PDF Arabella Georgette Heyer All Chapter
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Nell’ora stessa della notte all’altra estremità del palazzo vegliava il
Duca in convegno coll’astrologo Ebreo.
La camera ove essi stavano sorgeva a guisa di torre all’angolo
orientale della Rocca, e non si poteva colà pervenire che per mezzo
di un ponte coperto e chiuso, il quale veduto dal basso s’aveva
forma d’un arco altissimo che congiungeva due parti dell’edifizio.
Quella camera conteneva ogni specie di macchine, stromenti e
arnesi ch’erano stati sino a quell’epoca inventati per segnare la
misura del tempo, e per lo studio delle sfere celesti; era insomma un
osservatorio astronomico, quale si può immaginare ginare che fosse
al principio del secolo decimoquinto; e ciò che meglio caratterizzava
il tempo e le idee erano gli utensili alchimistici che si vedevano
ovunque frammisti a quelli che unicamente servivano alle operazioni
dell’astrologia.
Fra i quadranti, i lambicchi, i cerchii, le clessidre e i gnomoni,
distinguevasi sopra larghi sostegni d’oro un ampio globo stellato e
dipinto a figure d’uomini e d’animali. Il Duca lo aveva comperato per
ingente somma da un mercante saraceno, e pretendevasi fosse il
celebre Planetario arabico, stato mandato in dono dal Califfo di
Bagdad ad Abderamo re di Granata.
Una gran lampada rifletteva la sua viva luce su quel globo, di cui gli
anni avevano alquanto annerito lo splendido azzurro. Il Duca stava
seduto in atto attentivo, tenendo fisi gli occhi sul Planetario, mentre il
vecchiardo Elìa con una verga d’ebano nella destra, toccando i segni
rappresentanti lo zodiaco, andava spiegandogli i nomi, i moti, gli
influssi delle varie costellazioni, le quali erano ripetute in un grosso
libro ch’ei sosteneva coll’altra mano.
Un colpo dato al battitojo di bronzo di quella camera fece
sospendere le parole alll’Astrologo; il Duca porse orecchio, e avendo
udito succedersi due altri tocchi leggierissimi, quindi uno più risentito
— Entra — gridò con impazienza.
La porta s’aprì, ed avanzossi un uomo pressochè interamente
avvolto nel mantello; s’accostò al Duca e gli parlò all’orecchio.
Filippo Maria ai detti di colui mostrò prima sdegnarsi, poi sogghignò
fieramente; dopo pochi istanti di secreto colloquio tra loro, fecegli un
cenno, quegli uscì, e la porta si serrò di nuovo.
Elìa era intanto rimasto immobile cogli occhi sul suo libro, nella
lettura del quale sembrava interamente assorto.
«Proseguite, maestro (disse con calma il Duca). Non parlavate voi
delle stelle che compongono la coda allo Scorpione?
«In cauda venenum» — profferì lentamente il Filosofo israelita come
se ripetesse le parole che stava leggendo; poscia alzò la testa e
divisi sulle labbra i peli della bianca barba, ritoccando colla verga sul
globo la nera figura, proseguì in sua nasale cantilena — «Quest’è il
celeste Scorpio che s’abbranca al Sagittario e colla coda percuote la
Libra. Efraim Afestolett Mammacaton ne’ precetti del decimo mese,
insegna essere tre volte sette il numero degli effetti nefasti che piove
sul mondo questo freddo animale. Esso è propizio a chi annoda
occulte trame, e attenta colpi proditorii; siccome d’indole sua penetra
nelle case e sta celato presso le coltri ove ferisce nel sonno...
«Un mostro di tal natura, uno scarabeo avvelenito in sembianza
umana, abita presso di noi (disse interrompendolo e con subitaneo
rancore Filippo Maria).
«Non vi prendete di ciò pensiero (rispose l’Ebreo); quando la sua
traccia verrà scoperta tutti si affretteranno a schiacciarlo.
«Eppure non è così. Una donna lo accoglie, lo accarezza e si lascia
da lui aizzare contro di me (replicò il Duca misteriosamente, fatto più
truce nell’aspetto). Ma essi non sanno che queste mura s’infuocano
e fanno contorcere le membra ai traditori come se fossero collocati
sopra lastre roventi.
«Le tenebre non lo terranno lungamente avvolto. Guai se lo
scellerato si palesa!
«Io li conosco già i suoi delitti: essi sono troppo gravi (profferì Filippo
con feroce freddezza). Gettate per lui le sorti, o maestro, questa
notte medesima. Domani allo svegliarmi entrerete a riferirmi ciò che
avrà prescritto il destino; rammentatevi che attendo voi pel primo.
Elìa chinò il capo in segno d’obbedienza. Il Duca alzossi; poscia ad
una sua chiamata si spalancò di nuovo la porta, ed ei ne uscì
preceduto per le scale ed i corritoi da due paggi che recavano i
doppieri.
Da quanto fu detto colà è agevole comprendere che i progetti di
Macaruffo non erano rimasti ignoti. L’intrattenersi ch’ei faceva
soventi ora con uno, ora coll’altro dei capi delle antiche bande di
Facino; il trarli seco a convegno nei battifredi più appartati del
Castello mentre mostravasi taciturno e selvatico con tutte l’altre genti
di Corte, aveva eccitati i sospetti e destata la vigilanza della turba dei
delatori del Duca. Ogni suo passo fu quindi numerato, sorvegliate
diligentemente le sue azioni.
