La Filosofia Nel Medioevo
La Filosofia Nel Medioevo
La Filosofia Nel Medioevo
La letteratura cristiana latina è incominciata a Roma, ma in Roma stessa hanno avuto la precedenza scrittori
di lingua greca. Ad esempio Giustino e Taziano.
TERTULLIANO (160-220)
Tertulliano è il primo e il più grande nome di questa prima apologetica cristiana espressasi in lingua latina.
Nato a Cartagine verso il 160, ivi si convertì al cristianesimo verso il 190, fu ordinato sacerdote, combatté
per la difesa della sua fede con la parola e con gli scritti, ma si lasciò poco a poco conquistare dal
montanismo al quale aderì nel 123. Le opere di Tertulliano di maggior interesse per la storia della filosofia
sono l’Apologeticum, il De praescriptione haereticorum e il suo trattato De anima. E’ da giurista, tuttavia,
più che da filosofo, che egli regola il problema del diritto esclusivo del cristianesimo all’interpretazione delle
Scritture. Secondo la legge romana, ogni persona che si fosse servita di un bene per un tempo sufficiente
poteva legalmente considerarsene proprietaria. Applicando questa regola alla Sacre Scritture, Tertulliano
respinge gli gnostici dalle loro pretese di interpretarle. Accettate e commentate dai cristiani fin dall’origine,
esse appartengono loro di pieno diritto: se gli gnostici pretendono di farne uso, si può dichiararli esclusi per
via di prescrizione. Tertulliano ha, quindi, ricondotto subito il problema sulla via della tradizione. Tertulliano
prende il cristianesimo come un tutto che s’impone agli individui come semplice fede. Ogni cristiano deve
accettare questa fede come tale, senza pretendere di farne una scelta, e ancor meno di giudicarla. Le
interpretazioni metafisiche degli gnostici sono dunque inaccettabili. Ripetiamo con san Paolo: “Qualora noi
stessi, o un angelo venuto dal cielo lo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo
annunciato, sia anatema!” (Gal. I 8). Tertulliano s’impegna in un atteggiamento di opposizione radicale verso
la filosofia. Egli la rende responsabile, del resto non senza chiaroveggenza, del moltiplicarsi delle sette
gnostiche. Il più illetterato dei cristiani, se possiede la fede, ha già trovato Dio, parla della sua natura e delle
sue opere e risponde senza esitare ad ogni domanda che gli si ponga su questo argomento, mentre Platone
stesso dichiara che non è facile scoprire l’artefice dell’universo, né, quando lo si è scoperto, farlo conoscere.
E’ verso ce talvolta certi filosofi insegnano delle dottrine che assomigliano alla fede cristiana, ma ciò accade
per caso. Essi hanno avuto una felice cecità, come quei mariani sbattuti dalla tempesta che trovano alla cieca
l’entrata di un porto; ma non è un esempio da imitare. L’antifilosofismo di Tertulliano ha trovato le sue più
celebri formule quando si è sviluppato in anti-razionalismo. Non c’era niente di originale nel dire che il
dogma della Redenzione è impenetrabile dalla ragione. Se Tertulliano non amava la filosofia, essa lo ha ben
corrisposto. Ogni volta che questo cristiano s’è avventurato su questo detestato terreno, ha imboccato una via
sbagliata, almeno se si suppone ch’egli volesse pensare da cristiano. Trattando della natura dell’anima, egli si
esprime come un materialista e pensa come uno stoico. Per lui l’anima è un corpo tenue e sottile, analogo
all’aria, dotato di tre dimensioni. Essa si espande attraverso tutto il corpo, di cui sposa la forma. Questo ci
permette, d’altra parte, dire ch’essa è una sostanza, perché tutto ciò che è reale è materiale: “nihil enim, si
non corpus”. In conformità a questa concezione dell’anima, Tertulliano ammette che la propagazione
dell’anima nella specie umana avviene, dopo Adamo, per trasmissione dai genitori ai figli al momento del
concepimento. L’anima è, d’altra parte, l’uomo interiore di cui parla san Paolo, di cui l’uomo esteriore, o
corpo, è l’involucro. Essa forma quindi un essere completamente costituito. Dato che l’anima è come un
ramoscello staccato da quella del padre, si spiega facilmente l’ereditarietà dei caratteri, per il bene come per
il male. Così il peccato originale, dopo Adamo, s’è trasmesso di padre in figlio contemporaneamente al
propagarsi e al moltiplicarsi dell’anima del primo uomo. Ma l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, e
questa somiglianza divina s’è ugualmente trasmessa con la generazione. Essa esiste dunque ancora in noi, e
per questo si può die, in un certo senso, che l’anima in ogni uomo è naturalmente cristiana: “anima
naturaliter christiana”. Poiché tutto ciò che esiste è corporeo, e Dio esiste, Dio è corporeo. E’ senza dubbio il
corpo più sottile e tenue di tutti. E’ anche il più brillante, al punto che il suo stesso splendore ce lo rende
invisibile, ma, insomma, è un corpo. Sappiamo che è uno, che è naturalmente ragione, e che la ragione fa in
lui tutt’uno con il bene. Quando fu venuto il momento di creare, Dio generò da se stesso una sostanza
spirituale, che è il Verbo. Poiché questa sostanza sta a Dio allo stesso modo che i raggi stanno al sole, essa è
Dio come i raggi del sole sono luce. E’ Dio da Dio, Luce da Luce, che scaturisce dal Padre senza diminuirlo.
Ma il Verbo non è tutto il Padre e lui stesso più tardi lo confermerà quando dirà per bocca di Cristo: “Mio
Padre è più grande di me” (S. Giov. XIV 28). Giustificata in questo modo l’esistenza del Verbo. Quanto allo
Spirito Santo, esso s’aggiunge al Padre e al Verbo senza rompere l’unità di Dio, come il frutto fa tutt’uno con
la radice e il fusto, o l’estuario con il fiume e la sua sorgente. La generazione del Verbo dal Padre provocata
dalla sua creazione non è, per essere esatti, eterna, poiché il Padre è esistito senza di lui. E tuttavia non si può
dire ch’essa abbia avuto luogo nel tempo, poiché il tempo non incomincia che con le creature. E’ dunque,
una relazione che non sappiamo come esprimere.
AMBROGIO (333-397)
Ambrogio sapeva il greco, aveva studiato a lungo Filone e Origene, le cui opere sono ricchissime di dati
filosofici di ogni natura, ma non s’è lasciato trascinare nemmeno al minimo approfondimento metafisico. Il
modo in cui parla delle filosofie nel suo De fide e nel suo De incarnatione fa presagire talvolta le invettive di
un Pier Damiani contro la dialettica. Ambrogio è una delle fonti più sicure degli “anti-dialettici” del secolo
XI e del secolo XII, e quanto si può ricavare nei suoi scritti di nozioni filosofiche resta come incrostato nella
formula del dogma. E’ interessante soltanto constatare il carattere neoplatonico di alcune delle nozioni che
egli prende a prestito. Ambrogio identifica sempre il senso preciso del verbo “essere” con “essere sempre”.
Nel suo trattato Sul salmo 43 che sembra risalire all’ultimo anno della sua vita così egli traduce la formula
della Scrittura: quia nihil tam proprium Deo quam semper esse. Nel De fide Ambrogio va ancora più lontano,
perché egli afferma che se il termine essentia conviene a Dio, è perché esso significa lo stesso del greco
“sempre esistente”. Ben lo si osserva paragonando il suo Exaemeron a quello di san Basilio al quale, del
resto, egli s’è ispirato. In questa serie di nove sermoni sull’opera dei sei giorni, Ambrogio si diffonde in
interpretazioni allegoriche in cui talvolta la parola della Scrittura si volatilizza. Non rimpiangiamo questo
eccesso poiché è ascoltando il vescovo di Milano commentare la Bibbia allegoricamente che Agostino
scoprirà che la lettera uccide e lo spirito vivifica. Quando si leggono certe allegorie di Ambrogio, ci si chiede
quali sarebbero state le sue idee metafisiche, se egli le avesse formulate esplicitamente. Pensiamo alla sua
interpretazione dei fini ultimi dell’uomo e, in particolare, delle pene dell’inferno. Che cosa sono le “tenebre
esterne”? Dobbiamo pensare ad una prigione in cui i colpevoli saranno rinchiusi? Per niente: minime. Non
crediamo né che vi sia stridore di denti corporali, né fuoco eterno di fiamme corporee, né corporea larva
roditrice. Per lui, come per Origene, il fuoco dell’inferno è la tristezza stessa che il peccato genera nell’anima
del colpevole; la larva roditrice è il rimorso che, infatti, rode la coscienza del peccatore e lo tormenta
continuamente. Con Origene e Filone come guide, libero com’egli era nell’interpretazione dei testi, è una
fortuna per Ambrogio che le sue preferenze l’abbiano distolto dalla metafisica verso la morale. Scrive il suo
De officiis ministrorum ispirandosi al De officiis di Cicerone, Ambrogio s’è sforzato di estrarne le lezioni
utilizzabili per dei chierici, e talvolta anche per dei semplici cristiani. Nessuno scrupolo poteva trattenerlo su
questa via. In primo luogo, persuaso che i filosofi greci avessero attinto alla Bibbia una parte del loro sapere,
riteneva di servirsi di un diritto di rivalsa saccheggiando Cicerone a vantaggio dei cristiani. Essenzialmente
quello di Cicerone era un codice dei doveri dell’uomo verso la città, Ambrogio la reinterpreta come un
morale religiosa.
MARIO VITTORINO
Non ci resta che una piccola parte delle sue numerose opere, che toccavano gli argomenti più diversi:
grammatica, dialettica, retorica, esegesi e teologia. Tuttavia abbiamo conservato i suoi commenti alla Lettera
ai Galati, alla Lettera ai Filippesi e alla Lettera agli Efesini, come anche importanti trattati di teologia Sulla
generazione del Verbo divino e Contro Ario. Prima della sua conversione, Mario Vittorino aveva tradotto in
latino le Enneadi di Plotino, ed è in questa traduzione, oggi perduta, che Agostino doveva scoprire il
neoplatonismo, con il risultato che sappiamo. Il ruolo che, a questo titolo, egli ha avuto nella formazione
dell’agostinismo, non deve tuttavia far dimenticare il suo personale contributo alla controversia contro gli
Ariani. Se Dio è l’essere non può essere generato; ora, si dice che il Verbo è generato, egli non è dunque
l’essere, non è dunque Dio. Questa posizione, che già abbiamo ravvisato in Eunomio, è rigirata sotto tutti gli
aspetti da Candido, con la clama chiarezza d’un uomo che non esce dall’evidenza logica. Ogni generazione è
un cambiamento. Dio è immutabile. Se egli dunque è Dio, è immutabile e inalterabile. E ciò che è
immutabile ed inalterabile né genere, né è generato. Se dunque è così, Dio non è generato. E’ quanto
Candido conferma, stabilendo, con l’appoggio di molti argomenti, che non si può concepire niente che sia
prima di Dio e da cui Dio possa essere generato. Potrebbe essere la potenza? Ma Dio, che è semplice, non
potrebbe essere concepito come un soggetto che riceverebbe una qualsivoglia cosa, sia la sostanza, sia anche
l’esistenza. Porre così Dio come assoluta semplicità dell’essere è escludere da lui ogni possibilità di
composizione, dunque anche di divenire e di generazione. Che cos’è dunque Gesù Cristo, che è il Verbo,
attraverso il quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla è stato fatto? E’ l’effetto non di una generazione,
ma di una operazione divina. Il Verbo è la prima e principale opera di Dio. La risposta di Mario Vittorino a
Candido si trova nel suo trattato, Sulla generazione del Verbo divino. Essa è tano oscura e impacciata,
quanto era chiara l’obiezione di Candido. E bisogna riconoscere che l’opacità del mistero non ne è la sola
responsabile, ma Vittorino ha avuto almeno il merito, rispettando strettamente il dato dogmatico, di
perseguire la formulazione filosofica quanto era possibile. Dio è causa di ogni essere, egli è dunque anteriore
all’essere come la causa lo è all’effetto. E’ vero che per essere causa bisogna essere, ma per essere causa
dell’essere, bisogna essere prima dell’essere. Tutto viene dunque da Dio così concepito, sia per generazione,
sia per produzione. Vittorino distingue, in seguito, ciò che è veramente, ciò che è, ciò che non è veramente
non essere e infine ciò che non è. Usando una terminologia che ricomparirà più tardi, egli, chiama
intellectibilia ciò che veramente è, e intellectualia ciò che è. Gli “intellettibili” sono le realtà sopracelesti: in
primo luogo l’intelletto, l’anima, le virtù, il logos; in seguito e al di sopra, l’esistenzialità, la vitalità, l’
“intelligenzialità”, e al di sopra di tutto, l’essere soltanto e l’uno che è soltanto essere. Destato nell’anima, il
nous e lo Spirito Santo che l’illumina. Ogni essere ha una figura e un volto nell’esistenza, o la qualità; il
senza-figura e il senza-volto è qualcosa ancora, ed è ciò che si chiama non-essere. Il non-essere, dunque, in
un certo senso e a suo modo esiste. Lo si comprende facilmente nel caso di quelle parti del mondo che,
partecipando contemporaneamente del non-essere della materia e dell’essere dell’anima intellettuale, non
sono veramente non essere. Lo si comprende meno bene a prima vista, nel caso delle parti del mondo che
sono puramente materiali, se le si prende in quanto puramente materiali, perché, presa da sola, la materia è
nutrice del non-essere; essa, tuttavia, è, a suo modo, per l’anima che la vivifica. Dove situare Dio, una volta
ammessa questa classificazione? Al di là di queste quattro classi. Egli è “supra omnem existentiam, supra
omnem vitam, supra omnem cognoscentiam, super omne”. Infatti, intelligibile, infinito, invisibile, senza
intelletto, insostanziale, inconoscibile, niente di ciò che è perché al di sopra di tutto, Dio è, di conseguenza,
non-essere. Tuttavia, aggiungiamo, non un puro non-essere, ma un non-essere che è in un certo senso un
essere, poiché egli è quel non-essere che, per la sola sua potenza, s’è manifestato nell’essere. Dunque
l’essere era nascosto in lui. Ciò che Vittorino oppone a Candido è dunque il concetto di un Verbo
eternamente generato dal Padre, cioè di un essere che scaturisce eternamente dal “pre-essere” che è il Padre,
e che ne manifesta eternamente la nascosta profondità. Se, nondimeno, Vittorino può sostenere contro
Candido che il Verbo è Dio, è proprio perché il Verbo Gesù non è generato da un non-essere in qualsiasi
senso s’intenda questo termine, ma, al contrario, egli è, a titolo di Logos, la manifestazione dell’essere che,
nascosta in Dio Padre, si rivela in Dio Figlio. Si può dire, in questo senso, che Dio non è soltanto causa delle
altre cose, ma in primo luogo di se stesso. Ecco dove avviene la frattura tra cristianesimo e Arianesimo, la
speculazione che si rinchiude nella fede e quella che rifiuta il mistero, la metafisica del teologo e la teologia
del metafisico. Allo stesso tempo si vede da quale metafisica aspetti lume la teologia di Vittorino. Traduttore
di Plotino egli s’ispira, naturalmente, a lui. Il pre-essere da cui nasce il Verbo non è altro, come egli stesso
lascia capire che il principio primo tanto volte affermato nelle Enneadi.
SANT’AGOSTINO
Il platonismo assume determinata importanza anche grazie alla caratteristica presenza nella dottrina di
Sant’Agostino (354-430). Dopo aver terminato i suoi primi studi a Tagaste (attuale Algeria), Agostino si recò
a Madaura, poi a Cartagine per studiarvi lettere e retorica, che doveva poi, a sua volta, insegnare. Sua madre
Monica gli aveva presto inculcato l’amore per Cristo, ma egli non era battezzato, conosceva malissimo la
dottrina cristiana, e i disordini d’una giovinezza inquieta non l’avevano portato a meglio istruirsi in essa. Nel
373 egli esse un dialogo di Cicerone, oggi perduto, l’Hortensius. Questa lettura l’infiammò di un vivo amore
per la sapienza. In questo stesso anno gli accadde d’imbattersi in alcuni manichei che si vantavano di dare
una spiegazione puramente razionale del mondo, di giustificare l’esistenza del male e di condurre infine i
loro discepoli alla fede per mezzo della sola ragione. Per qualche tempo Agostino credette di trovare qui la
sapienza ch’egli bramava. Poi ritornò a Cartagine, dopo essere stato per un periodo a Tagaste a insegnare
lettere. Le spiegazioni razionali che si continuava a promettergli non erano ancora venute, ed egli si rendeva
conto benissimo che non sarebbero venute mai. Nel 383 il prefetto di Roma Simmaco gli permise di ottenere
la cattedra municipale di Milano. Egli fece visita, quindi, al vescovo della città, Ambrogio, di cui seguì le
prediche che gli rivelarono l’esistenza del senso spirituale nascosto sotto il senso letterale delle Scritture.
Tuttavia, il suo animo restava incerto. In questo periodo lesse alcuni scritti neoplatonici, specialmente una
parte delle Enneadi di Plotino nelle traduzioni di Mario Vittorino. Fu il suo primo incontro con la metafisica,
e fu decisivo. Liberato dal materialismo di Mani, incominciò a purificare i suoi costumi così come aveva
illuminato il suo pensiero; ma le passioni erano tenaci. Tuttavia, una differenza radicale lo distinguerà dai
neoplatonici, e questo dal giorno stesso della sua conversione. I manichei gli avevano promesso di portarlo
alla fede nelle Scritture con la conoscenza razionale: sant’Agostino si proporrà ormai di raggiungere, con la
fede nelle Scritture, l’intelligenza di ciò che esse insegnano. Sicuramente un certo lavoro della ragione deve
precedere l’assenso alle verità di fese; benché queste non siano dimostrabili, si può dimostrare che c’è
motivo di crederle, ed è la ragione che ci pensa. Bisogna accettare per fede le verità che Dio rivela, se si
vuole in seguito acquisirne qualche intelligenza che sarà l’intelligenza del contenuto della fede accessibili
all’uomo. Tutto questo ragionamento agostiniano è racchiuso in questo concetto: “intellige ut credas, crede
ut intelligas”. Sant’Anselmo esprimerà più tardi questa dottrina in una formula che non è la stessa, ma che
esprime fedelmente lo stesso pensiero. Per quanto riguarda le sue opere maggiori, possiamo dire che
consistono in:
- “Contra Academicos” (386)
- “Soliloquia” (387)
- “De libero arbitrio” (388/395)
- “De magistro” (389)
- “De doctrina Christiana” (397)
- “Confessioni” (400) una biografia che esprime le sue idee filosofiche
- “De Trinitate” (400/416)
- “De Civitate Dei” (413/426) particolarmente importante per la sua teologia della storia, ma al quale bisogna
sempre ricorrere, qualunque sia il punto della sua dottrina che si studia.
Tutta la parte filosofica dell’opera di Agostino esprime lo sforzo di una fede cristiana che cerca di spingere il
più innanzi possibile l’intelligenza del suo contenuto, con l’aiuto di una tecnica filosofica i cui elementi
principali sono presi a prestito dal neoplatonismo, specialmente da Plotino. Tra questi elementi ha esercitato
molta influenza la definizione dell’uomo giustificata prima da Platone e poi ripresa da Plotino: l’uomo è
un’anima che si serve d’un corpo. Agostino si preoccupa di ricordare che l’uomo è unità di anima e corpo;
quando Egli conserva questa definizione con le conseguenze logiche che essa comporta, la principale delle
quali è la trascendenza gerarchica dell’anima sul corpo. Interamente presente al corpo tutto interno, l’anima
non è tuttavia unita ad esso che attraverso l’azione che esercita necessariamente su di lui per vivificarlo. Se
degli oggetti esterni colpiscono i nostri sensi, i nostri organi sensoriali subiscono le loro azioni, ma poiché
l’anima è superiore al corpo e l’inferiore non può agire sul superiore, essa non ne subisce azione alcuna.
Allora accade che, l’anima non lascia passare inavvertita questa modificanza del suo corpo. Le sensazioni
sono dunque azioni che l’anima compie, non passioni che essa subisce. Alcune delle sensazioni c’informano
semplicemente sullo stato e sui bisogni del nostro corpo. Nel corso del tempo essi appaiono e scompaiono, si
cancellano e si sostituiscono l’un l’altro, senza che sia possibile afferrarli. Non appena si è sul punto di dire:
esistono, eccoli già spariti. Questa mancanza di stabilità, che tradisce una vera mancanza di essere, li esclude
da ogni conoscenza propriamente detta. L’anima incontra in se stessa delle conoscenze che vertono su
oggetti. E’ così ogni volta che apprendiamo una verità. Si tratta di una constatazione empirica di un fatto. La
verità dipende dal fatto che un qualcosa possegga l’essere, poiché solo ciò che veramente è è vero. Se ci si
pensa, la presenza nell’anima di conoscenze vere pone un notevole problema. Come spiegarle? In un certo
senso, tutte le nostre conoscenze derivano dalle sensazioni. I soli oggetti che noi possiamo concepire sono
quelli che abbiamo visto, o che possiamo immaginare in base a quelli che abbiamo visto. Dunque non son gli
oggetti sensibili ad insegnarmi quelle stesse verità che li concernono, meno ancora le altre. Per la ragione, la
necessità del vero non è che il segno della sua trascendenza su di lei. La verità è, nella ragione, al di sopra
della ragione. E poiché è verità, questo qualcosa è una realtà puramente intelligibile, necessaria, immutabili,
eterna. E’ esattamente ciò che chiamiamo Dio. Le più diverse metafore possono servire a designarlo; tutte
hanno, alla fine, lo stesso significato. Egli è il sole intelligibile, alla cui luce la ragione vede la verità. Il
Maestro interiore che, dall’interno, risponde alla ragione che lo consulta. Il Dio di sant’Agostino, trovato con
questo metodo, si presenta come una verità contemporaneamente intima al pensiero e trascendente il
pensiero. La sua presenza è attestata da ogni giudizio vero, sia nella scienza, sia in estetica o in morale, ma la
sua natura stessa ci sfugge. Perché egli è ineffabile. Tra tutti i nomi e le definizioni che gli vengono date,
quella che veramente conta per Agostino è: “Ego sum qui sum” = “Egli è l’essere stesso”. Ogni
cambiamento comporta, quindi, una mescolanza di essere e non-essere. Dio è essentia per eccellenza. Da un
lato, il Medioevo cercherà nel concetto di essenzialità di Dio di che provare che la sua esistenza è evidente
immediatamente (es. sant’Anselmo e san Bonaventura), ciò che lo stesso Agostino non ha fatto: dall’altro,
mentre sant’Agostino s’appoggiava all’illuminazione divina nell’intento fondamentale di raggiungere Dio,
gli agostiniani del Medioevo saranno condotti naturalmente, per la necessità di giustificarla dinnanzi alle
dottrine contrario degli aristotelici, a svilupparla come una testi di epistemologia vera e propria. Ad Agostino
dobbiamo le “Confessioni”, questo libro unico in cui ogni pagina ha la freschezza e il fascino della vita. A
più riprese, ma soprattutto nel suo “De Trinitate”, egli s’è sforzato di concepire la natura di Dio per analogia
con l’immagine che di se stesso il creatore ha lasciato nelle sue opere, in particolare ed eminentemente
nell’anima umana. E’ qui, nella sua stessa struttura, che si trovano le più sicure indicazioni di ciò che può
essere la santa Trinità. Infatti l’anima è, come il Padre, e dal suo essere genere l’intelligenza di se stessa,
come il Figlio o Verbo; e il rapporto di questo essere con la sua intelligenza è una vita, come lo Spirito
Santo. Oppure, l’anima è dapprima un pensiero (mens) da cui sorge una conoscenza con cui essa si esprime
(notitia) e dal suo rapporto con questa conoscenza sorge l’amore che essa ha per sé (amor). Queste stesse
immagini ci istruiscono sull’uomo. Essere analogo alla Trinità non significa soltanto essere un pensiero che
si conosce e si ama, significa essere una testimonianza vivente del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. In
questo senso, il nostro pensiero è ricordo di Dio, la conoscenza che ve lo ritrova è l’intelligenza di Dio, e
l’amore che procede dall’uno all’altro è amore di Dio. C’è dunque nell’uomo qualcosa di più profondo
dell’uomo. Ciò che del suo pensiero rimane riposto non è che il segreto inesauribile di Dio stesso. Egli è
l’essentia di cui gli altri esseri attestano l’esistenza, l’immutabilità che il cambiamento richiede come causa.
Ripetiamo, cambiare è essere e non-essere oppure non-essere completamente ciò che si è. Le cose dunque,
per la loro stessa mutabilità, non cessano di proclamare: noi non ci siamo fatte da sole, è Lui che ci ha fatte.
