Totalità e Infinito

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TOTALITA’ E INFINITO – LEVINAS

PREFAZIONE
Tutti ammetteranno facilmente che la cosa più importante è sapere se non si è vittime della morale. Lo stato
di guerra sospende la morale; esso priva le istituzioni e quindi annulla, nel provvisorio, gli imperativi
incondizionali. La guerra non è solo una delle prove, ma la più grande di cui vive la morale. La politica si
impone, quindi, come l’esercizio stesso della ragione. La politica si oppone alla morale, come la filosofia
all’ingenuità. La violenza non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’interrompere la
continuità delle persone. Essa instaura un ordine nei confronti del quale nessuno può prendere le distanze.
Perciò nulla è esteriore. La guerra non manifesta l’esteriorità e l’altro come altro; essa distrugge l’identità
dello Stesso. Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità. Gli individui
traggono da questa totalità il loro senso. L’unicità di ogni presente si sacrifica continuamente ad un futuro
che è chiamato a rivelarne il senso oggettivo.
Storicamente, la morale si opporrà alla politica e avrà superato le funzioni della prudenza o i canoni del
bello, per pretendersi incondizionale ed universale, quando l’escatologia della pace messianica verrà a
sovrapporsi all’ontologia della guerra. D’altra parte, lo straordinario fenomeno dell’escatologia profetica non
si preoccupa certo di ottenere un diritto di cittadinanza nel pensiero, assimilandosi ad una evidenza
filosofica. L’escatologia sembra “completare” le evidenze filosofiche. L’escatologia accetterebbe già
l’ontologia della totalità prodotta dalla guerra. Essa non introduce un sistema teleologico nella totalità, essa
non consiste nell’insegnare l’orientamento della storia. L’escatologia mette in relazione con l’essere, al di là
della totalità o della storia. Essa è relazione con un sovrappiù sempre esterno alla totalità, come se la totalità
oggettiva non soddisfacesse la vera misura dell’essere, come se un altro concetto dovesse esprimere questa
trascendenza nei confronti della totalità. Questo “al di là” della totalità e dell’esperienza oggettiva, non si
descrive tuttavia in maniera puramente negativa. L’escatologico, in quando “al di là” della storia sottrae gli
esseri alla giurisdizione della storia e del futuro. Sottoponendo al giudizio la storia nel suo insieme, esso
restituisce ad ogni istante, il suo significato concluso. Non è il giudizio ultimo quello che conta, ma il
giudizio di tutti gli istanti nel tempo. L’idea dell’essere che va oltre i confini della storia rende possibili degli
ent-i impegnati nell’essere e, nello stesso tempo, personali, chiamati a rispondere al loro processo e, quindi,
già adulti, ma, per ciò stesso, degli ent-i che possono parlare, invece di offrire le loro labbra ad una parola
anonima della storia.
La prima “visione” dell’escatologia riguarda proprio la possibilità dell’escatologia cioè la rottura della
totalità. L’esperienza della morale non deriva da questa visione piuttosto, consuma questa visione. Della pace
si può trovare solo un’escatologia. Questo significa che essa non viene a situarsi, nella storia oggettiva
scoperta dalla guerra, come fine di questa guerra o come fine della storia. Siccome l’escatologia ha opposto
la pace alla guerra, l’evidenza della guerra si mantiene in una civiltà essenzialmente ipocrita, cioè legata ad
un tempo al Vero e al Bene, ormai antagonisti. Ma per il filosofo l’esperienza della guerra e della totalità non
coincide semplicemente con l’esperienza e l’evidenza? L’escatologia della pace non vive di opinioni e di
illusioni soggettive? Senza sostituire l’escatologia alla filosofia, senza “dimostrare” filosoficamente le
“verità” escatologiche – si può risalire a partire dall’esperienza della totalità ad una situazione nella quale la
totalità si spezza, mentre questa situazione condiziona la totalità stessa. Il concetto di questa trascendenza si
esprime con il termine di infinito. Il modo di risalire e di mantenersi al di qua della certezza oggettiva che si
sta descrivendo, è simile a quello che si è convenuto di chiamate metodo trascendentale, senza che per questo
si debbano comprendere in questa nozione anche i procedimenti tecnici dell’idealismo trascendentale. La
relazione con l’infinito eccede il pensiero in un senso completamente diverso dall’opinione. Nell’idea
dell’infinito si pensa ciò che resta sempre esterno al pensiero. L’idea dell’infinito, cioè lo spirito, prima di
offrirsi alla distinzione di ciò che scopre da se stesso e di ciò che riceve dall’opinione. L’idea dell’infinito
libera la soggettività dal giudizio della storia per dichiararla, in ogni istante, matura per il giudizio e come
chiamata a partecipare a questo giudizio, impossibile senza di essa. Gli esseri particolari abbandonano la loro
verità in un Tutto nel quale svanisce la loro esteriorità? Questo libro si presenta allora come una difesa della
soggettività, ma non la coglierà al livello della sua protesta puramente egoistica contro la totalità, né nella
sua angoscia di fronte alla morte, ma come fondata nell’idea dell’infinito. La produzione dell’entità infinita
non può essere separata dall’idea dell’infinito, perché è appunto nella sproporzione tra l’idea dell’infinito e
l’infinito di cui essa è l’idea che si produce questo oltrepassamento. L’idea dell’infinito è il modo d’essere –
l’infinizione dell’infinito. L’infinito non è in un primo momento per rivelarsi solo in un secondo momento.
La sua infinizione si produce come rivelazione, come immiizzazione della sua idea. La soggettività realizza
queste esigenze impossibili: il fatto stupefacente di contenere più di quando non sia possibile contenere.
Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri. Contenere al di là delle proprie capacità,
non significa abbracciare od inglobare con il pensiero la totalità dell’essere. Contenere al di là delle proprie
capacità, cioè far esplodere i limiti di un contenuto pensato, scavalcare le barriere dell’immanenza, senza
però che questa irruzione nell’essere si riduca di nuova ad un concetto di irruzione.
La coscienza non consiste dunque nell’uguagliare l’essere con la rappresentazione, nel tendere alla piena
luce nella quale si cerca questa adeguazione, ma nell’attuare degli eventi il cui significato ultimo non si
riduce a svelare.

