Cinque Storie Ferraresi Dentro Le Mura
Cinque Storie Ferraresi Dentro Le Mura
Cinque Storie Ferraresi Dentro Le Mura
Bassani è un autore complesso e raffinato, che è ritornato più volte sulle sue opere rivedendole
soprattutto dal punto di vista stilistico con perfezionismo. In lui la scrittura si delinea come officina,
laboratorio continuo in perpetuo miglioramento.
A un certo punto della sua attività inizia a rielaborare la sua narrativa d’argomento ferrarese e la
raccoglie ne “Il romanzo di Ferrara”, che si articola in sei parti: “Dentro le mura”, Gli occhiali
d’oro”, “Il giardino dei Finzi-Contini”, “Dietro la porta”, “L’airone”, “L’odore del fieno”.
“Dentro le mura”, primo volume del grande affresco di Ferrara, è costituito dalla rielaborazione delle
“Cinque storie ferraresi”, composte da Bassani in diversi periodi, edite in volume nel 1956 (premio
Strega nello stesso anno).
Si tratta di cinque lunghi racconti, che riguardano Ferrara, specialmente la borghesia benestante
ebraica, la sua mentalità, le sue chiusure e, contemporaneamente riguardano l’inizio di una ricerca
dell’Autore dentro se stesso, le proprie radici, il proprio io.
Vicende storiche e interrogativi esistenziali sono strettamente connessi, innestati l’uno dentro l’altro
nella narrativa di Bassani, la cui scrittura è ricercata ed elegante, intensa e lirica.
Ferrara non costituisce un semplice sfondo, ma è un’autentica protagonista, le sue vie – Corso
Giovecca, Corso Roma, via Mazzini, il Caffè della Borsa – i suoi scorci e le sue mura diventano
famigliari ed emblematici. Bassani le descrive con precisione, a volte con tecnica cinematografica o
con interesse pittorico.
Una “tenue luce rosa” si fa strada attraverso vetri incrostati di ghiaccio, “era una luce
proveniente da un sole distante, perduto in un cielo d’azzurro vago, nebbioso, un sole che
non scaldava” (p.45- Lida Mantovani).
È interessante osservare come le case dei protagonisti o i loro quartieri vengano di solito localizzati
rispetto alle mura. Così la casa di Lida Mantovani e di suo marito Oreste è fuori le mura, laddove
sembra essere possibile una qualche serenità, si può respirare più liberamente rispetto all’ambiente
chiuso e alla mentalità ristretta entro la cerchia dei bastioni.
Il centro della città è invece luogo nel quale si viene osservati e giudicati da una borghesia perbenista
e pettegola: così Lida e David, protagonisti di una relazione clandestina e “scandalosa”, evitano le vie
frequentate e si occultano nei prati dei bastioni. Quando invece Lida si sposerà regolarmente con
Oreste potrà attraversare le strade del centro senza paura di giudizi altrui.
In ogni storia c’è un continuo orientarsi rispetto alle mura, c’è un dentro e un fuori, un’atmosfera
cittadina più opprimente piena di voci, di rumori, di dettagli, di discorsi e uno sguardo verso la pianura
esterna e aperta.
Le case hanno sempre una loro singolarità, sono quasi vive. Ecco la casa di Elia Corcos e Gemma
Brondi in “La passeggiata prima di cena”: “…una facciata grigia, laggiù, tutta tramata di vite
americana, le verdi imposte accostate a difendere gli interni da ogni eccesso di riverbero:
una facciata che rivolta come era verso mezzogiorno, e quindi esposta a ricevere ogni
benché minima variazione della luce, coi suoi pallori, con le sue cupezze, coi suoi
improvvisi rossori e trasalimenti faceva davvero pensare a qualche cosa di vivente, di
umano”. (pp.73-74)
Le mura rappresentano una condizione di segregazione, di isolamento: vi sono quelle della città,
quelle del cimitero e quelle del ghetto. E qui ci si collega ad un altro tema ricorrente in Bassani: il suo
essere ebreo e l’indagare la condizione di isolamento e di diversità del suo popolo.
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Non è chiaro se questo isolamento sia frutto di una scelta o di un’imposizione, si sa che su tutto alita
una dimensione interrogativa, enigmatica: furono gli ebrei in qualche modo corresponsabili della loro
sorte, del loro sterminio? Il fantasma della Shoah aleggia un po’ ovunque nelle Storie, è nel tragico
destino di Elia Corcos, esplode con Geo Josz in “Una lapide in via Mazzini”.