Ma poiché essere ricevono da Dio tutto ciò che possiedono di essere, esse non hanno per se stesse che la loro
incapacità di esistere, cioè il non-essere; nella loro esistenza esse non sono per niente; in breve, sono state
fatte dal nulla da Dio, ed è ciò che si dice creare. Dio non ha certamente dispiegato nel tempo la sua opera
creatrice. Egli contiene eternamente in sé i modelli archetipi. Questi modelli eterni sono le idee, increate e
consustanziali a Dio, della stessa consustanzialità del Verbo. Per creare il mondo, Dio non ha avuto che da
dirlo; dicendolo, lo ha voluto e fatto. Il racconto dell’opera dei sei giorni deve essere inteso in senso
allegorico, perché Dio ha creato tutto in una volta, e se Egli ancora conserva, non crea più. Tutti gli esseri
futuri sono stati prodotti fin dall’origine. Adamo ed Eva, i corpi di tutti gli uomini futuri, erano fin
dall’origine in potenza nella materia, invisibilmente, causalmente, come vi sono tutti gli esseri futuri che non
sono ancora stati fatti. Il mondo di Agostino si dispiega piuttosto nel tempo, e il tempo si dispiega col
mondo, come un immenso e magnifico poema, ogni parte del quale, ogni frase, ogni parola, cade al suo
posto, passa e si cancella davanti alla successiva. Le più nobili creature di Dio sono gli angeli, di cui
Agostino non sa se abbiano o no corpo. L’uomo iene dopo, non di molto inferiore all’angelo, ma certamente
composto di un’anima che si serve di un corpo e del corso di cui essa si serve. L’anima è unita al corpo da
una inclinazione naturale che la porta a vivificarlo e a sorvegliare su di lui. Per quanto profondamente abbia
subito l’influenza del platonismo, Agostino non ha ammesso per un istante solo che la materia fosse cattiva,
né che l’anima fosse unita al corpo per castigo del peccato. Agostino ha ripetuto senza posa che i rapporti
attuali dell’anima con il corpo non sono più quelli che erano un tempo e che dovrebbero ancora essere. Il
corpo dell’uomo non è la prigione della sua anima, ma lo è diventato per effetto del peccato originale, e lo
scopo primo della vita morale è di liberarcene. Dio è bene assoluto e immutabile. Creata dal nullo, la natura
dell’uomo non è buona che per quel tanto ch’essa è, ma, in questa giusta misura, essa è buona. Consegue che
il contrario del bene, che è il male, non può essere considerato come appartenente all’essere. Il male non
esiste. Ciò che con questo nome si designa si riduce all’assenza di un certo bene in una natura che dovrebbe
possederlo. E’ quanto si esprime dicendo che il male è una privazione. La natura decaduta è dunque cattiva
in quanto viziata dal peccato, ma essa, in quanto natura, è un bene; precisamente, essa è quello stesso bene in
cui il male esiste e senza i quanto potrebbe esistere. Se si tratta del male naturale, ci si ricorderà che, presa in
sé, ogni cosa è buona per quello che è. Certamente ogni creature finisce col perire, ma se si giudica dal punto
di vista dell’universo, la distruzione dell’una è compensata dal comparire di un’altra, e la loro stessa
successione fa la bellezza dell’universo, come quella delle sillabe che compongono un poema. Ciò che è
definibile colpa morale deriva dal cattivo uso che l’uomo fa del “libero arbitrio”. Ed è lui ad esserne
responsabile, non Dio. Si può indubbiamente obiettare che Dio non avrebbe dovuto dotare l’uomo di una
volontà capace di sbagliare, e bisogna almeno riconoscere che il libero arbitrio non è un bene assoluto,
giacché, inevitabilmente, esso comporta un pericolo. Tuttavia è un bene, ed è anche la condizione del più
grande dei beni: la beatitudine. Per arrivare ad essa, infatti, l’uomo necessita di libertà. Il peccato originale,
trasgressione alla legge divina, ha avuto come conseguenza la ribellione del corpo contro l’anima; di qui
vengono la concupiscenza e l’ignoranza. L’anima fu creata da Dio per reggere il corpo, ed ecco ch’ella è, al
contrario, retta da lui. Ormai rivolta alla materia, l’anima si appaga del sensibile, e dato che trae da se stessa
le sensazioni e le immagini si sfinisce a fornirle. L’uomo ha potuto cadere spontaneamente, cioè con il suo
libero arbitrio, ma il suo libero arbitrio non gli basta per risollevarsi. Non si tratta più allora soltanto di
volere, ma di potere. Egli sostiene, quindi, la necessità della grazia, e con una fora insistente di cui, dopo San
Paolo, non si conoscevano altri esempi. Le controversie antipelagiane, che iniziarono verso il 412, non fecero
che invitarlo ad insistervi con maggior vigore. La posizione di Agostino resta nondimeno stabile e chiara: la
grazia è necessaria il libero arbitrio dell’uomo per lottare efficacemente contro gli assalti della concupiscenza
sregolata dal peccato e per essere benemeriti davanti a Dio. La grazia precede quindi in noi ogni sforzo
efficace per risollevarci. Senza dubbio essa nasce dalla fede, ma la stessa fede è una grazia. E’ per questo che
la fede precede le opere, non nel senso ch’essa dispensi dal compierle, ma perché le buone opere e il loro
merito nascono dalla grazia. Due condizioni sono dunque richieste per fare il bene: un dono di Dio che è la
grazia, e il libero arbitrio. Senza il libero arbitrio non ci sarebbe problema; senza la grazia il libero arbitrio
non vorrebbe il bene. La grazia non ha dunque l’effetto di sopprimere la volontà, ma di renderla buona, da
cattiva che è diventata. Questo potere di usare bene del libero arbitrio è precisamente la libertà. Questa
libertà plenaria non è accessibile in vita. Distogliendoci da Dio verso i corpi l’abbiamo perduta; è
distogliendoci dai corpi verso Dio che potremo riconquistarla. La caduta fu un movimento di cupidigia, il
ritorno verso Dio è un movimento di carità, che è l’amore per ciò solo che merita di essere amato. Espressa
in termini di conoscenza, questa conversione a Dio consiste nello sforzo della ragione che lavora a volgersi
dal sensibile verso l’intelligibile, cioè dalla scienza verso la sapienza. Platone e Plotino sapevano che questo
è il fine che bisogna raggiungere; sembra anche, talvolta, ch’essi l’abbiano conseguito in una specie di estati
che non dura che un istante. A maggior ragione il cristiano può elevarsi a tanto con l’aiuto della grazia, ma
presto egli ricade in se stesso, accecato dal fulgore insostenibile della luce divina. E’ qui che nasce il
collegamento della religione con la filosofia. La sola ragione per filosofare è quella di essere felici; soltanto
colui che è veramente felice è veramente filosofo, e solo il cristiano è felice, perché egli possiede il vero
Bene, fonte di ogni beatitudine. Questo discorso, soprattutto nel suo aspetto collettivo (in quanto tutti i
cristiani possiedono questo Bene), è ben espresso nel “De Civitate Dei”. Nella “Città di Dio” vi sono, come
membri, tutti gli eletti, quelli che furono, che sono e che saranno. Questa città e quella degli uomini, sono
mescolate l’una con l’altra, ma il giorno dell’ultimo giudizio esse saranno finalmente separate e costituite
distintamente. La costruzione progressiva della città di Dio è dunque la grande opera, incominciata fin dalla
creazione, proseguita poi incessantemente, che dà il suo significato alla storia universale. Tutta questa storia
è attraversata da un grande mistero, che non è altro che la “divina carità”. La predestinazione alla beatitudine
del popolo eletto e dei giusti è l’espressione di questa carità stessa. La nostra ragione non sa perché alcuni
saranno salvati ed altri no, perché è un segreto divino, ma possiamo essere sicuri di una cosa, ed è che Dio
non danna nessun uomo senza un’equità pienamente giustificata. Per la sua ampiezza e per la sua profondità,
l’opera filosofica di sant’Agostino superava di gran lunga tutte le precedenti espressioni del pensiero
cristiano, e la sua influenza doveva agire profondamente sui secoli successivi. Se ne troverà il segno
ovunque.
BOEZIO (470-525)
Boezio nato a Roma verso il 470 e morto verso il 525, studiò dapprima a Roma, poi ad Atene. E’ durante una
lunga detenzione ch’egli scrisse il De consolatione philosophiae, per cercare nella sapienza un rimedio
all’avversità. Fu, infine, giustiziato a Pavia, e siccome la sua condanna fu dapprima attribuita a motivi
religiosi, lo si considerò a lungo come un martire, e il culto che gli si attribuiva a Pavia finì con l’essere
confermato ufficialmente nel 1883. La scoperta da parte dello Holder, nel 1877, di un frammento di
Cassiodoro che attribuisce a Boezio un librum de sancta Trinitate et capita quaedam dogmatica, sembra aver
post fine alla controversia, e conclusa la questione a favore dell’autenticità degli Opuscola. L’opera di
Boezio è multiforme e non c’è un aspetto del suo pensiero che non abbia influenzato il Medioevo, ma in
nessun campo la sua autorità fu più diffusa che sul terreno della logica. Gli si deve un primo commento
sull’Introduzione (Isagoge) di Porfirio tradotta in latino da Mario Vittorino, e un secondo commento della
stessa opera, da lui stesso ritradotta; una traduzione e un commento delle Categorie di Aristotele. Si può dire
che, con l’insieme di questi trattati, Boezio è diventato il professore di logica del Medioevo fino al momento
in cui, nel XIII secolo, l’Organon completo di Aristotele fu tradotto in latino e direttamente commentato. Del
resto, l’opera logica dello stesso Boezio sarà oggetto di una progressiva scoperta. Il successo di Boezio non è
effetto del caso. Egli stesso s’era assegnato questo ruolo d’intermediario tra la filosofia greca e il mondo
latino. La sua prima intenzione era di tradurre tutti i trattati di Aristotele, tutti i dialoghi di Platone, e di
dimostrare con dei commenti il fondamentale accordo delle due dottrine. L’autore del De consolatione
philosophiae non soltanto ha trasmesso al Medioevo l’immagine allegorica della filosofia che ancora si vede
scolpita sulla facciata di certe cattedrali; egli ne ha lasciato una definizione, e allo stesso tempo una
classificazione delle scienze che essa domina. La filosofia è l’amore della sapienza: con ciò non si deve
intendere semplicemente l’abilità pratica e nemmeno la conoscenza speculativa astratta, ma una realtà. La
sapienza è questo pensiero vivente, causa di tutte le cose, che sussiste in se stessa e non ha bisogno che di sé
per sussistere. Illuminando il pensiero dell’uomo, la sapienza lo rischiara e l’attira a sé con l’amore. La
filosofia, o amore della sapienza, può quindi essere considerata indifferentemente come il conseguimento
della sapienza, la ricerca di Dio o l’amore di Dio. La filosofia, presa come genere, si divide in due specie:
teorica o speculativa, attiva o pratica. La filosofia speculativa si suddivide a sua volta in tante scienze quante
sono le classi degli esseri da studiare. Tre tipi di esseri sono oggetto di conoscenza vera: gli intellettibili, gli
intelligibili ei naturali. Con il termine intellettibili, già usato da Mario Vittorino, ma che dice d’aver forgiato
lui stesso, Boezio intende gli esseri che esistono o dovrebbero esistere fuori dalla materia. Tali sono Dio e gli
angeli, forse anche le anime separate dai loro corpi. Gli intelligibili, invece, sono degli esseri concepibili dal
puro pensiero, ma caduti nei corpi. Tali sono le anime nel loro stato presente: sono gli intellettibili degenerati
in intellegibili a contatto del corpo. Designando con un solo nome l’insieme delle discipline chela
compongono, Boezio chiama Quadrivium il gruppo di quattro scienze che copre lo studio della natura:
aritmetica, geometria, astronomia e musica. A queste quattro parti della filosofia si aggiungono altre tre
discipline, il cui insieme forma il Trivium: la grammatica, la retorica e la logica. Esse si propongono più il
modo di esprimere la conoscenza che l’acquisizione della conoscenza stessa. Una difficoltà, tuttavia, sorge a
proposito della logica. Essa è un’arte piuttosto che una scienza e, di conseguenza, Boezio si chiede se si
debba considerarla come una parte della filosofia o come uno strumento al servizio della filosofia. Le due
tesi, d’altronde, gli sembrano conciliabili: come arte di discernere il falso e il verosimile dal vero, essa ha un
suo proprio oggetto e quindi può entrare, come parte, nella filosofia; ma poiché il saperlo fare è utile a tutte
le altre parti della filosofia, tutte se ne servono come strumento. Come la mano, che è contemporaneamente
una parte del corpo e l’aiuto di tutto l’intero corpo. La logica di Boezio è un commento di quella di
Aristotele, in cui spesso traspare il desiderio di interpretarla secondo la filosofia di Platone. Nei suoi due
commenti all’Introduzione alle Categorie di Aristotele, prevale, naturalmente, la risposta di Aristotele.
Boezio dimostra dapprima l’impossibilità che le idee generali siano delle sostanze. Prendiamo, come
esempio, l’idea del genere “animale” e quella della specie “uomo”. I generi e le specie sono, per definizione,
comuni a dei gruppi di individui; ora, ciò che è comune a parecchi individui non può essere esso stesso un
individuo. Tanto più impossibile che il genere, per esempio, appartenga interamente alla specie, il che
sarebbe impossibile se, essendo un essere, il genere dovesse dividersi tra le sue diverse partecipazioni. Ma
supponiamo al contrario che i generi e le specie rappresentati dalle nostre idee generali (universali) non siano
che semplici nozioni della mente; in altri termini, supponiamo che nulla assolutamente corrisponda nella
realtà alle idee che noi ne abbiamo: in questa seconda ipotesi, il nostro pensiero, pensandole, non pensa
nulla. Ma un pensiero senza oggetto non è che un pensiero di niente; non è nemmeno un pensiero. I sensi ci
danno le cose in stato di confusione o, per lo meno, di composizione; il nostro spirito (animus), che gode del
potere di separare e di ricomporre questi dati, può distinguere nei corpi, per considerarle a parte, delle
proprietà ce non si trovano che in stato di mescolanza. I generi e le specie sono tra questi. L’errore sarebbe di
pensare come congiunte delle cose che non lo sono in realtà: un busto d’uomo e il treno posteriore di un
cavallo, ad esempio. Nulla impedisce quindi di pensare a parte i generi e le specie, benché essi non esistano a
parte. E tale è la soluzione del problema degli universali: “subsistunt ergo circa sensibilia, intelliguntur
autem praeter corpora”, essi sussistono in unione con le cose sensibili, ma li si conosce separatamente dai
corpi. Boezio ha trasmesso dunque al Medioevo più che una semplice posizione del problema degli
universali, e la soluzione che egli ne proponeva era sì quella di Aristotele, ma egli non la proponeva senza
riserva. Tutta la teoria aristotelica dell’intelletto agente, che dà il suo pieno significato alla nozione di
astrazione, perché essa spiega come si possa pensare separatamente ciò che separatamente non esiste, manca
nel testo di Boezio. Egli ci dice semplicemente che lo spirito preleva l’intellegibile dal sensibile, ut solet,
senza ragguagliarci in alcun modo sulla natura e la condizione di questa misteriosa operazione. Il senso non
vi vede ce una figura in una materia: l’immaginazione si rappresenta la figura sola, senza la materia; la
ragione trascende la figura e coglie in una veduta generale la specie presente negli individui; ma l’occhio
dell’intelligenza vede ancora più in alto, perché superando la cinta dell’universo, contempla questa forma
semplice in se stessa, in una pura veduta del pensiero. Per Boezio la più alta elle scienze non è nemmeno
quella dell’intellegibile, oggetto della ragione, ma quella dell’intellegibile, oggetto del pensiero puro, e
l’intellegibile per eccellenza è Dio. Di questo oggetto noi abbiamo una conoscenza innata, che ce lo
rappresenta come il bene supremo, cioè, secondo la stessa definizione che sant’Anselmo riprenderà (“cum
nihil Deo melius excogitari queat”), un essere tale che non si può concepire nulla di migliore. Per stabilire
l’esistenza, Boezio si appoggia su questo principio, che l’imperfetto non può essere che una diminuzione del
perfetto; l’esistenza dell’imperfetto, in un ordine qualunque, presuppone dunque quella del perfetto. Si
potrebbe, a rigore, dispensarsi dal provare che questo perfetto è Dio, perché il perfetto è migliore di tutto ciò
che si può concepire. Riflettiamo tuttavia su questo, che ammettere che Dio non sia il perfetto sarebbe
ammettere un essere perfetto che fosse anteriore a Dio, e di conseguenza suo principio. E Dio è il principio di
tutte le cose; è lui, dunque, il perfetto. A meno, quindi, di ammettere un regresso all’infinito, il che è assurdo,
deve esistere un essere perfetto e supremo, che è Dio. Sant’Anselmo riprenderà questi vari temi nel secolo
XI, nel suo Monologion. Essendo perfetto, Dio è il bene e la beatitudine. In una formula che diventerà
classica e che sarà ripresa specialmente da san Tommaso d’Aquino, Boezio definisce la beatitudine: lo
stato di perfezione che consiste nel possedere tutti i beni. Dio è quindi beato, o piuttosto egli è la stessa
beatitudine, da dove segue questo corollario, che gli uomini non possono diventare beati che partecipando di
Dio e diventando essi stessi, per così dire, degli dei. Causa prima dell’universo, come del resto basterebbe a
dimostrarlo l’ordine delle cose, questo Dio sfugge alle determinazioni del nostro pensiero. Essendo perfetto,
egli è di per sé tutto ciò ch’egli è. Dio è dunque assolutamente uno. Il Padre è Dio; il Figlio è Dio; lo Spirito
Santo è Dio. La ragione della loro unità, dice Boezio, è la loro non-differenza, formula di cui si servirà più
tardi Guglielmo di Champeaux per spiegare come l’universale possa essere, contemporaneamente, uno e
comune a parecchi individui. Se è perfettamente uno, aggiunge Boezio, esso sfugge a tutte le categorie, e
questa tesi sarà più tardi lungamente sviluppata da Giovanni Scoto Eriugena. Tutto quello che si può dire
di Dio concerne meno lui stesso che il modo in cui egli amministra il mondo. Tutte queste nozioni teologiche
si presentano nel De consolatione philosophiae senza l’appoggio delle Scritture, il che non ha nulla di
sorprendente poiché è la filosofia che parla. Notiamo tuttavia il caso, unico sembra, del lib. III, pr. 12, in cui
Boezio dice del Bene supremo: regit cuncta fortiter, suaviterque disponit. E’ incontestabilmente una
citazione di un testo ben noto del Libro della Sapienza che sant’Agostino aveva citato instancabilmente. Se si
tiene conto del fatto che, nel Preambolo del suo De Trinitate, Boezio si richiama apertamente a
sant’Agostino, non si rischierà, molto d’ingannarsi dicendo che le coincidenze tra la dottrina del De
consolatione philosophiae e quelle di Agostino non sono fortuite. Anche quando parla soltanto da filosofo,
Boezio pensa da cristiano. Dopo l’intellegibile che è Dio, l’intellegibile che è l’anima. Trattando dell’origine
dell’anima. Se le anime sono state unite agli angeli, hanno dovuto preesistere ai corpi. Il secondo testo del De
consol. philos. III, met. II e pr. 12, abbozza la stessa dottrina e la collega a quella della reminiscenza
platonica. Aggiungiamo che Alberto Magno annovererà, più tardi, Boezio tra i sostenitori della preesistenza
delle anime. Egli si è dunque servito della libertà che sant’Agostino gli concedeva per procedere nel senso di
Platone e di Macrobio. L’argomento stesso del De consolatione philosophiae ve lo invitava. Minacciato di
morte, egli non poteva che consolarsi nel pensiero di un Dio provvidenza, alla cui volontà bisogna aderire se
si vuol essere felici, qualunque siano le avversità della fortuna. E’ qui che Boezio sviluppa la celebre
allegoria della Ruota della Fortuna che, da allora, i miniaturisti hanno illustrato. Gli esseri naturali tendono
naturalmente verso i loro luoghi naturali, dove si preserverà la loro integrità; l’uomo può e deve fare lo
stesso, ma lo fa con la sua volontà. Volontà è sinonimo di libertà. Come conciliare la libertà con una
provvidenza, che ha regolato tutti in anticipo e non lascia nemmeno posto al caso? E’ perché la volontà non è
tale, e di conseguenza non è libera, se non in quanto l’uomo è dotato d’una ragione capace di conoscere e di
scegliere. Dio e le sostanze intellettibili superiori godono di una conoscenza così perfetta, che il loro giudizio
è infallibile: la loro libertà è quindi perfetta. Nell’uomo l’anima è tanto più libera quanto più essa si regola
sul pensiero divino. Forse si obietterà che il problema resta intatto: se le previsioni di Dio sono infallibili, o
la nostra volontà non potrà decidere diversamente da come gli ha previsto, e non sarà libera, oppure essa lo
potrà, e l’infallibilità della provvidenza sarà messa in difetto. E’ il classico problema dei “futuri contingenti”.
Semplice questione logica in Aristotele, che non insegnava la previsione divina degli atti umani, essa
proponeva ai cristiani un problema metafisico e teologico tra i più difficili: come conciliare la libertà umana
con la previsione dei nostri atti da parte di Dio? La risposta di Boezio consiste nel separare i due problemi
della previsione e della libertà. Dio prevede infallibilmente gli atti liberi, ma li prevede come liberi; il fatto
che questi atti siano previsti non fa sì che essi siano necessitati. E’ del resto in seguito ad una illusione che
noi poniamo il problema così. Dio è eterno e l’eternità è il possesso totale, perfetto e simultaneo di una vita
senza fine. Dio vive dunque in un perpetuo presente. D’accordo con Calcidio, Boezio subordina alla
provvidenza ciò ch’egli chiama destino. Considerato nel pensiero ordinatore di Dio, l’ordine delle cose è la
provvidenza; considerato come la legge interiore che regola dall’interno il corso delle cose, è il destino. Si
tratta di due realtà distinte, perché la provvidenza è Dio e sussiste eternamente nella sua perfetta immobilità,
mentre il destino, che non è che la legge di successione delle cose stesse, si svolge con esse nel tempo.
Realizzazione nel tempo dei decreti eterni della provvidenza, il destino non vi si oppone, non fa che servirla.
Il secondo problema approfondito da Boezio è uno di quelli in cui il suo pensiero riuscì più personale e
fecondo. Con Platone e Agostino egli identifica l’essere col bene e il male col non-essere. Dunque, per tutto
ciò che esiste, è una sola e medesima cosa l’essere e l’essere buono. Ma se le cose sono sostanzialmente
buone, in che cosa differiscono dal bene in sé, che è Dio? La risposta di Boezio è contenuta in una formula la
cui densità provocherà numerosi commenti: “diversum est esse et id quod est”. Che cosa significa? Ogni
essere individuale è un gruppo di accidenti unico e irriducibile ad ogni altro. Siffatto insieme di
determinazioni collegate (dimensioni, qualità, sensibili, figura, ecc.) è ciò stesso che è. “Ciò che è” risulta
quindi dall’insieme delle parti che lo compongono: tutte collettivamente, ma nessuna di esse presa
singolarmente. Ad esempio, poiché l’uomo si compone di un’anima e di un corpo, egli è
contemporaneamente corpo e anima, ma non è né un’anima né un corpo. Così dunque, in ogni parte, l’uomo
non è ciò che egli è. Questo è il caso di ogni esse composto, poiché esso è l’insieme delle sue parti, ma non è
nessuna di esse. Esso è, dunque, come composto, ciò che non è come parti. E’ quanto fondamentalmente
significa la formula: nel composto c’è diversità tra ‘essere e ciò che è. In una sostanza semplice come Dio,
tutto va diversamente; si può dire che, a motivo della sua perfetta semplicità, il suo essere e ciò che egli è
fanno tutt’uno. Ora, ogni composto è fatto di elementi determinati da un elemento determinante. L’ultimo
determinato è materia, l’ultimo determinante è forma. Ad esempio, l’uomo si compone di una materia
organizzata in corpo e di un’anima che organizza questa materia in corpo. L’anima è ciò per cui l’uomo è ciò
che è; essa è il quo est di questo id quod est, e, poiché essa lo fa essere, è il suo essere (esse). L’essere d’una
sostanza composta è dunque la forma per la quale questa sostanza è ciò che essa è. Ora, notiamo, questa
forma costitutiva della sostanza composta non è questa sostanza totale; essa non ne è che una parte. Presa
separatamente, essa non esiste. Ciò che è proprio di questa sostanza composta è dunque che anche il suo esse
non è, o, se si preferisce, il suo essere stesso non è ancora che un quo est. Boezio dunque non poneva ancora
nettamente il problema del rapporto dell’essenza con l’esistenza, ma quello del rapporto della sostanza col
principio del suo essere sostanziale, cioè di ciò che la fa essere come sostanza. Per il loro stesso rigore, le
formule in cui s’è depositato il suo pensiero renderanno più difficile ad alcuni di superare, più tardi, il piano
della sostanza per raggiungere quello dell’esistenza, ma esse aiuteranno coloro che riusciranno a farlo a
formulare essi
stessi il loro pensiero in termini perfettamente rigorosi. Il mondo dei corpi naturali si presentava dunque,
infine, a Boezio come un insieme di partecipazioni alle idee divine, ordinate alla provvidenza. L’influenza di
Boezio è stata molteplice e profonda. I suoi trattati scientifici hanno alimentato l’insegnamento del
Quadrivium; le sue opere di logica hanno tenuto il luogo di quelle di Aristotele per parecchi secoli; i suoi
Opuscoli hanno dato l’esempio che assillerà degli spiriti eccellenti del Medioevo, d’una teoria che si
costituirebbe come scienza e, secondo l’espressione di Boezio stesso, si dedurrebbe secondo regole, partendo
da termini precedentemente definiti; quando al De consolatione philosophiae, lo si ritroverà presente e
operante in tutte le epoche.
Tradurre, commentare, conciliare, trasmettere: tale era l’opera di Boezio nella sua prima intenzione. Essa era
in armonia con i bisogni di questo VI secolo che si sente come in gestazione di un nuovo mondo. Altri, oltre
a lui, ben preso incominciarono ad impegnarsi nello stesso compito ed a riassumere a grandi linee la cultura
classica per salvaguardarla dalla distruzione.
CASSIODORO (477-570)
Nato tra il 477 e il 481 e morto verso il 570, Cassiodoro contende a Boezio, nei nostri libri di storia, il titolo
onorifico di “ultimo dei romani”. Egli lo merita, con alcuni altri ancora. Il De anima di Cassiodoro è un
opuscolo che si può dire rientra in un genere letterario determinato. Ci sono dei De anima come ci saranno
dei De intellectu. Quello di Cassiodoro s’è ispirato ai trattati di Agostino sullo stesso soggetto ma anche al
De statu animae composto da Claudiano Mamerto verso il 468. Abbiamo constatato parecchie volte come,
all’origine, il pensiero cristiano provasse scarsa ripugnanza nei riguardi del materialismo stoico. Vediamo
comparire questa tendenza ovunque il neoplatonismo di Agostino esercita la sua influenza. D’accordo con
Agostino, non le concedeva altra grandezza che quella, tutta metaforica, della conoscenza e della virtù.