In quest’opera, la deduzione fenomenologica riconduce il pensiero teorico sull’essere e l’esposizione


panoramica dell’essere stesso ad un significato che non è irrazionale. L’essenziale dell’etica è nella sua
intenzione trascendente. L’etica, già di per se sessa, è un’ottica. Essa non si limita a preparare l’esercizio
teorico del pensiero che monopolizzerebbe la trascendenza. Fino ad ora il rapporto tra teoria e pratica era
concepito solo nei termini di una solidarietà o di una gerarchia: l’attività si fonda su delle conoscenze che la
illuminano; la conoscenza attende dagli atti il dominio sulla materia, sulle anime e sulle società atto a
procurare la pace necessaria al suo esercizio puro. Noi andiamo ben oltre e, col rischio di sembrar
confondere teoria e pratica, consideriamo entrambe come modi della trascendenza metafisica.

SEZIONE PRIMA: IL MEDESIMO E L’ALTRO


A. METAFISICA E TRASCENDENZA
“La vera vita è assente”. Ma noi siamo al mondo. La metafisica sorge e si mantiene in questo alibi. Essa è
rivolta all’altrove e all’altrimenti e all’altro. essa appare infatti come un movimento che parte da un mondo
che ci è familiare da una casa “nostra” e nella quale abitiamo, e va verso una casa “non-nostra”, verso un
laggiù. Il termine di questo movimento – l’altro o l’altrove – è detto “altro” in un senso eminente. L’Altro
metafisicamente desiderato non è altro come il pane che mangio, come il paese che abito. Questo “io”,
questo “altro”. Con queste realtà, posso “nutrirmi” e, in larghissima misura, soddisfarmi, come se mi fossero
semplicemente mancate. E per questo motivo la loro alterità si riassorbe nella mia identità. Il desiderio
metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente altro. Alla base del desiderio
comunemente interpretato sarebbe il bisogno. Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il
desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Il desiderio metafisico non si fonda su nessuna parentela
preliminare. Persino l’amore è allora considerato alla stregua della soddisfazione di una fame sublime. I
desideri che possono essere soddisfatti assomigliano al desiderio metafisico solo nelle delusioni della
soddisfazione o nell’esasperazione della non-soddisfazione e del desiderio, che costituisce la voluttà stessa. Il
desiderio metafisico ha un’altra intenzione – desidera ciò che sta al di là di tutto quello che può
semplicemente completarlo. Il desiderio è assoluto se l’essere che desidera è mortale e il Desiderato,
invisibile. L’invisibilità non indica un’assenza di rapporto; implica dei rapporti con ciò che non è dato e di
cui non c’è idea. Desiderio senza soddisfazione che, appunto, intende l’allontanamento, l’alterità e
l’esteriorità dell’Altro. Per il Desiderio, questa alterità, inadeguata all’idea, ha un senso. Essa è intesa come
alterità dell’Altro e come quella dell’Altissimo. Morire per l’invisibile – ecco la metafisica.

