Gli anni incerti: Canzone di fine millennio
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Anteprima del libro
Gli anni incerti - Emiliano Dominici
Indice
Rondini
Gli anni incerti
Prima parte. Ma questa vita cos’è
Spedali riuniti, Livorno 22 giugno 1969
Istituto religioso Santa Brigida, Assisi 22 giugno 1969
Central Park, New York 22 giugno 1969
Seconda parte. E qualcosa rimane
Terza parte. L’aria delle cose
Inciso #1. Mi piace, non mi spezzerò
Quarta parte. Raccoglierai quel che hai seminato
Inciso #2. Mi mancate, non mi spezzerò
Quinta parte. Il vortice della vita
Inciso #3. Vi amo, non mi spezzerò
Coda. È la fine del mondo e mi sento bene
Gli anni incerti
isbn 9791280263056
Prima edizione digitale: novembre 2020
© 2020 effequ Sas
piazza Savonarola 11, Firenze
www.effequ.it
Facebook: effequ | Twitter: @effequ | Instagram: @effequ_ed
A questo libro hanno lavorato:
Coordinamento, direzione, editing, grafiche interni, comunicazione
Francesco Quatraro, Silvia Costantino
Artwork di copertina
Simone Ferrini
Illustrazione di copertina
Chiara De Marco
Attenzione: la riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore è vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.
E ancora: i personaggi, i nomi e i soprannomi di questo libro sono immaginari, pertanto ogni riferimento a persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale. I fatti storici e gli eventi narrati, nonché i marchi e le aziende citati hanno il solo scopo di conferire veridicità alla narrazione.
Questo è un libro indipendente, perché sgomita tra i colossi e prova a dire che c’è.
Vogliategli bene.
Emiliano Dominici
GLI ANNI
INCERTI
Canzone di fine millennio
Certo, avremo molto da fare, per vincere tutti gli ostacoli accumulati fra i nostri due cuori.
Marcel Proust
Prima parte Ma questa vita cos’è
Spedali riuniti, Livorno
22 giugno 1969
Appena le si rompono le acque chiama un taxi, come farebbe una signora, poi telefona a Siriana chiedendole di avvertire Vittorio e di raggiungerla in ospedale. Prende la borsa con tutto il necessario, compresa la radiolina. Il taxi si ferma davanti all’ingresso principale, lei scende, paga e aspetta le poche lire di resto. Respira. Sono le nove del mattino ma l’aria è già calda. Non è preoccupata, ha ventiquattr’anni ed è già al terzo figlio. Prima di entrare nel reparto maternità si sofferma a leggere le frasi scritte dai neopapà sul muro accanto alle scale, accumulate e mai cancellate nel corso degli anni. È nata Emilia, 2 chili e 7, è il mio angelo; È nato Yuri, 4 chili e 6 e il pisello grosso come il mio; Dopo 16 ore di travaglio è nata Alessia, 3 chili e 2, speriamo bene. Poi va a cercare le scritte fatte da suo marito, ne riconosce i caratteri stentati e tremuli, si capisce subito che non è abituato a scrivere: È nato Mario, 3 chili e 4; È nato Nedo, 3 chili e 8. Ha strappato la promessa a Vittorio che stavolta il nome lo sceglierà lei, maschio o femmina che sia. Ma non l’ha ancora deciso. Lo guarderà in faccia e deciderà sul momento.
Appoggia la borsa accanto al letto, si mette la camicia da notte e arriva la prima contrazione. Il medico di turno, un signore tarchiato dall’aria rassicurante, con la faccia che le ricorda Ugo Tognazzi, la visita e le dice che va tutto bene, la dilatazione è appena cominciata. Conta le pulsazioni con le sue le dita tozze e fredde. Quando toglie la mano, prima di voltarsi, le dà un buffetto sulla guancia, come a una scolaretta diligente. Lei non può fare a meno di notare che all’anulare destro porta due fedi.
Nel giro di un’ora arriva Vittorio, ancora con la tuta sporca del lavoro e, subito dopo, Siriana. Le tengono compagnia per poco tempo, le contrazioni si fanno sempre più ravvicinate e la portano in sala travaglio. Chiede se può tenere la radiolina, la caposala dice di sì.