Ugualmente, nel suo De anima, Cassiodoro afferma la spiritualità dell’anima. Sostanza finita, poiché è
mutevole e creata, essa è interamente presente all’interno del corpo, ma immateriale perché capace di
conoscere, e immortale perché spirituale e semplice. Questo trattato sarà citato di frequente, e ancor di più di
frequente plagiato in seguito. L’enciclopedia di Cassiodoro dovette il suo successo allo stile elegante e
sciolto del suo autore.
GREGORIO MAGNO (540-604)
Nel VI secolo la vena dell’antica cultura romana sembra pressoché inaridita. I Padri latini ne avevano
prolungato la durata utilizzandola ai fini del pensiero cristiano, ma, in quest’epoca, l’impero romano
dov’essa era sorta, e che ne era come l’ambiente naturale, finisce di disgregarsi. Il nome del suo ultimo
rappresentante è allora quello di papa Gregorio I, soprannominato Gregorio Magno, per il su genio
d’organizzazione. Il clamoroso successo dei suoi scritti è dovuto, tuttavia, piuttosto al loro perfetto
adattamento ai bisogni della chiesa. Riformatore della liturgia e del canto della chiesa, che ancor oggi si
chiama “canto gregoriano”, egli scrisse un Liber regulae pastoralis sui doveri d’un pastore cristiano. La
lettera violenta che egli scrisse a Didiero sorprende, anche sapendo quanto profondo fosse allora il
decadimento delle lettere. Gregorio vi esprime la speranza che non si tratti che di una notizia falsa e che il
cuore di Didiero non si sia lasciato cogliere dall’amore delle lettere profane. Come credere che un vescovo
possa discutere di grammatica? Le stesse labbra non potrebbero celebrare contemporaneamente Giove e
Gesù Cristo!
ALCUINO (730-804)
L’esistenza della cultura anglosassone di origine latina non avrebbe che un interesse locale, se la
restaurazione delle lettere nell’Europa continentale non avesse qui la sua origine. Infatti è alla scuola
cattedrale di York, sotto la direzione dell’arcivescovo Egberto, che Alcuino (730-804) ricevette la
formazione intellettuale e morale che doveva più tardi importare in Francia, York era tutto impregnato di
influenze romane. Alcuino sceglie e raggruppa, intelligentemente, delle idee che, cariche in Agostino di tutta
una psicologia neoplatonica, presso di lui compaiono soltanto ridotte allo stato grezzo. Un esempio sarà
chiarificatore. Alcuino riproduce come ovvia la dottrina agostiniana e platonica della sensazione: i sensi sono
i messaggeri che informano l’anima di ciò che accade al corpo, ma è l’anima che forgia, essa stessa e in se
stessa, le sensazioni e le immagini. Alcuino non ha mai smesso dunque, in Francia, di lavorare per la chiesa,
con in cuore la nostalgia del paese da cui s’era esiliato per intraprendere questa grande opera. Quando egli
scrive patria, dobbiamo tradurre York, e immaginare il monastero cui egli non cessava di pensare.
B. Hauréau: lo considera “un pensatore molto libero” attribuendogli in tal modo il massimo elogio
che avesse a sua disposizione.
Infatti il significato della dottrina di Eriugena consiste nella sua concezione dei rapporti di fede e ragione.
Per comprenderlo, è essenziale distinguere le posizioni successive dell’uomo rispetto alla Verità. La natura
umana prova un desiderio innato di conoscere la verità. Fra il peccato originale e la venuta di Cristo, la
ragione è oscurata dalle conseguenze dell’errore, e non essendo ancora rischiarata da quella rivelazione
completa che sarà il Vangelo, essa non può che costruire laboriosamente una fisica, per comprendere almeno
la Natura e stabilire l’esistenza del Creatore che ne è la causa. Fin da quest’epoca con la diffusione della
rivelazione ebraica, la ragione entra in una seconda posizione. Ma questo non significa che la ragione debba
scomparire. Dio non vuole che la fede determini in noi un duplice sforzo per farla passare nei nostri atti con
la vita attiva e per esplorarla razionalmente con la vita contemplativa. La nostra ragione è una ragione istruita
dalla rivelazione. In primo luogo, poiché Dio ha parlato, per la ragione di un cristiano è impossibile non
tenerne conto. La fede è ormai, la condizione dell’intelligenza. Pietro e Giovanni accorrono al sepolcro;
Pietro è il simbolo della fede, Giovanni quello dell’intelligenza e il sepolcro è la Scrittura. Entrambi vi
accorrono, tutti e due vi entrano, ma è Pietro che passa per primo. Faccia lo stesso la nostra fede. Poiché la
rivelazione divina s’esprime nella Scrittura, facciamo precedere lo sforzo della nostra ragione da un atto per
il quale accettiamo come verità ciò che a Scrittura insegna. Questo fonda interamente la sua filosofia, e si
può notare come i suoi maestri prediletti siano: Agostino e Dionigi. Se la fede è veramente un punto di
partenza, è si perché è da lei che si parte, ma anche perché, veramente, se ne parte. Dio non l’ha data
all’uomo perché egli si fermi li, tutto al contrario “essa non è altro che una specie di principio, partendo da
quali, in una creatura dotata di ragione, incomincia a svolgersi la conoscenza del suo Creatore”. La fede è un
principio che tende a svilupparsi in una conoscenza più perfetta. In principio, l’interpretazione letterale della
Scrittura condurrebbe facilmente ad errori grossolani, se la ragione non intervenisse per svelare il senso
spirituale che si nasconde sotto la lettera. L’interpretazione dei simboli scritturali pretende dunque uno sforzo
da parte della ragione naturale. E’ nella sua natura il suscitare, negli spiriti disposti a speculazioni di questo
genere, una speculazione razionale di un tipo distinto. La fede vi provoca spontaneamente la manifestazione
di una filosofia ch’ella nutre e che la rischiara. E’ per questo che Scoto Eriugena giunge a considerare
filosofia e religione come termini equivalenti. Poiché su questo punto lo si è accusato di razionalismo,
conviene precisare il senso delle formule di cui egli si serve. La vera filosofia prolunga lo sforzo della fede
per raggiungere il suo oggetto. Conoscenza di un genere diverso dalla fede, essa ha però lo stesso contenuto,
ed è per questo, in un certo senso, che esse si confondono. Le formule di Giovanni Scoto Eriugena sono
equivoche, ma non è una ragione sufficiente per attribuirgli un razionalismo che sarebbe esattamente
contrario al suo pensiero. Una luce illumina l’anima cristiana. Per rendersi conto esattamente
dell’atteggiamento spirituale di Eriugena bisogna concepire la sua opera come una esegesi filosofia della
sacra Scrittura. Cercare Dio nelle parole che egli ci ha lasciato, e trovarvelo. In questo senso conviene
interpretare i celebri testi di Eriugena sul primato della ragione. Nessun suo testo può essere citato in questo
senso, e innumerevoli sono i testi che vanno nella direzione opposta. Davanti all’autorità della Scrittura, la
ragione non ha che da inchinarsi: Dio parla, noi accettiamo per fede ciò che egli dice, e la sua parola è
indiscutibile. L’autorità alla quale Eriugena si ribella non è quella di Dio, è quella degli uomini, cioè
l’interpretazione della parola di Dio, che è infallibile, con ragioni umane che non lo sono. Ciò che dice Dio è
vero, che la ragione lo comprenda o no; ciò che dice un uomo è vero solo se la ragione l’approva. L’autorità
per lui, non è che un tradizionalismo della ragione. Il suo atteggiamento generale riguardo a questi problemi
è dunque di completa sottomissione alla parola di Dio unita a una completa libertà quando si tratta di quella
degli uomini. Se vi fu in Scoto Eriugena un certo razionalismo, fu quindi contro le sue intenzioni. Affermare
che la filosofia s’ispira dalla fede, chela ragione è necessaria per interpretare i testi in cui questa fede ci è
trasmessa, che l’interpretazione i testi in cui questa fede ci è trasmessa, che l’interpretazione tradizionale di
questi testi con la ragione costituisce la tradizione filosofica, che questa tradizione, nata da una ragione
illuminata dalla fede, resta passibile di giudizio da parte della stessa ragione illuminata dalla stessa fede, era
definire incompletamente una retta posizione con quello che essa affermava, e che aspettava soltanto
d’essere completata. Come sant’Agostino e sant’Anselmo, egli pensa sotto l’egida del “Credo ut intellegam”
e la sua filosofia si riassorbe interamente nel corso della Sapienza cristiana da cui gli sembra inutile volerla
separare, perché essa vive della sua vita e vi resta organicamente solidale nel corso del suo esercizio.
Eriugena ha il pericolo dono della formula, e che non gli dispiace ch’essa sia provocante; ma si avrebbe torto
di servirsi contro di lui del suo virtuosismo, tanto più che, in genere, egli si sa meglio tutelato di quanto
s’immagini. Eriugena sembra aver dato la prova di un istinto quasi infallibile per prendere a prestito dai
Padri della chiesa le loro formule più vulnerabili. Poiché la sua scelta avveniva sempre in direzione del
neoplatonismo, egli ha finito col liberare allo stato puro un aspetto del loro pensiero autentico, ma in loro
equilibrato da forze di differente natura e che, in virtù dell’effetto complessivo così ottenuto, troppo spesso
in lui sembra non equilibrarsi affatto. Il metodo di cui la ragione si serve per conseguire l’intelligenza di ciò
che crede è la dialettica, le cui due operazioni fondamentali:
- la divisione, consiste nel partire dall’unità di generi supremi, nel distinguere in seno alla loro unità i generi
via via meno universali;
- l’analisi, segue la via inversa, partendo dagli individui e risalendo i gradini discesi con la divisione.
Questi due momenti del metodo sono dunque complementari. Sono proprio gli individui stessi che
discendono dai generi, e non soltanto i nostri ragionamenti. Il duplice movimento della dialettica non è
dunque né una regola puramente formale del pensiero, né una invenzione arbitraria dello spirito umano. La
spiegazione dell’universo deve seguire le vie della divisione e dell’analisi. La dottrina di Eriugena non è una
logica. Essa infatti include tutto ciò che è e tutto ciò che non è. Vengono così introdotte le quattro grandi
distinzioni:
1) la natura che crea e non è creata
2) natura che è creata e crea
3) natura che è creata e non crea
4) natura che non crea e non è creata
Il secondo e il terzo sono creati, il primo e il quarto sono increati. Si tratta quini di due sole distinzioni: il
Creatore e la creatura. Infatti a natura che crea e non è creata è Dio, la natura che non è creata e non crea è
questo stesso Dio considerato come colui che cessato di creare ed è entrato nel suo riposo. La seconda
divisione corrisponde alle idee archetipe, creatrici delle cose, ma create esse stesse da Dio, e la terza
comprende le cose stesse create dalle idee. Ogni essere è il non essere di qualcosa, e tale non essere ha più
realtà di tale o talaltro essere. L’essere è tutto ciò che può essere percepito con i sensi o compreso con
l’intelletto. Tutto ciò che sfugge alla presa di questi due modi di conoscere rientrerà nel genere del non-
essere. Eriugena ne conosce cinque tipi:
1) ciò che sfugge ai nostri sensi e al nostro intelletto per l’eccellenza della sua natura, cioè in primo luogo
Dio, poi le essenze delle cose che, inafferrabili in se stesse, non ci sono note che attraverso i loro accidenti;
2) nella serie gerarchica degli esseri l’affermazione dell’inferiore è la negazione del superiore, e viceversa, di
modo che ciò che un essere è implica il non essere di ciò ch’egli non è;
3) tutto ciò che non è ancora che in potenza, allo stato germinale e di “ragione seminale” è il non essere di
ciò che sarò una volta attualizzato;
4) gli esseri che sono soggetti a generazione e corruzione non sono;
5) nel caso particolare dell’uomo, si può dire ch’egli è in quanto è somigliante a Dio, e che non è in quanto
per il suo errore perde questa somiglianza.
E’ importante precisare il senso della divisione dell’essere. Non si trattava di una semplice divisione logica,
ma di una reale divisione della natura. Non si tratta d’una divisione di un genere informe, o di un tutto in
parti, perché Dio non è il genere della creatura, né la creatura la specie del genere Dio. Il concetto di
divisione della natura è quindi equivalente a quello di creazione, la quale equivale a sua volta alla produzione
della molteplicità da parte dell’Uno. Aristotele ha voluto includere l’universalità delle cose in dieci generi
universali, ch’egli chiama categorie. Sono la sostanza, la quantità, la qualità, la relazione, lo stato, il luogo, il
tempo, l’azione, la passione e l’abito. Tutte le nature create rientrano in queste categorie, ma, come ha
mostrato Sant’Agostino nelle sue Confessioni, Dio sfugge loro. Strettamente parlando, egli è dunque
ineffabile. Queste formule riconducono alla “teologia negativa”. Dio non è sostanza, non è quantità, né
qualità, né niente che rientri in alcuna categoria. E’ vero che Dio sa tutto ciò che è, ma è falso che Dio sia
qualcosa di ciò che è, perché tutto il resto è molteplice e Dio è l’Uno. Dio è essenza, e Dio non è essenza,
dunque Dio è “iperessenziale”. Dire che Dio è “iperessenziale” è enunciare una proposizione di forma
affermativa, ma di contenuto negativo; perché se si dice che Dio è al di là dell’essenza, senza dire ciò che è,
si esprime molto meno ciò ch’egli è di ciò ch’egli non è. Eriugena pone Dio al di là di tutte le categorie,
come causa di tutte le cose, superiore ad ogni affermazione e ad ogni negazione. La seconda divisione della
natura comprende quegli esseri creati che sono, loro stessi, creatori. Poiché sono creati, con essi usciamo
dalla natura divina, ma poiché sono creatori, sono le più nobili di tutte le creature. Li si è chiamati anche
“prototipi” o “volontà divine”, o ancora “idee”. Questi esseri sono gli archetipi delle cose create. Dio ha
creato le idee, salvo precisare il senso del termine creazione in una dottrina in cui il rapporto delle creature
con il Creatore si riduce a quello del molteplice con l’Uno. Eriugena ha messo in rilievo così vigorosamente
questa dottrina, che nonostante fosse di origine propria di Dionigi, egli se n’è appropriato nuovamente.
Soltanto Dio è eterno e le idee non lo sono. Eriugena insegna che le idee sono eterne, e anche coeterne a Dio,
ma non interamente, perché esse ricevono da Dio la loro esistenza. Questo resta vero per il mondo stesso, in
quanto almeno lo si può considerare come eternamente creato nelle idee di Dio. Le idee sussistono
eternamente nel Verbo e poiché il Verbo è Dio, cioè unità perfetta, bisogna che le idee siano in lui senza
introdurvi alcuna molteplicità. Esse sono una realtà semplice ed una, senza che si possa concepire nessun
ordine tra loro. Esse ammettono distinzioni e si distribuiscono secondo un ordine. Il Verbo stesso può esser
concepito come l’idea principale (idea), la ragione (ratio) e la forma (specis vel forma) di tutte le cose visibili
e invisibili. Inoltre, tutto ciò che si svilupperà nel tempo è in lui eternamente come nel suo principio. In
breve, il Verbo di Dio è la ragione e la causa creatrice. In quanto causa del mondo attraverso il suo Verbo,
Dio è prima di tutto il Bene. Vengono poi l’essenza o Essere in sé, essa stessa partecipazione di Dio, ma di
cui tutti gli altri esseri a loro volta partecipano. La terza delle idee sarà la Vita in sé, la Ragione occuperà il
quarto posto. L’Intelligenza in sé il quinto; poi, nell’ordine, la Virtù, la Beatitudine, la Verità e l’Eternità.
Questa dottrina delle idee comporta una notevole difficoltà. Se gli archetipi delle cose sono delle creature,
necessariamente essi sono finiti; ma, se sono finiti, come possono identificarsi col Verbo?
In primo luogo Eriugena insegna che le idee sono lo stesso Verbo; ora egli è increato, dunque anch’esse lo
sono. Poi egli paragona la produzione delle idee nel Verbo alla generazione del Verbo da parte del Padre;
non dovrebbe quindi esserci questione di creazione né in un caso né nell’altro; o, se si vuol arrivare fino a
dire che il Verbo stesso è creato ciò che ha il paradossale la formula, quando s’applica al Verbo, mostra a
sufficienza che anche nel caso delle idee non può trattarsi di una vera creazione. Eriugena rifiuta
semplicemente di chiamare creatura propriamente detta ciò che, in ogni altro sistema che non sia il suo, si
chiamerebbe con questo nome. Per questo, per forti che siano in apparenza, nessuno degli argomenti in senso
contrario è decisivo. E’ vero, in primo luogo che, in quanto sussistono nel Verbo, le idee sono identiche a lui,
ma bisogna che il Padre le produca perché esse sussistano nel Verbo, e, a questo titolo, esse fanno parte di
quella “universalitas quae post, Deum est, ab ipso condita”, di cui abbiamo detto.
In secondo luogo, è vero che Scoto Eriugena paragona la produzione delle idee nel Verbo alla generazione
del Verbo da parte del Padre, ma egli conserva due differenze fondamentali: per prima cosa egli pone le idee
post Deum, il che non fa del Verbo; per di più egli precisa che l’anteriorità del Verbo alle idee è reale. Egli
stesso lo dichiara, nel De divisione naturae.
Il Verbo è Dio come il Padre, le idee non sono che la partecipazione di Dio. Rimane il testo in cui Scoto
Eriugena rifiuta alle idee il nome di creature, ma è perché egli definisce le creature: ciò che ha inizio nel
tempo, e non perché egli rifiuti loro una causa nell’ordine dell’essere. Eriugena è su questo punto formale al
massimo: le idee eterne rientrano nell’ordine di ciò che viene dopo Dio, perché Dio ne è la causa. Posto
questo, poco importa che si dia a loro o no il nome di creature; con qualunque nome le si chiami, dato
ch’esse sono degli esseri inferiori a Dio, non si vede come potrebbero essere Dio. Perché questa difficoltà,
così evidente ai nostri occhi, bisogna che il pensiero di Scoto Eriugena si sia mosso su un piano
completamente diverso da quello che noi immaginiamo. Il Dio di Eriugena è come un principio che,
sapendosi incomprensibile, dispiegherebbe tutta in un colpo la totalità delle sue conseguenze per rivelarsi in
esse. Un simile Dio non agisce mai fuori di sé che per “manifestarsi”. Questo atto di automanifestazione
divina, che occupa un posto importante nella dottrina di Eriugena, è ciò che egli chiama, rifacendosi a
Gregorio di Nazianzo e a Massimo il Confessore, una “teofania”. Le teofanie si definiscono: apparizioni di
Dio comprensibili per gli esseri intelligenti. In qualunque grado la si consideri, la produzione degli esseri da
parte di Dio non è che una teofania. Per Dio, creare è rivelarsi. Dal che risulta che, come la creazione è
rivelazione, la rivelazione è creazione. Preludendo a certi temi della mistica speculativa del XIV secolo,
Eriugena si rappresenta quindi la natura divina come inconoscibile, non soltanto per noi, ma per se stessa,
senza una rivelazione che sia una creazione. La creazione propriamente detta è l’opera del Padre, ed essa
consiste nel produrre le idee nel Verbo. Parlando in senso stretto, la creazione è fin da allora compiuta:
“Cognitio eorum quae sunt, ea quae sunt, est”. Essa esiste eternamente, benché non del tutto coeternamente,
finita e compiuta, perché tutti gli esseri sono già prodotti nell’unità delle idee, dove la loro molteplicità è
contenuta implicitamente. Questa processione del molteplice partendo dall’uno è l’opera della terza persona
della Santa Trinità, lo Spirito Santo. Egli è il fecondatore e il distributore della generosità divina. Anche ogni
creatura, riproducendo a suo modo l’immagine di Dio, è definita da una trinità costitutiva: l’essenza, che
corrisponde al Padre; la virtù attiva che corrisponde al Figlio; l’operazione, che corrisponde allo Spirito
Santo. In un testo fondamentale per la storia del pensiero medievale, san Giacomo chiama Dio Padre dei
lumi. San Paolo del resto aggiunge: “omne quod manifestatur, lumen est”. Viene di qui la doppia
illuminazione della grazia (domum) e della natura (datum). Così concepiti, tutti gli esseri creati sono dei
lumi, “omnia quae sunt, lumina sunt” e ogni cosa, anche la più umile, in fondo non è che un lumicino in cui
brilla, per quanto debolmente, il lume divino. Questa concezione dell’atto creatore porta con sé una
correlativa concezione della sostanza delle cose create. Manifestazione di Dio, l’universo cesserebbe di
esistere se Dio cessasse di irradiare. Come la produzione degli esseri, la stessa loro sussistenza è
un’illuminazione. L’insieme delle teofanie che costituisce l’universo di divide in tre mondi:
- le sostanze puramente immateriali che sono gli angeli;
- le sostanze corporee e visibili
Tra l’uno e l’altro, questo universo ridotto che è l’uomo, che partecipa dell’uno e dell’altro e che li unisce.
Dall’alto in basso della serie degli esseri, Dio è presente come nelle sue partecipazioni. Ricordiamo che Egli
non vi divide in parti: “est partecipatio, non cujusdam partis assumptio, sed divinarum dationum (natura), et
donationum (grazia) a summo usque deorsum per superiores ordines inferioribus distributio”.
Eriugena interessa tutti e non accontenta nessuno: egli parla come un panteista, ma quelli che vorrebbero
ch’egli lo fosse s’accorgono bene ch’egli non lo è; ma allora, pensano quelli che non vogliono che lo sia,
perché parla come se lo fosse? Diciamolo una volta ancora, egli parla di un’altra cosa, che è il rapporto con
la sua esplicazione. Così concepita l’illuminazione segue un ordine gerarchico, che dà via via meno luce e
meno essere, dagli angeli all’uomo, dall’uomo ai corpi. La natura di questa gerarchia resta mal capita finché
si considera il posto di un essere come un’appendice della sua sostanza. L’ordine delle cose non è una
disposizione secolo la quale Dio le ordinerebbe dopo averle create; il loro posto è il loro stesso essere. La
gerarchia è dunque una realtà consacrata, come dice il suo nome; essa è la partecipazione ordinata di tutti gli
esseri a Dio. Gli Angeli sono le intelligenze che possiedono la massima perfezione possibile alle creature.
Immateriali, nel senso che non sono coinvolti nella materia come le nostre anime, essi hanno tuttavia dei
corpi spirituali, semplici, senza figure e senza contorni sensibili. A differenza degli uomini, essi hanno una
conoscenza immediata e, in certo modo, sperimentale delle cose divine. Non soltanto gli angeli non vedono
Dio, ma non vedono nemmeno le idee di Dio. Il loro privilegio si restringe quindi, senza vedere il Verbo, a
ricevere le prime manifestazioni irradiate dal Verbo fuori di sé. Queste teofanie non si comunicano agli
angeli in blocco e indistintamente, ma in ordine gerarchico; infatti soltanto gli angeli più perfetti ricevono le
prime e le trasmettono di ordine in ordine fino agli angeli meno nobili, che a loro volta la trasmettono
all’ordine superiore della gerarchia ecclesiastica, e attraverso di esso agli altri Ordini, fino ai semplici fedeli.
Anche qui, la trasmissione gerarchica non è un carattere estrinseco dell’ordine angelico, essa ne è costitutiva.
La natura umana è attualmente ben al di sotto della natura angelica. Divisi in essi, gli esseri umani si
moltiplicano come gli animali, e non si può dire che non sia stato così fin dall’origine, ma avrebbe potuto e
dovuto essere altrimenti. Riprendendo a suo vantaggio la dottrina di Origene su questo punto, Giovanni
Scoto ritiene che Dio, prevedendo il peccato originale, abbia preventivato una maniera di moltiplicazione
della specie umana diversa dalla pullulazione istantanea e analoga a quella degli angeli, che avrebbe prevalso
senza questa prospettiva di caduta. Dio si è dunque servito della divisione dei sessi come di un espediente.
Separandosi da Dio, l’uomo trascinava nella sua caduta l’intero mondo dei corpi. Per capire questo punto
bisogna conservare che l’universo corporeo esiste dapprima nel pensiero dell’uomo e che vi sussiste in un
modo d’essere più nobile che in se stesso; poiché tutto è teofania, e l’illuminazione si trasmette dall’alto in
basso, c’è un momento in cui tutto ciò che viene dopo l’uomo è già contenuto in lui, nello stato meno
perfetto che nell’angelo, ma più perfetto di quanto non sarà in sé. Allo stesso modo che il triangolo perfetto
non esiste che nel pensiero del geometra, tutti gli esseri esistono nel pensiero dell’uomo, come tipi
intelligibili, più perfettamente che nella materia in cui in seguito si sparpagliano. Le specie sotto le quali si
dispongono i corpi sono della realtà intelligibili; le loro quantità, oggetto della scienza matematica, pure lo
sono, e anche le loro qualità, checché ne sembri, perché la qualità è una categoria che si può intendere col
puro pensiero. Una quantità senza qualità non è un corpo; una qualità senza quantità neppure lo è; il corpo
sensibile ha principio al punto d’incontro di questi due elementi intelligibili, la quantità e la qualità. Ma, si
dirà forse, resta tuttavia la materia! Indubbiamente, la materia esiste; essa tuttavia forse non è ciò che si
crede. Per comprenderne la natura, riprendiamo l’analisi dell’essere corporeo. La materia è concepita come
fatta di intelligibili coagulati. Questa concezione della materia spiega perché la creazione del mondo si
confonda con quella di tutte le essenze intelligibili, cioè, in fin dei conti, con quella delle loro idee in Dio; ma
al tempo stesso così si vede perché questa produzione delle idee debba essere veramente quella di un effetto
da parte della sua causa, poiché essa è la creazione stessa de mondo. Noi facciamo parte di Dio: “pars Dei
sumus”. La sostanza stessa di ogni creatura è la sua essenza intelligibile: “uniuscujusque creaturae vera est
substantia sua, in primordialibus causis praecognita praeconditaque ratio, qua Deus definivit: sic et non aliter
erit”. L’interno mondo è dunque un’immensa predestinazione di essenze, di cui il pensiero creatore fissa una
volta per tutte la costituzione ontologica. Ciò che procura loro questo titolo di essere, è la loro stessa
immutabilità. Essentia, si predica di ciò che in ogni creatura visibile o invisibile non può né aumentare né
diminuire, né cambiare. Questa stessa essenza è ciò che prende il nome di natura. In certo modo, l’universo
qual è deriva dall’errore dell’uomo, ma in esso non ne è il risultato. L’uomo non ha voluto conservare la sua
posizione intelligibile e Dio, nella sua misericordia, ha dispiegato intorno a noi la fantasmagoria nel mondo
dei corpi, perché possiamo trovare anche nel sensibile il modo per ritornare a lui. L’insegnamento di Origene
non è andato perduto. Conseguenza di una divisione che degenerato in separazione, il mondo è organizzato
per facilitare un ritorno. Ciò che rende possibile questo ritorno è il fatto che, scalino di una gerarchia, è esso
stesso una gerarchia, e ciò che è vero dell’uomo lo è dapprima dell’anima. Ora, questa gerarchia è quella di
una trinità. L’anima è una, senza parti, perché essa è interamente intelligenza, interamente ragione,
sensazione, memoria, vita; ma essa allo stesso tempo è capace di tre operazioni principali, o per meglio dire
di tre differenti processi (motus) che la diversificano senza dividerla.
