Epifania Della Parola. Jean-Daniel Causse, Élian Cuvillier, André Wénin - Violenza Divina. Un Problema Esegetico e Antropologico-EDB (2012)
Epifania Della Parola. Jean-Daniel Causse, Élian Cuvillier, André Wénin - Violenza Divina. Un Problema Esegetico e Antropologico-EDB (2012)
Epifania Della Parola. Jean-Daniel Causse, Élian Cuvillier, André Wénin - Violenza Divina. Un Problema Esegetico e Antropologico-EDB (2012)
nuova serie
Testi ermeneutici
6. P. Rosa, Gli occhi del corpo e gli occhi della mente.
Cirillo Alessandrino: testi ermeneutici
'f Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici,
a cura di V. Bonato
8. Origene, Testi ermeneutici, a cura di U. Neri
9. Ticonio, Sette regole per la Scrittura, a cura di L. e D. Leoni
10. Flacio Illirico, Comprendere le Scritture, a cura di U. Neri
Violenza divina
Un problema esegetico
e antropologico
ISBN 978-88-10-40242-9
5
l'esplorazione esegetica e antropologica avrebbe aperto piste di rifles
sione convergenti, che il lettore avrebbe potuto percorrere, ma eviden
ziato anche delle differenze che gli avrebbero permesso di percorrerle
con libertà, facendo posto ai suoi interrogativi, alle sue intuizioni e al
le sue convinzioni. Infatti lasciamo volutamente aperta la riflessione
proposta in questo libro . Non solo perché la questione della violenza è
uno di quegli enigmi ai quali è illusorio voler dare una risposta defini
tiva, tanto essa è tentacolare, ma anche perché pensiamo che farem
mo una certa violenza al lettore, !asciandogli credere che è possibile ri
spondere alla domanda sulla relazione fra la violenza e Dio e che la ve
ra risposta può essere teorica. Tanto è vero che tutto si gioca nel mo
do concreto di pensare la nostra propria violenza nella sua relazione,
cosciente o meno, con la realtà religiosa e soprattutto nelle scelte di vi
ta che ne derivano. Il fatto che Dio dica la sua ultima parola «biblica»
sulla violenza nella morte e risurrezione di Gesù significa che, in defi
nitiva, alla domanda si può rispondere solo nel reale dell'esistenza.
Questo volume comprende quattro capitoli . Alterna lo sguardo ese
getico e la riflessione antropologica e riprende la lettura dei testi, svi
luppandola in questo o quell'aspetto più problematico nella loro rice
zione teologica o etica.
Il capitolo l, redatto da André Wénin, presenta a grandi linee il mo
do in cui l'Antico T!!stamento parla della violenza di Dio. Questo giro
d'orizzonte è sotteso dalla convinzione che la Bibbia ebraica non è un
libro di modelli da imitare - convinzione corrente fra i lettori credenti
e fonte di molti malintesi - ma piuttosto uno spazio nel quale si riflet
6
pristinare la giustizia. Non teme neppure di usare la violenza contro
coloro che opprimono i poveri, per evitare il fallimento del suo disegno
di salvezza per tutti. A volte, adotta comportamenti violenti per cerca
re di educare il popolo che si è scelto come alleato - una pedagogia che,
del resto, non porta necessariamente i suoi frutti. Da parte sua, spes
so la Legge ordina la pena di morte e prescrive sacrifici, nei quali, a
volte, la vittima sacrificale è un bambino. Ma Dio esercita la sua vio
lenza anche contro persone innocenti, con grande scandalo del letto
re, che si trova, ad esempio, davanti all'ordine divino di sterminare in
tere popolazioni; del resto, la stessa Bibbia attesta un certo disagio al
riguardo. È possibile trarre profitto dalla lettura di queste pagine, an
cor meno allettanti per il fatto di contrapporsi all'immagine di un Dio
di pace, come quella che appare in apertura della Genesi?
Nel capitolo 2, Jean-Daniel Causse affronta la questione della vio
lenza dal punto di vista della psicanalisi, trattando, in particolare, il pro
blema del sacrificio compiuto in nome della divinità, una tematica av
viata nell'indagine biblica precedente . Per Freud, la violenza non si tro
va solo da una parte; è caratterizzata anzitutto da un'ambivalenza evi
denziata chiaramente dalla pulsione arcaica a divorare: il bambino vuo
le incorporare e quindi rendere simile a lui, nella speranza di non per
darlo, l'oggetto amato. Perciò, quando in seguito la violenza si manife
sta nelle relazioni umane, non è sempre facile sapere se si tratta di amo
re (amour) o di odio (haine), a meno che non si debba vedervi quella che
Lacan chiamava, unendo i due termini, hainamoration. Nella pulsione
a divorare continua comunque una volontà primitiva di incorporare l'al
tro e quindi di far scomparire la sua differenza. In questo senso, la vio
lenza è incestuosa. Essa non sopporta la distanza, la differenza, in una
parola l'alterità. Questa è anche la ragione per cui è silenziosa (Freud
diceva che la pulsione di morte è «muta») e trova il suo faccia a faccia
nella parola che distingue gli esseri. Incontriamo la violenza divina, spe
cialmente la violenza del sacrificio, che analizzeremo nel seguito del ca
pitolo, sul versante del silenzio. Facendo parlare Dio là dove egli tace e
non potendo interpretare il proprio desiderio inconscio, il fedele può
sempre «udire» una domanda di sacrificio. L'episodio della figlia di Ief
te raccontato nel libro dei Giudici, ma anche la problematica della gelo
sia divina permettono di comprendere meglio questa violenza che sca
turisce dal fantasma di «poter fare tutto» o «poter avere tutto».
Nel capitolo 3 Élian Cuvillier svolge un'indagine sui testi del Nuovo
Testamento, partendo da un'analisi dell'Apocalisse di Giovanni. Me-
7
diante la violenza di alcune sue affermazioni, in particolare nella de
scrizione delle numerose scene di giudizio, Giovanni denuncia la se
duzione imperiale e la violenza mortale che essa genera. La violenza
subita dall' «agnello immolato» (Ap 5,6) suggella la sua sconfitta agli
occhi delle forze di morte all'opera nel mondo, ma, dal punto di vista
della fede, anche la manifestazione della sua vittoria paradossale . Que
sta vittoria traccia il cammino di una lotta contro il male che culmina
nella speranza di un mondo nuovo, nel quale il male sarà scomparso
per sempre. Poi l'autore analizza le lettere di Paolo, ponendo una dop
pia domanda: che ne è delle affermazioni violente dell'apostolo e che
ne è, congiuntamente, della violenza del credente? L'indagine eviden
zia un cambiamento, proprio della vita di Paolo : il passaggio dall'im
magine di un Dio che pratica la violenza a quella di un Dio che subi
sce violenza nella figura di Cristo crocifisso. Questo cambiamento co
stituisce, per il credente, una forma di resistenza alla tentazione della
violenza religiosa, che passa attraverso una nuova comprensione del
la sua esistenza nel mondo , basata sull'apertura all' universalità della
salvezza. Infine, l'autore passa in rassegna il Vangelo di Matteo, che
descrive il cammino di Gesù e l'articolazione, nella sua vita personale
e nella sua predicazione, di violenza subita e annuncio di retribuzione
8
contratto dall'umanità. L'autore discute questa versione del sacrificio
come espiazione sostitutiva, prima di illustrare le risorse interne al cri
stianesimo che, decostruendo una çerta immagine del divino, rinnova
modi di credere lontani da un'interpretazione dei testi che alimente
rebbe la violenza. E sviluppa tre aspetti: l) L'amore di cui parla Gesù
nel Discorso della montagna può diventare un modo subdolo di la
sciare libero corso alla violenza, ma può anche significare una rottura
con il ciclo della violenza e con gli effetti speculari che riducono l'altro
a un'immagine di se stessi. Si tratta quindi di far posto all'eccesso del
dono e alle possibilità insospettate che ne scaturiscono. 2) Allo stesso
modo, la passione di Gesù può rafforzare tutta una serie di immagini
di violenza, ad esempio , quando il simbolo della «croce» induce a una
mortificazione malsana o serve a giustificare la sofferenza dell'inno
cente, ma può anche produrre il capovolgimento decisivo di un'imma
gine religiosa del Dio violento: sulla croce, non è l'umano a subire la
violenza divina, ma è il divino a subire la violenza umana, nell'uomo
Gesù. 3) La violenza cerca sempre di imporre il silenzio all'altro, per
cui aggredisce ciò che è specifico dell'essere umano: il linguaggio. Su
questo punto, i vangeli attestano la continua lotta di Gesù contro la vio
lenza, considerata diabolica, mediante la simbologia della parola, cioè
.mediante una parola che distingue e rende ognuno singolare in seno a
un mondo condivisibile .
Così, tesa fra un'apertura, che racconta un Dio alla ricerca di una so
luzione per la violenza che distrugge la terra, e la figura del Servo di Dio,
che combatte la violenza diabolica al punto da rifiutare di adottarne le
armi quando egli stesso ne è vittima, la Scrittura è suggellata dall'an
nuncio della risurrezione, che spezza il silenzio dell'Agnello immolato in
una parola che invita ognuno a liberarsi dalla sua violenza. Perciò, con
siderata globalmente, 1a Bibbia invita il lettore a un attraversamento: at
traversamento delle immagini di Dio suscettibili - a volte subdolamen
te di alimentare la violenza, pur pretendendo di combatterla; attra
-
9
La pubblicazione dell'originale francese di questo libro non sarebbe
stata possibile senza l'accettazione del nostro progetto da parte di An
drée Thomas delle É ditions du Cerf e senza l'aiuto prezioso di lonel
Ababi, che ha armonizzato i nostri contributi e le loro note. Il libro ha
beneficiato anche della generosità del Centre de Recherches Interdisci
plinaires en Sciences Humaines et Sociales (CRISES) dell'Università
Paul-Valéry-Montpellier III.
Jean-Daniel Causse
É lian Cuvillier
André Wénin
10
Capitolo primo
«ADONAI ,
E UN GUERRIERO»
(ES 15,3)
LA VIOLENZA DIVINA
NELL'ANTICO TESTAMENTO
André Wénin
Perché, dopo un secolo nel quale ha raggiunto vette finora mai rag
giunte nella storia, in un'epoca in cui continua a essere esibita da ogni
sorta di media, la violenza umana descritta in libri sacri come la Bib
bia fa tanto problema? È comprensibile la posizione di quanti sospet
tano la religione - soprattutto monoteistica - di alimentare violenza e
fanatismo. Anche se spesso la religione è solo l'ascesso nel quale si fis
sa una violenza destinata comunque a sfogarsi. Ma si può seriamente
credere che un libro risalente a oltre duemila anni fa sia di per sé in
grado di scatenare o alimentare una violenza che, senza di esso, non
esisterebbe o mancherebbe di forza? No, la violenza nasce altrove,
quale che sia l'uso che certi «credenti» possono fare del loro libro sa
cro per legittimare una violenza che affonda le sue ripugnanti radici
nel loro cuore o nella loro storia, cosa che essi non possono o non vo
gliono riconoscere. Del resto , non è certamente per persone del gene
re che fa problema la presenza della violenza nella Bibbia.1
l Un primo abbozzo di questo capitolo è stato p ubb licato , con il titolo «Le Seigneur
est un homme de guerre», in Christus 1 9 2(ottobre 2001), 403-411 .
11
Se c'è una questione al riguardo, è piuttosto per i credenti, a cau
sa della loro fede e della loro appartenenza a una comunità che con
fessa che la Bibbia è la parola di Dio. Forse questo stupisce quanti con
siderano la Bibbia un libro degno di interesse, perché è in grado di
ispirare e di nutrire spiritualmente. Perciò, a mio avviso, il vero pro
blema è sapere quale concezione della Bibbia spinge a metterla in di
scussione a causa della violenza che contiene. Che cosa un lettore si
aspetta che sia la Bibbia, per processarla quando vi scopre della vio
lenza? Quindi il vero problema riguarda forse più i pregiudizi del let
tore che il libro in quanto tale.
Infatti, tutto sommato , che la Bibbia parli spesso della violenza è
una cosa fondamentalmente sana. Non deve stupire che racconti la de
scrivano, leggi propongano un quadro per regolamentarla, profeti de
nuncino le ingiustizie che causa, oranti preghino , quando ne sono vit
time o la sentono affiorare nel loro cuore, saggi la facciano oggetto di
riflessione. Se la Bibbia, che descrive tutti gli aspetti dell'alleanza fra
Dio e un popolo, trascurasse quel dato costante della storia che è la vio
lenza, non nasconderebbe una realtà umana inevitabile e somma
mente distruttiva? Se la violenza non è mai così pericolosa come quan
do si nasconde, non è forse utile mostrarla in ogni minimo dettaglio?
Presentandola nelle sue varie espressioni, la Bibbia costringe il lettore
a guardarla in faccia, a considerarla fin nelle sue forme più sottili o più
subdole . Essa gli svela le sue radici nascoste, gli mostra i suoi moven
ti personali o collettivi, espone senza falsi pudori i suoi effetti letali, con
molteplici forme e contorni spesso insospettati. In questo senso, la Bib
bia permette al lettore di comprendere la violenza che lo circonda, sia
quella che subisce, sia quella che avverte in sé o causa agli altri.
Passi la violenza degli uomini. Ma la violenza di Dio, quella che pra
tica lui stesso, quella che ordina al suo popolo, quella che quest'ultimo
chiede a Dio di scatenare? In fondo, è questa la violenza che ripugna,
perché contrasta con ciò che il lettore crede di sapere di Dio, con ciò
che si aspetta che sia Dio, spesso in nome della stessa Bibbia o di al
cune sue parti, che lo presentano in un modo del tutto diverso. Così,
ad esempio , molti lettori si scandalizzano, sentendo che gli israeliti li
berati dall'Egitto cantano il loro Dio perché è «un guerriero» (Es 1 5 ,3)
e tale si è dimostrato, facendo affogare l'esercito del faraone nelle ac
que del Mar Rosso, al termine di una battaglia memorabile di cui il suo
popolo è stato solo testimone e beneficiario (Es 14).
12
Un modo per spiegare testi del genere è quello di ricollocarli nel
contesto storico in cui sono stati redatti, per relativizzare le loro affer
mazioni e disinnescare la questione. Così, ad esempio, la prima parte
del libro di Giosuè, che racconta la conquista di Canaan da parte di
Israele, riflette la realtà storica tipica della fine del II millennio . Gli sca
vi archeologici recenti sono tassativi al riguardo e suffragati dalla vi
sione che risulta dalla maggior parte degli scritti della Bibbia ebraica.
I racconti della conquista di Canaan da parte di Giosuè costituiscono
certamente una sorta di finzione teologica risalente verosimilmente al
la fine del VII secolo. Prendono come modello testi assiri di propagan
da militare e mirano a mostrare che il Dio di Israele vince le divinità
dell'Assiria e che solo Israele ha diritto di vivere sulla terra che Dio gli
ha donato, una terra dominata all'epoca dagli invasori assiri. Ora,
prendendo a prestito il discorso del nemico per combatterlo, gli auto
ri biblici hanno dato al loro Dio un aspetto bellicoso, indubbiamente
deplorabile, ma comprensibile alla luce della situazione storica in cui
si trovavano e che li ha spinti a redigere questi testi.2
Nel suo saggio Dio violento?, 3 Giuseppe Barbaglio percorre un'al
tra strada, più generale, che abbraccia l'insieme della composizione
della Bibbia. Considerando , in particolare, i testi in cui Dio ordina la
violenza agli uomini o si abbandona lui stesso a pratiche barbare con
tro persone o popoli, l'autore rifiuta la spiegazione evolutiva, secondo
cui, nella Bibbia, si passa progressivamente da stadi primitivi, carat
terizzati da un Dio violento , alla rivelazione, in Gesù, del superamen
to della violenza, che è il vero disegno di Dio. Secondo questa spiega
zione, l'immagine del Dio violento sarebbe solo una prima tappa nel
processo di progressiva rinuncia alla violenza, che sfocia nel Nuovo Te
stamento. Barbaglio rifiuta decisamente la contrapposizione fra i due
Testamenti, tanto più che anche il Nuovo Testamento contiene molti te
sti violenti, e avanza una diversa ipotesi.
13
Secondo lui, nella Bibbia coesistono due immagini principali di
Dio. La prima è quella di un Dio bifronte, che ricompensa e punisce,
che fa grazia e fa vendetta. Più rara, la seconda immagine presenta un
Dio di pura grazia che, !ungi dal rendere male per male, ama allo stes
so modo buoni e cattivi, perseguendo un unico scopo: dare scacco mat
to al male e alla morte con un eccesso d'amore. Questa seconda im
magine ha fatto fatica a liberarsi dalla prima, ma costituisce comunque
il cuore della rivelazione biblica su Dio. Attestata fin dall'Antico Testa
mento, essa viene sviluppata con maggiore ampiezza e forza nel Nuo
vo Testamento. La prima immagine, quella del Dio «bifronte», è radi
cata in uno stereotipo della religiosità wnana: il divino come mistero
che fa paura e affascina al tempo stesso . Questa concezione riflette una
struttura arcaica della psiche umana. È stata quella di Israele e della
Chiesa delle origini, perché la parola di Dio raggiunge le persone nel
linguaggio della loro epoca, della loro cultura. Su questa base, la rive
lazione biblica appare come un lento sforzo, continuamente ripreso, di
purificazione dell'immagine di Dio dal suo aspetto temibile. Secondo
Barbaglio, questo sforzo è stato compiuto con «forti e creative intuizio
ni religiose», espresse dai profeti, da Gesù e dagli apostoli, sotto l'a
zione dello Spirito .4 È consistito anzitutto nell'attribuire a questo aspet
to del divino una funzione secondaria, strumentale: per salvare ed es
sere fonte di vita, Dio deve eliminare i malvagi, come racconta, ad
esempio, il libro dell' Esodo. Ma questa relativizzazione prelude a una
totale squalifica dell'aspetto violento del divino. Dio non vuole la mor
te del peccatore; vuole solo l'eliminazione della malvagità e dell'ingiu
stizia nel peccatore. In questo senso, la morte di Gesù rinvia l'immagi
ne di un Dio che si rifiuta di fare violenza ai violenti e di rendere loro
male per male, per poterli salvare mediante l'amore. È a questo Dio che
viene invitato ad aderire il lettore della Bibbia cristiana. E a vedere nel
le azioni violente attribuite dal testo biblico a Dio il frutto della proie
zione in lui dei meccanismi della violenza umana.
'
Questa messa in prospettiva del pensiero biblico riguardo a Dio e
alla violenza è interessante: ha il grande merito di svelare il cuore del
messaggio biblico e formulare un' ipotesi che cerca di tener conto del
la sua origine storica. Al tempo stesso, la spiegazione, già evocata, me-
14
diante il ricorso al contesto storico della composizione dei testi non è
priva di pertinenza, perché permette di ricollocarli, relativizzando al
tempo stesso il loro modo di parlare di Dio. Comunque questi due ap
procci trascurano una questione cruciale per il lettore odierno: che far
ne di quei numerosi testi biblici nei quali Dio ordina la violenza o la
sfoga personalmente? Sono ancora pertinenti o devono essere relega
ti, senza ulteriori processi, fra le sopravvivenza di un pensiero arcai
co, che riveste tutt'al più un interesse archeologico o permette di mi
surare i progressi fatti dalla «rivelazione biblica)) ? E se così è, perché
continuare ancora a leggere questi testi, se non per servire a mettere
in risalto qualcos'altro?
Certo, è bello presentare il Dio della Bibbia come puro Amore, che
non può in alcun modo essere compromesso con la violenza, anche se,
per un momento, la rivelazione deve venire a patti con gli stereotipi
umani su Dio, per poterli oltrepassare. È bello ed è certamente vero .
Ma è anche un modo di nascondere, per non doverlo risolvere, l'enig
ma fondamentale posto da questi testi. Infatti, non basteranno i ricor
si al contesto storico della loro composizione : si può mostrare che un
popolo del Medio Oriente antico ha sviluppato e conservato nei suoi
scritti una tale concezione del suo Dio, ma rimane ancora da spiegare
il motivo per cui la Chiesa nascente non ha seguito Marcione, che, nel
II secolo d.C., rifiutava l'Antico Testamento proprio perché, secondo la
testimonianza di Eusebio, il suo Dio è «un essere malvagio, amante
della guerra, incostante anche nei suoi giudizi e in contraddizione con
se steSSO)) . Rimane da spiegare perché, a distanza di venti, venticin
que , secoli, pur confessando un Dio d'amore, i cristiani continuano a
sostenere che questo testo è ispirato, è parola di Dio, e cercano di leg
gerlo come tale . . . Sarebbe quindi ancora in grado di ispirarci? Do
vrebbe ancora indurci a riflettere questo Dio violento, che non collima
assolutamente con ciò che i credenti vorrebbero che la loro Bibbia mo
strasse di lui? Infatti, non è certamente il minor merito del Dio violen
to quello di sloggiare con violenza il credente da un comodo sapere su
Dio e rinviarlo al mistero insondabile del Nome indicibile, per costrin
gerlo a continuare a cercarlo. In questo senso, le pagine che seguono
hanno solo l'ambizione di indicare, a partire da un approccio lettera
rio e sincronico dei testi, l'una o l'altra pista, per tentare di dire, no
nostante tutto, qualcosa su questa realtà impensabile davanti alla qua
le l'Antico Testamento pone il lettore.
15
Un racconto programmatico (Gen 1-9):
un Dio mite davanti alla violenza5
Il racconto poetico che apre il libro della Genesi (Gen 1 , 1-2,3) offre
un'immagine di potenza, ma anche di mitezza, di Dio . Ma, in ciò che
appare di lui fin dal v. 2 , il suo «vento», egli possiede una forza po
tenzialmente violenta. Infatti, in questo senso concreto, l'espressione
«vento di Dio» evoca quello che noi chiameremmo un «uragano di Dio
Padre». Secondo l'immagine di Gen 1 , 2 , ripresa in Dn 7 , 2 , dove «i
quattro venti del cielo si abbattono violentemente sul grande mare»,
questo vento agita il caos dell' oceano abissale immerso nelle tenebre,
con la violenza divina che aumenta, se così si può dire, il caos primi
tivo. Il racconto continua registrando la metamorfosi radicale di que
sta forza non trattenuta: «E Dio disse» (Gen 1 , 3a) . Dio trattiene, per
calmarlo, «il vento della sua bocca» (Sal 33,6) e modula questo soffio ,
articolando una parola che squarcia le tenebre: «Sia la luce ! » . Così, «in
principio», il narratore biblico mette in scena un Dio che placa la sua
violenza, le impone una saggia moderazione, mostrandosi più forte di
essa. È quest'azione a presiedere l' atto creatore sostenuto interamen
te da questa parola, finché, il settimo giorno , Dio appone un sigillo di
mitezza sulla sua forza,6 lui che, controllando la violenza che quest'ul
tima contiene, ha fatto ampiamente posto ad altro . E affinché la terra
conosca l' armonia che procede dalla sua mitezza, Dio invita gli uomi
ni a conformarsi alla sua immagine, che ha deposto in loro: come lui,
essi eserciteranno il loro dominio sul mondo, in particolare sugli ani
mali; come lui, potranno farlo senza violenza - controllando il loro do
minio - perché si ciberanno di vegetali e non dovranno quindi uccide
re. Questo mite dominio permetterà loro di concretizzare il sogno di
vino di un'armonia e di una pace universali (Gen 1 , 28-30).
Avendo rinunciato a esercitare la sua forza con violenza, il Dio di
Gen 1 sembra averla esclusa dall'universo chiamato all'esistenza dal-
16
la sua parola. Più esattamente, si preoccupa di prevenirla. Assegnan
do agli uomini un menù vegetale, suggerisce loro di fare della mitezza
la regola del loro comportamento, per far posto, a loro volta, all'alteri
tà (Gen 1,28-29 e 2 , 1 6-1 7).7 Ma il seguito del racconto mostra che gli
uomini preferiscono mettersi a rimorchio dell'animalità che c'è in lo
ro piuttosto che ispirarsi all'immagine del Dio mite: spinti dalla loro cu
pidigia, essi imboccano una strada che conduce inesorabilmente alla
violenza. L'errore della prima coppia dell' Eden (Gen 3,1-7) sconvolge
profondamente la sua vita e le sue relazioni (Gen 3 , 8 - 24) e, rilanciato
dalla gelosia di Caino , questo processo conduce al primo omicidio (Gen
4,5-8). Allora, nel racconto , Dio compare ogni volta come un giudice
che processa i colpevoli e li punisce duramente (Gen 3 , 8-24; 4,9-1 4).
Ma, nelle sue sentenze, Dio si limita a evidenziare le conseguenze del
la cupidigia che gli uomini hanno scelto di seguire . Le cose sono rac
contate in modo da far comprendere che questa scelta corrompe lo
sguardo portato su Dio, deforma la sua immagine, proprio mentre egli
si impegna a combattere il serpente della cupidigia e la sua sorgente
inquinata (Gen 3 , 15), cosa che fa con Caino appena quest'ultimo si tro
va alle prese con la stessa (Gen 4, 7). s
Allora Dio è costretto a constatare che è accaduto proprio ciò che
voleva prevenire. Perciò, posto brutalmente davanti alla violenza uma
na, cercherà di contenerla. Quando Caino confessa la sua colpa, Dio lo
protegge, imponendogli un segno accompagnato da una minaccia de
stinata a dissuadere chiunque avvertisse un desiderio omicida:
«Chiunque ucciderà Caino, subirà la vendetta sette volte!» (Gen 4 , 1 5).
Ma il lettore attento percepirà, in queste parole in cui si esprime la be
nevolenza divina, una certa violenza, come se Dio stesso non sfuggis
se al rischio di lasciarsi intrappolare dalla logica della violenza nella
sua stessa volontà di combatterla. La minaccia non produce l'effetto
sperato. E il racconto continua mostrando che, lungi dal cessare, la
violenza umana si rafforza (Gen 4,23-24; 6,4-5.11-12) . Quando Dio
constata il fallimento della sua parola e le distruzioni provocate dal di
lagare della violenza in ciò che ha creato, decide di dare libero sfogo
alla sua violenza e lasciar sprofondare il mondo nel caos dal quale lo
7 Sviluppo questo punto sulla scia di P. Beauchamp in Non solo di pane. . . , 19-42 .
8 Questa lettura è suffragata d a ciò che s i trova nel mio volume Da Adamo ad Abra
mo.. . , 93-117 e 143-147 .
17
aveva tratto (Gen 6 , 1 3). Comunque risparmia un uomo integro, insie
me ai suoi, per assicurarsi la possibilità di una ripartenza da zero al
momento di fare tabula rasa (Gen 6 , 1 7 - 1 8).
Al termine del diluvio, quando la sua violenza ha precipitato il mon
do nella morte e nel caos, Dio si pente di ciò che ha fatto (Gen 8 , 2 1 -
2 2) . Dopo aver constatato l'inefficacia della minaccia, ora deve regi
strare il fallimento del tentativo di mettere fine alla violenza con la vio
lenza, una scelta che segna la vittoria, piuttosto che la sconfitta, della
violenza. Allora imbocca una terza strada, che consiste anzitutto a
prendere atto della violenza umana come dato di fatto. Non serve ne
garla, perché esiste, con la sua capacità di nuocere, e le parole divine
- invito alla mitezza o minaccia - non bastano a scongiurarla. Bisogna
quindi riconoscerle uno spazio. Allora Dio permette agli uomini di uc
cidere gli animali per cibarsene (Gen 9 , 1 -3), ma stabilisce subito una
legge: il divieto del sangue, accompagnato da un avvertimento contro
l'effetto boomerang della violenza umana. Questa legge mira a limita
re la violenza, a contenerla, in modo che non comprometta lo svilup
po della vita (Gen 9,4-6). Con questa nuova benedizione, che modifica
il disegno originario del Creatore (Gen 9, 1-7, cf. 1 , 28-29), si inaugura
per così dire il «mondo reale», frutto di un «compromesso sulla con
dotta della violenza»,9 un mondo nel quale resta tuttavia immutata la
vocazione dell'uomo a vivere a immagine di Dio (Gen 9,6), anche se de
ve essere realizzata in un contesto più difficile.
Dopo aver riconosciuto la realtà della violenza umana e previsto al
tempo stesso un dispositivo per contenerla, Dio non si ferma. Perso
nalmente dichiara di rinunciare alla violenza, deponendo come segno
le armi, abbandonando il suo arco nelle nubi e trasformando que
st'arma di aggressione in segno di alleanza (Gen 9,8-17). D' ora in poi,
l'alleanza sarà lo strumento privilegiato attraverso il quale cercherà di
combattere la violenza. Ma quest' «armistizio» non è una dimissione da
parte di Dio . Infatti, quando il timore di essere dispersi e quindi disgre
gati spinge gli uomini di Babele a costruire il nido del totalitarismo,
scegliendo la schiavitù, egli si affretta a porre fine a questo progetto,
violento in quanto nega l'alterità: distinguendo le lingue - un inter
vento che già di per se stesso fa violenza agli abitanti di Babele, in-
18
frangendone il sogno - Dio stabilisce delle distinzioni, come quando
aveva creato il mondo (Gen 11, 1-9). Tuttavia, subito dopo, con la vo
cazione di Abramo, immaginerà un cammino di unità che non mette
rà in pericolo le legittime particolarità degli uomini e dei popoli: il cam
mino dell'alleanza (Gen 12, 1- 3) .10
Perciò l'immagine di un Dio mite domina il racconto biblico delle
origini: questa mitezza non ha nulla a che vedere con la debolezza,
perché è una forza che permette di contenere la violenza potenziale.
Ma la violenza umana, che il Creatore aveva cercato di prevenire me
diante l'offerta dell'alimentazione vegetale, ha ben presto il soprav
vento su questa scelta divina. Allora Dio cerca a tentoni di farvi fron
te, sperimentando la difficoltà di combatterla senza cedere alla sua lo
gica e quindi senza alimentarla. Così, dopo aver anzitutto mantenuto
soluzioni violente, finisce per scegliere chiaramente la mitezza, ma
senza fuggire davanti alla violenza, perché ha constatato che essa ri
schia di distruggere il mondo e l'umanità. È questa la prima impres
sione offerta dal racconto della Genesi: pur collocando risolutamente
Dio dalla parte della mitezza, non trascura di sottolineare le forti ten
sioni cui lo sottopone questa scelta. Infatti, nello stesso momento in cui
gli uomini sono chiamati a scegliere per realizzare in loro l'immagine
di Dio, si insinua la cupidigia, tirandosi dietro la violenza, che com
promette il disegno divino , un disegno di vita e di pace che aveva in
dotto Dio a cercare di controllarla fin dalla creazione dell'umanità.
Ma, quando la violenza ha corrotto il mondo degli uomini, se non
vuole abbandonare il creato a se stesso, il Creatore deve necessaria
mente affrontarla. E se non vuole abdicare e rinunciare al suo disegno,
deve fare i conti con uomini avidi e violenti, perché non sanno accet
tare l'alterità, neppure la loro . Egli può quindi interagire solo con per
sone nelle quali la violenza sfigurerà inevitabilmente il suo volto e che,
incapaci di riconoscere il suo desiderio di vita anche nei suoi interventi
violenti - le sentenze e le punizioni, ma anche il diluvio - proietteran
no su di lui la loro violenza o il loro risentimento. Il Dio presentato dal
racconto biblico non teme di correre questo rischio . Egli accetta l'u
manità reale, nella speranza, compromettendosi così con la sua vio
lenza, di scoprire insieme ad essa delle vie in grado di trasformare
19
quest'energia di morte in forza di vita. Del resto, proprio per questo
prevede leggi che, come quelle di Gen 9 , 1 -6, mirano precisamente al
contenimento della violenza, pur avendo interessi comuni con essa nel
la misura in cui le cedono . n
Infatti, se c'è qualcosa che Dio «odia», è proprio la violenza e tutto
ciò che la provoca o la alimenta: «Il malvagio e chi ama la violenza, la
sua anima (li) odia», dice il salmista (Sall1 , 5) . Sempre in questo sen
so l'Antico Testamento evoca l' «odio» che Dio prova, come a sottoli
neare il suo desiderio di vita e di pace. Profeti e saggi attestano che egli
odia il potere presuntuoso e arrogante, che offende le persone sempli
ci (Am 6 , 8 ; Pr 8,3a), aborrisce la menzogna e i giuramenti falsi, che
fanno violenza alla vita della comunità, che suppone la fiducia (Zc
8,1 7b; Pr 8, 3b), detesta il furto, che la perfidia legittima, nasconden
dolo (ls 6 1 ,8), e non tollera il cuore che trama il male contro il prossi
mo e usa la lingua per eliminarlo (Zc 8 , 1 7a). Per dirla con l'autore del
libro dei Proverbi:
Queste sei cose, Adonai Oe) odia,
e sette sono orrori per la sua anima:
gli occhi alteri, la lingua bugiarda,
le mani che versano sangue innocente
il cuore che trama iniqui progetti,
i piedi che corrono rapidi verso il male,
il falso testimone che proferisce menzogne
e chi provoca litigi fra fratelli (Pr 6 , 1 6 - 1 9) .
Ecco ciò che provoca l'odio di Dio: ciò che ostacola il suo disegno
di pace per tutti. Ma allora come accetta ciò che, d'altra parte, odia?
20
stamento e, del resto, anche il Nuovo - si trova spesso coinvolto nel
-
21
dell'Apocalisse commenterà in questi termini: «Colui che è, che era e
che viene» (Ap 1 ,4). Perciò le immagini violente appartengono all'im
mensa sinfonia delle rappresentazioni parziali - e quindi criticabili -
del Dio dal Nome impronunciabile. La sfida è quindi quella di tentare
di percepire ciò che queste immagini possono esprimere di pertinente
su Dio, nei loro stessi limiti.
Analizzerò, raggruppandole in forma tematica, le principali rap
presentazioni violente di Dio attestate nell'Antico Testamento, per cer
care di abbozzare un quadro d'insieme, proponendo al tempo stesso
alcune piste, che non mirano a cancellare o giustificare gli aspetti scan
dalosi della figura divina, ma a porli in prospettiva, per permettere di
percepire qualcosa di ciò che esprimono riguardo al Dio della Bibbia.
22
mostrare che i loro abitanti hanno commesso violenze, non mette in
discussione il fatto che quelle città meritino una punizione esemplare.
Dubita solo che Dio faccia onore alla sua giustizia, facendo perire i giu
sti con gli empi o anche semplicemente non risparmiando le due città
se vi si trovano dei giusti (Gen 1 8, 20-33). Dice a Dio : «Lontano da te il
far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come
l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà
la giustizia?» (Gen 1 8 ,25).
Nella Bibbia non mancano esempi di questo tipo di violenza prati
cata da Dio in nome della giustizia. Fin dalle prime pagine della Ge
nesi, all'inizio del racconto del diluvio, vedendo che la violenza degli
uomini distrugge la terra, Adonai decide di mettervi ordine, eliminan
do i malvagi e risparmiando il giusto e la sua famiglia (Gen 6 , 5 - 1 3 ). Al
lo stesso modo, la violenza fatta dagli egiziani ai figli di Israele, ridu
cendoli in schiavitù e opprimendoli, chiama il giudizio di Dio, perché
gli oppressori - e per primo il loro re - si rifiutano di ascoltare le sue
richieste di liberare i loro servi: «Il faraone non vi ascolterà e io leve
rò la mia mano contro l'Egitto e farò uscire dalla terra d'Egitto le mie
schiere, il mio popolo, gli israeliti, per mezzo di grandi castighi» (Es
7 ,4). Anche i profeti annunciano che le nazioni, mediante le quali Dio
ha punito il suo popolo per le sue infedeltà all'alleanza, subiranno a lo
ro volta il giudizio divino per la loro insolenza e violenza nei riguardi
di Israele. Si può leggere in questo senso la serie di oracoli contro Ba
bilonia ai capitoli 50 e 51 del libro di Geremia: «Convocate contro Ba
bilonia gli arcieri, quanti tendono l'arco! Accampatevi attorno ad essa;
non abbia scampo. Ripagatela secondo le sue opere, fate a lei quanto
essa ha fatto , perché è stata arrogante con Adonai, con il Santo di
Israele» (Ger 50,29) . 1 4
M a l a giustizia che spinge Adonai a punire duramente l a violenza
non si limita ai nemici del suo popolo, come vorrebbe una logica na
zionalistica. Lo stesso Israele ne fa spesso le spese. L'inizio del libro di
Amos ne offre una potente illustrazione. Infatti, il passo vuole smentire
l'idea che solo la violenza compiuta dagli stranieri sarà oggetto della
giustizia divina. Sette oracoli annunciano, anzitutto, il castigo inevita
bile dei crimini co_mmessi dai popoli vicini a Israele: vengono condan-
23
nati, in rapida successione, Siria, Filistea, Fenicia, Edom, Aminon,
Moab e Giuda (Am 1 , 3-2 ,5). Ma nel momento in cui gli ascoltatori israe
liti del profeta gioiscono per non essere inclusi nella lista ed essere quin
di preservati dal giudizio, Amos pronuncia un ottavo oracolo - del re
sto, molto più lungo dei precedenti - nel quale Adonai se la prende pro
prio con loro, specialmente per le violenze e le ingiustizie perpetrate
verso i deboli e i poveri. Anch'essi subiranno un duro castigo da parte
di Dio (Am 2,6-1 6). Dice infatti Adonai: «Soltanto voi ho conosciuto fra
tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre colpe»
(Am 3 , 2) . Nello stesso senso, i re Davide e Acab non sfuggiranno al ri
gore della punizione divina, dopo essere ricorsi, abusando del loro po
tere, alla violenza, il primo facendo uccidere Uria, il marito della don
na che ha messo incinta (2Sam 1 1-12), il secondo lasciando che la re
gina trami la morte di Nabot per impossessarsi della sua vigna (1 Re 2 1 ) .
È opportuno evocare i n questo stesso contesto giudiziario l a deli
cata questione della «vendetta» di Dio. Nella nostra cultura, la vendet
ta è considerata una reazione primaria, benché a volte venga rimugi
nata a lungo prima di saziarsi, perché, come dice il proverbio, la ven
detta è un piatto che si mangia freddo. In sé, «vendicare» è infliggere
a una persona un danno come compensazione di un torto che ha fat
to subire a un'altra persona. Ma la natura di questo atto dipende dal
la maggiore o minore equivalenza fra il torto subito e il danno arreca
to e dalla presenza o meno di un controllo normativo esercitato dalla
società . 1 5 Secondo il significato corrente del termine, non si tratta tan
to di «vendicare» quanto di «vendicarsi» , ai margini dell'ordine lega
le e al di fuori di ogni procedura giudiziaria, e, quindi, in modo arbi
trario e spesso sproporzionato (allora si parla di vendetta). La Bibbia
ebraica conosce anche questo tipo di vendetta, ma lo considera un at
to negativo («Non ti vendicare e non serbare rancore contro i figli del
tuo popolo», si legge in Lv 1 9, 1 8) e riprovevole (Ez 25 , 1 2 . 1 5) . Nor
malmente nella Bibbia la «vendetta» (naqam) viene esercitata in un
quadro legale e mira a ripristinare la giustizia (Es 2 1 ,20). Quando si
tratta di Dio, il significato è spesso questo: «vendicare» o «trarre ven-
24
detta» nel senso di retribuire chi ha fatto un torto a Dio stesso (Lv
26,25), ai suoi servitori (Dt 32,43), a Israele (Ger 50, 1 5) e ai suoi po
veri (Is 35 ,4), o anche a una terza persona (Ez 24,7-8). In questo sen
so Davide preferisce lasciare a Dio il compito di vendicarlo nei con
fronti di Saul, per evitare di commettere un'ingiustizia (1 Sam 24, 1 3) .