Vigile, sa che tra poco comparirà la testolina, e allora tutti le diranno di spingere, di respirare bene e di spingere. Nelle pause guarda l’orologio al muro. Non deve confondersi, deve stare attenta all’ora esatta per calcolare l’ascendente. Sa già che sarà un Cancro, cuspide Gemelli, perché nascerà a cavallo tra i due segni. Ma l’ascendente è importante, cavolo se è importante, determina il modo in cui ci presentiamo al mondo, influisce su tutte le sfaccettature del carattere, almeno così le ha detto Siriana. Ha già fatto i suoi calcoli. Se nasce prima delle due sarà ascendente Vergine, per l’amor di Dio, troppo chiuse queste Vergini, troppo calcolatrici. Meglio se nasce dopo le due, ascendente Bilancia, un bel segno artistico, sua nonna Dora è Bilancia. Ma se per lei i tempi non erano pronti, la sua bambina, perché adesso se lo sente che sarà una bambina, farà quello che più le piace, l’attrice, la cantante, e proprio mentre pensa al futuro, ecco un dolore di quelli belli forti. Guarda l’orologio, mancano ancora dieci minuti alle due, bisogna che si trattenga. Per distrarsi chiede ai dottori se può accendere la radiolina, il dottore dalle mani tozze le sorride e glielo concede. La radio è sempre sintonizzata su Montecarlo, spera di ascoltare una canzone che la distragga, magari Acqua azzurra, acqua chiara. Ma invece del programma di canzoni c’è il radiogiornale, che si apre con una notizia da Londra. In mattinata hanno trovato il corpo senza vita di Judy Garland. La causa di morte, dicono, un’overdose di barbiturici. Si ricorda ancora quando, avrà avuto cinque o sei anni, la nonna la portò al cinemino della parrocchia a vedere Il mago di Oz. Guarda di nuovo l’orologio. Le due sono passate da pochi secondi. Si comincia a vedere la testolina desiderosa di uscire all’aria aperta. «Spinga» le dicono, «adesso faccia un bello sforzo e spinga». E lei spinge, già sapendo che la sua bambina sarà la nuova Judy Garland spinge, e spinge ancora, finché si sente svuotare, un lavandino che viene sturato, un risucchio di carne, liquidi che precipitano, sangue denso tra le cosce, poi qualcosa di rotondo e caldo le sfiora la pelle, poi subito un pianto fortissimo, polmoni sani, un’ugola d’oro degna della migliore cantante. Ecco, ha deciso, la chiamerà Judy. Ma no, i nomi stranieri non vanno bene, c’è sempre quella vecchia legge fascista. E allora si chiamerà Giuditta, Giuditta va bene, è un bel nome per un’artista, Giuditta Vox. Vox è un cognome perfetto, è la prima cosa che l’ha fatta innamorare di suo marito, anche se non glielo direbbe mai. Giuditta. La mia Giuditta. Prima che gliela portino via chiede di vederla. La pesano e gliela mostrano un attimo.
«Tre chili e duecento. Complimenti, è un bel maschietto. Ha già deciso come lo chiama?»
Istituto religioso Santa Brigida, Assisi
22 giugno 1969
Le hanno raccontato che il pesco sotto alla finestra lo hanno piantato quindici anni prima i bambini a ricordo del loro ultimo anno scolastico, bambini che adesso sono già uomini e donne. L’istituto, oltre ad accogliere le religiose, funziona anche da scuola elementare e clinica privata. Con un sospiro scosta le lenzuola da sé. Nelle mani tiene un rosario e lo sgrana lentamente. Si interrompe per un attimo, prende la bottiglia blu dell’acqua di rose, ne versa qualche goccia su un batuffolo di cotone e si umetta la fronte e il collo. Per fare questo gesto è costretta a cambiare posizione e vede il riflesso della sua faccia nello specchio interno dell’armadio che è rimasto aperto. In che stato, pensa, ho quarantatré anni e ne dimostro dieci di più. Quando sente bussare alla porta tira di nuovo a sé il lenzuolo fino al mento. Suor Mirella entra con un vassoio di ceramica decorato, una tazza di tè e delle fette biscottate. C’è una vecchia radio nella stanza, la suora posa il vassoio e la accende.
«Lo sa? Da oggi abbiamo una nuova santa. Stamani, dopo la preghiera, abbiamo ascoltato tutte assieme la canonizzazione di Giulia Billiart. Scommetto che il Santo Padre la nominerà durante l’omelia. Ah, una donna eccezionale, la conosce?»
