Potere e Secolarizzazione
Potere e Secolarizzazione
Potere e Secolarizzazione
I. SECOLARIZZAZIONE E LEGITTIMITA’
“Secolarizzazione” è una metafora. La parola ha conosciuto, nel corso del XX secolo, una notevole estensione
semantica; prima al campo storico-politico – in seguito all’espropriazione dei beni e dei domini religiosi fissata dal
decreto napoleonico del 1803 – e successivamente al campo etico e sociologico, dove è venuta ad assumere il
significato di categoria genealogica in grado di comprendere in sé il senso unitario dello svolgimento storico della
società occidentale moderna. “Secolarizzazione” indica il passaggio dall’età della comunità a quella della società, da un
vincolo fondato sull’obbligazione a uno fondato sul contratto, dalla “volontà sostanziale” alla “volontà elettiva”. In una
importante opera del 1966 Hans Blumenberg ha contestato la capacità della metafora della secolarizzazione di
esprimere la complessità dell’epoca moderna: per il fatto di postulare non originarietà, ma solo derivazione ed
eterodeterminazione del Moderno, essa non può essere considerata “una metafora assoluta” ossia originaria. A essa
Blumenberg contrappone la categoria di “legittimità”, radicata in quella che egli ritiene l’autentica metafora assoluta
della Modernità: la “rivoluzione copernicana” capacità dell’individuo di riappropriarsi del proprio destino in
un0immanenza senza residui, di auto-affermarsi come produttività libera. Il rapporto tra le categorie della modernità e
i teologemi non andrebbe inteso in termini di trasformazione, di metamorfosi, bensì in termini di dissoluzione, il
concetto di legittimità presenterebbe così il vantaggio di indicare lo stesso fenomeno denotato dal termine
secolarizzazione, ma “da un punto di vista immanente e senza connotazioni derogatorie”. Dalla traccia complessa della
sua argomentazione affiorano tuttavia alcuni problemi di merito che sono stati lasciati in sospeso, e richiedono
pertanto un approfondimento ulteriore: innanzitutto, anche la “legittimità” è una categoria giuridica, e l’estensione
metaforica del suo uso genera problemi non meno delicati di quelli cui dà adito il concetto di secolarizzazione; in
secondo luogo, l’idea della modernità come processo non tanto trasformativo, quanto piuttosto dissolutivo delle
ipostasi teologico-metafisiche non è affatto estranea alla tesi della secolarizzazione, ma ne presenta al contrario una
variante interna. La nozione di “secolarizzazione” viene oggi usualmente definita in riferimento a tre principi
fondamentali: il principio dell’azione elettiva; il principio della differenziazione e specializzazione progressiva; il
principio della legittimazione (intesa come riconoscimento, o addirittura istituzionalizzazione, del mutamento). Una
tale definizione reca due implicazioni perfettamente consentanee all’analisi di Blumenberg.
1) La prima di esse riguarda la questione dell’individuazione, intendendo con questo termine il progressivo emergere
dell’autodeterminazione del soggetto e della “coscienza di se stesso”: questo aspetto comporta un particolare modo
culturale di stabilire la linea di demarcazione tra soggettività e oggettività.
2) La seconda implicazione riguarda l’aspetto per cui l’affermarsi del principio elettivo lascia di per sé impregiudicata
l’adozione del criterio di scelta che può essere di tipo razionale-strumentale o di tipo emozionale-fideistico, di tipo
razionale-strategico o di tipo razionale-comunicativo: la conseguenza di ciò è il rapporto strettamente biunivoco che si
viene a instaurare tra secolarizzazione e aumento di complessità del “mondo sociale”.
I tratti distintivi della secolarizzazione sarebbero così “giunti a una forma estrema, portando alle ultime conseguenze
logiche l’estensione della sfera dell’agire sociale e interindividuale”. Apparentemente, la sociology of secularization
americana e la teologia e la filosofia tedesca degli anni successivi alle due guerre mondiali non hanno nulla in comune,
salvo il fatto di risalire entrambe alle tematiche della sociologia europea a cavallo tra Otto e Novecento. In realtà esse
stanno come due lati di una stessa medaglia: quella guarda alla direzione e all’esito finale del processo, questa alla
riconduzione genealogica; l’unica è scienza delle “conseguenze”, l’altra filosofia dell’origine. La funzione polemica
svolta dal concetto di secolarizzazione nel Kulturkampf del secolo scorso, ritorna, ma capovolta: anziché indicare un
progresso storico universale, il termine sta ora al centro di una teoria del progressivo decadimento che coinvolge nella
sua critica l’intero complesso dei valori della Modernità. A entrambe le prospettive interpretative sfugge pressoché
interamente il tratto peculiare della concezione weberiana della secolarizzazione. La categoria di secolarizzazione
gioca in Weber, una funzione centrale: il modo in cui egli l’utilizza consentirebbe di “porre tutti i suoi studi di
sociologia religiosa sotto questo titolo”. In Weber, l’analisi della secolarizzazione è disposta in modo tale da escludere
qualsiasi curvatura valutativa che rischi di condizionarne l’efficacia e la chiarezza. Il “discernimento” non comporta un
mondo tout-court de-ideologizzato o desacralizzato: può comportare anche, quel ritorno degli “antichi dèi” che
“aspirano a dominare sulla nostra vita e riprendono quindi la loro eterna contesa”. Il Progresso ha sì definitivamente
perduto la sua primitiva carica assiologica; ma il riconoscimento della realtà del procedere verso la “razionalizzazione
del mondo” rimane la sola e ineludibile condizione della scelta e dell’agire dell’individuo moderno. Non meno radicale
e profondo si presenta l’approccio al problema in Barth e in Gogarten. Le loro posizioni possono essere riassunte nei
termini di un atteggiamento di “indifferenza” nei riguardi della secolarizzazione. Il concetto di secolarizzazione esprime
la crescente connessione storica tra religione e cultura, il progressivo “storicizzarsi” e “mondanizzarsi” della religiosità.
La “secolarizzazione” esprime una realtà, ma non può costituire l’oggetto primo della teologia in quanto dottrina della
fede: i testi barthiani cercano invece di smascherare le “illusioni”, l’idea cioè che la famiglia, lo Stato o la società
possono essere “cristianizzati”. La secolarizzazione viene teologicamente legittimata come funzione di comprensione
della cosiddetta christliche Kultur, ma la liberazione del mondo, che può essere così “soltanto” mondo, è al tempo
stesso liberazione della fede dal mondo. L’emancipazione della tesi della secolarizzazione del rigido schema binario
sacro-profano: la radicalità del disincanto, della Entzauberung, non dissolve la dimensione della fede, ma è al contrario
la condizione perché quest’ultima possa esprimersi nella sua purezza. Se la secolarizzazione è “la conseguenza
necessaria e legittima della fede cristiana”, il secolarismo ne è invece un’espressione “degenerata”. Secolarismo è cioè
quell’atteggiamento che pretende di “invadere il campo che è di pertinenza della fede”: atteggiamento tutt’altro che
profano, alimentato dalla “credenza” nel carattere “onnidecisionale” dei criteri politici o “culturali”, eleva il mondo alla
dignità dell’assoluto; in una parola: lo sacralizza. L’incongruità dello schema sacro-profano a significare la
problematicità del concetto di secolarizzazione. Alain Touraine ha potuto scrivere: “E’ pericoloso parlare di
secolarizzazione quando le società industrializzate, come tutte quelle che le hanno precedute, sono orientate da un
modello culturale. Ora esso è “pratico” e non più metasociale”. Il progresso è un modello culturale più pratico di
quanto non siano Dio o il sovrano; tuttavia tutto ciò che esso tocca diventa sacro. Ci troviamo qui di fronte a un tipico
caso in cui la pretesa di confutare la categoria di secolarizzazione viene avanzata adducendo proprio quei motivi che
dovrebbero invece indurre a mantenerla o ad approfondirla. Un’analoga ritorsione degli argomenti addotti è possibile
anche rispetto alla liquidazione del concetto di secolarizzazione operata da Blumenberg. Occorrerebbe prendere in
esame la stessa dimensione della “autodecisione” e della coscienza del Sé, non dipendano nel mondo moderno da
modelli concettuali, codici simbolici e quadri metaforici di eterodeterminazione dell’agire dei “soggetti”. Se, e in che
misura, la chiave di questo meccanismo di eterodeterminazione non stia appunto nei pilastri categoriali portanti della
Modernità: “progresso”, “rivoluzione” e “liberazione”. Nel tratto che le accomuna e le fonda: la forma della
temporalità propria dell’Occidente moderno.
L’idea di processo “risolutore” implica nella struttura categoriale di “progresso”, “rivoluzione” e “liberazione” postula
una forma della temporalità che non può essere sic et simpliciter derivata dallo schema heideggeriano della “storia del
nihilismo e della metafisica” proprio in quanto introduce quell’elemento della Soluzione, che era sconosciuto
all’intuizione classica del tempo: il tempo peculiare del Moderno sarebbe così il risultato non di una continuità, ma di
una rottura; ciò che in esso si secolarizza non è dunque un Principio innervato sin dalle origini nella Aufklarung
dell’Occidente, ma piuttosto l’idea di èscaton propria del messaggio di redenzione giudaico-cristiano. Questa è la tesi
fondamentale di Karl Löwith. Il tentativo più ricco e fondato di confutazione è venuta tuttavia da uno studioso italiano
di grande rilievo come Santo Mazzarino. Scrive Mazzarino: “Una buona parte dell’indagine moderna, ha parlato, sulla
base di Agostino, di una temporalità circolare pagana, di contro a una temporalità lineare giudaica e infine cristiana. La
temporalità pagana consisterebbe nella dottrina dell’Eterno Ritorno; quella giudaica e cristiana in una linea. La
temporalità giudaica e cristiana darebbe un senso alla storia; nella temporalità pagana la storia non avrebbe un suo
significato. Mazzarino omette di segnalare la peculiarità dell’atteggiamento löwithiano rispetto a quello di Cullmann e
Bultmann: il fatto, cioè, che il negare alla Zeitauffassung classica una caratterizzazione in chiave moderna del Senso
della Storia non comporta, per Löwith, alcun giudizio svalutativo, ma al contrario un apprezzamento altamente
positivo di essa. Fin da Aristotele: “Il tempo sembra essere il movimento della sfera, perché è questo movimento che
misura gli altri movimenti e misura anche il tempo […] e anche il tempo sembra essere una specie di cerchio […] per
cui dire che le cose generate costituiscono un cerchio, è dire che vi è un cerchio del tempo”. Ritornando alla critica di
Mazzarino, va subito detto che essa è condotta lungo un tracciato argomentativo estremamente complesso, che si
avvale di una straordinaria ricchezza di riferimenti.
In primo luogo, la distinzione tra una versione cosmologica e una versione storica dell’Eterno Ritorno. Mentre la
dottrina cosmologica dell’Eterno Ritorno implica l’idea della distruzione del ciclo del mondo e della sua puntuale
ripetizione in tutta la serie dei suoi eventi, la dottrina stoica contempla il Ritorno millenario come un ricordo che non
prelude all’identità di un ciclo con quello successo. A questa seconda versione della dottrina dell’Eterno Ritorno
appartiene la palingenesia per eccellenza dell’antichità: IV Ecloga di Virgilio. Il “palin”, insomma, non implica piena
identità del Ritorno; anzi, in un certo senso, la esclude”. Per converso, nella “seconda lettera di Pietro”, la polemica nei
confronti dei negatori della Parusia viene condotta proprio sulla base di una versione cosmologica del ciclo delle
distruzioni e delle rigenerazioni: versione cosmologica del ciclo delle distruzioni e delle rigenerazioni. Non si può dire
che il cristianesimo antico sostituisca una Zeitauffassung “lineare” auna “ciclica”. Dovremmo dire che ci sono da un
lato cosmologie con Zeitauffassung ciclica con inizio e distruzione dei cosmi, come quella stoica e quella cristiana della
“seconda lettera di Pietro”, e dall’altro lato cosmologie con Zeitauffassung più o meno “lineare”, come quella
peripatetica, che infatti nega origine e distruzione del cosmo.
Il secondo tema è quello relativo all’intreccio tra componente “sacra” e componente “profana” sottesa la questione
del rapporto intercorrente tra i due termini-concetti con cui i greci designavano il tempo: chronos e αίων. L’idea di
αίων è generata dalla confluenza di due aspetti della temporalità: quello della durata e quello della forza vitale. Nella
fenomenologia dell’intuizione del tempo propria del vocabolario indoeuropeo, un posto di rilievo è occupato da due
radici connesse all’idea di durata: quella da cui deriva il nome della dea britannica Setlo-cenia e il latino saeculum, e
quella da cui proviene, appunto, αίων e il latino aevum. La delimitazione della durata non è, tuttavia, cooriginaria al
termine (esso possiede soltanto l’intuizione del tempo come tempo vissuto), ma piuttosto l’effetto di una successiva e
graduale caratterizzazione semantica. In Omero, αίων, sta ad indicare il tempo della vita umana, in Eraclito è già il
fanciullo che si diverte con le pietruzze, in Empedocle indicatore degli intervalli epocali, finché con Platone non
assume il significato di eternità atemporale. Se αίων coincide con il tempo vissuto, chronos coincide con il tempo
misurato. Aίων e chronos, presentano in Platone e Aristotele “un’accezione conforme all’intuizione semantica greca di
queste due parole, proiettata nei loro rispettivi sistemi filosofici”. La vicenda dell’origine e dell’interdipendenza
semantica tra queste due intuizioni distinte della temporalità fornirebbe così, per Mazzarino, una dimostrazione
probante della necessità non solo di tenere intrecciati “tempo ciclico” e “tempo rettilineo” ma anche di elaborare una
teoria dell’interferenza tra “tempo sacro” e “tempo profano”. Queste puntualizzazioni di Mazzarino, sembrano
tuttavia, piuttosto che una liquidazione o confutazione della tesi di Löwith, un invito a nuancer in vario modo, e ad
articolare analiticamente, i termini della “cesura”. Numerose ammissioni suonano come un’indiretta conferma
dell’ipotesi löwithiana. La spia del sostanziale fraintendimento della posizione di Löwith sta in un passaggio ben
determinato dall’analisi di Mazzarino: quello in cui viene ricostruita la polemica di Plotino “contro gli gnostici”.
Secondo Mazzarino, Plotino prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come “un contrasto tra
chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianza, e chi invece non l’ama, predicandone la fine,
e con questa la fine delle disuguaglianze”. Per Löwith, la radice, il fondamento nascosto della moderna idea di Storia
sta proprio nel disprezzo cristiano per il mondo e, anche se, il “disprezzo” non appare più tale, esso mantiene tuttavia
il proprio retaggio d’origine nell’idea di una costitutiva instabilità e plasmabilità della realtà storica: essa non è più in
sé. La forma della temporalità che fa da sfondo a questa idea della storica-processo è, come ha notato Cullmann,
quella dell’unicità assoluta dell’evento. Mazzarino evita, tuttavia, di porre la questione fondamentale implicata da
questo “incontro”: se esso comporti, cioè, una contaminato, o un generico “arricchimento”, oppure piuttosto una
metamorfosi fondamentale dell’intuizione del tempo. E’ con Agostino che la dimensione temporale del chronos
comincia a saggiare le proprie virtualità “periodizzanti”.
La gnosi ha finito per rappresentare non soltanto il luogo genetico remoto, ma la causa diretta di tutti i mali e le
perversioni del mondo moderno: è dal tempo gnostico dunque – e non dal tempo messianico giudaico-cristiano – che
questo avrebbe mutuato le sue principali categorie, in particolare quelle più “radicali”: le idee di “autodecisione
individuale”, “liberazione” e “rivoluzione”. La tesi dello gnosticismo come “caratteristica della modernità”, è racchiusa
nel concetto di immanentizzazione. La peculiarità dell’atteggiamento gnostico non starebbe infatti tanto nell’enfasi
posta sull’èscaton, ma piuttosto nella sua introiezione esistenziale. In questa immanentizzazione-introiezione
dell’èscaton sta dunque la scaturigine di quell’idea di “autoredenzione” che costituisce la chiave esplicativa della
“modernità” della gnosi. Le esperienze gnostiche, in tutta la loro varietà, sono il centro da cui si irraggia il processo di
ridivinizzazione della società, perché gli uomini che si abbandonano a queste esperienze divinizzano se stessi
sostituendo alla fede in senso cristiano una più concreta partecipazione alla divinità. La comprensione di queste
esperienze come centro attivo di irradiamento dell’escatologia immanentistica fornirebbe, secondo Voegelin, la chiave
per dischiudere “l’intima logica dello sviluppo politico occidentale”. La tesi di Voegelin è stata ripresa, in Italia, da
Augusto del Noce, nella cui interpretazione il tema dell’immanentizzazione ha trovato una originale traccia di
approfondimento nel concetto prassismo. Con questa parola s’intende la tendenza, specificamente moderna, a
risolvere ogni genere di problematica – sia “pratica” che “teorica” – in termini di prassi. Tale risoluzione conseguirebbe
“all’idea dell’autoredenzione sostituita alla redenzione da parte di Dio, che comporti la completa inversione della
concezione religiosa del peccato: la creazione dell’idea di Dio è il peccato da cui l’uomo deve liberarsi”.
“Metaumanità” si realizza interamente nella prassi. La tesi del rataggio gnostico all’interno della Modernità sostenuta
da Ernst Topitsch presenta sensibili differenze non solo nell’ordine dei singoli passaggi argomentativi, ma nella stessa
impostazione filosofica generale. Topitsch non manca anzi di criticare la posizione di Voegelin. Conformemente alla
propensione irriducibilmente antidialettica del suo pensiero, il filosofo austriaco individua il centro di irradiazione
dell’influenza gnostica sulle ideologie contemporanee in una forma particolare di pensiero: quella dell’idealismo
tedesco. Si diffonderebbe così l’atteggiamento mitico e antiscientifico tipico di molte delle ideologie utopico-
rivoluzionarie contemporanee, e in primo luogo del marxismo, che costituisce per Topitsch la vera e propria gnosi
della Modernità. Topitsch non nega la presenza in Marx di aspetti “schiettamente scientifici”; essi si troverebbero
tuttavia mescolati agli “elementi mitici” provenienti dalla immanentizzazione hegeliana dello schema triadico della
divinità: schema che verrebbe da Marx ulteriormente secolarizzato attraverso la sostituzione del Dio gnostico e
dell’autocoscienza con l’umanità, la quale raggiungerebbe la pienezza tramite l’Aufhebung di ogni forma di
“estraniazione”.
