Epifania Della Parola. Jean-Daniel Causse, Élian Cuvillier, André Wénin - Violenza Divina. Un Problema Esegetico e Antropologico-EDB (2012)

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Epifania della Parola

nuova serie

l. V. M annucci, Giovanni il Vangelo narrante.


Introduzione all'arte narrativa del quarto Wzngelo
2. La Lettera ai Romani ieri e oggi, a cura di S. Cipriani
3. M. Nobile, Introduzione all'Antico Testamento.
La letteratura veterotestamentaria
4. In spirito e verità. Letture di Giovanni 4,23-24, a cura di P. C. Bori
5. L. Alonso Schtikel, Salvezza e liberazione: l'Esodo

Testi ermeneutici
6. P. Rosa, Gli occhi del corpo e gli occhi della mente.
Cirillo Alessandrino: testi ermeneutici
'f Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici,
a cura di V. Bonato
8. Origene, Testi ermeneutici, a cura di U. Neri
9. Ticonio, Sette regole per la Scrittura, a cura di L. e D. Leoni
10. Flacio Illirico, Comprendere le Scritture, a cura di U. Neri

Sotto la direzione di Roland Meynet

il. A. Wénin, Non di solo pane... Violenza e alleanza nella Bibbia


!. M. Balmary, Abele o la traversata dell'Eden
J. A. Wénin, L'uomo biblico
4. M. Balmary, La divina origine. Dio non ha creato l'uomo
$. M. Grilli, Quale rapporto tra i due Testamenti? Riflessione critica sui
modelli ermeneutici classici concernenti l'unità delle Scritture
�. F. Belli -l. Carbajosa - C. Jòdar Estrella - L. Sanchez Navarro, L'Antico
nel Nuovo. Il ricorso alla Scrittura nel Nuovo Testamento
7. R. Mey net, Preghiera e filiazione nel Vangelo di Luca
lf. M. Nobile. Introduzione all'Antico Testamento.
La letteratura veterotestamentaria. Nuova edizione riveduta e aumentata

Sotto la direzione di Massimo Grilli e Alfio Filippi

l. J.-D. Causse - É. Cuvillier - A. Wénin, Violenza divina.


Un problema esegetico e antropologico
Jean-Daniel Causse
Élian Cuvillier
André Wénin

Violenza divina
Un problema esegetico
e antropologico

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


Titolo originale: Divine violence.
Approche exégétique et anthropologique.
Les Éditions du Cerf-Médiaspaul, Paris 201 1
Traduzione dal francese: Romeo Fabbri

Impaginazione: Emme2 srl, Bologna

e 2012 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella 6 - 40 1 2 3 Bologna
www. dehoniane.it
EDB111

ISBN 978-88-10-40242-9

Stampa: Tipografia Giammarioli, Frascati (RM) 2 0 1 2


PREFAZIONE

· I tre autori di questo volume sono animati da una convinzione. Ri­


guardo alla parte ermeneutica del suo lavoro, l'esegesi biblica ha tut­
to l'interesse a nutrirsi di un dialogo con le scienze umane, special­
mente con la psicanalisi. Infatti la sua conoscenza delle basi e del fun­
zionamento dello psichismo umano, la sua perspicacia nella diagnosi
di ciò che possono mascherare le buone intenzioni, le scelte delibera­
te e anche il desiderio di perfezione, la sua continua preoccupazione
di chiarire il ruolo fondamentale del linguaggio per la nascita del sog­
getto ne fanno uno strumento di prim'ordine, quando si tratta di ac­
costarsi a un discorso che preten de di esprimere la verità dell'umano
in relazione con ciò che lo fonda. D'altra parte, la riflessione su ciò che
significa essere umano ha tutto da guadagnare a interrogare con la
massima serietà le Scritture ebraiche e cristiane, perché esse dimo­
strano una profonda saggezza nel loro modo particolare di non na­
scondere la complessità del reale umano, ma di assumerlo in tutte le
sue dimensioni , quando cercano di dire come Dio interviene in essa
per fecondarla e portarla a compimento.
Quando la domanda riguarda la violenza e, in particolare, la vio­
lenza che queste Scritture - o le tradizioni cristiane che ne sono scatu­
rite - attribuiscono a Dio con maggiore o minore reticenza, l'unione dei
punti di vista biblici e antropologici non può che stimolare. È comun­
que questa la sfida che abbiamo accettato, quando abbiamo deciso di
scrivere questo libro a più mani e ci siamo messi al lavoro, ognuno a
partire dal proprio campo specifico, su questa questione lancinante,
che non può schivare chiunque apra la Bibbia, una questione con ef­
fetti a volte allarmanti nella vita reale delle nostre società. Eravamo
convinti che, oltre a fornire un materiale sufficientemente ricco e vario,