«Solo di nome, io...»
«Shh, ecco che inizia. Le dispiace se la ascolto qui insieme a lei?»
«No, si figuri».
La voce di Paolo VI, sottile, con quelle sue R calcate, riempie la stanza: "Voi sapete: abbiamo, in questa mattina di sole, canonizzato, ammessa all’onore e al culto della santità, una donna, una vergine, madre nello spirito di innumerevoli altre vergini, perché fondatrice d’un istituto molto fiorente, le suore di Nostra Signora di Namur, tutte dedite al servizio del prossimo più povero e bisognoso..."
Suor Mirella, seduta sulla sponda del letto, guarda davanti a sé, verso la finestra.
«Ah, che grande Papa che ci è capitato, non è d’accordo?»
«Sì, io ero molto affezionata anche a Papa Giovanni...»
«Shh, che non capisco».
"... schiere numerose di donne, privilegiate soltanto nell’amore sconfinato a Cristo e nel sacrificio totale di sé; donne che tutto danno in silenzio, nome, gioventù, bellezza, ogni sogno, ogni diritto, solo contente di pregare e di servire".
«Ha già pensato a come chiamare la creatura? Se è una femmina potrebbe chiamarla Giulia, come la nuova santa. Se è un maschio potrebbe chiamarlo Paolo, come il Santo Padre. Oppure può scegliere tra uno dei suoi tanti nomi veri, Giovanni, Battista, Enrico, Antonio, Maria. Certo, Maria è meglio usarlo per una femmina».
«Io pensavo di chiamarla come mia madre, Tosca».
«No, Tosca è troppo provinciale, vuole mettere Giulia? Senta come suona bene. E adesso mi faccia finire di ascoltare, per cortesia».
... così felice di darsi e di ricevere. Rendiamo onore, rispetto, riconoscenza perciò a queste figlie del nostro mondo credente e cristiano, le suore, le monache, le religiose, le consacrate; e oggi preghiamo con loro e per loro la donna fra tutte eccellente, la Vergine Maria
.
Proprio sull’ultima parola, sul nome della creatura perfetta tra le imperfette, la suora comincia a recitare un’Ave Maria, mentre lei capisce subito che qualcosa non va. Un dolore le squarcia il ventre. Lascia cadere la bottiglia di acqua di rose che si rovescia sul cuscino, inondando la stanza di un profumo di primavera. Non grida ma stringe i pugni, serra i denti, chiude gli occhi. La suora, intenta nella preghiera, non si accorge di nulla. Il dolore dura una decina di secondi che pare un’eternità.
«Per favore, suor Mirella, corra a chiamare l’ostetrica. Mi sa che ci siamo».
«Vado, vado... non sarà mica la prima donna a partorire! Sa quante ne ho viste io? È vero che lei è un po’ in su con l’età, per fare il primo figlio. Ma pensi alla povera Sara, la moglie di Abramo, aveva più di novant’anni quando ha partorito, e lei lo sa che cosa significa Isacco, il nome del figlio? Significa risata, perché Sara rise quando il Signore le disse che avrebbe...»
Lei lancia un urlo talmente forte da convincere suor Mirella a uscire dalla stanza e a chiamare chi di dovere.
Il travaglio dura dodici ore. Quando la bambina esce fuori, rossa, la testa deformata nello sforzo di vedere la luce, la mamma non la guarda neanche. Il padre, all’anagrafe, seguirà il suggerimento della suora e chiamerà la bambina Giulia. E aggiungerà anche il secondo nome, Paola. In onore del Santo Padre.