Lo stesso Del Noce, sembra farsi interprete di una tale esigenza quando afferma: “Il futuro si sostituisce all’aldilà, e in
relazione a questa sostituzione opposizione tutti i concetti teologici ritornano nel pensiero rivoluzionario, ma
completamente trasvalutati. Ora, l’aspetto cruciale di questa “trasvalutazione” consiste nel carattere progettuale-
costruttivo che i concetti-cardine della modernità vengono ad assumere in conformità all’intuizione cumulativo-
progressiva del tempo. H. W. Bartsch, con la gnosi, per la prima volta, il dualismo non si presenta più come interno al
Cosmos, ma tende a configurarsi come una negazione del mondo nella sua interezza. D’altra parte la peculiarità
dell’intuizione gnostica del tempo, non consiste in nessuna particolare “invenzione”, ma piuttosto nel fatto di porsi al
crocevia di tre correnti e tradizioni culturali in crisi: quella del messianismo ebraico, quella del neoplatonismo
ellenistico e quella delle escatologie orientali. Lo sforzo fondamentale dello gnostico è quello di “per trascorrere il
tempo di stabilirsi, nel modo più assoluto possibile, nel mondo delle realtà senza tempo, in un universo intelligibile e
da eternamente”. Da questo punto di vista l’ “attitude gnostique” sembra riprendere quella dell’ellenismo: con la sola
ma decisiva differenza che là dove i greci scorgevano l’immagine necessaria e vera dell’eternità, la gnosi scorge invece
caricatura e menzogna. La gnosi non può concepire né il temporale puro del cristianesimo, né l’atemporale puro della
filosofia greca. Questa struttura mitica è definita da Puech come una sorta di atemporale articolato: in essa, il mondo
intelligibile del Pleroma perde la sua immutabilità per divenire teatro delle mutevoli avventure degli Eoni, mentre gli
eventi concreti della durata storica vengono trasformati in supporti, echi o simboli delle avventure di questo dramma
senza tempo. Per quanto rischi di risultare un ibrido, il tempo mitico della gnosi non è né greco né cristiano, ma
risponde ad un atteggiamento specificamente autonomo. E’ possibile dar mano a un lavoro inteso a rintracciare e a
disseppellire le tracce gnostiche trasmesse all’universo concettuale e simbolico della modernità della contaminatio di
“classico” e “cristiano” che caratterizza la cultura medievale. Queste tracce sono rinvenibili anche nei moderni concetti
di progresso, rivoluzione e liberazione. Esse sono in grado illustrarne la peculiare curvatura, non di spiegarne
casualmente il funzionamento e la forma “tipicamente costruttiva”. Una ricerca non solo genealogica, ma anche
“archeologica” sull’irradiazione dei temi gnostici non può dunque essere condotta fuori della consapevolezza del
permanere, nell’ambito della secolarizzazione moderna di una continua transazione tra logos e mythos, che solca
profondamente la stessa intuizione del tempo.
Alfred North Whitehead ha affermato a chiare note l’impensabilità della genesi dell’atteggiamento scientifico che oggi
caratterizza lo “spirito europeo”. “Quando paragoniamo il tono del pensiero europeo con l’atteggiamento
indipendente di altre civiltà abbiamo l’impressione sicura che il primo sia originato da una sola fonte. Non può infatti
che provenire dal concetto medievale che insisteva sulla razionalità di Dio, alla quale veniva attribuita l’energia
personale di Jeova e la razionalità di un filosofo greco”. Il problema del perché, e non già del come, la scienza moderna
sia potuta nascere solo nell’Europa cristiana non costituisce, infatti, soltanto l’oggetto di una querelle storiografica, ma
deve essere piuttosto affrontato in termini rigorosamente filosofici e concettuali. Abbiamo assegnato alla posizione
heideggeriana il posto e lo spazio che di diritto dovrebbe competerle in ogni seria considerazione del problema. Essa
consente, infatti, di focalizzare due aspetti decisivi: quello della “rappresentazione produttiva” e quello del Moderno
come spazio connotato dalla persistenza della metafisica. Il primo aspetto rimanda al carattere di rottura della scienza
moderna, fondata sul principio pratico-produttivo della calcolabilità-manipolabilità del mondo; il secondo al tema
dell’insopprimibilità del fondamento: al fatto, cioè, che l’affermarsi del carattere produttivo della “rappresentazione”,
non risolve, ma semplicemente sposta, i termini del problema del fondamento, trasmettendoli alla sfera del Cogito. Di
qui la netta divaricazione che si apre tra il concetto di immagine e quello di visione: la cartesiana solius mentis
inspectio mette capo a un’idea di Sostanza-subjectum non più come forma dell’ente, ma come Ego del Cogito. Nel
circolo che si profila tra produttività e fondamento, divenire e presupposto, mutamento e sostrato, forma e soggetto,
il principio di costruttività si dà insieme a quello di deiezione nell’immanenza: per cui la stessa storicità si configura
come un prodotto specifico della Metafisica. Solo quando giunge ad esplicare pienamente la sua produttività non solo
sull’oggettività naturale ma anche sul mondo storico il progetto della Ragione perviene al culmine della “volontà di
potenza”. Sarebbe importante, approfondire il discorso lungo due traiettorie:
2) la seconda traiettoria persegue invece l’individuazione dell’ingresso di una nuova idea di temporalità attraverso
l’analisi del cambiamento delle figure e delle metafore che accompagnano la genesi del Weltbild nel XVII secolo.
Come ogni fase di passaggio e di “transizione” culturale, anche quella rappresentata dal Weltbild seicentesco mette a
nudo uno scompenso logico, una crepa nella forma dominante della razionalità. Attraverso di essa fa irruzione la
metafora, la quale si avvale sempre del materiale figurale consegnato dalla tradizione. Il dominio della metafora gioca
a cavallo tra Cinque e Seicento un ruolo affatto particolare: quello di riflettere la precarietà di una rappresentazione
equilibrata della figuralità spaziale in una fase di radicale trasformazione dell’intuizione sociale del tempo. Il tempo
sidereo, presente dai primordi della letteratura, si è spostato ora d’un balzo dai cieli all’interno della casa. La caducità
della vita e l’amore vengono entrambi avertiti più acutamente da quanto “il lento moto della mobile lancetta”
attraversa il quadrante. “Mutamento di scena” si accompagna comunque una perdurante presenza della metafora
della ruota e del ciclo. In realtà quelle metafore avevano iniziato a perdere la loro funzione sin dall’epoca
rinascimentale. Non erano più in grado di svolgere la funzione paradigmatica che esse saldamente detenevano nella
cultura classica. Attraverso quella che egli chiama una “re-interpretazione” dell’immagine classica di chronos,
l’iconografia rinascimentale avrebbe, per Panofsky, creato una nuova tipologia figurale: quella del “Padre Tempo”. Là
dove l’arte classica raffigurava il Tempo soltanto o come Opportunità fuggente, o come creativa Eternità, l’arte del
Rinascimento fornisce il nuovo “tipo” del Padre Tempo attraverso una fusione tra la raffigurazione scolastica
medievale del “Temps” e l’agghiacciante e sinistra immagine di Saturno. Ne risulta, una raffigurazione del Tempo
come edax rerum, Divoratore e Distruttore. L’aspetto figurale e metaforico acquista un’importanza ancora maggiore.
La metafora è del resto indicata come il “punto nevralgico” della cultura seicentesca. In un recente libro Francesco
Orlando a ripreso le analisi di Rousset per porre una questione di importanza decisiva: come si spiega la
contemporaneità tra una cultura artistica e letteraria fondata sulla metafora come “regina delle figure” e gli sviluppi
della nuova scienza che rifiuta risolutamente i procedimenti analogici? “L’ostilità della nuova scienza alla metafora –
scrive a questo riguardo Rousset – non deve sorprendere, poiché essa rifiuta il sistema dell’analogia universale e delle
corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo, sistema che costituisce il fondamento ontologico della metafora.
Questa liquidazione del paradigma analogico è resa possibile, all’interno del Weltbild scientifico della Modernità,
dall’isolamento di una più astratta e potente operazione di confronto: la somiglianza viene sì esclusa come esperienza
fondamentale e forma prima del sapere; ma ciò avviene sulla base di una particolare operazione concettuale, che
potremmo definire generalizzazione dell’atto del confronto. Ogni evento, aspetto e contesto va ora analizzato in
termini di identità e differenza. E ciò avviene tramite la procedura del confronto inteso nella sua forma pura. Ma come
è possibile che una siffatta prestazione conoscitiva abbia un carattere di verità? Siamo qui nel cuore teoretica del
problema seicentesco dell’ordine. La forma che esprime questo problema è, ora, quella della “mathesis”, facoltà di
quantificare, razionalità capace di produrre una determinazione quantitativa dei rapporti tra le cose. Foucault “tutto
ciò è stato di grande portata per il pensiero occidentale. Il somigliante che era stato, per molto tempo, una categoria
fondamentale del sapere, viene a essere dissociato all’interno di un’analisi fatta in termini di identità e di differenza. Il
confronto viene riferito all’ordine”. “Il confronto non ha più come compito di rivelare l’ordinamento del mondo; esso
si effettua secondo l’ordine del pensiero e nel naturale procedere dal semplice al complesso”. Si spiega così
l’apparente paradosso della convivenza tra crisi della similitudine e pervasività della metafora nel XVII secolo. L’età del
simile è tramontata, come messa in scena della similitudine. Tempo che trova la sua espressione nel topos del mondo
come teatro. L’atto di nascita della politica moderna è dunque caratterizzato dall’esclusione di qualsiasi spazio di
riscatto e di “redenzione”. La politica ordina e misura, dunque: protegge e garantisce, “conserva la vita”, ma non
“libera”. Questo assestamento dell’ordine realizzato dal principio produttivo-costruttivo e quantificante della mathesis
è esposto tuttavia alle oscillazioni determinate dello stato d’incertezza conseguente al crollo del vecchio universo. “La
vita è un sogno”, essa è par excellence l’opera metafisica sul potere, in quanto descrive perfettamente la
fenomenologia dello sganciamento del potere della palpabilità sensibile: basandosi esclusivamente sui sensi,
Segismundo non riesce a decidere sul proprio stato di veglia o di sonno. La sola certezza si rivela, allora, quella
proveniente dal fondamento etico della decisione. E’ possibile scorgere nei mutamenti intervenuti nella grande fase di
“transizione” che va dal Trecento al Seicento quel diverso atteggiarsi dell’intuizione del tempo che metterà capo a un
concetto di storia esattamente rovesciato rispetto al significato classico di “testimone”, fondato sul predominio del
momento teoretico (lo storico = giudice testimone di un evento). Tale metamorfosi è percepibile già nel progressivo
imporsi, nelle arti figurative, di una immaginazione creaturale connessa al simbolismo del tempo e dal concomitante
delinearsi dell’elemento della fruizione come stretto correlato della “bellezza” estetica. Il Bello è fruizione, non
contemplazione. La funzione soterica dell’immaginazione si trova già chiaramente delineata nell’opera di Raffaello. Il
Bello non è una immagine-copia del divino, ma un segno della Bontà divina. Un qualcosa di dato al mondo e, per ciò
stesso, a misura del mondo: è grazia. L’atto con cui esso viene recepito non è cognitivo: è piuttosto un atto di
godimento, che influisce in modo profondo sul sentimento e sulla condotta morale. Per questa stessa ragione del Bello
ha un carattere fondamentalmente liberatorio. Ripensare in modo sostanziale l’apporto di Karl Löwith, ma anche di
riprendere la ri-perodizzazione del Moderno proposta da Koselleck, che ne situa la “patogenesi” nel passaggio dal XVII
al XVIII secolo. La costellazione concettuale e figurale cui noi moderni siamo abituati ha in realtà una vita abbastanza
recente. L’ingresso del tempo come fattore progressivamente dominante si fa luce all’interno del perdurare
dell’intreccio figurale di “linea” e “cerchio”. L’irruzione ce deforma la struttura costituita dal loro plesso, come la
freccia che lo attraversa e lo anima. E’ all’interno di questa insopprimibile tensione che vediamo farsi luce quell’idea
“tipicamente costruttiva” del Progresso come Stufenbau, come temporalità cumulativo-irreversibile, che rappresenta
la dimensione propria del moderno processo di secolarizzazione. Il tempo come mutamento e trasformazione
costante. Concordare con il modo in cui Foucault descrive la nuova configurazione che la Modernità viene ad
assumere a partire dal XIX secolo: “La teoria della rappresentazione scompare in quanto fondamento generale di tutti
gli ordini possibili; una storicità profonda penetra il cuore delle cose, le isola e le definisce nella loro coerenza, impone
a esse ordini formali implicati dalla continuità del tempo”. Le prerogative del Soggetto-fondamento passano allora a
quelli che Carl Schmitt, chiama “i nuovi demiurghi” della Modernità: L’umanità e la Storia. Ma questo processo
conduce inesorabilmente a una progressiva destrutturazione del Soggetto stesso. La crisi del Soggetto, non è infatti
altro che la conseguenza del pieno realizzarsi della Rappresentazione stessa, del suo farsi ratio della “storicità”, ossia:
Ragione storica. Da Forma del Processo, il soggetto finirà così per trasformarsi in struttura ipotetica delle traiettorie
dell’ente, costantemente esposta alle fluttuazioni di un’imprevedibile “contingenza”.
La polivalenza semantica del termine “rivoluzione” è connaturata al termine stesso. Indeterminatezza tuttavia
aggravata, al confronto con gli altri termini, da un peso ulteriore: il moltiplicarsi delle definizioni genealogiche.
All’interno di questa varietà di genealogie, emergono differenze: il concetto di rivoluzione viene ora coordinato alla
dimensione politica, ora a quella sociale; ora ricondotto alle radici giacobine della “democrazia totalitaria”, ora ad
antiche correnti irrazionalistiche. Questa polivalenza tende ormai decisamente a trapassare in polisemia culturale. La
categoria sembra avere rapidamente perduto la carica “rivoluzionaria” che Reinhart Koselleck poteva ancora scorgervi
in una sua importante messa a punto del 1969. Se non si entra nel merito delle genealogie forgiate a uso più
strettamente pratico-polemico o de modelli teorici approntati soprattutto dalle scienze sociali. Dipende soprattutto
dalla convinzione che il destino del concetto di rivoluzione, in quanto categoria peculiare all’Occidente moderno, non
possa essere disinvoltamente rimesso all’onda breve di una critica ideologica che ne ipostatizza i presunti esiti. La
definizione di “rivoluzione” data da Theodor Geiger: “Trasformazione del tessuto complessivo della vita associata”.
Appare in questo senso l’indicatore, oltre che dell’impotenza di un approccio puramente sociologico delle difficoltà
che l’onda breve incontra proprio nella determinazione dello specifico moderno del concetto di rivoluzione. Non meno
unilaterale dell’onda breve è tuttavia la tendenza linearizzante che schiaccia il termine “rivoluzione” sulla sua
etimologia. Per cui il ruolo della rivoluzione nell’epoca della modernizzazione dispiegata conoscerebbe la sua
adeguazione piena al significato originario di “ritorno” e “restaurazione”. Rivoluzione secondo la Legge. Intendiamoci:
genealogica ed etimologia, derivazione e scomposizione, sono operazioni di tutto rispetto: anzi, indispensabili. Non
sono però ancora una storia critica del concetto. Un impulso decisivo alla storia critica del concetto di rivoluzione è
venuto negli ultimi anni da quelle ricerche che hanno messo a fuoco il ruolo dello Stato nel processo formativo della
società moderna. L’accento batte infatti sulla complessità dei fattori concorrenti alla costituzione del Politico moderno.
E sono proprio le esigenze di sondaggio di questa complessità ad attivare, accanto ai ben noti apporti interdisciplinari,
l’interesse per una storia concettuale capace di fare interagire l’analisi semiologica con gli slittamenti semantici
esperiti da un termine in concomitanza con la metamorfosi del contesto culturale in cui si è originato. Per
“concomitanza” non s’intende necessariamente una derivazione degli sviluppi del termine dagli sviluppi del contesto,
ma anche e soprattutto la determinazione inversa, ossia la capacità che un concetto possiede di produrre relazioni. Un
concetto non è solo indicatore, ma anche fattore delle connessioni da esso comprese.
L’attenzione alla storia genetica del concetto non nasce dunque da un bisogno di “arretramento e ritorno all’origine”.
Nasce piuttosto dall’esigenza di verificare se alcuni degli equivoci e delle aporie attuali non abbiano la loro radice
proprio nella natura del concetto che, anche a prescindere dal prolungato influsso delle metafore astrologiche, rimane
fondamentalmente extrapolitica e transpolitica. Il suo orizzonte di senso oltrepassa decisamente gli steccati di
quest’ultima: presuppone, cioè, una filosofia della storia, o metastoria, che investe direttamente nozioni
fondamentali, quali “legge” e “volontà”, “necessità” e “libertà”, “mutamento” e “permanenza”, “innovazione” e
“tradizione” e via dicendo. Koselleck definisce la rivoluzione un concetto “fisico-politico”. Due sensi: la necessità
cosmologica di una rotazione siderale e un movimento ciclico che si svolge sopra le teste degli individui, ma al tempo
stesso li avvolge. B. Hauréau aveva avvertito la necessità di richiamare alla memoria il significato originario del
termine: quello, appunto, di movimento rotatorio di ritorno al punto di partenza. Ma ciò che lo studioso francese
mancava di indicare era una circostanza che sembra simbolicamente saldare la fortuna del termine ai destini della
Kultur dell’Occidente cristiano. E’, tuttavia, solo a partire dal Cinquecento che il termine subentra a designare il
rivolgimento delle forme politiche. L’ingresso del termine revolutio nel campo della politica avviene dunque,
apparentemente. Apparentemente poiché è in realtà è lo schema polibiano che viene a costituire l’ossatura di uno
sviluppo concettuale che lo sottopone sin dall’inizio a notevoli flessioni. Tanto il recupero quanto la flessibilizzazione
del modello della “anakyklosis politeion” sono opera di Machiavelli. Il passaggio investe, com’è noto, la
reinterpretazione del rapporto virtù-fortuna. Tale reinterpretazione lavora dentro la separazione incolmabile tra
provvidenza divina e virtus politica declinandola positivamente. L’ oikonomia, il superiore piano provvidenziale che
consente, per la prima volta nell’antichità, di fonde le singole storie in un’unica storia, si esplica in “un processo
circolare di rivolgimenti politici: le costituzioni mutano, scompaiono e ritornano di nuovo in una vicenda prefissata
dalla natura del divenire”. Dall’esperienza storica dell’alternarsi di fortuna e avversità che investe i regni politici al pari
dei singoli uomini si ricava quel precetto morale a “trarre ammaestramento delle avversità altrui” che per Löwith
fonda la superiorità della saggezza sovrastorica degli antichi di fronte alle “illusioni della moderna coscienza storica”.
Ora, l’ineluttabile necessità ciclica di Polibio è sottoposta da Machiavelli a una relativizzazione di tale portata, da
produrre una trasvalutazione dell’intero modello. Nel primo libro dei “Discorsi” troviamo l’affermazione che le
“variazioni dei governi” sono nate “a caso intra gli uomini”. Il “cerchio” lungo il quale le repubbliche “girano” non
consente, per Machiavelli, ad alcuna forma, una volta sorpassata, di ricorrere poi intatti, in una prestabilita invarianza:
il modello ciclico designa pertanto solo un’inclinazione della storia, quale emerge dal flusso delle vicende. Quella che
può apparire prima facie come oscillazione o incoerenza, è in realtà un’ambiguità produttiva. Machiavelli non contesta
sul piano teorico il naturalismo dello schema provvidenziale polibiano, ma vi introduce il criterio dell’asimmetria e
dell’instabilità permanente. Agli improvvisi rovesci della Fortuna, ai flutti repentini del caso, può fare argine
l’organizzazione e strumentazione autonoma della Virtù. Ciò induce un poderoso effetto di secolarizzazione su
ambedue i versanti: come la fortuna non è più una ruota, ma il margine d’imprevedibilità del contingente, così la virtù
non è più una mera faccenda privata, una regola di condotta pratica per il singolo, a un’iniziativa costruttiva.