Manfred Oeming scrive: «Dio non desidera l a vendetta nel senso mo
derno del termine, ma la giustizia»; e aggiunge che affidare la rappre
saglia a Dio e !asciargliene il monopolio è un modo per prevenire l'e
scalation della violenza. i6
È in questo senso che vanno intesi gli appelli dei salmisti, che im
plorano Dio di vendicarli. Infatti, chi prega in questo modo rinuncia
per ciò stesso a vendicarsi da sé, per lasciare a Dio il ristabilimento
della giustizia. È ciò che fa l'orante del Sal 94: «Dio vendicatore, Ado
nai, Dio vendicatore, risplendi! Alzati, giudice della terra . . . » (vv. 1 -2a).
A pregare in questo modo è un innocente vittima dell'ingiustizia dei
potenti, che se la prendono con le persone vulnerabili a causa della lo
ro povertà o della loro condizione sociale (Sal 94,5-6) e si mostrano ar
roganti, perché pensano che Dio resterà indifferente. Ma il salmista
crede che Adonai non abbandona i suoi (Sal 94, 1 4) . Perciò, lo suppli
ca di ristabilire la giustizia derisa. rendendo i loro crimini a coloro che
li commettono (Sal 94,2b. 2 3 ) . 1 7 Allo stesso modo, nel Sal 58, è l'ingiu
stizia dei giudici che «grida vendetta al cielo». Quando l'iniquità si in
stalla nel luogo che deve rendere giustizia, a chi possono rivolgersi i
giusti se non a Dio stesso? Come possono infatti far valere i loro dirit
ti davanti a magistrati corrotti fino alla radice? Ma se Dio interviene,
allora «il giusto godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue
dei malvagi» e proclamerà: «C'è una ricompensa per il giusto, c'è un
Dio che fa giustizia sulla terra! » (Sal 5 8, 1 1 - 1 2) . 1 8 Questa concezione di
1 6 OEMING, «Dieu et la violence», 30. Cf. anche BARBAGuo, Dio violento?, 1 30- 1 39, che
cita in questo senso Rm 1 2, 1 9 (TOB): «Non vendicatevi da voi stessi, carissimi, ma la
sciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: a me la vendetta, sono io che ricambierò. di
ce il Signore». Per evitare un controsenso in francese. la BJ e la Nouvelle Segond prefe
riscono «fare giustizia» a «vendicarsi» per rendere il greco ekdikeo. Cf. . al riguardo, ciò
che scrive Élian Cuvillier nel capitolo 3 di questo libro.
17 Cf. J.-L. SKA. «"Dieu des vengeances, montre-toi" (Sal 94, 1 )», in We consacrée
53(198 1 ) . 353-356.
1 s P ropongo una lettura di questo salmo in Le livre des louanges. Entrer dans les
Psaumes (i!critures 6), Lumen Vitae. Bruxelles 22008, 1 32 - 1 4 1 . Cf. anche T. ROMER, Psau
mes interdits. Du silence à la violence de Dieu, Moulin, Poliez-le-Grand 2007, 7 1 -76.
25
un Dio che pratica una giustizia muscolosa sottende una parte della
preghiera del salterio, mentre il libro della Sapienza descrive l'arma
tura del guerriero divino che va alla battaglia per proteggere i giusti
contro gli stolti che li minacciano (Sap 5 , 1 5-20) .
Inserendosi nella stessa linea d i pensiero, altri testi biblici cercano
visibilmente di smussare gli angoli e si sforzano di minimizzare il ruo
lo di Dio nella violenza che comporta l'esercizio della giustizia. Non c'è
forse in questo l'indizio di un certo imbarazzo negli stessi autori bibli
ci? In alcuni racconti, Dio interviene soprattutto per far sì che il vio
lento si autodistrugga, cada vittima della sua propria violenza. Un bel
l' esempio è offerto dal racconto della vittoria di Gedeone sui madiani
ti. Spaventati dal baccano improvviso e dalle fiamme delle torce dei
trecento uomini di Gedeone, i nemici, spinti da Adonai, rivolgono la
spada ognuno contro il proprio compagno (Gdc 7 , 1 9-22). Allo stesso
modo, i nemici di Giosafat si sterminano a vicenda, quando Dio ri
sponde alla preghiera di Israele seminando la discordia fra di loro (2Cr
20, 2 1 -24).
In altri passi, è la natura che, rispondendo al suo Creatore, si ri
volta contro i violenti, come in occasione del diluvio, quando la violen
za delle forze della natura pone fine a quella degli uomini . 1 9 È il mo
dello che ritroviamo nelle piaghe di Egitto e nel celebre racconto della
traversata del mare in Es 14, dove il vento e il mare uniscono le loro
forze, per iniziativa di Adonai, per inghiottire il faraone e il suo eser
cito. Questo modello ritornerà in alcuni testi profetici, che descrivono
il castigo della parte di Israele infedele (Am 7 , 1 -6; Gl 1-2; Dt 28,38-
42). Viene ripreso anche nel libro della Sapienza (Sap 5 , 20-23), che
giunge fino ad affermare che i violenti sono puniti proprio da ciò in cui
hanno peccato (Sap 1 1 , 1 6) e sono, in definitiva, annientati dal male
che hanno commesso (Sap 1 7 , 2 1 ) . Al riguardo, non fa che riprendere
un tema noto agli autori dei salmi: «Il male fa morire il malvagio» (Sal
34,22) . . . «Il suo crimine ricade sul suo capo, la sua violenza gli piom
ba sulla testa» (Sal 7 , 1 7).
26
Violenza di Dio, salvezza dei poveri
Gli autori dei salmi credono fermamente che Dio prende in mano
la causa dei poveri e dei piccoli quando la loro vita è minacciata. Que
sta concezione affonda le radici nella convinzione che Adonai è un Dio
che salva. E, in molti testi biblici, non rinuncia a ricorrere a mezzi ra
dicali, quando si tratta di liberare persone oppresse dalla violenza dei
potenti. La grande epopea dell'uscita dall'Egitto costituisce per così di
re il testo archetipo di questa tematica (Es 1-1 5) . 20
Sempre più numeroso, un gruppo di stranieri installato in Egitto da
qualche tempo è considerato una minaccia da un nuovo re. La paura
lo induce a «prendere misure sagge» e, per scongiurare il pericolo, sot
topone i suoi membri a pesanti lavori di interesse nazionale. Siccome
questo non basta . a spezzame la volontà e contenerne la crescita, ag
giunge l'oppressione alla schiavitù, poi decide di bloccare ogni sua pro
spettiva di avvenire, uccidendo tutti i figli maschi alla nascita (Es 1 , 8 -
2 2 ) . I l suo successore (cf. 4 , 1 9) segue l e sue orme. Quando Mosè e
Aronne, da parte di Adonai, gli chiedono di lasciar andare gli schiavi
ebrei nel deserto per celebrare una festa in suo onore, il re oppone un
secco rifiuto . E, per far passare ai figli di Israele la voglia di riposare e
celebrare, ordina di sottoporli a lavori ancor più pesanti e di punire se
veramente gli «scansafatiche», insensibile alle loro giuste recrimina
zioni (Es 5 , 1 - 1 9) . Perciò, mentre in un primo tempo gli schiavi aveva
no accolto favorevolmente il progetto divino della liberazione presen
tato da Mosè e Aronne (Es 4,29-31), ora si rivoltano contro questi ulti
mi e addebitano loro l'inasprimento delle loro condizioni di vita (Es
5 , 20-2 1 ) . Messo al corrente delle conseguenze nefaste della sua inizia
tiva, Adonai ripete a Mosè il suo progetto e lo manda a dire ai figli di
Israele: «lo sono Adonai e vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi
libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con gran
di castighi» (Es 6,6). Ma, oppressi dalla dura schiavitù cui sono sotto
posti, gli israeliti si rifiutano nuovamente di ascoltare Mosè (Es 6,9).
«Vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi» . La volontà di
salvare il popolo che Dio rivendica come «suo figlio primogenito» (Es
•o Cf. l'interessante studio di L. MAZZI NGHI, « " I l Signore passerà per colpire l'Egitto":
la violenza di Dio nel racconto dell'Esodo», in Parola Spirito e Vita 37: La violenza
(1 998) 1 , 69-82 .
27
4, 22) si concretizza in potenti interventi, che suggelleranno la con
danna degli oppressori : è la famosa serie delle dieci «piaghe d'Egitto»,
annunciata nuovamente in Es 7 , 1 - 5 , dove Adonai precisa che questa
violenza contro l'Egitto lo farà conoscere al re di quel paese, che ave
va affermato : «Chi è Adonai perché io debba ascoltare la sua voce e la
sciare partire Israele? Non conosco Adonai e non lascerò certo partire
Israele ! » (Es 5,2). Qui non si tratta evidentemente di minimizzare la
violenza che Dio usa contro gli oppressori del suo popolo lungo tutto il
racconto . Ma leggendolo dal suo punto di vista, si può facilmente no
tare che esso insiste non tanto sulle azioni violente di Dio quanto piut
tosto sulle sue parole, nonché sui negoziati fra Mosè e il faraone, mo
strando così che Adonai non vuole distruggere l'Egitto, ma solo libe
rare il suo popolo . «Lascia partire il mio popolo, perché mi . serva» :2 1
Adonai invita ripetutamente il re a riconoscerlo come signore di quel
popolo e a riconoscere che quest'ultimo non gli appartiene, per cui non
può privarlo della sua libertà, del frutto del suo lavoro, della sua inte
grità fisica, e, in definitiva, della sua vita. Infatti, Israele appartiene a
un Dio che lo vuole libero e vivo e a nessun altro.
Come ogni epopea, questo racconto presenta evidenti accenti iper
bolici: il tono è dato dall'episodio iniziale, dove si racconta che il ba
stone di Aronne, cambiato in serpente, inghiotte quelli dei maghi d'E
gitto . Poi il lettore scopre una sorta di disegno, nel quale non manca
no cose inverosimili. Come immaginare, ad esempio, che il re d ' Egitto
lasci in vita Mosè e Aronne dopo che le prime piaghe hanno devasta
to il suo paese o che l' Egitto sia completamente devastato in poche set
timane? Del resto , il racconto non rinuncia a fare la caricatura degli
egiziani, dei loro maghi, dei loro ministri e soprattutto del loro farao
ne, con la sua assurda ostinazione . In realtà, queste volute esagera
zioni concorrono a sottolineare la sovranità di Dio e il suo attacca
mento ai figli di Abramo, lsacco e Giacobbe, in forza dell'alleanza sti
pulata in passato con loro. Perciò la violenza che si abbatte sull'Egitto
è, in negativo, il segno della determinazione con cui Adonai vuole che
i figli di Israele diventino un popolo libero, per poter prolungare con
loro l'alleanza che lo univa ai loro padri.
Il racconto epico ha anche un'altra funzione, complementare alla
prima: illustrare, con la precisione consentita dalla caricatura, la logi-
28
ca che sottende il comportamento dei tiranni di ogni tempo e luogo . Il
faraone che, nonostante la crescente pressione esercitata sul suo pae
se e su di lui, si ostina nel suo rifiuto a lasciar partire gli schiavi ebrei,
incarna il delirio del despota, il quale, piuttosto di cedere a rivendica
zioni ragionevoli e legittime, cerca di rafforzare il suo potere, senza
rendersi conto che quest'atteggiamento lo condurrà alla sua rovina e
causerà indicibili sofferenze non solo a coloro che non hanno preso le
distanze da lui, ma anche a molti innocenti, come i primogeniti elimi
nati dalla decima piaga. Il fatto che sia Adonai a colpirli non riduce lo
scandalo . Ma il sentimento che può provare il lettore non deve fargli
dimenticare che responsabile di questo massacro annunciato (Es 4,22)
e diventato inevitabile (Es 1 0 , 2 8-1 1 , 1 0) è anche l'ostinazione ad ol
tranza del faraone. Del resto , neppure questo colpo fatale lo farà desi
stere dalla sua ostinazione e, solo giocando sul suo rabbioso desiderio
di riprendere ad ogni costo i suoi schiavi in fuga, Adonai riuscirà a li
berarli, neutralizzando definitivamente il tiranno e il suo esercito che
precipita nel mare (Es 1 4).
Ma spesso fa problema anche un altro punto : il cosiddetto «indurì
mento del cuore» del faraone , un motivo che ricorre lungo tutto il rac
conto delle piaghe e anche nella traversata del mare . A un'attenta os
servazione non sfugge l'uso di due verbi per indicare ciò che avviene
nel cuore del faraone: il suo cuore è «reso pesante» o «reso forte» ,
chiuso nella sua ostinata testardaggine.22 Inoltre, nel corso del rac
conto, il soggetto dei due verbi cambia. A volte, soprattutto all'inizio,
è il faraone a «rendere pesante» o «rendere forte» il suo cuore; a vol
te , e sempre più .con l'avanzare del racconto, è Adonai a farlo.23 Come
spiegare questo dato? In fondo, il narratore comincia con il registrare
il rifiuto del faraone a lasciar partire gli israeliti e poi la sua ostinazio
ne in questo rifiuto, come Adonai ha preavvertito Mosé (3, 1 9): quindi
22 Il verbo «indurire» non rende correttamente i due verbi ebraici (kbd hifil, «ren·
dere pesante», e !1zq, «essere/diventare forte», all'hifil, quando il soggetto è Dio. «ren
dere forte»). Il verbo «indurire» corrisponde piuttosto a un terzo verbo [qsh hifil), usa
to solo in Es 7 , 3 e in 1 3 , 1 5 , non dal narratore, ma in discorsi di Adonai a Mosè. Nota
re che, nella Bibbia, il «cuore» è non tanto la sede dei sentimenti quanto piuttosto la se
de della riflessione e della decisione.
23 Faraone è soggetto in 7,13.1 422; 8 , 1 1 .15.28: 9,7.34-35; Adonai in 9, 12; 10,1 .2027;
1 1 , 10 e 1 4,4.8. 1 7 (in corsivo. i passi in cui si tratta di «rendere forte», verbo usato sem
pre dal narratore quando racconta l'azione di Adonai). Cf. gli annunci da parte di Adonai
in 4,21 e 7,3.
29
liberamente il faraone «rende pesante il suo cuore», cioè continua a
non cambiare la sua decisione o addirittura la «rende (più) forte». Ma
il racconto sottolinea anche che, di fronte a quest'atteggiamento per
sistente del re, Adonai, da parte sua, persevera nella sua volontà di
chiedere al faraone di liberare il suo popolo . Ma, date le disposizioni
del tiranno, le sue ripetute rivendicazioni contribuiscono piuttosto a
confermarlo nella sua decisione. Non c'è in questo nulla di magico o di
perverso. È la decisa volontà di Adonai di liberare gli oppressi a raf
forzare il «cuore» o la decisione del faraone: più il primo insiste, più il
secondo si ostina. Perciò, mediante una scorciatoia, il narratore può
affermare che è Adonai a «rendere forte il cuore» del faraone, mentre,
resistendogli, lo costringe a gettare la maschera, a mostrare ciò che è
veramente e, alla fine, a vedere l'esito della sua volontà di potenza: la
sua morte e quella, tragica, dei suoi.
Dopo il faraone, Dio combatterà contro molti altri oppressori di
Israele nel lungo racconto biblico che, alla fine del Secondo libro dei
Re, prosegue e termina con i libri delle Cronache e quelli dei Macca
bei. Quanti interventi muscolosi di Dio raccontano questi libri, quando
si tratta di salvare Israele, per continuare , con questo popolo così vul
nerabile, l'avventura dell'alleanza stipulata all'inizio con la speranza
di strappare le nazioni a ciò che le sprofonda nella violenza? Sono
quelle che l'Antico Testamento chiama non «guerre sante» - il concet
to non esiste nella Bibbia -, ma «guerre di Adonai»,24 nelle quali que
st'ultimo combatte per salvare il suo popolo da nemici che lo oppri
mono, con interventi che mirano non a prolungare la guerra, ma piut
tosto a cercare di porvi fine. 2 5 Nello stesso senso, i profeti e i salmi si
ricollegano a questi racconti per mostrare tutta la forza che Adonai è
disposto a usare quando si tratta di strappare i poveri dagli artigli dei
potenti che li opprimono l ( Sam 2,8-10; Sal 3,2-7; Am 8 , 4 - 1 0) . In que
sto caso, la sua violenza dimostra chiaramente che egli non accetta di
30
lasciare le cose così come stanno, ma soccorre le vittime delle violen
ze degli uomini. In fondo, Dio dichiara guerra alla morte, contrappo
nendo la sua forza alle forze della distruzione (Sal 7 4 , 1 2 - 1 7) .
Ciò detto, i l lettore noterà facilmente che anche i n questo caso, !un
gi dal parteggiare per il nazionalismo, Adonai mostra la sua giustizia
prendendosela con il suo popolo - spesso consegnandolo nelle mani dei
suoi nemici - quando quest'ultimo si abbandona all'idolatria, all'ingiu
stizia e alla violenza. La sorte di Core e della sua banda, inghiottiti dal
la terra in seguito a un intervento di Adonai (Nm 1 6), è esemplare al ri
guardo. Anche il libro dei Giudici mostra ripetutamente che, intestar
dandosi, come il faraone, nel rifiuto di ascoltare un Dio disposto ad as
sicurargli la libertà e la pace, Israele si attira la propria rovina; infatti,
Dio, per mostrargli il suo peccato, lo consegna in mano ai nemici. Alla
fine del libro, il popolo rischierà di autodistruggersi in una guerra civi
le, nella quale Adonai è riluttante a intervenire, quando non aggiunge
altra violenza a quella già onnipresente (Gdc 1 9-2 1 ) . Molti testi profe
tici vanno nella stessa direzione, annunciando il castigo che Dio inflig
gerà al suo popolo: per i suoi crimini, dovrà subire la violenza delle na
zioni (Is 5 ,8-30; Ger 4,5-5 , 1 9). Su questo punto ritornerò più avanti.
31
Ma questo genere di aneddoti è praticamente trascurabile di fronte
alle leggi della guerra e alla prescrizione dell'anatema nel quadro della
conquista di Canaan. Dopo aver deliberato sulla sorte da riservare alle
città lontane - potranno essere distrutte solo se rifiutano di sottomet
tersi al lavoro coatto a vantaggio di Israele (Dt 20, 1 0-1 5) , Adonai, at
-
26 Cf. già Dt 7 , 1 - 5 dove si parla di votare all'anatema nazioni di Canaan per eon
servare intatta la fedeltà all'alleanza con Dio.
32
sente: l'idolatria rischia di condurre alla catastrofe. Ai loro occhi, que
sta vittoria totale era il segno della potenza di Dio, addirittura il segno,
come afferma il Deuteronomio, della sua unicità e del suo potere uni
versale. Infatti chi, se non l'unico Dio di tutti i popoli, sarebbe in gra
do di «andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove,
segni prodigi e battaglie [ ... ], come fece per voi Adonai [ . . . ] in Egitto» ?
Quale altro dio sarebbe i n grado di «scacciare davanti a t e nazioni più
grandi e più potenti di te» per introdurre il suo popolo nel suo paese e
donarglielo? Per questi lettori l' Esodo e la conquista dovevano dimo
strare che «Adonai è il vero Dio, lui e nessun altrm>, che egli «è Dio
lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ce n'è altro» (Dt 4,32-39). Per
ciò, per loro la violenza di Dio nella realizzazione delle sue promesse
era il pegno del suo potere universale e della sua fedeltà al popolo che
si era scelto come alleato, una verità che dovevano ricordare con cura
i destinatari di allora, circondati da nazioni pagane e dai loro idoli.
Il lettore odierno può certamente comprendere la prospettiva dei
suoi lontani predecessori. Sarà indubbiamente sensibile anche agli ar
gomenti storici cui ho accennato all'inizio di questo capitolo : dagli sca
vi archeologici si evince che probabilmente questi racconti non hanno
nulla di storico e l'esegesi dei testi in collegamento con la letteratura
assira del VII secolo induce a ritenere che si tratta verosimilmente di
un racconto teologico redatto in quell'epoca per affermare la potenza
del Dio di Israele di fronte alle divinità assire o per legittimare le con
quiste del re Giosia. 27 Ma questi argomenti non basteranno al lettore
odierno. Infatti, non basta affermare che queste carneficine non sono
storicamente avvenute per scagionare il Dio della Bibbia dal fatto di or
dinarie e neppure basta spiegare ciò a cui questi testi miravano in ori
gine per giustificare il fatto che Dio possa ordinare l'eliminazione dei
nemici per quanto idolatri possano essere. Alcuni invocano allora la
prefazione del libro di Giosuè per relativizzare la sua ottica militaristi
ca o nazionalistica. Infatti, Dio stesso arma Giosuè, il comandante mi
litare al quale ordina di occupare tutto il paese che vuole donare a
Israele, con il libro della Legge di Mosè, ingiungendogli di meditarlo e
rispettarlo per riuscire nella sua impresa (Gs 1 , 2-9): «Da capitano Gio-
27 Cf. sopra, p. 13. Cf. anche J.-C. BRAu - J. DEwEz, Qu'as·tu fait de tonfrère? Vio·
lences et Bible (S ens et foi 5), Lumen Vitae, Bruxelles 2004, 27-39.
33
suè diventa una sorta di monaco ossessionato dalla lectio divina. [. ] ..
28 J. CAZEAUX, Le refus de la guerre sainte. Josué, Juges. Ruth (Lectio divina 1 74),
C erf
, Paris 1 998, 2 2 .
29 Il racconto precisa con una certa insistenza che Giosuè agisce i n base agli ordi
ni divini : Gs 4,8.10; 8,3 1 : 10,40; 1 1 ,9 . 1 2 .23.
34
Al termine di queste considerazioni, il lettore moderno non avrà cer
tamente risolto il suo problema, ma io non penso che occorra cercare a
ogni costo altre circostanze attenuanti per il Dio di Giosuè . Del resto, è
anche un bell'esempio del fatto che le immagini particolari di Dio non
possono dire tutto di lui. Il Dio di Gs 6-1 2 è un guerriero in nome della
fedeltà alle sue promesse e all'alleanza con il suo popolo, manifesta in
questo modo la sua sovranità universale e la sua volontà di vita per
Israele, sottolinea che la terra è un dono, che comporta come contro
partita l'esigenza della fedeltà all'alleanza. Ma questa faccia positiva del
la medaglia ha incontestabilmente il suo rovescio, caratterizzato da
esclusivismo, intolleranza e violenza. Forse questi aspetti saranno cor
retti da altri aspetti che sottolineano la volontà di salvezza di Dio per tut
ti (cf. Is 1 9 , 1 6- 2 5 ; Mi 4,1 -4; Giona) . Ma non è detto che queste pagine
ributtanti non possano avere anche la funzione di risvegliare nel letto
re, nel nome dello stesso Dio biblico, un rifiuto categorico dell'aspetto
violento e nazionalistico di quest'immagine di Dio , in ogni caso «quan
do si vuole fare dell'azione violenta di Dio, nelle sue profondità che non
sono veramente comprensibili, un modello immediato per un'azione
violenta»,30 che così si sarebbe legittimata, persino sacralizzata.
Su questo punto, il lettore responsabile sarà sensibile alle sfumatu
re offerte dagli stessi testi collocati nel contesto globale di un racconto
il cui senso si chiarisce a poco a poco. Così, ad esempio, nel Secondo
libro dei Re, un membro di una confraternita profetica presieduta da
Eliseo viene inviato a dare l'unzione regale, mentre il re Ioram è an
cora vivo, a un certo Ieu. Lo scopo dichiarato da Dio è quello di rove
sciare e sradicare la dinastia di Acab, un re che si è abbandonato al
l'idolatria e alla violenza (2Re 9 , 1 - 1 0) . Ricevuta l'unzione, Ieu si tra
sforma in giustiziere e condanna a morte il re di Israele, per vendica
re il sangue di Nabot, un uomo giusto messo a morte al termine di un
processo farsa, per potersi impadronire della sua vigna (cf. 1 Re 2 1 , 1 -
1 6); m a Ieu assassina anche Gezabele, la moglie di Acab, e il suo al
leato Acazia, re di Giuda (2Re 9 , 22-37). Questi omicidi sono seguiti da
un bagno di sangue compiuto in nome di Adonai. Difendendo la sua
causa, Ieu si libera dei discendenti di Acab, dei principi di Giuda e dei
sacerdoti di Baal (2Re 1 0) .
35
Ora Ieu come futuro re di Israele viene menzionato per la prima
volta al termine di un lungo racconto, nel corso del quale Dio contesta
chiaramente gli ardori stragisti del profeta Elia (predecessore di Eli
seo) . Dopo aver guadagnato alla sua causa molti israeliti, desiderosi di
schierarsi dalla parte del Dio, apparentemente più forte, E lia ha sgoz
zato con il loro aiuto i quattrocentocinquanta profeti di Baal, che ave
va convocato per sfidarli e ridicolizzarli - e questo senza aver ricevu
to alcun ordine in tal senso da parte di Dio ( l Re 1 8 , 1 6-40) . In seguito,
la violenza che ha scatenato si ritorce contro Elia. La regina Gezabele,
protettrice dei profeti assassinati, giura di fargli subire la stessa sorte.
Per salvare la pelle, Elia fugge verso sud, fino al deserto del Negev (l Re
1 9 , 1 -3). Allora sembra rendersi conto della sua colpa e chiede di mo
rire. Ma Adonai lo invita a inoltrarsi nel deserto . Giunto all'Oreb, Ado
nai si rivela a lui come un Dio che non si trova nelle manifestazioni di
una potenza violenta, bensì nella discreta mitezza di una «voce di fino
silenzio». È in quest' ultima che il profeta riconosce la sua presenza
( l Re 1 9, 4- 1 3).31 Allora Dio lo congeda, ordinandogli di ungere come
profeta al suo posto Eliseo, colui che invierà uno dei suoi discepoli a
ungere Ieu ( l Re 19, 1 5- 1 6) . Dio tollererebbe - addirittura approvereb
be - in un re il ricorso alla violenza che nega al profeta? In ogni caso,
alla luce dell'avventura di Elia, il lettore è autorizzato a chiedersi se la
violenza scatenata da Ieu (e annunciata in 1 Re 1 9 , 1 7) può veramente
essere ordinata da Dio, e se le parole del giovane profeta che unge Ieu
per ordine di Eliseo sòno, come egli pretende, quelle di «Adonai Dio di
Israele». Infatti , l'ordine ricevuto da Eliseo è molto più breve di quello
che egli trasmette e anche molto più sobrio (2Re 9,6- 1 0 , comparare
con l'ordine del v. 3).
31 Su questo testo, cf. F. VARDNB, Se pensi che Dio ami la sofferenza, EDB, Bologna
1995, 27-5 1 .
36
la violenza di Dio, non essendo senza ritorno, vengono a volte presen
tate come un modo per educare alla difficile fedeltà all'alleanza un
Israele continuamente recalcitrante. Così, il capitolo l di Isaia, che apre
la lunga serie dei profeti successivi, è una variazione su questo tema.
Dopo aver punito duramente il popolo che si è allontanato da lui, Ado
nai interpella i sopravvissuti, perché aprano gli occhi sulla loro colpa -
un culto senza giustizia - e ascoltino il suo invito a convertirsi. Infatti,
intestardirsi nella ribellione equivarrebbe ad andare in rovina (ls 1 ,2-
20). Un po' più avanti, Adonai sottolinea lo scopo della punizione:
«Stenderò la mia mano contro di te, purificherò come in un forno le tue
scorie, eliminerò tutti i tuoi rifiuti. Farò ritornare i tuoi giudici come
(erano) una volta, i tuoi consiglieri come al principio. Allora sarai chia
mata "Città di Giustizia", "Città fedele". Sion sarà riscattata dall'equità
e coloro che ritorneranno dalla giustizia» (ls 1 , 2 5-27). Un richiamo a
questo tema si trova all'inizio della seconda parte del libro (ls 40, 1 -2).
Esso ricorre anche in Geremia.3 2 In Ger 3 1 , 1 8- 1 9 , ad esempio,
Efraim dichiara gemendo: «Mi hai castigato e io ho subito il castigo co
me un torello non domato. Fammi ritornare e io ritornerò, perché tu
sei Adonai mio Dio ! Dopo il mio smarrimento mi sono pentito; quan
do me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto ». Anche i capitoli
...
3 2 In questo libro si trova anche l'idea che il malvagio è colpito dalla sua propria
colpa e che questa punizione è un invito a ritornare a Dio: Ger 2 , 1 9 . Cf. in questo sen
so Sap 1 1 , 1 6 .
37
Anche nella Torah la tematica è chiaramente visibile nelle maledi
zioni con cui Adonai minaccia il popolo se non ascolta e non osserva i
comandamenti (Lv 26 , 1 4-45): i duri castighi che annuncia sono pre
sentati come una correzione da cui il popolo viene invitato a trarre le
lezioni, perché altrimenti seguiranno altre sventure (cf. Lv 26, 1 8 . 2 1 .
2 3 . 2 7) . M a quando l a punizione sarà stata inflitta frno i n fondo, i so
pravvissuti, perendo a causa del loro peccato personale e di quello dei
loro antenati, «confesseranno le loro colpe e quelle dei loro padri» (Lv
26,40) e questo ritorno riaprirà la porta all'alleanza con Dio che si ri
corderà di loro (Lv 26,41 -45). In tutti questi testi, la violenza di Dio nei
riguardi di Israele svolge un ruolo educativo e mira a ricondurre il po
polo alla fedeltà, dalla quale dipendono la sua vita e la sua felicità.
Questo tema, cosi come è formulato in Lv 26, viene sfruttato con più
insistenza e in un racconto continuo, nel libro dei Giudici. Nel capitolo
2, il narratore delinea il contesto in un sommario che evoca succinta
mente l'inizio di questo periodo. Dopo la morte di Giosuè e della sua ge
nerazione , gli israeliti abbandonano Adonai e lo irritano servendo altri
dèi. Allora nella sua collera, egli li abbandona nelle mani dei loro ne
mici. «In tutte le loro spedizioni, la mano di Adonai era per il male, con
tro di loro, come Adonai aveva detto [. .. ]. Furono ridotti all'estremo»
(Gdc 2 , 1 5). Poi Dio suscita dei «giudici» che salvano Israele. Ma que
st'ultimo non li ascolta, finendo nuovamente nella sventura, in ogni ca
so dopo la morte del salvatore inviato da Adonai (Gdc 2 , 1 6- 1 9). Allora
la collera divina si abbatte su Israele e Adonai decide di lasciare sul po
sto le nazioni nemiche (Gdc 2,20-23). Conosciamo la continuazione di
questa storia. Di generazione in generazione, Israele cade nell'idolatria
e Dio lo consegna a un nemico che lo opprime per un certo tempo. Poi
il popolo, sotto il peso dell'oppressione, grida e Adonai gli risponde, in
viandogli un giudice di cui il narratore racconta più o meno a lungo l'in
tervento salvifico. Questo schema si ripete con Otniel (Gdc 3 , 7 - 1 1}, Eud
(Gdc 3 , 1 2-30), Debora e Barak (Gdc 4-5). Durante questo lungo perio
do, Adonai si dimostra paziente e, nella ripetizione di oppressione e li
b erazione seguita dalla pace, sembra sperare che Israele comprenda fi
nalmente che la sua vita dipende dalla fedeltà al suo alleato divino .
Ma questa pedagogia divina non porta i frutti sperati. Allora Ado
nai cambia tattica. Quando Israele torna a peccare, dopo i quaran
t'anni di tranquillità seguiti alla vittoria di Debora, Adonai, in risposta
al suo grido, gli manda un profeta a rivolgergli rimproveri espliciti e
dirgli che si aspetta la fedeltà (Gdc 6 , 1 - 1 0) . Poi suscita Gedeone per li-
38
berare il popolo dalle mani dei madianiti con mezzi talmente ridicoli
da far comprendere a tutti che l'artefice della sua salvezza è unica
mente Adonai (Gdc 6 , 1 1-8 , 2 1 ) . Ma lo stesso salvatore provoca la rica
duta del popolo; allora Adonai colpisce Israele con una sventura (Gdc
9,23-24. 56-57) che, in questo caso , viene dall'interno, dal regno vio
lento di Abimelek (Gdc 8 , 2 2-9, 5 7). Di fronte a questo fallimento, Ado
nai cambia nuovamente tattica: quando Israele torna a peccare, poi
grida verso di lui, perché lo salvi dagli ammoniti che lo opprimono,
benché confessi il proprio peccato e dimostri così di aver imparato la
lezione del profeta, Adonai si rifiuta di salvarlo, ma lo invita a implo
rare la salvezza dagli altri dèi con i quali lo offende. E quando gli israe
liti abbandonano questi idoli , trovano finalmente un capo, Iefte, che li
guida in una campagna militare liberatrice, pur macchiata, da una
parte , dal crudele sacrificio della figlia, immolata al suo orgoglio e al
la sua sete di potere33 e, dall'altra, dalla guerra civile fra Galaad e
Efraim, nella quale periscono 42.000 uomini, uccisi dai loro fratelli
(Gdc 1 0,6-1 2 , 7) .
È questo a giustificare il fatto che, nella generazione seguente, l'op
pressione dei filistei in seguito al nuovo peccato di Israele non è più se
guita da un grido e Sansone, il «liberatore», pur consacrato fin dal se
no di sua madre, entra con l'occupante in un cerchio infernale di vio
lenze e vendette personali che sfocerà in un massacro (Gdc 1 3-16)? Il
lettore ha la sensazione che ormai i partner dell'alleanza sono stanchi:
da una parte, la conversione di Israele è stata più che effimera e, dal
l'altra, Adonai sembra aver perso la voglia di salvare un popolo sem
pre meno disposto a fare ciò che si aspetta da lui. Si può facilmente
comprendere che, in queste condizioni, Adonai abbandoni Israele ai
propri errori; infatti «ognuno faceva come gli sembrava bene», senza
rendersi conto che era male agli occhi di Dio (Gdc 1 7 ,6 e 2 1 ,25). Nel bel
mezzo della guerra civile, che contrappone tutte le tribù a Beniamino,
Adonai sembra addirittura voler aumentare la confusione, accordando
la vittoria ora agli uni ora agli altri, quando non resta semplicemente in
silenzio davanti a coloro che vanno a consultarlo per sapere come sal
vare Beniamino dopo che i suoi sono stati decimati (Gdc 1 7-2 1 ) .
'
39
In questo senso, il libro dei Giudici - dove spesso abbonda la vio
lenza divina - racconta come Adonai, dopo aver puntato sulla strate
gia alternata di punizione e salvezza per educare Israele alla fedeltà al
l'alleanza, finisce per abdicare, come paralizzato dal fallimento di que
sta pedagogia. In realtà, se Dio non si rassegna all'infedeltà di Israele
e se vuole che si corregga ritornando all'alleanza, può farlo solo fa
cendo appello alla sua responsabilità e alla sua libertà, e quindi accet
tando il rischio del fallimento. Il seguito del racconto biblico - nei libri
di Rut34 e di Samuele - mostrerà Adonai che esplora altre strade, che
si riveleranno più efficaci, e questo a partire da donne atipiche, una
straniera e una moglie sterile, che , in questo contesto di una violenza
tanto onnipresente quanto deleteria, imboccano risolutamente la stra
da dell'alleanza con Dio.
34 Nell'ordine dei libri della LXX, che colloca Rt al suo posto cronologico, «al tem
po in cui giudicava.no i giudici» (Rt 1 , 1 ).
40
nieri (Nm 1 ,5 1 ; 3 , 1 0 . 38 ; 1 8 ,7), israeliti non !eviti (1 8 , 2 2) e anche sa
cerdoti senza i loro abiti rituali (Es 28 ,46).3 5 Infine, si punisce con la
morte la mancanza di rispetto verso il padre e la madre (Es 2 1 , 1 7 e Lv
20,9) e la violazione del sabato (Es 3 1 , 1 5 ; 3 5 , 2 ; Nm 1 5 , 3 2-36).
Gli studiosi sottolineano che, rispetto alle legislazioni note del Me
dio Oriente antico, la lista è piuttosto ridotta. 36 E aggiungono che, «con
trariamente a una diffusa pratica mesopotamica, che prevede la puni
zione di una persona per un crimine commesso da un membro della
sua famiglia, la Bibbia limita la responsabilità degli atti criminali uni
camente a chi li ha commessi».37 Certo, a parte le violenze che priva
no l'altro della vita, oggi non si comprende una punizione così severa
dei delitti sessuali o delle violazioni nella sfera del sacro . Ma è degna
di nota e di riflessione un'antica tradizione giudaica riportata dal Tal
mud: «Un sinedrio che pronuncia una condanna a morte ogni sette an
ni è considerato sanguinario. Secondo R. Eleazar ben Azaria, un sine
drio che pronuncia una condanna a morte ogni settant'anni è conside
rato sanguinario».38 Quindi ben presto i rabbi si sono accorti che oc
correva oltrepassare la lettera delle leggi che prevedevano la pena di
morte . Indubbiamente, più che lasciarsi accecare dalla crudeltà dei te
sti legislativi, è meglio cercare di vedere qual è la loro posta in gioco.
Un testo importante della Torah suggerisce una pista. Riguarda uno
dei delitti sorprendenti della succitata lista: la violazione del sabato. Il
testo che prevede la pena di morte per chi viola il sabato prevede an
che la sua «scomunica»: «Osserverete dunque il sabato , perché per voi
è santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno
farà qualche lavoro, sarà - letteralmente - separato dal suo popolo» (Es
3 1 , 1 4). Come si può separare dal popolo chi è stato giustiziato? Il para
dosso si chiarisce considerando la pena non tanto una sanzione estrin
seca della colpa quanto piuttosto l'espressione della sua conseguenza
intrinseca: il colpevole è punito con ciò con cui ha peccato (Sap 1 1 , 1 6) .
In questo senso, l a scomunica indicherebbe che l a violazione del saba-
35 Cf. nello stesso senso, il divieto di oltrepassare il confine che delimitava il monte
Sinai in Es 1 9, 1 2- 1 3 .
3 6 Al riguardo, a d esempio, R. D E VAux, Les lnstitutions de l"Ancien Testament, Cerf,
Paris 31 976, I, 2 30.