Central Park, New York
22 giugno 1969
È seduta sull’erba, i piedi nudi sull’umido, luci che si muovono, muri di suono. Il palco è a pochi metri da lei, o forse a un chilometro, o forse il palco è sulla Luna e lei su questo prato. O è lei a essere sulla Luna, e il prato non esiste, è nella sua testa. La sua famiglia, l’unica che ha, sono cuori che battono insieme mentre Jerry Garcia sta facendo il suo assolo di chitarra. Se lei si concentra e stringe gli occhi, la chitarra è una vanga, no, è un tubo per annaffiare, si piega, si allunga, è una donna di Modigliani, il collo infinito, gli occhi vuoti, la voce è un treno che corre e che frena, creatura metallica, amore universale. Le viene da ridere e ride. L’erba non è più soltanto umida, è bagnata, l’odore è strano, viene da lei. Prova ad alzarsi ma non ci riesce. C’è una sfera sotto il suo vestito, un pallone, vuole prenderlo e lanciarlo sul palco. Poi arriva un dolore che spacca, lei lancia un grido, nessuno la sente. La musica dei Grateful Dead è un flusso rosso, un alone che parte dalle casse, le entra nel ventre e la scuote dentro. La sfera comincia a muoversi nella pancia, la musica l’afferra e tira, lei si distende, allarga le gambe e aspetta, aspetta e ride. Sente uno squarcio. Piange, poi ride. Qualcuno è lì vicino, le strappa via le mutande. Lei respira forte, veloce, poi si lascia andare. Proprio mentre l’assolo finisce sente il pianto di un bambino. Chi ha portato un bambino così piccolo a questo concerto? E poi è sopra di lei. È minuscolo, sembra un gattino, ha già smesso di piangere. La fune che le parte da dentro e arriva alla pancia di lui è la musica, è Jerry che ha fatto il miracolo. Si scopre un seno e il piccolo si attacca. Vuole stare così per sempre. Qualcuno ha in mano qualcosa, un flauto, un ombrello chiuso. Luccica e riflette la luce, Cut it up!, qualcuno dice, Cut it up!, o almeno così sembra a lei, che strano suono ha quella lingua, non ci si è ancora abituata, è così diversa dall’italiano, è una lingua che si rincorre, non è mai distesa, non è lunga, è nervosa, ogni sillaba è una parola, ogni parola un mondo sconosciuto, Cut it up! Hurry!, qualcuno dice, e la lama taglia la corda che li unisce. Il gattino è libero, ora, è un essere a parte, non è più lei stessa, era la sua carne e non lo è più, è libero nel mondo. L’ultimo pensiero prima di svenire ed essere portata via è che lo chiamerà Jerry. E sarà felice.
1. Quando il medico le chiede se ha già scelto un nome Antonella non sa cosa dire. Judy, Giuditta, Jude, come la canzone dei Beatles che le piace tanto, non vanno bene, o sono femminili o sono stranieri. Pensa a Giuditto, ma le fa schifo. Alle quattro del mattino, sui rintocchi dell’orologio dell’ospedale, prende una decisione. Lo chiamerà Giuda. È un bel nome, Giuda, non conosce nessuno che si chiami così. Giuda Vox. È il nome perfetto per un artista. Suona bene.
La mattina dopo comunica la decisione al marito, ma Vittorio le dice che non è bello chiamare un figlio con un nome così, non è giusto, è come metterlo nei guai prima ancora che cresca. Eppure me l’ha promesso, pensa Antonella. Il nome del primo, Mario, l’ha scelto lui. Il nome del secondo, Nedo, l’ha scelto ancora lui. Il nome del terzo tocca a me. E io voglio Giuda.
Alle undici Vittorio va all’anagrafe e aspetta un quarto d’ora davanti allo sportello. L’addetta è una donna sui cinquant’anni ancora belloccia.
«Mi dica».
«Ieri è nato mio figlio».
La donna lo squadra dalla testa ai piedi. I capelli corti e neri, ricci, gli occhi verdi, la pelle abbronzata, come tutti i livornesi, i muscoli che si intuiscono sotto la camicia azzurra. È da tanto che non si presentava un babbo così bello.
«Nome della madre?»
«Antonella Tognini».
«Nome del padre?»
«Vittorio Vox, con la x in fondo».
«Il neonato è maschio o femmina?»
«Maschio».
«A che ore è nato?»
«Alle due del pomeriggio».
«Bene, e come volete chiamarlo?»
«Giuda».
«Giuda?»
«L’ha scelto mia moglie».
L’addetta non riesce a trattenersi.
«Ma no, via, Giuda Vox, sembra il nome di uno sciroppo per la tosse. E poi vuole davvero chiamare suo figlio come il più grande traditore di tutti i tempi? Glielo dico io, non porta bene. Che ne dice di Guido? Assomiglia a Giuda ma è più normale».
Non ci vuole molto per convincerlo.