L’espressione più alta della attitudine costruttiva della virtus, della sua intima coerenza di disegno, è la politica. La sola,
autosufficiente “finalità” della politica è la costruzione del congegno, dello strumento dell’artificio – è lo Stato come
contrafforte per prevenire i colpi della fortuna. Più attendibile e proficuo ci sembra tentare di mettere meglio a fuoco
la dialettica tra dipendenza e distacco dalla tradizione, e l’inversione che ne consegue del significato dell’interruzione,
per la quale la riflessione di Machiavelli può essere legittimamente assunta come cifra di quel versante del “bilico”
rinascimentale che si proietta in direzione delle categorie della modernità.
Rispetto all’economia complessiva del discorso che si è avviato, basti soltanto osservare che la difettosità del vecchio
schema ermeneutico tende a biforcarsi in due livelli, distinti ma fra loro interdipendenti:
a) a livello storiografico, dove non riesce a giustificare alcuni inconfondibili tratti distintivi della “Rinascenza;
b) a livello filosofico, dove rimuove e fa cadere nell’oblio i rapporti tra gli sviluppi del concetto di politica e la
metamorfosi della teologia cristiana nella metafisica moderna.
Di qui le inevitabili conseguenze: come sul piano storiografico il costituirsi della politica a campo autonomo e la
formazione dello Stato vengono assunti sotto la chiave esclusiva e aproblematica della liberazione; così, sul piano
filosofico, il capovolgimento del teocentrismo medievale viene confortamente gabellato per taglio netto, soluzione di
continuità senza residui. Messo a confronto con i problemi che affiorano dalla genesi e dagli sviluppi del concetto di
rivoluzione, questo approccio si rivela non solo improduttivo, ma fuorviante. Esso chiama, pertanto, in causa non
semplici correzioni o emendamenti, ma una radicale inversione prospettica. Nel Medioevo il discorso pratico si
concentrava tutto sull’adeguazione alle “cose”. L’esito tomista non era a sua volta che uno dei possibili svolgimenti
della fondamentale innovazione introdotta dal cristianesimo nel pensiero occidentale con il concetto di interiorità. Il
precetto agostiniano del redi in te ipsum. Esso rappresenta infatti una anticipazione genealogicamente rilevante del
cogito cartesiano. Quest’ultimo è sì una trasvalutazione del “foro interiore” agostiniano. Ma la trasvalutazione stessa
non sarebbe concepibile fuori di questo fondamento del pensiero cristiano occidentale. Descartes conferisce pieno
statuto metafisico al foro interno della coscienza nel momento in cui salda indissolubilmente soggetto e fondamento.
Si delinea qui la scaturigine comune di metafisica e umanismo nel pensiero occidentale moderno. La scoperta
agostiniana dell’interiorità ha costituito dunque il viatico all’affermazione della centralità del soggetto qua
permanenza, sostrato, stabilità. Già in Agostino Ego e Alter non sono più due esistenze empiriche, ma due momenti
interni alla coscienza individuale. La ratio del dialogo, struttura embrionale del linguaggio sociale, ha il suo nucleo
originario “in interiore homine”. Ciò che non è soggetto non può essere alienato, perché non conosce alterità
sostanziali. Esso è infatti neutro, nel senso letterale di ne-uter, né Ego né Alter, né l’una né l’altra delle manifestazioni
del soggetto in quanto substantia. Il rinascimento “strumentalizza” la rappresentazione e la sua legge concettuale per
contestare l’esito della “contrazione” e ribaltarlo in forza espansiva. La clessidra, che teneva con il suo flusso la
coscienza interiore relegata nel “fondo” e nel “soggetto”, viene ora capovolta. L’interruzione, il distacco, non si
presenta più, come alla coscienza contratta medievale, quale motivo di abbandono alla legge delle cose, bensì come
occasione per dominarle e piegarle ai propri fini. Il rinascimento non mette dunque in discussione il fatto
dell’interruzione, lo iato tra civitas Dei e città terrena: ne rovescia, però, diametralmente la valutazione. Qui la
frattura. Ma qui anche il “bilico” che l’epoca finisce per rappresentare. La cesura che apre il varco alla formazione della
costellazione moderna condivide con la revolutio cristiana un tratto di fondo che la pone in netta discontinuità rispetto
all’antico: l’impoliticità come senso dell’originaria estraneità alle vicende presenti della città terrena. L’uomo non è un
“animale politico”: non è politico naturalier. Egli arriva, può arrivare, alla politica solo attraverso un percorso obliquo.
E’ qui già presenta, l’ambiguità produttiva dei moderni: la tensione irrisolta tra politica, come dominio del divenire e
del contingente destinato a tradursi in forme e a riprodurle incessantemente, e impoliticità originaria della coscienza
interiore, cui sola compete il diritto di giudicare del bene e del male. Lo svolgimento dell’interiorità in veduta
antropocentrica rappresenta pertanto l’indicatore della decisione di giocare in positivo l’interruzione, trasferendo
l’asse della tensione del dialogo Dio-uomo al rapporto creatività umana-natura. Riceve qui il suo atto di nascita il
mitologema moderno dell’homo faber. Esso rappresenta in realtà proprio quell’elogio delle forme, dell’artificio, che ha
la sua massima espressione innovativa nel concetto rinascimentale di politica. La politica non è un prodotto
spontaneo, ma inventio. La “politica della Rinascita” esibisce qui i propri connotati di scientificità e autonomia. La
politica è: scientifica, in quanto la civitas umana vi si configura con la stessa portata di contingenza di un fenomeno
naturale, come un sistema di forze e di eventi tipologicamente ordinabili. Autonoma, in quanto virtualmente
conforme a un ideale di coerenza interna e di autonomia logica del discorso. Al politico non è concetto abbandonarsi
ad alcuna immediatezza del sentimento; ciò che lo vincola è esclusivamente il rigore formale del discorso, la
conformità-a-scopo che gli consente di prevedere il flusso degli eventi senza restarne travolto. Se non si coglie questo
aspetto ci si troverà inevitabilmente a identificare lo spirito del rinascimento con quello “socratico” dell’immanenza
alle cose, saltando l’aporia dell’interruzione. Il pensiero rinascimentale fonda la propria dottrina politica precisamente
sul riconoscimento, teorico e pratico, della frattura tra disegno provvidenziale e vicende della città terrena. Rispetto al
medioevo, a essa l’uomo non reagisce più con una crisi di sofferenza e di smarrimento: la dà per scontata, e va oltre.
La facoltà di produrre artefatti non ha ancora come e dispiegato la storia. Ciò che le si staglia dinanzi è soltanto
“natura”: regno del contingente. L’attitudine formalizzante dell’homo faber s’inquadra quindi in una veduta
fondamentalmente sincronica: è ristrutturazione prospettica dello spazio piuttosto che razionalizzazione futurologica
del tempo. Nel rinascimento un senso intensamente mondano del tempo. La “malinconia” non è ancora l’angoscia
trans-individuale per il presente che fugge, propria all’autocostrizione civilizzatrice della modernità sviluppata.
Spingere in avanti i confini della modernità rinascimentale significa, pertanto, cadere nell’apologetica e annegare in
un’unità indifferenziata tappe ben delimitate e distinte del processo di secolarizzazione. Gli stessi modelli utopici del
Cinque-Seicento seguono la logica della dislocazione spaziale, non quella della prospezione temporale. I paesi ideali di
Moro e Campanella “non si collocano nel futuro, ma distano solo nello spazio dal luogo di residenza degli autori”. E’
proprio questo suo carattere di “astrazione” che collega gli utopisti a Hobbes. Questa considerazione spinge a
ricercare, al di là delle semplicistiche contrapposizioni tra “utopia” e “scienza” alle origini del Politico moderno, lo
sfondo categoriale comune che ha generato questa stessa dimidiazione.
L’immagine seicentesca della rivoluzione ha fortemente presenta l’idea del ritorno, implicita nella sillaba “re”. La
diffusione di questo modello rotatorio è intimamente connessa alla esperienza della rivoluzione inglese: essa, infatti,
fu favorita dallo svolgimento dei fatti compresi tra lo scoppio della Grende rivolta del 1642 e la Glorious Revolution del
1688. Lo stesso Hobbes, d’altronde, aveva formulato nel Behemoth. Il celebre giudizio retrospettivo sul ventennio
1640-60: “I have seen in this revolution a circular motion”. L’idea di rotazione serve a far emergere la necessità dello
Stato come entità artificiale, costruita. L’immagine del cerchio è a un tempo vincolo e occasione per porre in risalto
l’entità dello squarcio prodottosi nel vecchio quadro naturalistico con la costruzione dell’uomo artificiale. Nella
filosofia hobbesiana sono sì riscontrabili elementi importanti dell’idea moderna di progresso: le acquisizioni
dell’esperienza e della scienza costituiscono per lui un avanzamento costante. Questi elementi però, come ha notato
Koselleck, “non determinano in alcun modo la sua concezione della storia”. Il compito umano circa il progresso
costituisce una determinazione dello Stato. L’innovazione seicentesca vede sì imporsi il simbolismo di Giano:
l’immagine di un presente vuoto e omogeneo, geometricamente spazializzato, che si sdoppia nel non più/non ancora.
Si tratta tuttavia di una veduta ancora molto lontana dalla vera e propria temporalizzazione della storia, che si avrà
soltanto tra Settecento e Ottocento. Quell’innovazione, e il simbolismo che la trattiene e condensa, continua infatti a
legittimarsi attraverso il recupero del mito della creazione come rigenerazione del tempo. Di questo momento
partecipa a pieno titolo il concetto di rivoluzione. La metaforica naturalistica: essa persiste ancora saldamente nel
presupposto che il tempo storico sia, al pari dello spazio, sempre della medesima qualità, in sé racchiuso, e pertanto
omogeneamente riproducibile attraverso il calcolo. Il concetto di rivoluzione che si ritaglia è soprattutto una nozione
restaurativa, imperniata sull’opposizione diametrale.
L’apparente restaurazione dell’antitesi morale-politica nel Settecento rappresenta l’indicatore “ideologico” dello iato
che si è aperto tra la forma dello Stato assoluto e la dinamica espansiva dell’interiorità. Quest’ultima viene ora ad
assumere le moderne sembianze della “critica”, socializzandosi come “opinione pubblica” mentre il movimento che
preme contro l’involucro della forma acquista progressivamente lo statuto concettuale di “storia”. La forza collettiva
dell’opinione si costruisce sulla radicale privazione di potere sentita dalla coscienza individuale. Nel crogiolo
settecentesco prende fisionomia il destino dimidiato del mondo moderno, implicito nella naturale impoliticità del
soggetto occidentale in quanto secolarizzazione dell’interiorità cristiana. La dimidiazione è radicata nel concetto di
Uomo qua Soggetto-Sostanza che comprende in sé, l’attitudine-coazione a creare forme e l’intima estraneità a esse.
Anche i due poli si sviluppano, nelle loro forme progressivamente secolarizzate, in stretta connessione e che, di
conseguenza, l’emergere espansivo della critica interdipende, entro modalità storiche specifiche, con l’assetto
consolidato della formalizzazione-razionalizzazione contro cui si rivolge. Fisionomia del concetto moderno di
rivoluzione è letteralmente inconcepibile fuori delle sue relazioni con la struttura storicamente data dello Stato. Lo
statuto stricto sensu politico della “rivoluzione” è pertanto un derivato della sua peculiare antitesi all’assolutismo. Le
due fondamentali discontinuità che caratterizzano la struttura del concetto di rivoluzione moderno:
- la prima, di natura prettamente politica, investe la collocazione di questo passaggio rispetto al trascorso periodo
delle guerre di religione;
- la seconda, di carattere metapolitico, investe il problema della dipendenza del concetto dalla frattura intervenuta nel
Weltbild del “periodo della manifattura” con l’avvento della concezione del progresso e del tempo storico lineare.
Griewank: “Quando la dottrina del diritto pubblico e costituzionale vede l’origine di un particolare “diritto alla
rivoluzione” in quella teoria della resistenza che alle dottrine politiche medievali si estende fino a quanti prepararono
la Rivoluzione francese e che trovò la sua coniazione specifica nei monarcomachi del XVI, qui non si fa che applicare
retrospettivamente un elemento del concetto moderno-attuale di rivoluzione per caratterizzare aspirazioni molto
eterogenee”. In questi scritti, la dottrina del contratto sociale viene strumentalizzata ai fini di un’identificazione della
causa del popolo con quella di Enrico di Guisa. L’ottava guerra di religione e la ribellione di Parigi costituiscono, di
conseguenza, una perfetta esemplificazione di un certo uso delle flessioni democratiche dello jus resistentiae, con tutti
gli ingredienti caratteristici dell’identificazione carismatica. Alle posizioni dei cattolici e degli ugonotti, “repressive nella
stessa misura” Neumann contrappone significativamente la concezione dei politiques e del loro più importante
esponente teorico, Jean Bodin. Solo quando i cattolici e ugonotti soggiacciono all’imperativo supremo della pace, solo
quando l’elemento della coscienza e della speranza “private”. E’ sussunto sotto l’equazione del comando; solo quando
l’eresia ha come sua esclusiva controparte il potere sovrano dello Stato nella persona del monarca: soltanto allora
appare “il presupposto storicamente determinato” che per un verso rende “inadeguato” e “inapplicabile” il concetto
di tirannide, e per l’altro chiama in causa la necessità della sua sostituzione con “un concetto in grado di esprimere
opposizione a un monarca che è arrivato, pur di continuare a governare, a proporre la sua volontà quale fondamento
della giustizia del potere, quale sua unica legittimazione”. L’opposizione che viene così stagliandosi non è dunque
guerra civile-tirannide, bensì rivoluzione-dispotismo. La dissociazione che qui emerge presuppone la formale
compiutezza dello Stato sovrano assoluto. Il nuovo dualismo polare rifiuta infatti la guerra civile in quanto tetro
simbolo di un’epoca di disordini, di ritorsioni violente e di ingiustizie, ponendola in antitesi diametrale alla rivoluzione.
Il peso specifico dell’antitesi è talmente rilevante da comportare addirittura un’equazione tra guerra civile e
dispotismo: uno Stato che degenera in potere dispotico. E’ già esso stesso il principio incarnato della guerra civile. Non
la guerra civile, che è il fondamento della sua attuale identità pervertita, potrà dunque abbatterlo, ma soltanto la
rivoluzione. Sotto questa prospettiva, assai significativa che nell’Encyclopédie, non riceve alcuna trattazione il concetto
di “guerra civile”. Il senso profondo, dell’antitesi, sta nel dualismo politica-morale come modalità storica specifica in
cui nel Settecento si ripropone il contrasto, tipico dell’Occidente moderno, tra “esterno” e “interno” perimorfosi e
metamorfosi, forma e dinamica trasformatrice. Indicatore e fattore di questa peculiare modalità è il concetto di
rivoluzione, il cui meccanismo costitutivo consiste nella “trasposizione del progresso morale interiore allo spazio
esterno della storia”.
Il dualismo di morale e politica può essere anche legittimamente “smascherato” come ideologia protoborghese. Ma
questa “critica dell’ideologia” si sottrae di fatto all’analisi strutturale del concetto di rivoluzione moderno e finisce per
rimuovere il problema di rivoluzione sociale o “proletaria” dalla stessa matrice culturale e semantica del modello
“borghese”. Questa critica dell’ideologia richiede, pertanto, una metacritica. Essa è stata in parte avviata da Koselleck
con il concetto di funzionalità politica determinata dell’ideologia dei philosophes e di alcuni settori dell’Aufklarung
tedesca. La concezione dualistica di questi teorici si spiega, a suo avviso, alla luce di una strategia di presa indiretta del
potere: “La scissione tra morale e politica significa dunque strappare allo Stato assolutistico i suoi fondamenti politici e
nello stesso tempo mascherare questa conseguenza”. Alla funzione indirettamente politica del dualismo polare è
dunque connaturata una ulteriore prerogativa: la legittimazione indiretta della rivoluzione. Si vaglierà più innanzi l’sito
della complessa analisi di Koselleck: l’oscuramento della “crisi imminente” che giunse “inaspettata”. La conseguenza
evidenziata da questo esito – neutralizzazione della “crisi” e autonomizzazione da essa della “critica” ha infatti
implicazioni generali che investono nodi teorici del presente. Per ora basti tener fermo che, se il secolo della critica e
del progresso morale non ha posto come centrale il concetto di crisi, ciò è dipeso strettamente dalla circolarità
dialettica che “mirava a nascondere la decisione”. Il “rivoluzionario” si affaccia sulla scena sotto mentite spoglie. Ma
l’anima del mascheramento non è soltanto il gioco speculare proprio di ogni antitesi: la necessità di conferire efficacia
all’opposizione contrapponendo arcanum ad arcanum, replicando al segreto di Stato con la segretezza
dell’organizzazione. Ha sede qui il motivo dell’attenzione di Koselleck per la funzione politica del segreto massone. Il
mascheramento massonico dà come la cifra della scollatura tra Stato e società, è “l’implicazione storica della lotta
contro lo Stato assolutistico sovrano”. Il segreto si situa operativamente nell’interstizio tra l’impotenza politica della
società e il progetto di nuova sovranità che essa persegue. Dove più fitto è il segreto, là è più aspro il conflitto. Ma se
questa è la meccanica “secolare” di funzionamento del dualismo morale-politica, in che cosa consiste la
trasformazione del quadro culturale-concettuale a cui essa attinge vitalità e legittimazione. Per rispondere
all’interrogativo, occorre riprendere, un passo oltre Koselleck, il filo del discorso in precedenza avviato sul nesso di
rivoluzione e secolarizzazione.
La “segreta interiore” diviene, la sede del diritto di revoca del potere del “mostro freddo” tribunale che ne giudica
l’operato e le decisioni. La politica può riacquistare la legittimità perduta solo se scende a patti con la dinamica
dell’interiorità espansa che, sotto le sembianze della Morale, preme ormai come “società civile” destabilizzando gli
equilibri esistenti: solo, dunque, se si riconcilia con la Storia. La coscienza non solo si esteriorizza, ma si
deindividualizza nell’anonimato del Man. Il potere dell’anonymes “Man”, dell’anonimo “Si” ha insieme la sua
concezione e il suo dispiegamento in quella tendenza all’Anonimato in cui la riflessione storico-politica di Tocqueville
avrebbe intravisto i nuovi, inevitabili risvolti di “schiavitù” del principio egualitario e “omogeneizzante” della
democrazia moderna. Il senso della Weltgeschichte come “tribunale mondiale”, che assumerà veste filosoficamente
compiuta solo con Hegel, non sta nella soppressione, bensì nella iperdilatazione della dimensione cristiano-
occidentale della “coscienza interiore”. Indicatori della legittimità dello Stato non sono più Pace e Ordine fini a se
stessi, ma pace e ordine in funzione del nuovo principio egualitario-progressivo della Democrazia. Ancora una volta il
passaggio è mediato dal sentimento radicale del “distacco” della politica che lo stesso “secolo dei lumi” eredita dalle
matrici teologiche della Kultur cristiana. Il distacco viene qui a coincidere con la moralità del discorso pratico
oggettivato nel Si, che ha già storicamente assunto la forma di “opinione pubblica”. Umanità e Anonimato si tengono
come umanismo e metafisica: il primato del concetto di Uomo non è che il primato dell’uomo come Concetto. Questo
passaggio rappresenta la quintessenza del Weltbild borghese. In quanto compimento del “processo si sviluppo del
cogito ergo sum di Descartes, in quanto autogaranzia dell’uomo sottratto al vincolo religioso”. Il risultato dirompente
cui il processo di secolarizzazione mette capo nel Settecento europeo è la trasformazione dell’escatologia in utopia:
pianificare la storia diventa importante quanto conquistare la natura. L’arcanum non sta più nella filosofia politica.