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l'esplorazione esegetica e antropologica avrebbe aperto piste di rifles­
sione convergenti, che il lettore avrebbe potuto percorrere, ma eviden­
ziato anche delle differenze che gli avrebbero permesso di percorrerle
con libertà, facendo posto ai suoi interrogativi, alle sue intuizioni e al­
le sue convinzioni. Infatti lasciamo volutamente aperta la riflessione
proposta in questo libro . Non solo perché la questione della violenza è
uno di quegli enigmi ai quali è illusorio voler dare una risposta defini­
tiva, tanto essa è tentacolare, ma anche perché pensiamo che farem­
mo una certa violenza al lettore, !asciandogli credere che è possibile ri­
spondere alla domanda sulla relazione fra la violenza e Dio e che la ve­
ra risposta può essere teorica. Tanto è vero che tutto si gioca nel mo­
do concreto di pensare la nostra propria violenza nella sua relazione,
cosciente o meno, con la realtà religiosa e soprattutto nelle scelte di vi­
ta che ne derivano. Il fatto che Dio dica la sua ultima parola «biblica»
sulla violenza nella morte e risurrezione di Gesù significa che, in defi­
nitiva, alla domanda si può rispondere solo nel reale dell'esistenza.
Questo volume comprende quattro capitoli . Alterna lo sguardo ese­
getico e la riflessione antropologica e riprende la lettura dei testi, svi­
luppandola in questo o quell'aspetto più problematico nella loro rice­
zione teologica o etica.
Il capitolo l, redatto da André Wénin, presenta a grandi linee il mo­
do in cui l'Antico T!!stamento parla della violenza di Dio. Questo giro
d'orizzonte è sotteso dalla convinzione che la Bibbia ebraica non è un
libro di modelli da imitare - convinzione corrente fra i lettori credenti
e fonte di molti malintesi - ma piuttosto uno spazio nel quale si riflet­

tono sia la complessità..degli esseri umani sia la molteplicità delle im­


magini che essi si fanno di Dio . Comunque la presenza di tutte queste
immagini nella Bibbia non le legittima, ma, in un libro nel quale ri­
suona il divieto di farsi immagini scolpite della divinità, è piuttosto un
invito al lettore a cercare il Dio vivente che si rivela e si nasconde in
queste immagini, provenienti tutte da un linguaggio umano segnato
dalla violenza. Ciò detto, il lettore della Bibbia è avvertito fin dalle pri­
me pagine: la violenza umana e divina è uno dei grandi temi del Libro.
All ' inizio della Genesi, vediamo Dio che cerca di contrastare la violen­
za distruttrice che corrompe, per quanto si risalga indietro nel tempo,
la storia degli uomini. Ma questo non impedisce al seguito del raccon­
to biblico, ai testi profetici, ai salmi e - in minor misura - ai saggi di
attribuire a Dio una buona dose di violenza. Vediamo che Dio, spe­
rando di porre fme alla malvagità umana, esercita la vendetta per ri-