Questa esteriorità assoluta del termine metafisica è pretesa, se non dimostrata, dalla parola trascendente. Il
movimento metafisico è trascendente e la trascendenza, come desiderio ed inadeguazione, è necessariamente
una trascendenza. La sua caratteristica formale – essere altro – ne è il contenuto. Così il metafisico e l’Altro
non si totalizzano. Il metafisico e l’Altro non costituiscono una correlazione qualsiasi che sarebbe
reversibile. L’alterità, l’eterogeneità radicale dell’Altro è possibile solo se l’Altro è altro rispetto ad un
termine la cui essenza consiste nel restare al punto di partenza, nel servire da ingresso alla relazione,
nell’essere il Medesimo non relativamente ma assolutamente. Essere io significa avere l’identità come
contenuto. L’io non è un essere che resta sempre lo stesso, ma l’essere il cui esistere consiste
nell’identificarsi. E’ l’identità per eccellenza. L’io è identico anche nelle sue alterazioni. Se le rappresenta e
le pensa. L’Io è identico anche nelle sue alterazioni, in un altro senso ancora. Infatti, l’io che pensa si ascolta
pensare o si spaventa delle proprie profondità e, per sé, è un altro. ma l’Io è il Medesimo di fronte a questa
alterità. La fenomenologia hegeliana  “io mi distinguo da me stesso; e in quest’atto è immediatamente per
me che questo distinto non è distinto. Ma questo distinto, mentre è distinto, immediatamente più non
costituisce per me una differenza. La negazione dell’io da parte del sé – uno dei modi di identificazione
dell’io. L’originalità dell’identificazione, irriducibile al formalismo di A è A, sfuggirebbe così all’attenzione.
Bisogna partire dalla relazione concreta tra un io e un mondo. Questo dovrebbe logicamente alterare l’io.
L’Io, in un mondo, a prima vista, altro, è tuttavia autoctono. Trova nel mono un luogo ed una casa. Abitare è
appunto il modo di consistere. Ma un luogo nel quale io posso, pur dipendendo da una realtà altra, io sono,
nonostante questa dipendenza, o grazie ad essa, libero. L’alterità del mondo in identificazione di sé. I
“momenti” di questa identificazione – il corpo, la casa, il lavoro, il possesso, l’economia – non devono
apparire come dati empirici e contingenti. Per dirla correttamente, la relazione metafisica non potrebbe
essere una rappresentazione, infatti l’Altro vi si dissolverebbe nel Medesimo: ogni rappresentazione si lascia
essenzialmente interpretare come costituzione trascendentale. L’Altro con il quale il metafisico è in rapporto
e che egli riconosce come altro non è semplicemente in un altro posto. L’Altro metafisico è altro secondo
un’alterità che non è forale, secondo un’alterità che non è un semplice rovescio dell’identità, né secondo
un’alterità fatta di resistenza al Medesimo, ma secondo un’alterità inferiore anteriore ad ogni iniziativa, ad
ogni imperialismo del Medesimo. Altro secondo un’alterità che non limita il Medesimo, perché, limitando il
Medesimo, l’Altro non sarebbe rigorosamente Altro. L’assolutamente Altro è Altri. Assenza di una patria
comune che fa dell’Altro lo Straniero. Ma Straniero significa anche libero. Su di lui non posso potere. Siamo
il Medesimo e l’Altro. cercheremo di mostrare che il rapporto del Medesimo e dell’Altro è il linguaggio.
Una relazione in cui i termini non formano una totalità, può dunque prodursi nell’economia generale
dell’essere solo se è tale da andare dall’Io all’Altro, solo come faccia a faccia. L’Io non è una formazione
contingente grazie alla quale il Medesimo e l’Altro possono per di più riflettersi in un pensiero. Perché
l’alterità si produca nell’essere occorre un “pensiero” e occorre un Io. Il “pensiero”, l’interiorità sono
appunto la rottura dell’essere e la produzione della trascendenza. Noi conosciamo questa relazione solo nella
misura in cui la realizziamo. L’alterità è possibile solo a partire da me. Il discorso, proprio per il fatto che
mantiene la distanza tra me ed Altri e che è pretesa nella trascendenza, non può rinunciare all’egoismo della
sua esistenza; ma appunto il fatto di trovarsi in un discorso consiste nel riconoscere ad altri un diritto su
questo egoismo e così a giustificarsi. La rottura della totalità non è un’operazione di pensiero, ottenuta per
semplice distinzione tra termini. Il vuoto che la rompe può mantenersi solo se il pensiero si trova in faccia ad
un Altro. il pensiero consiste nel parlare. Noi proponiamo di chiamare religione il legame che si stabilisce tra
il Medesimo e l’Altro, senza costituire una totalità. Ma dire che l’Altro può restare assolutamente Altro, che
entra soltanto nel rapporto del discorso, significa dire che la storia stessa non può pretendere di totalizzare il
Medesimo e l’Altro. L’Assolutamente Altro conserva la sua trascendenza in seno alla storia. Il Medesimo è
essenzialmente identificazione nel diverso.