Non è più custodito nell’idea di sovranità – intesa come un semplice capitolo di dottrina dello Stato. Il suo nocciolo
duro è decisamente trapassato nella filosofia della storia.
La determinazione fondamentale della filosofia del progresso è la soppressione del divorzio tra ragione e tempo
mondano, è dunque un mutamento nella struttura del tempo storico. nozione lineare-direzionale di un tempo
prospettico in cui non predomina più né il passato della tradizione né il presente spazializzato e sfuggente della
calcolabilità. La funzione dell’intellettuale moderno: è la risultante complessa dell’intreccio di topologia specialistica e
sapere storico prospettico o stricto sensu progettuale. Dall’importante voce “Progresso” scritta da Koselleck, è
possibile isolare due fondamentali operazioni ideali costitutive del nuovo concetto: la denaturalizzazione della
metafora della crescita e la temporalizzazione della storia. La parola tedesca Fortschritt ha un significato meno
spontaneo e naturalistico di Fortgang, termine che storicamente la precede. Essa designa, in contrasto con i modelli
ciclici dell’antichità, che postulavano caduta e rigenerazione, un movimento i cui caratteri dominanti sono la linearità e
l’irreversibilità. L’idea di progredire indica un mutamento correlato a settori determinati. La dinamica “progressiva” si
trova, per così dire, incapsulata dentro contesti specifici, oppure riveste un mero significato comparativo-descrittivo;
ma non sta in nessun caso a indicare un processo storico a carattere generale. L’idea di una decadenza successiva
all’Età dell’oro iniziale “impediscono” secondo le parole di Le Goff, “lo sviluppo di un’autentica idea di progresso”. Una
fondamentale innovazione è costituita dal concetto agostiniano di procursus, in contrasto con la teoria classica del
ritorno ciclico. L’innovazione sta però, nel fatto che Agostino non confuta questa concezione sul suo stesso terreno,
quello teoretico-cosmologico, bensì da un punto di vista teologico-morale. Le idee di rigenerazione e rinnovamento
riguardano per i “filosofi pagani” solo “la natura e i suoi cicli ricorrenti, che essi affermano ripetersi all’infinito come
alba e tramonto, estate e inverno, generazione e corruzione”. Ma questa vicissitudine è per Agostino insensata e
assurda, in quanto sottrae alla vita umana nel tempo la dimensione della speranza. La teoria dell’eterno ritorno
dell’identico esclude pertanto la stessa possibilità di pensare la vera “felicità”, quella risolutiva e finale cui fanno
appello fede e speranza dal momento in cui l’avvento del Redentore ha introdotto nella dimensione mondana del
tempo un Irripetibile, un punto di non-ritorno. Agostino sembra così percepire che questa nuova “affezione” investe
non solo il luogo interiore dell’anima, ma lo stesso tempo mondano. Per quanto il procursus agostiniano sia in realtà
un excursus, esso racchiude in nuce un aspetto fondamentale della concezione moderna del progresso: la nozione di
futuro come “orizzonte temporale di un fine determinato”. Perché il nocciolo dell’anticipazione stessa venga estratto
dall’involucro sarà necessaria l’apertura di quella dimensione del futuro prospettico che ha un indice nella graduale
“denaturalizzazione della metaforica della crescita”. Il processo di vera e propria formazione dell’idea esplicita di
progresso” ha luogo, secondo Le Goff, nel periodo compreso tra l’apparizione della “galassia Gutenberg” nel XV secolo
e la rivoluzione. Se tra il 1620 e il 1720 l’idea si afferma essenzialmente in ambito scientifico dopo il 1740 tende a
generalizzarsi ai campi della storia, della filosofia e dell’economia politica. Il paradosso rilevato da Le Goff ptrebbe
spiegarsi, almeno in parte, con una circostanza addotta da Koselleck: anche nella seconda metà del Settecento il
termine progres è usato più raramente del verbo perfectionner, e, del resto, non è proprio la nozione di
perfectionnement che introduce la prima compiuta definizione del concetto moderno di progresso, operata nel 1794
da Condorcet? La stretta interdipendenza tra “progresso” e “perfettibilità” sembra confermare la tesi centrale di
Koselleck: quella della costitutività della categoria di Verzeitlichung per la struttura del nuovo concetto. Il
superamento della frattura tra ragione e tempo mondano, è intanto possibile in quanto non solo la storia ha un
“senso” ma in quanto questo senso coincide con la sua “direzione”. Si è già considerato sopra come questa “svolta” sia
in realtà l’esito di un lungo processo di secolarizzazione. Il risultato di questo processo si presenta adesso come
trasposizione dell’escatologia in storia progressiva.
Il rapporto di continuità-discontinuità tra la “dottrina dogmatica della storia sulla base della rivelazione e della fede”
(da Agostino a Bossuet) e il pensiero storio moderno secondo, secondo Löwith, in termini di centralità della
dimensione soterica: centralità che persiste anche dopo la rottura del Settecento, che individua nella temporalità
storica la dimensione propria della redenzione secolarizzata, ossia della liberazione. Persistenza della centralità
dell’escaton e sua trasposizione in chiave di filosofia della storia rappresentano i due punti cardinali di questo
passaggio. Il concetto di storia moderno è, da questo punto di vista, “una creazione del profetismo”. A esso è riuscito
ciò che per l’intellettualismo greco era impensabile: concepire la storia come “essere del futuro”. La stessa
“futurizzazione storicistica” affonda per Löwith le sue radici nell’escatologia cristiana: è la definitiva secolarizzazione e,
insieme, il compimento dissolutivo della onto-teo-logica. Per Löwith, l’evento può essere intanto salvato, in quando
esso non è mai assunto propriamente “in se stesso”, ma piuttosto come tappa o momento di un processo storico
generale, del cui logos immanente esso legittimamente partecipa. La storia ha dunque un “senso” solo perché ha un
télos; la pienezza del senso è, pertanto, questione di un “compimento che è nel futuro”. La delimitazione
dell’orizzonte di senso della storia operata dall’escaton non consiste necessariamente nel postulare una conclusione
predeterminata, ma piuttosto nel fornire uno schema di ordinamento progressivo e di significazione capace di
rimuovere l’antico timore del fatum e della fortuna. Attraverso il filo conduttore del progresso la filosofia della storia e
il suo ribaltamento/compimento storicistico riempiono di articolazioni di senso la dimensione temporale. La
legittimazione di ciò che accade è, dunque, solo apparentemente intrinseca all’accadimento stesso: essa ha sede in
una proiezione futurologica del mito prometeico dell’homo faber, nel presupposto, cioè, che senso e significato
scaturiscano dalla prassi umana di appropriazione-trasformazione della natura e di pianificazione progettuale del
tempo. Quale fondamento di legittimazione, il principio pratico-attivo della fede, che Agostino aveva contrapposto a
quello teoretico-contemplativo della teoria: l’autoproduzione del mondo storico attraverso l’attività
onnitrasformatrice del lavoro che consuma la natura, piegandola ai propri scopi. La progettualità prometeica e il
superomismo che si affermano con l’avvento del nuovo Soggetto della filosofia della storia – il collettivo Noi proprio
della Humanitas postcristiana – investono la dimensione di una temporalità perennemente curvata verso il futuro: la
pianificazione dell’avvenire acquista così a pineo titolo le funzioni della provvidenza. In questa secolarizzazione sta il
fondamento comune del moderno concetto di progresso e di quello di rivoluzione. L’assimilazione di pensiero
rivoluzionario e pensiero gnostico è possibile solo a condizione di recidere dal concetto di rivoluzione la dimensione
utopico-progettuale che esso condivide con il concetto di progresso, e che scaturisce dalla logica specifica del processo
di secolarizzazione della teologia giudaico-cristiana, concettualmente delineato da Löwith. Nel pensiero gnostico vi è sì
un elemento soterico, ma non una soteriologia. La salvazione è aloga, come la corruzione e malvagità dell’eone
presene: è diseconomica, nel senso teologico originario di sganciata da ogni disegno provvidenziale divino. Essa non
può trovare alcun aggancio “illuminante” in una legalità oggettiva del processo, né tantomeno essere guidata da
alcuna normatività progettuale. La gnosi “sa” soltanto di non poter dire nulla intorno alla salvezza cui fa riferimento.
Niente di più lontano, dunque, dalla coppia moderna rivoluzione-pianificazione. Il distacco dal presente implicato da
tale prospettiva non proviene dalla nostalgia di un Totalmente Altro, ma piuttosto da una proiezione sul futuro storico-
temporale dell’idea di redenzione. Se la portata soteriologica sopravvive alla radicale desacralizzazione
dell’escatologia, ciò è possibile solo in virtù della futurizzazione della storia introdotta dalla coppia progresso-
rivoluzione. L’utopia cessa di essere una semplice ipotesi, per proiettarsi nella dimensione del futuro programmabile
dell’Umanità: diviene, cioè, una u-cronia. Il puntare a un ideale di “metaumanità” a un nuovo ordine fondato
sull’armonia e la trasparenza, non è una prerogativa esclusiva del concetto di rivoluzione ma, l’elemento che lo
accomuna al concetto di progresso in quanto secolarizzazione moderna di un’escatologia specificamente occidentale.
La riconduzione genealogica del concetto di rivoluzione alla gnosi impedisce pertanto di individuare l’attuale
problematicità che il concetto esibisce proprio a causa del suo costrutto progettuale-razionale, proveniente
dall’identificazione di ragione e storia: la “gnosi post-cristiana” che oggi emerge non è tanto un derivato dalla teoria
marxiana della “rivoluzione totale” quanto piuttosto una reazione alle idee di progetto e legalità del divenire storico in
essa incorporate. Lo statuto moderno del concetto di rivoluzione è invece strettamente connesso all’idea di fattibilità
della storia e al seguente trapasso dell’utopia in ucronia: non a caso il distacco dal concetto di “guerra civile” coincide
nel Settecento con la massima tensione utopica dell’idea di rivoluzione. Elementi della tradizione gnostica ed ermetica
trapassati non solo nel concetto di rivoluzione ma in tutta la filosofia della storia dell’illuminismo: e, quindi, nello
stesso concetto di progresso. L’anima del progresso è la continua riconversione e risoluzione reciproca di logo e mito.
Il ruolo giocato dal simbolismo della luca mostra come molte modalità di funzionamento della coppia rivoluzione-
progresso siano il risultato di una trasvalutazione in forma secondarizzata di alcuni temi della tradizione gnostico-
ermetica filtrati dalle correnti della mistica esoterica cinque-seicentesca. La trasvalutazione-secolarizzazione,
squaderna gli elementi ucronici della futurologia. La realizzazione-esecuzione del simbolismo reca la sinonimia di
potere e conoscenza e il principio dell’universale mediazione. Il primo lato si esplica soprattutto in rapporto al
protestantesimo. Il secondo è uno svolgimento della contraddizione tra principio di immanenza e coazione allo
slittamento verso il futuro, costitutiva della ratio illuministica: attraverso l’imposizione “critica” dei confini di ogni
esperienza possibile, l’immediatezza del dominio viene tradotta in universale mediazione, in base al principio della
onnicommensurabilità dei fenomeni. E’ da questa scissione, da questa recisione dell’incommensurabile, che si genera
la moderna saldatura tra ragione e tempo mondano. Il politico non lavora più su un universo segnico, ma sul senso. Un
senso, dunque, in cui l’unicità e irripetibilità dell’evento viene simultaneamente compresa e neutralizzata.
L’intellettuale moderno appare così come il risultato di un lungo processo di esplicazione per rotture successive, e
quindi di lacerazione, del simbolismo ancestrale che regge la struttura tripartita comune a tutte le culture
indoeuropee. La funzione sacerdotale cui l’intellettuale continua ad assolvere è quella di decriptare l’arcanum del
tempo, dispiegandone progettualmente le forme di dominio-controllo. L’esperienza dell’accelerazione si collega
teologicamente all’aspettativa apocalittica del Giudizio Universale. In Lutero essa sta ad indicare quel rapido
precipitare della successione cronologica, che segnale l’imminente annichilimento del tempo storico. intorno alla metà
del XVIII secolo, l’idea di accelerazione si converte da aspettativa apocalittica in “concetto storico di speranza”.
L’accelerazione segnala l’elemento del progressivo contrarsi delle tre dimensioni temporali come tratto
caratterizzante dell’epoca della modernità dispiegata. La rivoluzione si costituisce così come “un concetto prospettico
di filosofia della storia” che denota una “direzione irreversibile”. Lo stesso concetto di “rivoluzione sociale” si pone
non in rottura, ma in perfetta continuità con questa visione del tempo/senso storico: non è un’innovazione introdotta
dalla teoria marxiana, ma un corollario originario del concetto di rivoluzione. La formula della rivoluzione sociale come
concepimento della rivoluzione politica si addensa con frequenza crescente a partire dal 1830. E’ subito dopo la
rivoluzione di luglio, infatti, che si stagliano le coordinate spazio-temporali del concetto di rivoluzione: il suo carattere
mondiale (rispetto allo spazio) e permanente (rispetto al tempo). Anche alla luce di queste rapide proiezioni storiche,
dunque, le pur considerevoli differenziazioni e segmentazioni interne del concetto di rivoluzione appaiono insieme
sopravanzate e contestualizzate dal comun denominatore della temporalizzazione-futurizzazione della storia.