Bassani si chiede se i germi di quel destino non fossero già racchiusi dentro le mura, in atteggiamenti
di snobismo, autolesionismo, superiorità o inferiorità della ricca borghesia ebraica che egli coglie nel
suo disfacimento.
Gli interrogativi che l’Autore si pone sono, nel profondo, esistenziali, non semplicemente storici.
Naturalmente la storia – il fascismo, le leggi razziali, la guerra civile – sono ben presenti, ma non
costituiscono l’ultimo obiettivo dell’analisi bassaniana, che si muoverà sempre più verso l’individuo e
il suo essere.
In questo ambito scavare nel passato per cogliere le radici del presente diventa importante, il passato
potrebbe spiegare l’enigmatico presente e questo tema verrà approfondito sempre più da Bassani in
tutta la sua opera.
Già qui, nel primo racconto – Lida Mantovani –si dice che la protagonista tendeva a “star sempre
con la faccia girata indietro a rimasticare cose passate”. (p.22)
Per orientarsi meglio è ora utile analizzare uno per uno i cinque racconti di “Dentro le mura”.
LIDA MANTOVANI
È il rifacimento di un lavoro giovanile di Bassani, apparso in diverse edizioni con vari titoli nel corso
di vent’anni. Lida, giovane sartina che vive e lavora con la madre, ha avuto un figlio da un ragazzo
ebreo, David, ricco borghese che poi l’ha lasciata sola. In lei sembra ripetersi il destino di sua madre
Maria, sedotta da un soldato americano durante la guerra. Le due donne vivono modestamente, alle
soglie della povertà, in un seminterrato.
Nella loro quotidianità compare Oreste, un vicino di casa, legatore di libri, un artigiano onesto, che
corteggia Lida e accetta il suo bambino. Oreste è cattolico, ha oltre vent’anni più di Lida, ma è
rassicurante e buono. Lida lo sposerà dopo la morte della madre, ma le rimarrà sempre il dubbio di
non averlo reso, nei pochi anni in cui sono vissuti insieme, pienamente felice, per non avergli dato un
figlio. La maternità è dunque assente quando sarebbe motivo di gioia e presente nel momento
sbagliato.
Lida è un personaggio piuttosto passivo, mentre le due figure maschili sembrano contrapporsi: da un
lato il pio Oreste, equilibrato, paziente, tradizionale e cattolico, dall’altro l’ebreo David, sempre
sfuggente, pronto a sedurre Lida tra i prati dei bastioni, capace di convivere con lei per un periodo,
ma poi pronto ad dileguarsi e a lasciarla sola col bambino per ritornare nell’alveo dei suoi progetti
borghesi a sposare una ragazza del suo stesso ceto sociale.
David fantastica programmi di ribellione verso la sua gente, pare volersi degradare nella relazione
con Lida – non bella, non colta, cattolica – ma poi è indeciso, incapace.
Lida cerca invano di comunicare con lui, che non entra mai nella casa delle due donne ed evita di
mostrarsi in pubblico in sua compagnia. L’interrogativo ricorrente è: “Chi era David? Che cosa
cercava? Che cosa voleva? Perché?”
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L’incipit è memorabile e straordinario, realizzato con una tecnica cinematografica che fa emergere
la storia del dottor Elia Corcos, ebreo, e di Gemma Brondi, infermiera non ebrea, da una vecchia
cartolina ottocentesca.
La vita e l’aspetto della Ferrara di due secoli fa riappaiono dal passato poco a poco, l’occhio dello
scrittore si sposta come un obiettivo fino a presentarci l’apprendista infermiera Gemma Brondi e il
suo incontro con il futuro marito, il dottor Corcos.
Borghese e benestante, Elia Corcos sposa Gemma, di famiglia contadina, e sembra voler umiliarsi
con questa scelta inusuale, che lascia stupiti i suoi stessi concittadini.
Nel matrimonio di Elia è configurato il suo destino, una carriera mai del tutto realizzata, se non
all’interno delle mura ferraresi. Un grande clinico viene reputato Corcos in città, la cui fama avrebbe
potuto essere ben più vasta. Le voci dei ferraresi dicono che la loro città era stata condannata a un
ruolo secondario nell’economia nazionale per la decisione di un onorevole socialista, che aveva
voluto che il principale nodo ferroviario dell’Italia settentrionale fosse dislocato a Bologna e non a
Ferrara. In conseguenza di ciò anche Corcos era rimasto tagliato fuori, aveva dovuto arrendersi e
rinunciare.