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pristinare la giustizia. Non teme neppure di usare la violenza contro
coloro che opprimono i poveri, per evitare il fallimento del suo disegno
di salvezza per tutti. A volte, adotta comportamenti violenti per cerca­
re di educare il popolo che si è scelto come alleato - una pedagogia che,
del resto, non porta necessariamente i suoi frutti. Da parte sua, spes­
so la Legge ordina la pena di morte e prescrive sacrifici, nei quali, a
volte, la vittima sacrificale è un bambino. Ma Dio esercita la sua vio­
lenza anche contro persone innocenti, con grande scandalo del letto­
re, che si trova, ad esempio, davanti all'ordine divino di sterminare in­
tere popolazioni; del resto, la stessa Bibbia attesta un certo disagio al
riguardo. È possibile trarre profitto dalla lettura di queste pagine, an­
cor meno allettanti per il fatto di contrapporsi all'immagine di un Dio
di pace, come quella che appare in apertura della Genesi?
Nel capitolo 2, Jean-Daniel Causse affronta la questione della vio­
lenza dal punto di vista della psicanalisi, trattando, in particolare, il pro­
blema del sacrificio compiuto in nome della divinità, una tematica av­
viata nell'indagine biblica precedente . Per Freud, la violenza non si tro­
va solo da una parte; è caratterizzata anzitutto da un'ambivalenza evi­
denziata chiaramente dalla pulsione arcaica a divorare: il bambino vuo­
le incorporare e quindi rendere simile a lui, nella speranza di non per­
darlo, l'oggetto amato. Perciò, quando in seguito la violenza si manife­
sta nelle relazioni umane, non è sempre facile sapere se si tratta di amo­
re (amour) o di odio (haine), a meno che non si debba vedervi quella che
Lacan chiamava, unendo i due termini, hainamoration. Nella pulsione
a divorare continua comunque una volontà primitiva di incorporare l'al­
tro e quindi di far scomparire la sua differenza. In questo senso, la vio­
lenza è incestuosa. Essa non sopporta la distanza, la differenza, in una
parola l'alterità. Questa è anche la ragione per cui è silenziosa (Freud
diceva che la pulsione di morte è «muta») e trova il suo faccia a faccia
nella parola che distingue gli esseri. Incontriamo la violenza divina, spe­
cialmente la violenza del sacrificio, che analizzeremo nel seguito del ca­
pitolo, sul versante del silenzio. Facendo parlare Dio là dove egli tace e
non potendo interpretare il proprio desiderio inconscio, il fedele può
sempre «udire» una domanda di sacrificio. L'episodio della figlia di Ief­
te raccontato nel libro dei Giudici, ma anche la problematica della gelo­
sia divina permettono di comprendere meglio questa violenza che sca­
turisce dal fantasma di «poter fare tutto» o «poter avere tutto».
Nel capitolo 3 Élian Cuvillier svolge un'indagine sui testi del Nuovo
Testamento, partendo da un'analisi dell'Apocalisse di Giovanni. Me-

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diante la violenza di alcune sue affermazioni, in particolare nella de­
scrizione delle numerose scene di giudizio, Giovanni denuncia la se­
duzione imperiale e la violenza mortale che essa genera. La violenza
subita dall' «agnello immolato» (Ap 5,6) suggella la sua sconfitta agli
occhi delle forze di morte all'opera nel mondo, ma, dal punto di vista
della fede, anche la manifestazione della sua vittoria paradossale . Que­
sta vittoria traccia il cammino di una lotta contro il male che culmina
nella speranza di un mondo nuovo, nel quale il male sarà scomparso
per sempre. Poi l'autore analizza le lettere di Paolo, ponendo una dop­
pia domanda: che ne è delle affermazioni violente dell'apostolo e che
ne è, congiuntamente, della violenza del credente? L'indagine eviden­
zia un cambiamento, proprio della vita di Paolo : il passaggio dall'im­
magine di un Dio che pratica la violenza a quella di un Dio che subi­
sce violenza nella figura di Cristo crocifisso. Questo cambiamento co­
stituisce, per il credente, una forma di resistenza alla tentazione della
violenza religiosa, che passa attraverso una nuova comprensione del­
la sua esistenza nel mondo , basata sull'apertura all' universalità della
salvezza. Infine, l'autore passa in rassegna il Vangelo di Matteo, che
descrive il cammino di Gesù e l'articolazione, nella sua vita personale
e nella sua predicazione, di violenza subita e annuncio di retribuzione

