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Don Abbondio 

è uno dei personaggi principali de I promessi sposi, il più noto romanzo di Alessandro
Manzoni. Di fatto, la figura del religioso, dopo il preambolo, apre la narrazione del celebre romanzo. È una
persona titubante, meschina, codarda, che si sotterra davanti alle difficoltà e agli ostacoli che incontra e
come scrive Manzoni è "Un vaso di terra cotta in mezzo a tanti vasi in ferro".

Indice

 1Il personaggio
 2Analisi
 3Don Abbondio secondo Sciascia
 4"Umorismo" - Pirandello
 5Interpreti in televisione e in teatro
 6Note
 7Voci correlate
 8Altri progetti
 9Collegamenti esterni

Il personaggio[modifica | modifica wikitesto]
Don Abbondio è il parroco del paesino in provincia di Lecco, ed è il primo personaggio che Manzoni fa
incontrare al lettore, dopo l'introduzione geografica-storica con cui inizia il romanzo.

«...proseguiva il suo cammino, guardando a terra e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano
d'inciampo nel sentiero... egli, continuò a leggere tratti del suo salmo e si fermava... dopo alcuni tratti egli si
fermava e lo leggeva... [...] Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque
accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta,
costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro.»

Famoso è il modo in cui rivolge a Renzo Tramaglino, per confonderlo con un uso mistificatorio e
prevaricatore di frasi latine oscure per il suo interlocutore [1]:

«Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?


Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?
Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,...."
cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
"Si piglia gioco di me?" interruppe il giovine. "Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?"»
(I promessi sposi, cap. II)
Un'altra battuta famosa di don Abbondio, poi diventata proverbiale, è all'inizio dell'VIII capitolo, in cui,
mentre distrattamente legge sulla poltrona, rumina tra sé e sé:

«Carneade! Chi era costui?»

Il personaggio è descritto dal punto di vista fisico: ha due occhi grigi, una bassa statura e una costituzione
corpulenta, ”Due folte ciocche di capelli, (…), due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti,
e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve” (cap. VIII). La
sua età non viene precisata, ma nel cap. I si dice che "il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni,
senza gran burrasche". Il curato è dunque nato prima del novembre 1568. Il casato del personaggio, come
dice il Manzoni stesso, non è citato nel manoscritto da cui l'autore dichiara di aver tratto la vicenda
romanzesca.

L'autore, indulgente e pietoso verso don Abbondio, unisce l'impegno di una denuncia dell'egoismo, che è
alla radice della viltà del prete, all'esaltazione di quell'ideale etico-religioso che il pavido curato mai ha
seguito con fermezza di coscienza. Ideale che si ritroverà nella figura del Cardinale Federigo.
Scrive Francesco De Sanctis: "Come in don Rodrigo, così in don Abbondio il senso del bene e del male è
oscurato, e il mondo è guardato giudicato attraverso di un'atmosfera viziata. Il demonio del potente don
Rodrigo è l'orgoglio; il demonio del debole don Abbondio è la paura. La contraddizione fra il suo dovere e la
sua paura genera una situazione di un comico tanto più vivace, quanto più egli cerca di dissimularla. E la
dissimulazione non è già ipocrisia e doppiezza, che lo renderebbe odioso e spregevole, ma è un fenomeno
ella medesima della paura"[2].

Analisi[modifica | modifica wikitesto]
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Ritratto di Don Abbondio, dall'edizione Quarantana de I promessi sposi


Don Abbondio e il Cardinal Federico Borromeo

Don Abbondio è un personaggio del romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: è il curato dovuto
incaricato di sposare Renzo e Lucia, ma durante la sua consueta passeggiata incontra due bravi, sgherri di
Don Rodrigo, che gli intimano di non celebrare il matrimonio. È un uomo codardo, pigro e schivo, che si
sottrae davanti alle difficoltà e agli ostacoli che incontra. Il prete in un primo momento cerca di giustificarsi,
allontanando da sé la responsabilità di tale scelta, tanto più che non ne ricaverà nessun guadagno, ma alla
fine accondiscende alla volontà dei bravi.