Siamo nuovamente di fronte al personaggio ebreo borghese e al suo rapporto con la società, al suo
non integrarsi, alla sua enigmaticità. Elia – anziano e vedovo – finirà deportato col figlio e ancora
una volta lo sterminio getta la sua ombra fin nelle radici stesse del protagonista.
Interessantissimo notare come qui Bassani mostri i punti di vista dei vari personaggi: da un lato gli
ebrei, chiusi nella loro mentalità, diffidenti verso Gemma e la sua famiglia, orgogliosi della loro
stirpe, compiaciuti del loro senso di appartenenza; dall’altro la famiglia Brondi che non è meno
diffidente e si rifiuta – a parte la sorella Ausilia – di frequentare la casa dei due sposi.
Bassani scava nel passato per provare a capire il presente, cerca nella storia dell’individuo ebreo
qualcosa che giustifichi la sua rottura con la società.
Elia rimane un personaggio indecifrabile, enigmatico, tanto che il confine tra isolamento imposto e
voluto non esiste più.
Nell’agosto 1945, mentre a Ferrara si espone una lapide dedicata agli ebrei deportati e uccisi dai
nazisti, compare all’improvviso un sopravvissuto, Geo Josz, che contempla anche il proprio nome
inciso nel marmo.
Geo è una figura inquietante, è molto grasso, pallido e gonfio come se emergesse da profondità
sottomarine, ha gli occhi azzurri e acquosi ed è molto ironico verso i suoi mediocri concittadini,
ansiosi di dimenticare e di ritornare alla normalità.
I ferraresi – ebrei e non – avevano aderito al fascismo e poi a Salò “per civismo, […] per pura
carità di Patria; e in ogni caso non prima del fatale 15 dicembre ferrarese e del successivo
scatenarsi in tutto il resto d’Italia della lotta fratricida”. (pp.92-93)
Qui i fatti tragici della Shoah sono già avvenuti e non è possibile distinguere tra ebrei e fascisti,
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perché molti ebrei avevano aderito al fascismo finendo poi stritolati nella deportazione. Geo proviene
da quell’inferno e sembra interrogare tutti, è scomodo, è un enigma vivente che fa sentire la sua
voce, rivuole la sua vecchia casa, diventata la base dei partigiani, sottentrati al Comando delle
Brigate Nere.
Geo crea disagio, nessuno lo vuole. A un certo punto comincia a circolare vestito da deportato,
raccontando a tutti dei parenti morti nel campo di sterminio e mostrando le loro fotografie in ogni
occasione. Inizia a dimagrire, diviene una sorta di spettro e poi scompare nel nulla. Ritorna l’eterno
interrogativo: “Che cosa voleva, in fondo, Geo Josz?”
Geo è il fantasma venuto dal passato a smascherare l’ipocrisia del presente, che invano si cerca di
nascondere dietro lunghe barbe. Geo va allontanato perché impedisce la ripresa della normale vita
dei ferraresi, che desiderano mettere una bella lapide sugli eventi trascorsi e lasciarla a coprirsi di
polvere, ma i fatti sono ormai accaduti. Per quando Ferrara si affretti a rimuoverli, il grido surreale
di Geo, furibondo e disumano, risuona alto fino alle mura.
Siamo nel primo dopoguerra e a Ferrara si sta svolgendo un funerale laico, con tanto di bandiere
rosse e drappello di autorità: viene traslata la salma di Clelia Trotti, vecchia maestra socialista, cui si
attribuiscono quegli onori che in vita non ebbe.
Ad assistere da lontano un giovane letterato ebreo, Bruno Lattes, che ha conosciuto la Trotti prima
di lasciare l’Italia ed evitare così la deportazione e la morte. Bruno ricorda i suoi colloqui con
l’anziana signora, che viveva, sorvegliatissima dalla polizia fascista, in casa della sorella. Tra le
figure che l’hanno aiutato a rintracciarla, un ciabattino dignitoso e acuto.
Ancora una volta è la memoria ad entrare in scena insieme a quel passato misto di dolcezza e sensi
di colpa.
Bruno è ritornato nel piccolo e vecchio mondo provinciale, dove pare che il tempo si sia fermato,
nonostante gli eventi funesti. Lui ormai è avviato alla carriera universitaria in America, ma la figura
di Clelia Trotti riappare nitida: è stata un’idealista sognatrice, coerente con se stessa, ma ne era
valsa la pena, se poi il tempo corrode tutto?