Il processo più alto è quello ch’essa compie come pensiero puro (animus, mens, intellectus). E’ un
processo di ordine mistico e che richiede l’aiuto della grazia. Per esso l’anima si volge interamente verso
Dio, al di là delle sensazioni, delle immagini e delle operazioni discorsive del ragionamento.
Il secondo processo dell’anima è quello che essa compie come ragione (ratio, virtus). Essa non si eleva
più al di sopra di sé, ma si volge invece verso se stessa per formare e legare insieme le nozioni
intelligibili delle cose.
Rimane il terzo processo dell’anima, di natura complessa. Infatti esso suppone dapprima un’impressione
puramente corporea prodotta da un oggetto materiale su uno dei nostri organi sensoriali, poi, che l’anima
raccolga questa impressione e formi in sé l’immagine che si chiama sensazione.
Si è riconosciuta così la dottrina della sensazione come atto dell’anima, ereditata da Plotino attraverso
Agostino. Quello che si deve ricordare è che l’anima resta unica e presente tutta in ciascuna di queste vie. E’
il pensiero puro che si “divide” sempre più via via che discende dall’unità divina ai generi e alle specie che la
ragione conosce, poi agli individuali che la sensazione percepisce, come, in senso inverso, è lo stesso
pensiero che parte dalla molteplicità degli individui percepiti dai sensi, per riunirli con la ragione nelle loro
specie e nei loro generi, e infine superare questi ultimi per raggiungere Dio. La molteplicità delle operazioni
del pensiero esce da lui, in lui sussiste, e ritorna verso di lui, come esce da Dio, sussiste in Dio e a Dio ritorna
la molteplicità degli esseri che costituiscono l’universo. Questo richiamo di Dio si manifesta dapprima con
una specie di mancanza o di bisogno, interiori agli esseri stessi, che Eriugena chiama l’informitas.
L’informità si definisce: un movimento del non essere verso l’essere. Sotto l’azione di questa spinta oscura,
il flusso degli esseri è come un fiume che dopo essersi perso nelle sabbia, ritorni verso la sua sorgente
attraverso i pori segreti del suolo. Questo ritorno universale è legato a quello dell’uomo e incomincia nel
momento di massima dispersione che l’essere umano può raggiungere, cioè la morte. In conseguenza del
peccato, l’uomo è diventato simile alle bestie, sottoposto alle passioni, al dolore e alla morte. L’anima allora
si divide dal corpo, che si divide, esso stesso, nei suoi elementi costitutivi e si disperde nella terra; ma
proprio perché la circolazione degli esseri è un fiume la cui corrente non s’interrompe mai, l’ultimo
momento della “divisione” fa tutt’uno col primo momento dell’analisi. Come, in un viaggio, il punto d’arrivo
dell’andata è il punto di partenza del ritorno, 1) la morte dell’uomo è la prima tappa del suo ritorno verso
Dio. 2) La seconda tappa è la resurrezione dei corpi, che sarà l’effetto comune della natura e della grazia. I
sessi saranno allora aboliti e l’uomo sarà tale quale sarebbe stato se Dio non avesse previsto la sua caduta. 3)
Nel corso della terza tappa, il corpo di ciascun individuo si reintegrerà nell’anima da cui è uscito per via di
divisione. Questa reintegrazione comporterà parecchie tappe di ritorno, opposte a quelle di andata: il corpo
diventerà vita; la vita diventerà senso; il senso ragione; la ragione pensiero puro. 4) Una quarta tappa
reintegrerà l’anima umana nella sua Causa prima o Idea, e, con l’anima, il corpo ch’essa ha riassorbito. Tutti
gli esseri, che sussistono nel pensiero sotto la loro forma intelligibile, sono, con ciò stesso, riportati a Dio. Il
loro ritorno finale è il quinto ed ultimo momento di questa “analisi”. Rientrando il globo terrestre nel
Paradiso e propagandosi questo movimento di sfera in sfera, la natura e tutte le sue cause si lasceranno
penetrare da Dio come l’aria dalla luce, e da quel momento non vi sarà che Dio, e questa sarà la fine del
grande ritorno: “erit enim Deus omnia in omnibus, quando nihil erit nisi solus Deus”. Questo processo di
ritorno è l’opera comune della natura e della grazia, poiché, senza la resurrezione di Cristo, pegno della
nostra, questo movimento universale verso Dio sarebbe impossibile; ma esso si completa con un secondo,
che è opera della sola grazia. Buoni o cattivi, tutti gli uomini ritroveranno inevitabilmente i beni naturali di
cui erano stati dotati dal Creatore. Se, dunque, una grazia s’aggiunge alla precedente, non sarà più per
restaurare tutte le natura, ma per elevare alcune di esse ad uno stato “soprannaturale”. Questo sarà l’effetto
della grazia beatificante, che innalzerà le anime elette secondo tre tappe. Ridiventato pensiero puro
(intellectus):
- l’uomo conseguirà dapprima la scienza plenaria di tutti gli esseri intelligibili nei quali Dio si manifesta; -
poi s’innalzerà dalla scienza alla Sapienza, cioè alla contemplazione della più intima verità che sia
accessibile alla creatura;
- il terzo ed ultimo gradino sarà il perdersi del pensiero puro nella tenebra di questa luce inaccessibile dove
sono nascoste le cause di tutto ciò che è.
Tutta questa escatologia s’adatta benissimo agli eletti, ma che fare dei dannati? Un inferno materiale non
potrà trovar posto in un universo in cui la materia s’è dissolta nei suoi elementi intelligibili. Come Origine,
Eriugena considera l’idea d’una geenna materiale, luogo di supplizi dei corpi, come un residuo di
superstizione pagana di cui il vero cristiano deve sbarazzarsi. Non c’è altra beatitudine che a vita eterna, e
poiché la vita eterna consiste nel conoscere la verità, la conoscenza della verità è la sola beatitudine;
inversamente, se non c’è altra sventura che la morte eterna, e se la morte eterna è l’ignoranza della verità,
non c’è altra sventura che l’ignoranza della verità. E chi dunque è la verità se non il Cristo? Non bisogna
dunque desiderare nient’altro che la gioia della verità, che è Cristo, null’altro si deve fuggire che la sua
assenza, che è la sola ed unica causa di ogni tristezza eterna. S’immagina senza fatica lo stupore dei
contemporanei di Scoto Eriugena di fronte a questa immensa epopea metafisica, manifestamente incredibile,
e tuttavia garantita in ogni punto da Dionigi, Massimo, i due Gregori, Origene, Agostino o una qualunque
delle altre venti autorità che la sbalorditiva erudizione del suo autore gli permetteva d’invocare. E’ come se
Eriugena avesse fatto la scommessa di sostenere tutte le proposizioni emesse dai Dottori della chiesa quando
essi non parlavano come Dottori della chiesa.
ROSCELLINO (1050-1120)
Il problema degli universali s’arricchisce nel secolo XI di una nuova soluzione, quella che apporta il
nominalismo. Si è soliti considerare Roscellino come l’instauratore di questa dottrina e non senza ragione.
Bisogna tuttavia notare che, fin dall’epoca precedente in cui dominava nettamente il realismo, s’incontravano
dei filosofi che ricordavano che la logica di Porfirio, Boezio e Aristotele verte sulle parole (voces) e non
sulle cose (res).
Nato a Compiègne verso il 1050, egli studiò nella provincia ecclesiastica in cui era nato. Ebbe per maestro
tale Giovanni il Sofista. Roscellino è rimasto per i suoi contemporanei e per i posteri il rappresentante di un
gruppo di filosofi che confondevano allora l’idea generale con la parola con cui la si designa. L’interesse
presentato da questa dottrina consiste principalmente in ciò, che per i filosofi che facevano dell’idea generale
una realtà la specie stessa costituiva necessariamente una realtà mentre, se l’idea generale non è che un
nome, la vera realtà si trova negli individui che costituiscono la specie. In altri termini, per un realista
l’umanità è una realtà: per il nominalista di reale non ci sono che gli individui umani. Roscellino aderisce
apertamente alla seconda soluzione del problema. Per lui termine uomo non designa alcuna realtà che
sarebbe, in un grado qualsiasi, la realtà della specie umana. Come tutti gli altri universali, questo non
corrisponde che a due realtà concrete, nessuna delle quali è quella della specie. Da un lato c’è la realtà fisica
del termine stesso, cioè della parola “uomo” presa come “flatus vocis” o emissione di voce; dall’altro ci sono
gli individui umani che questa parola ha il compito di significare. Evidentemente, allora, sussiste il problema
di sapere come questi rumori che costituiscono la lingua parlata diano un senso al pensiero. Non si sa se
Roscellino si sia posto il problema, ma si sa che, non contento di adottare questo atteggiamento in sede di
dialettica, egli ne ha dedotto le conseguenze logiche in sede di teologia, ed è indubbiamente questo che
attrasse l’attenzione del suo insegnamento. La più celebre applicazione che Roscellino abbia fatto del suo
nominalismo alla teologia è la sua interpretazione triteista del dogma della Trinità. Non che egli abbia avuto
l’intenzione di sostenere che ci sono tre dei, ma, come non poteva ammettere che l’umanità fosse una cosa
diversa dagli individui umani, così non poteva ammettere che la realtà costituita dalla Trinità non fosse le tre
persone distinte che la compongono. Egli dunque insisteva su questo fatto, che in Dio, come nelle specie
create, sono gli individui ad essere reali. Significa confondere le persone, egli scriveva ad Abelardo, dire che
il Figlio è il Padre e il Padre è il Figlio, “ed è ciò che dicono necessariamente quelli che con questi tre nomi
vogliono significare una sola singola cosa; perché ciascuno di questi nomi presi in sé designa una cosa unica
e singola”. La Trinità si compone dunque di tre sostanze distinte, benché esse non abbiano che una sola
potenza e una sola volontà. Malgrado queste novità di linguaggio, Roscellino ha intenzione di attenersi al
dogma. La sua vera innovazione consiste nell’aver chiamato, col nome di sostanze, all’uso greco, ciò che i
Latini chiamavano persone. “Con persona noi non significhiamo nient’altro che la sostanza, benché, per una
specie di abitudine di linguaggio, si triplichino le persone senza triplicare la sostanza”. E’ la formula che
sant’Anselmo forza un poco quando accusa Roscellino d’insegnare che, se l’uso lo permettesse, si potrebbe
dire che si sono tre dei. La verità sembra essere che Roscellino ebbe l’imprudenza di andare contro la
terminologia acquisita e di usarne una che, interpretata in funzione del suo nominalismo, presentava
evidentemente un senso inquietante.
Al pensiero non resta più che trascendere tutte le forme generate per raggiungere i loro modelli, le idee prime
che sussistono eternamente. Giovanni di Salisbury ha riassunto la posizione di Gilberto de la Porrée in questa
formula concisa: “universalitatem formis nativis attribuit, et in earum conformitate laborat”. Si tratta proprio
infatti, per Gilberto, di ritrovare nelle cose della stessa specie e dello stesso genere questa omogeneità
naturale che esse ricevono esattamente dalla deductio conformativa per la quale le forme generate vengono
dalle idee eterne. C’è qui un certo “formalismo” del pensiero che, rinforzato dall’influenza di Avicenna, si
svilupperà pienamente nella dottrina di Duns Scoto. Lo stesso Gilberto de la Porrée l’aveva ereditata da
Boezio di cui egli commentava gli opuscoli teologici. Per Boezio, l’essere di una cosa era, in primo luogo, la
cosa stessa che è, ma egli distingueva, in ogni cosa, la cosa che è dal principio per il quale essa è ciò che è.
Chiamiamo dunque ciò che è l’id quod est, e chiamiamo “quo est” ciò per cui un essere è ciò che è:
arriveremo così alle formule, universalmente diffuse a partire dal XII secolo, del De Trinitate di Boezio.
Dio è veramente ciò che egli è. Al contrario, in ogni altro essere, c’è composizione di ciò che egli è con ciò
per cui egli è, e se si decide di riservare il titolo di essere (esse) al “quo est”, di ogni essere composto si dirà
che in parte esso non è ciò che è: “in parte non est id quod est”. Un uomo, ad esempio, non è completamente
ciò che è, perché, fatto di un corpo e di un’anima che ne è la forma, egli non è interamente questa forma
stessa, che tuttavia lo fa essere facendolo ciò che è. Queste nozioni, accolte da Gilberto de la Porrée, presero
nella sua opera un nuovo rilievo. Alla sommità di tutto ciò che è, egli pone Dio, che è la realtà essenziale per
eccellenza (essentia) e dal quale tutto il resto di ciò che è riceve la propria essentia, cioè la sua stessa realtà.
Si può dire quindi che l’essenza divina è l’essere di tutte le creature: “divina essentia, quam de Deo
predicamus, cum dicimus Deus est, omnium creaturarum dicitur esse”. Niente di ciò che Dio crea è l’essere
puro e semplice, è sempre un certo genere di essere. A questo titolo, ogni essere creato è composto. Esso si
scompone in primo luogo di essere (esse) e in ciò che è (id quod est). L’essere di una cosa è ciò che la fa
essere ciò che essa è. Ad esempio, la corporalità è l’essere del corpo; il corpo stesso che sussiste per la
corporalità e di cui questa è il principio di sussistenza è ciò che è. L’opera creatrice consiste dunque per Dio
nel produrre questa forma che in greco si chiama ousia, ad immagine d’una idea divina; per esempio la
corporalità o l’umanità. Questa forma generica, o essenza, determina allora l’unione d’una certa materia con
la sua forma particolare sembra quindi trasmettersi alle altre creature conferendo loro l’essere con la loro
essenza generica; essere un corpo significa essere la corporalità, come essere un uomo è essere l’umanità.
Questo atteggiamento filosofico riguardo al reale è così fondamentale in Gilberto ch’egli non può
distaccarsene completamente affrontando il problema teologico dell’essere divino. L’abbiamo visto
affermare in primo luogo che Dio è la realtà assoluta (essentia) e che gli non è nient’altro che quello. Mentre
un uomo (id quod est) non è identico alla sua umanità (quo est), Dio, la sua essentia e la sua divinitas sono
una sola e medesima cosa. Ciò che costituisce l’interesse filosofico di questa distinzione in Dio di Deus e di
divinitas è che essa testimonia l’invasione d’una teologia da parte di un realismo dell’intelletto che doveva
sopravviverle. Attribuendo una specie di realtà a ciascuna delle essenze intelligibili concepite dall’intelletto,
Gilberto si raffigurava ogni cosa come composta di un soggetto e delle determinazioni astratte che,
qualificandola, la fanno essere ciò che è. I suoi discepoli furono così numerosi che s’è presa l’abitudine di
parlarne come di una famiglia dottrinale distinta, quella dei Porretani.
Le quattro domande.
Siamo ormai in grado di rispondere alle quattro domande formulate.
1) I generi e le specie esistono, cioè designano delle cose realmente esistenti, o dei semplici oggetti
d’intellezione? Per se stessi essi non esistono che nell’intelletto ma essi significano degli esseri reali, e cioè
le cose stesse particolari che i termini particolari designano. Notiamo questa conclusione la cui importanza
diventerà capitale nel XIV secolo.
2) Gli universali sono corporei o incorporei? Per il senso che può avere si dovrà rispondere: come nomi, gli
universali sono corporei, poiché la loro natura è quella delle parole pronunciate, ma la loro attitudine a
significare una pluralità di individui simili è incorporea; le parole sono dunque dei corpi, il loro significato
no; esse sono, dice Abelardo, “incorporea quantum ad modum significationis”.
3) Gli universali esistono nelle cose sensibili o al di fuori di esse? Incorporei sono di due tipi: quelli che
esistono al di fuori del sensibile, come Dio e l’anima, e quelli che esistono nel sensibile, come le forme dei
corpi. In quanto designano delle forme di quest’ultimo tipo, gli uni versali sussistono nei sensibili, ma in
quanto le designano come separate dai sensibili per astrazione, essi sono al di là del sensibile. Abelardo
ritiene che si possano conciliare Platone e Aristotele, perché Aristotele dice che le forme non esistono che
nel sensibile, il che è vero, ma Platone “l’indagatore della fisica”, diche che queste forme conserverebbero la
loro natura anche se non cadessero più sotto i nostri sensi, il che è egualmente vero.
4) Gli universali sussisterebbero ancora senza individui corrispondenti? Come i nomi significanti gli
individui essi cesserebbero di esistere, poiché non avrebbero più degli individui da significare; tuttavia i loro
significati sussisterebbero ancora, perché, anche se non ci fossero più rose, si potrebbe ancora dire: la rosa
non esiste.
Grande è l’importanza storia dell’opera logica di Abelardo. Essa infatti forniva l’esempio di un problema
esclusivamente filosofico discusso a fondo e risolto per se stesso, senza alcun riferimento alla teologia.
Abelardo non era il primo a trattare problemi di questo tipo: tutti i professori di logica del suo tempo si
trovavano indotti a porli, e la quantità di possibili soluzioni che Abelardo considera conferma ciò che d’altra
parte ci fa sapere Giovanni di Salisbury. Tuttavia la posizione di Abelardo è quella di un maestro che domina
la controversia e la porta alla sua conclusione. Se ci si ricorda del carattere fondamentalmente teologico
dell’opera di Giovanni Scoto Eriugena, si ammetterà senz’altro che, dopo Boezio, non era comparsa nessuna
opera filosofica paragonabile a quella di Abelardo, e se si tiene conto dell’originalità del suo nominalismo,
non si esiterà forse molto a sostenere questo paradosso, che la prima opera in lingua latina in cui siano state
proposte delle idee filosofiche è del XII secolo dopo Cristo.
FILOSOFIA ARABA
Nel 529 dopo Cristo, l’imperatore Giustiniano decretava la chiusura delle scuole filosofiche di Atene. Poteva
sembrare, quindi, che l’Occidente si rifiutasse definitivamente all’influenza della speculazione ellenica; ma il
pensiero greco aveva incominciato ben prima di questa data a guadagnare terreno verso l’Oriente: già esso
aveva iniziato il movimento circolare che doveva riportare nell’Occidente del XIII secolo il pensiero di
Aristotele e del neoplatonismo per il tramite dei filosofi siriani, arabi ed ebrei. La necessità in cui si
trovavano i Siriani convertiti al cristianesimo d’imparare il greco per leggere l’Antico e il Nuovo Testamento
e gli scritti dei Padri della chiesa li aveva messi in grado di iniziarli alla scienza e alla filosofia greca.
Dunque s’insegnava la filosofia, la matematica e la medicina, là dove s’insegnava la teologia, e si
traducevano le opere classiche dal greco in siriaco. Quando la scuola di Edessa fu chiusa, nel 489, i suoi
professori passarono in Persia e diedero lustro alle scuole di Nisibis e di Gandisapora. Nel momento in cui
l’Islamismo sostituisce il Cristianesimo in Oriente, il ruolo del Persiani come agenti di trasmissione della
filosofia ellenica appare con perfetta chiarezza. Le scuole siriache sono state gli intermediari attraverso i
quali il pensiero greco è giunto agli Arabi, aspettando il momento in cui doveva passare dagli Arabi agli
Ebrei e ai filosofi dell’Occidente cristiano. Tra gli elementi di cui si componeva questa tradizione,
evidentemente le opere di Aristotele costituivano la parte più importante e filosoficamente la più feconda.
Ma, nel catalogo delle opere di Aristotele che i Siriani trasmettevano agli Arabi, s’erano introdotti degli
scritti assai differenti di ispirazione, che il filosofo greco avrebbe certamente disconosciuto e che tuttavia
esercitarono un’influenza decisiva grazie all’autorità di cui li copriva il suo nome. Due trattati
essenzialmente neoplatonici, “La teologia di Aristotele” e il “Liber de causis”, passavano per produzioni
autentiche del Maestro e influenzarono profondamente l’interpretazione che si dava del suo pensiero. Il
bisogno di capirsi e di interpretarsi razionalmente, inerente ad ogni tradizione religiosa, generò, a contatto
con le opere greche, una speculazione filosofico-religiosa mussulmana, come ne generò una presso gli
occidentali. Si attribuisce infatti ad un’influenza del pensiero ellenico la costituzione della setta, peraltro
essenzialmente religiosa, dei Mutaziliti. All’interno di questo gruppo doveva comparire, nel secondo quarto
del IX secolo, il movimento indicato col nome di Kalam, o “parola”. Sono i fautori del Kalam che si trovano
talvolta indicati col nome di “loquentes” nelle Summe teologiche del XIII secolo. Il Kalam non si
identificherebbe dunque più con la teologia mussulmana; esso rappresenterebbe piuttosto l’orientamento di
questa teologia verso un razionalismo fortemente sospetto di eterodossia. Infine, pressoché completamente
liberi da preoccupazioni teologiche, e talvolta anche, come si vedrà, in reazione contro di esse, i filosofi arabi
continuavano la speculazione greca e costruivano delle dottrine di cui l’Occidente cristiano doveva subire
profondamente l’influenza.
AL-KINDI (801-873)
Il primo nome famoso della filosofia mussulmana è quello di al-Kindi. Al-Kindi è, innanzitutto, un
enciclopedista, i cui scritti coprono quasi tutti i campi del sapere greco: aritmetica, geometrica, astronomia,
musica, ottica, medicina, logica, psicologica, metereologica e politica.
AL-FARABI (870-950)
Il secondo grande nome della filosofia araba è al-Farabi (morto nel 950), che studiò e insegnò a Bagdad.
Oltre alle sue traduzioni e commenti di Porfirio e dell’Organon di Aristotele. Questo titolo mostra già assai
bene quanto sia inesatto sostenere che la filosofia araba non abbia fatto altro che prolungare quella di
Aristotele. Al contrario, convinti che il pensiero di Aristotele era in fondo d’accordo con quello di Platone,
gli Arabi hanno fatto grandi sforzi per conciliarli. D’altra parte non dimentichiamo che, come gli
Occidentali, gli Arabi avevano inoltre una religione di cui dovevano tenere conto, e che non fu priva di
influenza sulla loro dottrina. Come quello dell’Antico Testamento, il Dio del Corano è uno, eterno,
onnipotente e creatore di tutte le cose; i filosofi arabi hanno incontrato dunque, prima dei Cristiani, il
problema di conciliare una concezione greca dell’essere e del mondo con la nozione biblica di creazione.
AVICENNA (980-1037)
L’opera di Avicenna, invece, merita di fermare più a lungo la nostra attenzione. Il suo nome è familiare a
tutti i cristiani del XIII secolo, e, se lo si considera come un avversario, è un avversario rispettabile per la sua
stessa potenza, e del quale è importante tener conto. Avicenna è nato nel 980; gli ci ha lasciato nella sua
autobiografia il racconto degli studi enciclopedici ai quali si dedicò fin dalla giovinezza, e vediamo che egli
già a 16 anni esercitava la medicina, dopo aver assimilato lo studio delle lettere, della geometria, della fisica,
della giurisprudenza e della teologia. Tuttavia egli incontrò nella Metafisica di Aristotele un ostacolo che a
lungo gli parve insormontabile. Egli la ritesse quaranta volte, era arrivato a saperla a memoria senza essere
riuscito a capirla. Ma, avendo per caso comperato un trattato di al-Farabi sul significato della Metafisica di
Aristotele, aprì gli occhi finalmente, e fu così felice di aver capito che l’indomani egli distribuiva abbondanti
elemosine ai poveri per ringraziarne Dio. Il nome di Avicenna è rimasto celebre nel Medioevo come quello
di un grande medico. Ancor oggi, che le edizioni antiche die suoi scritti filosofici tradotti in latino sono
rarissime, ci si può procurare qualche esemplare del suo Canone, che per secoli servì all’insegnamento della
medicina. Ma la sua autorità filosofica fu considerevole nel XIII secolo, ed è possibile classificare quasi
immediatamente un filosofo del Medioevo occidentale, dal momento in cui si sa chi è per lui il più grande
filosofo moderno, Avicenna o Averroè. In verità il pensiero personale di Avicenna sembra essere stato più
complesso di quello che gli occidentali hanno creduto. Egli ha composto una Filosofia orientale, una specie
di mistica speculativa che si esprime anche in alcuni dei suoi poemi, e che non ha raggiunto il Medioevo
cristiano. Tra le sue opere, quella che ebbe influenza decisiva sul pensiero occidentale è l’al-Shifa (La
guarigione), una specie di Summa o enciclopedia filosofica in diciotto volumi, di cui parecchie parti furono
tradotte in latino, e che contiene la sua interpretazione della filosofia di Aristotele.