2. Una settimana dopo il parto ad Assisi la signora Giuseppina Torrigiani detta Pinuccia, il marito Francesco Pannacci e la loro bambina tornano nella casa di Livorno, un appartamento modesto ma ben tenuto in via Fratelli Cervi, nel cuore del quartiere popolare di Corea.
Pinuccia è ancora stanca del viaggio e dentro di sé incolpa il marito che ha preteso che partorisse ad Assisi, città d’origine di tutti i Pannacci, anziché a Livorno, città, a detta di Francesco, di ignoranti, comunisti e morti di fame. Il parto è stato un incubo. Giulia, in relazione inversamente proporzionale al corpo della madre, è nata di quattro chili e duecento grammi, e una testa di notevoli dimensioni ereditata dai Pannacci.
La neonata, nella sua culla, tiene gli occhi ben aperti. La stanza, ridipinta e arredata dal padre durante i mesi della gravidanza, una stanza che prima serviva da studio e inaspettatamente ha dovuto cambiare destinazione d’uso, è bianca, sobria, come pure la culla. Le pareti sono spoglie, a eccezione di due grossi quadri con le facce di san Francesco e santa Chiara, circondati da cornici d’oro che fanno pendant con le aureole. Accanto alla culla c’è una grande giostra delle api in legno massiccio, fatta costruire dal falegname che abita in fondo alla strada. Ma al posto delle api Francesco ha ritagliato alcune sagome in cartoncino dei suoi santi umbri preferiti: sant’Ercolano, scorticato e decapitato, san Lorenzo, bruciato sulla graticola, san Costanzo di Perugia, immerso dentro un pentolone d’acqua bollente, sant’Ubaldo, pieno di pustole biancastre, san Crescentino, che arde illeso in mezzo al rogo, san Ponziano, trafitto da una spada, e san Sebastiano, col corpo martoriato da decine di frecce. All’obiezione della moglie, che pure proviene da una famiglia religiosa, se quell’opera, destinata agli occhi di una neonata, non gli sembrasse troppo violenta, il marito ha risposto che era un bene che la piccola si abituasse alle storture del mondo, all’estremo sacrificio nel nome del proprio credo. Pinuccia ha lasciato perdere.
La vita scorre come al solito, a casa Pannacci, con l’aggiunta di quattro chili e duecento grammi in più, che ben presto diventano quattro e cinquecento, e poi quattro e settecento. Giulia pare essere l’unica neonata che non perde peso nei primi dieci giorni, anzi. Pinuccia è contenta: aumentando il volume del corpo si nota meno il testone. Perché sì, è una bella bimba, piena di salute, e questo è l’importante, ma una mamma si accorge anche dei difetti. Paolino, il figlio dei vicini di casa, quando ha visto Giulia per la prima volta, se n’è uscito con un che chiorba!
, che gli ha fatto guadagnare uno schiaffo secco sulla bocca da parte della madre.
Francesco va a lavorare ogni mattina alle Poste, spesso fa gli straordinari e rientra poco prima di cena. Questo gli permette di elevare la famiglia da quella soglia di povertà comune alla maggioranza del quartiere. Pinuccia passa tanto tempo con Giulia, sola o in compagnia di sua sorella Moira, che abita a Pisa e viene a trovarla ogni fine settimana. Ogni tanto riceve la visita di qualche fedele della chiesa di Nostra Signora, proprio di faccia alla loro casa. Quando don Goffredo va a salutare e a benedire la piccola, Pinuccia lo accoglie sulla soglia con la bambina in braccio. Lui si fa strada da solo verso il cucinotto. Apre il frigo e si versa dell’acqua. È in abiti civili. Sulla camicia grigia pende una piccola croce di legno. I capelli bianchi, folti, non lunghi ma incolti, gli incorniciano la fronte alta e i lineamenti decisi, il naso dritto, le orecchie leggermente a sventola. È abbronzato, passa molto del suo tempo libero a coltivare pomodori nell’orto della parrocchia.
«Quanta salute, eh?» dice a Pinuccia quando vede quella bambina così florida.
«Sì, pare il ritratto di mia suocera, vero?»
«Ma no, Giulia è molto più bella. E poi ha gli occhi tuoi, Pinuccia. Sono contento che le hai messo il nome della nostra santa».
«In realtà volevo chiamarla Tosca, ma mio marito si è fatto convincere da suor Mirella, e alla fine l’hanno chiamata Giulia Paola».
«Come mai anche Paola?»