violenta, in particolare mediante la figura del giudizio divino, fino al


punto di rottura dell'equilibrio costituito dal racconto della Passione .
In quel momento - letteralmente - di passaggio, Gesù accetta d i subi­
re la violenza degli uomini senza rispondere con la violenza, anche so­
lo verbale. Questo punto di rottura dell'equilibrio è preannunciato dal
Discorso della montagna. Globalmente, dall'indagine emerge l'esisten­
za di un vero combattimento contro la violenza del male all'opera nel
mondo . Questo combattimento contiene la sua parte di violenza, quel­
la della Vita in continua lotta contro le forze della Morte .
Nel capitolo 4, Jean-Daniel Causse illustra una forma di violenza di­
vina che si nasconde dietro la maschera affascinante dell'amore e del­
la bontà. Dobbiamo soprattutto a Nietzsche la demistificazione di que­
sta violenza che opera sotto un'apparenza contraria, elaborando una
morale, il cui fondamento è costituito, in realtà, dall'odio e dal risenti­
mento nei riguardi della vita. Da questo punto di vista, Dio stesso è il
prodotto di una tale violenza sotterranea: egli induce l'essere umano a
sentirsi colpevole della propria umanità, che continua a straziare.
Nietzsche interpreta il sacrificio di Cristo come il culmine del risenti­
mento : Dio sacrifica se stesso per saldare con il suo sangue il debito

8
contratto dall'umanità. L'autore discute questa versione del sacrificio
come espiazione sostitutiva, prima di illustrare le risorse interne al cri­
stianesimo che, decostruendo una çerta immagine del divino, rinnova
modi di credere lontani da un'interpretazione dei testi che alimente­
rebbe la violenza. E sviluppa tre aspetti: l) L'amore di cui parla Gesù
nel Discorso della montagna può diventare un modo subdolo di la­
sciare libero corso alla violenza, ma può anche significare una rottura
con il ciclo della violenza e con gli effetti speculari che riducono l'altro
a un'immagine di se stessi. Si tratta quindi di far posto all'eccesso del
dono e alle possibilità insospettate che ne scaturiscono. 2) Allo stesso
modo, la passione di Gesù può rafforzare tutta una serie di immagini
di violenza, ad esempio , quando il simbolo della «croce» induce a una
mortificazione malsana o serve a giustificare la sofferenza dell'inno­
cente, ma può anche produrre il capovolgimento decisivo di un'imma­
gine religiosa del Dio violento: sulla croce, non è l'umano a subire la
violenza divina, ma è il divino a subire la violenza umana, nell'uomo
Gesù. 3) La violenza cerca sempre di imporre il silenzio all'altro, per
cui aggredisce ciò che è specifico dell'essere umano: il linguaggio. Su
questo punto, i vangeli attestano la continua lotta di Gesù contro la vio­
lenza, considerata diabolica, mediante la simbologia della parola, cioè
.mediante una parola che distingue e rende ognuno singolare in seno a
un mondo condivisibile .
Così, tesa fra un'apertura, che racconta un Dio alla ricerca di una so­
luzione per la violenza che distrugge la terra, e la figura del Servo di Dio,
che combatte la violenza diabolica al punto da rifiutare di adottarne le
armi quando egli stesso ne è vittima, la Scrittura è suggellata dall'an­
nuncio della risurrezione, che spezza il silenzio dell'Agnello immolato in
una parola che invita ognuno a liberarsi dalla sua violenza. Perciò, con­
siderata globalmente, 1a Bibbia invita il lettore a un attraversamento: at­
traversamento delle immagini di Dio suscettibili - a volte subdolamen­
te di alimentare la violenza, pur pretendendo di combatterla; attra­
-

versamento delle violenze umane dai molteplici volti, certamente ripu­


gnanti, ma, a volte, anche affascinanti e tentanti; attraversamento delle
deformazioni del volto di Dio e degli esseri umani, quando la morte ha
il sopravvento, ma anche delle loro trasfigurazioni, quando la violenza
si trasforma in forza di vita e di vita condivisa. Infatti, se la Bibbia par­
la delle violenze, comprese quelle di Dio, forse lo fa perché è animata
dalla speranza che i lettori apriranno gli occhi su ciò che semina la mor­
te e sceglieranno risolutamente ciò che fa vivere la vita.