La nuova riflessione, testimoniata dai saggi raccolti in Vergangene Zukunft e dall’importante intrapresa del lessico dei
Geschichtliche Grundbegriffe, consistente a Koselleck non solo di cogliere l’isomorfismo strutturale tra i principali
“singolari collettivi” della modernità ma anche di non restare bloccato al dualismo polare di tempo lineare e tempo
ciclico. La semantica dei tempi storici proposta da Koselleck fa perno attorno alla coppia categoriale spazio di
esperienza/orizzonte di aspettativa. Quanto più l’orizzonte di aspettativa si dilata, tanto più si restringe lo spazio
esperienziale. L’onnipervasività del Progresso, consuma con crescente rapidità il presente e contrae inesorabilmente
lo spazio dell’esperienza. Con il passaggio dall’era del progresso a quella della modernizzazione, la futurizzazione viene
a perdere la sua polarità assiologica, lasciando libero campo alla pura e semplice accelerazione: il desiderio e la
tensione del futuro si ribaltano in frustrazione e “anomia”. Il Futuro non è più intenzionato e prospettato come
finalità, ma come tappa da bruciare: esiste soltanto per essere consumato il più rapidamente possibile e depositato
alle spalle del margine pericolosamente minimo lasciato dall’esperienza. Il passaggio dalla Rivoluzione francese alla
rivoluzione industriale e da quella alla modernizzazione tecnologica contemporanea è segnato, pertanto, da un
radicale mutamento di funzione della prospezione futurologica. Il futuro ha oggi irrimediabilmente perduto il suo
significato prospettico. Correlato di “moderno” non è più il progresso, ma lo sviluppo o, in senso più ristretto, la
“crescita”; contrapposto a “moderno”, non è più l’ “antico”, ma il “primitivo” o il “tradizionale”. Ciò implica
strettamente che il moderno includa in sé, l’elemento “rivoluzionario” come essenziale fattore dinamico e
stabilizzazione. Di questa metamorfosi ha finalmente preso atto la “nuova storia” francese. In quanto paradigma
progettuale-costruttivo di storia-problema, la nouvelle histoire rompe con la “concezione classica del tempo storico”
espressa dallo spazio della narrazione, approntando griglie di lettura di sistema di oggetti capaci di dar conto della
forma discontinua, della pluralità dei tempi storici che concorrono a determinare una dinamica evolutiva. La rottura, il
rovesciamento, la trasformazione in grande non può essere mai provocata da un unico gente patogeno collocato in
una posizione privilegiata, ma dipende piuttosto da variabili strategiche che si dispongono diversamente da una
congiuntura all’altra. Non si tratta più di spirito veloce/materia lenta, bensì di materia veloce/spirito lento. In questo
schema non solo la rivoluzione può configurarsi come un fattore di stabilizzazione, ma può addirittura andare soggetta
a un’inversione di ruolo: per cui possono darsi modernizzazioni “dall’alto” di segno politico reazionario, ma di portata
“rivoluzionaria” rispetto ai preesistenti assetti economici e socioculturali, così come rivoluzioni “dal passo”
caratterizzate da movimenti di massa saldamente ancorati al fondale della tradizione. Ma fino a che punto è possibile
considerare questi nuovi modelli come discontinuità radicale rispetto alle filosofie della storia che li precedono? Il
passaggio dalla filosofia politica all’economia alla sociologia, se non viene inteso in termini di secolarizzazione, rischia
di risolversi in un “laicismo” riduttivo, incapace di guardare senza accomodamenti o rimozioni alle persistenze
profonde che collegano l’esito alle sue origini. Solo con l’èra della modernizzazione arrivano a manifestarsi i risvolti
contraddittori e le ambivalenze della secolarizzazione. La crisi del Soggetto-Uomo è strettamente collegata alla caduta
del primum movens. Piuttosto che con un rottura, abbiamo però qui a che fare con un compimento: quando la “nuova
storia” definisce la propria novità come emergere del “misurabile”, del “quantitativo”, in contrapposizione al
“qualitativo” sostanzialistico-umanistico delle filosofie della storia tradizionali, essa rimuove un tratto essenziale del
processo di secolarizzazione: che è stato, cioè, proprio il fondamento sostanzialistico e umanistico della filosofia
moderna della storia a creare i presupposti della misurabilità e della quantificazione. Si è visto in precedenza come la
critica della storia evenementielle si fondi su un equivoco, che si è diffuso non solo a opera degli storicisti ma anche
dei sostenitori dei modelli ciclici. Lo storicismo non è una valorizzazione dell’evento in quanto tale, ma è già una
strategia di neutralizzazione dell’evento stesso. Nell’istante stesso in cui si verifica, la novità dell’avvenimento è
assorbita e annullata nel Senso, che lo trasmette per l’eternità al museo della storia. La centralità della categoria di
evoluzione indica che la caratteristica della Verzeitlichung rimane quella della irreversibilità. La neutralizzazione
dell’evento, sotto queste condizioni, non può darsi più in termini di omogeneità, di equazione universalizzante, ma in
termini di omeostati, di compensazione-bilanciamento di una molteplicità di fattori e di strati temporali fra loro
differenziati. Come lo storicismo neutralizza l’evento nel senso, così la storia quantitativa lo neutralizza nella serie
omeostatica. Questa strategia di razionalizzazione flessibile: essa on riesce ad andare “un’analisi in termini di
equilibrio”; è per sua natura una teorica del “mutamento nella stabilità”. La storia seriale è costitutivamente incapace
di definire le soglie a partire dalle quali si produce un mutamento non tanto del ritmo, quanto della struttura della
temporalità; è inabile a catturare le “innovazioni” che sconvolgono gli equilibri plurisecolari di un sistema. La
riconsiderazione più radicale del problema del tempo storico è quella svolta, nel periodo fra le due guerre, da Bloch e
Benjamin. Un significativo punto di convergenza nel tentativo di far coincidere salvazione dell’evento e recupero del
concetto di rivoluzione. Se la caratteristica del tempo della modernizzazione è l’accelerazione insensata che brucia
l’instante, quest’ultimo può essere trattenuto ad arte, come fa quella “lente d’ingrandimento temporale” che è la
ripresa al rallentatore. Il presente può essere fatto durare artificialmente: come effimero istante indefinitamente
sospeso in fotogrammi. Per Bloch la sola possibilità di sottrarre lo spazio dell’esperienza all’annichilimento della
successione. Mentre l’istante rappresenta in Bloch la tensione di un futuro incompiuto, l’insoddisfazione gravida del
non-ancora, in Benjamin esso segnala piuttosto la “breccia per il miracolo”, il punto di leva per introdurre
l’innovazione che fa saltare il “corso omogeneo della storia”. La storiografia materialistica opera per Benjamin come
un’allegoria barocca: “Pietrifica il fluire del tempo, condensa gli eventi in una monade che viene fatta “schizzare” fuori
dal continuum”. Non solo il movimento appartiene al pensiero, ma anche il suo arresto. L’immagine del passato
consegnataci dallo storicismo è “eterna” perché il tempo del progresso è quello del rinvio. Il “conformismo” di questo
tempo, l’elisione dell’incommensurabile che lo caratterizza, è per Benjamin, com’è noto, di casa nella
socialdemocrazia. Nella dimensione del “tempo omogeneo e vuoto”, il passato ha intanto l’immagine eterna e
immutabile dell’irrevocabilità. L’irrevocabilità del passato non è allora che lo specchio, di quell’irreversibilità del
processo storico che coincide con l’entropia. Se il tempo del progresso è quello di un futuro destinato a essere
bruciato e a divenir passato; di un futuro che esiste solo pe divenire passato; se questo tempo è quello del “futuro
passato” allora è nel passato che vanno ricercato le esclusioni e le latenze di quella futurizzazione, per riaccendere in
esse “la favilla della speranza”. Se la loro profondità e perspicacia sta nell’afferrare che il destino dell’idea di
rivoluzione è rimesso alle chances di sganciamento dell’escatologia della gabbia della futurizzazione, il loro tratto
problematico sta nel puntare tutto sugli interstizi del “tempo mondano”, sulla possibilità di rompere l’omogeneità e
vuotezza della Weltzeit “progressiva” attraverso una dilatazione-proiezione (Bloch) oppure attraverso una
sospensione-solidificazione (Benjamin), del tempo-ora. Ma il ricorso di Bloch al tempo-ora, è in realtà un estremo
tentativo di comprendere la crisi della temporalizzazione nihilista servendosi ancora dei suoi termini costitutivi: della
logica tridimensionale e “asimmetrica” del tempo futurologico. Una revoca in questione radicale della filosofia della
storia che, si è riprodotta nella strategia di stabilizzazione dei modelli omeostatici è solo quella capace di portare fino
in fondo la “critica” della struttura temporale che la sorregge. Solo quella, cioè, in grado di assumere l’imprevedibile
che irrompe come un elemento dorato di una logica propria. Il tempo-ora appartiene in tutto e per tutto a quella
dimensione del tempo ordinario al quale la filosofia di Hegel ha conferito assoluta dignità concettuale, anche il suo
arresto, o la sua dilatazione, può avvenire soltanto nel tempo pubblico del quotidiano, nel tempo anonimo e livellato
del Man. Fermando o dilatando l’istante non si fa che riprodurre quel meccanismo di esorcizzazione del divenire, del
trascorrere del tempo serializzato, che è la fonte originaria della malinconia e dell’angoscia del singolo. L’attimo si
sottrae invece a questa temporalità storica, a questa successione degli istanti che avviene sulla permanenza del Man,
per attingere a quella che Heidegger chiama storicità e temporalità “autentica”: la “storicità autentica” comprende la
storia come “ritorno del possibile” e sa che questa possibilità che ritorno può darsi solo per l’esistenza che si apre a
essa “nell’attimo carico di destino”; la temporalità autentico si realizza nel “fenomeno estatico-orizzontale
dell’attimo”, nettamente distinto dal tempo-ora di un “presente” resecato dai suoi “legami strutturali”, che si scinde
costantemente nel passato inautentico dell’ “ora-non-più” e nell’avvenire inautentico dell’ “ora-non-ancora”. E’
possibile trasmettere al Politico la categoria di una decisione che investa direttamente l’esistenza, facendone un
fattore di controllo e di progressiva dissoluzione della decisionalità prospettico-progettuale? E infine: è indifferente
questa problematica al destino di quella che i moderni hanno chiamato “rivoluzione”?
Abbiamo fatto interagire diverse ottiche e chiavi interpretative, direttamente o indirettamente funzionali alla
delucidazione di aspetti storici e strutturali del concetto di rivoluzione, riconducibili al comun denominatore della
“secolarizzazione”. Le vedute più significative che abbiamo messo in opera sono state quelle di L öwith,
Horkkheimer/Adorno e Koselleck. Ma fra di esse, al di là di alcuni punti di convergenza, intercorrono divergenze
notevoli, che vanno ulteriormente esplicitate e caratterizzate.
b) La genealogia dell’illuminismo di Horkeimer e Adorno si regge appunto sull’ipotesi dell’originaria inerenza alla
cultura occidentale dei miti della scienza e del progresso. Il procedere della Aufklarung è visto come perennemente
segnato dalla dialettica già rilevata da Nietzsche: da una parte, “fare del contegno dei governanti e dei principi una
menzogna intenzionale”; dall’altra, essere strumento di un governo che, coincidendo con l’impicciolimento degli
uomini, viene identificato come “progresso”. Il punto d’approdo di questa dialettica è per Horkheimer e Adorno, il
dominio onnipervasivo di una fatticità e positività in cui banalità e orrore si specchiano reciprocamente, sottraendo
ogni spazio residuo all’utopia e alla speranza.
c) Per Koselleck l’illuminismo ha sì una sua dialettica interna, che ne fa precipitare nell’arco degli ultimi due secoli
l’orizzonte emancipativo e la carica liberatrice; ma questa dialettica non si riceve affatto in un dominio della fatticità,
bensì in un’utopica impotenza nei confronti di essa. Oggi come allora, non viene compresa la necessità della “politica
come destino”: laddove per destino d’intende non “una cieca fatalità” ma “la politica stessa in quanto compito
permanente dell’esistenza umana”. E’ possibile, adesso, far leva su questo decisivo spunto di Koselleck per avviare
alcune conclusioni provvisorie.
Alla radice della “crisi permanente” in cui versa il mondo sta per lui proprio il principio di utopizzazione inerente alla
forma futurologica della progettazione, che riproduce all’infinito il circolo vizioso di razionalità e coscienza, forma
politica e critica apolitica. Per spezzare il circolo vizioso non vi è, stando a Koselleck, che un rimedio: la politica come
destino. L’impostazione della sua analisi induce tuttavia a pensare che, nonostante l’ossequio non formale
all’insegnamento di Carl Schmitt e a onta dell’impronta inconfondibilmente schmittiana della stessa formula, vi si
sottintenda qualcosa di molto diverso. Se l’ingovernabilità e la crisi permanente che il “teatro europeo” ha trasmesso
al mondo intero sono un risultato della secolarizzazione, la proposta della “politica come destino” non può risolversi in
un viaggio di ritorno al Politico seicentesco, al sovrano dell’iconografia barocca, a una Scienza dello Stato che
precostituisce il soggetto della decisione. Se la “politica come destino” è volontà di farsi carico del presente come
esistenza, essa non può ignorare il punto di non-ritorno della crisi che si è aperta alla fine del XVIII secolo. Non può
rimuovere, cioè, il dato di fatto che la sovranità (identità capace di decidere sullo stato d’eccezione) è ormai un
significante privo di significato: che essa non è più “rappresentabile” perché il suo esserci è disarticolato. La
caratterizzazione della “politica come destino” non può dunque darsi se non in rapporto ai due aspetti in precedenza
considerati: la questione della a) rottura del tempo storico e quella della b) discrasia tra esistenza e progetto.
a) In Benjamin e in Heidegger abbiamo, come si è visto, una critica diversa al tempo collettivo della storia,
dell’Anonimato dell’Umanità o del Man. Se Benjamin pone il problema della rottura del tempo storico, del “balzo di
tigre” che si proietta nell’interstizi della successione, nei varchi lasciati aperti dalla temporalità serializzata del
Progresso – il problema, dunque, dell’intervento innovativo, sullo “stato d’emergenza” capace di produrre, con la
salvazione dell’evento, una reversione dell’entropia – Heidegger pone invece la questione della temporalità autentica
dell’attimo su cui si innesta la decisione come indice dell’irriducibilità della dimensione dell’Esserci a quella della
intratemporalità storica e del Progetto. La “politica come destino” di Koselleck, sembra affine piuttosto a questa
versione heideggeriana: essa si presenta infatti come il contrario della politica come totalità o forma progettuale,
proprio in quanto si dispone agli antipodi della futurizzazione.
b) Il discorso relativo alla critica del progetto s’intreccia indissolubilmente con quello relativo alla crisi del soggetto:
come non vi è soggetto senza produttività formale, prospettico-progettuale, così non vi è progetto senza
autoconsistenza soggettuale. Caduto l’aggancio sostanzialistico al Soggetto e quello finalistico al Senso, il progetto
continua però a operare secondo le prerogative della selettività e della gerarchizzazione in virtù della sua esclusiva
coerenza formale e conformità a scopo. Anche se la storia non “ha” un senso, dobbiamo andare avanti lo stesso,
procedere “come se” lo avesse. Se la proposta di una sintesi dialettica di progetto e bisogno, forme e vita, appare
sotto questo profilo, la più arretrata quella imperniata sulla nozione antidialettica di differenza ripropone, a un diverso
livello, aporie non vistose. La forza e la “verisimiglianza” della proposta sta nel consumato disincanto con cui guarda
alle vecchie e nuove versioni di progettualità dialettica. La “ragionevole ideologica” di questa impostazione consiste
nell’illusione di poter liquidare “senza colpo ferire” la progettualità costitutiva della forma politica: semplicemente
estinguendola. Da questo punto di vista essa rappresenta una sorta di teoria filosofia dell’estinzione dello Stato e della
morte della politica. Essa non fa che rimuoverlo o saltarlo, lasciandolo in realtà intatto. La sola via praticabile e
proponibile sembrerebbe, la spinta a portare alle estreme conseguenze la tensione in atto tra la forma progettuale
della futurizzazione e quell’elemento problematico dell’esserci dei singoli che appare non normativizzabile, non
riconducibile ad alcun progetto, in quanto questo è per definizione legato alla logica asimmetrica del tempo storico
progressivo. L’unica soluzione pare dunque, quella di puntare sulla produttività del contrasto tra la politica-progetto e
la “perla-gnostica”, racchiusa nella problematica dell’esistenza spinta alla superficie dalla dinamica della
secolarizzazione: con la scommessa che non si tratti più di un “gioco a somma zero”. E’ possibile che la dissoluzione
della coppia moderna rivoluzione-progresso comporti la conseguenza indicata come fatale dai teorici del disincanto e
della razionalizzazione: che il “gioco a somma zero” sia l’unica alternativa reale e che la sola “innovazione” ipotizzabile
sia una più equa redistribuzione “dall’alto” della “risorsa scarsa” del potere. Ma può, invece, darsi che questo
ingabbiamento del tempo storico abbia esaurito la sua parabola e sia destinato sempre più a rivelare la sua impotenza
a ridurre ulteriormente il margine pericolosamente minimo in cui si è conservata la “perla gnostica” dei moderni.
Introdurre nella storia quella novità capace di infrangere l’omeostasi e invertire il ripiegamento entropico del tempo:
inaugurare una trasformazione che non si faccia carico più del futuro, ma del presente, non più dell’Uomo, ma
dell’esserci dei singoli; aprire il varco a una politica che sappia finalmente interpretare il potenziale liberatorio
racchiuso nella perdita del Senso della Storia.
Prendiamo le mosse dalla metafora del naufragio come figura decifrabile e scomponibile solo dentro il cerchio
ermeneutico delimitato dalla problematica della secolarizzazione. Con il termine “naufragio” viene dunque designata
una dinamica di secolarizzazione che si manifesta come decentramento della Normatività ed erosione dell’Autorità.
Occorre una considerazione metapolitica. Normatività, in Occidente, non è mai Ordine statico-organico: presuppone e
richiede conflitto e instabilità. Per secolarizzazione della Norma s’intende il processo di costituzione del progetto
moderno per progressive scissioni. La deriva del progetto condensato (divenuto) nella Norma non è da assumere,
banalmente, come esito, ma è implicita piuttosto nelle origini dell’okzidentaler Rationalismus.
L’antitesi Oriente-Occidente è per questo costitutiva della Kultur europea. “Oriente” è il prezzo del primato: quanto è
andato perduto nella decisione di trasformare il mondo. L’idea della verità come infinito incolmabile è dunque tutta
implicita nella genesi dell’Occidente come distacco dal centro, dal ventre materno asiatico. Il “Paese della sera”
possiede un’identità inesorabilmente parziale, assediata dall’angoscia dello smarrirsi dei contorni, della paura
dell’inabissamento come riorno nel grande ventre asiatico: nel mondo dell’improduttivo e della seduzione. La fatica
della ricostruzione e dell’ermeneutica storica, lascia infatti aperta, e incessantemente ripropone, la domanda circa le
ragioni per le quali ciò che era implicito alle origini del logos occidentale si squaderni universalmente soltanto con gli
ultimi due secoli, quelli della Modernità dispiegata. Per squadernamento s’intende qui la specificazione e
generalizzazione del Progetto della prospezione futurologica. La prospettica temporale o astrazione futurologica
rappresenta simultaneamente la quintessenza e il risultato. Le espressioni dell’okzidentaler Rationalismus, sono le
idee di progresso e rivoluzione, le quali vanno perciò assunte come coppia concettuale.
1) le specificazioni progressive della ratio occidentale, culminanti nell’assiomatizzazione dei vincoli progettuali e nella
“purificazione” formalizzante della Norma, non hanno nulla di spontaneo o pacifico: non sono specificazioni-
inveramenti, bensì specificazioni-rotture, che si affermano in contesti agonistici come risultato di conflitti ed esclusioni
radicali;
2) gli sviluppi del razionalismo occidentale, del dominio tecnico-scientifico sul mondo, danno luogo non solo a
metamorfosi per rotture, ma anche al consistere dei diversi stati di “normalità” o “stabilità strutturale” in una
molteplicità di forme tra loro confliggenti.
La storia del nihilismo assume i caratteri di uno svolgimento assolutamente asimmetrico, non-lineare: dove il
continuum risulta soltanto dall’individuazione selettiva di costanti e dalla concatenazione a posteriori dei loro punti di
fuga. Rispetto all’accezione a noi trasmessa dalla linea di Nietzsche-Heidegger, al termine nihilismo va annesso, oltre al
consueto tratto della decisione che produce ex nihilo il dominio tecnico-scientifico sul mondo, un ulteriore attributo:
quello di essere-del-futuro. Il dipanarsi di questo attributo è il frutto di una differenziazione evolutiva tutt’altro che
“pacifica” del Weltbild, dell’immagine del mondo. Per penetrate la meccanica che presiede al mondo presente,
occorre pertanto interrogarsi sulla rilevanza concettuale del passaggio costitutivo delle categorie del Moderno.
Heidegger scorge, com’è noto, nel XVII secolo non tanto la “transizione dell’immagine feudale all’immagine borghese
del mondo” quanto piuttosto la costituzione del Weltbild per antonomasia: la conquista del mondo risolto in
immagine, costituisce infatti il “tratto fondamentale del Mondo moderno”. La riduzione dell’uomo a soggetto come
condizione della misurabilità e del dominio “getta una luca significativa anche sul corso fondamentale della storia
moderna, a prima vista quasi assurdo”. Il Weltbild moderno può intanto proclamare la centralità dell’Uomo, in quanto
l’uomo è stato già ridotto a Centro-subjectum. Tale traduzione-riduzione ha il suo antecedente filosofico-concettuale
nel principio agostiniano del redi in te ipsum. Nell’idea di “foro interiore” come essentia. Dentro questo passaggio si
costituiscono le strutture profonde della socialità moderna, le sue caratteristiche espropriative del corpo e
dell’esperienza. Sono là dove l’uomo rimane soggetto ha un senso la lotta contro l'individualismo e per la comunità
come campo e fine di ogni sforzo e di ogni utilità. Quest'affermazione di Heidegger s’innesta alla perfezione sulle
considerazioni appena svolte sul Weltbild moderno come secolarizzazione del principio cristiano della facoltà interiori
in sede di produzione degli artefatti del dominio spirituale del mondo. Soggetto dell’esperienza diviene la ratio come
sede di produzione delle astrazioni e degli artefatti. L’experimentum è una prerogativa esclusiva della misurazione e
del calcolo: degli strumenti e dei numeri. L’epoca dell’immagine del mondo dunque, l’epoca dominata dalla logica
della pro-duzione come principio creativo-formale connaturato al Segno. La compenetrazione di scienza e produzione
è resa possibile dal passaggio dal mondo sublunare del pressappoco all’universo della precisione. Ma che rapporto
s’instaura fra tempo e universo-macchina? I risvolti teologici della forma-merce: essi realizzano infatti un principio
fondamentale del razionalismo occidentale (quel principio di commensurabilità che postula una tensione costante tra
incommensurabile e commensurabile) e segnano un passaggio cruciale della secolarizzazione moderna. Il tempo del
“simbolismo di Giano” del presente scandito dalla scissione del non più/non ancora, non è tanto tempo spazializzato,
quanto piuttosto tempo matematizzato: perché il mathema versus il pathema, o meglio la loro tensione, rappresenta
il Bild adeguato all’affermarsi del principio di pro-duttività come energia invisibile. Tempo è ritmo, scansione,
trattenimento del flusso negli schemata. La politica è scienza non solo perché i suoi costrutti e artifici sono prodotti
razionali, al pari delle astrazioni e delle ipotesi, ma anche perché l’umano è fisicizzato: il suo regno non è più il limbo
del sublunare ma il mondo del contingente. Per questo, nel XVII secolo, l’idea cronologica di tempo, del tempo
cronologico come tempo del sezionamento e della serie, convive con quella cosmico-ciclica. Permane cioè l’idea
classica di tempus. L’Anno, la rigenerazione del tempo nella ricorrenza festiva, è un cerchio intorno al mondo. Il
Weltbild seicentesco mantiene la rilevanza tradizionale della distinzione pubblico-privato nella questione del tempo: il
tempo pubblico è sempre quello ciclico.