Il negatore e il negato si pongono insieme, formano sistema, cioè totalità. Il disperato che vorrebbe il niente o
la vita eterna pronuncia nei confronti di questa terra un rifiuto totale; ma la morte resta drammatica. Si vuole
questa terra. Nell’orrore del radicalmente ignoto al quale ci conduce la morte. Questo modo di negare, pur
rifugiandosi in ciò che si nega, traccia i lineamenti del Medesimo o dell’Io. La metafisica non coincide con la
negatività. Ma la negazione delle imperfezioni non basta alla concezione di questa alterità. La perfezione
supera la concezione, va al di à del concetto, delinea la distanza. L’idea del perfetto è un’idea dell’infinito,
segna una trascendenza. L’idea del perfetto e dell’infinito non si riduce alla negazione dell’imperfetto. La
negatività è incapace di trascendenza.

Il sapere significa innanzitutto una relazione con l’essere tale che l’essere conoscente lascia che l’esser
conosciuto si manifesti rispettando la sua alterità. In questo senso il desiderio metafisico sarebbe l’essenza
della teoria. Ma teoria significa anche intelligenza cioè un modo tale di affrontare l’essere conosciuto che la
sua alterità rispetto all’essere conoscente svanisce. Questo modo di privare l’essere conosciuto della sua
alterità può attuarsi solo attraverso un terzo termine. Questo terzo termine può apparire come concetto
pensato. Il terzo termine può chiamarsi sensazione nella quale si confondono qualità oggettiva e affezione
soggettiva. Può manifestarsi come l’essere distinto dall’ente. Alla teoria come intelligenza degli esseri
conviene il titolo generale di ontologia. L’ontologia che riconduce l’Altro al Medesimo, promuove la libertà
che è l’identificazione del Medesimo, che non si lascia alienare dall’Altro. ma la teoria come rispetto
dell’esteriorità delinea un’altra struttura essenziale della metafisica. Essa ha una preoccupazione critica nella
sua intelligenza dell’essere. Ciò che porterebbe ad una regressione all’infinito, se questa risalita dovesse a
sua volta restare un sistema ontologico, un esercizio della libertà, una teoria. La critica non riduce l’Altro al
Medesimo come l’ontologia ma mette in questione l’esercizio del Medesimo. Una messa in questione del
Medesimo è fatta dall’Altro. L’estraneità d’Altri ai miei pensieri e ai miei possessi, si attua appunto come
una messa in questione della mia spontaneità, come etica. La metafisica, l’accoglienza dell’Altro da parte del
Medesimo, d’Altri da parte di Me si produce concretamente come la messa in questione del Medesimo da
parte dell’Altro.
La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza
dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’intelligenza dell’essere. non ricevere nulla
da Altri se non ciò che è in me, da sempre. Non ricevere nulla o essere libero. La libertà non assomiglia alla
capricciosa spontaneità del libero arbitrio. La ragione è in fin dei conti la manifestazione di una libertà.
Conoscere ontologicamente significa sorprendere nell’ente affrontato ciò per cui non è questo ente, ma ciò
per cui si tradisce in qualche modo, si consegna, si dà all’orizzonte nel quale si perde e appare, diventa
concetto. La mediazione (caratteristica della filosofia occidentale) ha senso solo se non si limita a ridurre le
distanze. Deve prodursi da qualche parte un grande “tradimento” perché un essere esteriore e straniero si
consegni a degli intermediari. La relazione con l’Altro si attua soltanto attraverso un terzo termine che io