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La pubblicazione dell'originale francese di questo libro non sarebbe
stata possibile senza l'accettazione del nostro progetto da parte di An­
drée Thomas delle É ditions du Cerf e senza l'aiuto prezioso di lonel
Ababi, che ha armonizzato i nostri contributi e le loro note. Il libro ha
beneficiato anche della generosità del Centre de Recherches Interdisci­
plinaires en Sciences Humaines et Sociales (CRISES) dell'Università
Paul-Valéry-Montpellier III.

Jean-Daniel Causse
É lian Cuvillier
André Wénin

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Capitolo primo

«ADONAI ,

E UN GUERRIERO»
(ES 15,3)
LA VIOLENZA DIVINA
NELL'ANTICO TESTAMENTO

André Wénin

Perché, dopo un secolo nel quale ha raggiunto vette finora mai rag­
giunte nella storia, in un'epoca in cui continua a essere esibita da ogni
sorta di media, la violenza umana descritta in libri sacri come la Bib­
bia fa tanto problema? È comprensibile la posizione di quanti sospet­
tano la religione - soprattutto monoteistica - di alimentare violenza e
fanatismo. Anche se spesso la religione è solo l'ascesso nel quale si fis­
sa una violenza destinata comunque a sfogarsi. Ma si può seriamente
credere che un libro risalente a oltre duemila anni fa sia di per sé in
grado di scatenare o alimentare una violenza che, senza di esso, non
esisterebbe o mancherebbe di forza? No, la violenza nasce altrove,
quale che sia l'uso che certi «credenti» possono fare del loro libro sa­
cro per legittimare una violenza che affonda le sue ripugnanti radici
nel loro cuore o nella loro storia, cosa che essi non possono o non vo­
gliono riconoscere. Del resto , non è certamente per persone del gene­
re che fa problema la presenza della violenza nella Bibbia.1

l Un primo abbozzo di questo capitolo è stato p ubb licato , con il titolo «Le Seigneur
est un homme de guerre», in Christus 1 9 2(ottobre 2001), 403-411 .

11
Se c'è una questione al riguardo, è piuttosto per i credenti, a cau­
sa della loro fede e della loro appartenenza a una comunità che con­
fessa che la Bibbia è la parola di Dio. Forse questo stupisce quanti con­
siderano la Bibbia un libro degno di interesse, perché è in grado di
ispirare e di nutrire spiritualmente. Perciò, a mio avviso, il vero pro­
blema è sapere quale concezione della Bibbia spinge a metterla in di­
scussione a causa della violenza che contiene. Che cosa un lettore si
aspetta che sia la Bibbia, per processarla quando vi scopre della vio­
lenza? Quindi il vero problema riguarda forse più i pregiudizi del let­
tore che il libro in quanto tale.
Infatti, tutto sommato , che la Bibbia parli spesso della violenza è
una cosa fondamentalmente sana. Non deve stupire che racconti la de­
scrivano, leggi propongano un quadro per regolamentarla, profeti de­
nuncino le ingiustizie che causa, oranti preghino , quando ne sono vit­
time o la sentono affiorare nel loro cuore, saggi la facciano oggetto di
riflessione. Se la Bibbia, che descrive tutti gli aspetti dell'alleanza fra
Dio e un popolo, trascurasse quel dato costante della storia che è la vio­
lenza, non nasconderebbe una realtà umana inevitabile e somma­
mente distruttiva? Se la violenza non è mai così pericolosa come quan­
do si nasconde, non è forse utile mostrarla in ogni minimo dettaglio?
Presentandola nelle sue varie espressioni, la Bibbia costringe il lettore
a guardarla in faccia, a considerarla fin nelle sue forme più sottili o più

subdole . Essa gli svela le sue radici nascoste, gli mostra i suoi moven­
ti personali o collettivi, espone senza falsi pudori i suoi effetti letali, con
molteplici forme e contorni spesso insospettati. In questo senso, la Bib­
bia permette al lettore di comprendere la violenza che lo circonda, sia
quella che subisce, sia quella che avverte in sé o causa agli altri.
Passi la violenza degli uomini. Ma la violenza di Dio, quella che pra­
tica lui stesso, quella che ordina al suo popolo, quella che quest'ultimo
chiede a Dio di scatenare? In fondo, è questa la violenza che ripugna,
perché contrasta con ciò che il lettore crede di sapere di Dio, con ciò
che si aspetta che sia Dio, spesso in nome della stessa Bibbia o di al­
cune sue parti, che lo presentano in un modo del tutto diverso. Così,
ad esempio , molti lettori si scandalizzano, sentendo che gli israeliti li­
berati dall'Egitto cantano il loro Dio perché è «un guerriero» (Es 1 5 ,3)
e tale si è dimostrato, facendo affogare l'esercito del faraone nelle ac­
que del Mar Rosso, al termine di una battaglia memorabile di cui il suo
popolo è stato solo testimone e beneficiario (Es 14).