1) Lo statuto della legalità scientifica fornisce il fondamento di legittimità all’Ordine: relegare sullo sfondo la guerra
come “eccezione” elevando a “normalità” la Pace. La somma legittimità dell’Ordine, della Norma, sta nel porre fine
alla guerra.
2) Il ciclo, il ricordo tende a rompere il cerchio in un punto, facendolo impennare in una curva e proseguire in forma di
spirale: questo aspetto è visibile nel nesso hobbesiano di Ordo-Norma-Sovranità come contrassegno della razionalità-
scientifica del Politico.
Solo dopo la metà del Settecento viene coniato il concetto di progresso nella forma a noi familiare della prospettiva
futurizzante. La coniugazione di ragione e storia implica:
2) il passaggio dal Segno al Senso: la politica non lavora più su un universo segnico, ma sul Senso, che coincide con la
direzione della Storia.
La politica deve inseguire incessantemente le spinte democratico-egualitarie provenienti dalla società. La
legittimazione diviene così un movimento frenetico di inseguimento-deriva: effetto di una politica costretta a lavorare
sul senso, a fare i conti non più con lo spazio sociale, ma anche con il tempo sociale: con la dinamica di movimenti
collettivi che avanzano le proprie pretese come già legittimate dalla Storia. La deriva può dirsi compiuta solo una volta
definito l’orizzonte concettuale della irreversibilità. L’epoca attuale è quella della crisi del soggetto-centro,
dell’erosione dei paradigmi gerarchici o assiali di razionalità, della sovranità introvabile – ma anche quella della
diffusione generalizzata del fattore-tempo in politica, della frenetica ricerca di legittimità come costante inseguimento-
spiazzamento. Il vanificarsi dell’illusione del progresso come proiezione storica del methodos, del sapere come via,
accumulazione in-finita di conoscenza, non è infatti semplicemente deducibile dal carattere patologicamente
migratorio del viaggio degli “abitatori del tempo”, ma richiede un poderoso sforzo ermeneutico di decifrazione e
scomposizione.
La “temporalizzazione” della storia può dirsi compiuta solo quando, con il passaggio del progresso all’entropia, il
principio di finalità si traduce in quello di serialità, la crisi del soggetto coincide con la sua deriva e pluralizzazione, non
con la sua estinzione. La legge di irreversibilità nella storia umana funzione cogentemente in modo tale che il presente
reale diventa sempre passato reale, mai futuro reale; il tempo si sviluppa solo in modo che la quantità del passato
diventa sempre più grande e quella dell’avvenire sempre più piccola. Se il Progetto “progressivo” aveva comportato la
distruzione sacrificale del presente e dell’esperienza in nome dell’Avvenire, con il tempo dell’entropia il futuro appare
agli individui come una dimensione già bruciata in partenza: solo a questo punto il tempo storico retto dal principio di
irreversibilità si presenta pienamente nel suo carattere “omogeneo e vuoto”.
Assumere le ottiche della secolarizzazione e della liberazione come due paradigmi distinti. Le due tesi:
a) tesi della deriva, della perdita del centro come progressiva liberazione e “affermazione del Sé” del passaggio di
sovranità dallo Stato all’individuo;
b) tesi della secolarizzazione, intesa come spostamento e traduzione dei condensati simbolici del mito e/o delle
interrogazioni radicali della teologia.
La nozione di “disincanto” può essere annessa all’una, e dunque apparire come figura semplicemente dissolutiva, nel
senso dell’equazione perdita del centro = destrutturazione di ogni autorità = estinzione di ogni forma di
eterodeterminazione; oppure all’altra, e dunque configurarsi come prognosi drammatica di un destino di nuova e più
radicale schiavitù.
a) il punto d’approdo del razionalismo occidentale consiste in uno scarto incolmabile tra esistenza e progetto, Dasein e
Principio produttivo. Il Progetto poteva essere adeguato al mondo, coprirlo, finché l’epoca era “prossima al meriggio”
finché le costruzioni del pensiero produttivo corrispondevano al mondo reale. Nella deriva l’Esserci sporge. E sporge
irrecuperabilmente. Coloro che hanno pensato più radicalmente questa deriva del nihilismo o del progetto non vi
hanno scorto nulla di felicemente risolutivo e tantomeno di liberatorio: né Bataille, né Heidegger.
b) L’esito della secolarizzazione non risolve né frantuma il senso e l’attualità dell’interrogazione radicale circa la
redenzione.
Benjamin sembra condividere con un autore da lui così profondamente considerato, come Carl Schmitt,
l’interpretazione della secolarizzazione non come un processo dialettico di superamenti-inveramenti, bensì come un
movimento di dislocazioni laterali che alla fine, nell’era della tecnica, ripropone in tutto il suo peso tragico la verticalità
della teologia politica.
Il nostro presente autentico non è dato dalla cattiva attualità del naufragio dedotto come tale, accettato
sommessamente o esaltato come destino, ma piuttosto dall’attualità dell’interrogazione sul naufragio. Il nostro Dasein
è storicamente segnato dall’espropriazione dell’esperienza, dal fenomeno indicato da Benjamin con il binomio
Erfahrung-Armut, esperienza-povertà. Il mondo di oggi non è un mondo in cui “non accade niente”; al contrario, vi
accade molto più che in tutte le altre epoche passate. Il problema sta allora nel cogliere le ragioni dello scarto tra la
ricchezza degli accadimenti e l’angustia e povertà della nostra esperienza, la radice della ristrettezza delle nostre
possibilità di trasformare ciò che è mero accadimento in evento. Nulla allontana più dal risultato dei programmi di
neosintesi, che si risolvono tutti nel negare l’abisso o nel dissimularlo, facendo come se non esistesse, come se si
trattasse di un ostacolo congiunturale.
Macht, Niklas Luhmann individua l’attuale status, nel distacco tra le “condizione genetiche del potere” e le “condizioni
di controllo del potere stesso”. L’esempio più significativo e, insieme, più macroscopico di tale sviluppo è costituito
“dalla nascita del moderno Stato sovrano, sulla base di un monopolio decisionale relativo all’uso della forza fisica e
dalla successiva ipertrofia di questo Stato che approda a una complessità ormai difficilmente controllabile. Esso
presuppone un diverso rapporto del sistema sociale col tempo, in cui passato e futuro “appaiono, pur nella loro
diversità, come articolazioni del presente”.
La progressiva secolarizzazione del potere si svolge, bensì, nell’ambito di uno sviluppo del sistema sociale che vede al
tempo stesso allargarsi il dominio della sua ratio e infittirsi l’ordito delle sue relazioni interne.
Benché il concetto di sistema non svolga in Weber una funzione fondamentale, è indubbio che egli ne abbia gettato le
premesse introducendo la correlazione tra razionalità e forme dell’agire. L’innovazione weberiana sta nel porre
esplicitamente a fondamento della sociologica il concetto dell’agire sociale. Per Weber non vi sono “fatti” puri, poiché
ogni “fatto” reca in sé il fardello delle interpretazioni che lo mediano e lo “socializzano”. Luhmann mette in rapporto la
visione progettuale-costruttiva che sostiene in Weber l’assunzione del concetto rickertiano di “relazione di valore” con
le modalità storiche di costituzione del moderno sistema sociale europeo.
Centrale è che questa idea della correlazione della razionalità formale a un particolare tipo di orientamento
dell’azione. Non è semplicemente una risposta all’immagine riflessiva e oggettivistica della scienza implicita nella
concezione dell’automatismo sociale. L’idea costruttivo-selettiva del sistema capitalistico come connotato del dominio
di una particolare forma di razionalità dell’agire, e tenuto insieme dall’ordito puramente formale delle sue connessioni
interne, segna una discontinuità di ben altra portata: essa comporta, infatti, una rottura con tutte le precedenti visioni
antropocentriche della società. La struttura costitutiva del legame sociale non è più data, in Weber, dal rapporto
individuo-società, ma da quello tra razionalità e forme dell’agire. La teoria weberiana si costituisce in aperta rottura
con ogni nostalgia di ricomposizione organico-comunitaria del “corpo” sociale.
E’ noto come, di qui, Weber arrivi a formulare una prognosi pessimistica circa il punto d’approdo del processo di
razionalizzazione-secolarizzazione, simboleggiata dalla celebre immagine della “gabbia d’acciaio” introdotta nelle
ultime pagine di “Die protestantische Ethik”: quella produttiva “ambiguità borghese”. Il senso di quella metafora si
afferra certo, in parte, alla luce della definizione, proposta di recente da Bobbio, di Weber come “l’ultimo dei classici”.
Quelle immagini si spiegherebbero cioè con la circostanza che, mentre i classici idealizzavo un processo ancora in
pieno svolgimento. Weber lo osserverebbe a ritroso dalla prospettiva del suo compimento. L’ultimo Weber oscilla tra
due sentimenti che sembrano impercettibilmente alludere ai poli del dilemma che sottopone a tensione la sua intera
costruzione teorica, impedendole di risolversi in un approdo univoco. Se, dunque, Weber, è “l’ultimo dei classici” non
lo è soltanto per il fatto di portare a perfezionamento e compiuta formalizzazione l’immagine “macchinistica” del
potere: lo è anche perché, dei classici, egli riproduce all’estremo quel dilemma tra occasione e norma, inventio e
disciplinamento, direzione politica e macchina burocratico-amministrativa, che accompagna sin dalle origini il
moderno concetto di politica.
Anche Luhmann, scorge in Weber la permanenza di un paradigma “classico”. L’idea weberiana dell’organizzazione
politica e sociale, si risolve, secondo Luhmann in una correlazione in parallelo dello schema deduttivo scopo/mezzo
con la struttura gerarchica di comando. La connessione tra gli scopi e i mezzi si disporrebbe così lungo un asse
verticale, procedendo sempre dall’alto verso il basso. Non vi è dubbio che tale struttura gerarchica figuri in Weber
quale esito dell’analisi del nesso di razionalizzazione e burocratizzazione. Ciò che Luhmann non vede è che questo
esito stesso non risolve in sé la complessa problematica weberiana del potere. Weber non prospetta una ingenua
disposizione in verticale del sistema sociale, in cui l’autonomia del politico verrebbe a coincidere con il vertice del
sistema stesso. in Weber vi è, certo, una nozione di autonomia del politico. Ma essa va oltre l’attenzione, pure assai
spiccata, alle trasformazioni interne all’assetto e al funzionamento specifico dello Stato-macchina. L’autonomia
weberiana del politico non coincide, cioè con uno spazio tipologicamente delineato del sistema sociale bensì co
l’autonomia della logica del potere a tutti i livelli: a partire, appunto, da quello stricto sensu economico. La stessa
definizione dello Stato sta in un rapporto strettamente biunivoco con questo superamento di ogni delimitazione
puramente spaziale o “fisica” della relazione di potere, che trova la sua espressione più eloquente nell’assegnazione
dell’economico di una delle due figure che incarnano lo spirito direttivo: l’imprenditore.
Carl Schmitt concentra il proprio sforzo teorico attorno alla ripresa del tema classico della filosofia politica moderna,
quello della sovranità. Parsons, muove dal rilievo dell’inadeguatezza del mondo verticale-burocratico, finisce per
privilegiare, rispetto alla dimensione dell’intensità, la dimensione della extensio e della durata dei rapporti di dominio
politico, enfatizzandone il carattere di articolazione e differenziazione funzionale. La tematica dell’integrazione sociale
come sistema di vincoli interattivi è affrontata da Parsons non in termini piattamente empiristici, ma attraverso un
confronto con i “massimi sistemi” della filosofia politica occidentale: da Platone e Aristotele ai classici della moderna
dottrina dello Stato. Dalle conseguenze per la teoria della società della crisi, dell’immagine meccanicistica del mondo,
ossia dal venir meno della simmetria tra Stato-macchina e universo-macchina. Anche per Parsons il problema
“classico” ritorna di attualità in rapporto all’obiettivo principale posto sul tappeto del “postweberismo”: l’integrazione
dentro il sistema politico delle “nuove potenze” prodotte dal processo di socializzazione, e ormai ingovernabili dentro
gli orizzonti dello Stato liberale. Le complicazioni orizzontali della rappresentanza che stanno all’origine della crisi di
legittimità dello “Stato neutrale”. Sotto questo profilo, Parsons è esattamente il contrario di quell’immagine
stereotipata di ideologo dello statu quo e di una visione statica della società consegnataci da una certa sociologia.
Max Weber, osserva Parsons, è conosciuto nel mondo di lingua inglese, più come sociologo della religione e
metodologo delle scienze sociali che come interprete della scena politica. Weber sarebbe rimasto molto meno
sorpreso della maggior parte degli scienziati sociali riguardo agli sviluppi che si sono avuti, se egli fosse vissuto
abbastanza per vederli. Lo sviluppo successivo alla morte di Weber – che ha visto l’emergere dei due maggiori
movimenti di massa: il comunismo e il fascismo – ha palesato tuttavia, per Parsons, la fragilità del “modello razional
burocratico”. Il “retroterra strutturale” della “routinizzazione” appare sconvolto da quei “movimenti carismatici” che,
come lo stesso Weber aveva intuito, si rivelano sempre più l’unica forza innovativa concepibile nell’epoca della società
di massa. Il vuoto lasciato dalla perdita delle antiche certezze “comunitarie” ha come conseguenza “l’insorgere
dell’insicurezza e dell’ansietà”. I movimenti carismatici funzionano come “meccanismi di reintegrazione che danno a
un gran numero di persone insicure e disorganizzate un orientamento e un significato alla loro vita”. Per reintegrare
dentro un quadro teorico coerente e unitario questi fenomeni di “disorganizzazione sociale” e di “anomia” diffusa
occorre dunque, per Parsons, ampliare il reticolo della “razionalità” weberiana, fino a comprendere la dinamica della
società di massa nel suo complesso in termini di sistema. Il concetto parsonsiano di sistema si presenta uno sviluppo
della nozione di razionalità correlata all’agire, mente per l’altro, esso tende a ridefinire la razionalità stessa in un
costante interscambio con la sfera del “non-razionale”. La concezione del sistema sociale come complesso di
sottosistemi differenziati dell’agire reca con sé due fondamentali innovazioni:
1) la specificazione del concetto di complessità come differenziazione crescente tra le attività e i suoi ruoli sociali;
2) la sostituzione del modello lineare-causale di scopo con un modello fondato sull’interazione e l’interdipendenza
funzionale tra i diversi sottosistemi.
Il potere come mezzo di comunicazione regolato da un codice simbolico specifico. In Macht, Luhmann ha chiarito nel
modo più articolato ed esauriente il dispositivo che presiede alla teoria del potere di Parsons, mostrando
indirettamente come queste critiche si fondino su un equivoco o semplicemente su una incomprensione. Per la teoria
strutturale-funzionale dei sistemi sociali, il potere non è una sfera perfettamente autarchica, ma dipende da altri
fattori per quanto riguarda le condizioni in cui esso può realizzarsi, nonché i bisogni e le pretese a cui è legato.
Sebbene la forza fisica costituisca a livello sociale complessivo la base del potere, la condizione perché esso si
generalizzi è che il ricorso effettivo alla violenza perda di attualità. Tale uso è direttamente proporzionale alla perdita
di efficacia della comunicazione simbolica, vale a dire: della capacità di indirizzare la selettività dell’interlocutore, di
operare come spinta motivazionale interna all’agire del “governato”. Dal momento che la prerogativa peculiare del
potere in una società caratterizzata da un alto tasso di differenziazione funzionale consiste nella capacità di indirizzare
le alternative di comportamento degli altri attraverso una propria decisione, ne consegue che, quando si fa uso della
coercizione, “colui che la esercita è costretto ad accollarsi l’onore della selezione e della decisione”. In una società
complessa, la garanzia di stabilità non può essere mai data dalla “certezza ultima” del ricorso alla forza, ma piuttosto
dalle modalità di organizzazione delle decisioni che ne concernono l’uso. Uso che, in ogni caso, deve tener conto
dell’esistenza di una “interdipendenza simbolica” tra costrizione e consenso. La legittimità si configura in Parsons
come conseguenza, bensì del consenso ai contenuti “di valore” degli imperativi emessi dal sistema politico. Questa
assunzione o riconoscimento di valore della norma, essenziale alla stessa esistenza dello Stato di diritto, si salda in
Parsons con la ridefinizione in termini funzionalistici della problematica del consenso, che è alla base della sua teoria
del “flusso circolare” del potere. Secondo questa teoria il potere non è mai a “somma zero” non si realizza mai in una
concentrazione in un unico punto, ma attraverso una sua costante redistribuzione in tutto il sistema sociale. Da una
parte esso filtra le aspettative sociali trasformandole in pretese legittimate da regole e rivolte al sistema politico-
amministrativo; dall’altra conferisce legittimità e trasmette le decisioni politiche che devono indirizzare i
comportamenti sociali. Per quanto a ogni nuovo giro del “flusso” si produca un aumento delle aspettative. Parsons
tiene fermo a una visione ottimista dell’evoluzione sociale, che dipende strettamente dal paradigma “progressista”
della sua idea del sistema e si connette a una fiducia praticamente illimitata nella capacità di adattamento e di
ottimizzazione della democrazia.
L’idea parsonsiana della legittimazione come promozione di un “consenso attivo” al contenuto di valore degli
imperativi decisionali appare un nonsense e un anacronismo rispetto alle esigenze di autoprogrammazione di un
sistema che deve far fronte a un costante e minaccioso incremento del tasso di complessità. Ciò che occorre invece
appurare è se e in che misura lo slittamento programmatico dall’integrazione alla governabilità che caratterizza il
passaggio dalla teoria strutturale-funzionale di Parsons alla Systemtheorie di Luhmann implichi una vera e propria
curvatura paradigmatica. Il pessimismo a curvatura catastrofica della concezione di Luhmann è radicato nella
premessa generale che “il sistema non è tutto”. Il limite di Weber, e della “teoria classica dell’organizzazione” in
genere, è consistito nel concepire i nodi cruciali della società occidentale moderna come “processi puramente interni
ai sistemi organizzati”. La ridefinizione del concetto di razionalità rispetto allo schema weberiano si prospetta dunque
in Luhmann con una radicalità assai maggiore che non nello stesso Parsons. Il modello weberiano si fondava sulla
premessa che “esisteva solo una forma giusta idealtipica e ottimale di razionalità interna del sistema” e che la sua
realizzazione ed estensione all’intera società comportava meccanicamente l’instaurarsi di “un rapporto armonio con
l’ambiente”. La razionalità sistematica si configura invece, in Luhmann, come una sorta di reticolo pluridimensionale
che si apre per accogliere e neutralizzare le minacce provenienti dall’ambiente. Il rapporto sistema-ambiente sembra
piuttosto, nella teoria di Luhmann, una sorta di riclassificazione della coppia weberiana razionalità formale/razionalità
materiale. La Umwelt rappresenta, la sfera emotivo-esperienziale dei bisogni, dei valori, degli impegni, dei desideri e
delle passioni, che fornisce al sistema i materiali su cui esso lavora, costituendone però al tempo stesso i limiti di
razionalità.