37 Art. «Peine capitale», in G. WIGODER (ed.), Dictionnaire encyclopédique du Juda'i
sme, Cerf, Paris 1993, 859.
38 Talmud babilonese, Trattato MakkOt, l, 7a.
41
to esclude il trasgressore dal popolo che Adonai santifica: se il sabato
è il segno principale dell' alleanza fra Dio e Israele (Es 3 1 , 1 3 . 1 7) , chi
non lo osserva esce de facto dal popolo alleato di Dio. La pena di mor
te sottolineerebbe che chi trascura il sabato imbocca una strada di mor
te in quanto si rifiuta di entrare nel dispositivo dell'alleanza grazie al
quale Israele partecipa alla vita di colui che ne è l'autore e che la dona
con la benedizione. In questa linea, i testi che puniscono certi delitti con
la pena capitale potrebbero , enunciando una tale sanzione, attirare
l'attenzione su atti o omissioni che fanno correre al loro autore un ri
schio di morte, non fisica, ma umana o spirituale.
Sui sacrifici si sono già scritte molte cose ,39 per cui qui mi accon
tenterò dell' essenziale. La sensibilità moderna è urtata dalla violenza
inflitta dal sacrificio alla vittima, in genere un animale. Alfred Marx lo
spiega molto bene: la macellazione dell'animale è un rito preliminare
al sacrificio. Significa che l' offerente vuole donare il suo bene a Dio e
quindi che vi rinuncia. Ma, come tale, l'immolazione «non fa parte del
servizio di Dio . Non si può quindi costruire sulla messa a morte della
vittima una teoria del sacrificio» .40 Perciò, se Israele offre animali in
sacrificio, non è assolutamente per soddisfare un Dio che sarebbe as
setato di sangue o di violenza. Questi riti mirano essenzialmente a in
vitare Dio a un incontro vivificante con i fedeli che gli offrono l'omag
gio di un pasto .41 Il sangue non è mai destinato a essere offerto a Dio
al posto di quello del peccatore, per placarne la collera. Al contrario,
che senso avrebbe offrire a Dio il sangue che già gli appartiene? In
realtà, proprio «perché è vita» il sangue può «procurare la vita [ . . . ] ser
vendo da antidoto alla morte e a tutto ciò che produce la morte, con
trapponendo alle forze di morte forze di vita» .4 2 Perciò la funzione del
cosiddetto «sacrificio di espiazione» è quella di reintegrare coloro che
sono esclusi dalla vicinanza di Dio , di permettere passaggi vitali e pu
rificare il paese . In breve, anche se la macellazione può essere consi-
42
derata crudele, non è questa violenza a essere gradita a Dio; essa è so
lo la preparazione necessaria al compimento di riti a valenza simboli
ca, che riguardano l'unione di Israele con il suo Dio. Del resto , nel si
stema sacerdotale dei sacrifici, si valorizza in modo particolare l'offer
ta di vegetali rispetto ai riti che comportano l'immolazione di vittime.
Quest'ultima costituisce, sempre secondo A. Marx, «il culmine del si
stema sacrificale, quello che realizza più pienamente lo scopo ultimo
di tutto il culto sacrificale, cioè la comunione con Dio».43
Che dire allora del sacrificio di esseri umani? L'Antico Testamento
lo attesta: in Israele si sono praticati riti del genere. Ma la Bibbia con
danna questi sacrifici, consistenti per lo più nell'immolazione di bam
bini. Si tratta di un abominio che, in nessun caso, può piacere a Dio
(Dt 1 2 , 3 1 ) . Perciò, la Legge vieta formalmente queste pratiche (Lv
1 8 , 2 1 ; 20, 2-5; Dt 1 8, 1 0), i racconti le screditano,44 i profeti le denun
ciano (Ger 7, 30-3 1 ; 1 9, 5 ; 3 2 , 3 5 ; Ez 1 6,20; 20,30- 3 1 ; Mi 6,7). Solo due
episodi fanno problema: il cosiddetto sacrificio di Isacco e il voto di Ief
te. Questi due episodi richiedono lunghe spiegazioni. Ma, poiché que
sto libro è incentrato sulla violenza divina e poiché su questi testi si ri
tornerà in seguito ,45 qui mi limiterò a indicare alcune piste.
In Gen 22, se c'è violenza, il suo oggetto è solo Abramo che Dio met
te sotto pressione con un ordine ambiguo: offrire in olocausto il suo
unico figlio su un monte o salire sul monte per offrirvi un olocausto al
la presenza di !sacco, cosa che avverrà effettivamente in seguito (Gen
2 2 , 1 3) . Segnalando che si tratta di una «prova», il narratore rassicura
subito il lettore riguardo a Isacco . Una prova ha una durata limitata e
chi vi ricorre la interrompe appena sa ciò che voleva sapere . Quindi
Dio non vuole la morte di !sacco . Solo Abramo può pensarlo. La sua
prova consiste proprio in questo : come comprendere ciò che Dio gli ha
detto? Che cosa fare? Ringraziare con un sacrificio il Dio che gli ha do
nato quell'unico figlio o renderlo simbolicamente a colui che glielo ha
43
donato? Legare suo figlio a sé o, al contrario, !asciarlo andare verso
colui che lo vuole libero e vivo? Quando vede che Abramo fa la scelta
del contro-dono e dell'alleanza e non cerca di conservare per sé il fi
glio, Dio interrompe la prova. Allora Abramo vede alle sue spalle il ca
pro e lo offre in olocausto nel luogo in cui aveva legato il figlio, mentre
il messaggero di Dio, constatando la sua obbedienza, gli assicura una
grande benedizione .46 In seguito, sull'esempio di Abramo, ogni israe
lita sarà invitato a consacrare il primogenito ad Adonai, riscattandolo
con un capo di bestiame (Es 1 3 , 2 . 1 1 - 1 5) .
Il problema posto dall'immolazione della figlia d i Iefte è u n po' di
verso . In questo caso, infatti, è lo stesso Iefte a fare voto di offrire a Dio
il primo essere che uscirà dalla sua casa quando ritornerà vittorioso
(Gdc 1 1 ,30). Chi sarebbe se non un essere umano ? Parlando in questo
modo, Iefte invita Adonai a scegliere lui stesso la sua vittima o affida
la cosa al caso? Sia come sia, si tratta del voto di un capo inquieto e
desideroso di assicurarsi la vittoria, mentre lo spirito di Dio riposa già
su di lui per dargli sicurezza (Gdc 1 1 ,29). Questa vittoria deve consa
crare un potere al quale aspira (Gdc 1 1 ,9). Ma, come dice A. Marx, Ief
te è anche un esaltato, il quale immagina che Adonai «possa godere
della sofferenza e della morte di un essere umano e, peggio, gradire la
morte di un innocente».47 In ogni caso, al ritorno di Iefte, la prima per
sona a uscire dalla sua casa è la figlia, certamente a ragion veduta, per
ché era perfettamente al corrente del voto pubblico del padre, come in
dica la sua pronta risposta (Gdc 1 1 ,36). Pur dichiarandosi disperato
per il fatto di dover sacrificare la sua unica figlia e per il fatto che que
st'ultima gli parla tranquillamente, suggerendogli, con tono rassegna
to , di rimettersi al suo giudizio, Iefte vuole adempiere fino in fondo il
voto dal quale dipende la sua credibilità e la sua posizione di capo. Ma,
diversamente da ciò che avviene in Geo 22, Dio non interviene per im
pedire il peggio . Questo significa che sta al gioco ambiguo di Iefte e
prova piacere per la morte di sua figlia? Non significa piuttosto - co-
46 Per un'analisi approfondita, cf. A. WaNJN, lsaac ou l'épreuve d 'A braham. Appro
che narrative de Genèse 22 (Le livre et le rouleau 8), Lessius, Bruxelles 22008 , soprat
tutto 30-88 .
47 C . GRAPPE - A. MARX, Sacrijices scanda/eux? Sacrijices humains, martyre et mort
du Christ (Essais bibliques 42), Labor et Fides, Genève 2008, 43-55, soprattutto 5 1 . An
che un capitolo su Gen 2 2 è illuminante (29-4 1).
44
me nel resto del libro dei Giudici - che lascia che gli uomini si pren
dano le loro responsabilità e si assumano le amare conseguenze delle
loro scelte sbagliate? Infatti, immolando la sua unica figlia, Iefte si au
tocondanna a un'esistenza definitivamente sterile.48
Come si può vedere, letti nella loro prospettiva e nel loro contesto,
questi due episodi, certamente difficili da comprendere, suggeriscono
piuttosto l'immagine di un Dio che, come affermano chiaramente altre
pagine dell'Antico Testamento, non vuole che si creda di onorario con
atti di violenza - fossero pure sacrificali - di cui sono vittime altri es
seri umani. Al contrario, leggendo i precetti accompagnati dalla pena
di morte nello spirito che ho indicato, non è difficile comprendere che
Dio mette in guardia il suo popolo da possibili scelte letali per salva
guardarne e promuoverne la vita, sull'esempio di ciò che fa nel giar
dino di Eden, quando avverte la prima coppia che mangiare di un de
terminato albero potrebbe condurla alla rovina (Gen 2 , 1 6- 1 7) .
48 Per i dettagli riguardo a questo racconto, cf. lo studio citato sopra: W�NIN, «À quoi
Jephté sacrifie+il sa fille?».
49 In queste riflessioni riprende l a sostanza, e a volte la lettera, dell'articolo citato
alla nota l .
45
20,4), certamente perché ogni rappresentazione rigida deforma ciò che
viene ridotto a un unico aspetto del suo essere.
Inoltre (ed è un altro limite imposto dal passaggio attraverso la pa
rola umana, sempre individuale), ciò che queste rappresentazioni di
cono di Dio, lo dicono con parole di credenti , la cui vita, azione, con
cezione e fede non possono non essere intaccate dalla violenza di cui
sono vittime o responsabili, complici o testimoni. (È ciò che suggerisce
a suo modo, come abbiamo visto, già il racconto programmatico di Gen
1-1 2). Non stupisce quindi che queste immagini siano segnate più o
meno da questa realtà. Perciò è fondamentale, quando si leggono que
sti testi, distinguere con cura fra rappresentazioni letterarie del perso
naggio divino, intaccate dalla violenza umana, e verità di Dio, fra le sue
raffigurazioni, in parte deformate, e la sua realtà. Infatti, la realtà di
Dio è radicalmente preclusa alla conoscenza umana e sempre inaffer
rabile. Ci si può solo avvicinare ad essa e proprio attraverso queste im
magini , limitate ma indispensabili.
Se così è, anche le immagini violente dicono qualcosa di Dio, come
abbiamo visto: Dio combatte il male e le forze di morte; libera, dona,
fa vivere; è giusto , fedele ai suoi impegni, esigente per il suo alleato; è
unico e la sua sovranità si estende su tutti, ecc. Ma nessuna di queste
immagini dice tutto di lui e ognuna, come ogni rappresentazione, è
parziale e partigiana al tempo stesso. Perciò il lettore, !ungi dal resta
re di stucco di fronte a queste immagini violente o dall'accantonarle,
dovrà imparare a metterle in tensione con le altre immagini: quelle del
Dio creatore, sensibile e giusto, saggio e folle , paziente e geloso, bene
volo e potente, tenero e severo, misericordioso ed esigente, pudico e
discreto, ecc. Questo paziente confronto permetterà sia di scoprire ciò
.che c'è di vero nell'immagine sia di temperare ciò che in essa deriva
dall'accessorio o dall'umano troppo umano. Questo sforzo non avrà
mai fine, perché dovrà essere fatto durante tutta la lettura della Bib
bia, alla ricerca del Dio paradossale e insondabile che si presenta in
questi termini: «Adonai, Adonai, Dio di tenerezza e di grazia, lento al
l'ira, ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore a migliaia
e toglie colpa, trasgressione e peccato , ma non può considerare inno
cente, visitando la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli, sulla ter
za e la quarta generazione» (Es 34,6-7). O ancora: «lo sono Adonai,
non ce n'è altri; io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e pro
voco la sciagura: io sono Adonai .che faccio tutto questo» (ls 45 ,6-7).
Testi del genere ricordano al lettore che non si può parlare corretta-
46
mente del Dio della Bibbia, trascurando ciò che in lui sembra con
traddittorio o resta inaccessibile. 5°
Ciò detto, per collocare queste rappresentazioni di Dio in un qua
dro più ampio, al fine di relativizzarle mettendole in prospettiva, con
sideriamo brevemente altre pagine , che si ritrovano nel racconto pro
grammatico dell'inizio della Genesi per affermare la volontà divina di
un superamento definitivo della violenza. Secondo Ezechiele, nel gior
no di Adonai, «gli abitanti delle città di Israele usciranno e per accen
dere il fuoco bruceranno armi, scudi grandi e piccoli, e archi e frecce
e mazze e giavellotti e con quelle alimenteranno il fuoco per sette an
ni» al punto che non si dovrà più andare a prendere legna nei campi
e nei boschi (Ez 39,9- 1 0) . Infatti, come dice il salmista, Dio ha posto la
sua dimora a Salem, la Città della pace, dove «ha spezzato le saette del
l'arco, lo scudo, la spada, la guerra» (Sal 76, 3-4), parali zzando coloro
che assalivano la città per «salvare tutti i poveri del paese» (Sal 76, 1 0).
Il «Signore degli eserciti» (Adonai Sabaot) «farà cessare le guerre fino
ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel
fuoco gli scudi» (Sal 46 , 1 0) . Perciò , «ciò che dice Adonai è la pace per
il suo popolo, per i suoi fedeli, e che non ritornino alla follia» (Sal 8 5 ,9).
E alla fine dei giorni, «verso il monte della casa di Adonai affiuiranno
tutte le genti . Verranno molti popoli e diranno: "Venite, saliamo sul
monte di Adonai, alla casa del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue
vie e possiamo camminare per i suoi sentieri" . Poiché da Sion esce la
legge e da Gerusalemme la parola di Adonai. Egli sarà giudice fra le
genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faran
no aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la
spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guer
ra» (ls 2 , 2-4). Infine, come Dio dice in Zaccaria, il Messia, il futuro re
di Gerusalemme sarà un re di pace . « Egli è giusto e vittorioso, umile,
cavalca un asino, un puledro figlio di asina. Farà sparire il carro da
guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà
50 Cf. al riguardo OEMING, «Dieu et la violence», 29. Cf. anche ciò che scrive a pro
posito dell'idolatria P. BEAUCHAMP, D 'une montagne à l'autre. La Loi de Dieu, Seui!, Paris
1 999: «Non è necessario, per essere idolatri, rap presentare Dio come un toro o un'a
quila o una colomba. Basta vederlo forte senza dolcezza. o "amante" senza potenza. o
terribile senza pazienza. o "tenero" senza sapienza . . . Ma vedere tutte queste qualità ri
unite insieme, non è vedere. [ . . . ] 11 molteplice si rappresenta, ma nulla somiglia al luo
go in cui il molteplice si riunisce. È il Santo dei Santi, vuoto di ogni immagine» (6 1 ) .
47
spezzato, annuncerà la pace alle nazioni . . . » (Zc 9,9- 1 0) . Perciò come
potrebbe il Dio di giustizia compiacersi a vedere morire le sue creatu
re? Non si compiace piuttosto al vedere vivere il malvagio, dopo che si
è allontanato dal male che lo dominava (cf. Ez 3 3 , 1 1 )?
Ma come far vivere il malvagio strappandolo alla sua violenza sen
za ricorrere a quest' ultima, con il rischio di rilanciarla e persino di al
largarla e rafforzarla? Un testo del libro di Isaia - il celebre poema del
«servo sofferente» (Is 5 2 , 1 3-5 3 , 1 2) - spiega come Dio ritiene di poter
neutralizzare la violenza con la libera collaborazione di un «servo». Il
testo è denso e non è possibile leggerlo in dettaglio in questa conclu
sione. 51 Mi limiterò a riassumere l'essenziale in alcune righe, ristabi
lendo l'ordine cronologico poeticamente rimaneggiato nel testo. Un
giusto, il servo , è un uomo non appariscente, debole, malato . Perciò,
secondo la teologia del tempo, deve essere collocato fra i peccatori.
Quindi viene anzitutto isolato , evitato, disprezzato . Poi intervengono la
brutalità, la violenza, il giudizio sommario, la morte e la fossa comu
ne. L' uomo non ha aperto bocca, ha lasciato fare come un agnello con
dotto al macello! Come se fosse colpevole . Come se i suoi carnefici fos
sero quei giusti che credono di essere, trattando in quel modo colui che
considerano peccatore. Ma quando tutto è ormai compiuto, Adonai
prende la parola. Fa sapere a coloro che lo ascoltano stupiti, incredu
li, che egli esalta il servo , lo innalza sommamente. Così annulla il loro
giudizio, riabilita il «suo servo», che essi hanno condannato . Final
mente coloro che lo consideravano peccatore, «colpito e umiliato da
Dio», aprono gli occhi. Riconoscono di essersi completamente sbaglia
ti riguardo a quel servo e che egli soffriva, in realtà, proprio per loro,
stritolato dal loro peccato, schiacciato dalla loro ingiusta violenza,
mentre in silenzio si addossava le sofferenze e i dolori che li rendeva
no malvagi e ciechi.
Ma, nonostante il male che hanno riconosciuto in se stessi, nono
stante la loro violenza, Dio non li ha colpiti con il castigo che, secondo
loro, meritano i peccatori. Non li ha neppure accusati. Ha solo con-
48
traddetto la loro sentenza. Li ha indotti a ricredersi, esaltando il giusto.
Così facendo, ha permesso loro di aprire gli occhi e di vedere la loro
vittima attraverso i suoi occhi. t\.l].ora hanno confessato la loro colpa, il
male che hanno inflitto al servo e hanno rivisto il loro giudizio su di lui,
riconoscendo che egli «non ha commesso violenza» e che «non c'è in
ganno nella sua bocca» (Is 5 3 ,9b). Agli occhi degli uomini, è stato Dio
a compiacersi - per la salvezza dei peccatori - di colpirlo con la malat
tia e ad annientarlo (Is 5 3 , 1 0a), ma lo stesso Adonai smentisce questa
lettura, sottolineando la piena libertà del servo che si è addossato il ma
le degli altri (ls 5 3 , 1 2b). Ora convertiti, questi uomini costituiscono la
«discendenza» del servo di cui si parla al termine del poema, loro che,
grazie a lui, aprono gli occhi e sono quindi disposti ad abbandonare la
loro ingiustizia, la loro violenza. Infatti, alla fine, Adonai lo afferma
chiaramente: giusto, il servo è fonte di giustizia, «ha spogliato se stes
so fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli por
tava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli» (ls 5 3 , 1 2b).
In questo poema, a disinnescare la violenza è l'azione congiunta del
servo, di Adonai e dei violenti. Il primo, con il suo silenzio e la sua non
violenza liberamente assunta, concentra su di sé la brutalità degli al
tri; la porta, senza rilanciarla, senza accusarli per difendersi o aggre
dirli perché smettano di opprimerlo. Adonai attende l'esito tragico per
pronunciare una parola che apre gli occhi ai violenti; senza accusare
di malvagità coloro che si credevano giusti, concede loro la possibilità
di vedersi nella loro verità di peccatori ciechi verso la loro propria in
giustizia. Allora, questi ultimi, entrando nella luce, accettano di cam
biare il loro sguardo, adottando quello di Dio, e questa presa di co
scienza della loro colpa è un primo passo verso un cambiamento di
condotta. Per dirla con le parole di Pau! Beauchamp : «Il corpo soffe
rente del Servo è l! libro, scritto dall'uomo e non da Dio, in cui Dio, co
me un maestro che sa attendere, mostra all'uomo il suo errore, affin
ché, vedendolo, egli si corregga più radicalmente di quanto non avreb
be saputo fare sotto l'urto di un rimprovero». 52
52 BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, 268. Si noterà che, al tennine della Genesi, la
storia di Giuseppe illustra molto bene il lento percorso di quest'uscita non violenta dal
la violenza. Su questo punto. cf. WaNIN, Non di solo pane .. . , 1 06- 1 1 3 : 1 35 - 1 44.
49
Il lettore della Bibbia - il cristiano, in ogni caso - aderirà certa
mente volentieri a quest'immagine di un Dio di pace, messa senza dub
bio maggiormente in risalto dal Nuovo Testamento . Ma si guardi da ri
tenersi troppo presto soddisfatto di quest'immagine più piacevole , più
in linea con i suoi desideri e le rappresentazioni che la sua educazio
ne gli ha trasmesso o, in sua assenza, gli ha fatto sperare. Infatti, chi
si ferma a ciò che conviene rischia di restare vittima della propria im
magin azione, negando tutta una faccia della realtà nella quale il Dio
della Bibbia vuole essere coinvolto . Infatti, le prime pagine di questo
Libro sono categoriche : la violenza è parte integrante del mondo noa
chico che è il nostro e «non è abbandonando la scena della violenza
che si manifesterà la mitezza, ma, al contrario, su questa stessa sce
na».53 È su questa scena, quella della realtà degli uomini, che Dio ha
voluto rivelarsi. Relegarlo al balcone non è probabilmente il modo mi
gliore di onorario, lui che ha voluto correre il rischio dell'essere uma
no e della sua libertà. Quindi anche della sua violenza.
Del resto , nella Bibbia, vengono riconsiderate - alla rinfusa e sen
za una particolare cura sistematica -, molte immagini che le società e
gli uomini si sono fatti e si fanno di Dio, da quelle che ci sembrano più
belle a quelle che consideriamo detestabili . Quindi tutto avviene come
se fosse impossibile al lettore della Bibbia cercare Dio senza vagliare
ciò che gli uomini ne fanno in positivo e in negativo. Gli riconoscono il
desiderio di riunire gli esseri umani nella pace, ma gli addebitano an
che la responsabilità di quelle fabbriche di guerra che sono il nazio
nalismo e il fanatismo. Vedono in lui un Dio che fa grazia nella sua vo
lontà di felicità per tutti, ma gli attribuiscono anche castighi ignobili,
per non dover riconoscere nella loro sventura il frutto di ciò che han
no seminato . Invocano il suo Nome per celebrare la gioia di un bene
ficio ricevuto, ma lo fanno anche quando cercano di giustificare i cri
mini che compiono, quando non addirittura quelli che subiscono . Ne
gando la loro realtà, fanno di Dio il riflesso a volte del loro desiderio di
felicità, a volte del loro carattere violento, come per dispensarsi dallo
scrutare il legame nascosto che unisce queste due facce di loro stessi
e non dover bloccare fin dai primi sintomi la cupidigia con l'idolatria
che la sottende - queste fabbriche di violenza.
50
Ma la Bibbia mostra tutte queste immagini, belle o ripugnanti, per
attribuire loro un'etichetta di verità quando si tratta di dire chi è Dio?
Non è forse piuttosto per impegnare il lettore a riconoscerle come sue
e quindi a lavorarle, a imparare pazientemente a scovare la menzogna
che le deforma più o meno tutte, ma anche a riconoscere la verità che
in esse si cerca di dire su Dio, ma anche sull'uomo e sulle loro rela
zioni? Se così è, il lavoro che la Bibbia esige non riguarda solo il suo
testo e le sue immagini, ma anche e soprattutto le rappresentazioni del
lettore che le incontra durante la lettura, forse senza prestarvi atten
zione . Infatti, preso sul serio, il testo sacro invita il lettore ad attraver
sare continuamente le sue proprie immagini approssimative di Dio, le
sue rappresentazioni deformate di cui il Libro gli rinvia il riflesso, per
cercare il Dio che in esse si nasconde e si rivela al tempo stesso. Que
sto riguarda anche le immagini violente di Dio . «L'uomo, attraverso le
lenti dei suoi occhiali, vede un Dio violento. Ciò non vuoi dire che non
vede Dio. Infatti Dio non si nega a questo sguardo deformato. Per tra
sformare questa violenza, per convertirla» . 54 Ma può farlo senza che
gli uomini collaborino a questa trasformazione? Non è forse a questo
che le Scritture invitano il lettore?
Affid ando all'uomo scampato al diluvio, a Noè, la missione di essere «il
terrore»55 degli animali, Dio assume in qualche modo, interina, la no
stra violenza. Dio ci ha accompagnati, prestandosi all'immagine che i
nostri occhi si facevano di lui: egli ha scelto per gli uomini rimasti vio
lenti il linguaggio e l'immagine che potevano accettare; così praticava
questa dolcezza: di rivestire lui stesso la nostra violenza, in attesa di es
seme vittima nella carne del suo Figlio fmo alla morte. 56
54 BEAUCHAMP - VASSE, La violence dans la Bible, 1 2 . È anche una delle intuizioni che
sottende il bell'articolo di VERVENNE, «"Satanic Verses"?», citato sopra (nota 25).
55 Cf. Gen 9 , 1 - 3 .
5 6 BEAucHAMP, Testament biblique, 1 8 2 .
51
Capitolo secondo
LA VIOLENZA ARCAICA
E IL PARAD O S S O
D E L SACRIFICIO
AGLI DÈI OSCURI
Jean-Daniel Causse
Nella scia del percorso proposto da André Wénin sulla violenza di
vina nell'Antico Testamento - i suoi moventi, i suoi effetti, le sue pos
sibili soluzioni - propongo di riprendere il problema sul terreno della
psicanalisi o, più esattamente, al confine fra etica e psicanalisi. Porrò
l'accento soprattutto sulla violenza del sacrificio e, al termine del ca
pitolo, sulla complessa questione della gelosia divina. Ma anzitutto bi
sogna illustrare il concetto di violenza e la sua ambivalenza.
1 S. FRHUD, «Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti (1905)», in Opere 1 900-
1 905, Boringhieri, Torino 1 970, IV, 4 5 1 -546; qui 441 -442.
53
re l'esempio di uno scritto più tardivo e certamente più significativo,
Freud utilizza ripetutamente il termine «violenza» nel quadro di uno
scambio epistolare con Einstein, organizzato, nel 1 932, dalla Società
delle Nazioni, prima di essere pubblicato l'anno seguente con il titolo
Perché la guerra ?. 2 All'inizio della lettera indirizzata a Freud, Einstein
riprende l'articolazione classica del diritto e della forza, presentando
la come lo strumento necessario di una regolazione sociale, ma affer
mando al tempo stesso che uno Stato può sempre corrompersi quan
do si lascia travolgere dal suo bisogno di potenza. Nella sua risposta,
Freud ritorna su questa prima parte delle considerazioni di Einstein e
scrive: «Posso sostituire la parola "forza" con la parola più incisiva e
più dura "violenza"»?3 Anche se diritto e violenza sono diventati ter
mini opposti, Freud spiega un po' più avanti che «è facile mostrare che
l'uno si è sviluppato dall'altro e, se risaliamo ai primordi della vita
umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione
del problema appare senza difficoltà>> . In altri termini, «ciò che è di
ritto in origine era in origine violenza bruta e tuttora esso non può ri
nunciare al sostegno della violenza» .4 In breve , il diritto e l'ideale civi
lizzatore di giustizia non hanno eliminato la violenza, ma l'hanno sem
plicemente riorientata o reinvestita sullo sfondo di una realtà arcaica
che continua a esistere . In modo più deciso, subito dopo , Freud si ri
ferisce alla giudiziosa osservazione di Einstein, il quale, cercando di
cogliere l'origine della violenza, ipotizza che «l'uomo sperimenta una
p ulsione all'odio e alla distruzione». 5 Allora Freud abbonda nel senso
del suo interlocutore, ma si dimostra più pessimista, sostenendo che
«non c'è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uo
mini», prima di proseguire con una punta di ironia: «Si dice che in con
trade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l'uomo ha
bisogno, vi sono popoli la cui vita scorre nella mitezza, presso cui la
coercizione e l'aggressione sono sconosciute . Posso a mala pena cre
derci; mi piacerebbe sapere di più su questi popoli felici».6 In realtà,
54
in questa lettera, Freud non fa che riprendere, sotto una forma rima
neggiata, tutta una serie di considerazioni fatte in Il disagio della ci
viltà , dove evocava una cattiveria e una violenza non sradicabili che
restano nella parte più profonda dell'essere umano. Benché un po' lun
go, vale la pena citare un estratto del testo freudiano: «Non compren
do più che noi possiamo restare ciechi di fronte all'ubiquità dell'ag
gressione e della distruzione non erotizzate e trascurare di accordare
loro il posto che meritano nell'interpretazione dei fenomeni della vita
[ . ) . È vero che coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si
. .
7 S. FREUD, «Il disagio della civiltà ( 1 929)», in Opere, X. 557 -630; qui 599.
·s FREUD, «Il disagio della civiltà», 601 -602.
55
spensabile fatta alla violenza per rendere possibile la vita sociale.9 A
questo aggiunge che bisogna incoraggiare l'identificazione con proget
ti comuni: «Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi fra gli uomini deve
agire contro la guerra» . t o
Il concetto di «violenza» non manca quindi negli scritti di Freud,
ma vi occupa un posto limitato, e bisogna riferirsi a pubblicazioni re
centi per trovare una concettualizzazione psicanalitica più approfon
dita. 1 1 Comunque anche in Freud la relativa discrezione lessicale non
impedisce una reale considerazione della presenza enigmatica della
violenza nel mondo degli uomini e uno sforzo per spiegarla o perlo
meno comprenderne il funzionamento . Nel suo scambio epistolare con
Einstein, Freud espone il suo punto di vista: alla radice della violenza
c'è un'ambivalenza pulsionale . La violenza appartiene al tempo stesso
alla pulsione di vita e alla pulsione di morte . Sta in questo tutta la dif
ficoltà di spiegarla e anche di qualificarla sul piano etico.
Nella sua discussione con Einstein, Freud nota che, a causa del
composto pulsionale eros e thanatos che opera nell'uomo, non bi
- -
sogna essere troppo precipitosi nella «valutazione del bene e del ma
le». La violenza è l'espressione di una forza di morte o di una potenza
di vita? Come interpretarla correttamente? Certo, noi consideriamo
sp o ntaneamente la violenza un male morale, a volte un male necessa-
• Roger Mehl lo aveva evidenziato da un punto di vista etico: «Lo stato combatte la
violenza con la violenza; ciò significa che è incapace di estirparla, ma è capacissimo di
contenerla. Contenere la violenza selvaggia mediante la violenza istituzionalizzata è ga
rantire la sicurezza pubblica» (R. MEHL, «La violence institutionnalisée», in Le Supplé
ment 1 43[1 9821. p. 446). L'autore bilancia la sua affermazione con una critica del pote
re dello Stato. che può anche usare la violenza istituzionalizzata in tutta legittimità per
soddisfare delle passioni.
to FREUD, «Perché la guerra?», 85.
1 1 Cf. specialmente S. AsKOFAR� - M.-J. SAURET, «Clinique de la violence. Recherche
psychanalytique», in Cliniques Médite"anéennes 66(2002), 241 -260; C. BALIER, Psycha
nalyse des comportements violents, PUF. Paris 1 988; A. HoussAU.AH. Le virus de la vio
lence. La guerre civile est en chacun de nous. Albin Miche!, Paris 1 996; N. JEAMMET, Des
piolences morales. Odile Jacob, Paris 200 1 ; D. StBONY, Violence. Traversées, Seuil, Paris
1998; J.-P. WtNTER, «Tentative de "viologie"», in F. HÉRITIBR (ed.), De la violence Il. Sémi
naire de Françoise Héritier, Odile Jacob, Paris 2005, 269-288.
56
rio, o un male minore, ma comunque un male. In ogni caso , non si può
immaginare l'inserimento della violenza in un elenco di virtù. Il giudi
zio di Freud è diverso e consiste, anzitutto, nella sospensione delle ca
tegorie morali , per cogliere nella violenza una manifestazione dell'esi
stenza. Non che la morale sia indifferente per Freud e Perché la guer
ra?, testimonia, ad esempio, la preoccupazione di arginare o sublima
re la violenza. Ma, invece di ridurre la violenza a un unico ruolo o a
un'unica funzione , Freud cerca di comprenderne la complessità all'in
terno dello sviluppo psichico della persona. La violenza è certamente
distruttiva, ma, in realtà, essa è ancor più ambivalente. È quanto atte
sta, del resto , l' etimologia del termine «violenza» , le cui radici indo-eu
ropee hanno dato il termine greco bios e il termine latino vita , in altre
parole la vita nel senso di potenza vitale .. Si tratta di una realtà bruta
le, improvvisa, che dilaga o si riversa come un ribollimento vitale e po
tenzialmente distruttivo. Questo ribollire della vita trova progressiva
mente le vie della propria umanizzazione. In Francia, il termine «vio
lenza» compare all'inizio del XIII secolo, con il significato, come indi
ca il Littré, di forza naturale brutale; viene applicato, ad esempio, al
vento , alla tempesta, ma anche al dolore della malattia, a una medici
na, e anche alla forza delle passioni. Solo più tardi acquista un signi
ficato morale e serve a caratterizzare un'azione costrittiva o un atto
brutale illegittimo contrario al diritto e al rispetto dell'altro.
Freud tematizza l'ambivalenza della violenza specialmente in rela
zione alla c oppia amore-odio. Come distinguere l'amore dall'odio? Co
me sapere se ciò che si esprime nei riguardi dell'altro è amore o odio?
Ritornerò su questa questione nel capitolo 4, dopo quello consacrato
da É lian Cuvillier al Nuovo Testamento, ma evidenzio comunque subi
to un punto: per Freud, a livello arcaico esiste uno stadio nel quale odio
e amore sono strettamente mescolati al punto da poterli difficilmente
distinguere. Il bambino vuole incorporare, quindi divorare, l'oggetto
che ama. A questo livello, il bisogno alimentare infantile - la necessità
di ricevere dalla madre ciò che gli serve per la sua vita biologica - è
accompagnato da una tendenza a mettere in bocca ogni sorta di og
getti, mordendoli, frantumandoli, strappandoli, ingoiandoli, ecc. L'a
more è una pulsione di divorazione e di distruzione, che può essere at
tribuita anche all'odio. Anche quando si è imparato a distinguere me
glio i sentimenti e d'un tratto si scatena la violenza, non è sempre fa
cile discernerne la fonte pulsionale: la violenza vuole significare odio
o, al contrario, amore? Si conoscono situazioni in cui si esprime la vio-
57
lenza non verso la persona che si odia, ma verso la persona che si ama
e, a volte, profondamente . Non è raro vedere qualcuno che distrugge,
o ferisce, ciò che ama maggiormente e che può diventare oggetto del
suo odio. Perciò, la violenza può manifestare ugualmente bene l'amo
re e l'odio, non nel senso di reversione, ma nel senso di riattivazione
di un'indifferenziazione pulsionale arcaica.
Qui la violenza è un atto di divorazione dell' altro, cioè un tentativo
di incorporarlo . Da questo punto di vista, colpisce constatare che, in
un'opera come L'avvenire di un 'illusione, Freud indica non due, ma
tre divieti fondamentali che ogni persona deve necessariamente inte
grare per accedere alla cultura: al divieto dell' omicidio e dell'incesto
aggiunge quello del cannibalismo. L'importanza di quest'ultima pul
sione era già stata messa in risalto da Karl Abraham: «Basta guarda
re un bambino per rendersi conto dell'intensità del suo bisogno di
mordere . È lo stadio degli impulsi cannibaleschi. Il bambino soccom
be al fascino dell'oggetto, rischia di, o è costretto a, distruggerlo» . 1 2
Omicidio , incesto e cannibalismo, vietati o ritualizzati d a ogni società
umana, hanno un elemento in comune: la volontà primitiva di incor
porare l'altro e quindi di fare scomparire la sua differenza. In tutti e
tre i casi , si tratta di introdurre l'altro in se stessi, per eliminare ogni
distinzione o ogni limite. La violenza nega ogni distanza fra sé e l'al
tro: «tu sei me» o «io sono te» . È sia un tentativo di annullare l'altro,
impadronendosene, sia una volontà di scomparire, proiettandosi nel
l'altro. È ciò che Pierre Fédida chiama «godimento dell'unità violen
ta», aggiungendo - ed è fondamentale - che la pulsione cannibalesca
mira certamente a distruggere l'altro, ma, paradossalmente , per non
perderlo . 1 3 Il cannibalismo si spiega con la paura, e anche l' angoscia,
di non poter sopravvivere alla separazione dall'altro. Il problema si ri
·solve pensando che, se si incorpora l'altro, quest'ultimo non potrà mai,
in alcun modo, abbandonarci, perché lo si porta sempre in sé. Fédida
precisa giustamente che l' ambivalenza del cannibalismo «significa che
il modo più sicuro di evitare la perdita dell'oggetto è quello di distrug
gerlo per mantenerlo vivo » . 1 4 Ecco la vera natura di questa violenza
58
arcaica, incestuosa e assassina: il desiderio illusorio di evitare la per
dita mediante la divorazione dell' altro, in qualunque modo si compia
un tale atto . La violenza testimonia un'angoscia primitiva, nella quale
si sperimenta la separazione come portatrice di morte , mentre essa è
invece la condizione della vita. Incesto, assassinio e cannibalismo mi
rano quindi a una stessa non differenziazione o non distinzione attra
verso la soppressione dell'altro . Ma, per quanto strano possa sembra
re, è per evitare l' angoscia della perdita. Vedremo che la violenza del
sacrifico opera allo stesso modo, perché anch'essa pretende di scon
giurare l'angoscia della perdita.
La violenza incestuosa - quella che elimina il confine fra l'altro e sé
- viene esercitata nella speranza di risparmiarsi una prova che la psi
canalisi chiama «castrazione» e che è un limite indispensabile per l'e
sistenza. È il limite di cui parlano i racconti biblici della creazione e
che André Wénin interpreta come una legge che trattiene la violenza
«in modo che essa non comprometta la piena realizzazione della vita».
Infatti, la Genesi presenta questa legge delle origini come la parola che
fa uscire dal tohu-bohu, dal caos primordiale e incestuoso nel quale si
trovano solo realtà in differenziate (Gen 1 ) . La parola nomina e separa,
cioè passa fra le cose e gli esseri affinché possano acquisire una pro
pria consistenza: il giorno si distingue dalla notte, il cielo dalla terra,
il secco dall'umido, ecc. Alla fine, l'essere umano viene separato da se
stesso , con la comparsa dei due sessi eternamente irriducibili a una
qualsiasi unità. È sempre di questo limite che si tratta nel racconto del
giardino di Eden, dove i primi esseri umani possono mangiare di tutti
gli alberi, tranne che dell'albero della conoscenza del bene e del male
(Gen 2,4ss). Tutto è accessibile ; tranne un luogo che ha la funzione di
aprire il desiderio , che rende impossibile la totalità e causa la morte
del trasgressore: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma
dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare,
perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire»
(Gen 2 , 1 6) . La morte di cui qui si tratta non è la morte fisica (in que
sto giardino che non ha nulla di un paradiso, Adamo ed Eva sono mor
tali) , bensì il ritorno letale al caos dell'indifferenziazione. Nella sua
struttura profonda, la legge di cui parla il racconto del giardino di Eden
non appartiene al registro della morale e non si confonde con una se
rie dei divieti. La sua funzione essenziale è quella di introdurre un li
mite nel cuore del mondo dell'umano. Essa sbarra l'accesso a una to
talizzazione o a una completezza di sé che è una forma, sempre illu-
59
soria, dell' autosufficienza. In questo senso , la violenza che vuole can
cellare la differenza mediante l'incorporazione dell'altro è, come ave
va ben compreso Freud, una forma primaria dell'autoerotismo . La vio
lenza manifesta il desiderio di voler fare senza l'altro e di essere tutto
per sé. È un modo di autoconservazione, un rifiuto di farsi raggiunge
re e quindi modificare dall'altro. In un certo modo, la violenza è una
forma di masturbazione e di produzione di un godimento narcisistico.