12
Un modo per spiegare testi del genere è quello di ricollocarli nel
contesto storico in cui sono stati redatti, per relativizzare le loro affer­
mazioni e disinnescare la questione. Così, ad esempio, la prima parte
del libro di Giosuè, che racconta la conquista di Canaan da parte di
Israele, riflette la realtà storica tipica della fine del II millennio . Gli sca­
vi archeologici recenti sono tassativi al riguardo e suffragati dalla vi­
sione che risulta dalla maggior parte degli scritti della Bibbia ebraica.
I racconti della conquista di Canaan da parte di Giosuè costituiscono
certamente una sorta di finzione teologica risalente verosimilmente al­
la fine del VII secolo. Prendono come modello testi assiri di propagan­
da militare e mirano a mostrare che il Dio di Israele vince le divinità
dell'Assiria e che solo Israele ha diritto di vivere sulla terra che Dio gli
ha donato, una terra dominata all'epoca dagli invasori assiri. Ora,
prendendo a prestito il discorso del nemico per combatterlo, gli auto­
ri biblici hanno dato al loro Dio un aspetto bellicoso, indubbiamente
deplorabile, ma comprensibile alla luce della situazione storica in cui
si trovavano e che li ha spinti a redigere questi testi.2
Nel suo saggio Dio violento?, 3 Giuseppe Barbaglio percorre un'al­
tra strada, più generale, che abbraccia l'insieme della composizione
della Bibbia. Considerando , in particolare, i testi in cui Dio ordina la
violenza agli uomini o si abbandona lui stesso a pratiche barbare con­
tro persone o popoli, l'autore rifiuta la spiegazione evolutiva, secondo
cui, nella Bibbia, si passa progressivamente da stadi primitivi, carat­
terizzati da un Dio violento , alla rivelazione, in Gesù, del superamen­
to della violenza, che è il vero disegno di Dio. Secondo questa spiega­
zione, l'immagine del Dio violento sarebbe solo una prima tappa nel
processo di progressiva rinuncia alla violenza, che sfocia nel Nuovo Te­
stamento. Barbaglio rifiuta decisamente la contrapposizione fra i due
Testamenti, tanto più che anche il Nuovo Testamento contiene molti te­
sti violenti, e avanza una diversa ipotesi.

2 Riprendo gli elementi essenziali di questo paragrafo da T. ROMER, «Des meuri:res


et des guerres: le Dieu de la Bible hébra.lque aime+il la violence?», in D. MAI!GUERAT (ed.),
Dieu est·il violent?, Bayard, Paris 2008, 35-57, soprattutto 49-55. Cf. anche, dello stes­
so autore, le 59-74 del saggio flati oscuri di Dio. Crudeltà e violenza nell"Antico Testa­
mento. Claudi an a Editrice, Torino 2002.
3 G. BARBAGLIO, Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane, Cittadella
Editrice, Assisi 1991.