«Perché suor Mirella, come Francesco, è una devota del Santo Padre».
«L’ho sempre detto che le suore sono sceme».
Don Goffredo prende la piccola in braccio e comincia a dondolarla fino a farla addormentare, poi la mette nella culla sfiorando il grande catafalco di legno dedicato ai santi martirizzati nei modi più atroci e gli scappa un sorriso.
«Questa è opera di Francesco, vero?»
«Don Goffredo, non le sembra poco adatto per una bambina così piccola?»
«Non preoccuparti, ci parlo io, cerco di convincerlo a metterci, se non le api, almeno degli angioletti».
«Non so se riuscirà a convincerlo».
«Francamente non lo so neanch’io».
3. L’ambulanza arriva direttamente a Central Park e, percorrendo a gran velocità strade tagliate con l’accetta, Madison Avenue, e poi a sinistra la West 42nd Street, e poi a destra la 1st Avenue, lascia il neonato e la donna, ancora incosciente, al Bellevue Hospital. Quando le controllano i documenti all’ospedale, perché i documenti ce li ha, anche se sembra una stracciona, scoprono che si chiama Alberta Rinaldi, che è italiana, nata ventisette anni prima in una città chiamata Livorno. Il poliziotto che si occupa di lei fa qualche ricerca e scopre che Livorno ha anche un nome inglese, Leghorn. E lo fa ridere, quel nome, perché per lui è sempre stato il nome delle galline nella fattoria di sua nonna, these are the best, diceva la vecchia mentre lanciava manate di mais nello spiazzo brullo accanto alla casa, my Leghorn chickens. Il bambino sembra sano, appena sottopeso. Anche la madre sta bene, considerando tutto l’acido che ha preso, ma non si rende ben conto di cosa le sia successo.
Le nebbie nella sua testa cominciano a diradarsi dopo due giorni. Anzi, scompaiono del tutto, all’improvviso. Si affaccia alla finestra, guarda per un’ora il flusso di macchine lungo la strada, sono onde che si rincorrono, massa d’energia fluida, sciabolate di luce riflessa. Si lava il viso con l’acqua fredda, comincia a bere. Non ricorda se l’acqua dei rubinetti di New York è potabile, ma a lei sembra buona. Va verso l’armadio e trova la sua borsa, qualcuno ce l’ha messa. Prende l’agendina e va dal medico di turno per richiedere una visita psichiatrica. È forte, ora, è lucida, è sicura, vuole tenere il bambino. Non ricorda niente del parto, solo la musica e le luci, e il prato che si muove sotto di lei, e il suo corpo che si apre. Del bambino sa solo che si chiama Jerry. Tutti i suoi amici sono in giro per la tournée dei Grateful, ma forse qualcuno che è rimasto a New York riesce a trovarlo. L’unico che le risponde è Steve, l’avvocato. Gli spiega la situazione e lui le dice di aspettarla che tra un paio d’ore sarà lì. Lei riaggancia, va dal medico e chiede di poter vedere suo figlio. Vuole allattarlo. Lo vuole a tutti i costi.
La visita psichiatrica va a buon fine. Steve l’aiuta con le pratiche. I medici non se la sentono di denunciarla, non con quell’avvocato alle costole. Le permettono di vedere il bambino due volte al giorno, ma non può allattarlo, almeno finché non avrà smaltito tutti gli acidi che ancora le scorrono dentro. Nel frattempo, giorno dopo giorno, lei prende confidenza con quel corpicino. Le cose che più la colpiscono sono l’odore, il battito veloce del cuore e il taglio degli occhi. Si chiede chi mai possa essere il padre, tra i tanti. Lo tiene in braccio, gli sfiora la testa con le labbra, lo annusa, gli sussurra le ultime canzoni dei Grateful. Steve e Marla la ospiteranno per qualche giorno nel loro appartamento a Greenwich Village, meno male che ci sono loro, poi vedrà il da farsi. Sa che i Grateful, a breve, si sposteranno in California, ma poi da lì torneranno indietro. Le hanno detto che nel giro di qualche settimana ci sarà un mega raduno vicino a Bridgeport, ci suoneranno tutti i più grandi. I Grateful ci saranno di sicuro. E Jimi, e i Jefferson, e forse Janis. Sì, New York è il posto dove le piacerebbe vivere per sempre, è lì che succede tutto. Lo sa, lo sente, lo annusa nell’aria.