La notte susseguente a quella in cui avvenne il colloquio da noi
riferito, il Venturiero passando meditabondo sotto il portico che dal
cortile interno della Rocca metteva all’andito della torre, sentì
afferrarsi per un braccio. Rivoltosi riconobbe Scaramuccia, valletto di
confidenza del Duca, con cui aveva stretta conoscenza militando
insieme sotto le insegne del Conte.
«Rendi grazie a’ tuoi santi protettori ch’io t’abbia ritrovato — disse
pianissimo Scaramuccia traendolo in un canto dietro le spalle
dell’arco, fuori della lista di luce che mandava la lampada. Il
Venturiero con voce aspra rispose:
«Renderei grazie sì, ma quando potessi al tuo padrone....
«Zitto, zitto (proseguì l’altro) non è tempo da far parole. Ascolta. Se
fra poche ore non sei lontano le molte miglia da queste mura tu
finirai di mala morte. Hanno girato per te la luna, il sole e le stelle: il
tuo nome sta in mano al Giudeo, e la gola del pozzo in fondo alle
vôlte fu aperta e t’aspetta. Pensa a’ tuoi casi. Addio. — Ciò detto lo
lasciò frettolosamente e scomparve nell’ombra.
Macaruffo benchè non suscettivo di timidi pensieri e omai
indifferente ad ogni sventura, non dubitò a tale inaspettato
avvertimento, che in realtà la sua morte fosse stata ordinata da
Filippo Maria, sia per avere scoperto i di lui tentativi, sia per togliere
un amico fedele alla Duchessa. Quindi non volendo cadere vittima
invendicata dell’abborrito Visconte determinò di cercare salvezza
nella fuga.
Deposta ogni arma e tramutate le vesti, presso l’albeggiare potè
uscire inosservato dal Castello. Comunque grande però fosse il suo
pericolo rimanendo in queste vicinanze, non sapeva staccarsi dai
luoghi ove l’infelice sua Signora, serbando solo i titoli e le apparenze
della sovranità, gemeva prigioniera d’un inesorabile tiranno.
Per lunghi giorni andò errando nelle terre prossime a questa città, e
la notte accostavasi guardingo alla tremenda ducale dimora, spiando
se qualche lume apparisse nelle finestre dal lato occidentale della
Rocca, e s’affisava in quello come in una luce amica, consolatrice,
poichè sembravagli illuminasse la camera della Duchessa, ch’ei si
rappresentava assisa a quel mesto chiarore in atto pensivo e col
volto irrigato di lagrime. Chi potrebbe ridire quanta fosse la potenza
che l’immagine di lei esercitava su quell’anima, chiusa in ributtanti
spoglie, ma sì nobile e generosa che avrebbe con gioja, e senza
ch’ella pure il sapesse, sagrificata l’esistenza per procurarle un
istante di contento e di pace?
Dovette però convincersi alfine Macaruffo ch’era vano ogni tentativo
per rivederla, e sarebbe stata follìa l’intraprendere di sottrarla suo
malgrado alle mani del Duca. Pensando d’altronde che se si fosse
scoperto ch’ei s’aggirava quivi d’intorno avrebbe potuto far cadere su
di lei il dubbio che per suo mezzo tramasse congiure o tradimenti, si
decise con pena indescrivibile ad abbandonare questo suolo, e
riprese cammino verso la patria.
Allorchè calando da una delle Alpi che fiancheggiano il mare di
Liguria, distinse tra il verde della valle le torri del castello di Tenda,
vide il lago de’ palombi, e poco lungi scorse tra il folto degli alberi le
merlate mura del maniero de’ Gualdi, non dolci affetti si sollevarono
in lui con soave tumulto, non esclamò, non sorrise; solo un grave
sospiro uscì dal suo petto affranto dalla fatica e dalla doglia, e
s’asciugò due amare stille di pianto che gli caddero sulle arsiccie
guancie.
Visse colà inconsolabile, solingo.
Quando nelle paterne mura ribombò con terrore e desolazione
l’orrendo annunzio che Beatrice, dannata per scellerata sentenza dal
Marito, aveva lasciata la testa sul patibolo nel castello di Binasco, il
Venturiero quivi più non si rinvenne.
Alcuni giorni dopo apparve un Pellegrino in vicinanza al castello del
supplizio, e fu veduto starsi ogni notte immobile per lunghe ore,
pregando alla ferriata della cappella dei morti, ove i resti della
Contessa erano stati deposti. Nè andò guari che chiuse gli occhi
esso pure alla vita, e nessuno scoprì mai la sua storia o il suo nome.
Un Cadavere antico [7]
FINE.
IL BACIO FATALE
....... Ei nell’amata
Donna s’affigge, ode uno squillo: il suono
Quest’è che serra le stridenti porte.
Un istante gli resta, un bacio invola
A quella fronte gelida, una croce
Alle sue mani impallidite, e come
Luce nell’aer per le mute logge
Inosservato e celere dispare.
Tealdi-Fores.
FINE.