Quindi ciò che permette di uscire dal caos - meglio, ciò che fa sì
che se ne è sempre già usciti - è il carattere simbolico di una legge, il
tono perentorio di una parola, che separa, distingue e iscrive ognuno
nella sua singolarità corporea. Ma allora bisogna aggiungere che la
funzione della legge è a sua volta una forma di violenza, perché co
stringe a limitare i propri desideri. La separazione viene vissuta come
una ferita, come la sofferenza di una perdita. Il termine «castrazione»,
nel suo uso psicanalitico , ha una risonanza violenta, perché indi c a una
ferita, un taglio, l'asportazione di una parte di sé, che allora diventa
un oggetto perduto . In realtà, parlare di perdita è inesatto o è piutto
sto - usando un neologismo oggi ammesso nel lessico psicanalitico -
«immaginarizzare» ciò che appartiene al reale . Infatti, per aver perso
qualcosa, bisogna averlo precedentemente posseduto. Ora la perdita
di cui qui si tratta è, in senso stretto, perdita di nulla . È la perdita di
ciò che è stato sempre già perso. In altri termini, la castrazione non è
la sottrazione di ciò che noi avremmo avuto e che ci sarebbe stato sot
tratto, ma la sottrazione di ciò che non abbiamo mai avuto . E tuttavia
l'essere umano la sperimenta come una perdita che gli fa violenza,
cioè che lo priva effettivamente di qualcosa. Da questo punto di vista,
la legge che vieta l'incesto è una violenza fatta al bambino che sogna
di non essere privato di nulla ed è una violenza fatta a sua madre che
deve accettare di separarsi da lui. È una violenza che opera la distin
zione contro una violenza arcaica che produce la confusione. È una
violenza che permette la vita affinché non trionfi una violenza che mi
ra alla morte.
Che cosa accade quando la violenza che accompagna l' esperienza
del limite non compare più o viene evitata, perché ogni frustrazione
sembra una ferita insopportabile? Allora si verifica questo paradosso:
l'incapacità di sostenere una violenza che segna il limite fa apparire
un'altra forma di violenza, che a volte ci lascia stupiti, come dimo
strano talvolta le relazioni fusionali fra la madre e il bambino. La ma
dre ama immensamente il suo bambino; è tutto per lui e lui è tutto per
60
lei; per amore, non gli rifiuta nulla; cede in tutto per timore di perde
re l'amore del suo bambino , il quale sviluppa nello stesso tempo una
violenza incredibile, sorprendente, nei riguardi sia della madre sia
delle persone che lo circondano. Si vorrebbe essere meno amati di un
amore che avvelena la vita, pretendendo di fare tutto per la nostra fe
licità. Questo permette di chiarire alcuni aspetti della violenza di cer
ti adolescenti e più in generale una parte della violenza del nostro tem
po. Lo scoppio di violenza cui a volte si assiste riattiva pulsioni arcai
che nelle quali l'amore e l'odio sono indistinti, mentre tutto il lavoro
consiste appunto nel non confonderli, come non si deve confondere la
morte e la vita. Per questo , non si tratta semplicemente di annullare
una dualità, ma di accordare un posto diverso ai due termini. Per non
confondere la vita con la morte, bisogna poter attribuire un giusto po
sto alla morte. Allo stesso modo , per non confondere l' odio e l' amore,
bisogna che l'odio sia riconosciuto e integrato. Quando non si sa nul
la dell'odio, esso finisce per confondersi con un amore che diventa di
vorante e distruttivo. A proposito di quest'odio, Lacan diceva che i cri
stiani, per non saperlo riconoscere, l'avevano «trasformato in diluvio
di amore» . 1 5 (
61
il piacere che questo gli procura. Perciò esiste, come ha mostrato
Etienne Balibar, una relazione essenziale fra la violenza e la crudeltà. 1 6
L' animale n o n è crudele; solo l'uomo può esserlo, o diventarlo, eserci
tando la sua crudeltà sull'altro o su se stesso, in modo sadico o maso
chistico . Esiste una pulsione di distruzione che il mondo animale non
conosce e che costituisce una violenza incurabile. La civiltà umana si
costituisce attraverso la necessaria rimozione di questa violenza ar
caica, cioè attraverso l'organizzazione della sua pacificazione o della
sua ritualizzazione . Essa gli offre un quadro nel quale esercitarsi e dei
limiti accettabili. Socializza la violenza mediante il linguaggio, il rito,
gli scambi simbolici, varie procedure . Offre delle compensazioni alle ri
nunce che ognuno ha accettato per passare dall'orda primitiva a una
cultura umana. Ma c'è sempre un resto, una parte oscura non simbo
leggiabile, che non è priva di effetti. L'antropologo Marcel Mauss ritie
ne che non esista società umana priva di un sistema di scambio costi
tuito da «dono» e «contro-dono». Si tratta evidentemente di un dispo
sitivo mirante a placare la violenza e l'odio Y Si scambia, si dona, si
riceve, si rende, quindi si stabilisce un' alleanza invece di uccidersi a
vicenda. Marcel Mauss non lo ignora, perché sottolinea che rifiutarsi
di donare, o di ricevere , equivale a rompere l'alleanza e a dichiarare
la guerra. In altri termini, il sistema dello scambio è una socializza
zione, perché persiste la presenza arcaica, sotterranea, di una violen
za che bisogna sempre trasformare in legami sociali. La forza del do
no - Mauss sottolinea l'escalation nella generosità - sostituisce la for
za della violenza, la cui ombra continua comunque ad aleggiare.
Il postulato spesso accettato di una bontà naturale dell'uomo chiu
de gli occhi sulla presenza di una violenza originaria, che precede sem
pre ogni storia, nel suo svolgimento, e continua, in ogni generazione,
a operare in ciascuno. La violenza non è un semplice degrado letale
della natura umana, spiegabile con l'ignoranza, l'ingiustizia sociale o
anche la mancanza di buona volontà. Non è un semplice ostacolo nel
cammino dell'umanità. La violenza imprime il suo sigillo omicida sul-
62
la storia dell'umanità da sempre, come testimonia il racconto biblico
di Caino e Abele collocato «in principio». Abbiamo visto che Freud,
senza illudersi di poter un giorno eliminare questa parte oscura del
l'umanità, insisteva sui mezzi con cui prevenire o limitare la violenza:
un'efficace protezione sociale e varie possibilità di identificarsi con
ideali comuni. Su questa stessa strada, Jacques Lacan farà un passo
ulteriore, considerando il narcisismo un ostacolo alla violenza. Si può
infatti contenere la violenza attraverso un gioco speculare, nel quale
l'altro appare come un altro se stesso in cui è possibile riconoscersi .
Scrive Lacan: «Noi siamo solidali con tutto ciò che riposa sull'immagi
ne dell' altro in quanto nostro simile [ ]. Inversamente , indietreggia
. . .
63
Ma quest'analisi non è sufficiente e Lacan lo nota. 19 Da una parte,
anche se non esercitata contro l'altro, la violenza continua a esistere e
spesso si ritorce contro di sé con un'autopunizione tanto più intensa
quanto più forte è la coscienza morale . In questo senso, come aveva
già percepito Freud, a volte i miti torturano se stessi con una feroce
crudeltà e una segreta violenza.20 Dall'altra, anche se il narcisismo
ostacola la violenza in forza della visione dell'altro come un se stesso,
resta comunque il fatto che questa proiezione immaginaria ci induce
anche a pensare che l'altro possieda ciò di cui noi ci riteniamo privi.
Allora siamo gelosi e in preda a una gelosia a volte omicida sulla qua
le ritornerò. Proprio per questo, il dispositivo immaginario, pur essen
do una protezione, non basta a placare la violenza. La frena, ma può
addirittura rilanciarla in qualsiasi momento e in molti modi. In realtà,
la violenza è placata - convertita in qualche modo - dal carattere sim
bolico della parola . Esso non si realizza solo mediante la costruzione
di un'immagine di sé, ma grazie a una parola che riconosce l'essere
umano nella sua unicità assoluta: solo venendo chiamato per nome, la
violenza può placarsi. 21 Qui la nozione essenziale è quella di alleanza
o di patto. La violenza trova il suo contrario nella parola o, più am
piamente, nel linguaggio. Infatti, la violenza è ciò che ci accade quan
do le cose non sono simbolizzabili, cioè quando non possono espri
mersi, quando non entrano nel discorso. La violenza appartiene sem
pre al regno del silenzio, anche quando passa attraverso la parola e di
v enta menzogna. È nota l'espressione di Deleuze: «La violenza è ciò
che non parla».22 La violenza è una forma di mutismo o interviene nel
l'umiliazione della parola, cioè quando la parola si trova schernita, de
risa, o quando è considerata vana e priva di consistenza. È ciò che
Hanna Arendt ha analizzato a proposito della menzogna in politica,
che non è una menzogna qualunque, perché in questo caso si tratta di
un «mentire» che rende ogni parola impotente, priva di efficacia, sen-
64
za alcuna possibilità di produrre senso .23 Arendt mostra che la violen
za - contrariamente a quanto vuole far credere - non è l'espressione
del potere, ma la sua mancanza o la sua rovina. Non è il segno di una
forza, ma di una debolezza; non è un atto, ma, si potrebbe dire, un
«non-atto», un modo di non diventare il soggetto della propria parola
e dei propri atti, un modo di non cominciare a creare qualcosa. Un
punto di vista simile si trova anche in Paul Ricreur: «Ciò che fa l'unità
dell'impero della violenza è il fatto di avere il linguaggio come ciò che
le sta di fronte [. ]. Così la violenza ha il suo senso nel suo altro: il lin
. .
La questione della violenza di Dio deve essere pensata nel suo rap
porto con una violenza originaria presente nel cuore dell'umanità. Vio
lenza divina e violenza umana devono essere accuratamente articola
te ed è questa la ragione delle considerazioni che precedono. Da una
65
parte, il Dio biblico occupa la funzione simbolica di una potenza crea
trice, che separa gli esseri e le cose, li distingue, li fa esistere nella lo
ro singolarità, lottando continuamente contro il ritorno al caos pri
mordiale. Dall ' altra, questo stesso Dio ha spesso i tratti dell'onnipo
tenza che, come per caso, coincidono facilmente con i fantasmi del
l'uomo . Ne abbiamo una celebre illustrazione nel racconto della cadu
ta, al capitolo 3 della Genesi, dove il serpente tentatore fa credere al
l'uomo che la sua condizione di creatura non è un luogo gioioso in cui
abitare, ma una maledizione, un brutto colpo del destino , un handicap
e forse persino una colpa. Il tentatore fa apparire come un male e una
sventura ciò che è buono e promessa di vita: il fatto che l'umano sia
umano . Perciò, alimentando un fantasma di pienezza, propone loro di
avere tutto, mangiando il frutto dell'unico albero vietato, il cui ruolo è
quello di aprire l'accesso al mondo del desiderio. Allora, il tentatore fa
questa promessa menzognera ad Adamo ed Eva: «Voi sarete come
dèi», sostenendo la defmizione teologica secondo cui un dio possiede
per essenza ciò di cui l'uomo è privo . La violenza divina trova quindi
la sua origine in un'elaborazione del Dio onnipotente, che permette al
credente di non rinunciare alla sua volontà di godimento totale. Perciò
quando parliamo di «violenza di Dio», in realtà, non diciamo nulla sul
l'essere divino in sé. Possiamo pensare e analizzare solo i discorsi sul
la violenza di Dio, cioè il modo in cui gli uomini costruiscono forme del
«credere» e agiscono di conseguenza. La violenza divina è un fatto di
linguaggio . Del resto, in generale, parlare di «Dio in sé» non ha alcun
senso, se è vero che non si può oggettivare una realtà divina e coglierla
in se stessa. Ciò che indica il termine «Dio» non può essere colto al di
fuori del legame soggettivo che si stabilisce con lui e quindi al di fuori
di ciò che si sperimenta. Alla domanda su chi è Dio , Martin Lutero , nel
Grande catechismo, rispondeva: «Fiducia e fede del cuore rendono ta
li sia Dio che l'idolo . Se la fede e la fiducia sono ben riposte, allora an
che il tuo Dio è quello vero; e viceversa, dove la fiducia è sbagliata e
mal riposta, fi non è il vero Dio . Infatti le due cose, fede e Dio , vanno
insieme. Ciò da cui - dico - il tuo cuore dipende e a cui si affida, quel
lo è, propriamente, il tuo Dio».2 6 Parlando della violenza di Dio, ana-
66
lizziamo sempre un tipo di relazione che, stabilendosi fra il credente e
il suo Dio, invita a interrogarsi sulle modalità del «credere» e sui loro
molteplici effetti.
Da questo punto di vista, il confronto con la violenza di Dio evi
denzia la nostra crudeltà e la nostra violenza. Il Dio violento è a nostra
immagine e somiglianza. Rivela una cattiveria umana che è al cuore
dell'umanità. Ma da questo non bisogna concludere, alla ricerca di una
rassicurazione a buon mercato, che il Dio violento sia privo di consi
stenza e che basti smascherarlo per vederlo dissolversi. Non si può
certamente scoprire un'altra immagine di Dio senza il confronto con il
suo volto enigmatico e persino crudele . Pau! Beauchamp lo indica chia
ramente: «L'uomo, attraverso le lenti dei suoi occhiali, vede un Dio vio
lento. Questo non significa che non veda Dio. Infatti, Dio non si nega a
uno sguardo deformato. Dio accetta di attraversare questa visione. Ma
per trasformare ciò che è deformato» . 27 In altri termini, non si può ac
cedere a un'altra immagine di Dio, prescindendo dalla violenza divi
na, ma solo confrontandosi con essa, esplorandola. Si può allora ri
cordare la definizione della violenza religiosa proposta da Jan As
smann - «la violenza esercitata per adempiere la volontà divina» - an
che se si può non condividere, è il mio caso, la sua tesi secondo cui
questa forma di violenza compare solo con il monoteismo .28 Comun
que l'attribuzione di una volontà alla divinità - che cosa vuole da me?
-, e la risposta data in termini di sapere, costituiscono un terreno pro
pizio per i discorsi sulla violenza di Dio, specialmente per il discorso
relativo al sacrificio. È ciò che ora dobbiamo considerare .
Nel capitolo precedente, André Wénin ha mostrato che a volte il
racconto biblico presenta Dio come un guerriero (le «guerre di Ado
nai»), o come colui che si considera il «Dio con noi» per giustificare la
propria violenza, o ancora come un essere che trae piacere dalla sof
ferenza del sacrificio . Si tratta, ogni volta, di una violenza divina cui si
dà un contenuto e che sembra esigere l'atto violento che si compie. Il
crimine è commesso in nome di Dio. Non che Dio parli; si fa piuttosto
parlare il suo silenzio. O, più esattamente, si suppone che vi sia in lui,
67
al di là della sua parola di alleanza, una volontà segreta, opaca, che bi
sogna soddisfare. Il sacrificio è una risposta data alla supposta volon
tà dell'Altro, che Lacan chiama il «Dio oscuro», affermando che, in un
modo o in un altro, è sempre a lui che si offrono sacrifici, per assicu
rarsi del suo desiderio.29 Ne è un esempio commovente l' episodio del
la figlia di Iefte, raccontato nel capitolo 1 1 del libro dei Giudici, che è
stato già ricordato da André Wénin e che ora vorrei analizzare.
Sul piano della narrazione, ricordiamo che Iefte, appartenente a
una tribù di Israele , è nato dall'unione di Galaad, il capo clan, con una
prostituta. Quindi per gli altri, e specialmente per i suoi fratellastri, Ief
te è il figlio della vergogna. È segnato da una colpa originaria che cer
cherà invano di espiare e della quale vorrà vendicarsi. Rifiutato dai suoi
alla morte del padre, Iefte va in esilio e, diventato un guerriero senza
pari, si pone alla testa di una banda di predatori. Non essendo stato ri
conosciuto, si fa . un nome, una reputazione, contando unicamente sul
le sue forze, come fanno a volte coloro che seminano il terrore per n
tagliarsi un posto nel mondo. A un certo punto, lefte pensa di potersi
prendere una rivincita sul suo triste destino: la casa di suo padre è mi
nacciata dagli ammoniti, discendenti di Lot; coloro che lo avevano cac
ciato ora vengono a supplicarlo di prendere il comando del loro eser
cito e gli promettono, in caso di vittoria, di stabilirlo capo in Israele.30
In altri termini, giurano di consacrare colui che avevano umiliato .
Per vincere il nemico, non è certamente superfluo assicurarsi la be
nevolenza divina. È meglio che Dio sia favorevole, piuttosto che sfavo
revole, al suo popolo . Perciò Iefte vuole fargli piacere. Vuole offrirgli
qualcosa che gli procuri un godimento . Che cosa può volere Dio dalla
tribù in cambio di una schiacciante vittoria sugli ammoniti? Iefte dà un
contenuto a questo volere divino, benché il narratore, in nessun mo
mento, metta in bocca a Dio una sola parola. Il Dio di lefte è silenzio
so. Resta muto e non chiede assolutamente nulla o, in ogni caso , la sua
domanda resta avvolta in un'impossibile conoscenza. Il narratore non
scrive, ad esempio: «E Dio chiese a Iefte un sacrificio . . . ». È Iefte a ri-
68
spondere alla questione del «volere» divino, supponendo, come per ca
so, una richiesta sacrificate : egli attribuisce al divino una volontà, che
prende a caso la prima persona che passa di lì, alla cieca, a capriccio,
senza alcuna ragione, senza regola. Allora immediatamente prima di
dare battaglia, lefte fa questa promessa: «Se tu consegni nelle mie ma
ni gli ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per
venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli ammoniti, sarà per
YHWH e io lo offrirò in olocausto» (Gdc 1 1 , 30). Dio tace, ma lefte gli
attribuisce una volontà, che è, in realtà, - bisogna cogliere quest'a
spetto -, una domanda invertita. È il suo desiderio inconscio che egli
attribuisce a un Altro, credendo che egli voglia ciò che vuole lui stesso
senza sapere che lo vuole. Il suo desiderio di potenza è all'altezza del
l'umiliazione patita e il suo Dio non è che l'immagine di ciò che sa
rebbe lui stesso se fosse un «dio»: un essere, il cui godimento e la cui
potenza non sarebbe limitata da nulla, un essere simile al padre fan
tasmatico dell'orda primitiva che Freud ha descritto in Totem e tabù.
L'epilogo è noto : Iefte vince la battaglia, ma quando ritorna verso
casa gli corre incontro per prima la figlia, la sua unica figlia. lefte è ter
rorizzato alla vista della figlia che gli corre allegramente incontro suo
nando il tamburello, perché esclama: «Figlia mia, tu mi fai vacillare su
me stesso! Tu mi calpesti il cuore ! » (Gdc 1 1 ,35). Ma questo grido di do
lore e terrore trova la sua verità nel suo contrario, rivelando di colpo
a Iefte ciò che ignora di se stesso. Si trova scisso fra ciò che vuole e ciò
che fa: lefte fa ciò che non vuole; più precisamente, ciò che fa testi
monia un altro «volere» a lui sconosciuto . È là dove non pensava. La
cosa peggiore in questo racconto è il fatto che la figlia di lefte si costi
tuisce da sé come oggetto del sacrificio, dicendogli di trattarla secon
do la sua promessa. È vero che chiede un rinvio, per poter piangere la
sua verginità, ma lo fa per consegnarsi al godimento e alla violenza del
padre, che assumono l'apparenza eroica di un'offerta fatta a YHWH . Il
narratore precisa che Iefte ha fatto la sua promessa in pubblico, per
cui la figlia non poteva ignorarla. Ella si offre in sacrificio a suo padre
che, da parte sua, sapeva senza saperlo ciò che sarebbe accaduto . Il
padre e la figlia erano legati da un patto nel quale l'amore e la morte
sono strettamente intrecciati.
Bisogna fare tre considerazioni per continuare l'analisi della que
stione della violenza del Dio oscuro :
a) Ho già indicato ciò che bisogna ancora precisare: la violenza sa
criticale si costruisce in risposta alla domanda di sapere ciò che l'Al-
69
tro - il grande Altro - vuole . Ora una domanda del genere può emer
gere solo quando viene meno la fiducia nella parola dell'Altro , cioè
quando si suppone che questa parola nasconda un'altra volontà se
greta, opaca, oscura, una volontà dalla quale bisogna proteggersi a
ogni costo , perché essa comporta un male per noi. In questo senso, Ar
mand Zaloszyc nota: «Quale che sia la parola dell'Altro , per quanto ve
ra, completa, precisa possa essere, noi possiamo sempre porre la do
manda su ciò che egli vuole dire».3 1 Possiamo interrogarlo per sapere
se il suo «dire» non nasconda un altro «dire», che sarebbe la negazio
ne della sua parola espressa. È sempre possibile supporre dietro la pa
rola dell'Altro un'altra volontà capricciosa, arbitraria, senza fede né
legge . 32 Armand Zaloszyc analizza questa faccia oscura di Dio in Es 3 3 ,
dove Dio dichiara: «Vedrai l e mie spalle, ma i l mio volto n o n s i può ve
dere» (v. 23). Scrive : «Così Dio si presenta a colui che lo interroga co
me bifronte: da una parte, egli è sapere possibile, dall'altra una faccia
preclusa a ogni sapere possibile, una faccia oscura, la cui oscurità non
può essere ridotta dal sapere per quanto si estendano le sue luci. Per
ciò resta sempre questa stessa domanda: "Quest'Altro, che cosa vuole
da me? " , domanda sul desiderio di un Altro oscuro».33 Sul piano reli
gioso, il sacrificio è una risposta data a un Dio di cui si dovrebbe sod
disfare la volontà infinita e arbitraria. Esso poggia sulla credenza se
condo cui l'Altro vorrebbe che gli venisse offerto qualcosa per fargli
piacere . Allora la violenza divina è simile a una bocca divoratrice e in
saziabile : più si cerca di soddisfarla, più essa chiede, perché si nutre
precisamente delle nostre rinunce. La violenza del sacrificio è quindi
un fallimento della parola; è un'incapacità di fare credito alla parola,
di fidarsi di essa e di attenersi a questa relazione. 34 Perciò, ad esem
pio, i fanatici religiosi che, in nome di Dio, partecipano ad attentati sui
cidi per morire martiri non si collocano nel campo della credenza, con
trariamente a ciò che pretendono. Il loro ricorso a lunghi discorsi sul-
70
la credenza e a riferimenti religiosi non deve nascondere il fatto che
scoprono in Dio la richiesta del sacrificio proprio a causa della loro
mancanza di fede. Coloro che si presentano come veri credenti cerca
no, paradossalmente, di colmare la loro incapacità di credere median
te la violenza del sacrificio . Chi sa che cosa vuole l'Altro e compie la
volontà degli dèi oscuri manca sempre della capacità di credere nella
parola dell'Altro . Il suo presunto sapere occupa il posto del credere nel
l'Altro ed è proprio per questo che non dubita. Non dubita perché non
crede. La violenza degli dèi oscuri suppone sempre un presunto sape
re al di là della parola che non viene creduta.
b) A partire di qui, si pone il problema di sapere ciò che può osta
colare la violenza degli dèi oscuri. Vi ritornerò più avanti, a proposito
del Nuovo Testamento e della questione posta dalla morte di Gesù in
croce. Qui mi limito a indicare un atto decisivo , che consiste nel fare
della volontà divina un luogo vuoto o, in ogni caso , uno spazio che re
sta impenetrabile al sapere. È sempre attribuendo un «volere» a Dio
che si finisce per armare il suo braccio, ignorando che si mette in mo
to unicamente la propria violenza, cioè il proprio fondo di godimento.
Si agisce, mistificando la propria cattiveria con atti che hanno tutti i
caratteri della virtù, come il sacrificio compiuto da Iefte, che il lettore
può sempre trasformare in un magnifico atto che manifesta la gloria
divina e simboleggia la dedizione infinita dei credenti. Perciò, contro
questa forma di violenza, bisogna elaborare un non sapere costitutivo
di una relazione religiosa con il divino . Bisogna disegnare un limite che
faccia della volontà divina un luogo enigmatico che nessuno può coin
volgere senza perdere se stesso. Lutero chiamava questo volto del di
vino Deus absconditus (Dio nascosto), distinguendolo accuratamente
dal Deus revelatus (Dio rivelato), che era, per lui, la parte del divino
che si iscrive nel linguaggio, nella Parola fatta carne. Il Deus abscon
ditus è il volto oscuro dell'Altro, la parte enigmatica che sfugge per
sempre al sapere. Rappresenta nel cuore dell'Altro un limite che non
si può oltrepassare senza avvicinarsi a qualcosa di temibile. Al riguar
do si può citare un estratto del Servo arbitrio: «In che misura quindi
Dio vuole restare nascosto e a noi sconosciuto, è cosa che non ci ri
guarda affatto . Qui vale infatti il detto: Ciò che è al di sopra di noi non
ci riguarda [ . . ]. Dio quindi deve essere lasciato nella sua maestà e nel
.
la sua natura; in questo senso noi non abbiamo nulla a che fare con
lui, né egli ha voluto che ne avessimo . Nella misura in cui invece si è
incarnato e manifestato mediante la sua parola, con la quale ci si è pre-
71
sentato, noi abbiamo a che fare con lui [ ]. Dobbiamo guardare alle
...
72
perderlo. Al contrario, si prepara a sacrificarlo, perché nulla di questo
figlio possa sfuggirgli. È la ragione per cui il narratore sottolinea che,
in cammino verso il monte Moria, padre e figlio sono strettamente le
gati l'uno all' altro e formano per così dire una cosa sola. Il sacrificio
non è assolutamente il momento decisivo nel quale si separeranno, ma
l'atto che permette di non perdere la vita dell'altro , di conservarne il
godimento . Ovviamente, su una scena, è un'immensa sofferenza, la pe
na e la desolazione, ma, su un'altra scena, è la violenza di una mo
struosa cattura. Si tratti della figlia di Iefte o del figlio di Abramo, un
figlio è sempre capace, per amore, di offrirsi alla violenza del padre o
della madre, così come può offrirsi alla violenza divina, perché non sa
se può, se deve , odiare e rifiutare un rapporto incestuoso che lo ucci
de. Il lettore ricorderà che, nel racconto della legatura di Isacco, oc
corre l'intervento vigoroso dell' angelo di YHWH per fermare il braccio
di Abramo, nel momento in cui sta per tagliare la gola del figlio . I.: ar
te ha spesso elevato questo aspetto tragico fino al sublime, come, ad
esempio , nel quadro di Caravaggio ( 1 603) esposto a Firenze, che espri
me in modo commovente la forza con cui l'angelo ferma il braccio di
Abramo . C'è della violenza in questo gesto che costringe Abramo, con
lo sguardo pieno di tenebre, a non compiere ciò che .aveva program
mato di fare . C osì c'è violenza contro violenza. È la violenza che sepa
ra il padre dal figlio contro la violenza che uccide, per evitare la per
dita e la separazione . È la violenza del Dio della parola che mette fine
alla violenza del Dio oscuro . Ma, notiamolo, in un caso si tratta di ciò
che si esprime e, nell'altro, di ciò che resta muto . Nel racconto biblico ,
Abramo deve sacrificare per perdere veramente, e non sacrificare per
non perdere nulla. Deve contrapporre al sacrificio che sacrifica per go
dere di tutto il sacrificio che sacrifica per riconoscere in sé la man
canza . È ciò che Iefte non compirà, confondendo la morte e la vita, il
Dio oscuro e il Dio dell'alleanza.
La violenza che divora l'oggetto amato per non perderlo rinvia al
la complessa questione della gelosia. Nella Bibbia, la gelosia non è so
lo un sentimento dell'uomo; a volte è considerata anche un tratto del
carattere divino, e addirittura, in alcuni passi, una caratteristica prin
cipale dell'essere di Dio. Dio è detto «geloso», un aggettivo che rende
73
il termine ebraico q in e 'ah (gelosia) nel senso di passione esclusiva. 37 Il
riferimento a una gelosia divina non è molto frequente nel testo bibli
co, ma si trova in momenti abbastanza significativi per avere la sua im
portanza. Specialmente il testo del Decalogo , al capitolo 20 del libro
dell'Esodo, ordina al popolo di non prostrarsi davanti a un'immagine
fasulla del divino e aggiunge: «lo, YHWH , tuo Dio, sono un Dio geloso»
(Es 20,5). E si indica subito l'effetto della gelosia divina: «lo punisco la
colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione , per
coloro che mi odiano, ma uso benevolenza fino a mille generazioni, per
quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Es 20, 5b-6).38
C'è indubbiamente una mancanza di simmetria fra le conseguenze del
la colpa dei padri sui figli e la benevolenza quasi infinita, ma l'amore
e l'odio sono collocati in un rapporto dialettico. Più avanti nel libro del
l'Esodo, dopo l'episodio della fabbricazione del vitello d'oro e la viola
zione dell' alleanza simboleggiata dalla frantumazione delle tavole del
la legge, questo aspetto risulta rafforzato con un testo che riformula il
patto dell' alleanza: «Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché YHWH
si chiama Geloso: egli è un Dio geloso» (Es 34, 1 4) . Qui «geloso» è il no
me stesso di Dio, cioè ciò che costituisce il suo essere, cosa che non
può non attirare l'attenzione del lettore attento o comunque desidero
so di comprendere , perché si tratta di ciò che riguarda la permanen
za dell'identità e non solo la sua rappresentazione provvisoria.
Che cos'è la gelosia nel senso patologico del termine? La gelosia è
ciò che scatta quando si soffre terribilmente, a volte fino all'eccesso,
supponendo che l'altro abbia ciò che non si ha. L'altro ha ciò che non
si ha, ma si dovrebbe avere. Ciò che costituisce il desiderio dell' altro ,
il suo godimento, il suo piacere, la sua gioia, manca terribilmente alla
persona gelosa. Perciò nella gelosia c'è sempre una parte di incorpo-
74
razione: non riuscendo a trovare in sé ciò che fa vivere, ciò che è es
senziale alla propria vita - e che è sempre singolare - si ritiene di do
verselo procurare presso l'altro, per farne una parte della propria esi
stenza. È ciò che avviene, ad esempio, quando non parlo io stesso, ma
mi impossesso gelosamente delle parole dell' altro per «parlarle» al suo
posto. Tutto ciò che l'altro fa, io voglio farlo al suo posto , come se fos
si lui e quindi come se lui non esistesse. Nella gelosia non c'è posto per
due. Non c'è l'uno e l'altro , ma sempre e solo l'uno o l' altro. È così che
Caino , geloso del fratello Abele, lo elimina con un atto omicida. La ge
losia compie un continuo va e vieni fra l'amore e l'odio. Essa si mani
festa, a volte , sotto forma di violenza improvvisa, esplosiva, verso l'al
tro e, a volte, sotto forma di amore, dedizione, affetto . Allora pretende
di amare l'altro più di ogni cosa, una pretesa da intendere comunque
in questo modo: «Nulla di te, deve, né può, sfuggirmi» o «la tua vita è
come la mia vita, cioè essa è riferita solo a me». La gelosia è incestuo
sa, nel senso che nega la differenza dell'altro e l'enigma del suo desi
derio. Nella gelosia amorosa, ad esempio, l'idea impossibile da analiz
zare e accettare è che lui o lei possa amare un' altra o un altro, che
avrebbe qualcosa «di più» . Insomma, la persona gelosa si identifica
con un'immagine idealizzata di se stessa e soffre per tutto ciò che vie
ne a intaccarla. È bloccata nel «vedere» narcisistico, con una grandis
sima fragilità che la rende incapace di aver fiducia nella parola del
l'altro. Quando si è gelosi, si vuole sapere la verità nella speranza di
trovare finalmente la tranquillità e si soffre di non avere mai alcuna
certezza solida e duratura. Si vuole sapere, ma non si crede, e spesso
non si parla, sull'esempio di Caino che la gelosia rende muto e non ri
volge più la parola al fratello . Come è noto , la violenza è l' atto che se
gue l' eclisse della parola. Al riguardo, Denis Vasse, nella sua analisi
della gelosia, pone la domanda sull'aspetto teologico. Scrive: «Que
st'immagine speculare dalla quale non tolleriamo di essere distaccati
ha sempre qualcosa a che vedere con l'idea che non ci facciamo di
Dio . . . Noi crediamo di essere gelosi degli altri - un amico, un collega . . .
- m a è ancora una menzogna: noi siamo gelosi solo d i Dio o, s e s i pre
ferisce, della nostra propria immagine deificata, idealizzata» .39 Che si
possa essere gelosi del divino, che questa sia addirittura la gelosia per
75
eccellenza è ciò che suggerisce il racconto biblico della caduta nel mo
mento, già ricordato, in cui l'antico serpente fa balenare davanti agli
occhi di Adamo ed Eva il fatto che Dio possiede ciò di cui loro manca
no e che il divieto ha unicamente lo scopo di permettere a Dio di con
servare in esclusiva il proprio godimento . Di conseguenza, l'uomo e la
donna continuano a desiderare un oggetto immaginario che appare
mancante in loro. La violenza si nutre di questo fantasma e dell'idea ·
4° Cf. , al riguardo. questo testo di Dt 3 2 , 2 1 : «Mi resero geloso con ciò che non è Dio,
mi irritarono con i loro idoli vani; io li renderò gelosi con uno che non è popo)o, li irri
terò con una nazione stolta».
76
l'ingresso nel campo della relazione, basata sul linguaggio. È l'aspetto
che accentuano i profeti, quando paragonano la gelosia di Dio alla pas
sione amorosa e ai suoi eccessi. Il profeta Ezechiele parla di un Dio fu
rioso, in collera, contro Gerusalemme infedele, un Dio che confessa:
«io ho parlato nella mia gelosia» (Ez 5 , 1 3) . Il Dio geloso è un Dio am
bivalente , attraversato dall'amore e dall'odio; è il ricettacolo di molte
plici proiezioni, ma mostra anche un'immagine del divino che si af
fligge. Gli idoli non provano nulla, perché sono «come un sogno di pie
tra», per usare un' espressione di Baudelaire, e sono rivestiti di un'al
tra violenza. A loro si sacrifica, senza sapere che sono un simulacro
del divino.41 Nella letteratura neotestamentaria, a volte il tema della
gelosia viene ripreso, ma anche riconfigurato in base all'idea centrale
di un Cristo che rompe radicalmente con le figure immaginarie del di
vino. Si ritornerà su questo punto nel seguito del libro. Qui, per con
cludere il capitolo, ricordo solo un passo commovente della Lettera di
Giacomo . Rivolgendosi ai suoi fratelli nella fede, l'autore li rimprovera
per il fatto di lasciarsi andare a rivalità e a dispute. Scrive: «Siete pie
ni di desideri e non riuscite a possedere ; uccidete, siete gelosi e non ri
uscite a ottenere» (Gc 4,2). La loro gelosia riguarda quindi la volontà
di strappare all' altro ciò che possiede e la sua espressione è la violen
za. Un po' più avanti, a questa gelosia l'apostolo contrappone quella di
Dio: «0 forse pensate che invano la Scrittura dichiari: "Dio desidera ge
losamente lo spirito che egli ha fatto abitare in noi"» ? (Gc 4,5). Diver
samente dalla gelosia umana, che è gelosa di ciò che non possiede e
desidera in modo fantasmatico ciò che c'è nell'altro, l'autore afferma
che Dio è geloso di ciò che aveva, che era suo, ma che ha abbandona
to e messo in mano a coloro che ama. Egli è geloso della propria ri
nuncia. La gelosia non indica la sua sete di potenza, ma il vuoto che
ormai c'è in lui.
77
Capito lo terzo
É lian Cuvillier
79
pi noti, fra cui l'episodio della morte di Anania e Saffira nel libro degli
Atti (At 5 , 1 -6),3 le immagini violente usate da Gesù in alcune parabo
le, specialmente nel Vangelo di Matteo (Mt 1 3 ,42; 1 8,34; 2 2 , 7 . 1 3 ;
2 5 , 30 ; 2 1 , 33-45), le invettive d i Paolo contro i suoi avversari (Gal 3 , 1 ;
Fil 3 , 2) e contro le autorità religiose giudaiche del suo tempo (l Ts 2 , 1 4-
1 6} o le scene di giudizio nell'Apocalisse di Giovanni. Senza parlare
della violenza presente nel cuore dello stesso avvenimento fondatore
della fede cristiana, la morte in croce di Gesù di Nazaret: violenza cer
tamente subita, ma reinterpretata, già nel Nuovo Testamento, nelle ca
tegorie di un sacrificio volontario voluto da Dio per la salvezza degli
uomini . n Dio che esige da Abramo il sacrificio cruento del suo figlio,
che alla fine non avrà luogo (Gen 22}, non ha nulla da invidiare al Dio
di Gesù che «non ha risparmiato il proprio figlio» (Rm 8, 32), facendo
gli subire una morte particolarmente violenta e atroce. n fatto che il
sangue di un crocifisso sia, per i primi cristiani, il segno di una nuova
alleanza (Mc 14,24 Il Mt 26,28 e Le 22, 20} sottolinea, se fosse ancora
necessario, che la violenza è presente nello stesso atto di nascita del
cristianesimo . Una violenza che, sotto altre forme, lo accompagnerà
nel corso di tutta la sua storia fino a oggi.
Si potrebbero moltiplicare gli esempi che attestano, nel Nuovo Te
stamento , non solo l'esistenza di una violenza subita dai credenti, ma
anche di un discorso o di parole violente, la cui origine deve essere col
locata anche all'interno delle comunità cristiane e sul cui valore e si
gnificato bisogna interrogarsi. Non si tratta quindi di negare o svuota
re la realtà accertata della presenza di testi violenti nel Nuovo Testa
mento , ma di cercare di comprendere quali ne sono le radici, il modo
in cui questa violenza viene denunciata o, al contrario, giustificata e
l'interpretazione teologica che se ne può dare. Si tratterà anche di ve
dere come il Nuovo Testamento si propone di superare la violenza. E
bisognerà anche chiedersi - questo è un aspetto indubbiamente più de
licato da affrontare - se la violenza non venga a volte ritenuta neces
saria, addirittura, osiamo dire, positiva.