La logica di Avicenna poggia, come quella di Aristtoele, sulla distinzione fondamentale del primo oggetto
dell’intelletto, che è l’individuo concreto (intentio prima) e il suo oggetto secondo che è la nostra conoscenza
stessa del reale (intentio secunda). L’universale è una seconda intenzione, ma Avicenna la concepisce in
modo diverso da Aristotele. Per lui ogni nozione universale definisce una specie di realtà mentale, che s
chiama l’essenza; ciascuna essenza si distingue dalle altre per delle proprietà definite. Le essenze esprimono
esattamente il reale da cui il pensiero le astrae. La conoscenza logica ha dunque una portata fisica e anche
metafisica, non nel senso che la realtà sarebbe fatta di idee generali, ma perché la generalità logica degli
universali e la loro stessa predicabilità esprime questa proprietà fondamentale che ha l’essere di essere una e
medesima, qualunque sia l’individuo che la possiede. Da ciò deriva che, nell’ordine delle essenze, tutto ciò
che si può pensare a parte e distintamente è realmente distinto da ciò a parte dal quale lo si pensa. Questo
principio trova nella filosofia di Avicenna numerose ed importanti applicazioni. Per esempio, un’anima unita
ad un corpo, ma che non ricevesse alcuna sensazione esterna né interna, sarebbe ancora capace di conoscere
se stessa, di pensare e di sapere che pensa. Ogni idea generale è di pieno diritto universale: la logica poggia
sugli universali. L’essenza, o natura, è indifferente alla singolarità come all’universalità. La “cavallinità”, ad
esempio, è l’essenza del cavallo, indipendentemente dal sapere ciò che bisogna aggiungervi perché essa
diventi sia l’idea generale di cavallo, sia un cavallo particolare. Come dice Avicenna in una formula spesso
citata nel Medioevo: “Equinitas est equinitas tantum”. L’anima umana non è così strettamente legata al corpo
come la definizione aristotelica potrebbe far credere. E’ vero ch’essa è la forma del corpo organizzato, ma la
sua essenza non consiste in ciò; questa non è che una delle sue funzioni, e non la più alta. Io indico un
passante e chiedo che cos’è. si risponde: un operaio. Può darsi, ma ciò che passa non è un operaio, è u uomo
che esercita la funzione di operaio. Allo stesso modo, l’anima è per sé una sostanza spirituale, di cui una
delle funzioni è quella di animare un corpo organizzato. La classificazione avicenniana delle facoltà
dell’anima in cinque sensi esterni, cinque sensi interni, in facoltà motrici e in facoltà intellettuali, sarà
ricordata in seguito di frequente, sia per ricollegarvisi, sia per criticarla. E’ in effetti attraverso Avicenna che
il Medioevo ha conosciuto la dottrina, così sconcertante per i Cristiani, dell’unità dell’Intelletto agente,
origine delle conoscenze intellettuali di tutto il genere umano. Avicenna, tuttavia, in questo non faceva che
riprendere e sviluppare la dottrina di al-Farabi. In effetti egli ammetteva in ogni anima un intelletto che le è
proprio: è l’attitudine a ricevere le forme intellegibili spogliate di ogni materia, cioè allo stato astratto.
1) Al primo grado, questo intelletto è assolutamente nudo e vuoto, come un bambino che può imparare a
scrivere, ma che non sa nemmeno che cosa siano le lettere, l’inchiostro e la penna;
2) al secondo grado, questo intelletto è già provvisto di sensazioni e di immagini, come un bambino che ha
incominciato a tracciare le aste e sa servirsi d’una penna: l’intelletto non è più assolutamente in potenza
(potentia absoluta), ma già quasi in atto (potentia, intellectus possibilis), nel senso che può conoscere;
3) al terzo grado esso si volge verso l’intelletto agente separato per riceverne le forme intellegibili
corrispondenti alle sue immagini sensibili: allora esso è in atto, grazie all’intelligibile che riceve (intellectus
adeptus); a forza di ripetere questo sforzo, esso acquista una certa facilità che costituisce per lui una
conoscenza acquisita (intellectus in habitu). Possedere la scienza è dunque qui l’attitudine, acquisita con
l’esercizio, a riceverla dall’Intelletto agente. Questa epistemologia, caratteristica della dottrina di Avicenna,
viene quindi a porre un solo intelletto agente per tutta la specie umana, pur attribuendo un intelletto possibile
ad ogni individuo. “Essere” e “cosa” sono quindi ciò che per primo cade sotto la presa dell’intelletto, o come
anche si potrebbe dire, l’essere accompagna tutte le nostre rappresentazioni. Tuttavia la nozione di essere
non è assolutamente semplice. Essa immediatamente si sdoppia in essere necessario ed essere possibile.
Questa distinzione si presenta dapprima come puramente concettuale. Si chiama possibile un essere che può
esistere, ma che non esisterà mai se non viene prodotto da una causa. Il possibile stesso, d’altronde, si
sdoppia in ciò che è soltanto puro possibile (non essendo ancora posta la sua causa) e ciò che, possibile per
essenza, è di fatto essere necessario perché la sua causa esiste e lo produce necessariamente. Così, qualcosa
che non può esistere rimane “possibile”, se non è in virtù della sua propria essenza che non può non esistere.
In una metafisica di cui l’essenza è l’oggetto proprio, queste distinzione astratte equivalgono ad una
divisione degli esseri. In effetti, l’esperienza non ci fa conoscere che degli oggetti la cui esistenza dipende da
certe cause. Ciascuno di essi è dunque semplicemente “possibile”; ma anche le loro cause non sono che
“possibili”; la serie totale egli esseri è dunque un semplice possibile, e, poiché il possibile è ciò che richiede
una causa per esistere, se non ci fossero che dei possibili non esisterebbe nulla. Il dio di Avicenna è dunque il
necesse esse per definizione. A questo titolo egli possiede l’esistenza in virtù della sua sola essenza, o come
anche si dice, inlui essenza ed esistenza sono una cosa sola. E’ per questo, d’altra parte, che Dio è
indefinibile ed ineffabile. Egli è, ma se si chiede che cosa è non c’è risposta, perché in lui non c’è un quid al
quale possa rivolgersi la domanda quid sit. Il caso di Dio è unico. Tutto ciò che non è che possibile ha invece
un’essenza, e poiché, per definizione, questa essenza non ha in sé la ragion della sua esistenza, bisogna dire
che l’esistenza di ogni possibile è, in certo modo, un accompagnamento accidentale della sua essenza. C’è
quindi distinzione di essenza e di esistenza in tutto ciò che non è Dio. Si vede che la divisione dell’essere in
necessario e possibile gioca, in Avicenna, lo stesso ruolo della divisione dell’Uno e del molteplice in Plotino
e in Eriugena, dell’immutevole e del mutevole in Agostino, dell’ipsum esse e degli esseri in Tommaso. Qui
passa il taglio ontologico che separa Dio dall’universo, poiché nulla può far sì che il Necessario diventi
possibile, né viceversa. Avicenna ha concepito la produzione del mondo da parte di Dio come
l’attualizzazione successiva di una serie di esseri, ciascuno dei quali, possibile in sé, diventa necessario in
virtù della sua causa, che lo è lei stessa in virtù della propria, essendolo tutti insieme in virtù del solo necesse
esse, che è Dio. Questa contingenza del possibile è precisamente quella che Avicenna stesso non ha voluto.
La produzione del mondo da parte di Dio è eterna. La sola priorità del Primo sul resto è quella del necessario
sul possibile. Il Necessario, o Primo, è semplice e uno, perché la sua essenza è autosufficiente; ora, dall’uno
non può uscire che l’uno. D’altra parte, Dio è semplice ed uno perché egli è una sostanza intellegibile; ora
l’atto di una sostanza intellegibile è di conoscere; l’atto creatore non può essere dunque che l’atto stesso per
il quale Dio conosce. Il Primo conosce se stesso e la conoscenza che egli ha di sé costituisce il Primo
causato. Questo primo essere causato è una sostanza intellegibile o intelligenza; poiché è, causato, esso è per
sé possibile, ma esso è anche di fatto necessario, in virtù della sua causa. Questa intelligenza pensa in primo
luogo Dio, e questo atto di conoscenza genera la seconda intelligenza separata. Essa in seguito pensa se
stessa come necessaria per sua causa, e questo atto genere l’anima della sfera celeste che contiene il mondo.
Infine essa si pensa come possibile in se stessa, e questo atto genera il corpo di questa sfera. La seconda
intelligenza procede allo stesso modo; conoscendo la prima intelligenza, essa genere la terza; conoscendo se
stessa come necessaria, essa genera l’anima della seconda sfera. Questo processo continua fino all’ultima
intelligenza separata, quella che presiede alla sfera della luna, e che noi d’altra parte già conosciamo, poiché
essa è il nostro intelletto agente. Questa intelligenza chiude la serie delle emanazioni, perché essa non ha più
la forza di produrre un’altra intelligenza, ma irradia le forme intellegibili che ne sono come gli spiccioli, e
impadronendosi delle materie terrestri disposte a riceverle, vi generano gli esseri che noi percepiamo con i
sensi. Ogni uomo è uno di questi esseri; l’anima che anima il suo corpo è una sostanza intellegibile emanata
dall’anima dell’ultima sfera; essa considera, paragona, classifica le immagini dei corpi che percepisce con i
sensi, ed è allora che essa si trova atta a ciò che l’intellegibile corrispondente emana in lei dall’intelletto
agente. La metafisica reca qui alla teoria della conoscenza la sua ultima giustificazione. E’ ancora lei che
detiene il segreto degli umani destini. Non tutti gli uomini hanno al medesimo grado la capacità di unirsi
all’intelletto agente. Certuni ne sono appena capaci, altri ve ne pervengono a prezzo di sforzi più o meno
grandi, e tra questi ve ne sono alcuni che si elevano grazie alla purezza della loro vita fino a comunicare così
facilmente con questa intelligenza divina che ciascuna delle loro domande è come una preghiera esaudita in
anticipo. Questo stato dell’intelletto è l’intellectus sanctus, il cui vertice è lo spirito di profezia. Un
mussulmano aveva il dovere di riservare questo posto d’onore al Profeta, ma il cristianesimo aveva i suoi
profeti, e Alberto Magno non trascurerà di ricorrere all’intelletto santificato di Avicenna, per spiegare le
conoscenze eccezionali di cui essi erano dotati. Quest’opera, per la sua ampiezza di vedute e la perfezione
della sua tecnica filosofica, meritava certamente la profonda e duratura influenza che doveva esercitare sui
pensatori cristiani d’Occidente.
AVERROE’ (1126-1198)
Il nome più importante della filosofia araba, insieme a quello di Avicenna, è Averroè la cui influenza s’è
propagata in molteplici direzioni, durante tutta la durata del Medioevo, poi all’epoca del Rinascimento e
anche fino alle soglie dei tempi moderni. E’ ancora un arabo in Spagna. Uno dei tentativi più originali
compiuti da Averroè è quello che egli fece per determinare con precisione i rapporti tra filosofia e religione.
Egli constatava la presenza di un grande numero di sette filosofiche e teologiche in lotta le une contro le
altre, la cui esistenza stessa era un continuo pericolo tanto per la filosofia quanto per la religione. In effetti,
era importante salvaguardare i diritti e la libertà della speculazione filosofica; ma non si poteva, d’altra parte,
contestare che i teologi avessero delle ragioni per preoccuparsi vedendo diffondersi in tutti gli ambienti la
discussione dei testi del Corano. Averroè attribuì ogni male al fatto che si autorizzavano ad accedere alla
filosofia degli spiriti incapaci di capirla: egli vide il rimedio in un’esatta definizione dei diversi gradi di
possibili dell’intelligenza dei testi del Corano, e nella interdizione manifesta ad ogni spirito di superare il
grado che gli conviene. Ora, vi sono tre categorie di spiriti e tre corrispondenti specie di uomini:
1) gli uomini portati alla dimostrazione, che esigono le prove rigorose e vogliono conseguire la scienza
andando dal necessario attraverso il necessario;
2) gli uomini dialettici che sono soddisfatti di elementi probabili;
3) gli uomini portati alla esortazione, ai quali bastano gli argomenti oratori che fanno appello
all’immaginazione e alle passioni.
Il Corano, e ciò prova il suo carattere miracoloso, si rivolge simultaneamente a questi tre generi di spiriti:
esso ha un senso esteriore e simbolico per gli ignoranti, un senso interiore e nascosto per i sapienti. Il
pensiero centrale di Averroè è che ogni spirito ha il diritto e il dovere di comprendere e di interpretare il
Corano nel modo più perfetto di cui è capace. Colui che può comprendere il senso filosofico del testo sacro
deve interpretarlo filosoficamente, perché è questo il senso più alto che è il senso vero della rivelazione, e
ogni volta che un qualunque conflitto sembra sorgere tra testo religioso e conclusioni dimostrative, l’accordo
deve stabilirsi interpretando filosoficamente il testo religioso. Da questo principio derivano immediatamente
due conseguenze:
- la prima è che uno spirito non deve mai cercare di elevarsi al di sopra del grado d’interpretazione di cui è
capace;
- la seconda è che non si devono mai divulgare presso le classi inferiori di spirito l interpretazioni riservate
alle classi superiori.
L’errore in cui si è caduti consiste precisamente nella confusione e nella intempestiva divulgazione delle
conoscenze superiori agli spiriti inferiori; di cui quei metodi ibridi che mescolano l’arte oratoria, la dialettica
e la dimostrazione, e sono inestinguibili fonti di eresie. Conviene dunque ristabilire in tutto il suo rigore la
distinzione dei tre ordini d’interpretazione e d’insegnamento; al vertice la filosofia, che conferisce la scienza
e la verità assoluta; al di sotto la teologia, dominio dell’interpretazione dialettica e del verosimile; al basso
della scala, la religione e la fede, che si devono accuratamente lasciare a coloro peri quali esse sono
necessarie. Così si contrappongo e si dispongono in gerarchia tre gradi d’intellezione d’una sola e medesima
verità. I suoi avversari gli attribuirono la dottrina detta “della doppia verità”, secondo la quale due
conclusioni contraddittorie potrebbero essere simultaneamente vere, l’una per la ragione e la filosofia, l’altra
per la fede e la religione. Pare sicuro che Averroè non abbia mai detto nulla di simile. Egli constata che una
certa conclusione s’impone necessariamente alla ragione, ma in caso di contrasto, egli aderisce
all’insegnamento della fede. Che cosa pensava realmente? La risposta è nascosta nel segreto della sua
coscienza. Averroè non ha mai rotto con la comunità mussulmana, tutt’al contrario: ma la sua stessa dottrina
gli impediva di far qualche cosa che potesse affievolire una fede necessaria all’ordine sociale; qualunque
cosa egli abbia pensato, ha ritenuto di dover agire così. Egli dice che la conclusione della ragione è
necessaria, non che essa sia vera, ma non dice nemmeno che l’insegnamento della fede sia vero, dice soltanto
di aderirvi profondamente. Senza dubbio, egli pone la conoscenza filosofica alla sommità della gerarchia del
sapere, ma anche san Tommaso lo fa: la scienza è un sapere più perfetto della fede; come accertarci che,
anche per Averroè, la fede è, ance se meno evidente, più sicura della ragione? E’ vero che san Tommaso lo
dice e Averroè no. Il fatto è importante, ma Averroè dice che, nel Profeta, fede e ragione, religione e filosofia
coincidono. Come sapere se non abbia egli stesso creduto che una maggior luce intellettuale gli avrebbe
permesso di vedere la verità della fede nella chiarezza della ragione? E’ certo che la posizione di Averroè era
di natura tale da coprire tutti gli equivoci, ma questo non ci autorizza a pronunciarci sulle sue convinzioni
personali. Il segreto delle coscienze individuali è uno dei limiti della storia. Il gusto di trovarsi dei nemici o
degli alleati, cioè di classificar gli uomini in funzione di se stessi, lo rende difficilmente sopportabile, ma il
risetto dell’omo per l’uomo aiuta a rassegnarvisi. Il pensiero di Averroè si presenta come uno sforzo
cosciente di restituire alla sua purezza la dottrina di Aristotele, corrotta da tutto il platonismo che i suoi
predecessori vi avevano introdotto. Averroè ha visto benissimo quali interessi teologici avessero favorito
questa mescolanza. Egli sapeva che restaurare l’aristotelismo autentico significava escludere dalla filosofia
ciò che in essa meglio si accordava con la religione. I cristiani che l’hanno letto non si sono sbagliati affatto
su questo aspetto del suo pensiero, e quelli che non ameranno la sua filosofia non rinunceranno ad addurre,
contro i cristiani che invece vorranno ispirarsene, il pericolo che essa faceva correre alla fede. Averroè stesso
è partito dalla convinzione che la filosofia di Aristotele era vera. Le formule in cui egli esprime la sua
ammirazione per lo Stagirita sono ben note, e bisogna in effetti conoscerle, perché il culto esclusivo di
Aristotele è una nota distintiva della scuola averroista, ma non, come talvolta s’immagina, di tutto il
Medioevo.
In logica, Averroè non ha avuto altro ruolo che quello, del resto per sé molto importane, di un interprete
penetrante e fedele dell’aristotelismo autentico. In antropologia e in metafisica egli ha posto in circolazione
un aristotelismo di tipo preciso, che doveva contendere le menti a quello di Avicenna nel corso dei secoli
XIII e XIV. La metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere, e della proprietà che come tale gli
appartengono. Con il termine “essere” bisogna intendere la sostanza stessa che è. ogni sostanza è un essere;
ogni essere è o una sostanza, o un accidente che partecipa dell’essere della sostanza. Non c’è dunque motivo
di porsi a parte il problema dell’esistenza, ancor meno di immaginare, con Avicenna, ch’essa sia un
“accidente” dell’essenza. In ciò è il primo significato del termine; ma essa è ancor più la quiddità, o essenza
reale, che determina ogni sostanza ad essere ciò che essa è. tuttavia, ciò che è, è un certo genere di essere: la
sostanza, l’accidente, la quantità, la qualità, in breve ciascuna delle categorie dell’essere ha questo in comune
con le altre, che essa designa qualcosa che è; non si può dunque predicare l’essere equivocamente: per questo
si dice che l’essere è “analogo”. Intendiamo con questo che, qualunque cosa esse siano e in qualunque
maniera siano, tutte le categorie hanno un “rapporto” con l’essere. L’oggetto della metafisica è lo studio di
tutto ciò che è, in quanto è. il suo metodo è quello della logica, non più utilizzata, questa volta, come un
semplice insieme di regole del pensiero corretto, ma come un mezzo per esplorare la natura reale dell’essere
e delle sue proprietà. Perché la nostra logica si applichi al reale, bisogna chele cose sensibile siano allo stesso
tempo intelligibili. Se alle cose sensibili è essenziale essere virtualmente intelligibili, è dunque perché esse
derivano dalla concezione di un intelletto. E’ vero che esse sono sensibili, ma anche il pensiero degli
artigiani produce degli oggetti materiali. Se noi possiamo capire questi oggetti, è perché essi vengono da un
pensiero, cioè da una forma intellegibile presente all’intelletto di colui che li ha fatti. Lo stesso avviene per le
cose naturali. I platonici hanno avuto torto di credere all’esistenza delle idee separate, ma non di pensare che
il sensibile riceva da qualche causa la sua intelligibilità. Sarebbe un errore credere che gli universali esistono
in sé, al di fuori degli individui. Se lo si ammette, bisogna supporre, o che ogni individuo non ne possiede
che una parte, cosicché Zaid e Amr corrisponderebbero ciascuno ad una parte differente del concetto
“uomo”, il che è assurdo; oppure che l’universale sia tutto intero presente in ciascun individuo, il che torna a
porlo come contemporaneamente uno e molteplice, e non è meno assurdo. Così concepito, l’universale non è
nient’altro che “ciò che può essere predicato di parecchi individui”. In fondo è la ragione per cui non può
esso stesso essere un individuo, ma questo non significa che la conoscenza che noi ne abbiamo sia senza
oggetto. Gli individui non sono semplici. La forma è l’atto o essenza di ciò che è; la materia è la potenza
attualizzata e determinata dalla forma, la sostanza individuale è il composto delle due. Ciò che il pensiero
raggiunge concependo l’universale è la forma, e l’esprime nella definizione. Il nome della cosa designa tutta
la cosa, ma è la forma in primo luogo a meritarlo. Composta di forma e di materia, dunque di un
determinante e di un determinato, ogni sostanza sensibile è anche composta di atto e di potenza. Per l’atto
essa è; per la potenza essa può divenire. Cambiare di qualità, di quantità o di luogo, è passare dalla potenza
all’atto, è essere in movimento. In fisica si prova che tutto ciò che è in movimento è mosso da un motore, il
motore muove soltanto perché è in atto. Muovere senza essere mosso significa essere un atto scevro di ogni
potenzialità: un Atto puro. Esistono quindi degli atti puri, e poiché la loro attualità è perfetta, essi muovono
continuamente. Ora, non c’è movimento senza un mobile. Perché l’azione motrice di questi atti puri sia
continua, bisogna che anche il movimento e le cos mosse lo siano. Il mondo è dunque certamente sempre
esistito ed esisterà sempre. In breve, la durata del mondo nel tempo è eterna. E non è tutto. Poiché sono privi
di potenzialità, questi atti lo sono anche di materia. Sono dunque delle sostanze immateriali. Quanti ve ne
sono? Ne porremo quanti sarà necessario per spiegare i movimenti primi, cause di tutti gli altri dell’universo.
Disgraziatamente gli astronomi non sono d’accordo sul numero di questi movimenti, ma comunemente si
ammette che ce ne sono 38:
- cinque per ciascuno dei pianeti superiori (Saturno, Giove e Marte)
- cinque per la Luna
- otto per Mercurio
- sette per Venere
- uno per il Sole
- uno per la sfera che avvolge il mondo, cioè il firmamento
Può darsi che ci sia una nona sfera, ma non è sicuro. Se ci sono trentotto movimenti, ci sono anche trentotto
motori. Come possono muovere questi motori, che sono immobili? E’ che, per muovere, essi non hanno da
fare altro che esistere. Il movimento di ogni sfera nasce in lei dal desiderio particolare che essa prova per
l’Atto puro da cui dipende. Essa si muove da sé verso di lui. Per comprendere questo movimento,
ricordiamoci che i motori sono degli atti immateriali, cioè delle intelligenze e che la sfera corrispondente
desidera il loro pensiero. Bisogna dunque che ciascun corpo celeste possieda se non dei sensi ed una
immaginazione, come a torto credeva Avicenna, almeno un intelletto, e che questo intelletto provi un
desiderio intellettuale del suo motore immobile. Gli atti che così muovono i corpi celesti non danno loro
soltanto il movimento, ma la forma da cui ciascuno riceve la sua essenza. Se la loro mozione da parte
dell’intelletto cessasse, non ci sarebbe più la forma per ciascun pianeta, come non ci sarebbe più l’anima per
noi se l’Intelletto agente cessasse di agire. I motori sono dunque ance, in un certo senso, le cause eternamente
agenti dei corpi celesti, poiché “le loro forme non sono nient’altro che le idee che questi corpi celesti fanno
dei loro motori”. Consideriamo adesso questi motori nei loro rapporti reciproci. Le sfere che essi muovono si
pongo in gerarchia, dalla Luna al firmamento, secondo la loro grandezza e la rapidità del loro movimento. I
loro motori devono quindi porsi in gerarchia allo stesso modo. Tutti questi principi separati devono, di
conseguenza, arrivare ad un principio primo, che è il primo motore separato. Questa gerarchia di dignità,
d’altronde, non fa che esprimere quella della loro connessone nell’ordine della causalità. Ora, in ogni genere,
gli esseri si pongono in gerarchia secondo il loro modo più o meno perfetto di realizzare il tipo del genere.
Nel genere “caldo”, gli esseri sono più o meno caldi secondo che essi sono più vicini al fuoco, causa di
calore di tutto ciò che è caldo. Allo stesso modo, nel genere dei principi, deve esserci un termine primo in
rapporto al quale si misura il grado in cui ciascuno d’essi è principio. C’è dunque un principio assolutamente
primo, fino ultimo desiderato da tutto il resto, causa agente delle forme di immobile, la prima Intelligenza
separata, la cui unità garantisce quella dell’universo, e, di conseguenza, il suo stesso essere. E’ ciò che Dio
stesso insegna quando die nel Corano: “Se in questi due mondi ci fossero degli dei al di fuori di Allah, i due
mondi cesserebbero di esistere”. Il Profeta, d’altra parte, ci dà un altro consiglio, dicendo: “Conosci te stesso
e conoscerai il tuo Creatore”. In effetti, per sapere come queste intelligenze siano le une in rapporto alle altre,
non si può fare di meglio che esaminare il rapporto dell’intelletto con l’intellegibile nell’intendimento
umano. Il nostro intelletto è capace di riflettere il suo atto su se stesso, nel qual caso l’intelletto ed il suo
intellegibile fanno una cosa sola. A maggior ragione è così per le intelligenze separate: ciascuna di esse è
identicamente conoscenza e ciò che essa conosce. Ciascuna di queste intelligenze separate conosce dunque
contemporaneamente, conoscendosi, se stessa e la sua causa, salvo la prima di tutte che, non avendo causa,
non conosce che sé. Poiché la sua essenza è assolutamente perfetta, la conoscenza ch’essa ha di sé forma un
pensiero egualmente perfetto, senza nulla che essa possa conoscere al di sopra di sé, senza nulla che essa
possa conoscere al di sotto di sé. Non sapere che cosa è al di sotto di lui non è, in Dio, segno di indigenza
alcuna; poiché egli conosce tutta la realtà conoscendo se stesso, non può essere in lui una mancanza non
conoscere, in maniera meno perfetta, ciò che egli già conosce in maniera più perfetta conoscendosi. Dio è
dunque la causa dell’esistenza dell’intelligenza motrice della sfera più alta, quella delle stelle fisse. Questa
intelligenza stessa è, in senso proprio, il motore di tutto l’universo e ad essa si subordinano i successivi
motori, in un ordine gerarchico sul quale non abbiamo dei dati sicuri, ma che si può ammettere coincidano
con l’ordine assegnato alle sfere dell’astronomia. Da Dio emanerebbero il motore del cielo delle stelle fisse e
il motore della sfera di Saturno; dal motore della sfera di Saturno emanerebbero l’anima di questo pianeta, il
motore della sfera di Giove, più gli altri quattro motori necessari per causare i suoi diversi movimenti, e così
via fino alla sfera della Luna, il cui motore fa sorgere l’intelletto agente, causa unica della conoscenza per
tutto il genere umano. Al centro di questo universo stanno i quattro elementi, causati dal movimento più
rapido che è quello della sfera delle stesse fisse. A fisica spiega come le qualità di questi elementi e i
movimenti delle sfere facciano nascere i pianeti e gli esseri viventi. Tale è la situazione dell’uomo, la cui
anima è una di queste forme, e che viene volto dalla coscienza che egli ha della propria insufficienza verso la
sua causa per riunirvisi con la conoscenza e il desiderio. La descrizione del mondo di Averroè è sufficiente a
mostrare che l’intelletto agente è in esso una realtà, una sostanza intellegibile separate, cioè un’intelligenza
agente, la stessa per tutti gli uomini. Essa produce la conoscenza intelligibile nelle anime individuali come il
sole produce la vista negli occhi con la sua luce. Su questo punto dunque egli è d’accordo con Avicenna, ma
su di un altro supera. Avicenna attribuisce all’individuo almeno un intelletto possibile, nucleo resistente di
una personalità capace di sopravvivere alla morte: Averroè non concede all’individuo che un intelletto
passivo, semplice “disposizione” a ricevere gli intellegibili ma che da solo non sarebbe sufficiente a riceverli.