Uno dei punti di massima discontinuità della concezione sistemica rispetto alla “tradizionale teoria europea della
società politica” consiste nel considerare l’uomo non più come “parte” dell’organismo sociale, ma come “ambiente
problematico del sistema stesso”. Da ciò consegue altresì, per Luhmann, che nessun sistema è totalizzante, dal
momento che esso non è mai capace di comprendere in sé la “totalità dell’identità di uomo”. Non vi è dispositivo
concettuale che illustri la coppia luhmanniana sistema-ambiente meglio del dualismo metafisico io-mondo. Il mondo
è, per Luhmann, “onticamente indeterminato” e costituisce la base di ogni esperire e agire selettivo. Il pessimismo a
prospettiva catastrofica del paradigma luhmanniano deriva direttamente dalla premessa assiomatica che tra “formale”
e “materiale”, “sistema” e “mondo”, “selettività” e “complessità”, non vi è rapporto né lineare né causale-transitivo,
ma solo contiguità. Ma, al tempo stesso, essa è anche indipendente dalle operazioni che il sistema intraprende per
risolverli: possiede cioè un tasso illimitato, ovvero indeterminabile, di indifferenza alla “riduzione di complessità”. La
potentia della “crisi” è già tutta racchiusa nell’assioma dell’incolmabilità della sproporzione tra possibilità ambientali e
capacità di attuazione di esse da parte del sistema. Ma come si manifesta questo gap tra “reale” e “possibile”
all’interno del sistema stesso? L’Aufklarung sociologica di Luhmann è una teoria della “risorsa scarsa” del potere. Tale
risorsa non è in grado di coprire il costante incremento della domanda di potere che si produce con l’aumento della
complessità. Le strutture sociali non vengono più soltanto coordinate orizzontalmente ma anche duplicate e applicate
a se stesse. Questo meccanismo di sdoppiamento e di autoriflessione soddisfa all’esigenza di assicurare stabilità e
duttilità alle strutture, in modo da renderle, in regime di elevata complessità, resistenti “a variazioni delle situazioni di
fatto”. Applicato ai processi decisionali del sistema politico, il meccanismo riflessivo dà luogo proprio a quella
“legittimazione per procedura”. E’ all’amministrazione – e non al sottosistema dei partiti – che compete, dunque, per
Luhmann la funzione di vertice del processo decisionale. Nelle procedure della pubblica amministrazione il sistema
raggiunge infatti il più alto grado di autonomizzazione e di capacità selettiva, svincolando il processo decisionale dai
condizionamenti del “mercato politico” e dalle interferenze della concorrenza interpartitica.
V. IL TEMPO CAIROLOGICO DELLA DECISIONE: INFONDATEZZA DELLA ENTSCHEIDUNG E FANTASMA DELLO STATO IN
CARL SCHMITT
I due sostegni del concetto di potere di Weber sono dati dallo schema ma di scopo e dalla struttura di comando: il
potere si costituisce come intreccio tra razionalità formale e trasmissione gerarchica delle decisioni. La teoria
weberiana della legittimità non implica alcuna identificazione dello Stato con l’ordinamento giuridico-normativo: se
così fosse, la tematica della legittimità finirebbe, in Weber, per risolversi o per appiattirsi su quella della legalità.
Weber riproduce in forma dimidiata la struttura binaria che attraversa il politico moderno sin dalla sua genesi: lo Stato
come calcolo razionale, “macchina machinarum” (Hobbes); la politica come effettualità, tempo “cairologico” della
decisione tempestiva.
Quello di Schmitt sarebbe, dunque, un decisionismo senza fondamenti. Ciò che interessa osservare in questa è che, in
quegli stessi anni si comincia a profilare una linea interpretativa che corregge l’imputazione di occasionalismo,
ponendo in stretto rapporto la tematica schmittiana con i problemi nuovi saliti alla ribalta con il periodo weimariano.
La riflessione socialdemocratica degli anni venti si concentra, a differenza della socialdemocrazia anteguerra, sul
problema istituzionale. Essa assegna sì, nell’ambito della sua teoria del “capitalismo organizzato” le funzioni di
“razionalizzazione”, alla dimensione politico-statuale; ma sulla base di una netta riduzione del problema della
legittimità a quello della legalità. La £razionalizzazione” viene omologata a “socializzazione” e quest’ultima a
“democratizzazione”: il nocciolo di questa teoria dello Stato, si risolve nella considerazione per cui la democrazia
politica si realizza nella democrazia economica per mezzo della traduzione delle socializzazioni de facto in
socializzazione de jure. Questa concezione dello Stato come mezzo di “tecnica sociale”, per quanto si rifaccia spesso e
volentieri all’autorità di Weber, dipende in realtà direttamente da formalismo kelseniano. Dietro questa reductio in
termini giuridici del problema dello Stato vi è una riconduzione dell’avversario a concorrente, a partner di un gioco
conflittuale che è a sua volta la spia di un rapporto puramente passivo-riflessivo nei confronti della Costituzione. La
riflessione avviata dal post-weberismo sulla molteplicità di “coni obliqui” che formano un nuovo assetto di
“Costituzione materiale” sempre meno governabile entro le procedure formalizzanti del disciplinamento burocratico-
amministrativo. Inducono una crisi di legittimità che investe l’intera struttura dello Stato liberaldemocratico, aveva
posto sul tappeto gli interrogativi di fondo dell’analisi di Schmitt. La lucidità e la crudezza del disincanto schmittiano
sta proprio nella capacità di cogliere come questi nuovi conflitti siano il sintomo di una crisi storica che investe non
particolari aspetti o modalità di funzionamento, ma piuttosto la forma stessa dello Stato rappresentativo classico.
La molla che fa scattare la disamina schmittiana delle categorie del politico è rappresentata dalla natura dei nuovi
conflitti esplosi dietro la facciata restauratrice del “periodo di stabilizzazione” post-bellico. Se si interpretasse questa
successione in chiave di filosofia della storia, la critica a Schmitt finirebbe per trovarsi inesorabilmente inchiodata a
un’arretratezza ben più pesante del suo stesso bersaglio. La teoria dei Zentralgebiete che scandiscono il mutamento
delle “elites-guida” nel corso di “quattro secoli di storia europea” tende, per l’appunto, a sottrarre l’ambito d’azione
del politico a ogni normatività spontanea, deterministica o teleologica: a emanciparlo, in una parola, da ogni filosofia
della storia come processo orientato. La “vita spirituale” di ogni epoca resta per Schmitt policentrica: ed è anche per
questa ragione che la categoria schmittiana di politico si costituisce in polemica aperta con tutte le visioni
organicistico-ricompositive proprie della tradizione reazionaria. Schmitt si riallaccia solo per l’aspetto descrittivo al
kulturpessimismus tedesco che identifica nella Tecnica una totalità artificiale e meccanica che uccide l’anima. In realtà,
Schmitt riconduce questa critica della cultura al residuare di un pervicace senso di impotenza: al dubbio nella capacità
di porre al proprio servizio il grande armamentario della nuova tecnica, che peraltro non aspetta che di essere
utilizzato. E’ a questo livello di elevata intensità del rapporto tecnica-politica che va ripensata la riformulazione
schmittiana del problema della sovranità.
La ripresa del concetto classico di “sovranità” è mediata dalla critica all’alterazione o dissoluzione di questo concetto
da parte della teoria liberale e delle sue varianti “pluralistiche”. Il nucleo centrale della polemica schmittiana nel corso
di tutti gli anni venti è dato dal rifiuto della contrattazione. L’estendersi alla politica della forma-contratto equivale per
essa a un certificato di morte: la dinamica “pluralistica” del conflitto e della transazione tra i diversi gruppi di pressione
e “corpi” istituzionali porta inesorabilmente alla dissoluzione dell’unità sovrana dello Stato. Schmitt condivide con
Weber un elemento di essenziale discontinuità con quella tradizione: la crisi dei fondamenti su cui si reggeva il
soggetto politico classico della sovranità. Frequente ed esplicita ricorre, d’altronde, negli scritti schmittiani la polemica
con le diverse varianti del corporativismo: dalla versione romantico-reazionaria di un Othmar Spann, a quella ben
altrimenti articolata di un Gierke, fino allo stesso “pluralismo” di Cole e Laski. Il dispositivo della critica schmittiana si
sorregge su due coordinate:
1) il criterio specifico del politico non sta nel rifondare e nel ricomporre, ma nel dirimere e nel divenire: qui il
significato più peculiare e intrinseco del concetto di decisione. La teoria della decisione si pone in Schmitt agli antipodi
delle strategie fondazionalistiche. Il “politico” d’altronde, è definito da Schmitt fuori di ogni metafora spaziale: non
luogo fisicamente delimitabile, ma “criterio” appunto che acquista senso ed efficacia solo in rapporto con la tonalità di
volta in volta prevalente nel contesto pluridimensionale della “cultura dell’epoca” riassunto nel concetto di
Zentralgebiet. Il politico non si identifica, né si riconcilia, con nessuno degli “amabiti centrali” che hanno caratterizzato
il modello processo di secolarizzazione della “teologia politica”, ma li attraversa tutti destabilizzandone le funzioni
“neutralizzanti”.
2) la validità del politico non dipende da nessuna struttura giuridica, da nessun assetto istituzionale, da nessuna
compagine costituzionale. Può solo “manifestarsi”, mai realizzarsi-risolversi in essi. La ragione di ciò è racchiusa nella
coppia opposizionale propria del “politico”: l’antitesi amico-nemico.
“Nemico” è per Schmitt il nemico pubblico (hostis) non il nemico personale, privato (inimicus). Il concetto di hostis
esclude ogni referente di carattere emotivo. Il politico si qualifica così come quel tipo particolare di “aggregazione” che
dirime e innova, rompendo con il criterio neoclassico della commensurabilità degli “interessi”. “Sovrano” è, allora,
proprio colui che decide su quello “stato di eccezione” che “per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il
razionalistico XVIII secolo” rappresentava “qualcosa di incommensurabile”. Sovrano sarà, dunque, chi si rivelerà
capace di tracciare la linea di demarcazione tra “amico” e “nemico”. Di ridisegnare i profili dell’antitesi politica dietro
l’apparente normalità dell’equilibrio concorrenziale. E’ l’eccezione a costituire la misura della “regolarità” e della
“normalità” non viceversa. L’eccezione confonde l’unità e l‘ordine dello schema razionalistico. Uno Stato mero
garante-custode della norma, dell’ordinamento giuridico-istituzionale dato, finisce per identificarsi e annullarsi in esso.
L’equilibrio su cui si regge l’automatismo normativo non può più essere, in tal caso, innovato e trasformato, ma
soltanto aggiustato e “ottimizzato”. Ma una volta che quell’equilibrio s’incrina, il destino dello Stato sarà fatalmente
quello di restarne coinvolto, assorbito senza residui. Questo Stato, per Schmitt, è morto, perché ha perduto il
monopolio del politico.
Il concetto di sovranità tende ad assumere in Schmitt uno statuto ambiguo: ora formalistico, ora empiristico. Da quella
sorta di codice binario che si viene a costituire in conseguenza della distinzione tra politico e statuale, da un lato, e
della correlazione tra la sovranità e il “chi” decide sullo stato d’eccezione, dall’altro. L’esistente è infatti contingente.
Per le “esistenze” non vi è infatti Bildung, processo di generazione-costituzione: vi è soltanto gemmazione. La
decisione non è mai effetto o risultante di un processo di formazione-costituzione, ma viceversa costitutiva di esso.
Sotto il profilo del rapporto legalità-legittimità non vi è differenza radicale tra la posizione di Schmitt e quella di Weber.
La critica schmittiana a Weber è imputabile infatti in buona misura, come si ricordava inizialmente, alla forzata
assimilazione delle tesi weberiane operata da Kelsen. Se è vero che per Weber la legittimazione del potere non può
essere fatta meccanicamente discendere dal semplice riscontro empirico dell’effettività, è altresì vero che per Weber,
come per Schmitt, la legalità e l’ordinamento giuridico non sono la causa della legittimità, ma soltanto la sua forma
necessaria.
Nel punto più alto e logicamente più cogente della critica postweberiana al liberalismo si annida, dunque, un sottile
contrappasso. Essa assume a forma di un paradossale anacronismo, che manifesta nell’incapacità di portare fino in
fondo le conseguenze del riconoscimento che la dimensione statuale ha ormai irrevocabilmente perduto la propria
“aura” ed è in se stessa espressione. Il decisionismo di Schmitt ha il merito di prendere atto, a un alto livello di
consapevolezza teorica, di un processo che si veniva producendo nella pratica: la scollatura, il non-parallelismo,
l’asincronia tra ratio economico-produttiva e assetto politico-istituzionale. Se la costante di antineutralizzazione del
Politico è indifferenza ai soggetti storicamente determinati che si costituiscono dentro la dinamica dei “mutamenti di
forma” del diritto e dello Stato. La Sovranità non è altro che sovrana indifferenza al sistema dei bisogni, degli interessi
e delle relazioni di potere emersi dalla crisi dello Stato liberale.
Oggi appare ancora più marcato che nel primo dopoguerra un tratto distintivo dell’epoca contemporanea, messo in
evidenza dallo stesso Schmitt nella Premessa all’edizione italiana (1971) della silloge Le categorie del “politico”:
- lo Stato, in seguito al sorgere di nuovi soggetti “non più statali” ha perduto il monopolio del politico;
- questo trend di oltrepassamento dello Stato da parte della politica viene a prodursi al culmine di un processo “di
mezzo secolo” di storia, nel corso del quale “l’Europa ha perduto il ruolo di centro della politica mondiale”.
In che misura, dunque, è possibile raffigurarsi l’attuale situazione di crisi nei termini drastici di un ritorno al classico? Il
quesito che si propone va oltre la divisione di campo tra “monisti” e “pluralisti” concezione “monopolistica” del potere
e teoriche del “potere diffuso”. La questione dello statuto specifico della decisione come attributo peculiare della
sovranità presenta sin dalle origini una struttura dimidiata, che produce una piega vistosa nella stessa “linea”
Machiavelli-Hobbes. Il dilemma è reso con efficacia da Walter Benjamin: lo scettro del sovrano simboleggia la
decisione che, reggendosi nel vuoto, mette ordine nel caos. E’ inevitabile che il dilemma si riaffacci anche una volta
abbracciata la più comprensiva e più “evoluta” immagine del potere diffuso. Può essere l’essenza del politico risolta
nelle relazioni funzionali tra razionalità delle forme di potere e assetti interni agli ambiti specifici di sapere? Da
Machiavelli a Schmitt, da Hobbes a Weber, il politico moderno non conosce soltanto il campo di tensione tra uno e
molteplice.
VI. TEMPO DELLA NORMA E TEMPO DELL’ECCEZIONE: PER UNA METACRITICA DEL PARADIGMA SISTEMICO
Nelle conclusioni del romanzo White-Jacket, il mondo appare a Melville come una fregata che si è lasciata per sempre
alle spalle il suo porto e naviga con ordini sigillati verso una meta sconosciuta. L’angoscia del disordine e del
deperimento energetico del sistema si è venuta imponendo nella teoria sociale contemporanea con l’ingresso della
categoria di irreversibilità. La comprensione del divenire storico sotto la forma dell’irreversibilità ha indotto, a partire
dalla metà del Settecento un drastico mutamento nei rapporti del sistema sociale occidentale col tempo, il cui indice
sta nella rottura della visione ciclico-fiscale della politica. La politica classica, protomoderna, fonda il proprio carattere
di artificialità e scientificità nell’idea che gli eventi naturali-sociali siano soggetti al principio di reversibilità: lo stato di
natura non può essere tolto o soppresso, ma comunque revocato o sospeso dall’intervento dell’artificio statuale. Alla
base di tale concezione opera un’idea di tempo storico esemplata sull’immagine del cerchio: l’idea della rigenerazione
del tempo, consegnata alla metaforica naturalistica che ancora sorregge i concetti di sviluppo e di crescita e
simboleggia dalla curva parabolica in cui si compie il destino di tutte le forme di governo. Alleanza tra le tematiche
protomoderne e quelle del cosiddetto “postmoderno”: se il protomoderno è “a misura di crisi” sotto il segno della
trasparenza-calcolabilità. Il postmoderno è ridefinizione della rete delle formalizzazioni, e quindi dell’intera morfologia
sociale, in dispositivo plurivoco di controllo e filtraggio apprestato per fronteggiare un campo strutturalmente
indeterminato di contingenza. Il prevalere crescente, nella teoria politica e sociale del XX secolo, dei modelli
neoclassici, prima, e di quelli funzionalisti e sistemici, poi, ha propagato la visione spettrale di un’incombente minaccia
di morte del sistema, il cui procedere esponenziale va di pari passi non con gli scacchi esperiti dal sistema stesso, ma
piuttosto con le sue conquiste evolutive. L’essere-per-la-morte dei sistemi complessi tende così a profilarsi come un
diretto portato del “naturale” assestamento dei loro dispositivi di equilibrio. Il sentimento di fatalità con cui viene
reiteratamente prospettata l’evenienza catastrofica, tende qui a duplicarsi a livello epistemologico nell’assunto che
identifica la razionalità del sistema con la sua normazione e riproduzione “equilibrata”.
La riflessione sul concetto di catastrofe (René Thom) può avere oggi una rilevanza non generica, proprio in relazione ai
problemi emergenti da questo quadro. Gli stimoli e le suggestioni provenienti dalla teoria delle catastrofi possono
aiutare a risolvere l’impasse in cui oggi versa l’analisi del mutamento dei sistemi soggetta ai postulati dell’equilibrio e
dell’invarianza riproduttiva.
“Critica dell’ideologia”. Le critiche di neoilluminismo conservatore con cui si tende a liquidare le versioni sociologiche
della teoria dei sistemi sono quasi sempre condotte dal punto di vista di un “trasformazionismo” olistico
pateticamente ineffettuale, che appare, sin dalla sua disposizione iniziale, spiazzata rispetto al livello delle questioni
implicate dall’approccio sistemico, e quindi impotente a rilevarne in modo pertinente le specifiche aporie.
1) In primo luogo, per essa la nozione di sistema possiede, a differenza che nel marxismo, un connotato di insuperabile
parzialità: mentre per il marxismo la dinamica del sistema “è tutto”, per la teoria sistemica il sistema è soltanto una
“parte” o meglio: uno dei due lati costitutivi di un’evoluzione sociale che non può essere globalmente formalizzata e
che, soprattutto, non affonda le sue radici in nessuna razionalità della storia.
1) In secondo luogo, l’orizzonte sistemico è espressione di una dinamica di trasformazione del sistema sociale che ha
metabolizzato la crisi: sotto questo profilo, il termine “catastrofe” rappresenta un’innovazione della nomenclatura
relativa alla logica di funzionamento e di modificazione delle forme di società, fortemente motivata dal fatto che il
termine “crisi” è ormai divenuto inoffensivo, anodino.