3 Su questo passo, che non sarà oggetto della mia inchiesta, si potrà leggere con
profitto D. MAIIGUBRAT, «Terreur dans I'Eglise: le drame d'Ananias et Saphira». in Cahiers
Bibliques 3 1 ( 1 992), 77-88; IDBM, «La mort d'Ananias et Saphira (Ac 5 . 1 - 1 1 ) dans la stra
tégie narrative de Luc», in New Testament Studies 39(1 993), 209-226.
80
Poiché non è possibile essere esaustivi - è un altro indizio del posto
importante che la violenza occupa nel Nuovo Testamento - sceglierò i
testi da analizzare in tre corpora diversi, permettendo così di coprire
un'area più rappresentativa possibile. Comincerò la mia analisi dall'o
pera del Nuovo Testamento nella quale la violenza è certamente più evi
dente, cioè l'Apocalisse di Giovanni. Poi passerò al corpus paolino, do
ve la violenza è presente in forma diffusa, ma ben individuabile nel
l'insieme delle tredici lettere dell'apostolo o a lui attribuite. Infine, ana
lizzerò il modo in cui un vangelo, in questo caso quello di Matteo, trat
ta la questione della violenza in relazione con la figura di Gesù.
Il percorso proposto suppone che si siano precisati due punti im
portanti, per chiarire, per quanto possibile, la lettura. Anzitutto, non in
tendo analizzare avvenimenti storici, bensì testi letterari. Non ci trove
remo quindi davanti ai fatti, ma alla loro espressione letteraria. Questo
punto è importante nella misura in cui, in questa questione della vio
lenza, è essenziale non dimenticare che esiste una distanza fra la pa
rola e la realtà. Le parole possono condurre a certi atti, ma questo non
è automatico4 e c'è, a volte, una distanza fra ciò che si dice e la realtà
effettiva. In secondo luogo, non seguo l'ordine cronologico . Parto dal te
sto più recente, l'Apocalisse di Giovanni, redatto certamente negli an
ni 90. Continuo con l'analisi del corpus paolino, la cui redazione copre
un arco di tempo che va dai primi anni 50 alla fine del II secolo. Ter
mino con il Vangelo di Matteo, che mette in scena Gesù (attorno agli
anni 30), redatto verosimilmente fra il 70 e il 90. Tutti questi testi han
no un punto in comune: sono stati redatti nella seconda metà del II se
colo, all'interno di uno spazio che è quello del cristianesimo nascente .
La scelta di non seguire l'ordine cronologico della redazione di questi
scritti permette di evitare sia di sottoporre l'analisi a ipotesi storiche
sempre discutibili, sia di accreditare l'idea che la questione della vio-
81
lenza dipenda prioritariamente, se non unicamente, da un processo
evolutivo; in altri termini, che la violenza progredisca o, al contrario,
regredisca in relazione all'evoluzione dei costumi o delle persone .
Giovanni di Patmos:
la violenza al servizio della buona novella?
82
l'ideale dell'universalismo e del cosmopolitismo perseguito in passato
da Alessandro Magno.
Infatti si può affermare che, nel mondo romano, la rivendicazione
dell'universalità - l'oikoumene, la terra abitata come confini dell'Im
pero - coabita con una gerarchizzazione della vita in società. :L essere
umano esiste attraverso il posto che occupa nell'ordine imperiale , che
si impone a tutti. La piramide sociale indica a ciascuno il suo posto sul
lo scacchiere ormai «globalizzato» che è il bacino del Mediterraneo. Al
vertice, l'imperatore e i membri della sua famiglia, poi l'ordine sena
toriale e l' ordine equestre. Poi uno strato sociale diviso in due gruppi:
l'ordine dei decurioni - equivalente alla buona società locale nelle cit
tà e nelle province - e quello dei liberti facoltosi. Infine, al di sotto di
questi gruppi, gli strati inferiori, che si possono suddividere in tre ca
tegorie: gli uomini liberi di condizioni modeste; i liberti, gli schiavi .S
Benché le classi superiori difendano i loro privilegi con tutti i mezzi
possibili, la società romana è caratterizzata da un dinamismo ascen
dente. È certamente quest'aspetto dell'Impero a suscitare l' ammira
zione di coloro che possono salire nella gerarchia sociale o, se già ne
fanno parte, restarvi e prosperare. Su questo punto, le testimonianze
sono eloquenti. Mi accontento, a titolo di esempio , di citarne una scel
ta fra molte altre . Nel 9 a.C. un decreto emanato dall'assemblea dei de
legati delle città d'Asia attesta l'impatto della potenza imperiale sull e
élite locali, impatto che ha il suo apogeo lungo tutto il I secolo d . C . :
Poiché l a Provvidenza, che governa tutta l a nostra vita, nella sua atten
zione e nel suo zelo, ha previsto il compimento più perfetto della vita
umana accordandole Augusto che ha riempito di virtù per il maggior be
ne del genere umano e che ce lo ha inviato, a noi e ai nostri discenden
ti, come Salvatore. lui che ha fatto cessare la guerra e che ha stabilito
l'ordine ovunque. E poiché Cesare Augusto, quando è apparso, ha su
perato tutte le speranze, perché non solo è andato al di là dei benefat
tori precedenti, ma non ha lasciato neppure a quelli che verranno dopo
di lui alcuna speranza di superarlo, e poiché la data di nascita del dio
Augusto segna per il mondo l'inizio delle buone novelle,6 per questi mo-
5 Sulla piramide sociale a Roma, cf. G. AI.FOLDY, Histoire sociale de Rome, Picard,
Paris 1 991 .
6 Il termine greco tradotto qui con «buone notizie» è euangelia. Lo stesso termine
che, al singolare, indica nel Nuovo Testamento la «Buona Novella» o il «Vangelo» di Ge
sù Cristo!
83
tivi, è stato deciso dai greci di Asia che il nuovo anno cominci in tutte le
città il giorno nono prima delle calende d 'ottobre,
·
che è il giorno della
nascita di Augusto. 7
84
stato indubbiamente segnato da un assolutismo, caratterizzato, in par
ticolare, dalla promozione del culto imperiale e, soprattutto verso la fi
ne, dagli assassinii politici, ma non da persecuzioni sanguinose contro
le comunità cristiane. Certo, in qualsiasi momento, la mancanza di ri
conoscimento come religio licita poteva indurre l' amministrazione ro
mana a prendere delle misure contro qualsiasi gruppuscolo settario,
del resto non necessariamente sempre chiaramente identificato - spes
so i primi cristiani dovevano essere considerati una dissidenza del giu
daismo - ma sulla questione delle persecuzioni, gli stessi dati dell'A
pocalisse inducono a fare due osservazioni complementari.
Nell'Apocalisse Giovanni di Patmos non ricorda alcun altro nome
di martire per la fede accanto a quello di Antipa, il «testimone fedele»
(cf. Ap 2 , 1 3), la cui morte sembra, del resto, appartenere al passato
(«al tempo di Antipa»). Le allusioni ai martiri non sembrano riferirsi
all'attualità degli ascoltatori. Esse assumano per lo più la forma di evo
cazioni di figure del passato (i profeti dell'antica alleanza, cf. Ap 1 6 , 6
e 1 8 , 24) o d i evocazioni generali (cf. 6,9: «coloro c h e furono immolati
a causa della parola di Dio»; 1 7,6: «il sangue dei martiri di Gesù» ;
1 9 , 2 : «il sangue dei suoi servi»).
Del resto , se si considera la presenza di Giovanni a Patmos (Ap 1 ,9)
la conseguenza di un esilio forzato , allora la «persecuzione» che subi
sce riguarda la prassi, corrente sotto Domiziano, di allontanare da cen
tri politici importanti persone la cui parola poteva apparire fastidiosa.
Questo tende ad accreditare l'ipotesi secondo cui Giovanni è un perso
naggio importante e certamente relativamente conosciuto dall'ammi
nistrazione. romana d'Asia minore, cosa tuttavia impossibile da verifi
care . Comunque questo dato non dimostra l' esistenza di una persecu
zione sistematica contro le comunità cristiane, come avverrà nei seco
li Il e III fino a Diocleziano. In realtà, nel testo dell'Apocalisse, nulla
permette di affermare in modo indiscutibile che Giovanni si trovi a Pat
mos in esilio forzato (cf. Ap 1 ,9). Non si può quindi escludere l'ipotesi
che si trovi li per propria libera scelta. L'espressione «a causa della pa
rola di Dio» (Ap 1 ,9) può rendere l'idea di un esilio scelto sia per evi
tare eventuali noie sia per osservare a distanza la situazione generale.
Da Patmos, Giovanni si rivolge alle comunità cristiane d'Asia minore
per invitarle a interpretare la realtà nella quale vivono con uno sguar
do diverso da quello corrente nei centri urbani d'Asia minore - allora
le sette chiese di Ap 2 e 3 si trovano in città importanti - dove trionfa
il culto imperiale e la sua propaganda.
85
Si deve allora concludere che, con le sue ripetute allusioni alla vio
lenza imperiale, Giovanni forza le tinte e in qualche modo «annerisce
il quadro» in modo eccessivo? Per chi, nel I secolo, vuole aprire gli oc
chi sulla realtà in un modo diverso dal ventaglio delle affermazioni
compiacenti delle élite cortigiane, la violenza alla quale l'Impero ri
corre ogni volta che occorre, è una realtà. Le stesse giovani comunità
cristiane hanno già puntuahnente subito la mano brutale di Roma: An
tipa ne è rimasto vittima, senza dimenticare la repressione seguita al
l'incendio di Roma sotto Nerone. Perciò le ricorrenti allusioni di Gio
vanni di Patmos al «sangue» versato a causa della brutalità della Be
stia non sembrano affermazioni eccessive. Sono semplicemente consi
derate, a seconda del punto di vista che si adotta, necessarie al man
tenimento dell'ordine romano o, al contrario, un segno della natura
diabolica di Roma.
Di fronte alla violenza fisica e morale della Bestia, il Dio dell' Apo
calisse risponde con un giudizio particolarmente violento contro il
mondo e contro gli uomini. Questo tema del giudizio divino e delle sue
tragiche conseguenze viene sviluppato con intensità e drammaticità
lungo tutta l'Apocalisse. Dio vi compare sotto forma di giudice ( 1 1 , 1 8;
1 4 , 7) e il suo giudizio è anzitutto l'ora della sua collera (1 1 , 1 8 ; 1 4, 1 9;
1 5 , 1 . 7 ; 1 9 , 1 5). È lui a giudicare la «grande prostituta» ( 1 6 , 1 9 ; 1 8 , 5 ;
1 9, 2), a sedere sul trono del giudizio finale (20, 1 1 ). E per l'uomo l e con
seguenze sono piuttosto inquietanti. Certo, ognuno sarà giudicato se
condo le sue opere ( 2 , 2 3 ; 1 8 ,6; 20, 1 2- 1 3 ; 22, 1 2 ; cf. anche 1 6,9), ma
sembra che essere giudicato, nell'Apocalisse, equivalga a essere con
dannato . Anche il creato, le creature, gli uomini e le potenze umane su
biscono la collera e il giudizio di Dio (Ap 6; 8-9; 1 4,6-20; 1 5-16,9;
20, 1 1 - 1 5) . Per aver ceduto alla seduzione della «Bestia», gli uomini, i
poteri umani e, con loro, il creato e le altre creature, subiscono il giu
dizio ( 1 6 , 2) . La stessa sorte tocca a coloro che si sono rallegrati al ve
dere i «testimoni» di Dio subire la persecuzione (cf. 1 1 , 1 0- 1 3). «Babi
lonia», la «Bestia» e il «Diavolo» sono giudicati e distrutti (Ap 1 6 , 10-
86
2 1 ; 1 7-18; 1 9 ; 20, 1 - 1 0). La stessa Chiesa è sotto la minaccia del giudi
zio (Ap 2 , 5 . 1 6 . 2 3 ; 3 , 3 . 1 6) : o è fedele e ottiene la vittoria, o è infedele e
subirà il giudizio. Persino lo stesso Cristo, nell'Apocalisse, riveste la fi
gura del giudice e ne possiede gli attributi (cf. Ap 1 , 1 6 . 1 8 ; 1 4 , 1 4- 1 6) .
87
Ogni parte richiama la seguente ed è anche strettamente incastra
ta nella precedente. La visione inaugurale (Ap 4-5) è teocentrica (cioè
centrata su Dio, Ap 4) e cristocentrica (cioè centrata su Cristo, Ap 5) al
tempo stesso: Dio tiene il libro (5 , 1 ) e solo Cristo può aprirlo . L'insie
me termina (settima tromba) con una proclamazione della vittoria di
Cristo ( 1 1 , 1 5- 1 9) . Al centro (Ap 6,1-1 1 , 1 4), vi sono due tipi di rivela
zioni e di visioni: quelle riguardanti gli eletti e la loro missione (Ap 7;
Ap 1 0-1 1 ) e quelle riguardanti il giudizio del mondo (Ap 6 e Ap 8-9).
Questo giudizio è caratterizzato da un'inesorabile escalation: i primi
sei sigilli causano castighi limitati («potere sul quarto della terra» , cf.
6,8); le prime sei trombe un castigo maggiore, ma sempre limitato («un
terzo» del creato, cf. Ap 8 , 7 . 8 .9 . 1 0. 1 1 . 1 2) .
88
monti, e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascon
deteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello , Per
ché è venuto il grande giorno della loro ira e chi può resistervi?».
89
più avanti, in 9,4, ci si chiederà come si può ancora vietare alle caval
lette di toccare la vegetazione che non esiste più (cf. 8,7)! Il giudizio di
vino è quindi progressivo . La violenza è come controllata. Non si sca
tena nella sfera pulsionale, senza controllo . Ha una valenza pedagogi
ca e risuona come un avvertimento che invita a una presa di coscien
za. Il lettore deve quindi guardarsi da ogni concordismo : qui Giovanni
non descrive una qualche catastrofe ecologica o nucleare allora im
possibile, oggi invece diventata concepibile a causa della follia degli uo
mini. Prendendo come sfondo le piaghe d'Egitto, egli forza voluta
mente il tratto per cercare di far comprendere al suo uditorio una real
tà che, ai suoi occhi di uomo del l secolo , è totalmente inverosimile e
inimmaginabile. Parte da un «credibile disponibile» (le piaghe d ' Egit
to o una specifica catastrofe naturale che ha segnato le menti1 1 ) e si
prefigge la descrizione del giudizio di Dio come un «credibile impen
sabile» (ampliando all'estremo ciò che era già noto) . Cerca di stimola
re l'immaginazione dei lettori, presentando una realtà impensabile per
l'uomo del I secolo : si serve quindi di rappresentazioni o avvenimenti
che hanno segnato la mente dei suoi contemporanei, ma ingrariden
doli all'estremo . Bisogna anche cercare dalla parte delle rappresenta
zioni classiche dell'apocalittica, perché si trovano descrizioni paralle
le nel libro di Enoch (cf. Hen 1 8 , 1 3 ; 2 1 , 3 e 1 08 , 4 , dove si tratta di una
descrizione di creature celesti). In realtà, il nostro testo non allude so
lo a cataclismi naturali, ma anche a rappresentazioni mitologiche tra
dizionali (un «credibile disponibile» : la caduta dei corpi celesti che cau
sano distruzioni inimmaginabili; cf. questo tema anche in Ap 1 2 , 9) .
I l Così alcuni hanno visto un'allusione all ' eruzione del Vesuvio, nel l secolo d.C.,
nella catastrofe che coinvolge il mare in Ap 8,8-9.
90
all'idea di Wla battaglia combattuta da «Satana» e dai suoi servi contro
Dio e i suoi servi. Questa battaglia sfocia nel giudizio delle «forze del
male». Il tutto termina sulla visione finale della Gerusalemme celeste:
A. Le forze in presenza
Ap 1 2 : Visione inaugurale: la donna, il bambino, e il drago
Ap 1 3 : Le due Bestie, emanazioni del Drago O'Impero e il sistema im
periale)
Ap 1 4 : L'Agnello e i redenti; il giudizio annunciato
91
IL CREDIBILE DISPONIBILE E L'INIMMAGINABILE DELLA DISTRUZIONE FINALE
92
per lui è fondamentale, cioè che la storia ha un senso e che questo sen
so appartiene a Dio e unicamente a lui.
Perciò la convinzione teologica fondamentale delle sue affermazio
ni sul giudizio si trova nell'idea secondo cui Dio è signore degli avve
nimenti e della storia. Il giudizio non è causato dalle manipolazioni di
un apprendista stregone; è la sanzione ragionata di Dio contro l'idola
tria, che, nell'Apocalisse, consiste nel riconoscere un potere assoluto
all'uomo o a un sistema politico. Questa comprensione di Dio suppone
che la storia degli uomini non è abbandonata a se stessa, all'assurdo
e al caso: se il giudizio appartiene a Dio, se la storia è nelle sue mani
e ha un senso , allora l'umanità non è abbandonata al potere del nulla
o alla follia degli uomini. Da questo aggancio teologico-cristologico del
giudizio si può trarre una triplice conseguenza antropologica.
Anzitutto, la stessa nozione di un Dio che giudica è, per l'autore del
l'Apocalisse, una contestazione dell'uomo come padrone del mondo e
del creato . Ciò che denuncia Giovanni di Patmos al suo tempo è l'illu
sione della Pax Romana: per lui, essa non è il solido fondamento sul
quale possono basarsi le popolazioni dell'Impero . Più ampiamente,
questo significa che il giudizio di Dio viene a ricordare all'umanità, in
positivo, la sua condizione di creatura, quindi la sua finitezza, e, in ne
gativo, l'accecamento colpevole che manifesta. Nel suo stile molto par
ticolare, Giovanni di Patmos ricorda che il momento del Vangelo, del
la buona novella della salvezza, non è mai disgiunto dal momento del
la contestazione.
In secondo luogo, il giudizio è, fin nei suoi aspetti più terribili, un
giudizio pronunciato in vista del pentimento . Pur non parlando mai di
pentimento, l'Apocalisse può essere letta, alla maniera delle richieste
profetiche, come un invito alla conversione. C'è quindi indiscutibil
mente una responsabilizzazione dell'uomo che viene invitato a fare
delle scelte: ciò che l'uomo fa non è privo di conseguenze per lui stes
so, per coloro che lo circondano, per il creato. In questo senso, can
cellare l'idea stessa del giudizio equivale a negare l' u omo in quanto es
sere responsabile , capace di decisione. L'idea del giudizio costituisce
l'uomo in regime di responsabilità. Il giudizio è la condizione stessa
della salvezza: esso rivela l'uomo a se· stesso. Paradossalmente, l'uo
mo è condannato solo se rifiuta il giudizio . Se, al contrario, lo accetta
come la verità di ciò che egli è, allora questo giudizio è per la vita.
In terzo luogo, l'uomo non possiede il potere ultimo : non ha il po
tere di distruggere e di giudicare. La violenza degli uomini contro il
93
creato non può nulla contro di esso. Solo Dio può porre fine a ciò che
ha cominciato. Perciò, per uno di quei paradossi di cui le Scritture han
no il segreto, l'annuncio del giudizio potrebbe essere una fonte di spe
ranza: mettendo nelle mani di Dio la sorte del creato e delle creature,
Giovanni rifiuta all'uomo ogni divinizzazione, liberandolo così da un
formidabile potere di distruzione . Oggi, l'orgoglio dell'uomo si è anni
dato fin nelle sue angosce più profonde, perché egli crede, come un
dio, di poter distruggere la terra. Contro la stessa evidenza del discor
so tecnico o ecologico che qui, stranamente, parlano con una stessa vo
ce e potrebbero somigliare al fascino dell'idolo , Giovanni di Patmos an
nuncia con forza che l'uomo non può distruggere l'umanità, perché Dio
non gli ha dato il potere di farlo . Perciò questo messaggio, per chi sa
ascoltarlo, apre uno spazio di libertà per un'attività tranquilla e gioio
sa in questo mondo.
Un'ultima riflessione: l'Apocalisse è un testo ecclesiale, un testo ad
uso interno; la sua dimensione liturgica lo dimostra chiaramente. La
comunità oppressa descritta da Giovanni non si fa giustizia da sola. Se
chiede la giustizia, aspetta che sia Dio a rendergliela. Sottratto alle ma
ni dell'uomo, il giudizio viene posto nelle mani di Dio, non in quelle
della Chiesa! Del resto , il lettore non conosce l'ultima parola del giudi
zio e della collera di Dio (è il senso del settenario dei tuoni, in Ap 1 0, 3 -
4 che n o n viene svelato). L a violenza non è quindi nel programma del
la comunità. Nell'espressione della fede può trovare posto il grido di
collera, la domanda di retribuzione (cf. Ap 6 , 1 0), ma non il ricorso al
la violenza. È una differenza significativa, di cui purtroppo, nel corso
dei secoli, le chiese non hanno sempre saputo tener conto !
94
Giovanni, alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Co
lui che è, che era e che viene, e dai sette spiriti che stanno davanti al
suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei mor
ti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai
nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdo
ti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei seco
li. Amen! Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che
lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto.
95
svilupperà fino all'inizio del capitolo 8 e si prolungherà poi nel suono
delle trombe fino alla fine del capitolo 1 1 . In questo modo, il complesso
delle visioni è ordinato alla cristologia. Questo Cristo prende la figura
dell'agnello, un titolo specifico dell'Apocalisse di Giovanni, quello più
spesso usato e presente nell'insieme della narrazione (5,6.8 . 1 2 . 1 3 ;
6 , 1 . 1 6; 7 , 9 . 1 0. 1 4 . 1 7 ; 1 2 , 1 1 ; 3 , 8 ; 1 4 , 1 . 4 . 1 0 ; 1 5 , 3 ; 1 7, 1 4 ; 1 9, 7 .9;
2 1 ,9 . 1 4. 2 2.23. 27; 22,1 .3). È significativo che l'introduzione di questa fi
gura avvenga nella forma paradossale dell'immolazione e della gloria
(5,6). L'immagine è essenziale per il pensiero teologico di Giovanni: l'a
gnello vincitore ha riportato vittoria attraverso la sua morte cruenta. La
sua vittoria sulla morte non è la vittoria di uno estraneo alla sorte di co
loro che fa partecipare alla sua vittoria. Come loro, egli ha subito l'ol
traggio della morte e specialmente di una morte violenta. Il verbo gre
co per rendere quest'idea di immolazione è sfazein (Ap 5,6. 9 . 1 2 ; 6,4.9;
1 3 , 3 . 8 ; 1 8,24). Nella LXX (la versione greca dell'Antico Testamento),
questo verbo rende l'ebraico shd!J.at., che indica il gesto di immolazione
dell'animale del sacrificio. L'espressione «Agnello immolatO)) (Ap 5,6) è
quindi ispirata direttamente dalle tradizioni della Pasqua ebraica. La fi
gura dell'agnello rinvia all'agnello pasquale dell'Esodo, quello che assi
curava, con il suo sacrificio cruento, salvezza e redenzione al popolo in
cammino verso la Terra promessa. Ripresa dal visionario di Patmos,
l'immagine fa di Cristo colui che salva i credenti, assicurando il loro
«passaggio)) {il senso del verbo ebraico pesa!! che ha dato il termine
«pasqua))) dal vecchio mondo al mondo nuovo, dalla morte alla vita.
Collocato all'inizio di una serie di visioni (Ap 6-1 1 ) , questo riferi
mento al sacrificio di Cristo significa che , per Giovanni di Patmos, l'a
gnello immolato è colui attraverso il quale si decifra il mondo (cf. Ap
5 , 9: l'agnello è l'unico «degno)) di aprire il libro sigillato). Il sacrificio
pasquale è la chiave di lettura del divenire della storia dell'umanità. La
dimensione polemica è evidente: non è l'Impero , con la sua potenza
economica, la sua invincibilità militare e la sua stabilità, ad assicura
re l'esistenza nel mondo . L'agnello immolato , che siede sul trono, tie
ne nelle sue mani il giudizio che sta per abbattersi su un mondo che si
illude sulla sua solidità e sulla sua stabilità.
Nei due passi che ho brevemente analizzato, il linguaggio sacrifi
cale è accompagnato dalla menzione del sangue versato, di cui ora bi
sogna approfondire più precisamente la funzione.
In Ap 1 ,5, il sangue di Gesù «libera)) (,tOOI). L'uso del verbo con que
sto significato è unico nel Nuovo Testamento. Ma dalla stessa radice
96
viene il verbo Àurp6m, «pagare un riscatto» , «liberare» {Le 24, 2 1 : «li
berare Israele» ; Tt 2 , 1 4 : «per riscattarci»; 1 Pt 1 ,8 : «che siete stati ri
scattati»); ugualmente Àthpov, «riscatto» {Mc 1 0, 4 5//Mt 20,28),
Àth'proçtç, «redenzione», «riscatto» {Le 1 ,68; 2 , 3 8 ; Eb 9, 1 2 una «reden
zione» ottenuta «mediante il sangue» di Gesù) . L'uso originale del ver
bo Àvetv in questo passo spiega forse il fatto che altri manoscritti leg
gono «lavare» {Àovw). Ci si avvicina allora a Gv 1 3 , 1 0 {dimensione so
teriologica e cristologica) e anche a Eb 1 0,22 {battesimo).
In Ap 5,9, il sangue di Gesù «riscatta» (ayopaçw; cf. 1 4, 3-4: i cre
denti sono detti i «riscattati»; cf. 2Pt 2 , 1 ) . È un termine che ricorre
spesso in Paolo per indicare la redenzione {l Cor 6,20; 7 , 2 3 ; Gal 3 , 1 3 ;
4 , 5 . . . ) . Nell'Apocalisse, i l contesto dei capitoli 5 e 1 4 è quello d i un ri
scatto da parte dell'agnello: l'allusione pasquale è chiara.
Altrove nell'Apocalisse, il «sangue» di Gesù assolve funzioni simili.
In Ap 7 , 1 4 : la «moltitudine immensa» è composta da coloro che han
no «lavato>> e «reso candide>> le loro vesti nel sangue dell' agnello . Qui
viene sottolineata la doppia funzione salvifica e purificatrice del san
gue. In Ap 1 2 , 1 1 il sangue di Gesù è un mezzo per «vincere» (vucaw) .
Così i l sangue d i Gesù h a una funzione che s i può definire militante.
Come comprendere quest'immagine? Senza dubbio il passo vuole sug
gerire che, se l'agnello ha riportato vittoria { 5 , 5 ; 1 7, 1 4; forse anche
6,2), ne consegue che anche i credenti vinceranno attraverso il suo
«sangue» e la «parola della testimonianza» { 1 2 , 1 1 ) . Ma, come vedre
mo, anche questa vittoria passerà attraverso una lotta, nella quale bi
sogna mettere in conto la morte fisica. Le funzioni soteriologiche {li
berare, riscattare, purificare) del sangue dell'agnello, come pure la sua
funzione militante, aprono allora su una triplice dimensione: sacerdo
tale, regale { 1 ,6; 5 ,9) e liturgica {7, 1 4 e 1 4,4). Esse costituiscono il cre
dente come combattente e vincitore delle potenze di questo mondo, te
stimone di Dio in questo mondo e partecipe della sua vittoria finale.
Si constata allora un capovolgimento perlomeno interessante : la
violenza subita da Gesù attraverso la crocifissione viene in qualche mo
do capovolta. Infatti, l'umiliante sconfitta costituita dalla morte in cro
ce è trasformata in sacrificio che dona la vita e nasconde una capaci
tà paradossale di assicurare la vittoria.
97
La fede come «lotta» contro la violenza del mondo
98
Questa dimensione critica si coniuga con quella che bisogna giu
stamente chiamare una «demonizzazione» della struttura imperiale
(cf. , in particolare , Ap 1 3 e 1 7-1 8). Ma questa demonizzazione non de
riva da un delirio paranoico o da alcune speculazioni apocalittiche in
controllate. Si fonda su un'analisi politica e teologica della situazione
così come si presenta alla fine del I secolo . Infatti, Giovanni di Patmos
interpreta la situazione in cui vive come una pretesa totalitaria e ido
latrica del potere imperiale . Percepisce la forza seduttrice di Roma e
vede la violenza che l'accompagna. La menzione dell'uccisione di co
loro che non adorano l'immagine della Bestia (Ap 1 3 , 1 3) non indica
necessariamente il martirio cruento dei cristiani perseguitati al tempo
in cui Giovanni redige la sua opera, ma rinvia chiaramente alla forza
militare romana e alla violenza repressiva che scoraggia ogni velleità
di liberarsi dal giogo imperiale. L'Impero viene denunciato anche co
me un sistema che presenta un carattere religioso e pretende di go
vernare tutta l'esistenza umana sul piano politico , culturale ed econo
mico. Dal punto di vista di Giovanni, questa pretesa è un segno non so
lo dell'orgoglio degli uomini, e specialmente degli imperatori, ma an
che della loro sottomissione alle potenze del male all' opera nel creato .
Sul piano dell' autocomprensione del credente nel mondo, quest'inter
pretazione apocalittica della realtà trova la sua piena realizzazione in
una resistenza spirituale all'idolatria e nell'attesa del giudizio che sta
per abbattersi su un mondo dominato dalle potenze.
L'Apocalisse sviluppa quindi quello che si può giustamente chia
mare un atteggiamento di resistenza. Giovanni si erge contro Cesare,
che pretende di qualificare l' esistenza di ogni essere umano a partire
dall' ordine romano. Qui la confessione di fede è un atto politico. Essa
mira a suscitare, nel credente, una nuova comprensione della sua esi
stenza e del mondo in cui vive. In un certo senso, si può affermare che
Giovanni di Patmos rifà il mondo , cioè lo reinterpreta, lo ricostruisce,
lo rilegge a partire dalla sua fede in Dio così come viene rivelato da Cri
sto (cf. Ap l , l ) . Per questo ha bisogno di un linguaggio simbolico , per
ché solo questo linguaggio provoca una rottura e permette al lettore di
vedere diversamente le cose, di comprenderle diversamente. Per Gio
vanni la fede è un'interpretazione del mondo a partire dall' evento Cri
sto. Ma in che senso questo è un atto politico? Nel senso che l'evento
pasquale viene ricevuto da Giovanni come appello a opporsi a Jla logi
ca del mondo nel quale vive. Per Giovanni l'evento pasquale introduce
una cosa diversa dalla situazione, dalle opinioni, dai saperi costituiti.
99
I: evento pasquale contesta il modo in cui il discorso ufficiale, attorno
al quale si organizza la società romana, interpreta la realtà. Esso pro
pone un'altra lettura di questa realtà, una lettura che contesta l'inter
pretazione generale e concorde . Giovanni afferma che il discorso del
potere imperiale al quale tutti sono invitati, per amore o per forza, ad
aderire, non è buono. Potrebbe essere riassunto così: «C'è ciò che c'è».
In altri termini, la realtà che Roma vi presenta è l'unica verità. I: ordi
ne imperiale - la sua potenza, che assicura la stabilità economica e po
litica, la famosa Pax Romana, l'organizzazione gerarchizzata della so
cietà così come viene proposta - è l'unico modello valido . Di fronte a
tutto questo Giovanni proclama il contrario, affermando in sostanza:
«C'è ciò che non c'è». In altri termini, diversamente dalle apparenze e
dalla stessa evidenza, la potenza seduttrice della Bestia è pura illusio
ne. La realtà così come viene presentata allo sguardo affascinato del
cittadino medio nel vasto Impero è solo menzogna e illusione . La po
tenza romana e la sua volon�à di inglobare tutta la realtà dell' esisten
za umana si fonda su una potenza letale, segno della sua origine dia
b olica. Lungi dal portare la vita, essa causa la perdita dell'uomo.
I: opposizione dell'autore dell'Apocalisse al modello imperiale roma
no si basa su un'analisi particolarmente critica della situazione politica
così come si presenta nel I secolo. Giovanni di Patmos considera l'uni
versalismo romano, che si impone a tutti i popoli del bacino del Medi
.
terraneo , una vera minaccia all'integrità dell'uomo, una violenza non
solo fisica, ma anche psicologica. Egli denuncia la potenza imperiale co
me un sistema che pretende di governare l'intera esistenza umana sul
piano politico, culturale ed economico, reprimendo con la violenza co
loro che si rifiutano di piegarsi alle sue regole. I:idolatria è una forma
di violenza: quindi la violenza imperiale non è solo fisica. È violenta an
che a causa della sua pretesa totalitaria. Giovanni di Patmos denuncia
soprattutto questo. Perciò egli vede nel giudizio e nella collera una ri
sposta alla violenza istituzionale: violenza della parola contro l'imposi
zione del bavaglio imperiale; violenza liturgica contro il discorso gene
rale e concorde della forza e del potere; violenza della parola che si vuo
le imbavagliare. Per Giovanni si tratta di opporre una resistenza spiri
tuale a questa logica, di schierare il credente contro di essa e di annun
ciare la sua fine ineluttabile. Egli è quindi impegnato in una vera batta
glia, nella quale la violenza delle parole cerca di opporsi alla violenza di
un sistema. Ma non combatte solo in difesa: intravede un'uscita dal re
gno della violenza. Termina la sua opera, descrivendo la · nuova crea-
100
zione in tre quadri (2 1 , 1-8; 2 1 ,9-27; 2 2 , 1 - 5), nei quali accumula le ne
gazioni per rappresentarla: niente più mare (2 1 , 1 ), niente più morte, lut
to, grido e sofferenza (21 ,4), niente più Tempio (2 1 , 22), né sole né luna
(2 1 , 23), le porte della città non si chiudono più, niente più notte (2 1 , 25),
niente più impurità (2 1 , 27), maledizione (22,3), bisogno della luce del
sole o della fiaccola (22,5). Qui il visionario sperimenta i limiti del lin
guaggio per dire l'indicibile, cioè la sua convinzione di una novità tota
le non misurabile con qualsiasi realtà esistente. Può esprimersi solo me
diante una comparazione, in negativo, con la realtà di questo mondo. In
questo contesto appare una via di uscita dalla violenza di questo mon
do, alla quale, volente o nolente, il credente partecipa.H
Lo SFONDO APOCALITIICO
1 01
Senza mettere in discussione questo sfondo simbolico, propongo di te
ner conto anche del radicamento apocalittico dell'immaginario paoli
no. Infatti, la relazione di Paolo con l'Antico Testamento è mediata dal
quadro culturale e religioso proprio del cosiddetto giudaismo del Se
condo Tempio, nel quale l'apocalittica gioca un ruolo chiave . L'influen
za del pensiero apocalittico su Paolo è innegabile.
In questo contesto particolare si distingue fra due tempi o due mon
di (due 'olamim): l"olam hazzeh, il mondo dalla sua creazione alla sua
fine, e l"olam habba , il mondo venturo .18 In greco, si distinguono due
'
eoni (ailliveq). Il mondo presente (il vecchio eone) è sotto il potere del
male . Dio giudicherà questo mondo cattivo e la venuta del nuovo eone
significherà l'irruzione del mondo nuovo come contestazione del mon
do vecchio e compimento del diritto e della giustizia di Dio sulla terra.
Un giorno non lontano Dio porrà fine allo stato attuale delle cose (cioè
al mondo presente) e ricreerà un'umanità nuova, punendo i malvagi e
premiando i giusti.
Questa comprensione del mondo, ben documentata in Paolo, am
mette l'esistenza di una doppia violenza. Una violenza subita e una vio
lenza attesa: la violenza subita dai giusti - e in minor misura dal crea
to sotto il potere del male - e la violenza riparatrice, liberatrice e pu
nitiva di Dio contro il male e i malvagi.
Creato e violenza
In sintonia con le rappresentazioni apocalittiche, Paolo sottolinea
ripetutamente la sua comprensione del mondo e dell'esistenza del giu
sto come posti di fronte alla violenza delle potenze del male che ope
rano in esso. Il testo di Rm 8 , 1 8-23 lo afferma chiaramente:
Ritengo infatti che le sofferenze (m =fhiJla-ra) del tempo presente non
siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L'ardente
aspettativa della creazione, infatti. è protesa verso la rivelazione dei fi
gli di Dio. La creazione infatti, abbandonata al potere del nulla ( n'j J.la
WIO'I'IJ'rl) , non per sua volontà, ma per volontà di colui che l'ha abban
donata, conserva la speranza, perché anch'essa sarà liberata dalla
schiavitù della corruzione (ano � liovkiac; n'jc; ;8opiic;) per aver parte al-
1 8 Cf. 1Enoch 7 1 , 1 5 ; 4Esd 7,50. 1 1 2 . 1 19: 2Bar 44,8- 1 5 ; 83,4-9. Su questo punto cf.
M.C. DE BoER, «Pau! and Jewish Apocalyptic Eschatology», in J. MA!tcus - M . L. SOARos
(edd.), Apocalyptic and the New Testament. Essays in Honor of J. Louis Martyn, Aca
demic Press, Sheffield 1 989, 169- 1 90, cf. 1 72ss (con le note).
102
la libertà e alla gloria dei figli di Dio . Sappiamo infatti che tutta insieme
la creazione geme (O'llaiE vaçet) ora ancora nelle doglie del parto (avvw-
6ivet). Essa non è sola: anche noi, che possediamo le primizie dello Spi
rito, gemiamo (mEvaçoJLev) interiormente aspettando l'adozione a figli,
la redenzione del nostro corpo.
Violenza di Dio
Per Paolo il mondo è uno spazio infestato da violenza, male, soffe
renza, morte, ma questa situazione non durerà. Essa sfocerà nel giu
dizio di Dio , che suppone una violenza retributiva, non solo sulle po
tenze del male (Rm 1 6 , 20: «Il Dio della pace schiaccerà - ovvrpivre1 -
ben presto Satana sotto i vostri piedi»), ma anche su coloro che, rifiu
tandosi di obbedire alla Legge di Dio, partecipano a questo disordine
del mondo . Su quest'ultimo aspetto è particolarmente espressivo un al
tro passo della Lettera ai Romani:
Con la tua ostinazione, perché il tuo cuore si rifiuta di cambiare radi
calmente, tu accumuli un tesoro di collera ( lhJaavpiçeiç op rJj v) per il gior
no della collera (opyiiç} e della rivelazione del giusto giudizio (6urawiC'pt
uiaç) di Dio, e collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del
giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere : la
vita eterna a coloro che, con la loro perseveranza in un'opera buona,
cercano gloria, onore, incorruttibilità; collera e furore (opm IC'aì llvJLOç)
contro coloro che, per ambizione personale, sono refrattari alla verità e
si lasciano persuadere per l'ingiustizia. Tribolazione e angoscia (9,1.iljll ç;
IC'aì mEvoxwpia) per ogni uomo che produce il male, per il Giudeo, pri
ma, ma anche per il Greco. Gloria invece, onore e pace per chi opera il
bene, per il Giudeo, prima, ma anche per il Greco. Dio infatti non fa pre
ferenza di persone (Rm 2 , 5 - 1 1 ) .