trovo in me. L’ideale della verità socratica si fonda dunque sull’essenziale sufficienza del Medesimo, sulla
sua identificazione di ipseità, nel suo egoismo. La filosofia è un’egologia.
L’idealismo berkeleyano che passa per una filosofia dell’immediato, risponde anche al problema ontologico.
Berkeley trovava proprio nella qualità degli oggetti, la presa che offrivano all’io. Egli percorreva la distanza
che separa il soggetto dall’oggetto. La coincidenza del vissuto con sé, si rivelava come coincidenza del
pensiero con l’ente. L’opera dell’intelligenza risiedeva in questa coincidenza.
La mediazione fenomenologica qui è l’essere dell’ente che è il medium della verità. Dire che la verità
dell’ente dipende dall’apertura dell’essere significa dire, in ogni caso, che la sua intelligibilità non dipende
dalla nostra coincidenza con esso ma dalla nostra non-coincidenza. Tutta la fenomenologia, a partire da
Husserl, è la promozione dell’idea dell’orizzonte che, per essa, svolge un ruolo equivalente a quello del
concetto nell’idealismo classico; l’ente sorge su uno sfondo che lo supera come l’individuo a partire dal
concetto. L’esistere dell’esistente si converte in intelligibilità. Affrontare l’ente a partire dall’essere significa
lasciarlo essere e comprenderlo. Il primato dell’ontologia heideggeriana: “per conoscere l’ente bisogna aver
compreso l’essere dell’ente”. Affermare la priorità dell’essere rispetto all’ente significa già pronunciarsi
sull’essenza della filosofia, subordinare la relazione con qualcuno che è un ente a una relazione con l’essere
dell’ente che, impersonale, consente il possesso, il dominio dell’ente, subordina la giustizia alla libertà. Se la
libertà connota il modo di rimanere il Medesimo in senso all’Altro, il sapere contiene il senso ultimo della
libertà.
La libertà sorge a partire da una obbedienza all’essere: non è l’uomo che sostiene la libertà, è la libertà che
sostiene l’uomo. La relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste nel neutralizzare l’ente per
comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione
dell’Altro al Medesimo. Questa è la definizione della libertà: mantenersi contro l’altro, malgrado ogni
relazione con l’altro, garantire l’autarchia di un io. Il possesso afferma l’Altro, ma all’interno di una
negazione della sua indipendenza. L’ontologia come filosofia prima è una filosofia della potenza. Essa porta
allo Stato e alla non-violenza della totalità. Il possesso è la forma per eccellenza nella quale l’Altro diventa il
Medesimo diventando mio. Heidegger esalta i poteri pre-tecnici del possesso. L’ontologia diventa ontologia
della natura, impersonale fecondità, madre generosa senza volo, matrice degli esseri particolari, materia
inesauribile delle cose. L’ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con
l’essere in generale resta all’interno della obbedienza.
Per la tradizione filosofica, i conflitti tra il Medesimo e l’Altro si risolvono con la teoria nella quale l’Altro si
riduce al Medesimo o, concretamente, con la comunità dello Stato nella quale sotto il potere anonimo, l’Io
ritrova la guerra nell’oppressione tirannica che subisce da parte della totalità. Questa relazione non violenta
l’io, non gli è imposta brutalmente dall’esterno, più esattamente gli è imposta, al di là di qualsiasi violenza,
con una violenza che lo mette interamente in questione. Il rapporto etico non è contro la verità e mette
proprio in atto l’intenzione che anima il cammino verso la verità.

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