Da quanto detto finora è evidente che Don Abbondio è una figura remissiva e vittima del tempo in cui vive:
infatti è costretto a sottostare alle prepotenze dei signorotti locali. Il narratore ci informa che era di
condizione non nobile e totalmente mancante di coraggio: esemplare è l'immagine del vaso di terracotta
costretto a viaggiare tra vasi di ferro. Inoltre non aveva una reale vocazione, ma fu spinto dai propri genitori
alla scelta sacerdotale per appartenere ad una classe sociale rispettabile e protetta, in grado di offrire
anche una parziale sicurezza economica.

Manzoni sembra avere un giudizio molto netto nei confronti di quella parte del clero cattolico comprensiva
verso i potenti, anche a danno degli umili; nei confronti del singolo Don Abbondio però sembra essere
molto più indulgente cogliendo nelle sue debolezze una caratteristica comune al genere umano. Quando
Don Rodrigo decide di impossessarsi di Lucia Mondella, fa minacciare dai bravi il curato (Don Abbondio)
del paese, durante la sua solita passeggiata serale:

«"Or bene," gli disse il bravo all'orecchio, ma in tono solenne di comando, "questo matrimonio non s'ha da fare,
né domani, né mai."»

Debole ed impaurito, don Abbondio diventa irragionevole e non segue il dovere di sposare Renzo e Lucia,
cedendo alle minacce. Renzo e Lucia escogitano dunque il matrimonio a sorpresa, ma quando si trovano
di fronte al curato, non fanno in tempo a pronunciare la formula che li renderebbe a tutti gli effetti sposi che
Don Abbondio, compreso l'inganno, fugge. Il curato viene richiamato al suo dovere dal cardinale Federigo
Borromeo, che gli affida il compito di ricondurre Lucia, rapita dall'Innominato, presso la casa della madre.
Don Abbondio svolge il compito affidatogli, spaventato a morte, perché dubita della sincera conversione
dell'Innominato, che interpreta come un inganno.

Dopo la discesa dei Lanzichenecchi, sia pur controvoglia, si rifugia, costretto da Perpetua,


nel castello dell'Innominato, sulla cui conversione nutre ancora seri dubbi. Nemmeno la tragedia
della peste, che incide in modo vario ma ben riconoscibile nella vita e nella psicologia degli altri
personaggi, fa giungere don Abbondio a un atteggiamento più generoso e comprensivo. Solo dopo che il
dramma della malattia si è concluso, che la vita è tornata a scorrere come prima e che vi è l'assicurazione
ufficiale che non vi è più alcun pericolo, data dalla morte di Don Rodrigo, Don Abbondio si convince a
celebrare il matrimonio dei due promessi sposi.

L'esperienza della peste, che Don Abbondio ha vissuto sulla sua pelle, lo ha provato molto fisicamente (il
curato è molto più magro e scarno di prima e ora cammina con un bastone), ma non psicologicamente. Il
personaggio infatti non è stato soggetto ad una evoluzione; fino all'ultimo il curato dubita persino della reale
morte di Don Rodrigo, ma se ne convince quando la notizia giunge ufficialmente. Egli rappresenta la
Chiesa corrotta del Seicento: infatti costui è prete non per vocazione, bensì per le opportunità offerte dalla
carica. Fra Cristoforo è in contrapposizione a Don Abbondio in quanto rappresenta la Chiesa giusta ed è
mentore dei meno colti e dei più svantaggiati. Al contrario, il curato schiaccia con la sua cultura la povera
gente.

Don Abbondio secondo Sciascia[modifica | modifica wikitesto]


Un interessante contributo (ancorché controcorrente rispetto alla critica "ufficiale" ed eterodosso rispetto al
dogmatismo provvidenzialista) all'interpretazione di questa figura venne data da Leonardo Sciascia,
corroborato in questo dalle tesi di Angelandrea Zottoli espresse nel suo Il sistema di don Abbondio. Scrive
Sciascia:

«don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettivamente vince, è colui per il quale veramente il “lieto
fine” del romanzo è un “lieto fine”. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato,
ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete
nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro.
L’uomo del Guicciardini, l’uomo del “particulare” contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla
sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che
Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida,
l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli
azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano…»

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