La metabolizzazione della crisi da parte del sistema sociale è riflessa dai modelli teorici di questo secolo per gradi
successivi: l’orizzonte neoclassico è quello di una decisionalità operazionale è l’orizzonte della riduzione della
decisione a calcolo costi-benefici; l’orizzonte funzionalista e sistemico è invece quello della differenziazione-
complessificazione che fascia un sistema aperto alla contingenza “ambientale” di cinture protettive della coerenza
delle regole del gioco – è l’orizzonte del “raffreddamento” del processo innovativo, della produzione di istituzioni a
mezzo di istituzioni”.
Sono proprio le suggestioni trasmesse dagli sviluppi più recenti delle teorie scientifiche a spingere a una vigorosa
revoca in questione di questa autorappresentazione del sistema. Catastrofe, non equivale né a interruzione né a
dissoluzione, ma ad autonomia della logica di un discontinuo inteso al tempo stesso in senso forte e in senso non-
generale, determinato e topologicamente circoscrivibile. Per questa stessa ragione, il concetto di catastrofe non
possiede i caratteri di debolezza e di generalità che ormai inestricabilmente ineriscono al concetto di crisi. Non a caso
la teoria di Thom distribuisce equamente la sua critica sia contro il “trasformazionismo” classico sia contro il postulato
dell’equilibrio. Punti di vista che, per quanto contrapposti, convergono nella neutralizzazione in “teoria generale” del
problema della forma e della sua dinamica. Il problema trasmesso alla teoria sociale del concetto di catastrofe è
dunque quello dell’enigma di forma. Per la cultura di sinistra, e per una cultura della trasformazione in genere, questo
problema si riassume nell’interrogativo: è possibile ridefinire in modo adeguato ai tempi, l’intuizione marxiana della
discontinuità come spazio che racchiude nuclearmente la logica di funzionamento delle forme di società?
a) La prima investe la questione degli “specialismi” che ha rappresentato in questi anni in Italia uno dei principali
cavalli di battaglia del dibattito sulla crisi del marxismo. L’attardarsi su questa tematica rischia oggi di assumere una
funzione frenante che impedisce di andare oltre la fase critico-dissolutiva apprestando forme teoriche propositive di
contestualizzazione della dinamica sociale contemporanea. Danneggiata può risultare, dallo svolgimento di un siffatto
programma, soltanto la “boria specialistica” la pervicace illusione di autoconsistenza e radicamento nello spazio
insulare di “discipline” le cui “guardie confinarie” sono ormai circondate da ogni lato da fuori problematici e
interrogativi di fondo che solcano trasversalmente tutte le tradizionali divisioni di campo del sapere moderno.
b) La seconda implicazione investe l’effetto di definitiva secolarizzazione che il concetto di catastrofe induce su
categorie epocali come crisi, transizione, trasformazione. Tale effetto viene a distribuirsi su due piani. Della nozione di
crisi viene a cadere innanzitutto il sostegno assiologico implicito nella sua dipendenza dalla metafora medica: la
deontologia politico-professionale del risanamento. Delle nozioni di transizione e trasformazione e in genere della
famiglia dei termini connotativi di processi di metamorfosi, viene a cadere la rilevanza epistemologica della dialettica
soggetto-oggetto.
L’oltrepassamento dello spazio teorico polarizzato dal dualismo soggetto-oggetto, avviene attraverso il conferimento a
tutte le forme esistenti nella realtà di una “soggettività” di un progetto incorporato. Ogni meccanismo è un sistema
“progettato”. E ciò che caratterizza il progetto è la conservazione e riproduzione della norma strutturale.
E’ possibile individuare, in un esame in parallelo tra sviluppo dei modelli scientifici attorno al problema della
successione delle forme e sviluppo dei progetti di sistema sociale, due modelli che rispondono a due fasi storiche
diverse del problema stesso.
2) Il secondo modello fa invece dipendere l’ordine teleonomico non già dall’invarianza, bensì dalla fluttuazione. Ciò
che nell’ottica precedente era “caso”, qui non è altro che la “normale” dinamica innovativa da cui si generano le forme
e la loro stabilità. In questa prospettiva, l’enunciato per cui ogni sistema macroscopico si evolve necessariamente nel
senso della degradazione dell’ordine che lo caratterizza è valido solo se si considera un sistema chiuso,
energeticamente isolato.
Il peso della loro differenza opera anche laddove il riferimento all’uno o all’altro resti implicito. In caso di riferimento
al primo, pertanto, si porrà in rilievo la proprietà di invarianza capace di mantenere-riprodurre la norma strutturale
“conservando il caso” e subordinandone gli effetti alle regole del gioco selettivo; nel secondo caso si insisterà invece
sullo squilibrio, l’innovazione, l’evento destabilizzante come fatto produttivo di autentico ordine: l’ordine mediante
“fluttuazioni” versus la condizione di squilibrio. Solo in un sistema chiuso la comparsa di fluttuazioni non comporta
alcuna alterazione finale della condizione di equilibrio, della stabilità del sistema. Ma in un tale sistema, una volta
raggiunto l’equilibrio, non può avvenire più nulla di rilevante. Nulla può più accadere, perché l’intervallo tra i tempi si
è contratto fino a raggiungere un grado di quasi-irrilevanza. Un modello di sistema aperto assume invece come
referente della propria razionalità non solo il momento cumulativo-produttivo, ma anche quello del consumo
energetico.
L’aporia della concezione kelseniana non sta affatto in una ingenua assegnazione di proprietà alla norma rispetto al
momento materiale-effettuale della forza. Il sistema delle norme deve potersi estendere, riformare, replicare e
ottimizzare per fornire una funzione attendibile di durata della relazione di potere. L’aporia del discorso kelseniano sta
altrove: nell’identificazione della relazione funzionale con il sistema delle norme. La norma come tale non è in grado di
fornire argini alt asso illimitato di contingenza che entra nel sistema. Vi è dunque un’impotenza della teoria normativa
pura a far fronte ai presupposti dinamici che essa stessa ha conferito al sistema autonomo di produzione della
contingenza. Il modello strutturale-funzionale, elaborato nella sua più classica versione da Parsons, assume questo
problema in un programma descrittivo-prescrittivo di integrazione della contingenza, che svincola il paradigma
relazionale-funzionale del potere dal postulato della proprietà normativa pure e lo sgancia definitivamente dal
modello lineare di scopo. La relazione funzionale si traduce così in una interazione che ridefinisce costantemente il
grado di rilevanza reciproca dei diversi sottosistemi.
Il fatto che il paradigma sistemico esorcizza non è dunque l’innovazione, ma la catastrofe. La sola innovazione
razionalmente accettabile e praticabile è quella che preserva-riproduce l’identità del sistema. La priorità teorica e
pratica ritorna così al concetto di equilibrio: è a partire dall’equilibrio che si comprende lo squilibrio, non il contrario.
La macroperturbazione che travolge le soglie critiche di un sistema alterandone gli equilibri complessivi rappresenta
un evento commensurabile. L’eventualità che l’approccio sistemi esorcizza non è affatto remota, ma prossima. La
rimozione ha dunque un effetto di dissimulazione rispetto alle effettive modalità di funzionamento dei sistemi aperti.
1) In primo luogo, come ha notato Herbert Spiro, la dinamica dei sistemi sociali tende ad assumere una forma
caleidoscopica: a rappresenta non basta, dunque, un’istantanea, ci vorrebbe una ripresa cinematografica.
2) In secondo luogo, poiché in una struttura dissipativa non-lineare una fluttuazione è suscettibile di amplificarsi e di
produrre un mutamento macroscopico di portata strutturale, dunque una trasformazione del sistema, il baricentro
dell’iniziativa di quest’ultimo nei confronti dell’ambiente deve spostarsi dal punto di equilibrio: per cui il sistema è
costantemente costretto a lavorare su una soglia critica sottile, in cui lo scarto tra lo “strettamente indispensabile” e il
“troppo” tende a diventare pericolosamente minimo.
Il problema non è allora soltanto di invertire il paradigma che privilegia il momento dell’equilibrio, di spiegare la
stabilità-normalità a partire dall’eccezione e dall’instabilità, ma piuttosto quello di cogliere la forma stessa come una
discontinuità in actu, come espressione vivente di una lacerazione e una rottura che traccia una frontiera tra ragione e
irrazione, dicibile e indicibile, parola e silenzio: la vera catastrofe è la creazione di “identità” tramite la produzione di
forma. Il concetto di catastrofe viene così pienamente ad assumere il carattere di ritrascrizione della nozione di crisi
nei termini dello “stato d’eccezione” come regola.
La prima nozione a essere investita è, accanto a quella di crisi, quella di trasformazione. L’altra categoria che la
problematica della morfogenesi sottopone indirettamente a tensione è quella di antagonismo. Nella fattispecie, essa ci
spinge a metter mano a una sua ridefinizione. Non si tratta soltanto di comprendere una forma sociale e la sua
dinamica di sviluppo-crisi a partire dalle opposizioni produttive. Si tratta soprattutto di visualizzare il complesso dei
fattori decostruttivi dell’identità strutturale di un sistema dato come qualcosa non di informe, ma di formato, avente
una propria logica. La nuova forma dell’antagonismo: il problema è, pertanto, quello dell’avvio di una ricerca di
carattere formale, piuttosto che sostantivo. L’individuazione-ricostruzione di questo nuovo antagonismo deve
necessariamente partire dall’esame della rottura di simmetria intervenuta nell’atteggiarsi del sistema sociale rispetto
al tempo con l’avvento dell’idea di progresso e con il conseguente prevalere di una forma del progetto sociale
orientata verso uno stato futuro.
Un caso, per così dire emblematico, di estremi che si toccano è costituito dalla popolarità interpretativa con cui la
cultura di sinistra in Italia ha coniato, più ancora che affrontato, il tema della cosiddetta “crisi del Welfare” o dello
“Stato sociale”. Da una parte, la tendenza alla rottura o allo smantellamento dei dispositivi istituzionali di assistenza e
di protezione sociale del Welfare viene fatta coincidere con la riemersione del classico antagonismo di classe, che
farebbe finalmente saltare i complicati circuiti di mediazione con i quali lo stato avrebbe tenuto imbrigliata la
“contraddizione”: Dall’altra la crisi viene invece ricondotta al proliferare, ormai istituzionalmente improgrammabile e
incontrollabile, di quello che viene definito un quadro pointilliste dei processi sociali: i conflitti che da esso si
sprigionano sarebbero così l’estrinsecazione di un’inquietudine strutturale, di un movimento saltellante senza una
logica e una direzione riconoscibili, specchio fedele della complessità “postmoderna”.
Le difficoltà in cui oggi versano le politiche sociali degli Stati occidentali coinvolgono la sinistra in modo ancora più
profondo di quanto noi stessi non si sia disposti a credere. Il fatto che oggi si sia in presenza di una crisi dell’armonia
prestabilita, o se si preferisce del parallelismo ottimale, tra crescita e progresso investe le sorti dell’equazione
keynesana non in quanto ultima ratio dell’orizzonte “borghese” ma in quanto espressione contemporanea di una
forma sociale la cui logica di funzionamento, o di invarianza riproduttiva, si fonda sullo schema accumulazione-
redistribuzione. Le “degenerazioni” sono piuttosto un risultato del riprodursi di quella forma dello sviluppo e del suo
generalizzarsi su scala mondiale.
La mappa degli intrecci è tale da sottoporre a tensione i criteri che stavano alla base della tradizionale divisione di
campo tra le due grandi sintesi politiche dell’era industriale: liberalismo e marxismo. A partire dall'illuminismo il
progresso si è trasformato, da nozione meramente descrittiva e sostanzialmente anodina, in un concetto orientativo e
dirompente di filosofia della storia. Il vecchio e blasonato dibattito su possibilità o necessità del progresso è da
intendersi ormai superato. I caratteri della filosofia moderna del progresso risultano da un'estensione del mitologema
dell’Homo faber alla storia: dall’idea cioè che non solo la natura che esiste gratuitamente, è un semplice oggetto della
prassi trasformatrice umana, ma che lo stesso futuro può essere plasmato e progettato da questa prassi. La
dimensione del futuro viene così a sostituire a pieno titolo le funzioni salvifiche che l’escatologia giudaico-cristiana
assegnava alla vita ultraterrena o destinava alla consumazione dei secoli. Ciò in questa concezione giustifica il sacrificio
del presente e delle esistenze individuarli, alla causa del progresso e/o della rivoluzione è la fede che la storia abbia un
senso e che questo senso coincida con la sua direzione. L’esito in cui sfocia questa ideologia non è però come hanno
ritenuto i “francofortesi” la tirannide onnipervasiva e totalizzante della “fatticità” ma piuttosto l'annichilimento del
presente e dell'esistenza: portato inevitabile della logica della futurizzazione, che brucia il presente trasvalutandolo in
tappa del lungo viaggio dell'Umanità verso il Progresso.
Il problema della democrazia di massa contemporanea non è soltanto o necessariamente quello del “pluralismo
limitato” o del deficit di rappresentanza ma soprattutto quello di dell'ineffettualità della rappresentanza stessa.
Ineffettualità che si manifesta in una duplice direzione: verso la dinamica politico-decisionale e verso la dinamica di
diversificazione e di intreccio tra gli interessi sociali effettivi. Tocqueville diceva di farsi carico analiticamente delle
conseguenze radicali del principio democratico. Se a partire dal 1989, l’ingresso dell’eguaglianza nella storia ha
inaugurato una tendenza irreversibile, come scongiurarne il “destino” indicato dalla prognosi tocquevilliana: la nuova
tirannide del conformismo e dell'omologazione?
La problematica implicata d questo interrogativo ha rinnovato in anni recenti la fortuna del tema della democrazia
autoritaria. C’è il rischio che non venga affrontato in tutta la sua complessità: che venga, cioè, schiacciato su quello
dello “Stato autoritario”. Pletora della rappresentanza. Si tratta ora di afferrare che questa situazione di stallo non
dipende da fattori congiunturali, ma è l’sito di un lungo processo apertosi con la Rivoluzione francese. A datare
dall’epoca del progresso, la politica non lavora più su un universo segnico, ma sul Senso. Non predica più Pace e
Ordine fini a se stessi, ma pace e ordine per realizzare Libertà, Eguaglianza, Fraternità. Il suo processo di legittimazione
non si risolve più nell’architettura della rappresentazione degli ordini, nel simbolismo della spazializzazione
geometrica, ma deve fare i conti con il fattore-tempo. La pletora rappresentazionale che caratterizza le Costituzioni
materiali contemporanee non è che l’effetto di una politica costretta a lavorare sul senso, a fare i conti non più solo
con lo spazio sociale, ma anche con il tempo sociale: con la dinamica di movimenti collettivi che avanzano le proprie
pretese come già legittimate dalla Storia. Questo processo ha comportato una crescente espansione o, come si dice,
uno strapotere dell’amministrazione. Una delle caratteristiche dello Stato sociale è data dalla tendenza a convogliare-
neutralizzare la spinta delle domande di democratizzazione moltiplicando e articolando le istanze rappresentative. La
pletora rappresentazionale che di qui si produce determina un ulteriore aggravamento della crisi del concetto classico
di rappresentanza politica rispetto alla fase del primo dopoguerra. Alla convivenza di “formale” e “informale” prodotta
dall’accettazione e giustapposizione di istituti costituzionalmente non riconosciuti della rappresentanza e della
contrattazione degli interessi accanto alla rappresentanza universale, si sono aggiunti nel dopoguerra altri due fattori:
2) la dislocazione delle funzioni di rappresentanza verso organizzazioni che non pretendono di esercitare alcuna
funzione di governo
Nella democrazia di massa contemporanea, gli aspetti dell’autoritarismo e dell’impotenza a governare, anziché
escludersi o risolversi in un punto di fuga unidirezionale, convivono: l’uno funziona così come l’interfaccia dell’altro, in
un silenzioso circolo legittimante. Quando questo circuito di legittimazione s’interrompe, abbiamo il blocco del sistema
politico.
Natura asincronica e caratteri critico-culturali dell’antagonismo. La nozione marxista di antagonismo deve dunque
ridefinirsi radicalmente in rapporto alla problematica dei “limiti sociali allo sviluppo”. Ciò implica che il baricentro
dell’analisi venga spostato dall’imputazione di presunti “limiti oggettivi” allo Stato sociale all’enucleazione dei
paradossi dell’opulenza, della coazione distributiva e del collettivismo riluttante, e in secondo luogo che si pongano in
rilievo le contraddizioni socioculturali che investono gli equilibri del welfare in quanto espressione di una fase storica
determinata della secolarizzazione della società occidentale.
La reintroduzione del tema del potere – tensione tra potestas e potentia – potrebbe servire a gettare luce su altre
questioni cruciali, come ad esempio quella del rapporto tra libertà ed eguaglianza. E’ proprio inevitabile che il
rapporto tra questi due termini si configuri come un “gioco a somma zero”: per cui là dove prevale la libertà e il
dinamismo individuale vi è discriminazione; là dove invece si afferma il principio egualitario si produce
inesorabilmente una tendenza all’appiattimento.
Se a una parte l’interdipendenza tra le nuove dimensioni del sociale e il ciclo politico del welfare esibisce la
costituzione di una polarità antagonistica irriducibile al solo punto di vista della crisi fiscale e dell’emergere di
movimenti antifiscalisti, dall’altra non consente neppure di conferire al discorso la forma e l’estensione di una teoria
generale. La definizione dell’antagonismo non tollera formalizzazioni globali, protette da una filosofia della storia
“traformazionista”: tollera soltanto formalizzazioni-delimitazioni locali.
In secondo luogo, le difficoltà di conferire al nuovo antagonismo una faccia politico-progettuale derivano dal suo
carattere non-preformato e non-prevedibile, che non dipende soltanto dal fatto, peraltro rilevantissimo, di segnalare
la realtà del postpolitico, di una politicizzazione che avviene in buona parte all’esterno delle mediazioni istituzionali e
partitiche, ma scaturisce direttamente da quella che ho precedentemente chiamato discrasia tra esistenza e forma di
progetto fondata sulla prospezione futurologica connaturata alla coppia moderna progresso-rivoluzione.
Il problema della sinistra europea oggi non sta nel fatto di essere poco unita, ma piuttosto sta nel fatto di essere
bloccata. A essa fa tuttavia riscontro una destra che, a onta del suo vocabolario aggressivo e spregiudicatamente
innovativo, si presenta ancora divisa, perché incapace di dare effettualità alle sue illusioni di ripristino dei meccanismi
di mercato: neanche la destra più “disincantata” può azzerare la complessità prodotta dell’intervento politico sul ciclo.
L’impasse non è risolvibile oggi in termini di teoria generale. Ma, se il tempo delle grandi sintesi è finito, ciò non
significa che si debba rinunciare alla possibilità di una fondazione scientificamente controllata della nostra pratica, che
ci renda capaci di ordinare in un sistema coerente le nostre scelte. Significa piuttosto individuare nell’autolimitazione
consapevole dei nostri disegni progettuali la conditio sine qua non per passare dalla frase critico-dissolutiva a quella
propositivo-costruttiva.