1 03
mente per tutti. Sia come sia, è evidente che la lotta contro la violenza
suppone una violenza di ritorno: Il Dio di Paolo non può lasciare im
punito né il male che distrugge il creato né coloro che si compiacciono
nello stesso. In sintonia con il pensiero apocalittico, la manifestazione
della giustizia di Dio è sinonimo di lotta. Non c'è continuità, ma rottu
ra, e rottura violenta, rispetto al vecchio ordine delle cose.
104
di Dio diventa la chiave della sua soteriologia. La cristologia opera un
primo decentramento : è la morte violenta dell'inviato di Dio a essere
fonte di vittoria e non la morte che egli fa subire ai suoi avversari, che
viene riportata nel futuro della sua manifestazione finale .
1 05
l Cor 2 , 2 : «lo ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso (ecnavp(I)JlÉvov)».
Infatti questa vittoria nel cuore stesso della sconfitta, questa vio
lenza paradossale (colui che la subisce firma per ciò stesso la sconfit
ta del mondo) si prolunga, in modo piuttosto tradizionale, nell' attesa
di una manifestazione finale, nella quale la cristologia assumerà ac
centi di guerra:
l Cor 1 5 ,24-26: «Egli consegnerà il regno (njv fkrm.l.eiav) a Dio Padre, do
po aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza (mmpY7Jt;fl
nauav apXJiv K"aì naaav tçovaiav mi 6vvaJLtv}. È necessario infatti che egli
regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi (<lxpt où 9ff
navmç roùç ex8poliç VIrò roùç n66aç avroV}. L'ultimo nemico a essere an-
106
nientato (ÉOV!Qmç ez9pòç mmpyeifad è la morte, perché ogni cosa ha
posto sotto i suoi piedi».
1 Cor 1 5 , 5 4 - 5 5 : «La morte è stata inghiottita nella vittoria (rmremSBrJ 6 96-
varoç eiç viK"oç). Dov'è, o morte, la tua vittoria (ro viK"oç)? Dov'è, o morte,
il tuo pungiglione ( ro K"EVIpOv)?».
Fil 2 , 1 0: «Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi (nav yovv
raiplf/11.) • • • ».
Si è così ritornati classicamente alla rappresentazione apocalittica
tradizionale? Certamente. Ma allora vale la pena sottolineare - e que
sto vale evidentemente per i testi ebraici - che le rappresentazioni apo
calittiche dipendono dalla dimensione linguistica dell'esperienza uma
na. Si tratta cioè di una vittoria che dipende dalla credenza del cre
dente. La violenza che essa contiene dipende dalla proclamazione non
dalla messa in pratica! La parola sostituisce la violenza in atti. La com
prensione di sé proposta da Paolo fa affidamento su una comprensio
ne di Dio che è cambiata: Il Dio che pratica la violenza indubbiamen
te rimane, ma è anche il Dio che l'ha subita attraverso il suo inviato.
Del resto , è Dio stesso che «non ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm
8, 32), che lo ha consegnato alla violenza. Questa violenza praticata è,
in definitiva, violenza subita da Dio stesso. C'è un capovolgimento : Dio
dona il suo figlio, perché subisca la violenza della croce. E questa mor
te subita diventa una violenza fatta alla violenza in due modi: da una
parte, Dio rialza Gesù dai morti e il linguaggio è allora quello della vit
toria sulla morte; dall'altra, la vittoria è mediata dalla parola procla
mata, in attesa di un'eventuale manifestazione finale.
LA VIOLENZA BLOCCATA
La violenza fisica è ormai spostata in tre modi complementari: dal
la temporalità, dal linguaggio, e dalla riflessione teologica.
21 Sulla più ampia questione della temporalità in Paolo, cf. É. C!MLUER, «La tempo
ralité chez Pau!», in A. DETIWILER - J.-D. KAEsru - D. MARGUERAT (edd.), Paul. Une théolo
gie en construction, Labor et Fides, Genève 2004, 2 1 5-224.
107
me un'altra forma: essendo differito nella sua manifestazione concre
ta, è interiorizzato e passa attraverso la proclamazione della salvezza:
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza»
(2Cor 6,2). Le categorie apocalittiche riprese da Paolo vengono rein
terpretate mediante l'evento cristologico: è «nel tempo presente» (Rm
3 , 26) che la giustizia di Dio è manifestata, ma si tratta di una giustizia
paradossale, perché si mostra nella morte di un crocifisso. Per la Let
tera ai Galati, che pure sviluppa il linguaggio della giustificazione, l'in
vio del figlio alla <<pienezza del tempo» (Gal 4,4), e più precisamente la
morte di Gesù, è sinonimo per il credente non solo di giustificazione,
ma anche di «sottrazione a questo mondo malvagio» (Gal 1 ,4), di «cro
cifissione» del mondo (Gal 6 , 1 4) e di «nuova creazione» (Kat V!Ì Krimç,
Gal 6 , 1 5). Nella Prima lettera ai Corinti, Paolo usa un altro linguaggio,
ma l'idea è fondamentalmente la stessa: la croce contesta il «ragiona
tora di questo mondo» (l Cor 1 , 20), perché la sapienza paradossale che
essa mostra non è di questo mondo e nessun principe di questo mon
do l'ha conosciuta (2,6-8). Essa è anche potenza di Dio per la salvezza
del credente (1 , 1 8 . 24). La conseguenza viene tratta nella Seco nda let
tera ai Corinti, in un linguaggio che concorda con quello della Lettera
ai Galati: la morte di Cristo significa la fine delle «cose antiche», la
«nuova creazione» e l'inizio di una «realtà nuova» (cf. 2Cor 5 , 1 7) . Co
sì il presente viene riqualificato, perché è ormai «momento favorevole
(Katpòç eintp6a&noç), giorno della salvezza» (2Cor 6,2).
Colta mediante la fede, questa nuova comprensione dell'esistenza
permette al credente di compre ndersi in modo nuovo nel cuore del mon
do antico. Questa nuova comprensione trova il suo fondamento nella
proclamazione della croce come rivelazione paradossale di Dio (l Cor
1 , 1 8-25):22 Essa introduce nel cuore del mondo una realtà che non è per
capibile da parte di quest'ultimo e ne costituisce, per il credente, sia
un'interpretazione sia una contestazione. C'è, in nome dello sguardo del
la fede, una battaglia condotta contro il vecchio mondo - siamo in piena
apocalittica - ma la violenza viene differita. Diventa linguaggio della pro
clamazione nell'esistenza compresa come esistenza «fra due epifanie».23
22 Sulla teologia della croce, cf. J . ZusMTEIN, «Paul et la théologie de la croiX», in Étu
des Théologiques et Religieuses 76(200 1), 4 8 1 -496.
23 [;espressione è presa da Y. RF:oAUe, Paul après_ Pau/, Labor et " Fides, Genève
1 994. 1 7 4 .
1 08
LA «PAROLA» COME VIOLENZA FATTA ALLA VIOLENZA
1 09
nali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri (Gal l , l 3- 1 5 ;
cf. Fil 3,7; l Cor 1 5 ,9}.
110
polo all'apostasia (tutte cose di cui si potevano accusare certi discepo
li di Gesù) . In questo contesto , la persecuzione che Paolo pratica con
tro i giudeo(-cristiani) non ha solo un significato morale. Essa rappre
senta probabilmente qualcosa di più di una dura polemica o di una
molestia verbale, ma comprende senza dubbio misure violente per «di
struggere» la fede degli avversari. Pur mancando di prove per affer
mare che perseguitasse «fino alla morte» (At 22 ,4), non dobbiamo sot
tovalutare la natura violenta di queste persecuzioni. In ogni caso, il te
sto di Filone suggerisce che persone che commettevano gravi «crimi
ni» come idolatria, apostasia, spergiuro, potevano essere aggredite fi
sicamente da «zeloti» violenti. Senza dubbio , Saulo , il fariseo «zelan
te», riteneva che i primi cristiani (giudeo-cristiani aperti ai pagani) co
stituissero un pericolo reale per l'integrità di Israele e, proprio per que
sto , cercava di «distruggerli» .
Paolo presenta i l suo percorso come u n capovolgimento, u n cam
biamento di identità. In questo quadro, passa da una violenza inferta
a una violenza subita . Da persecutore diventa perseguitato, da carce
riere prigioniero : vedere l'immagine che offre di se stesso nella Lette
ra ai Filippesi. Il modo in cui interpreta il suo percorso indica che or
mai comprende lo zelo religioso come una violenza contro Dio stesso
o il suo inviato e i suoi discepoli (cosa che Luca esprimerà sul piano
narrativo con il celebre «sono io, Cristo , che tu perseguiti»). È degno
di nota il fatto che una volta passato dalla parte dei perseguitati, Pao
lo abbandona ogni forma di coercizione fisica contro i suoi avversari.
Come spiegare questo cambiamento? La mia ipotesi è la seguente :
la violenza subita da Cristo ha fatto scoprire a Paolo la perversione del
suo zelo per la Legge. La violenza fisica «cessa» per il fatto di aver col
pito «il giusto» in persona. Paolo passa allora dallo «zelo» per la Leg
ge allo «zelo» per la buona novella di un crocifisso, di un perseguitato
a causa della Legge . Ma allora non può più esservi violenza contro co
loro che rifiutano o bestemmiano questo giusto. La violenza viene rin
viata a Dio, non è più spettacolare, ma è ormai mediata da un terzo,
Dio, colui che ha accettato di donare il suo Figlio perché subisse la vio
lenza degli uomini. Si realizza uno spostamento , un acquietamento del
la pulsione di violenza fisica contro gli avversari. Ciò significa che Pao
lo ha chiuso con la violenza fatta ad altri? Non è così semplice.
111
VIOLENZA o 'APOSTOW
1 12
dalla partecipazione attiva all'uccisione di Gesù e dei profeti (Paolo pen
sa certamente a profeti cristiani), dalla persecuzione di Paolo e dei suoi
collaboratori, dal divieto della missione presso i pagani. Questi atti chia
ramente indicati mostrano che non si tratta dell'intero popolo ebraico,
ma dei suoi responsabili religiosi (il sinedrio e forse anche i capi delle
sinagoghe) che avevano la competenza di deferire Gesù alle autorità ro
mane e che, come faceva Paolo prima della sua conversione, cercavano
in tutti i modi di escludere dalle sinagoghe quei giudeo-cristiani che era
no favorevoli a un'apertura ai pagani. La designazione «nemici di tutti
gli uomini» (v. 1 5), che purtroppo ha fatto fortuna nella storia dell'occi
dente cristiano (ma che è un luogo comune anteriore a Paolo), nonché
l'allusione secondo cui «non piacciono a Dio» (v. 1 5) devono essere com
prese in questo quadro specifico e non possono essere intese né come
lo sguardo di Paolo sui suoi compatrioti (in questo caso, non si com
prenderebbe come potrebbe, lui stesso ebreo , redigere in seguito i ca
pitoli 9-1 1 della Lettera ai Romani!} né, a fortiori, come una descrizio
ne dell'ebreo di tutti i tempi e di tutti i luoghi! La menzione dei loro pec
cati (v. 1 6b) e della manifestazione definitiva della collera di Dio su di
loro (v. 1 6c) deve essere interpretata come un'allusione al rifiuto violento
e omicida dei responsabili religiosi e non come un riferimento ad avve
nimenti storici, quali l' espulsione dei giudei da Roma da parte di Clau
dio o la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 o nel
1 3 5 d . C . Checché si pensi di queste affermazioni di Paolo appartenenti
al registro della retorica di controversia, esse riguardano le autorità re
ligiose del giudaismo del suo tempo, in quanto responsabili, a suo avvi
so, della morte di Gesù e contrari all'evangelizzazione dei pagani (come
faceva lui stesso quando era fariseo) . Non riguardano i giudei in quan
to tali, per cui questo testo è privo di qualsiasi connotazione razziale.
IL CREDENTE E LA VIOLENZA
Ora devo mostrare come Paolo invita le comunità cui si rivolge a si
tuarsi nel mondo e di fronte alla violenza onnipresente. Mi sembra che
si possano individuare tre orientamenti che propongono un modo di
verso di comprendere se stessi nel mondo.
1 13
Gal 2 , 1 9 : «In realtà, mediante la Legge io sono morto alla Legge, affin
ché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo».
Gal 5 , 24: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con
le sue passioni e i suoi desideri».
Gal 6 , 1 4 : «Quanto a me invece non vi sia altro vanto che nella croce del
Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è sta
to crocifisso, come io per il mondo» .
26 F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Adelphi Edizioni, Milano 2006, § 15, 122.
1 14
munione alle sofferenze di Cristo (3 , 1 0), lungi dall'essere sinonimo di
ripiegamento, decentra da se stessi e apre sugli altri: qui risiede la fon
te della vera gioia che sperimenta Paolo (cf. 2 , 1 7 - 1 8) .
1 15
In questo passo c'è una sorta di sintesi del percorso teologico che
mi è sembrato di scoprire in Paolo riguardo alla violenza religiosa e al
suo spostamento verso la pacificazione. La morte violenta di Cristo ri
concilia con Dio. Questa morte distrugge il muro di separazione che co
struisce la Legge: è grazie alla fine della Legge che nasce un solo uo
mo pacificato (l'universalismo contro il particolarismo). La croce è una
battaglia violenta contro l'odio. Una battaglia nella quale colui che è
violentato «uccide» l'odio. Da questa battaglia nasce un uomo che è
unificato e vive nella pace (qui si ritrova il fondamento dell'etica pao
lina) . Tutto questo dipende dalla proclamazione pasquale e fonda l'es
sere al mondo del credente.
Conclusione
116
ripreso. È la battaglia di tutta una vita che può sperare di sfociare su
una salvezza finale, i cui accenti di guerra sempre presenti non sono or
mai più prioritariamente al servizio del giudizio degli empi, bensì al ser
vizio della proclamazione a «tutte le nazioni» (2Tm 4,6- 18).
2 8 Una prima versione di questo capitolo ha già dato luogo a una pubblicazione; cf.
É. CUVILUER, «Jésus aux prises avec la violence dans l'évangile de MatthieU», in Études
Théologiques et Religieuses 74(1 999), 335-349.
29 Un passo parallelo si trova, sotto una forma diversa, in Le 1 6 . 16: «La Legge e i
Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sfor
za di entrarvi».
117
no anche quest'altra sua parola perlomeno sorprendente: «Non credia
te che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non
pace, ma spada» (Mt 10,34). Ciò significa che l ingresso nel regno di Dio
'
1 18
ga lista dei suoi antenati, molti dei quali noti dall'Antico Testamento,
contiene la storia movimentata e violenta del popolo di Israele. Come
Figlio dell'uomo, inserito nella storia di una nazione, Gesù viene al
mondo carico del peso della storia del popolo di Israele, una storia fat
ta di crimini di sangue , di violenze fisiche o psicologiche, di guerre e di
pace, di violenze e di riconciliazioni. Basti un esempio per mostrarlo
chiaramente. Un dettaglio di questa genealogia indica che Gesù è se
gnato dalla violenza, non solo come membro del popolo di Israele, ma
come membro di una stirpe particolare: dopo aver indicato che Gesù è
«figlio di Davide» (Mt 1 , 1 ), Matteo precisa, al v. 6, che «Davide generò
Salomone da quella che era stata la moglie di Uria» . Perché non indi
care questa donna, come nel caso di Tamar (v. 3), Racab e Rut (v. 5),
con il suo nome, Betsabea? Bisogna vedere in questo un ricordo dell'e
pisodio nel quale Davide, dopo aver commesso adulterio con quella che
diventerà un'antenata di Gesù, ne fa uccidere il marito (cf. 2Sam 1 1 ).
2. Al capitolo 2 , Matteo riferisce un atto particolarmente violento,
quello del massacro dei bambini di Betlemme (Mt 2 , 1 6- 1 8). Mediante
questo assassinio collettivo, Erode cerca di sbarazzarsi di un concor
rente indesiderabile. Due osservazioni sull'episodio :
a) La citazione di compimento del v. l 7 ricorda il profeta Geremia.
Questo profeta riveste un interesse particolare per Matteo, che lo nomi
na esplicitamente tre volte (oltre 2 . 1 7-18, vedere 27,9- 1 0 - riferimento
a Geremia, per parlare della «vendita» di Gesù da parte di Giuda ai ca
pi del popolo - e 1 6 , 1 4, dove Gesù viene assimilato a Geremia). Il primo
e l'ultimo riferimento (2, 1 7- 1 8 e 27,9- 1 0) sono in stretta relazione fra lo
ro, attestando, in Matteo, l'opposizione mortale al Messia da parte di co
loro che avrebbero dovuto riconoscerlo e riceverlo. La menzione di Ge
remia rafforza il legame fra i racconti dell'infanzia e il racconto della Pas
sione, sottolineando il rifiuto del Messia da parte del suo popolo, più esat
tamente da parte delle autorità religiose. La sua menzione in Mt 1 6 , 1 4
conferma, i n un altro modo, l e osservazioni precedenti: secondo Matteo,
i contemporanei di Gesù lo considerarono un profeta di sventura. Come
Geremia, egli ne subisce le conseguenze, cioè il rifiuto. 34 Per Matteo, que
sto rifiuto è già iscritto all'inizio dell'esistenza terrena di Gesù.
34 Sulla figura di Geremia in Matteo, cf. M. KNOWLES, Jeremiah in Matthew 's Gospel.
The Rejected Prophet Moti[ in Matthaean Redaction, Academic Press, Sheffield 1993;
ugualmente F. VouGA, «La seconde Passion de Jérémie», in Lumière et \ile 32(1983), 71-82.
119
b) I.: episodio del massacro dei bambini e della fuga di Gesù in Egit
to va letto in parallelo con la storia di Mosè. Le allusioni più suggesti
ve sono queste : 1 ) l'assassinio dei primogeniti di Israele in Egitto per
ordine del faraone (Es 1 , 22), assassinio al quale sfugge Mosè (Es 2 , 1 -
1 0) ; 2 ) la fuga d i Giuseppe «di notte» evoca l a fuga dall'Egitto l a notte
di Pasqua (Es 1 2 , 3 1 ) , ma anche la fuga di Mosè, in pericolo di morte,
dopo aver ucciso il soldato egiziano (Es 2, 1 1 s) ; 3) il ritorno di Gesù nel
suo paese che inaugura il ministero di Gesù, l'inviato di Dio; questo ri
torno è quindi profondamente solidale con le sventure del suo popolo
(cf. M t 8 , 1 7 ; 11 , 28-30), fin nella violenza subita dai più piccoli fra loro
e alla quale, nella logica del racconto di Matteo, egli sfugge solo prov
visoriamente.
Perciò Gesù, fm dall'inizio della sua vita, è doppiamente segnato
dalla violenza: violenza al tempo stesso originaria (è iscritta nel cuore
stesso della sua genealogia) e secolare (in lui si ripete il tema vetero
testamentario della rivolta contro l'inviato di Dio) . Attraverso questo
racconto dell'infanzia, Matteo vuole certamente ricordarci che l'incar
nazione non è una parola teologica senza effetto sulla realtà. Da que
sta convinzione - per i primi cristiani, Dio in Gesù si è dimostrato so
lidale con ciò che costituisce la condizione umana - Matteo trae tutte
le conseguenze: Gesù viene coinvolto in tutto ciò che costituisce la no
stra condizione umana e segnato in particolare, suo malgrado , da quel
la violenza nativa contro la quale noi tutti, volenti o nolenti, dobbiamo
combattere e dalla quale dobbiamo imparare a liberarci.
120
to»; v. 34: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla ter
ra; sono venuto a portare non pace, ma spada»). Il rifiuto del Vangelo
e la violenza che provoca nei suoi avversari vengono motivati teologi
camente: Cristo è oggetto di scandalo . Rivendica tutto l' essere umano
e provoca quindi odio e discordia. Così l'odio che si attirano i discepo
li non è semplicemente frutto del caso o della cattiveria degli altri. Es
so è, più profondamente, il risultato della separazione che opera il Van
gelo : bisogna abbandonare le proprie sicurezze e le proprie certezze
per seguire Cristo, e questo è oggetto di scandalo per tutti gli uomini,
sia giudei che pagani (cf. vv. 34-38).
In Mt 1 4 , 1 - 1 2 , l'evangelista riferisce la morte violenta di Giovanni
Battista. Questo omicidio deve essere interpretato nel quadro della vio
lenza che la venuta del Regno suscita nell'uomo. Giovanni Battista è la
figura del profeta messo a morte perché, in nome di Dio, interpella i
potenti. In questo senso, la violenza che subisce annuncia quella che
·
subirà Gesù. Lo stesso Matteo lo attesta in modo esplicito : «Ma io vi di
co: Elia è già venuto e non l'hanno riconosciuto; anzi hanno fatto di lui
quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell'uomo dovrà soffrire
per opera loro . Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di
Giovanni il Battista» (Mt 1 7 , 1 2- 1 3) .
121
o pagano) di fronte alla parola del predicatore del Regno dei cieli. Ge
3s P. BENOIT, L'Éuangile selon Saint Matthieu, Cerf, Paris 1 950, 78, nota b. In un sen
so vicino, DEWRME - DoNEGANJ, L'Apocalypse de Jean, 1: Chapitres 1 · 1 1 , 1 3 , nota 2: «Il
regno "subisce violenza" da parte di tutti coloro che, quale che sia il loro grado di mo
ralità o la loro purezza legale, forzano la sua porta d'ingresso: «In verità, io vi dico che
i pubblicani e le prostitute vi precedono nel Regno di Dio».
36 G. HIIFNER, «Gewalt gegen die Basileia? Zum Problem der Auslegung des "Stiir
merspruches" Mt 1 1 , 1 2», in Zeitschrift fiir die Neutestamentliche Wissenschaft
83(1 992), 2 1 -5 1 .
3 7 J . JEREMJAS, Théologie du Nouveau Testament, Cerf, Paris 1975, 1 44 [tr. it. : Teo
logia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1 972].
38 G. THEJSSEN, «Le mouvement de Jésus, une révolution charismatique des valeurs»,
in Histoire sociale du christianisme primitif, Labor et Fides, Genève 1 996, 7 1 -90, cf. 88-
90. Ugualmente, «Jiinger als Gewalttiiter (Mt 1 1 , 1 2f ; Lk 1 6 , 1 6)», in Studia Theologica
1 49(1995), 1 83·200.
122
verebbe);39 2) nei termini dell'apocalittica ebraica, la lotta delle forze
del male (Satana e i suoi rappresentanti terreni, cioè Erode, che ha fat
to arrestare e poi uccidere Giovanni Battista, e, in seguito , le autorità
giudaiche e romane, che mettono a morte Gesù) contro il Regno di Dio
e i suoi inviati . In altri termini, la sofferenza di Giovanni Battista e di
Gesù dopo di lui viene interpretata nei termini della tribolazione esca
tologica degli ultimi giorni. 40
Nel contesto del Vangelo di Matteo, e alla luce di ciò che ho detto
riguardo alla forte presenza della violenza contro gli inviati di Dio, si
può interpretare il passo come una metafora della sorte riservata pri
ma a Giovanni Battista e poi a Gesù: nella loro persona, è lo stesso Re
gno di Dio ad essere preso d'assalto e a subire violenza. Qui i violenti
sono coloro che mettono le mani sugli inviati di Dio per impossessar
si di un bene che non appartiene a loro (cf. Mt 2 1 , 3 8). È in corso Wla
battaglia apocalittica fra Dio e le forze del male. A partire da Giovan
ni Battista, il nuovo eone è alle porte (cf. Mt 3 , 1 ) e l'opposizione è al
parossismo. Giovanni Battista è in prigione (sarà ben presto ucciso) e
la sorte che attende Gesù non è diversa. Perciò la violenza è costituti
va anche della prossima venuta del Regno di Dio . Infatti quest'ultimo
suscita, negli oppositori, Wla violenza omicida. Qui continua la tradi
zione profetica: il rifiuto e, a volte l'uccisione, dell'inviato di Dio che
provoca la collera e il giudizio di Dio sul suo popolo . In questo conte
sto si potrebbe ascoltare l'altra parola di Gesù che ho ricordato all'ini
zio di questa parte e sulla quale ritornerò più avanti: «Non crediate che
io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pa
ce, ma spada» (Mt 10, 34). Gesù sottolineerebbe quindi che la sua pa-
39 O . Cull.MANN, Dio e Cesare: il problema dello stato nella Chiesa primitiva, Edizioni
di Comunità, Milano 1957, 29-30: Dobbiamo «pensare piuttosto a della gente simile al
capo zelota Giuda ... senza dubbio questa parola non racchiude solo un biasimo: Gesù ri
conosce che simili persone si danno premura per il Regno di Dio, ma disapprova il loro
modo di agire, perché il Regno di Dio non può essere preso con la forza umana, né sa
rà instaurato come regno politico».
4° Così, con varianti nei dettagli, N. PERRIN, Rediscovering the Teaching of Jesus.
SCM Press-Harper & Row New York·London 1 967, 74-75; W. D . DAVIES - D.C. ALusoN,
Matthew, T & T Clark, EdiNmurgh 1 9 9 1 , II, 256; S. LLEWELYN, «The Traditionsgeschich·
te of Matt. 1 1 : 1 2- 1 3 . par. Luke 1 6 : 1 6». in Novum Testamentum 36(1 994], 330-349; que
sto autore propone anche un suggestivo accostamento con la parabola dei vignaioli omi
cidi, che sarebbe stata, originariamente. un'illustrazione di questo logion.
123
rola suscita opposizione e violenza da parte di coloro che la rifiutano,
perché vi leggono la loro messa in discussione. In questo senso, la buo
na novella divide e suscita una forma di violenza. Per Matteo, il perio
do che inizia con Giovanni Battista e termina con Gesù è il periodo del
la fine, quindi quello di una violenza che raggiunge il parossismo.
Concludo questa prima parte, dedicata alle costatazioni. Attraver
so la genealogia e il racconto dell'infanzia, Matteo sottolinea che la vio
lenza è costitutiva dell'esistenza storica di Gesù per il fatto di apparte
nere a una discendenza umana caratterizzata dalla violenza e dall'as
sassinio. A questa violenza comune a ogni destino umano, si aggiun
ge, per Matteo, la violenza suscitata dalla proclamazione della vici
nanza del Regno di Dio. Questa proclamazione, che interpella l' uomo
nelle sue certezze e nella sua sufficienza, suscita il rifiuto e l'odio nei
riguardi dell'inviato di Dio ed è quindi fonte di conflitto e di violenza.
124
- Mt 1 8 , 2 3 - 3 5 , parabola del debitore spietato (cf. v. 34: «E nella sua col
lera, lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse rimborsato tutto
il suo debito»).
- Mt 2 2 , 1 1 - 1 4 , parabola degli invitati al banchetto nuziale (cf. v. 7 : «Al
lora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassi
ni e diede alle fiamme la loro città»; cf. anche v. 1 3 : «Legatelo mani e
piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»).
- Mt 23, invettive contro scribi e farisei (cf. le sette maledizioni, di una
rara violenza verbale; così, v. 33: «Serpenti, razza di vipere! Come po
trete sfuggire alla condanna della Geenna?»).
- Mt 2 5 , 14-33, parabola dei talenti (cf. v. 30: «E questo buono a nulla
sia gettato fuori nelle tenebre : là sarà pianto e stridore di denti»).
- Mt 2 1 ,33-45, parabola dei vignaioli omicidi. La violenza retributiva
raggiunge qui il suo parossismo. La parabola dei vignaioli omicidi è at
traversata, da un capo all'altro , dal tema della violenza omicida di co
loro che vogliono impadronirsi dell'eredità che non appartiene a loro.
Qui l'omicidio è il gesto ultimo mediante il quale si tenta di diventare
proprietari della vigna. Allora la violenza genera violenza: il padrone
della vigna viene a punire i miserabili facendo subire loro la sorte che
essi hanno fatto subire al figlio.42
42 Qui bisogna tuttavia ricordare che la parola violenta del v. 4 1 («Quei malvagi, li
farà morire miseramente») non è di Gesù, ma degli avversari che rispondono alla do
manda che pone loro sul comportamento atteso dal padrone della vigna.
125
·
e ssere assimilati direttamente a Dio. Ne sono solo delle rappresenta
zioni approssimative. Più profondamente, le parabole rinviano il letto
re alle sue immagini di Dio e al modo in cui le utilizza. Così la cosid
detta parabola del «debitore spietato» (Mt 1 8 , 23-35), nella quale que
st'ultimo non si considera perdonato43 e non può quindi perdonare
l'altro : al termine, è giudicato dal «dio» che immagina . Lo stesso nel
la cosiddetta parabola dei talenti (Mt 2 5 . 1 4-30): il «servo malvagio» è
valutato in base all'immagine che si fa del suo maestro. Poiché lo con
sidera un padrone severo e ingiusto (cf. v. 24: «so che sei un uomo du
ro» . . . ). sarà giudicato in base all'immagine che ne ha!
- In diretto collegamento con ciò che precede, la cornice narrativa
nella quale Matteo inserisce alcune parabole di giudizio è fondamen
tale nella comprensione che se ne può avere. Così, in Mt 1 8 , la para
bola del debitore spietato (vv. 23-35) è preceduta dalla parabola del
buon pastore (vv. 1 2- 1 4): l'immagine del re misericordioso ma dalla
giustizia temibile non richiede forse di essere interpretata a partire da
quella del pastore pazzo d'amore per le sue pecore?44 Anche in questo
caso, la domanda posta al lettore è quella dell'immagine del Dio nel
quale pone la sua fiducia: è più vicino al re giusto e temibile o al buon
pastore che cerca la sua pecora perduta?45
- Nella tradizione veterotestamentaria, la funzione del linguaggio
del giudizio resta l'appello al pentimento . Così il Gesù matteano si col
loca nella grande tradizione profetica.46 Inoltre, si è dimostrato47 che
la minaccia del giudizio divino non riguarda solo Israele o gli incredu-
43 Come si evince dal «pagherò tutto» del v. 26. La promessa non può essere man
tenuta (il debito è enorme: cf. v. 24), per cui l'atteggiamento del servo è falso: non spe
rimenta il perdono, ma crede di essere riuscito a piegare il suo padrone con una pro·
messa che sa di non poter mantenere.
44 Allo stesso modo la parola di esclusione di 1 8 , 1 7 dovrebbe essere interpretata al
la luce dell'episodio di Mt 9 , 1 0.
45 Evidentemente le immagini di Dio che abbiamo in noi sono diverse e ambigue.
La sfida consiste allora nel lasciarsi sloggiare da alcune di esse: le parabole mirano a
questo.
46 Per J. ZuMSTEIN, «Violence et non-violence dans le Nouveau Testament», in Miet
tes Eségétiques, Labor et Fides, Genève 1 991 . 355·368. le maledizioni «hanno lo scopo
di mettere in guardia i loro destinatari dalla possibile esclusione dalla salvezza escato
logica». Quest'opinione ci sembra esatta, ma ci sembra perlomeno discutibile sostenere
che queste stesse maledizioni «non riguardano direttamente la problematica» della vio
lenza (p. 356, nota 2).
47 Particolarmente, e in modo convincente, da MAHGUERAT, Le jugement.
126
li, ma anche figure del racconto dietro le quali membri della comunità
matteana si possono riconoscere (il debitore spietato , l'invitato al ban
chetto nuziale . . . )
.
48 La redazione del Vangelo di Matteo viene collocata abitualmente attorno agli an
ni 80-90. In questo contesto storico, quali che siano i legami precisi fra la comunità
matteana e il giudaismo del suo tempo (rottura consumata o meno), la violenza delle
affermazioni del Gesù di Matteo si può spiegare con l'asprezza del conflitto che oppo
ne l'evangelista ai suoi correligionari. Con la sua asprezza, questo conflitto ricorda quel
lo che oppone i settari di Qumran al culto ufficiale di Gerusalemme. Su tutte queste que
stioni, vedere, ad esempio, G.N. STANTON, A Gospel/or a New People, T & T Clark. Edin
burgh 1992.
127
la parabola dei vignaioli omicidi) diventa il luogo in cui, in Matteo, Ge
sù accetta di liberarsi dal bisogno della violenza e della vendetta, non
solo negli atti, ma anche nelle parole.
Questo rifiuto da parte di Gesù di una contro-violenza, di un ap
pello alla vendetta, avviene in tre tappe. Anzitutto, al Getsemani (Mt
26, 36-45), il Gesù matteano accetta di subire la violenza, sottomet
tendosi alla volontà del Padre (cf. v. 39). Poi, in occasione dell'arresto
(Mt 26,47-56) - episodio proprio di Matteo (26 , 5 1 -56) -, Gesù accetta
di non fare intervenire la forza divina e anche di non rispondere alla
violenza con la violenza: è l'incidente nel corso del quale una perso
na vicina a Gesù colpisce il servo del sommo sacerdote , provocando
un intervento assolutamente non ambiguo di Gesù: «Rimetti la tua
spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spa
da moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che met
terebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (cf.
Mt 26, 5 1 -53). Infine, quando Gesù muore (Mt 2 7 , 45-50), muore con
lui, e per lui, un'immagine di Dio. Più precisamente, un'immagine di
Dio lo abbandona. Non è forse così che si potrebbe interpretare il fa
moso grido di Gesù: «Dio mio , Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(v. 46). Sul Calvario, muore il Dio della vendetta e della retribuzione.
Forse lo strappo del velo del Tempio (v. 5 1 ) ne è un segno narrativo:
ormai l'antico sistema sacrificale, basato sulla riparazione violenta
della colpa, è abolito .49
Qui si devono aggiungere quattro osservazioni complementari.
È interessante constatare che, tranne una notevole eccezione (la
parabola dei vignaioli omicidi), le numerose parole di Gesù che an
nunciano il giudizio di Dio non sono legate alla prospettiva della sua
morte ormai imminente. Anche i logia del Figlio dell'uomo come de
positario del giudizio divino, molto numerosi in Matteo, non stabili
scono alcun legame fra questo giudizio e la morte di Gesù (cf. Mt 1 3 ,41 ;
1 6, 2 7 , cf. anche Mt 24-25). Meglio ancora, i logia sul Figlio dell'uomo
sofferente non sono mai accompagnati da un annuncio del giudizio.
L'unica eccezione è Mt 26,24 (maledizione contro Giuda), che si rea
lizza, nel racconto, in Mt 2 7 , 3 - 1 0 .
49Non è forse privo d i importanza i l fatto che Matteo metta due volte In bocca a Ge
sù citazione di Os 6.6: «Voglio la misericordia e non il sacrificio". Tutto avviene come
la
se il ministero in Galilea preparasse ciò che la croce rivelerà.
128
Si è osservato, 5° in Matteo, un contrasto particolarmente sorpren
dente fra l'importanza attribuita alle parole di Gesù nel corso del suo
ministero terreno e il suo silenzio durante il racconto della Passione.
Questo passaggio dalla parola violenta dei discorsi profetici (cf. , in par
ticolare, Mt 23 e 24-2 5) al silenzio di colui che viene consegnato alla
violenza degli uomini è un segno narrativo del cambiamento che in
terviene: «Alla figura del profeta che lotta contro le potenze ideologi
che succede quella del profeta abbattuto da queste stesse potenze , ri
dotto al silenzio». s i
I: abbandono di Gesù da parte di Dio, la fine di un vecchio sistema
(lacerazione del velo del Tempio) e la confessione di Gesù come «Figlio
di Dio» (cf. 2 7 , 54) sono proposti, da Matteo, nel quadro di un'inter
pretazione apocalittica della croce e della risurrezione. Questo quadro
apocalittico è sottolineato , nella narrazione, dalle tradizioni relative al
terremoto, all'apertura delle tombe e alla risurrezione dei santi che
escono dai sepolcri il mattino di Pasqua, che Matteo - e lui solo fra i
quattro evangelisti - inserisce nel racconto della morte di Gesù (cf. Mt
2 7 , 5 1 b-53).52 Ormai è giunto ciò che la predicazione di Giovanni Bat
tista e di Gesù lasciava intravedere (cf. Mt 3 , 2 e 4 , 1 7). Per Matteo, la
morte di Gesù e la sua risurrezione sono il luogo di un ribaltamento:
termina il vecchio eone e comincia il nuovo eone. 53 In un certo senso,
il giudizio è già avvenuto.
Perciò è degno di nota il fatto che il Risorto non pronunci alcuna
parola di vendetta o alcun appello al giudizio. Più che del risentimen
to, della retribuzione contro i colpevoli o dell'appello al giudizio di Dio,
il Risorto si preoccupa di «fare dei discepoli» (cf. M t 2 8 , 1 6-20). Si può
interpretare questo cambiamento a partire dall'osservazione prece-
5° Così, sulla scia di altri, F. VouGA H. Morru, «La Passion de la Parole. Jésus, pro
-
5 2 Su questo passo, cf. R.E. BaoWN, La morte del Messia. Un commentario ai rac
conti della Passione nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia 1 999, 1 26 1 - 1 278.
53 Nello stesso senso, S. L�GASSB, Le procès de Jesus, Cerf, Paris 1 995, Il, che parla,
a p. 292, dei «segni del passaggio a una nuova era». Ugualmente, A.G. VAN AAana, «Mat
thew 27:45-53 and the Turning of the Tide in lsrael's History», in Biblica/ Theology Bul
letin 28(1 998), 1 6-26, cf. bibliografia, pp. 24-26.
129
dente: se è vero che, nella sua morte e nella sua risurrezione, il giudi
zio ha già avuto luogo , allora il Risorto non è colui che lo annuncia.
Concludendo questa parte, sintetizzo i principali risultati della mia
analisi. In un primo tempo, Gesù fa appello a un giudizio che chiede a
Dio, a una violenza divina che riflette indubbiamente la sua. Al Getse
mani, accetta la volontà del suo Dio e si abbandona così alla violenza
degli uomini. Sulla croce è il suo stesso Dio ad abbandonarlo: «Dio mio ,
perché mi hai abbandonato?». Quest'abbandono da parte del suo Dio
segna, in Gesù, la fine di una certa comprensione di Dio. Rilette nel
quadro della presentazione apocalittica di Matteo, la morte e la risur
rezione di Gesù possono essere interpretate non solo come fine della
violenza in Dio (o fine di un'immagine violenta di Dio), ma anche co
me fine del sacrificio (cf. la lacerazione del velo del Tempio), inteso co
me sistema di riparazione violenta della colpa: nell' evento pasquale,
comincia un' epoca nuova, nella quale non hanno più corso il vecchio
ordine delle cose e la sua logica. Ormai il giudizio annunciato è avve
nuto, per cui il Risorto non è più colui che lo annuncia. Rimane co
munque da interrogarsi, cosa che farà Jean-Daniel Causse nel prossi
mo capitolo , sulle ragioni per le quali, nella storia del cristianesimo, la
morte di Gesù continua a essere interpretata attraverso il registro del
sacrificio «sostitutivo» .
130
su di esso e sui suoi discendenti ( 2 7 , 2 5). L'omicidio chiama l'omicidio,
il sangue chiama il sangue . Predomina ancora la legge del taglione, la
legge del sangue.
