano di
lei, ed essa seduta e colla faccia inclinata verso la sua lo inondava
singhiozzando di lagrime e faceva forza per rilevarlo.
A sì tenero spettacolo la pietà imbrigliò il furore, e le dita di Unfredo
rimasero un momento arrampinate al pugnale senza trarlo dalla
vagina. Ma ohimè! non fu che un lampo: una crescente foga d’affetti
vinse gl’incauti amanti, le loro labbra s’accostarono, s’unirono ed
essi si perdettero in un bacio di delirio... Era il primo... e fu celeste
quanto fatale. Il pugnale d’Unfredo s’infisse fino alla guardia nel
cuore d’Armando, Evelleda acciecata con un ferro rovente perì fra gli
spasimi: ruina e desolazione regnarono in quel castello dal quale
Unfredo disparve senza che più traccia si trovasse di lui.

FINE.

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