Al quinto giorno di degenza la dimettono assieme al bambino. Steve e Marla lavorano ma le hanno lasciato le chiavi dell’appartamento in Grove Street, non lontano dal Bellevue. Chiama un taxi. Prima di arrivare a casa, però, decide di far fare un giro a Jerry, una specie di battesimo nella Grande Mela. Chiede al tassista di percorrere a ritroso la strada dell’ambulanza che dal concerto l’aveva portata all’ospedale. Il traffico, però, è impossibile. Madison Avenue, in particolare, è piena di auto bloccate e di persone a piedi che si affrettano tutte nella solita direzione. Alberta nota che in maggioranza sono vestite di nero, cosa strana per una così bella mattina estiva. Le sembrano formiche che corrono impazzite verso il cadavere di un moscone. L’autista le spiega che è tutta gente che sta andando alla Campbell Funeral Chapel per rendere omaggio alle spoglie di Judy Garland, appena rientrate da Londra. Mentre il taxi prosegue a passo d’uomo, Alberta ha tutto il tempo di osservare ciò che la circonda. Qualcuno piange camminando. Una donna, avrà ottant’anni, un foulard nero sulla testa, tiene in una mano un mazzo di margherite e, nell’altra, il bastone col quale si aiuta per camminare. È tanto incerta nell’andatura quanto i suoi occhi sono sicuri, dritti verso la meta: il corpo già in decomposizione di un mito dello spettacolo. Quasi a voler distrarre la madre da quella vista e da quei pensieri, Jerry comincia a piagnucolare. Alberta tira fuori dalla borsa un biberon già pronto col latte di soia, gli sfiora le labbra con la tettarella e all’improvviso ci ripensa. Appoggia il biberon sul sedile, dritto contro lo schienale, si allarga il vestito di cotone a fiori e tira fuori un seno. Lo porge a Jerry e lui comincia a succhiare, avido addirittura. Alberta sente che non può fargli male: è il latte di sua madre, il sangue del suo sangue. Sorride e chiede al tassista di cambiare strada. Non c’è più bisogno che il bambino veda dove è nato, l’energia dei Grateful gli viene direttamente dal latte. Jerry si addormenta col capezzolo della madre tra le labbra. Quando arrivano in Grove Street sta ancora dormendo. Alberta paga il tassista, prende la borsa, scende col bambino in braccio e si avvia verso il portoncino rosso della casa. Il taxi riparte mentre lei cerca le chiavi. Il biberon è rimasto a bordo.
4. «Cos’è la vitaaa senza l’amoreee è solo un albero che foglie non ha più... e s’alza il ventooo, un vento freddooo...»
Sono le nove del mattino e Antonella, come fa sempre quando stende i panni nel piccolo orto di fronte a casa sua, canta a squarciagola, imitando le vocali strascicate e la voce nasale di Nada. Non si vergogna di farsi sentire dalle pettegole del quartiere.
«Mi sento una farfalla che sui fiori non vola più, che non vola più...»
Le dà una certa soddisfazione pensare che una ragazzina di Gabbro, paesino a pochi chilometri da Livorno, sia riuscita a cantare a Sanremo. Certo, non fosse rimasta incinta così presto, anche lei ci avrebbe provato. Ma c’è stato Vittorio, e le sue mani forti, e le notti di maggio, e l’erba umida vicino alla cava. Non rimpiange niente, ama suo marito, adora i suoi figli, ma alla carriera di cantante ogni tanto ci pensa, a quando si è esibita davanti a centinaia di persone in un concorso canoro alla Gran Guardia. Stare così, davanti a tutti, con la gente che la guardava, la nonna in prima fila, le ginocchia che le tremavano, la voce che veniva fuori da sola, senza sforzo, quell’emozione non l’aveva mai provata in vita sua. E niente, ancora, l’ha eguagliata, non il matrimonio, neanche la nascita dei figli.
Guido sta dormendo nel suo lettino, che prima è stato di Mario e poi di Nedo. Per un attimo Antonella pensa alla propria vita come a una catena di rapporti sessuali, inseminazioni, nascite, montate lattee, poppate, rigurgiti, pannolini da cambiare e le viene un brivido lungo la schiena, una specie di vomito. Quando ha saputo che Vittorio ha messo nome Guido al bambino ci è rimasta talmente