C'è tuttavia un'altra interpretazione proposta dalla voce di Gesù,
ma del Gesù in cammino verso la sua Passione e non più del Gesù del
le invettive di Mt 2 3 : in occasione dell'ultima cena, Gesù annuncia che
il suo sangue diventa il sangue versato per la moltitudine e per il per
dono dei peccati (Mt 26,28). Non si vendica più questo sangue, ma lo
si riceve come segno di alleanza e di perdono. Fra Mt 2 3 , 3 0 . 3 5 e Mt
26,28 si assiste a un vero spostamento : il sangue non cade più come
una maledizione, ma diventa segno di perdono.
In una di queste numerose opposizioni che gli sono familiari (cf. Mt
5 , 1 9 contro Mt 1 1 , 1 1 ; Mt 5 , 2 2 contro Mt 2 3 , 1 7 ; Mt 1 0 , 5b-6 contro Mt
2 8 , 1 9 ; Mt 2 3 , 3 5 contro Mt 26,28 . . . ), Matteo rivela un Gesù alle prese
con la contraddizione che svela, in cammino verso Gerusalemme e ver
so la morte, il pieno significato del suo vangelo . In questo contesto spe
cifico del primo vangelo, non è certamente privo di significato il fatto
che la fin troppo nota parola del popolo: «Noi prendiamo il suo sangue
su di noi e sui nostri figli» (Mt 2 7 , 2 5) sia preceduta dall'annuncio che
questo stesso sangue è segno di perdono (Mt 26,28). In altri termini,
nella mente di Matteo, resta aperta una porta, perché ogni membro di
questo popolo possa «prendere su di sé» questo sangue in un modo
nuovo : come segno di perdono e non più di giudizio.
Concludendo questa parte, raccolgo i principali risultati della ricer
ca. Nella tradizione veterotestamentaria, il sangue versato ingiusta
mente richiede riparazione, il che suppone il versamento in cambio del
sangue del colpevole. Nel Vangelo di Matteo, specialmente nel capito
lo 23, Gesù si richiama a questa logica retributiva per pronunciare la
condanna sugli scribi e sui farisei. Ma, nel corso dell'ultima cena, que
sta logica viene infranta: il sangue di Gesù non è più il sangue che si
vendica, ma diventa segno di alleanza e di perdono . Nella configura
zione narrativa del Vangelo di Matteo, il significato che Gesù attribui
sce alla coppa condivisa con i suoi discepoli (Mt 26,28) è la possibilità
offerta di un nuovo rapporto con il sangue versato, di cui Giuda, a cau
sa della precedente maledizione di Gesù - cf. Mt 26,24 non può be -
131
Il Discorso sul monte : nuovo discorso su Dio
132
Nel discorso sul monte, e in modo programmatico, come dimostre
rà, anche in questo caso, Jean-Daniel Causse nel capitolo seguente, il
Gesù matteano rompe con la logica della violenza. La parola che allo
ra pronuncia è veramente Parola di alterità, in quanto enuncia l'inau
dito, un inaudito che non si confonde totalmente con ciò che il Gesù
terreno mostra di se stesso nel seguito del suo ministero in Galilea. Il
discorso sul monte anticipa ciò che si realizzerà pienamente nella Pas
sione di Gesù. Il rifiuto di prendere la spada, al momento dell' arresto,
indica che si preferisce l'azione della Parola a quella delle armi. La
morte in croce è il luogo in cui Gesù attua, fino in fondo alla sua logi
ca, la parola inaudita del discorso sul monte. Al Golgota, Gesù viene ri
velato veramente come il «Figlio di Dio» che spezza la logica della vio
lenza e offre un luogo in cui scoprire quel nuovo volto del Padre che il
discorso sul monte annunciava.
Nella quarta antitesi del discorso sul monte (Mt 5 , 3 8-42), il Gesù
matteano affronta la questione del taglione. Anzitutto, ne reitera la re-
1 33
gola (v. 38) che, ricordiamolo , segna un progresso nelle relazioni wna
ne rispetto a una pratica consistente nel farsi giustizia da sé con una
vendetta che oltrepassa, in violenza o in danni, il pregiudizio inizial
mente arrecato (cf. , ad esempio, la storia di Dina vendicata dai suoi
fratelli in Gen 34) . Poi, nei vv. 39-42, Gesù invita a superare la legge
del taglione con affermazioni di una radicalità che fa letteralmente vio
lenza alla logica della retribuzione normalmente in vigore nelle socie
tà umane. È così che deve essere compresa la proposizione che invita
a «porgere l'altra guancia»: lungi dall'essere un gesto di sottomissione
servile mediante il quale la persona si sottomette alla volontà arbitra
ria dell'avversario, è, al contrario, un atteggiamento energico e volon
tario con il quale la persona cambia radicalmente atteggiamento (non
risponde all'aggressione con un'analoga aggressione), invitando così
l'avversario a cambiare il modo in cui vede se stesso e l' altro . Si trat
ta di destabilizzarlo , per vincere in lui la pulsione originaria che lo por
ta a rispondere alla violenza fisica con una violenza simile . Il seguito
dell'affermazione deve essere inteso in base alla stessa logica, quella
che consiste nell'adottare una posizione che mira a cambiare la rela
zione dell'altro con la realtà attraverso una profonda messa in discus
sione della sua comprensione del mondo. La logica è quella del rifiuto
della specularità e dell'«effetto specchio». Lungi dall'essere non vio
lenta, la logica «dell'altra guancia» contiene una forma particolare di
violenza, nel senso di un appello a una forza della Vita che si erge con
tro la violenza bruta del «colpo per colpo», che è quella del taglione.
Perciò il Regno di Dio che nasce da questa possibilità offerta di una
nuova comprensione dell'esistenza (cf. 5 , 20) suppone una violenza fat
ta alla logica del mondo.
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono ve
nuto a portare non pace, ma spada (lett . : «un coltello»). Sono infatti ve
nuto a separare l'uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuo
ra da sua suocera; e nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa»
(Mt 10, 34-36).
Ho già ricordato questo passo , sottolineando che dimostra indub
biamente l' opposizione alla predicazione di Gesù e quindi la violenza
che essa suscita. Ma devo fare un altro passo, suggerito dalla costa
tazione che i conflitti di cui qui si tratta riguardano unicamente le re-
134
!azioni familiari. Il passo, che si trova nel cuore del discorso missio
nario, si apre con un'antitesi che contesta l'idea di un messia che por
ta la pace, un'immagine frequente nei testi del giudaismo dell' epoca.
Ricordiamo che, nelle tradizioni apocalittiche, l'era messianica dove
va essere preceduta da un tempo di tribolazione, di cui le divisioni fa
miliari erano uno dei segni più caratteristici (cf. Mt 1 0 , 2 1 ) . Qui si mo
stra chiaramente che le divisioni familiari non precedono la venuta
del Messia, ma ne sono la conseguenza: Gesù porta la divisione nella
famiglia e non la pace messianica attesa. Bisogna prestare attenzione
al termine greco (pcixarpa) , che le nostre traduzioni rendono abitual
mente con «spada» . In realtà, non si tratta tanto della spada del sol
dato quanto piuttosto della spada corta di cui ognuno poteva usare
nella vita quotidiana, di quello che oggi chiameremmo un coltellaccio
o un coltello . Perciò Marie Balmary56 si chiede: «A che serve il coltel
lo, che cosa fa quando agisce in questo testo? » . 57 Risponde : il coltello
non serve a uccidere, ma a «fare due», a separare una persona da
un'altra. Questa separazione interviene giustamente là dove c'è il ri
schio che due facciano solo uno (l'uomo e suo padre, la figlia e sua
madre) . In altri termini, il figlio farebbe uno con il padre, «non di
venterebbe figlio, ma il-medesimo-del-padre , resterebbe non separa
to» . 58 Del resto, questo coltello non separa solo in seno alla famiglia
originaria, ma anche fra adulti, nella famiglia del coniuge. Allora la
prescrizione di 2 , 2 4 («Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua ma"
dre e si unirà a sua moglie») acquista tutto il suo significato e può rea
lizzarsi pienamente : se il coltello ha fatto il proprio lavoro di separa
zione, non si corre più il rischio che l'uomo possa essere ricondotto
nel grembo della madre dalla moglie (che farebbe una cosa sola con
la suocera) . Ogni essere umano e ogni coppia può esistere e realizzarsi
singolarmente, separata dal rischio di una fusione letale con la pro
pria famiglia d' origine o di adozione. Qui è in gioco tutta la questione
dell' alterità . Ora questo processo vitale per ogni essere umano non
può realizzarsi con dolcezza: c'è una «violenza» , quella della separa
zione, necessaria per la stessa possibilità della vita, dell'esistenza di
un soggetto (come una nascita suppone una separazione dal ventre
1 35
della madre , separazione che non avviene senza violenza, sia per la
madre sia per il bambino). 59
Qui bisogna affrontare un ultimo punto: come coniugare la figura
di un Gesù che non porta la pace ma la separazione e la beatitudine
proclamata da questo stesso Gesù in 5,9: «Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio». Questa tensione interna alla nar
razione matteana invita a ripensare la nozione di pace: la pace di cui
si tratta nella settima beatitudine non evita una separazione, una frat
tura fra la logica del mondo e quella del Regno. Del resto, questi ope
ratori di pace vengono dichiarati «figli di Dio», cioè persone apparte
nenti a una nuova famiglia che non proviene più dalle filiazioni e dal
le genealogie umane che la spada o il coltello del Cristo matteano di
vide in modo salutare.
Conclusione
59 È in questa direzione che bisogna interpretare la parola violenta di Gesù nel Van
gelo di Luca: «Se uno viene a me e non odia suo padre. la madre. la moglie, i tigli, i fra
telli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Le 1 4,26); su
questo passo, cf. C. SINGER, «La difficulté d'etre disciple: Luc 1 4/25-35», in Études Théo
logiques et Religieuses 73(1 998), 2 1 -36.
136
perdono (Mt 26,28) di cui i discepoli si faranno ormai banditori (Mt
28 , 1 6-20) .
Comunque la buona novella proclamata da Gesù contiene una di
mensione violenta. ma si tratta di una violenza molto particolare. per
ché è la violenza che ingaggia una lotta per la Vita. Ogni nascita, fisi
ca o spirituale. suppone un passaggio, una rottura, un abbandono,
quindi, in un modo o in un altro, una violenza: bisogna separarsi o dal
la fusione originaria, dal bozzolo protettivo, o dalle catene che impri
gionano e impediscono di vivere; , in breve, bisogna forzare il passag
gio, liberare la potenza della Vita che legami letali vogliono impedire
di schiudersi e fiorire . La predicazione di Gesù di Nazaret è una bat
taglia a favore di questa risurrezione. Essa contiene quindi intrinseca
mente una parte di violenza: quella della Vita in continua lotta contro
le potenze di morte.
137
Capitolo quarto
lA RELIGIONE
DELL'AMORE :
UNA RIS OLUZIONE
DELIA VIOLENZA DIVINA?
Jean-Daniel Causse
139
sa hanno costantemente combattuto quella che era, a loro avviso, un'e
resia e sostenuto l'unità della rivelazione biblica.
Il problema della violenza si pone nel cristianesimo come in altre
religi oni. Certo , nel cristianesimo la questione appare in un modo par
ticolare e, come vedremo, piuttosto insolito, ma il Dio violento non ha
solo un volto . Troviamo, ad esempio, nel Nuovo Testamento, le beati
tudini che proclamano «beati i miti>», o «beati gli operatori di pace»», o
anche «beati i perseguitati per la giustizia»» (cf. Mt 5 , 1 - 1 0) . Ma, nono
stante un testo così emblematico e il posto che occupa nella tradizione
cristiana, con la fede evangelica si sono giustificati atti estremamente
violenti: crociate, inquisizione, persecuzioni dei non cristiani, costri
zioni ideologiche, ecc. Già Freud aveva sottolineato che con l'amore
cristiano si era sostenuto l'odio del prossimo: « È sempre possibile ri
unire anche un numero rilevante di uomini che si amino l'un l'altro fin
tanto che ne restino alcuni per la manifestazione dell'aggressività».2 E
aveva aggiunto: «Poi che l'apostolo Paolo ebbe posto l'amore univer
sale fra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era ine
vitabile sorgesse l' estrema intolleranza della cristianità contro coloro
che rimanevano al di fuori» . 3 Si sottolineerà giustamente, da un pun
to di vista storico, una confusione nefasta fra il potere secolare e il po
tere religioso e l'uso dell'uno a vantaggi o dell' altro. Resta comunque
un dispositivo di legittimazione religiosa della violenza e quindi il fat
to inevitabile che la confessione cristiana non ha come effetto diretto
la fine di un'immagine violenta di Dio e del credente. La realtà è deci
samente più ambivalente. Ad esempio, ci si è potuti servire, in modo
perverso, della croce, che simboleggia, come ha mostrato É lian Cuvil
lier, il Cristo che subisce la violenza umana, per legittimare atti violenti
compiuti in nome di Dio. In quest'ultimo capitolo del libro , riprendo
questa relazione complessa fra il cristianesimo e la violenza di Dio, ri
flettendo specialmente sul Dio d 'amore proclamato dal cristianesimo e
sulla morte di Gesù, interpretata da una parte della tradizione cristia
na in termini di sacrificio . Così, al termine della mia riflessione, potrò
indicare le risorse interne al cristianesimo per combattere certi aspet
ti della violenza divina.
2 FREUD, «D disagio della civiltà (1929)», in Opere, Boringhieri, Torino 1 978, X, 601 -602.
3 FREUD, «Il dis agi o della civiltà», 602.
1 40
L'amore cristiano di fronte alla filosofia di Nietzsche4
141
ni sono buoni, altri sono cattivi). ma mette in discussione i fondamen
ti della morale.6 Elabora una genealogia della morale per scoprire l'o
rigine dei valori ai quali noi ci riferiamo, il terreno sul quale sono na
tU Usando quest'immagine, possiamo dire che Nietzsche non si inter
roga sull'albero , ma sulle sue radici e sul suolo in cui cresce. Se il ter
reno è malsano, allora i frutti faranno male alla salute. Nietzsche vuo
le mostrare che il suolo dell'occidente giudaico-cristiano è malato , pu
trefatto, ma che questo male è nascosto . Si trova nelle radici; corrom
pe il terreno sul quale cresce l'albero , ma con una formidabile mistifi
cazione noi confondiamo continuamente frutti bacati con frutti sani e
pieni di vita. Chiamiamo «bene» ciò che è, in realtà, solo espressione
del nostro risentimento verso la vita, manifestazione delle nostre pau
re e delle nostre frustrazioni. Ora, come vedremo, la violenza non è
mai solo il sintomo della nostra debolezza e della nostra incapacità di
volere la vita. Non è una volontà di potenza, ma il suo contrario : è im
potenza, è ciò che Nietzsche indica con il termine «nichilismo».
In Genealogia della morale (1 887), Nietzsche elabora una tipologia,
delinea cioè delle figure paradigmatiche e quindi classifica dei modi di
esistenza. Si contrappongono due figure. Da una parte troviamo quel
.
lo che Nietzsche chiama «l'uomo del risentimento», o «l'uomo debole»,
o ancora «lo schiavo» . Non bisogna sbagliarsi sul significato di questi
termini: è sempre questo tipo d'uomo a trionfare e governare il mon
do. Come si definisce? La specificità dell'uomo del risentimento è quel
la di costruirsi su una modalità reattiua: incapace di accogliere la vita
nel suo splendore, nella sua complessità, nel suo mistero. nei suoi ri
schi, cioè, in definitiva, in tutto ciò che la compone, egli adotta un at
teggiamento di difesa verso tutto ciò che proviene dal di fuori e che gli
sembra strano, estraneo o diverso . È su questo piano che si colloca
1 42
l'opposizione nietzschiana fra il forte e il debole, il padrone e lo schia
vo. Infatti, dall'altra parte, troviamo quello che Nietzsche chiama «l'uo
mo forte» o «il padrone», l'uomo nel quale, secondo l' espressione di
Deleuze, «l'affermazione occupa il primo posto».8 Egli è capace di ac
cettare la vita come cambiamento , sofferenza, morte, sessualità, in
quietudine. Accoglie la vita con ciò che contiene di problematico e di
ambivalente, specialmente l'inestricabile mescolanza di amore e odio,
mitezza e violenza. Il debole invece è colui che rifiuta la vita, si protegge
da essa, la sfugge, la condanna e cerca di conservarla intatta. In que
sta prospettiva, la violenza altro non è che la manifestazione del risen
timento nei riguardi della vita. Essa traduce la volontà di vendicarsi da
una vita che non si dimostra mai all'altezza dei nostri sogni. È ciò che
Nietzsche chiama «ideale ascetico» e considera un atteggiamento leta
le mediante il quale la vita si ritorce contro se stessa. Scrive: «Una vi
ta ascetica è infatti un'autocontraddizione: domina qui un ressentiment
senza eguali, quello di in insaziato istinto e una volontà di potenza che
vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stes
sa, sulle sue più profonde, più forti, più sotterranee condizioni» .9 E più
avanti aggiunge che «l'ideale ascetico è uno strattagemma nella con
servazione della vita», cioè un dispositivo per tentare di ripararsi dal
tempo, dalla finitezza e dalla morte, quindi un modo di proteggersi da
tutto ciò che irrompe nell'esistenza e la altera. 1 0 In questo senso, l'atto
ascetico è una vera pulsione di morte, nel senso freudiano del termine,
cioè non un «voler morire», ma un desiderio di ritrovare, se fosse pos
sibile, una pienezza originaria che si suppone perduta.
La violenza del debole è quindi il frutto del suo risentimento nei ri
guardi della vita. Ma questa violenza non può sfogarsi direttamente,
perché non ne ha la forza o il coraggio. È la violenza dell'impotenza e
non della potenza, per cui · si esprime sempre scegliendo un percorso
indiretto. È l'impotenza o la debolezza a renderla ancora più temibile.
Così si può precisare l'operazione: il risentimento è creatore di mora
le grazie a un processo di rinomina. Si tratta di dare un nome nuovo
alle cose, non inventando parole, ma producendo una trasmutazione
semantica che è tanto più sottile per il fatto di riguardare dei valori. Co-
1 43
me trasformare meglio la «bassezza» in virtù che attribuendole un al
tro nome e giustamente un nome contrario, come quello di «nobiltà»?
La bassezza non cessa di essere bassezza quando viene chiamata no
biltà, ma, mediante una presa di potere, diventa un attributo virtuoso
e così la vera nobiltà viene considerata la peggiore delle cose. È attra
verso questo capovolgimento che la violenza, non potendo esprimersi
direttamente, trova il modo di eserCitarsi. Ad esempio, quando non ab
biamo il coraggio di affrontare l'altro, possiamo dire che pratichiamo
la carità cristiana, l'umiltà o la mitezza evangelica. Possiamo riferirei
al discorso sul monte e alla raccomandazione di Gesù ai suoi discepo
li di non resistere al male, di porgere l'altra guancia e anche di consi
derarsi «beati» quando si viene insultati o perseguitati. Per chi consi
dera l'atto solo in superficie, tutto sembra virtuoso. Ma la verità è com
pletamente diversa: noi vorremmo schiacciare l'altro, esercitare su di
lui il nostro potere, dominarlo, ma, avendo paura o sentendoci troppo
deboli, lo amiamo per debolezza. Siamo miti per semplice incapacità di
esercitare un potere. Questa mitezza non è tale, pur portandone il no
me e anche assumendone l'aspetto. La falsificazione consiste nel con
ferire un'apparenza di bene morale a questa mitezza o a questo amo
re, che è, in realtà, solo il prodotto del risentimento, al punto che, a vol
te, certi miti sono capaci di un'incredibile crudeltà quando vedono l'al
tro in uno stato di debolezza. Certi uccelli predatori si camuffano da co
lombe, perché si fanno schiavi nella speranza di diventare un giorno i
padroni e far pagare all'altro tutto ciò che hanno subito. Nietzsche non
smette mai di smascherare una violenza e un odio che operano sotto
copertura di virtù. Scrive, ad esempio : «E l'impotenza che non si pren
de la rivalsa, deve essere falsata in "bontà " , la timorosa abiezione in
"umiltà"; la sottomissione dinanzi a coloro che odiano in "obbedienza"
[ ]. L'inoffensività del debole, la stessa codardia di cui costui è ricco, il
...
suo stare alla finestra, il suo inevitabile dover aspettare, acquista ora
un buon nome, in quanto "pazienza", e viene altresì a significare la vir
tù stessa; il non potersi vendicare è detto non volersi vendicare, forse
addirittura perdonare ("giacché costoro non sanno quel che fanno" -
noi soltanto sappiamo ciò che essi fanno ! ) . Si parla anche dell'amore
verso i propri nemici - e intanto si suda». 1 1 Qui abbiamo quello che
144
Nietzsche chiama «l'odio dell'impotenza» o, potremmo dire, quella for
ma della volontà di potenza che, rinunciando alla vitalità che c'è in es
sa, aspira alla calma della morte. 1 2
Il lettore avrà compreso che l'uomo del risentimento non è privo di
violenza, ben al contrario. Egli conferisce piuttosto un'apparenza mo
rale alla sua violenza, manifestandola sotto una forma contraria. Pren
diamo l'esempio del perdono , considerato ·un atto virtuoso. Esiste cer
tamente un perdono che perdona veramente, senza secondi fini, senza
conservare nulla, ma esiste anche una forma di perdono che è espres
sione del risentimento. li perdono può essere semplicemente l'incapa
cità di vendicarsi. In realtà, questo perdono è una forma di vendetta
molto più raffinata rispetto a quella di farla pagare all'altro. Esso per
mette di sottometterei la persona che ci ha offeso in un modo molto più
duraturo, rendendola eternamente debitrice senza che possa mai libe
rarsi della colpa che ha commesso. Stranamente, in questo caso, il per
dono è un modo molto più crudele di esercitare la punizione e soddi
sfare la sete di potenza. La vendetta è tanto più temibile quanto più ve
ste i panni della virtù, della gentilezza, della mitezza evangelica. Que
sta forma di perdono intrattiene un debito che non può essere estinto.
Non ce ne si può mai liberare. Non si è mai finito di pagare per rim
borsare la misura infinita di questa forma di perdono o di amore. Il de
bito è tanto più terribile per il fatto di operare in base a una negazio
ne: essendo nascosto, non fa che aumentare tragicamente oltre ogni
misura. Volendo fare un altro esempio, la violenza può vestire i panni
della giustizia o del diritto. In Genealogia della morale, Nietzsche ana
lizza l'evoluzione della relazione fra la colpa e la punizione che, anche
codificata in una legge, riguarda comunque sempre un godimento de
rivante dalla sofferenza dell'altro. Nietzsche sottolinea che il danno
causato trova sorprendentemente la sua compensazione nel diritto con
ferito al creditore di far soffrire il debitore: «I:equivalenza è data dal
1 2 A proposito degli esseri deboli Nietzsche scrive: «Essi hanno osato, con una ter
rificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell'odio più abissale (l'o
dio dell'impotenza), questo rovesciamento, affermando "i miserabili soltanto sono i buo
ni: solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono i buoni. i sofferenti, gli indigenti. gli infer
mi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii, per i quali soli esiste una
beatitudine - mentre invece voi, voi nobili e potenti, siete per l'eternità i malvagi. i cru
deli, i lascivi, gli insaziati, gli empi e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledet
ti e i dannati! » (N!ETZSCHE, Genealogia della morale, l, § 7, 22-23).
1 45
fatto che al posto di un vantaggio in diretto equilibrio con il danno (al
posto dunque di una compensazione in danaro, terra, possessi di qual
sivoglia specie) viene concessa al creditore a titolo di rimborso e di
compensazione una sorta di soddisfazione intima - la soddisfazione di
poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria potenza su un essere
impotente, la voluttà di "fare il male per il piacere di farlo" , il piacere
di far violenza [. . ]. La compensazione consiste quindi in un mandato e
.
146
questa figura del divino non ha alcun tratto apparente del Dio violen
to; egli è «amore» , ma un amore che è, in realtà, un odio feroce del
mondo, di tutto ciò che è qui e ora. Questo Dio ama soltanto quello che
Nietzsche chiama un «retro-mondo», cioè un mondo costruito come la
figura capovolta del nostro mondo . Così il risentimento proietta un al
tro luogo, un «Regno di Dio», nel quale lo schiavo sarà ricompensato
per il suo rifiuto del mondo e otterrà la sua rivincita sul padrone. Que
sto capovolgimento della realtà in nome di un altro mondo più «vero»,
di un'eternità contrapposta all'illusoria temporalità, è uno strumento
sottile per soddisfare una crudeltà mascherata da giustizia divina. Dio
è un puro riflesso dell'uomo del risentimento: non potendo assumere
l'odio, lo maschera come amore e lo esercita attraverso i negatori del
la vita. Nella finzione del cielo , l'amore di Dio permette finalmente ai
deboli di godere della sofferenza dei forti, di soddisfare nell'eternità il
piacere della persecuzione come compensazione per la loro rinuncia
alla terra. Il testo nietzschiano lo enuncia con un'ironia pungente:
«Nella fede in che cosa? Nell'amore per che cosa? Nella speranza di
che cosa? Questi deboli - infatti, a un certo momento, anch'essi vo
gliono essere i forti, non v'è dubbio, a un certo momento deve venire
anche il loro "regno" - presso di loro si chiama né più né meno che
"regno d' Iddio " , come si è detto : sono invero così umili in tutto! Sol
tanto per fare esperienza di questo si sente la necessità di vivere a lun
go , oltre la morte - anzi si ha bisogno della vita eterna per poter al
tresì rifarsi eternamente, nel "regno d'Iddio " , di questa vita terrena
vissuta "nella fede, nell'amore, nella speranza" » . 16 E, un po' più avan
ti, Nietzsche ricorda, come per completare una dimostrazione, un te
sto di Tommaso d'Aquino, che mette in scena un paradiso nel quale,
in una sorta di godimento innocente e sadico, i santi ricevono la ri
compensa dei loro sforzi terreni assistendo alla sofferenza dei danna
ti: «Ma è meglio che ce lo attesti espressamente un'autorità indiscuti
bile in questa materia, Tommaso d'Aquino, il grande maestro e santo.
"Beati in regno crelesti" , dice costui con la mitezza di un agnello, "vi
debunt pamas damnatorum, ut beatitudo illis magis complaceat"».17
147
La volontà nichilistica di dominare la vita suppone una sofferenza per
sonale, ma essa non è priva della speranza di una ricompensa nella
quale la beatitudine si congiunge stranamente con il piacere di far sof
frire l'altro attraverso l'intervento del braccio divino. Interpretato in
questo modo, il desiderio di Dio come rinuncia a se stessi trova ripa
razione nella sofferenza inflitta ai vecchi padroni.
Perciò, per esercitare il suo odio e la sua crudeltà, l'uomo del ri
sentimento inventa una forma d'amore che gli permette, facendosi ga
rante della morale, anzitutto di condannare coloro che acconsentono al
carattere effimero degli esseri e delle cose , e poi, di appendere la sua
vendetta alla giustizia divina. Facciamo, con Nietzsche, un ulteriore
passo in quest'analisi: volente o nolente , anche l'uomo del risentimen
to resta sottomesso alla condizione umana. Qualunque cosa faccia, non
può sottrarsi al tempo, alla fugacità della gioia, all'alterità, alla morte,
all'incognito. Perciò , nonostante lo sfogo del risentimento, la sofferen
za resta presente e diventa allora oggetto di una seconda operazione,
che compie defmitivamente il programma nichilistico. Nietzsche fa in
tervenire quello che chiama il prete asceta che, da buon pastore qua
le è, dà un senso al «malessere» che prova la sua pecora malaticcia. Se
non basta riversare il proprio odio sull'altro , si può ancora rivolgerlo
contro se stessi imprigionandosi nel senso di colpa. Si può esercitare la
propria violenza sull'altro , ma si può anche ritorcerla contro se stessi.
Si può essere al tempo stesso carnefice per risentimento e vittima per
espiare la propria cattiva coscienza. Nietzsche immagina il dialogo che
unisce risentimento e cattiva coscienza: «"lo soffro: qualcuno deve
averne la colpa"» - così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pasto
re, il prete asceta, dice a essa: "Bene così, la mia pecora! qualcuno de
ve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu
ad averne la colpa - sei unicamente tu ad aver colpa di te stessa!"». 1 8
Attribuendo una causa al malessere provato, il prete asceta dichiara
che la colpa non è una colpa precisa, localizzabile, e quindi riparabile,
ma è una diffusa sensazione di essere colpevole, colpevole di essere in
serito nella finitezza e nella contingenza e quindi, in realtà, colpevole
semplicemente della propria umanità. Sono i molteplici segni della no
stra umanità in quanto tale a venir registrati come colpe e quindi co
me ciò che richiede una punizione, un'espiazione e una redenzione.
1 48
Il legame fra piacere e crudeltà, presente nel risentimento, non è
escluso da questo secondo momento strutturato dalla cattiva coscien
za. L'uomo trova la sua parte di godimento a sottomettersi al verdetto
del prete asceta. Nietzsche lo constata e, chiudendo l'analisi del con
cetto di colpa, giunge a questa conclusione, che illumina la violenza
con la sua luce cruda: «Una cosa d'ora innanzi sarà nota - non ne du
bito - vale a dire di quale specie è il piacere che prova il disinteressa
to, il negatore di se stesso, l'immolatore di sé: questo piacere rientra
nella crudeltà» . 1 9 Questo piacere crudele accompagna la trasformazio
ne del risentimento in cattiva coscienza. Ma si tratta ancora di un ef
fetto di falsa apparenza: se si tratta di straziare la propria condizione
umana, è, paradossalmente e segretamente, per non mancare di nul
la. Così si può rinunciare a molte cose, ci si può privare continuamen
te, ma, in realtà, per non rinunciare assolutamente a nulla. Come ho
sottolineato nel capitolo 2 a proposito del sacrificio della figlia di Iefte,
il sacrificio di sé e la violenza dell'autopunizione possono essere
espressione di un formidabile orgoglio e di un desiderio di potenza. Qui
troviam o ciò che Freud chiama «al di là del principio del piacere», cioè
il fatto che il dispiacere che si cerca, a volte persino la mortificazione
del desiderio che ci si infligge, contengono, in realtà, un grande godi
mento . Del resto, si può facilmente associare una dose di godimento
alla sofferenza che si prova. 20 È ciò che Nietzsche percepisce nella vo
lontà di occupare il posto di un oggetto umiliato per diventare perso
nalmente una divinità e collocarsi al di qua o al di là dell' esistenza in
un «retro-mondo». Nel 1 88 1 , in Aurora, egli aveva segnalato la divi
nizzazione prodotta dal sacrificio : «In verità, non sembrate tanto im
molarvi, quanto, invece, tramutarvi, col pensiero , in divinità e, come
tali, godere di voi stessi» . 2 1 Il lettore ricorderà il racconto della tenta-
19 NIETZSCHE, Genealogia della morale. II. § 1 8 , 78. E un po' più avanti aggiunge:
«Qui c'è malattia, non v'è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata tino a og·
gi nell'uomo - e chi ancora riesce a udire (ma oggi non si hanno più orecchie per que·
sto! -), come in questa notte di martirio e di assurdità ha echeggiato il grido amore, il
grido del più struggente rapimento, della redenzione nell' amore, si volge altrove, colto
da un raccapriccio incoercibile . . . Nell'uomo v'è tanto di terribile ! . . . Già troppo a lungo
la terra fu un manicomio! . . . » (NIETZSCHE, Genealogia della morale, Il, § 22, 83-84).
2° Cf. S. FREUD, «Au-delà du principe de plaisir ( 1 920)», in Essais de Psychanalyse,
Payot, Paris 1 9 8 2 , 4 3 - 1 1 1 (tr. it.: «Al di là del principio di piacere», in Opere, Boringhieri,
Torino 1 9 7 7 , IX).
2 1 F. NIETZSCHE, Aurora. Pensieri sui pregiudizi' morali, Adelphi, Milano 1 984, 1 60.
149
zione in Gen 3, nel quale, apparendo la con dizione umana come una
sventura e addirittura una colpa da cui dover guarire, il serpente mel
lifluo mormora «sarete come dèi» alla prima coppia, la quale non può
più fare a meno di odiare la sua umanità. Risentimento e cattiva co
scienza non sono nient' altro che odio della castrazione.
mente che esige tutto, vuole unicamente per sé tutto il nostro deside
rio, distrugge tutto ciò che potrebbe rendere la nostra gioia troppo
umana. A chiunque volesse sfuggire al suo amore implacabile, Dio op
pone la minaccia terribile della perdita assoluta, eterna [ . . .]. Scoperta
terribile: il Dio buono non è buono, ma crudele [ . . ]. Scoperta vietata:
.
150
crederci?) -, per amore verso il suo debitore».23 La violenza si nascon
de, prendendo il volto dell'amore e del sacrificio. Dio appare come una
madre che dicesse al suo bambino: «Con tutto ciò che ho fatto per te,
con tutto ciò che ti ho dato e ti ho sacrificato, come puoi farmi questo?».
Troviamo una concezione simile a quella di Nietzsche in Freud, quan
do pubblica, nel 1 939, quella che sarà la sua ultima opera: Mosè e il
monoteismo. Riprendendo la lezione di Totem e Tabù per continuarla,
Freud interpreta la morte di Cristo come l'atto religioso che permette
di espiare la colpa originaria dei figli colpevoli di aver ucciso il padre.
Il momento mitico che fa iniziare la storia dell'umanità con un assas
sinio ossessiona la memoria collettiva e fa sì che la colpevolezza sia
sempre reperibile per quanto si risalga indietro nella catena delle ge
nerazioni. Allora Freud attribuisce all'apostolo Paolo, facendone il fon
datore del cristianesimo, il fatto di aver compreso l'assassinio origina
rio nei termini del peccato originale. Spiega: «Con il peccato originale,
la morte era comparsa nel mondo . In realtà questo delitto, punibile con
la morte, era stato l'uccisione del Padre, in seguito deificato. Il fatto de
littuoso in sé, tuttavia, non era ricordato . Al suo posto , stava la fanta
sia di espiazione; ed è così che questa fantasia poté essere accolta co
me un Vangelo di salvazione (Evangelo) . Un Figlio di Dio, innocente, si
era sacrificato, e aveva così assunto per sé le colpe del mondo . Doveva
necessariamente essere un Figlio. perché il peccato era stato l'uccisio
ne del Padre».24 È così che la «religione del Figlio» succede alla «reli
gione del Padre», cosa che, agli occhi di Freud , costituisce al tempo
stesso un regresso e un progresso nella storia delle civiltà. Infatti, il cri
stianesimo, da una parte, non pratica l'ascesi spirituale dell'ebraismo,
specialmente il suo totale rifiuto delle rappresentazioni del divino, dal
l'altra, assume meglio il ritorno del rimosso ed elabora modi di libera
zione dalla colpevolezza arcaica. Quindi, in una forma parallela a quel
la di Nietzsche, Freud interpreta la morte di Gesù come un sacrificio
sostitutivo: il Figlio di Dio deve morire per lavare con il suo sangue la
colpa dei figli che hanno ucciso il padre e non riescono, da allora, a li
berarsi dal senso di colpa. Oggi, molti psicanalisti riprendono l'argo
mentazione di Freud senza rendersi conto che dipende da conoscenze
esegetiche piuttosto datate e da una particolare forma di pietà cristia-
151
na, in voga specialmente nella Vienna sansulpiziana. Daniel Sibony, ad
esempio, va nella stessa direzione in un capitolo dedicato a Paolo e al
cristianesimo: «Il fatto che Gesù incarna la faglia divina e la copre con
il suo sacrificio è una pura novità, una costruzione non prevista dal
l'Antico Testamento, esclusa in un certo senso [ . ]. Ma essa soddisfa un
. .
fantasma nel quale Dio viene a immolarsi per salvare l'uomo».25 Que
sta comprensione della morte di Gesù ha certamente delle fonti nella
storia della religione cristiana, ma non è l'unica interpretazione e non
è certamente quella che spiega meglio il pensiero paolino.
Nella sua forma classica, la terminologia cristiana dirà che Cristo è
morto per noi, al nostro posto, per salvarci dal peccato. È in questa
confessione che si radica l'idea del sacrificio sostitutivo, che segnerà a
lungo l'occidente e che Nietzsche ha fortemente criticato. L'interpreta
zione della morte di Gesù come sacrificio espiatorio sostitutivo, pur
basata su fonti scritturistiche, non è così attestata come si potrebbe
credere. Si trova molto raramente nella teologia dei padri della Chiesa
che, quando usano il vocabolario sacrificale, accordano a Gesù un ruo
lo attivo : poiché gli uomini erano in mano al diavolo, il Figlio di Dio
sceglie lo stesso percorso di alienazione per liberare coloro che sono
schiavi del peccato e della morte. Accetta la morte per vincerla dal
l'interno. La versione della morte di Cristo intesa come sacrificio so
stitutivo compare soprattutto nell'XI secolo con Anselmo di Canterbury,
che ne offre una versione esemplare, ispirandosi, nel contesto medie
vale, alle relazioni fra il signore e i suoi vassalli: il peccato degli uomi
ni ha offeso Dio, che allora reclama un sacrificio in grado di placare la
sua collera e soddisfare la sua giustizia. 26 Ma siccome gli uomini non
possono soddisfare una richiesta di giustizia così elevata, il Figlio di
Dio si sostituisce a loro e paga personalmente il debito contratto con
Dio . Gesù Cristo muore per noi nel senso che muore al nostro posto.
Versa il suo sangue al posto del sangue degli uomini. Insomma, sacri
fica la sua vita al posto della nostra vita per riparare l'onore di Dio e
ottenere il suo perdono. L'uomo moderno fa fatica ad accettare l'inter
pretazione sacrificale - nel senso di sacrificio sostitutivo - ma occorre
misurarne la parziale pertinenza: essa difendeva la convinzione che gli
uomini non devono soffrire perché Cristo ha sofferto al loro posto. Si
zs D. S1BONY, Nom de Dieu. Par-delà les trois monothéismes, Seui!, Paris 2002, 78.