Del tutto corporea, questa disposizione perisce col corpo. Perché la conoscenza sia possibile, bisogna che
l’intelletto agente illumini questo intelletto passivo; allora, al contatto di questi due intelletti, si produce una
combinazione dell’uno e dell’altro che è l’intelletto materiale. Questo nome può indurre in errore sulla natura
di ciò di cui si tratta, perché questo intelletto non è in alcun modo corporeo, dalla materia esso riceve solo la
sua potenzialità. Gli scolastici l’hanno ben capito, ed è per questo che essi dicevano che, secondo Averroè,
non soltanto l’intelletto agente, ma anche l’intelletto possibile è uno per tutti gli uomini. Tuttavia, questa
seconda formula potrebbe ingannare a sua volta, facendo pensare che Averroè faccia dell’intelletto possibile
una seconda sostanza separata, distinta dall’intelletto agente. Questo non sarebbe esatto. Averroè ritiene che
il contatto dell’intelletto agente separato con l’intelletto passivo dell’individuo determini una ricettività
riguardo all’intellegibile (intelletto passivo), che non è che l’intelletto agente stesso che si particolarizza in
un’anima come a luce in un corpo. E’ per questo d’altra parte che questo intelletto è veramente separato.
L’immortalità dell’uomo non può quindi essere quella d’una sostanza intellegibile capace di sopravvivere
alla morte del corpo. Tutto ciò che nell’individuo c’è di eterno o di eternizzabile appartiene di pieno diritto
all’intelletto agente ed è immortale soltanto per la sua immortalità.
San Bonaventura respinge lui stesso questa attenuazione fondandosi sulla dottrina di sant’Agostino. Il suo
pensiero è così fermo su questo punto, e la sua convinzione così certa, che egli accetta anche le ultime
conseguenze che se ne potrebbero trarre. Se ogni conoscenza vera suppone che noi raggiungiamo le ragioni
eterne, non ne segue che noi, quaggiù, non abbiamo nessuna conoscenza pienamente fondata?
Indubbiamente, risponde san Bonaventura, e bisogna convenirne, noi abbiamo quaggiù delle conoscenze
certe e chiare perché i principi creati che Dio ha posto in noi e per i quali noi conosciamo le cose, ci appaino
chiaramente e senza veli. Ma questa conoscenza chiara e certa non è completa; le manca sempre il suo
fondamento ultimo, perché se i principi della conoscenza sono chiari, le idee eterne, la cui azione regola il
nostro intelletto sottomettendolo a questi principi, sfuggono quaggiù alla nostra vista, e sono esse, tuttavia, a
conferire ai principi il loro valore.
Perché il duplice aspetto dell’umana conoscenza? Perché l’uomo si trova posto in una situazione intermedia,
senza dubbio infinitamente più vicino alle cose che a Dio, ma tuttavia tra Dio e le cose. Si può considerare la
verità secondo che essa è in Dio, nella nostra anima o nella materia, e se noi la consideriamo nella nostra
anima vedremo ch’essa è in rapporto con la verità in Dio come con la verità nella materia. L’anima, centro
posto tra i due estremi, si volge per la sua parte superiore verso Dio e per la sua parte inferiore si volge verso
le cose. Di ciò che è al di sotto di lei essa riceve una relativa certezza; da ciò che sta al di sopra di lei essa
riceve una certezza assoluta. Dato che ci siamo fondati sulle creature per elevarci sino a Dio, l’abbiamo
raggiunto immediatamente come creatore. Il problema che ora si pone è di sapere se il mondo è eterno o se
ha avuto inizio nel tempo. Aristotele ed Averroè ritengono che l’universo sia eterno come il movimento che
vi si dispiega. San Tommaso riterrà che le prove prodotte in favore dell’eternità del mondo non sono
decisive, ma che ve ne sono di più decisive in favore della creazione nel tempo; e così la creazione nel tempo
sarà ritenuta vera soltanto sulla testimonianza della rivelazione. San Bonaventura si attiene su questo punto
più fermamente che mai alla tradizione, ed egli rifiuta la minima concessione al pensiero di Aristotele. Ciò
che per lui è dimostrato è che è contraddittorio ammettere che il mondo sia esistito dall’eternità. Se ora
consideriamo la struttura stessa della creazione constateremo dapprima che in tutte le cose create l’essenza è
realmente distinta dall’esistenza. In altri termini nessuna creatura è per se stessa la ragione sufficiente della
sua esistenza, ciascuna di esse richiede l’efficacia di un creatore; così viene scartato il panteismo. Non è più
la sola materia a poter costituire il principio di individuazione. Una cosa esiste solo perché ha una materia,
ma è quello che è solo perché questa materia è determinata da una forma. L’unione della materia e della
forma, ecco quindi il vero principio di individuazione. Ma combinando questa teoria dell’individuazione con
quella della materia universale, otteniamo due nuove conseguenze:
1) la prima è che non si sarà obbligati ad ammettere con san Tommaso che l’angelo, perché privo di materia,
non può essere che una specie individuale piuttosto che un vero individuo;
2) la seconda è che non avremo nessuna difficoltà a spiegare la sopravvivenza dell’anima dopo la distruzione
del corpo.
L’una e l’altra in effetti non sono delle sostanze incomplete la cui unione costituirebbe l’uomo, sostanza
completa. L’anima è già forma completa di per se stessa. Essa si impadronisce del corpo già costituito, e gli
conferisce la sua ultima perfezione, ma essa conserva la sua perfezione propria distaccandosene. Ciò è vero
per i corpi più semplici ed anche per gli elementi. Un corpo, infatti, implica sempre almeno due forme
differenti; l’una, che è generale e comune a tutti, è la forma della luce alla quale partecipano tutte le cose;
l’altra, o le altre, che gli sono particolari e che sono le forme dei misti, degli elementi. San Bonaventura
accoglie infine nella sua dottrina, sotto la duplice pressione della ragione e di sant’Agostino, la concezione
stoica delle ragioni seminali. La materia, che per se stessa sarebbe completamente passiva, riceve
immediatamente una determinazione virtuale delle forme sostanziali che sono in sé allo stato latente,
aspettando che più tardi esse, sviluppandosi, la informino. Da questo abbozzo si vede che la dottrina di san
Bonaventura è stata designata non senza ragione col nome di agostinismo. Anche se gli accade di combinare
Ibn-Gebirol con sant’Agostino, i principi di questa concezione di Dio, della conoscenza umana e della natura
delle cose sono presi a prestito proprio dalla filosofia agostiniana. Ma, anche dopo aver ridistribuito tra le
loro numerose fonti tutti gli elementi di questa sintesi, bisognerebbe ancora riconoscere l’esistenza di uno
spirito di san Bonaventura e di un atteggiamento veramente personale. Spesso, leggendo i suoi Opuscoli o
anche il suo Commento alle Sentenze, si ha l’impressione di essere in presenza di san Francesco d’Assisi che
s’abbandonasse a filosofare.
Lo spirito della filosofia tomista compare già nella sua opera, e vi compare già anche qualcuna delle sue tesi
principali, benché ancora non sgombrate dagli elementi platonici di origine greca e araba che san Tommaso
doveva eliminare. Conoscenza umana fondata sull’esperienza sensibile, impossibilità che ne risulta della
prova ontologica e necessità di prove tratte dal tempo, individualità dell’intelletto agente; queste sono, tra
molte altre, le testimonianze che si potrebbero citare per stabilire la parentela delle due dottrine, ma non c’è,
per dire, una sola di questa testi che abbia già in Alberto Magno il significato preciso che assumerà in
Tommaso d’Aquino. Per costruire la sua opera, Avicenna aveva approfittato dell’esperienza acquisita da al-
Kindi e al-Farabi; per costruire la sua, Alberto di Colonia, non poteva affatto servirsi di predecessori
cristiani; così lo vediamo istruirsi scrivendo, assorbendo contemporaneamente Aristotele, Avicenna, Averroè
e molti altri, cioè molti più fatti e tesi di quanti ne potesse assimilare. Il suo imbarazzo era ancor più grande
perché, personalmente, egli non era sicuro che di due cose, della realtà dell’oggetto della sua fede cristiana e
di quella dei fatti che egli poteva osservare personalmente. L’uomo è un soggetto d’osservazione più
accessibile. Composto di un’anima e di un corpo, è la natura specifica della sua anima a fare di lui un
animale dotato di ragione, e di conseguenza un uomo. Alberto ritiene d’essere d’accordo con Aristotele sulla
definizione dell’anima, ma pensa che essa sia la stessa di quella di Avicenna, che è buona. Dire che l’anima è
forma del corpo non significa definirne l’essenza, ma la funzione. La ragione fondamentale che egli adduce
in favore della sua tesi non permette alcun dubbio sulla portata ch’egli le attribuisce; l’anima umana è capace
di conoscenza intellettuale; ora, è, contradditorio che un intelletto sia la forma di un corpo. E’ esattamente il
contrario di ciò che contemporaneamente sosteneva il suo antico scolaro Tommaso. Alberto ammette
dunque, come Avicenna, che l’anima è una sostanza intellettuale e che l’essere forma del corpo non
appartiene alla sua essenza, ma è una delle sue funzioni. Alberto è convinto che la completa verità filosofica
consista nell’arco di Platone e Aristotele. “Sappi”, egli dice nella sua Metafisica, “che non si diventa un
completo filosofo che conoscendo le due filosofie di Aristotele e di Platone”.
Il conoscere divino è proprio quell’intelletto agente separato di cui parlano i filosofi, che avvolge e penetra la
materia come l’arte dell’artigiano avvolge e penetra quella delle sue opere. Le idee, o forme prime, vi
costituiscono come un mondo intellegibile, causa di tutto ciò che c’è di intellegibile nella materia. Ogni
forma che è in potenza nella materia prima vi si trova in virtù della conoscenza che ne ha l’intelletto divino,
quale egli la conosce e perché la conosce. Bisognerà partire da qui per spiegare contemporaneamente
l’esistenza delle cose intellegibili per un intelletto creato e di intelletti creati capaci di conoscere queste cose.
Ponendo come vera la definizione platonica dell’anima secundum se Alberto Magno preparava una noetica
in cui l’illuminazione neoplatonica di Agostino e di Dionigi poteva allearsi all’empirismo aristotelico.
Alberto è fermissimo su di un punto essenziale: egli rifiuta e confuta nettamente la teoria avicenniana e
averroista dell’intelletto agente. Possiamo fidarci di lui per l’esame della questione sotto tutti questi aspetti.
Nella sua Summa theologiae egli enumera trenta argomenti a favore dell’unità dell’intelletto umano, ma in
seguito da trentasei argomenti contro, e se si ferma dopo aver ottenuto questa maggioranza di sei voti, è solo
perché gli manca il tempo. Alberto quindi fa fronte unico con Tommaso d’Aquino contro questa dottrina.
Egli stesso sostiene energicamente contro di essa che ogni anima possiede un intelletto possibile e un
intelletto agente che le sono propri. Infatti, poiché l’anima umana non è semplicemente la forma di un corpo,
ma una sostanza spirituale completa in se stessa, essa deve esser fornita dei poteri, o facoltà, necessarie
all’adempimento delle sue operazioni. Alberto non ha più alcuno scrupolo a riprendere per suo conto tutti i
particolari della psicologia e della noetica di Avicenna. Perché questo prestito diventi legittimo, basta
sostituire l’illuminazione cristiana dell’anima da parte di Dio, all’illuminazione neoplatonica dell’anima da
parte delle intelligenze separate. Le anime non sono individualizzate dai loro corpi; esse costituiscono in se
stesse altrettanti soggetti distinti. Per quanto è possibile, ogni anima è un quod est distinto, che Dio attualizza
conferendogli quel quo est che è l’esistenza. Se egli dà l’esistenza a queste nature intellettuali, è perché esse
possano essere illuminate dalla sua luce. In quanto immagine di Dio, l’anima è dotata di un intelletto agente:
è una luce che in noi è causa prima della conoscenza, universalmente capace di causare l’intellegibile, e
continuamente occupata a causarlo. La luce dell’intelletto agente ha per effetto di passare da potenza in atto
la forma della cosa conosciuta e di informare l’intelletto possibile. Così operando, l’intelletto agente si
comporta da “intelletto formale” e la forma intellegibile che egli libera dall’oggetto è l’intellectus in effectu.
Come una stessa luce rende visibile in atto tutti i colori, e attraverso di essi passa da potenza in atto la vista
che li vede, così la stessa luce dell’intelletto agente rende intellegibili in atto le forme dei corpi sensibili: e
attraverso di esse passa da potenza in atto l’intelletto possibile. Questa è la normale attività dell’intelletto
umano. La luce divina irradia dapprima le intelligenze separate che sono gli angeli, da dove derivano le
forme intellegibili, nella materia da un lato, d’altro lato negli intelletti umani che, attraverso lo studio,
lavorano per conoscere i corpi. E’ sotto l’azione di questa luce che le forme possono muovere l’anima. Le
facoltà conoscitive naturali dell’uomo non possono funzionare senza una serie gerarchica di doni gratuiti, che
le aiutano, le rendono atte alle loro operazioni e le elevano ad altre che naturalmente le superano. E’ quindi
semplificare un po' le cose, presentare Alberto come “il primo vessillifero che abbia levato in alto le insegne
di Aristotele nel XIII secolo”. Curioso Aristotele quello che nulla può conoscere senza un dono gratuito dello
Spirito Santo! Il vessillo che Alberto innalza porta pressoché tutti i noi possibili. Nel momento stesso in cui
egli afferma che non si conosce il vero senza una grazia, tesi cristiana, come nessun’altra, non può trattenersi
dal continuare tutto d’un tratto: e di più (imo), c’è un filosofo che dice che, anche se si ha la scienza abituale
di qualche cosa, non si attualizza questo sapere virtuale che volgendosi verso la luce dell’intelletto increato.
La possente personalità di Alberto non poteva mancare di esercitare la sua influenza su numerosi discepoli,
ma la sua opera era troppo polimorfa perché si possa parlare, almeno in quel periodo, di una scuola albertina
propriamente detta. Se tuttavia si vogliono seguire le tracce di questa influenza nelle due successive
generazioni di pensatori cristiani, si avrà la possibilità di scoprirle, forse più che in Tommaso d’Aquino, nei
predecessori immediati dei grandi mistici renani. I temi direttivi nel suo pensiero si perpetuano in loro
seguendo la loro linea primitiva, talvolta fortemente accentuata e infine combinata con temi di provenienza
estranea, ma senza le correzioni e i raddrizzamenti che san Tommaso ha fatto subir loro. Tuttavia, non è che
questi continuatori del pensiero di Alberto manchino essi stessi di personalità.
San Tommaso è nato nel castello di Roccasecca, vicino ad Aquino, verso la fine dei 1224 o all’inizio del
1225. Studiò arti all’Università di Napoli e in questa stessa città, all’età di vent’anni (1244) veste l’abito
domenicano. Tommaso allora si mette in cammino per Parigi con il maestro generale dell’ordine, Giovanni il
Teutonico. Nel 1248 Tommaso lascia Parigi per accompagnare il suo maestro incaricato di dirigere il nuovo
Studium generale fondato a Colonia dall’ordine. Egli vi soggiorna fino alle vacanze estive del 1252, data in
cui ritorna a Parigi per prepararsi a diventare maestro in teologia. Tommaso prende la licenza in teologia nel
1256, inizia il suo insegnamento per ottenere il dottorato in teologia e lo continua per tre anni dal settembre
del 1256 al giugno del 1259. Tornò in Italia, passando per Anagni, Orvieto, Roma e Viterbo. Tornato a Parigi
intorno al 1269, nel 1272 torna a insegnare a Napoli e nel 1274, convocato personalmente da Gregorio X al
secondo concilio generale di Lione. Colpito da malattia lungo la strada, si ferma a Fossanova e vi muore, il 7
marzo 1274. I primi scritti di san Tommaso (De ente et essentia e Commento alle Sentenze) risalgono al suo
primo soggiorno di Parigi, ma le sue opere più importanti risalgono al suo insegnamento in Italia e al suo
secondo soggiorno a Parigi. San Tommaso, che condanna così seccamente come teologo le dottrine che
giudica false, è invece appassionatamente curioso di estrarre dalle più diverse filosofie il nocciolo di verità
che esse possono contenere. Distingueremo quindi i casi in cui egli espone da quelli in cui interpreta; e
quando interpreta, sono ugualmente da evitare due errori di giudizio:
- l’uno consisterebbe nel credere che egli si sbagli sul significato della dottrina che volutamente trae a sé;
- l’altro sarebbe di addossargli il significato originale di formule che egli spesso ammette soltanto nel senso
in cui egli stesso le intende.
Ma uno studio completo di san Tommaso non può trascurarli. Il Commento alle Sentenze ci fa conoscere il
suo pensiero in formazione, ancora tentato da certe formule avicenniane che finirà col correggere; i
Commenti ad Aristotele e allo pseudo-Dionigi, ugualmente indispensabili, ce lo fanno conoscere nelle due
fonti di ispirazioni così differente, cui si alimenteranno la sua filosofia e la sua teologia. Bisogna tuttavia
rivolgersi alle due Summae per uno studio diretto del pensiero di san Tommaso. L’esposizione completa, ma
semplificata al massimo, della filosofia tomista, si trova nella prima e nella seconda parte della Summa
theologiae. E’ qui, in queste Questioni redatte da san Tommaso espressamente per i principianti, che
conviene andare a cercare una prima iniziazione al suo pensiero. Una duplice condizione domina lo sviluppo
della filosofia tomista: la distinzione tra ragione e fede e la necessità del loro accordo. L’intero campo della
filosofia dipende esclusivamente dalla ragione: significa che la filosofia non deve ammettere che ciò che è
accessibile alla luce naturale e dimostrabile con le sue solo risorse. La teologia, invece, si fonda sulla
rivelazione, cioè in fin dei conti sull’autorità di Dio. Gli articoli di fede sono delle conoscenze di ordine
soprannaturale, contenute in formule il cui significato non ci è interamente penetrabile, ma che dobbiamo
accettare come tali, benché non possiamo comprenderle. Un filosofo argomenta sempre cercando nella
ragione i principi della sua argomentazione; un teologo argomenta cercando i suoi principi primi nella
rivelazione. In primo luogo è cosa sicura l’accordo di diritto tra le loro ultime conclusioni, anche se questo
accordo non comparisse di fatto. Né la ragione, quando ne usiamo correttamente, né la rivelazione, poiché ha
Dio come origine, potrebbero ingannarci. Ora, l’accordo della verità con la verità è necessario. E’ quindi
certo che la verità della filosofia si collegherebbe con la verità della rivelazione con una catena ininterrotta di
rapporti veri ed intellegibili, se il nostro spirito potesse capire pienamente i dati della fede. Da ciò deriva che,
ogni volta che una conclusione filosofica contraddice il dogma, è segno sicuro che questa conclusione è
falsa. Toccherà alla ragione, debitamente avvertita, di criticare poi se stessa e di trovare il punto in cui s’è
verificato il suo errore. Abbiamo il dovere di spingere il più lontano possibile l’interpretazione razionale dei
dati delle fede, di risalire con la ragione verso la rivelazione e di riscendere dalla rivelazione verso la
ragione. Partire dal dogma come dato, definirlo, svilupparne il contenuto, sforzarsi anche con delle analogie
ben scelte e ragioni convenienti di mostrare in che modo la nostra ragione ne può afferrare il contenuto,
questa è l’opera della scienza sacra. Tutto è ben diverso per l’opera che compie la ragione partendo dai suoi
principi. Essa può in primo luogo decidere la sorte delle filosofie che contraddicono i dati della fede; poiché
il disaccordo in questione è indice d’errore e l’errore non può trovarsi nella rivelazione divina, bisogna che
esso si trovi nella filosofia.
Un secondo compito, questo costruttivo e positivo, spetta alla filosofia. Nell’insegnamento delle Scritture,
c’è una parte di mistero e di cose dimostrabili, ma ci sono anche delle cose intelligibili e indimostrabili, Ora,
è meglio capire che credere, quando n’è lasciata la scelta. Dio ha detto: “Ego sum qui sum”. Questa parola è
sufficiente ad imporre all’ignorante la fede nell’esistenza di Dio, ma essa non dispensa il metafisico, il cui
oggetto proprio è l’essere in quanto essere, dal cercare ciò che una simile parola ci insegna a proposito di ciò
che Dio è. ci sono dunque due teologie specificamente distinte che, se a rigore non sono continue per le
nostre menti finite, possono almeno accordarsi e completarsi:
- la teologia rivelata che parte dal dogma
- la teologia naturale elaborata dalla ragione
La teologia naturale non è tutta la filosofia, essa non ne è che una parte, o meglio ancora che il coronamento;
ma è la parte che la filosofia di san Tommaso ha elaborato più profondamente e nella quale egli si è
manifestato come genio veramente originale.
Le prime cose che noi conosciamo non sono altro che le cose sensibili, ma la prima cosa che Dio ci rivela è
la sua esistenza; non si incomincerà dunque teologicamente da dove si arriverebbe filosoficamente dopo una
lunga preparazione. Bisogna supporre lungo strada che ci siano dei problemi risolti; ma il fatto è che essi lo
sono effettivamente, e la ragione non ne perderà nulla per aver aspettato. Aggiungiamo che, anche dal punto
di vista strettamente filosofico, questa soluzione presenta dei vantaggi. Supponendo risolto il problema
totale, facendo come se ciò che è più sconosciuto per sé lo fosse anche alle nostre menti finite, noi diamo
della filosofia un’esposizione sintetica il cui profondo accordo con la realtà non potrebbe essere messo in
dubbio. Allo stesso modo è l’universo quale è, con Dio come principio e come fine, che la teologia naturale
così intesa ci invita a contemplare.
Secondo l’ordine che abbiamo deciso di seguire, ci conviene partire da Dio. La dimostrazione della sua
esistenza, è necessaria e possibile. Essa è necessaria perché l’esistenza di Dio non è una cosa evidente; in una
simile materia l’evidenza non sarebbe possibile che se noi avessimo una nozione adeguata dell’essenza
divina; la sua esistenza apparirebbe allora come necessariamente inclusa nella sua essenza. Ma Dio è un
essere infinito, e, dato che non ne ha il concetto, la nostra mente finita non può vedere la necessità di esistere
che la sua stessa infinità implica; si deve quindi dedurre attraverso il ragionamento questa esistenza che non
possiamo constatare. Così ci viene chiusa la vita diretta che l’argomento ontologico di sant’Anselmo ci
apriva; ma ci resta aperta quella che indica Aristotele. Cerchiamo quindi nelle cose sensibili, la cui natura è
conforme alla nostra, un punto d’appoggio per elevarsi a Dio. Tutte le prove tomiste mettono in gioco due
elementi distinti: la constatazione di una realtà sensibile che richiede una spiegazione, l’affermazione di una
serie causale in cui questa realtà è la base e Dio il vertice.
1) La via più evidente è quella che parte dal movimento. Nell’universo c’è del movimento; questo è il fatto
da spiegare, e la superiorità di questa prova non dipende dal fatto ce essa sia più rigorosa delle altre, ma dal
fatto che il suo punto di partenza è il più facile da capire. Ogni movimento ha una causa e questa causa deve
essere esterna all’essere stesso che è in movimento; infatti non si potrebbe essere, contemporaneamente e
sotto lo stesso rapporto, il principio motore e la cosa mossa. Ma il motore deve essere mosso da un altro, e
quest’altro da un altro ancora. Il sensibile non ci pone soltanto il problema del movimento. Infatti non solo le
cose si muovono, ma prima di muoversi esse esistono, e nella misura in cui esse sono reali hanno un certo
grado di perfezione.
2) Ora, ciò che abbiamo detto delle cause del movimento, possiamo dirlo delle cause in generale. Niente può
essere causa efficiente di se stesso, perché prodursi dovrebbe essere, come causa, anteriore a se stesso come
effetto. Ogni causa efficiente ne suppone dunque un’altra, la quale ne suppone a sua volta un’altra. Ora,
queste cause non hanno tra loro un rapporto accidentale; anzi si condizionano secondo un certo ordine, ed è
proprio questo che ogni causa efficiente rende veramente conto della seguente. Se è così, la causa prima
spiega quella che è nel mezzo della serie, e quella che è nel mezzo spiega l’ultima. Occorre dunque una
causa prima della serie perché ce ne sia una di mezzo ed una ultima, e questa Prima causa efficiente è Dio.