“E che cosa era venuto a fare, lui, sopraggiungendo talmente tardi, se non appunto per
rendersi conto che il mondo migliore, la società giusta e civile di cui Clelia Trotti
rappresentava insieme la prova vivente e il relitto, non sarebbero tornati mai più?” (p.158)
Chiusa nella casa della sorella, Clelia sogna il socialismo; dall’altro lato il padre di Bruno, vecchio
avvocato chiuso nel ghetto, sogna un brillante avvenire per il figlio all’estero, illudendosi che ancora
ci sia una prospettiva per il futuro. Finirà deportato.
In Bruno è forte il disincanto, sa che la tagliola è scattata e impedisce ogni evasione. “…meglio
valeva allora che uno continuasse a partecipare volonterosamente, non fosse altro che per
pietà e umiltà, alle fantasticherie solitarie, ai disperati passatempi, ai poveri, miserabili
deliri da ergastolani onanisti dei proprio compagni di viaggio”. (p.165)
Il rapporto che si crea tra Bruno e Clelia, con tanto d’incontri clandestini quasi fossero due amanti, è
piuttosto intenso: lei racconta di sé, della prigionia, della violenza fascista, è una solitaria sognatrice
chiusa tra le mura, sa che Bruno non sarà mai socialista, ma afferma che c’è bisogno di giovani come
lui che “fossero socialisti senza esserlo.”
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Bruno invece è incerto, non sa ancora quale scelta farà, si sente un escluso-emarginato, è il diverso,
l’ebreo, così lontano da quelle giovani coppie bionde e belle – ariane – che appaiono all’inizio e alla
fine del racconto e che Bruno sembra invidiare. E ritorna l’eterna domanda sull’identità: Chi era
Bruno Lattes?
Nell’ultimo racconto abbiamo un fatto tragico e un testimone inquietante, un’altra figura scomoda
che osserva i ferraresi dall’alto della sua terrazza.
C’è un marciapiede che i cittadini evitano accuratamente: lì, davanti al caffè, il 15 dicembre ’43
furono fucilati undici ferraresi. Unico testimone il farmacista invalido Barilari, che però non ha mai
accusato i responsabili della strage.
Quei morti furono le prime vittime della guerra civile italiana e la voce assurda, ironica e triste del
farmacista scende dall’alto e avvisa i forestieri ignari che quello è un luogo speciale, che nulla a
Ferrara sarà più come prima.
Nelle pagine di Bassani c’é è tutta la vita di provincia, i discorsi, la chiusura mentale e la miopia
della borghesia ebraica che non si rende conto del pericolo cui va incontro.
L’assassinio del console Bolognesi, ex Segretario Federale, provoca la fucilazione di undici persone
fra civili e prigionieri politici. In quella notte a Ferrara serpeggiano ansia e paura, circolano voci
disparate, la vita della città è sconvolta. Orrore, pietà, paura folle.
Ci si interroga sugli autori della strage, si parla degli squadristi veneti, ma la verità è che qualche
ferrarese ha fatto la spia e ha rivelato i nascondigli di alcune vittime.
“Eppure sarebbe bastato ben poco, in fondo, perché l’errore di calcolo che tanti avevano
compiuto sotto l’incombere di avvenimenti d’eccezione, quel semplice, umano sbaglio che i
comunisti del luogo, insediatisi in Municipio dal ’45, tendevano adesso a trasformare in
perpetuo marchio di infamia, diventasse insieme col resto nient’altro che un brutto sogno,
un incubo orrendo da cui svegliarsi pieni di speranza, di fiducia in se stessi e nel futuro!
Sarebbe bastata la condanna esemplare degli assassini, e della notte del 15 dicembre 1943,
di quella notte decisiva, fatale, sarebbe stato cancellato rapidamente ogni ricordo”. (p.210)
Ferrara non sa fare giustizia, ha una sorta di cuore marcio e Pino Barilari – una figura paragonabile
a Geo Josz – è lì a ricordarlo ogni giorno, lui colpevole e vittima (della moglie che quella notte
rincasava da un tradimento), al tempo stesso confinato e carceriere, reso invalido da una tabe
dorsale, una malattia che sembra infettare la città stessa.
Barilari ha taciuto, ma il rimorso lo spinge ora a ricordare sempre l’eccidio, è una voce inquietante, è
colui che scruta dall’alto i ferraresi e ne evidenzia il male segreto.
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