26 ANSElMO, Pourquoi Dieu s 'est fait homme?, Cerf, Paris 2005 .
152
tratta di una teologia di acquietamento mirante a convincere il cre
dente a non mortificarsi per espiare le sue colpe. La teologia di Ansel
mo afferma che Cristo ha offerto la sua vita per te, per cui tu non de
vi pagare più nulla. In questo senso, il sacrificio di Gesù pone fine al
la serie senza fine dei sacrifici, raggiungendo in un certo senso la tesi
di René Girard , secondo cui la morte di Cristo come vittima innocente
manifesta e, per ciò stesso cancella, il meccanismo del capro espiato
rio . 27 Thttavia la teologia anselmiana e quella di coloro che lo seguono
pongono un doppio problema. Da una parte, el<ibora l'immagine di un
Dio che esige la sofferenza e il versamento del sangue per concedere
il perdono . Non è forse l'immagine di un Dio violento, pur avendo cer
cato di purificarla con un discorso sull'amore divino? Dall'altra, que
sto sacrificio «per amore», pur affermando che Dio sacrifica il suo Fi
glio per evitare all'uomo di dover pagare personalmente il debito , co
struisce tutto un mondo di debiti che può rivelarsi peggiore dell'esi
genza di giustizia. Abbiamo visto la domanda centrale posta da Nietz
sche : come pagare il prezzo dell'amore e del sacrificio infiniti? Biso
gna quindi riprendere la questione, al di fuori di una teologia del sa
crificio sostitutivo, per cogliere il modo in cui il cristianesimo contiene
il proprio antidoto alla violenza divina. In altri termini, la religione cri
stiana è servita, e può sempre servire, a fare il gioco della violenza, ma
contiene anche una profonda contestazione di un Dio violento.
1 53
Cristo dei vangeli, sembra immediatamente aberrante pensare che la
giustizia divina esiga come riscatto per l'offesa il prezzo di una vita, e
ancor più quella del Figlio di Dio. Thtto l'atteggiamento di Gesù nei ri
guardi del peccato contraddice quest'idea. [ . .] La dottrina del sacrifi
.
154
l'altro? Conosciamo la risposta di Freud in Il disagio della civiltà. Do
po aver commentato il comandamento «amerai il prossimo tuo come
te stesso», continua: «C'è un secondo comandamento che mi sembra
ancora più incomprensibile e che solleva in me un'opposizione ancor
più violenta. È : "Ama i tuoi nemici". Riflettendoci, ho torto a conside
rarlo una pretesa ancor più assurda. In fondo è la medesima cosa. Mi
sembra ora di udire una voce che gravemente mi ammonisce: "Proprio
perché il tuo prossimo non è degno di amore e anzi è tuo nemico, do
vresti amarlo come te stesso" . Capisco allora che si tratta di un caso
simile a quello del Credo quia absurdum». 3 1 Freud vuole affermare che
il comandamento «ama i tuoi nemici» esprime il senso reale dell'amo
re del prossimo. Delinea il volto del prossimo che il comandamento
chiede di amare . Infatti, è proprio il nemico che bisogna amare, cioè
chi ci vuole del male e non del bene. Lungi dal cancellare la violenza,
il discorso sul monte, con il suo carattere smisurato , la alimenta. Un
giudizio analogo si trova in Daniel Sibony, che tuttavia pone l'accento
sulla violenza di chi pretende di non ricorrervi: «[. ] c'è nella storia
..
1 55
prende, senza rifiutarla, la legge della reciprocità contenuta nel
l'«amerai il prossimo tuo come te stesso», che permette di vedere nel
l'altro un proprio simile. Ho indicato, nel capitolo 2, che il registro spe
culare costituiva un ostacolo alla violenza. Ora si può aggiungere un
complemento in relazione alla riflessione di Ricamr sulla regola d'oro
così come è formulata da Hillel, il maestro dell'apostolo Paolo, nel Tal
mud babilonese: «Non fare al tuo prossimo ciò che detesteresti che ve
nisse fatto a te. Questa è tutta la legge; il resto è commento» (Shabbat,
3 1 a) . Un'altra formula si trova in Le 6,3 1 : «Come volete che gli uomini
facciano a voi, così anche voi fate a loro» o anche in Mt 7 , 1 2 : «Tutto
quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: que
sta infatti è la Legge e i Profeti» . Ora Ricreur nota che la regola d'oro
di cui è espressione anche l' «amerai il prossimo tuo come te stesso» -
non postula una simmetria all'origine; bisogna piuttosto affermare che
essa ristabilisce una simmetria o la instaura, sul fondo di una dissim
metria iniziale. È in questo senso che la regola d'oro introduce un im
perativo morale nel cuore della violenza, che è sempre già presente e
deriva dal fatto che le posizioni non sono pensate come reversibili. Da
una parte, si trova chi fa l'azione e, dall'altra, chi la subisce. La dis
simmetria genera violenza, perché suppone sempre più o meno una re
lazione nella quale uno esercita un potere sull 'altro . Questo non impe
disce un desiderio benevolo, ma una benevolenza nella quale, nota Ri
creur in Sé come un altro, «l'altro sembra ridotto alla condizione di ri
cevere solamente».34 Qui non c'è possibilità di scambio e di reciproci
tà. Possiamo a volte incontrare, sotto il segno apparente della genero
sità, il godimento che si esprime nella riduzione dell'altro a un oggetto
di cura o a una mano tesa. Il gesto morale può essere rapace, quando
si nutre della sofferenza e dell'angoscia del prossimo, trovandovi una
consistenza o una legittimità. Allora, di fronte ai molteplici volti di una
violenza intrinseca alla dissimmetria, Ricreur fa della regola d'oro un
correttivo fondamentale che è un principio di reversibilità delle posi
zioni, in altri termini una capacità di considerarsi al tempo stesso co
me soggetto e come oggetto dell'atto morale. Ricreur nota che si tratta
di elevare l'idea di giustizia al rango di «reciproco indebitamento», cioè
al fatto che «ognuno si senta debitore di ognuno» . 35 La sfida è quella
156
della giustizia e ha sempre come imperativo l'introduzione della mag
giore uguaglianza possibile nella disuguaglianza. In questa prospettiva,
il discorso sul monte adotta la regola d'oro come una forma di resi
stenza alla violenza e all'ingiustizia, ma sapendo anche che essa ali
menta, con il s uo effetto speculare, l'aggressività e la gelosia.
D'altra parte, il discorso sul monte fa dell'«amate i vostri nemici»
una formula che rompe con il ciclo della violenza. Sottolineiamolo an
cora una volta: la regola d'oro non viene abbandonata, e neppure ol
trepassata, ma piuttosto attraversata da un'altra logica, che Ricceur
chiama «economia del dono». Che l'«amate i vostri nemici» si oppon
ga alla violenza è forse meno evidente di quanto sembri a prima vista.
Freud aveva qualche ragione di pensare che questo comandamento
poteva rivelarsi non solo assurdo, ma anche assolutamente nocivo.
Thtto dipende dal quadro nel quale è collocato. A ben comprenderlo, il
comandamento «amate i vostri nemici» non va oltre la regola d' oro,
chiedendo di più; conduce piuttosto altrove, cioè verso un altro modo
di comprendere il mondo, l'altro e se stessi. Infatti, se andasse sem
plicemente oltre, apparterrebbe alla stessa logica della regola d' oro;
certo , esigerebbe di più, ma rimanendo nella concezione di una stret
ta reciprocità; sarebbe un «donando-donando», nel quale il sacrificio
attende una ricompensa o il suo vantaggio . Con questa forma di ec
cesso continua a operare tutta una violenza e, in questo punto, ritro
viamo il problema della dottrina del sacrificio sostitutivo che suppone
una relazione simmetrica fra Dio e l'uomo. In questa prospettiva nes
sun sacrificio è all' altezza del peccato originale e solo il Figlio di Dio
può ripagare il debito contratto dall'umanità. C'è una dismisura, ma
una dismisura che resta sempre nel registro simmetrico del do ut des.
Secondo il racconto evangelico invece la dismisura è ciò che rompe
con ogni reciprocità. Essa non è un «sempre più della stessa cosa»,
bensì un nuovo modo di agire basato su una diversa comprensione del
l'esistenza. È vero che la dismisura è un eccesso. Essa è un «in più»,
ma non nel senso di ciò che si può aggiungere a una somma e che fa
numero con essa; qui ciò che è «in più» non entra nella logica nume
rica e non è quindi contabilizzabile. Non si tratta quindi di una so
vrabbondanza che eccede le misure disponibili nel modo in cui un con
tenuto può debordare da ciò che lo contiene. La sovrabbondanza non
è quantitativa; è qualitativa e proprio per questo è in grado di aprire
un nuovo spazio sia per la rappresentazione dell'azione sia per la sua
traduzione in pratica. In questo senso, la sovrabbondanza ha unica-
157
mente una sorgente divina. È grazia divina, come testimoniano molti
racconti del Nuovo Testamento a proposito di Dio che non esige nulla
in cambio di ciò che dona e riguardo al quale il discorso del monte af
ferma addirittura che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa
piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45) o come testimonia il poe
ma del Servo sofferente analizzato da André Wénin al termine del ca
pitolo consacrato alla Bibbia ebraica. Il capovolgimento nella violenza
è reso possibile dalla sospensione della reciprocità. Reciprocità e so
vrabbondanza sono quindi in una tensione dialettica, perché entram
be operano, ciascuna a suo modo, contro la violenza: la regola d'oro ,
stabilendo la reciprocità nelle relazioni umane, e l'economia del dono,
introducendo una cesura nella relazione simmetrica.
36 È ciò che avviene già nel poema del servo (ls 5 2-53), analizzato da André Wénin
nel capitolo l .
158
essere o avere per definizione ciò di cui ci priva.37 Del resto, quest'af
fennazione di Lacan si collega con un'altra affermazione dello stesso
seminario secondo cui «c'è un certo messaggio ateo nello stesso cri
stianesimo».38 La confessione cristiana dell'incarnazione opera la di
struzione degli dèi; in altri termini, essa provoca quella destituzione di
Dio (o degli dèi) che la religione, nella sua essenza, protegge dalla man
canza e dalla morte. È anche la ragione per cui, nel corso della sua sto
ria, il cristianesimo attesta una difficoltà ricorrente, forse addirittura
un'impossibilità, ad assumere l 'atto che lo fonda e si sforza di ridurre
l'impatto dell'incarnazione.
Questo lavoro di decostruzione trova il suo compimento nella cro
ce di Cristo, di cui bisogna allora cogliere l'effetto di capovolgimento
decisivo: non è più l' essere umano a subire la violenza divina; è il di
vino a subire la violenza umana e a trovarsi, nell'uomo Gesù, messo a
morte . Il Dio che fa violenza diventa il Dio al quale si fa violenza. In
questo senso, André Dumas sottolinea giustamente che la croce è «la
messa in risalto nel passaggio all'atto di tutte le nostre violenze rien
trate, esitanti e camuffate [ . ]. Così la cristologia non nega la violenza,
..
1 59
Da questo non bisogna concludere che la tematica della croce sia
l'unica a fare ostacolo all'immagine di un Dio violento e che, in un cer
to modo, basti semplicemente sostituire un discorso sul Dio onnipo
tente con un discorso sulla debolezza di Dio, come si è a volte teso a
fare, specialmente nel corso del XX secolo. Senza moltiplicare i riferi
menti, si trova quest' accento piuttosto netto e ripetuto in Bonhoeffer,
nell'ultimo periodo della sua vita. Ad esempio, questa lettera dal car
cere del 16 luglio 1 944: «Dio si lascia cacciare fuori dal mondo sulla
croce, Dio è impotente e debole nel mondo, e appunto solo così egli ci
sta al fianco e ci aiuta».40 Da una parte, è vero che il discorso religio
so ha creduto a lungo di poter risolvere la questione del male e della
violenza mediante il concetto di potenza e il postulato di un Dio al qua
le nulla sfugge . Rifiutandosi di lasciare intatto l'enigma, si è giunti al
l'idea di un Dio buono che può essere anche un Dio cattivo. Voler ri
spondere, ad esempio, alla domanda su come un Dio considerato buo
no possa lasciar morire un bambino, mentre nulla gli sfugge, conduce
a un Dio cattivo, anche se questa cattiveria viene spesso negata o ri
mossa. Sono noti i disastri causati dall'idea che Dio avrebbe «voluto»
la morte di una persona, la cui scomparsa è particolarmente scanda
losa. La volontà di formulare a ogni costo un sapere sulla volontà di
vina segreta conduce necessariamente alla costruzione dell'immagine
di un Dio violento. E tuttavia, d'altra parte, la nozione di impotenza di
Dio di fronte al male e alla violenza può rientrare nello stesso disposi
tivo mentale. L'effetto è contrario, ma la logica rimane la stessa: forni
re una spiegazione che permetta di risolvere l'enigma. Così, ad esem
pio, a proposito del dramma di Auschwitz, il filosofo Hans Jonas so
stiene che Dio è rimasto in silenzio non perché non sapeva o non vo
leva, ma «perché non poteva».41 Vediamo che il concetto di impotenza
in sostituzione di quello di potenza conserva la stessa logica: risolvere
l'enigma mediante una pretesa di sapere . La figura di Giobbe esem
plifica molto bene, al termine di una lunga battaglia, lo spostamento di
questo punto di vista: la pretesa di sapere che pone davanti a un Dio
crudele cede il posto a una posizione di non sapere che permette la fi
ducia. Ancor più, il grido di Gesù sulla croce - «Dio mio, Dio mio, per-
40 D. BoNHOEFFER, Resistenza e resa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1 988, 440.
•• H . JoNAS, Le concept de Dieu après Auschwitz, Payot, Paris 1984, 34.
1 60
ché mi hai abbandonato?» (Mc 1 5,33) segna a livello cristologico la
-
fine della violenza in Dio attraverso una domanda che resta posta, ma
autorizzando il «Padre, mi rimetto nelle tue mani» cf. Le 23 ,46).
Il diabolico e il simbolico
1 61
cepita come priva di consistenza, priva di effetti e, per usare un con
cetto della pragmatica della comunicazione, priva di performatività. La
violenza consiste sempre nell'idea che la parola è nulla , che parlare
non serve a nulla , che il parlare non può avere alcun senso . Essa ci in
troduce in un universo senza parole per dire le cose e quindi disuma
nizzato. Troviamo nei vangeli, specialmente nei racconti di miracoli,
una tematizzazione profonda di questa forma della violenza alla qua
le si dà spesso il nome di diabolos. Come nota Henri Rey-Flaud , «la tra
dizione evangelica, perpetuando la figura del seduttore della Genesi,
presenta sempre l'istanza diabolica come il contrario del simbolico, fa
cendone il nemico della parola, sia che essa renda l'uomo muto (cf. Le
1 1 ) sia che gli strappi grida informi (Le 9)».43 Ci si può stupire per l'u
so di questo termine, perché dia-bolos significa etimologicamente «ciò
che divide», «ciò che separa» , passando attraverso,44 mentre sym-bo
lon era, in origine, un coccio spezzato in due e condiviso fra due per
sone in occasione di un patto o di una separazione e la cui riunione co
stituiva un segno di riconoscimento . Perciò, come intendere che il sim
bolico, al contrario del diabolico, sia ciò che unisce, o raduna, mentre
ho giustamente indicato il ruolo di separazione della parola simbolica?
La contraddizione è solo apparente, se si comprende che la divisione
del diabolos è ciò che fa perdere il legame fra la carne e il linguaggio,
cioè che cerca di fare abitare al di fuori di un universo di parole. Il sim
bolico invece unisce ciò che è stato separato o, più esattamente, fa del
la separazione la condizione del legame con l 'altro e di un riconosci
mento reciproco .
In realtà, diabolos e symbolon non sono tanto l'esclusione l'uno del
l'altro quanto piuttosto in rapporto dialettico, come lo è, in Freud, la
dualità fra pulsione di morte e pulsione di vita. Del resto, è sorpren
dente vedere che· Freud, nel momento in cui concettualizza la nozione
di pulsione di morte, nel 1 920 in Al di là del principio di piacere, ne
parla ripetutamente come di un principio «demoniaco», al quale non
attribuisce una connotazione religiosa.45 C'è violenza quando manca
no le parole e quindi quando c'è una carenza di simbolizzazione. Ma,
qualunque cosa facciamo, noi non possiamo, e non potremo mai, dire
1 62
tutto . Vi sarà sempre un resto - ciò che Lacan chiamerà «reale» - che
è un impossibile da dire . È questo a far sì che la violenza non possa
mai essere totalmente eliminata e contenga una parte incurabile . C'è
ciò che non può essere simboleggiato, che resiste e che, come diceva
Freud a proposito della pulsione di morte, «lavora in modo muto».46
La violenza che opera su questo versante, in silenzio , non va negata;
dobbiamo piuttosto imparare a pacificarla, a inserirla, per quanto pos
sibile - anche se c'è un resto - nel mondo umano della cultura e del
linguaggio . È così, ad esempio, che la carezza amorosa è un gesto di
presa che è stato pacificato , in un certo senso metabolizzato, per di
ventare un' espressione dell'erotico . Resta comunque il fatto che solo la
parola, nella sua funzione simbolica, può fare sì che la violenza non in
vada il campo delle relazioni. Lacan scriveva: «Sappiamo che ai confi
ni dove la parola si dimette, comincia il campo della violenza e che es
sa già vi regna, anche se non la si provoca».47
Un racconto evangelico, in Mc 5 , 1 -20, che riferisce l'incontro fra Ge
sù e un uomo posseduto dal demonio «Legione», permette di illustrare
l'opera della parola nella violenza. I:uomo è escluso dalla vita sociale,
emarginato, «ha la sua dimora fra le tombe», «nessuno riesce a tener
lo legato, neanche con catene, ma ha spezzato le catene e spaccato i
ceppi e nessuno riesce più a domarlo . Continuamente, notte e giorno,
fra le tombe e sui monti, grida e si percuote con pietre» (vv. 3-5). Que
st'uomo è diventato estraneo a se stesso. È diviso, nel senso del diabo
los. È diventato l'oggetto di una forza che lo lacera e lo spinge in un
luogo arido, dove il grido sostituisce la parola. Egli sperimenta anche
la parola di Gesù che si avvicina come violenza, come colpi che gli ven
gono sferrati, al punto da supplicarlo: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del
Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi! » (v. 6).
Per lui, le parole sono, come tutto il resto, cose che non vengono colte
nel loro registro metaforico . Non riesce a distinguere fra la vita e la
morte, la violenza per la vita e la violenza per la morte. Thtto è confu
so, al punto da amare la sua sofferenza e godere della violenza che su
bisce o che infligge, come capita spesso a chi soffre e si oppone alla
1 63
guarigione. Egli scambia la morte per la vita o per l'unica vita possibi
le.
Quando Gesù gli chiede di: dire il suo nome, cioè di declinare la sua
identità, parlando in prima persona singolare, risponde : «Il mio nome
è Legione, perché siamo in molti». Si nomina attraverso una moltepli
cità, che qui non è semplice pluralità, ma frantumazione del suo esse
re. Di fronte alla violenza che abita in quell'uomo, Gesù si tiene conti
nuamente dalla parte del simbolico, usando la parola come istanza di
distinzione e di riconoscimento. Separa per permettere il legame, la re
lazione sociale, contro la divisione che isola e riduce la parola al si
lenzio . Questa separazione non è priva di forza, di sradicamento; di
ciamo anche di una certa violenza, che si esprime specialmente nella
resistenza dell'uomo posseduto da «Legione» e anche nel fatto che, al
termine del racconto, i demoni entrano in una mandria di porci e si
precipitano giù dalla rupe nel mare (cf. v. 1 3). Da un capo all'altro del
racconto, Gesù viene presentato come colui che opera unicamente at
traverso la parola, che permette di simboleggiare una parte della vio
lenza. Non si tratta di eliminare la violenza, ma di fissarle dei limiti,
come ognuno deve, per se stesso, dare dei contorni al proprio corpo,
quindi alla differenza fra sé e l'altro. L' amore non basta per combatte
re la violenza; a volte, è addirittura più terribile delle violenze e può
ferire per sempre . Come distinguere allora nel cosiddetto «amore» fra
ciò che inganna e ciò che conserva la parola, fra ciò che fa morire e
ciò che fa vivere? La verità non si giudica dalla mitezza o dalla durez
za, dalla compassione o dell'esigenza, della parola o dell' atto, bensì dai
suoi effetti di vita. Così ritroviamo la lezione di Nietzsche: l'albero si
riconosce sempre dai suoi frutti.
1 64
ALCUNI LIBRI
PER ANDARE OLTRE
dans les deux Testaments (Essais bibliques 29), Labor et Fides, Ge
nève 1 998.
·
-, Sacrifices scandaleux? Sacrifices humains. martyre et mort du
Christ (Essais bibliques 42). Labor et Fides, Genève 2008.
MARGUERAT D. (ed.), Dieu est-il violent?, Bayard, Paris 2008.
VAN MEENEN B . , «Bible et violence», in Études (nov. 2003) 3995, 495-
506.
1 65
Antico Testamento
Nuovo Testamento
Filosofia, Psicanalisi
1 66
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sitaires de France, Paris 1 988.
BALIBAR E . , «Violence: idéalité et cruauté», in F. HÉRITIER (ed .), De la vio
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1 67
Indice biblico
ANTICO TESTAMENTO
Genesi 6,5- 1 3 23
1 1 6 30 59 6, 1 1 - 1 2 17
1-1 2 46 6,13 18
1-9 16 6,17-18 18
1 , 1-2 , 3 16 8 , 2 1 -22 18
1 ,2 16 9,1-3 18 51n
1 ,3a 16 9, 1 -6 20
1 , 28-29 17 1 8 9,1-7 18
1 , 28-30 16 9,4-6 18
2,4ss 59 9,6 18
2,16 59 9,6a 40
2 , 1 6- 1 7 1 7 45 9,8 - 1 7 18
2 , 24 135 1 1 , 1 -9 19
3 1 50 1 2, 1 - 3 19
3 , 1 -7 17 1 2 , 1 0-20 31
3,8-24 17 12,17 21
3,15 17 15,16 34
4,1-16 22 1 8,20-33 23
4,5-8 17 18,25 23
4,7 17 1 9,23-28 21
4,9-14 17 20 31
4, 1 5 17 20, 1 8 21
4,23-24 17 22 43 44 70n 72 80
6,4-5 17 22,2 21
1 69
22, 13 43 9,13 28n
34 1 34 9,34-35 29n
49,3 68n lO, l 29n
10,3 28n
Esodo 10,20 29n
l 22 10,27 29n
1-1 5 27 1 0, 28-1 1 , 1 0 29
1 ,8-22 27 11,10 29n
1 ,22 1 20 12,31 120
2,1-10 1 20 1 3,2 44
2,11s 120 13,1 1-15 44
3,14 21 13,15 29n
3,19 29 14 1 2 26 2 9
4, 1 9 27 14,4 29n
4,21 29n 1 4,8 29n
4,22 28 2 9 1 4, 1 7 29n
4,29-3 1 27 1 5 ,3 1 1 1 2 30n
5 22 19,12-13 41n
5,1 28n 20 74
5,1-19 27 20,4 21 46
5,2 28 20,5 74n
5 , 20-21 27 20,5b-6 74
6,6 27 2 1 , 1 2- 1 3 40
6,9 27 21,16 40
7,1-5 28 21,17 41
7,3 29n 2 1 ,20 24
7,4 23 21 .29 40
7,13 29n 22, 1 7 40
7,14 29n 22, 1 8 40
7,16 28n 22,19 40
7,22 29n 28,46 41
7,26 28n 31,13 42
8,1 1 29n 31,14 41
8,15 29n 3 1 , 1 5- 1 7 41
8,16 28n 31,17 42
8,28 29n 33 70
9,1 28n 34,6-7 46
9,7 29n 34, 1 4 74
9,12 29n 35,2 41
1 70
Levitico 35,21 40
18,21 43 35,31 40
1 8, 24-25 34
1 8 , 27-29 34 Deuteronomio
19,18 24 4 , 1 5-1 6 21
20,2 40 4,32-39 33
20,2-5 43 7,1-5 32n
20,9 41 9,5 34
20, 1 0 40 1 2, 3 1 43
20, 1 1 - 1 7 40 16,2- 1 7 40
20, 1 3 40 1 7 ,2-7 40
20, 1 5- 1 6 40 18,10 43
20,22-23 34 1 8 ,20 40
20,27 40 20, 1 0- 1 5 32
21,9 40 20, 1 6- 1 8 32
24, 1 6 40 22,22 40
24, 1 7 40 22,25-26 40
24, 2 1 40 28, 38-42 26
26 38 32,21 76n
26, 1 4-45 38 32,43 25
26, 1 8 38
26, 2 1 38 Giosuè
26,23 38 1 , 1 -9 32
26,25 25 1 , 2-9 33
26,27 38 4,8 34n
26,40 38 4, 1 0 34n
26,41-45 38 6-1 2 32 34 35
6,21 32
Numeri 6,24 32
1,51 41 6,26 43n
3,10 41 7-8 32
3,38 41 8,22-29 32
1 5 , 32-36 41 8,31 . 34n
16 31 1 0,28-39 32
18,7 41 10,40 34n
1 8, 2 2 41 1 1 ,9 34n
21,14 30n 1 1 ,12 34n
25 1 10 1 1 , 1 0- 1 4 32
3 5 , 1 6- 1 8 40 11,15 34
1 71
1 1 , 1 5-23 32 1 Samuele
1 1 ,23 34n 2,8-10 30
1 1 , 1 6-20 34 1 7 ,47 30n
2 3 , 1 2- 1 3 32 18,17 30n
24, 1 3 25
Giudici 25,28 !iOn
2 38
2 , 1 -3 32 2Samuele
2,15 38 7,14 37
2 , 1 6- 1 9 38 11 119
2 , 20-23 32 38 1 1-1 2 24
3 , 1 -6 32
3 , 7- 1 1 38 t Re
3 , 1 2-30 38 16,34 43n
4-5 38 1 8 , 1 6-40 36
6,1-10 38 19,1-3 36
6 , 1 1 -8 , 2 1 39 1 9 , 4- 1 3 36
7 , 1 9-22 26 1 9 , 1 5- 1 6 36
8 , 2 2-9, 5 7 39 19, 1 7 36
9 , 2 3-24 39 21 24
9, 56-57 39 21,1-16 35
1 0 , 6-1 2 , 7 39
11 68 2Re
1 1 ,9 44 9,1-10 35
1 1 , 29 44 9,3 36
1 1 , 29-40 39n 9,6- 1 0 36
1 1 ,30 44 69 9,22-3 7 . 35
1 1 ,35 69 10 35
1 1 ,36 44 16,3 43n
1 3- 1 6 39 1 7,5-23 34
1 7-2 1 39 21,6 43n
1 7 ,6 39 23,10 43n
1 9-2 1 22 3 1 24,3 34
2 1 ,25 39 24,20 34
25 22
Rut
1,1 40n 2Cronache
20, 2 1 -24 26
1 72
Giuditta 5,20-23 26
2-7 22 1 1 , 16 26 37n 41
17,21 26
Giobbe
5 , 1 7- 1 8 37 Isaia
l 37
S almi 1 ,2-20 37
3,2-7 30 1 , 25-27 37
7, 1 7 26 2,2-4 47
1 1 ,5 20 5,8-30 31
33,6 16 14,3-21 23n
34,22 26 1 9 , 1 6-25 35
38 37 35,4 25
39, 1 1 - 1 2 37 40, 1 - 2 37
40,7 70n 45,6-7 46
46, 1 0 47 45, 1 5 21
58 25 52-53 1 58n
58 , 1 1 - 1 2 25 52, 1 3-53 , 1 2 48
74, 1 2 - 1 7 31 53,9b 49
76,3-4 47 5 3 , 1 0a 49
76, 1 0 47 53, 1 2b 49
85,9 47 61,8 20
94, 1 25n
94 , 1 -2a 25 Geremia
94,2b 25 2,19 37n
94,5-6 25 4,5-5 , 1 9 31
94, 1 4 25 7 , 30-3 1 43
94,20- 2 1 22 19,5 43
94,23 25 26 40
28 40
Proverbi 3 1 , 1 8- 1 9 37
3, 1 1 - 1 2 37 32,35 43
6,16-19 20 50 23
8,3a 20 50, 1 5 25
8,3b 30 50, 1 7- 1 8 23n
50,29 23
Sapienza 51 23
5 , 1 5-20 26 5 1 ,34-40 23n
1 73
Ezechiele 2,12-17 37
5,13 77
1 6 , 20 43 Amos
20,30-31 43 1 , 3-2 , 5 24
24,7-8 25 2,6- 1 6 24
25,12 24 3,2 24
25, 1 5 24 6,8 20
33, 1 1 48 7 , 1 -6 26
39,9- 1 0 47 8,4- 1 0 30
Giona 35
Daniele
7 ,2 16 Michea
4,1-5 35
Osea 6,7 43
6,6 1 28n
Zaccaria
Gioele 8 , 1 7a 20
1-2 26 8 , 1 7b 20
1 13 18
, - 37 9,9- 1 0 48
Nuovo TESTAMENTO
Matteo 5,1-10 1 40
1-2 117 5,3-1 1 1 18
1,1 119 5,9 1 1 8 1 36
1.1-17 117 5,19 131
1,3 119 5 , 20 1 34
1,5 119 5 , 2 1 -26 132
1,6 1 19 5,22 131 1 32
2 119 5,38 1 34
2,16-18 119 5,38-42 1 1 8n 1 33
2,17 119 5,3 8-48 132
2,1 7-18 119 5,39.42 1 34
3,1 123 5,43-44 1 1 8n
3,2 129 5,45 148
4,8 1 36 7,12 156
4, 1 7 1 29 8,17 120
5 1 54 9,10 1 26n
1 74
10 1 20 2 1 , 33-45 80 1 2 5
1 0 , 5b-6 131 21 ,38 1 23
1 0 , 1 6-42 1 20 2 1 ,41 1 25
10,21 135 22,7 80
10,21-22 1 20 22 , 1 1 - 1 4 125
1 0,24 1 22 22, 1 3 80
10,34 1 1 8 1 2 1 1 23 22,38 1 36
1 0,34-36 1 34 22,41 1 36
1 0,34-38 121 23 1 1 8n 1 2 5 1 27 1 29
11,11 131 131
1 1.12 1 1 7 1 22 1 22n 1 3 6 23, 1 7 131 132
1 1 . 1 2- 1 3 123 2 3 , 30 1 30 1 3 1
1 1 ,21-24 1 24 23,33 125
1 1 , 23 124 23,35 1 30 1 3 1
1 1 ,28-30 1 1 7, 132 24-2 5 1 28 1 2 9
1 1 , 29 1 1 8n 1 3 3 2 5 , 1 4-30 126
12,1-13 121 2 5 , 1 4-33 125
1 2, 1 4 121 2 5 , 30 80
1 2 , 1 8- 2 1 1 1 8n 26,24 1 28 1 30 1 3 1
12,19 133 26,28 80 1 3 1 1 3 7
1 3 , 36-43 124 26, 36-45 1 28
1 3, 4 1 128 26,39 1 28
1 3,42 80 26,47-56 1 28
14,1-12 121 26, 5 1 - 5 3 1 28
16,14 1 19 26, 5 1 -56 1 28
16,21 .1 2 1 1 2 2 26,52 118
1 6,27 1 28 27,3- 1 0 1 28
1 7, 1 2 - 1 3 121 27,4 1 30
1 7,22 121 27,6 1 30
18 1 26 27,8 1 30
1 8 , 1 2- 1 4 1 26 27,9- 1 0 119
18,17 1 26n 27,24 1 30
1 8 , 23-35 125 126 27,25 131
1 8 ,24 1 26n 27,45-50 128
1 8 , 26 1 26n 27,45-53 1 29
18,34 80 27 ,46 128
20, 1 7 121 27,51 128
20,28 97 1 32 2 7 , 5 1 b-5 3 1 29
2 1 , 1 2- 1 3 125 27,54 1 29
1 75
2 8 , 1 6-20 129 1 3 7 5,1 1 09
28, 1 9 131 5,9- 1 0 1 04
6,6 113
Marco 6,7 113
5 , 1 20 - 163 8 , 1 8-23 102
5 , 3-6 163 8,32 80 105 107
5,6 163 8,3 5- 37 1 14
5,13 1 64 9 11- 113
1 0,45 97 1 2 , 1 4-21 115
14,24 80 12,19 25n 101
1 5,33 161 13 115
1 5 ,34 79n 14,19 115
1 6 , 20 103
Luca
1 ,68 97 l Corinzi
2,38 97 1,18 108
6,31 1 56 1 18 19
, - 105
9 162 1 , 1 8-25 108
11 1 62 1 , 20 108
1 4 25-35
, 1 36n 1,23 106
1 4,26 1 3 6n 1 , 24 108
16,16 1 1 7n 1 2 2 1 22n 2,2 1 06
2 2 , 20 80 2,6-8 108
2 3 , 46 161 6,20 97
24,21 97 7,23 97
15,9 1 10
Giovanni 1 5 , 24-26 1 06
13,10 97 1 5 ,54-55 107
Atti 2Corinzi
5 , 1 -6 80 5,17 108
5,1-11 80n 6,2 108
22,4 111 10-1 3 112
10,3-5 1 09
Romani 1 0,6 112
1 3
- 103 11,15 112
2 , 5- 1 1 103 12,10 1 14
3,25 105 1 3,2 112
3,26 108 1 3, 1 0 112
1 76
Galati l Tessalonicesi
1,4 1 04 1 08 1 ,2 - 1 0 112
1 , 1 3-14 1 1 0 1 1 0n 1,10 1 04
1,13-15 1 10 2,13 112
1,15 1 09 2,14-16 80 1 1 2
2,19 114 2,15 113
3,1 8 0 1 05 1 1 2 2 , 1 6b 113
3,13 97 1 0 5 2 , 1 6c 113
4,4 108 5,9 1 04
4,5 97
5,24 1 14 2Timoteo
6,14 105 1 08 1 1 4 4,6- 1 8 17
6, 1 5 108
Tito
Efesini 2,14 97
2,13-17 115
Lettera agH Ebrei
Filippesi 9,12 97
1 ,4 114 10,22 97
1,18 114
1 , 25 114 Giacomo
1,27 1 14 4,2 77
1 ,29 114 4,5 77
2,2 114
2 , 7-8 1 58 l Pietro
2,8 105 1,8 97
2,10 1 07
2 , 1 7- 1 8 114 115 2Pietro
2,28 114 2,1 97
2,29 114
3,1 1 14
3,2 80 1 1 2 Apocalisse
3,7 1 10 1-1 1 1 2 2n
3,10 115 1,1 99
4,1 114 1 ,4 22
4,3 114 1 ,4-7 94
4,4 1 14 1 ,4-8 95
4,10 114 1 ,5 94 96
1 77
1 ,5-7 95 7 88
1 ,6 97 7,9 96
1,7 95 7,10 96
1 ,9 85 7,14 97
1,16 87 7,1 7 96
1,18 87 8 ·88
2-3 98 8-1 1 8 86 87
2,5 87 8-9 86 88 9 1
2,13 85 9 5 8,1-5 87
2,16 87 8,6-9 , 2 1 87
2,23 86 87 8,6-9, 1 2 87
3,3 87 8,7 8 8 90
3,16 87 8,8 88
4 87 88 8,8-9 90
4-1 1 87 8,9 88
4-5 88 92 8,10 88
5 87 96 8, 1 1 88
5,1 88 8,12 8 8 89
5,5 95 97 9,4 90
5,6 8 95 9 6 10 87
5,8 96 1 0-1 1 88
5,9 95 96 97 1 0 , 1-1 1 , 1 4 87
5,9-10 95 10, 3-4 87 94
5,12 96 11 96
5,13 96 1 1 ,3 95
6 86 88 1 1 , 1 0- 1 3 86
6-1 1 96 1 1 , 1 5- 1 9 87 8 8 9 1
6-7 87 11,18 86
6,1 96 12 91
6 , 1-8 , 5 87 1 2-22 , 5 90
6 , 1-1 1 , 1 4 88 1 2-2 2 87
6,2 97 1 2 ,9 90
6,4 96 12, 1 1 9 6 97
6,8 88 13 82 9 1 99
6,9 85 96 13,3 96
6,10 94 1 3,8 96
6,1 1 89 13,13 99
6,12-17 88 14 91 96
6,16 96 14,1 96
1 78
14,3-4 97 1 8,24 85
14,4 96 97 19 87
1 4,6-20 86 19,2 85 8 6
14,7 86 19,7 96
14,10 96 19,9 96
1 4 , 1 4- 1 6 87 1 9, 1 1 -2 1 91
14,19 86 1 9, 1 5 86
1 5-16,9 86 20 91
1 5-16 8 86 87 91 20, 1 - 1 0 87
1 5 , 1-1 6 , 2 1 8 7 90 20, 1 - 1 5 91
15,1 86 20, 1 1 86
1 5 ,2-3 91 20, 1 1 - 1 5 86
15,3 18 86 91 96 20, 1 2- 1 3 86
15,7 86 2 1 , 1-22 , 5 91 101n
16 90 21,1 96 101
16,2 86 2 1 , 1 -8 101
1 6,6 85 2 1 ,4 101
16,9 86, 91 2 1 ,9 96
1 6, 1 0-21 87 2 1 ,9-27 101
1 6, 1 1 91 21,14 96
16,13-14 91 2 1 ,22 96 1 0 1
1 6 , 1 7-21 91 21 ,23 96 101
16,19 86 2 1 ,25 101
1 7-1 9, 1 0 91 2 1 ,27 96 1 0 1
1 7-1 8 87 91 99 22, 1 -5 101
1 7 ,6 85 95 22,1 96
17,14 96 22,3 96 1 0 1
18,5 86 22,5 101
18,6 86 22, 1 2 86
Indice
'
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . p. 5
Capitolo primo
«ADONAI È UN GUERRIERO» (ES 1 5 , 3) .
LA VIOLENZA DIVINA NELL'ANTICO TESTAMENTO
(André Wénin) .............................. ..................................... » 11
Un racconto programmatico (Gen 1-9):
un Dio mite davanti alla violenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16
Violenze di Dio: abbozzo di una tipologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 20
Immagini di Dio, violenza e pace.
Alcune riflessioni come conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 45
Capitolo secondo
LA VIOLENZA ARCAiCA E IL PARADOSSO
DEL SACRIFICIO AGLI D È I OSCURI (Jean-Daniel Causse) .. . » 53
Il concetto di violenza secondo la psicanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53
Ambivalenza della violenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 56
Che fare di fronte alla violenza incurabile? .. .. �.. .. . ......... .. .. » 61
L a violenza degli dèi oscuri e i l godimento del sacrificio . . . » 65
La gelosia divina: una forma di violenza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73
Capitolo terzo
VIOLENZA DEGLI UOMINI, VIOLENZA DI DIO .
UNO SGUARDO SU ALCUNI TESTI
DEL NUOVO TESTAMENTO ( É lian Cuvillier) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79
Giovanni di Patmos: la violenza al servizio
della buona novella? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 82
1 81
«Date un luogo all'ira» (Rm 1 2 , 1 9).
Un percorso paolino attorno alla violenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 101
Gesù alle prese con la violenza nel Vangelo di Matteo » 117
Capitolo quarto
LA RELIGIONE DELL'AMORE:
UNA RISOLUZIONE DELLA VIOLENZA DIVINA?
(Jean-Daniel Causse) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 39
L'amore cristiano di fronte alla filosofia di Nietzsche . . . . . . . . » 141
Il sacrificio sostitutivo di Cristo e la violenza divina . . . . . . . . . . » 1 50
La decostruzione cristiana del Dio violento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 153
182