3) Consideriamo ora l’essere stesso. Quello che ci è dato in perpetuo divenire, alcune cosa si generano,
quindi potevano esistere; alcune altre si corrompono, potevano quindi non esistere. Poter esistere o non
esistere significa non avere una esistenza necessaria; ora, il necessario non ha bisogno di causa per esistere, e
proprio perché è necessario, esiste per se stesso; ma il possibile non ha in sé la ragione sufficiente della sua
esistenza, e se nelle cose non ci fosse assolutamente altro che il possibile, non ci sarebbe niente. Perché ciò
che poteva essere sia, occorre in primo luogo qualcosa che sia e lo faccia essere. Significa che, se c’è
qualcosa, è perché d qualche parte c’è il necessario. Ora, qui ancora, questo necessario esigerà una causa, o
una serie di cause che non sia infinita, e l’essere necessario per sé, causa di tutti gli esseri che gli devono la
loro necessità, non può essere altro che Dio.
4) Una quarta via passa attraverso i radi gerarchici di perfezione che si osservano nelle cose. Ci sono dei
gradi nella bontà, nella verità, nella nobiltà e nelle altre perfezioni di questo tipo. Ora, il più o il meno
suppongono sempre un termine di paragone che è l’assoluto. Esiste dunque un vero e un bene per sé, cioè, in
fin dei conti, un essere in sé che è la causa di tutti gli altri essere e che noi chiamiamo Dio.
5) La quinta via si fonda sull’ordine delle cose. Tutte le operazioni dei corpi naturali tendono ad un fine,
benché essi siano in loro stessi privi di conoscenze. La regolarità con la quale essi conseguono il loro fine
dimostra che essi non vi giungono per caso e questa regolarità non può essere che intenzionale e voluta.
Poiché essi sono privi di conoscenza, bisogna bene che qualcosa conosca per loro, ed è questa intelligenza
prima, ordinatrice della finalità delle cose, che noi chiamiamo Dio.
Per diverse che siano in apparenza, queste “vie” verso Dio comunicano tra di loro con un legame segreto.
Ciascuna di esse infatti parte dalla constatazione che, sotto almeno uno dei suoi aspetti, un certo essere dato
nella realtà non contiene in sé la ragione sufficiente della sua esistenza. Ogni essere è “qualcosa che è”, e
qualunque sia la natura o essenza della cosa che si considera, essa non include mai la sua esistenza. Un
uomo, un cavallo, un albero sono degli esseri reali, cioè delle sostanze, nessuno dei quali è l’esistenza stessa,
ma soltanto un uomo che esiste, un cavallo che esiste o un albero che esiste. Si può quindi dire che l’essenza
di ogni essere reale è distinta dalla sua esistenza e, a meno di supporre che ciò che non è per sé possa dare a
se stesso l’esistenza, il che è assurdo, bisogna ammettere che tutto ciò di cui l’esistenza è diversa dalla sua
natura riceve da altro la sua esistenza. Ora, ciò che esiste per altro non può avere altra causa prima che ciò
che è per sé. Bisogna dunque che ci sia, come causa prima di tutte le esistenze di questo tipo, un essere in cui
l’essenza e l’esistenza facciano una sola cosa. E’ questo l’essere che noi chiamiamo Dio. Il metafisico qui
raggiunge con la sola ragione la verità filosofica nascosta sotto il nome che Dio stesso si è dato per farsi
conoscere dall’uomo: “Ego sum qui sum” (Esodo, III 13). Dio è l’Atto puro di esistere, cioè non un’essenza
qualunque come l’Uno o il Bene o il pensiero a cui inoltre si attribuirebbe l’esistenza, e nemmeno un certo
modo eminente di esistere come l’Eternità, l’Immutabilità o la Necessità che si attribuirebbero a suo essere
come caratteristiche della realtà divina; ma l’esistere stesso posto in sé, senza nessuna aggiunta, poiché tutto
quello che gli si potrebbe aggiungere lo imiterebbe e lo determinerebbe. Non si tratta più dunque, qui, di
identificare Dio con uno qualunque dei suoi attributi, ma anzi di ricondurre questi a non essere veramente
che degli attributi di Dio. Se è il puro esistere, Dio è per ciò stesso la pienezza assoluta dell’essere, egli è
quindi infinito. Se egli è l’essere infinito, nulla può mancargli che debba acquisire, nessun cambiamento è in
lui concepibile; egli è dunque sovranamente immutabile ed eterno, e così per le altre perfezioni che conviene
attribuirgli. E conviene attribuirgliele tute perché, se l’atto assoluto di esistere è infinito, lo è nell’ordine
dell’essere ed è, dunque, perfetto. Questo Dio di cui affermiamo l’esistenza non ci lascia penetrare ciò che
egli è. Egli è infinito e le nostre menti sono finite; dobbiamo quindi cogliere di lui tante prospettive esterne
quante potremo, senza mai pretendere di esaurirne il contenuto. Una prima maniera di procedere consiste nel
negare dell’essenza divina tutto ciò che non può appartenerle. Scartando successivamente dall’idea di Dio il
movimento, il cambiamento, la passività, la composizione, finiamo col porlo come un essere immobile,
immutabile, perfettamente in atto e assolutamente semplice: è la via della negazione. Ma se ne può seguire
una seconda e cercar di designare Dio secondo le analogie che sussistono tra lui e le cose. Quando la causa è
infinita e l’effetto finito, non si può dire evidentemente che le proprietà constatate nell’effetto si ritrovino tali
e quali nella causa, ma ciò che esiste negli effetti deve anche preesistere nelle loro cause, qualunque sia la
sua maniera di esistervi. In questo senso, noi attribuiremo a Dio, ma portandole all’infinito, tutte le
perfezioni di cui avremo trovato qualche ombra nella creatura. Così diremo che Dio è perfetto,
supremamente buono, unico, intelligente, onnisciente, volitivo, libero ed onnipotente, riducendosi in ultima
analisi ciascuno di questi attributi a non essere che un aspetto della perfezione infinita e perfettamente unica
dell’Atto puro di esistere che è Dio. Dimostrando l’esistenza di Dio col principio di causalità, noi stabiliamo
al tempo stesso che Dio è il creatore del mondo. Poiché egli è l’esistere assoluto ed infinito, Dio contiene
virtualmente in sé l’essere e le perfezioni di tutte le creature; il modo, secondo cui tutto l’essere emana dalla
causa universale, si chiama creazione. Per definire questa idea, conviene prestare attenzione a tre cose.
1) In primo luogo il problema della creazione non si pone per tale o talaltra cosa particolare, ma per la
totalità di ciò che esiste;
2) In secondo luogo, e proprio perché si tratta di spiegare il comparire di tutto ciò che è, la creazione non può
essere che il dono stesso dell’esistenza: non c’è niente, né cose, né movimento, né tempo, ed ecco apparire la
creatura, universo di cose, movimento e tempo. Per questo si parla di creazione ex nihilo;
3) In terzo luogo, se la creazione non presuppone, per definizione, nessuna materia, essa presuppone,
ugualmente per definizione, un’essenza creatrice che, poiché è essa stessa l’Atto puro di esistere, può causa e
degli atti finiti di esistere.
L’esistenza della creatura è dunque radicalmente contingente in rapporto a Dio, ed è quanto si esprime
dicendo che la creazione, se si verifica, è un atto libero. Partecipazione esprime contemporaneamente il
legame che unisce la creatura al creatore, il che rende intellegibile la creazione e la separazione che
impedisce loro di confondersi. Partecipare all’Atto puro o alla perfezione di Dio significa possedere una
perfezione che preesisteva in Dio, che vi si trova del resto ancora, senza essere stata né annullata né
diminuita dall’apparizione delle creature, e che questa riproduce secondo il suo modo limitato e finito.
Partecipare non significa essere una parte di ciò di cui si partecipa, significa possedere il proprio essere e
riceverlo da un altro essere, e il fato di riceverlo da lui è proprio la prova che non ci si identifica con lui. Così
la creatura viene a porsi infinitamente al di sotto del creatore, così lontano che non c’è relazione reale tra Dio
e le cose, ma soltanto tra le cose e Dio. Il mondo infatti nasce dall’essere senza che si sia prodotto nessun
cambiamento nell’essenza divina; e tuttavia l’universo non è uscito da Dio per una specie di necessità
naturale, ma è evidentemente il prodotto di un’intelligenza e di una volontà. Tutti gli effetti di Dio
preesistono in lui, ma poiché egli è un’intelligenza infinita e la sua intelligenza è il suo stesso essere, tutti i
suoi effetti preesistono in lui secondo un modo di essere intellegibile. Dio conosce quindi tutti i suoi effetti
prima di produrli, e se egli li produce perché li conosce, è dunque perché li ha voluti. Il semplice spettacolo
dell’ordine e della finalità che regnano nel mondo basta d’altronde a mostrarci che non è una cieca natura ad
aver prodotto le cose per una specie di necessità, ma una provvidenza intelligente che le ha liberatamente
scelte. Alcuni filosofi arabi, e specialmente Avicenna, credono che da un’unica causa non possa uscire che
un unico effetto. Donde deducono che Dio deve creare una prima creatura che a sua volta ne crea un’altra, e
così via. Ma Agostino già da un pezzo ci aveva dato la soluzione del problema. Poiché Dio è intelligenza
pura, deve possedere in sé tutti gli intellegibili, cioè le forme che saranno più tardi quelle delle cose, ma che
non esistono ancora che nel suo pensiero. Queste forme delle cose, che noi chiamiamo le idee, preesistono in
Dio stesso come i modelli delle cose che saranno create e come gli oggetti della conoscenza divina. L’idea di
una creatura è quindi la conoscenza che Dio ha di una certa partecipazione possibile della sua perfezione da
parte di questa creatura. Ed è così che, senza compromettere l’unità divina, una molteplicità di cose può
essere generata da Dio. Resterebbe da sapere in quale momento l’universo sia stato creato. I filosofi arabi, e
specialmente Averroè, pretendono d’interpretare il pensiero autentico di Aristotele insegnando che il mondo
è eterno. Dio sarebbe sì la causa prima di tutte le cose, ma questa causa infinita e immutabile, esistente
dall’eternità, avrebbe anche prodotto il suo effetto dall’eternità. Altri, invece, e san Bonaventura è di questi,
pretendono di dimostrare razionalmente che il mondo non è sempre esistito. D’accordo su questo punto con
Alberto Magno, Tommaso ritiene che gli uni e gli altri possono invocare degli argomenti verosimili in favore
della loro tesi, ma né l’una né l’altra ipotesi è suscettibile di dimostrazione. Qualunque sia la soluzione che si
voglia stabilire, non si può cercare il principio di questa dimostrazione che nelle cose stesse o nella volontà
divina che le ha create; ora, né in un caso, né nell’altro la nostra ragione trova di che fondare una vera prova.
Dimostrazione, infatti, significa partire dall’essenza di una cosa per mostrare che una proprietà appartiene a
questa cosa. Se noi partiamo dall’essenza delle cose contenute nell’universo creato, vedremo che, poiché
essa è per se stessa distinta dalla sua esistenza, ogni essenza presa in se stessa è indifferente ad ogni
considerazione di tempo. Se Dio ha liberamente voluto il mondo, ci è assolutamente impossibile dimostrare
che egli lo abbia voluto necessariamente nel tempo piuttosto che nell’eternità. Il solo fondamento che ci
rimane per fondarvi la nostra opinione è che Dio ci ha manifestato la sua volontà con la rivelazione sulla
quale si fonda la fede. Poiché la ragione non potrebbe decidere in merito, e Dio ce lo insegna, noi dobbiamo
credere che il mondo ha avuto un inizio, ma non possiamo dimostrarlo e, a considerare rigorosamente la
cosa, noi non lo sappiamo: “mundum incoepisse est credibile, non autem demonstrabile, vel scibile”. Dio ha
creato il mondo in quanto il mondo comporta una certa perfezione ed un certo grado di essere; ma il male
propriamente parlando non è nulla; esso è molto più una mancanza d’essere, che u essere; il male deriva
dalla inevitabile limitazione che ogni creatura comporta, e dire che Dio ha creato non soltanto il mondo, ma
il male che vi si trova, significherebbe dire che Dio ha creato il nulla. In realtà, la creazione comporta fin dal
suo primo momento un’infinita differenza tra Dio e le cose; l’assimilazione del mondo a Dio è
inevitabilmente deficiente, e nessuna creatura riceve la pienezza totale della perfezione divina perché la
perfezione passano da Dio alla creazione solo effettuando una specie di discesa. L’ordine secondo cui si
effettua questa discesa è la legge stessa che regola l’intima costituzione dell’universo: tutte le creature si
dispongono secondo un ordine gerarchico di perfezione, andando dalle più perfette che sono gli angeli, alle
meno perfette che sono i corpi, e in modo che il gradino più basso di ciascuna specie superiore confina con il
gradino più alto di ciascuna specie inferiore. Al vertice della creazione si trovano gli angeli. Sono delle
creature incorporee ed anche immateriali; san Tommaso quindi non concede a san Bonaventura né agli altri
dottori francescani che tutto ciò che è creato si componga di materia e di forma. Per porre il primo grado
della creazione quanto più possibile vicino a Dio, san Tommaso vuole concedere agli angeli la più alta
perfezione che sia compatibile con lo stato di creatura; ora, la semplicità accompagna la perfezione; bisogna
dunque concepire gli angeli tanto semplici quanto una creatura può esserlo. Creature, gli angeli hanno
ricevuto l’esistenza da Dio, essi sono quindi sottoposti, come tutte le creature, alla legge che impone agli
esseri partecipati la distinzione reale tra la loro essenza e la loro esistenza. Essi non hanno materia, quindi
non principio di individuazione nel senso comune del termine. In questa gerarchia discendente della creatura,
la comparsa dell’uomo, e di conseguenza della materia, segna un gradino caratteristico. Con la sua anima,
l’uomo appartiene ancora alla serie degli esseri immateriali; ma la sua anima non è un’Intelligenza pura
come lo sono gli angeli, essa non è che un semplice intelletto. Intelletto, perché essa è ancora un principio di
intellezione e può conoscere un certo intellegibile; ma non Intelligenza, perché essa è essenzialmente unibile
ad un corpo. L’anima è in effetti una sostanza intellettuale, alla quale però è essenziale essere la forma del
corpo e costituire con esso un composto di materia e di forma. Per questo l’anima umana si trova all’ultimo
gradino delle creature intelligenti; essa, di tutte le perfezioni, è la più lontana dall’intelletto divino. Invece, in
quanto forma di un corpo, essa lo domina e lo supera in modo tale che l’anima umana segna il confine e
come la linea dell’orizzonte tra il regno delle intelligenze pure e il regno dei corpi. Abbandonando la
semplicità delle sostanze separate, l’anima umana perde il diritto all’apprendimento diretto dell’intellegibile.
L’intelletto agente che ogni anima umana possiede è, di tutte le facoltà normali, quella per cui non più ci
avviciniamo agli angeli. Tuttavia il nostro intelletto non ci fornisce più delle specie intellegibili già elaborate;
il fascio di luce bianca che esso proietta sulle cose è capace di illuminarle, ma esso non proietta alcuna
immagine. La sua più alta funzione è la conoscenza dei principi primi; essi preesistono in noi allo stato
virtuale e sono le prime concezioni dell’intelletto. La perfezione dell’intelletto agente è di contenerle
virtualmente e di essere capace di formarle, ma è anche sua debolezza di poterle formare partendo dalle
specie astratte delle cose sensibili. L’uomo, composto di un corpo e della forma di questo corpo, si trova
posto in un universo composto di natura, cioè di corpi materiali, ciascuno dei quali ha la sua forma.
L’elemento che particolarizza e individualizza queste nature è la materia di ciascuna di esse; l’elemento
universale che esse contengono è, invece, la loro forma; conoscere consisterà dunque nel liberare dalla cosa
l’universale che vi si trova contenuto. Gli oggetti sensibili agiscono sui sensi con le specie immateriali che vi
imprimono; queste specie, pur già spogliate della materia, portano tuttavia ancora traccia della materialità e
della particolarità degli oggetti da cui provengono. Esse non sono quindi propriamente parlando intellegibili,
ma possono essere rese intellegibili se l spogliamo degli ultimi segni della loro origine sensibile. Questo è
esattamente il ruolo dell’intelletto agente. Si stabilisce quindi una specie di rapporto insieme corrispondente
ed inverso tra l’intelletto e le cose. In un certo senso l’anima è dotata di un intelletto agente, in un altro senso
essa è dotata di un intelletto possibile. L’anima razionale stessa è infatti in potenza in rapporto alle specie
delle cose sensibili; queste specie le vengono presentate negli organi dei sensi a cui esse pervengono, organi
materiali in cui esse rappresentano le cose con le loro proprietà particolari e individuali. Le specie sensibili
non sono quindi intellegibili che in potenza, e non in atto. Invece, c’è nell’anima razionale una facoltà attiva
capace di rendere le specie sensibili attualmente intellegibili; è ciò che chiamiamo l’intelletto agente. E tutte
le loro determinazioni particolari, ed è chiamiamo intelletto possibile. Ogni forma è naturalmente attiva. In
un essere privo di conoscenza la forma è rivolta solo alla completa realizzazione di questo essere. Se
l’intelletto umano potesse rappresentarci fin da quaggiù il Bene Supremo stesso, noi scorgeremmo
immediatamente ed immutabilmente l’oggetto proprio della nostra volontà; essa vi aderirebbe subito e se ne
impadronirebbe con una presa costante che sarebbe anche la più perfetta libertà. Ma noi non vediamo
direttamente la somma perfezione; siamo quindi ridotti a cercare, con uno sforzo incessantemente rinnovato
dell’intelletto, di determinare tra i beni che si offrono ai nostri occhi quelli che si collegano al bene Supremo
con una connessione necessaria. E in ciò, almeno quaggiù, consiste la nostra stessa libertà. Poiché la costante
adesione al Bene Supremo ci è vietata, la nostra volontà può scegliere sempre solo tra dei beni particolari;
essa può quindi sempre volerli o non volerli, e volere questo piuttosto che quello. C’è per l’uomo una specie
di sommo bene relativo al quale egli deve tendere durante la sua vita terrena; oggetto della morale è farcelo
conoscere e facilitarcene l’accesso. Conoscere e dominare le proprie passioni, estirpare i propri vizi,
acquistare e conservare le virtù, cercare la felicità nella più alta e più perfetta opera dell’uomo, cioè nella
considerazione della verità con l’esercizio delle scienze speculative, è la beatitudine reale, benché imperfetta,
alla quale quaggiù possiamo aspirare.
La dottrina di san Tommaso, la cui infinita, ricchezza e ordine meraviglioso si rivelano soltanto ad uno
studio diretto, presentava quindi agli occhi dei suoi contemporanei un carattere di incontestabile novità. Essa
ci pare così naturalmente legata al cristianesimo che, oggi, noi facciamo fatica ad immaginare ch’essa abbia
potuto stupire o preoccupare gli spiriti al momento del suo apparire. Riflettiamo tuttavia sulle novità che un
tale sistema portava con sé.
1) in primo luogo la ragione è invitata ad astenersi da certe speculazioni; viene avvertita che il suo intervento
nelle Questioni teologiche più alte è capace solo di comprometterla con la causa che essa difende.
2) si strappa poi alla ragione umanala dolce illusione di conoscere le cose nelle loro ragioni eterne; non le si
parla più di quell’intima presenza e di quella consolante voce interiore di Dio.
3) bisogna ammettere che quest’anima razionale che è la forma unica del corpo, al punto di essere una
sostanza incompleta, sopravvive tuttavia a questo corpo, e non perisce affatto con lui. Ridotta da questa
nuova situazione a ricavare dal sensibile ogni sua conoscenza, anche quella dell’intellegibile, l’anima di vede
chiuse le vie dirette che conducono alla conoscenza di Dio; non più evidenza diretta in favore della sua
esistenza, non più quelle intuizioni che ci permettono di leggere attraverso le cose il mistero trasparente della
sua essenza.
Ovunque l’uomo doveva aver timore che lo si allontanasse da Dio, spesso doveva aver timore che lo si
separasse da lui. L’umiltà, cara ai figli di san Francesco, questa dolcezza squisita che essi preferivano a tutte
le gioie della terra, non la dovevano al sentimento di una unione e come di una tenerezza personale tra la loro
anima e Dio? Quando s’immagina un simile stato d’animo, si capisce che certi francescani abbiano avuto
l’impressione che un’opposizione completa e fondamentale separasse i filosofi dei due ordini. Giovanni
Perckham riteneva che le due dottrine avessero in comune soltanto i fondamenti della fede. Alcuni, meno
moderati di lui, non esitavano a dire di più. Questo trionfo di Aristotele su sant’Agostino, che cos’era in
fondo, se non la rivincita del paganesimo antico sulle verità del Vangelo? L’accusa poteva sembrare più
pericolosa, visto che nello stesso tempo e nella stessa Università di Parigi, altri illustri maestri cedevano
completamente alla spinta che san Tommaso aveva voluto arginare. Si vedeva affermarsi un certo
aristotelismo integrale che si poneva come l’assoluta verità razionale in contrapposizione con la verità
rivelata da Dio. Tra l’uno e l’altro aristotelismo c’erano numerosi punti in comune; doveva essere dunque
forte la tentazione di legare la sorte del tomismo a quella di tutte le nuove dottrine. Tutto quello che
Aristotele aveva detto dell’essere in quanto sostanza la cui forma è l’atto vi si ritrovava integrato e
subordinato ad una metafisica dell’essere concepito come una sostanza la cui forma stessa è in potenza
rispetto al suo atto di esistere. Il Dio di san Tommaso non è l’Atto puro di pensiero che presiedeva al mondo
di Aristotele, ma l’Atto puro di esistere che ha creato dal nulla il mondo cristiano degli individui attualmente
esistenti, ciascuno dei quali, struttura complessa di potenza e atto, di sostanza, di facoltà ed operazioni
diverse, riceve la sua unità dall’Atto puro di esistere per il quale esso è tutto questo insieme, e che, derivando
da questo atto esistenziale il potere di operare, lavora senza interruzione a completarsi secondo la legge della
sua essenza, in uno sforzo incessante per raggiungere la sua causa prima che è Dio.
A dispetto delle resistenze che incontrò, la dottrina di san Tommaso gli procurò ben presto numerosi
discepoli, non solo all’interno dell’ordine domenicano, ma anche in altri ambienti scolastici e religioni. E’
vero che i suoi discepoli non sempre erano d’accordo sul significato della sua dottrina, ma come stupirsene
dato che su certi punti pur fondamentali, si discute ancora oggi? La riforma tomista colpiva l’interno ambito
della filosofia e della teologia; non c’è quindi un solo punto rilevante in questi ambiti in cui la storia non
possa notare la sua influenza e seguirne la traccia, ma pare che essa abbia agito in particolare sui problemi
fondamentali dell’ontologia, la cui soluzione guidava quella di tutti gli altri. Si capisce facilmente quindi che,
tra tante discussioni che si sono sollevate intorno alla sua dottrina, quelle che si riferivano alla dottrina
dell’essere siano state particolarmente vivaci. San Tommaso aveva affermato con forza due tesi
fondamentali:
1) Adottando integralmente l’ontologia aristotelica della sostanza, egli aveva definito l’individuo come una
forma pura, nel caso degli esseri immateriali, o come l’unione di una materia e della sua forma nel caso degli
esseri materiali.
2) Nell’ordine delle sostanze, la forma è l’atto supremo e unico per il quale l’individuo è quello che è.
San Tommaso aveva quindi ammesso l’unità della forma sostanziale nel composto; egli l’aveva ammessa
anche nel caso del composto umano, dove l’anima razionale diventava l’atto e la forma unica del corpo
umano ad esclusione di ogni forma corporeitatis interposta. Questa tesi doveva preoccupare tutti coloro che
non potevano concepire che l’immortalità di un’anima, forma immediata del corpo, fosse cosa possibile. Si
classificano quindi tra i “tomisti” quelli che si sono schierati in favore della dottrina dell’unità della forma
nel composto, contro la dottrina della pluralità delle forme ispirata da Gebirol e da Avicenna, e legata
naturalmente alla dottrina di sant’Agostino.
Dimostrazioni di questo genere non si possono fare a priori, cioè partendo dalla definizione di Dio, come
voleva sant’Anselmo. Si può dire che è ancora più impossibile nella dottrina di Duns Scoto che in tutte le
altre, perché in essa l’argomentazione deve fondarsi unicamente sulla nozione di essere, non sulla nozione di
Dio. Queste dimostrazioni saranno dunque a posteriori, cioè risaliranno dagli effetti alle loro cause; ma gli
effetti da cui si partirà non saranno gli essere alle loro cause; ma gli effetti da cui si partirà non saranno gli
esseri contingenti dati nell’esperienza sensibile. In effetti, si assiste, in questa metafisica, ad una
trasposizione di prove a posteriori dell’esistenza di Dio che le fa passare dal piano delle esistenze attuali, su
cui restava san Tommaso, al piano delle modalità e delle proprietà dell’essere in quanto essere in cui sempre
resta Duns Scoto quando parla da metafisico. La prima prova si fonda su queste proprietà complementari
dell’essere, la “causalità” e la “producibilità” o capacità di produrre e di essere prodotto. Partiamo dal fatto
che qualche essere è producibile: come può essere prodotto? Può esserlo solo dal nulla, da sé o da un altro.
Non può esserlo dal nulla, perché ciò che è niente non causa niente. Non può esser prodotto da sé, perché
niente è causa di se stesso. Esso deve quindi esserlo da un altro. Supponiamo che lo sia da A; se A è
assolutamente primo, abbiamo la nostra conclusione. Se A non è primo, è una causa seconda, quindi causata
da un’altra. Supponiamo che questa causa anteriore sia B: si ragionerà per essa come per A. Dunque, o si
continuerà così all’infinito, il che è assurdo, perché allora niente sarebbe producibile in mancanza di una
Prima causa, oppure ci si fermerà ad una causa assolutamente prima, come si doveva dimostrare. Si
ottengono tre “primi” o piuttosto tre “primalità”, perché ciò che è primo come causa coincide
necessariamente con ciò che è ultimo come fine e perfetto in sommo grado. Rimane allora da mostrare che
questo “primo” in tutti gli ordini è, o esiste. Bisogna provarlo partendo dalle proprietà dell’essere, poiché noi
procediamo da metafisici. Il solo modo di arrivarvi è di stabilire che l’esistenza di questo primo è, non un
fatto, il che sarebbe provarlo empiricamente e in modo contingente, ma che essa è una necessità. A proposito
di essa restano allora aperte due ipotesi: o esiste o non esiste. Queste due ipotesi sono contraddittorie, e di
due contraddittorie bisogna che una sia vera. Supponiamo allora che questa causa incausabile non esista. Per
quale ragione non esisterebbe? Forse in virtù di una causa della sua non esistenza? Ma la Prima causa non ha
cause. Forse perché, essendo possibile, essa non sarebbe compossibile con un’altra? Ma allora né quest’altra,
né essa stesa sarebbero possibili: ora, essa lo è per definizione. In realtà se una causa prima incausata è
possibile, essa è possibile per sé perché essa non ha causa; ma se non si può concepire nessuna causa che
possa far sì che essa non esista, con ciò stesso si concepisce che è impossibile che essa non esista. L’essere,
la cui non esistenza è impossibile, esiste necessariamente. Il nerbo dell’argomento è quindi l’esigenza interna
di essere che la nozione di “primalità” nasconde nell’ordine della causalità. La possibilità di ciò da cui
l’essere è causabile non comporta necessariamente la sua esistenza attuale ma ciò che esclude ogni causa
estrinseca o intrinseca riguardo al suo essere non può non esistere.
In breve, se l’essere primo è possibile, esiste. Il carattere concettuale di questi argomenti non deve ingannare
sulla loro natura. Duns Scoto sa che si può partire dal fatto empirico che esista un movimento prodotto e
degli effetti causati. Partire dalle esistenze, significa partire dal reale, certo, ma da ciò che in esso v’è di
contingente. Per me, dice Duns Scoto, preferisco proporre delle premesse e delle conclusioni tratte dal
possibile, perché se si ammettono quelle che si ricavano dall’atto, non per questo si ammettono quelle che si
ricavano dal possibile, mentre se si ammettono quelle che si ricavano dal possibile quelle che si ricavano
dall’atto vengono ammesse automaticamente. Resta da stabilire che questo Primo, che esiste, è infinito. Le
stesse vie conducono a questa nuova conclusione. Una causa prima, e di conseguenza incausata, non è
limitata da nulla nella sua causalità: essa è quindi infinita. Per di più, primo nell’ordine della perfezione,
questo essere necessario è intelligente: esso è anche il Primo Intelligente, quindi l’Intelligente sommo, che
conosce tutto ciò che può essere conosciuto; c’è dunque un’infinità di intellegibili nell’intelligenza prima, e
di conseguenza l’intelletto che li abbraccia tutti insieme è attualmente infinito. Infine, l’infinità di Dio ci è
provata dall’inclinazione naturale della nostra volontà verso un bene supremo e della nostra intelligenza
verso una suprema verità. La nostra volontà non tenderebbe verso un bene infinito come suo oggetto proprio,
se questo bene infinito fosse contraddittorio e non esistesse; bisogna ammettere un centro di attrazione per
rendere conto di una tendenza così facilmente osservabile. Questo infinito, che possiamo dimostrare,
evidentemente non potremo comprenderlo, e tutto ciò che ne diciamo porta il segno troppo sensibile della
nostra debolezza. Come san Tommaso, Duns Scoto ritiene relativa e caduca la nostra conoscenza degli
attributi divini, ma egli tuttavia la considera come meglio fondata, in realtà, di quanto generalmente si
supponga. Questo è un punto dottrinale che si ha torto di trascurare quando si vuole paragonare il pensiero di
Duns Scoto a quello di Descartes. E’ giusto accostare i due filosofi per il vivissimo sentimento che essi
manifestano dell’infinità di Dio, ma mentre Descartes ne deduce la negazione formale di ogni distinzione,
anche di ragione, tra gli attributi divini, Duns Scoto ritiene insufficiente la distinzione generalmente
ammessa tra questi attributi. E’ perché la tendenza a dimostrare la trascendenza del creatore in rapporto alla
creatura è moderata in lui, e come contrastata da un’altra tendenza che lo induce a sottolineare con forza la
realtà della forma. Egli aggiunge che in Dio c’è almeno un fondamento virtuale della distinzione che noi
stabiliamo tra i suoi diversi attributi, cioè la perfezione formale corrispondente ai noi coi quali noi li
designamo. Avendo così posto come Dio l’essere necessario accessibile alla speculazione metafisica, Duns
Scoto si trova portato allo stesso punto di Avicenna; ma nel momento di spiegare il rapporto degli esseri
finiti con l’essere infinito, egli si separa dal filosofo arabo. Per Avicenna, il possibile emanava dal necessario
per necessità, per Duns Scoto, la cui dottrina qui diventa un anti-avicennismo radicale, il possibile viene dal
necessario per un atto di libertà.
Anche nel campo della morale Dio si trova in qualche modo legato dai due primi comandamenti del
decalogo che sono l’espressione della legge naturale e corrispondono ad un’assoluta necessità. La libertà
divina non è quindi l’arbitrio del monarca che decreta le leggi nel suo regno. Ma Duns Scoto insiste
nondimeno in maniera caratteristica sul ruolo decisivo che ha la volontà di Dio anche riguardo alle
conoscenze del suo intelletto. Come tutti i filosofi cristiani, Duns Scoto ammette che Dio conosce tutte le
cose con le sue idee eterne. Egli insegna anche che queste idee non sussistono che nel e per l’intelletto
divino, ma attribuisce loro in Dio soltanto un essere intellegibile ed un’eternità relativi, perché fondati l’uno
e l’altra sull’esame e l’eternità di Dio.
In un testo assai curioso, in cui Duns Scoto si sforza di descrivere un’ipotetica generazione delle essenze in
Dio, vediamo che:
- in un primo momento Dio conosce la propria essenza in se stessa e assolutamente;
- in un secondo momento Dio produce la pietra conferendole un essere intellegibile, e conosce a pietra;
- in un terzo momento Dio si paragona a questo intellegibile e con ciò stesso si stabilisce una relazione tra
loro;
- in un quarto momento Dio riflette in qualche modo su questa relazione e la conosce.
Qui vediamo quindi affermata proprio una posteriorità delle essenze in rapporto all’essenza infinita di Dio.
Di tutti questi possibili così generati non ce n’è uno rispetto al quale la libertà divina sia particolarmente
legata. Dio crea se lo vuole, e crea solo perché lo vuole. L’unica causa per la quale Dio ha voluto le cose è la
sua volontà e l’unica causa della scelta che egli ha fato è che la sua volontà è la sua volontà; non c’è dunque
da risalire oltre. La volontà di Dio è quindi padrona assoluta della scelta e delle combinazioni delle essenze;
essa non è sottomessa alla regola del bene; è la regola del bene, invece, ad essere sottomessa. Se Dio vuole
una cosa, questa cosa sarà buona; e se egli avesse voluto delle leggi morali diverse da quelle che ha stabilito,
queste altre leggi sarebbero state giuste, perché la rettitudine è interna alla sua stessa volontà, e nessuna legge
è giusta se non in quanto essa è accettata dalla volontà di Dio. Non si poteva andare oltre senza sfociare nel
catesianesimo; ma prima di sfociarvi, occorreva in primo luogo cancellare ogni distinzione tra l’intelletto di
Dio e la sua volontà. Questa dualità di tendenze che porta Duns Scoto a subordinare strettamente le essenze a
Dio, pur accentuando la distinzione che egli conversa tra le sue perfezioni formali, si ritrova nella sua
concezione delle essenze stesse. Abbiamo visto che Duns Scoto non tiene alle idee platoniche e che egli
insiste sulla posteriorità delle essenze rispetto al pensiero di Dio. In questo senso, Duns Scoto è meno
platonico di san Tommaso. Ma, una volta prodotte le essenze, diventa vero il contrario, e Duns Scoto
riconosce alle forme una realtà più stabile di quanto non avesse fatto san Tommaso. Duns Scoto concepisce
questa distinzione come intermedia tra la distinzione di ragione e la distinzione reale. Non bisogna tuttavia
confonderla con la distinzione tomista di ragione cum fundamento in re, perché ciò che fonda la distinzione
formale di Scoto non è il fondamento di questa distinzione tomista. C’è distinzione formale scotista ogni
volta che l’intelletto può concepire, in seno ad un essere reale, uno dei suoi costituenti formali separato dagli
altri. Le formalites così concepite sono quindi contemporaneamente distinte nel pensiero e realmente une
nell’unità stessa del soggetto. Questa dottrina d’altronde concorda con il modo in cui, nello scotismo, si
spiega la formazione dei concetti. L’universale, quale noi lo concepiamo, risulta certamente dall’astrazione
compiuta dal nostro intelletto sulle cose; ma, osserva Duns Scoto se l’universale fosse un prodotto della
mente senza nessun fondamento nelle cose stesse, non ci sarebbe più nessuna differenza tra la metafisica, che
verte sull’essere, e la logica che verte sui concetti. L’universale è quindi un prodotto dell’intelletto che ha il
suo fondamento nelle cose; è l’indeterminazione stessa dell’essenza a fornircene la materia, e il nostro
intelletto agente non ha, per così dire, che da coglierla negli individui per attribuirle l’universalità. Bisogna
quindi ammettere che il reale non è in sé né pura universalità, né pura individualità. Che esso non sia pura
individualità risulta dal fatto stesso che noi possiamo astrarne le idee generali. Se la specie non avesse già
una certa unità, inferiore d’altronde all’unità numerica dell’individuo, i nostri concetti non
corrisponderebbero a niente. Ma invece l’universale della specie, che si ritrova frammentato nei diversi
individui, vi si presenta sempre con la caratteristica propria dell’individualità. Per spiegare l’individuale
Duns Scoto deve in effetti partire, qui come altrove, dalla natura o essenza comune, né universale né
particolare, che il metafisico prende in considerazione. Dice Duns Scoto, essa né è l’ultima attualità. E’ la
famosa “ecceità” scotista, l’atto ultimo che determina la forma della specie alla singolarità dell’individuo.
Noi vogliamo soltanto ciò che conosciamo, ed in questo senso l’intelletto è causa della volontà; ma esso non
ne è la causa occasionale. Al contrario, quando la volontà ordina all’intelletto, è proprio lei ad essere la causa
del suo atto, anche se quest’atto preso in se stesso rimane un atto d’intellezione. E se consideriamo un atto di
volontà preso in se stesso, è vero che la conoscenza dell’oggetto voluto è precedente nel tempo alla
volizione, ma è nondimeno la volontà ad essere la causa prima dell’atto. La conoscenza dell’oggetto da parte
dell’intelletto non è mai altro che la causa accidentale della nostra volizione. E’ vero che noi dobbiamo
conoscere un oggetto per volerlo e che è il bene che in questo oggetto noi percepiamo a farcelo volere; ma è
ugualmente vero che se noi conosciamo questo oggetto piuttosto che un altro, è perché noi lo vogliamo. Le
nostre idee ci determinano, ma noi prima determiniamo la scelta delle nostre idee. Anche quando la
decisione dell’atto sembra irresistibilmente trascinata dalla conoscenza che noi abbiamo di un oggetto, è
quindi prima la volontà che ha voluto o accettato questa conoscenza, ed è infine essa sola che porta la
responsabilità totale della decisione. Così il pensiero di Duns Scoto, che può sembrare al primo momento
parente prossimo di quello di san Tommaso, se ne distingue invece sotto più di un aspetto, e non si tratta di
vane sottigliezze o di semplici cavilli di parole che dividono i due dottori. Entrambe le filosofie si servono
dello stesso materiale di concetti presi a prestito dalla filosofia di Aristotele, ma gli edifici costruiti con
questi materiali comuni sono di stili molto differenti:
1) Essi differiscono in primo luogo, se non per l’idea che i loro autori si fanno della dimostrazione filosofica,
almeno per il valore che essi le attribuiscono. Non si tratta più qui semplicemente di fare la distinzione tra
ciò che deve essere riservato alla rivelazione e ciò che è accessibile alla ragione, ma di ciò che si ha il diritto
di chiamare dimostrazione all’interno dello stesso ambito riservato alla ragione. E’ inteso che la Trinità o gli
altri dogmi di questo genere non potrebbero essere dimostrati razionalmente. Ma, in ciò che di solito si
considera dimostrabile, bisogna ancora distinguere tra:
- la dimostrazione a priori che va dalla causa all’effetto
- la dimostrazione a posteriori che risale dalla conoscenza di un effetto dato a quella della sua causa.
L’
San Tommaso sapeva perfettamente che secondo la dottrina aristotelica la seconda è inferiore alla prima, ma
egli la ritiene ancora sufficiente per fornire una conoscenza garantita della sua conclusione. Per Duns Scoto,
non c’è che una sola dimostrazione, ed è la prima. Ogni dimostrazione degna di questo nome si fa patendo da
una causa necessaria ed evidente e giungendo alla conclusione con un ragionamento sillogistico. Tutte le
prove dell’esistenza di Dio sono relative, perché noi raggiungiamo Dio sempre e soltanto partendo dai suoi
effetti. Non parliamo qui né di scetticismo né di relativismo kantiano, come si è creduto di poter fare; ma non
lasciamoci neppure sfuggire questa sfumatura che presenta il suo interesse. Dice san Tommaso: le prove
dell’esistenza di Dio non sono che delle dimostrazioni; constata Duns Scoto: le prove dell’esistenza di Dio
sono delle dimostrazioni, ma non sono che dimostrazioni relative. Vedremo come questa lieve divergenza
iniziale si allarghi e si accentui.
A proposito della dimostrazione degli attributi di Dio. Tra questi attributi ce n’è un certo numero che i
filosofi hanno conosciuto e che i pensatori cattolici possono dimostrare, almeno a posteriori; per esempio che
Dio è la prima causa efficiente, l’ultimo fine, la perfezione suprema, l’essere trascendente, e un gran numero
d’altri. Ma ce ne sono anche di quelli con cui i cattolici glorificano Dio e che i filosofi non hanno conosciuto,
per esempio: che Dio è onnipotente, immenso, onnipresente, vero, giusto e misericordioso, provvidenza di
tutte le creature intelligenti. Infatti i primi attributi si potevano dedurre in una certa misura per mezzo della
ragione naturale, ma gli ultimi non sono altro che credibili. Sono dei credibilia, e tanto più certi per il
cristiano dato che l’autorità divina li garantisce, ma di una certezza che non si fonda essenzialmente sulla
ragione. In questo rifiuto di portare la provvidenza divina nel numero delle tesi dimostrabili e conosciute
degli antichi filosofi, si scorge l’influenza esercitata dall’averroismo latino su dei teologi autenticamente
ortodossi. Duns Scoto ammette chiaramente che la nozione di provvidenza è estranea all’aristotelismo, e se
non ne deduce che la negazione della provvidenza sia vera per la ragione e falsa per la fede, perlomeno
ammette che essa è inconoscibile per la ragione e vera per la fede. Egli non ritiene che essa sia stata
dimostrata da Aristotele e nemmeno pensa che sia possibile dimostrarla filosoficamente con le sole risorse
della ragione. Non si sa con esattezza ciò che ne abbia pensato Aristotele e le prove che ne hanno dato i
filosofi sono piuttosto argomenti probabili che rigorose dimostrazioni. Infatti, è impossibile dimostrare
l’immortalità dell’anima sia a priori che a posteriori. Non la si può dimostrare a priori perché è impossibile
provare con la ragione naturale che l’anima è una forma sussistente per sé e capace di esistere senza corpo;
solo la fede può rendercene certi. Non si può nemmeno dimostrarla a posteriori perché, se si dichiara che
occorrono dei premi e dei castighi, si suppone dimostrata o dimostrabile l’esistenza di un giustiziere sommo,
e di ciò solo la fede ci dà garanzia; si dimentica anche che ogni errore è castigo a se stesso.
L’uomo teme la morte, ma anche gli animali la temono; tutte le considerazioni di questo tipo non provano
quindi nulla, e se si può considerare l’immortalità dell’anima come una conclusione probabile, non si può
trovare una ragione dimostrativa che ne faccia una conclusione necessaria: “non video aliquam rationem
demonstrativam necessario concludentem propositum”. La rivelazione si trova così ad avere un ruolo che
ancor più radicalmente la distingue dalla ragione. Dandoci una conoscenza oscura di ciò che rivela, la
rivelazione è in funzione di oggetto; essa prende il posto di questo oggetto, che ci sarebbe inaccessibile,
perché la ragione naturale è impotente a darci una conoscenza sufficiente del nostro vero fine. Anche se la
ragione naturale fosse sufficiente a provare che la visione e l’amore di Dio sono il fine dell’uomo, essa non
potrebbe provare che questa visione deve essere eterna e che l’uomo completo, corpo e anima, deve avere
Dio come fine. Così, filosofia e teologia procederanno insieme molto meno di quanto non facessero in san
Tommaso. Niente di ciò che è dimostrabile con la ragione è rivelato da Dio, e niente di ciò che è rivelato da
Dio è dimostrabile, salvo, beninteso, partendo dalla rivelazione. Partendone, sene possono dare delle ragioni
necessarie, come ammettevano Anselmo e Riccardo di san Vittore, ma la ragione, da sola, perde ogni
efficacia in quest’ambito; la via che condurrà alla separazione della metafisica e della teologia positiva è
ampiamente aperta, e i teologi del XIV secolo la percorreranno fino in fondo. Le prove dell’esistenza di Dio
sono esplicitamente a posteriori e assunte dalla considerazione degli effetti, come quelle di san Tommaso,
ma abbiamo notato in lui una tendenza fortissima a relegare in secondo piano l’evidenza sensibile che
fornisce alla prova il suo punto di partenza per fondarsi sulle relazioni necessarie tra concetti che si rifanno
all’esperienza. Duns Scoto ragione di preferenza partendo dal necessario, cioè sviluppando il contenuto di
certe nozioni originariamente prese dall’esperienza, ma sulle quali una volta colte dall’intelletto l’esperienza
non ci insegna niente. Indubbiamente, Duns Scoto ammette che, in effetti, ogni conoscenza umana inizia dal
sensibile, ma di fatto l’intelletto umano dovrebbe poterne fare a meno, e il metafisico deve fare di tutto pe
farne a meno. Duns Scoto non è d’accordo con san Tommaso né sulla natura dell’intelletto umano, né su
quella del suo oggetto proprio. La metafisica del Dottor Sottile si edifica sulla natura communis, l’essenza
indeterminata di Avicenna, come sul suo fondamento obbligato. Si potrebbe sostenere senza inesattezza che,
contrariamente all’idea che ci si fa dalle loro opere, né Tommaso d’Aquino, né Duns Scoto sono partiti da
Aristotele; diciamo per lo meno che non partono dallo stesso Aristotele. Quello di san Tommaso assomiglia
molto all’Aristotele di Averroè, quello di Duns Scoto assomiglia piuttosto all’Aristotele di Avicenna.
L’intera opera di Duns Scoto porta il segno di questa preoccupazione. Si è voluto vedere, in quello che si
trova in essa di volontarismo, il segno di un’influenza mussulmana. Senza dubbio, ma in un senso
esattamente contrario a quello che si crede. Non è il Dio della religione mussulmana ad aver suggerito a
Duns Scoto di rivendicare per il Dio cristiano i pieni poteri di una volontà senza limiti; è il Dio incatenato al
necessitarismo greco dei filosofi arabi ad aver provocato questa reazione cristiana nel pensiero di Duns
Scoto. Se la filosofia può innalzarsi da sola a concepire una specie di creazione, essa non può
rappresentarsela che come una emanazione, ciascun momento della quale è l’attualizzazione concreta del
momento ideale corrispondente di una dialettica necessaria. Il necessitarismo greco dell’intelletto, cioè il
pensiero puro di Aristotele, ecco ciò che si nasconde dietro ad Averroè e ad Avicenna, e questo
necessitarismo dell’intellegibile è la sostanza stessa di cui sarà fatta ogni filosofia, a meno che essa non si
elevi oltre l’essere, fino all’esistenza. La molla segreta della dottrina di Scoto è la sua decisione
incessantemente riconfermata di impedire al mondo di emanare dall’intelletto divino come conseguenza di
tutto ciò che può elevare Dio al di sopra di queste stesse idee, poi, per garantire efficacemente la frattura,
separa la creatura dal creatore mediante il decreto di una volontà suprema. Era certamente la liberazione del
Dio cristiano dal necessitarismo greco, ma era renderlo intellegibile al pensiero filosofico per il quale il
legame necessario dei principi con le conseguenze è la condizione di ogni intellegibilità. E’ una tentazione
fortissima quella di semplificare questa storia dicendo che Duns Scoto ha continuato Avicenna come san
Tommaso aveva continuato Averroè. E’ vero che, tecnicamente parlando, san Tommaso deve di più ad
Averroè e Duns Scoto deve di più ad Avicenna; la cosa è importante ed è una delle chiavi necessarie per
l’interpretazione storica delle loro opere; ma, quanto al fondo delle dottrine, né l’uno né l’altro dei teologi
poteva continuare né l’uno né l’altro dei filosofi, nemmeno in filosofia. Ciascuno di loro ha quindi rotto col
suo predecessore, benché in condizioni differenti. San Tommaso ha rotto con Averroè come filosofo e sul
terreno della filosofia trasportano la metafisica aristotelica della sostanza, col determinismo che essa implica,
sul piano di una metafisica degli atti di esistenza, con la contingenza e la libertà ch’essa comporta. Per questo
San Tommaso può continuare a risolvere, come filosofo, per quanto in maniera differente, quasi tutti i
problemi che i filosofi avevano posto prima di lui. Duns Scoto ha rotto con Avicenna come teologo
lasciandogli, per così dire, la filosofia, riproverandogli anche talvolta d’aver indebitamente ornato la
metafisica con le piume della teologia, riducendo di conseguenza al minimo i limiti di validità della teologia
natura. La ragione naturale non può dimostrare un Dio assolutamente onnipotente senza rendersi
inintellegibile l’esistenza di cause seconde. Perché ve ne sarebbero, dato che la causa prima può fare tutto
immediatamente senza di esse? Allora non si capisce nemmeno come ci siano imperfezioni e male nel
mondo, dato che Dio diventa personalmente responsabile di tutti gli effetti prodotti. Su tutti questi punti, e se
ne potrebbero citare altri, Duns Scoto sembra aver considerato la filosofia cieca di nascita e senza speranza
di guarigione. San Tommaso non aveva disperato così della filosofia, perché egli l’aveva trasformata; la sua
opera è una vittoria della teologia nella filosofia; Duns Scoto ha disperato della filosofia pura perché egli ne
ha preso atto come di un fatto: la sua opera non poteva essere che la vittoria della teologia sulla filosofia. Le
due opere sono quindi di spirito assolutamente diverso. Lo stesso Duns Scoto era innanzitutto un teologo.
Egli non s’è attardato quindi a costruire una filosofia pura, rispettando i limiti accessibili alla ragione
naturale nella situazione in cui essa si trova posta, sia per conseguenza di un libero decreto divino, sia per
castigo del peccato originale. Questi principi nondimeno contenevano il germe di una possibile critica
teologia della filosofia naturale, che infatti si trova abbozzata in uno scritto intitolato Theoremata e
tradizionalmente attribuito a Duns Scoto. Essendo stata di recente contestata questa attribuzione è prudente
esporre la filosofia del Dottor Sottile come se quest’opera non fosse sua e aspettare che la critica esterna
decida di fatto questo problema. Qualunque debba essere la sua decisione, l’opera sussiste, ed essa è di
un’importanza capitale in questo almeno, che si vede effettuarsi in essa il divorzio quasi completo della
teologia dei teologi e della teologia dei filosofi, in nome di principi filosofici uguali a quelli di Duns Scoto ed
esattamente opposti a quelli che vedremo motivare lo stesso divorzio in Guglielmo d’Ockham.
Egli apparteneva all’ordine dei francescani. Guglielmo d’Ockham è il punto d’arrivo filosofico e teologico
dei movimenti intimamente legati alla storia della logica medievale fin dal tempo di Abelardo e della crisi
averroista: della fine del XIII secolo. L’unità della sua opera deriva dalla coincidenza di interessi filosofici e
di interessi religiosi senza nessuna origine comune, che nulla chiamava a congiungersi, e che senza dubbio
sarebbero sempre rimasti separati se il genio di Ockham non li avesse fusi nell’unità di un’opera in cui gli
uni e gli altri hanno trovato la loro perfetta espressione. Ockham riconosce come valido e stringente un solo
genere di dimostrazione. Provare una proposizione consiste nel mostrare sia che essa è immediatamente
evidente, sia che essa si deduce necessariamente da una proposizione immediatamente evidente. Lo studio di
Guglielmo d’Ockham permette di constatare un fatto storico di fondamentale importanza e che si misconosce
costantemente, e cioè la critica interna condotta contro se stessa da quella che si chiama, con un termine assai
vago, la filosofia scolastica, ne ha provocato la rovina ben prima che la filosofia moderna fosse riuscita a
costituirsi.
La conoscenza intuitiva è la sola che verte sull’esistenza e che ci permette di raggiungere i fatti. La
conoscenza intuitiva quale noi la definiamo è quindi il punto di partenza della conoscenza sperimentale. Essa
è la conoscenza sperimentale stessa e che ci permette successivamente di formulare, con una
generalizzazione della conoscenza particolare, quelle proposizioni universali che sono i principi dell’arte e
della scienza. Il modo così caratteristico in cui egli si serve di questo principio aristotelico, in caso di
necessità contro lo stesso Aristotele, non si spiegherebbe senza la preminenza incontestata che riconosce e
vuol garantire alla conoscenza sperimentale. Ockham si impegnerà attivamente a spiegare le cose nel modo
più semplice possibile e a sgombrare il campo della filosofia dalle cause immaginarie che l’ingombrano. Si
vuol sapere se un’essenza esiste. Bisogna cercare di constatarla, e in tal caso si vedrà sempre ch’essa
coincide con il particolare. Se si vuol affermare con sicurezza la causa di un fenomeno, è necessario e
sufficiente farne l’esperienza. Uno stesso effetto può avere parecchie cause, ma non bisogna attribuirgliene
nessuna senza necessità.
…CONTINUA SU RIASSUNTO1