13
Secondo lui, nella Bibbia coesistono due immagini principali di
Dio. La prima è quella di un Dio bifronte, che ricompensa e punisce,
che fa grazia e fa vendetta. Più rara, la seconda immagine presenta un
Dio di pura grazia che, !ungi dal rendere male per male, ama allo stes­
so modo buoni e cattivi, perseguendo un unico scopo: dare scacco mat­
to al male e alla morte con un eccesso d'amore. Questa seconda im­
magine ha fatto fatica a liberarsi dalla prima, ma costituisce comunque
il cuore della rivelazione biblica su Dio. Attestata fin dall'Antico Testa­
mento, essa viene sviluppata con maggiore ampiezza e forza nel Nuo­
vo Testamento. La prima immagine, quella del Dio «bifronte», è radi­
cata in uno stereotipo della religiosità wnana: il divino come mistero
che fa paura e affascina al tempo stesso . Questa concezione riflette una
struttura arcaica della psiche umana. È stata quella di Israele e della
Chiesa delle origini, perché la parola di Dio raggiunge le persone nel
linguaggio della loro epoca, della loro cultura. Su questa base, la rive­
lazione biblica appare come un lento sforzo, continuamente ripreso, di
purificazione dell'immagine di Dio dal suo aspetto temibile. Secondo
Barbaglio, questo sforzo è stato compiuto con «forti e creative intuizio­
ni religiose», espresse dai profeti, da Gesù e dagli apostoli, sotto l'a­
zione dello Spirito .4 È consistito anzitutto nell'attribuire a questo aspet­
to del divino una funzione secondaria, strumentale: per salvare ed es­
sere fonte di vita, Dio deve eliminare i malvagi, come racconta, ad
esempio, il libro dell' Esodo. Ma questa relativizzazione prelude a una
totale squalifica dell'aspetto violento del divino. Dio non vuole la mor­
te del peccatore; vuole solo l'eliminazione della malvagità e dell'ingiu­
stizia nel peccatore. In questo senso, la morte di Gesù rinvia l'immagi­
ne di un Dio che si rifiuta di fare violenza ai violenti e di rendere loro
male per male, per poterli salvare mediante l'amore. È a questo Dio che
viene invitato ad aderire il lettore della Bibbia cristiana. E a vedere nel­
le azioni violente attribuite dal testo biblico a Dio il frutto della proie­
zione in lui dei meccanismi della violenza umana.
'
Questa messa in prospettiva del pensiero biblico riguardo a Dio e
alla violenza è interessante: ha il grande merito di svelare il cuore del
messaggio biblico e formulare un' ipotesi che cerca di tener conto del­
la sua origine storica. Al tempo stesso, la spiegazione, già evocata, me-

4 BARIIAGuo, Dio violento?, 25.

14
diante il ricorso al contesto storico della composizione dei testi non è
priva di pertinenza, perché permette di ricollocarli, relativizzando al
tempo stesso il loro modo di parlare di Dio. Comunque questi due ap­
procci trascurano una questione cruciale per il lettore odierno: che far­
ne di quei numerosi testi biblici nei quali Dio ordina la violenza o la
sfoga personalmente? Sono ancora pertinenti o devono essere relega­
ti, senza ulteriori processi, fra le sopravvivenza di un pensiero arcai­
co, che riveste tutt'al più un interesse archeologico o permette di mi­
surare i progressi fatti dalla «rivelazione biblica)) ? E se così è, perché
continuare ancora a leggere questi testi, se non per servire a mettere
in risalto qualcos'altro?
Certo, è bello presentare il Dio della Bibbia come puro Amore, che
non può in alcun modo essere compromesso con la violenza, anche se,
per un momento, la rivelazione deve venire a patti con gli stereotipi
umani su Dio, per poterli oltrepassare. È bello ed è certamente vero .
Ma è anche un modo di nascondere, per non doverlo risolvere, l'enig­
ma fondamentale posto da questi testi. Infatti, non basteranno i ricor­
si al contesto storico della loro composizione : si può mostrare che un
popolo del Medio Oriente antico ha sviluppato e conservato nei suoi
scritti una tale concezione del suo Dio, ma rimane ancora da spiegare
il motivo per cui la Chiesa nascente non ha seguito Marcione, che, nel
II secolo d.C., rifiutava l'Antico Testamento proprio perché, secondo la
testimonianza di Eusebio, il suo Dio è «un essere malvagio, amante
della guerra, incostante anche nei suoi giudizi e in contraddizione con
se steSSO)) . Rimane da spiegare perché, a distanza di venti, venticin­
que , secoli, pur confessando un Dio d'amore, i cristiani continuano a
sostenere che questo testo è ispirato, è parola di Dio, e cercano di leg­
gerlo come tale . . . Sarebbe quindi ancora in grado di ispirarci? Do­
vrebbe ancora indurci a riflettere questo Dio violento, che non collima
assolutamente con ciò che i credenti vorrebbero che la loro Bibbia mo­
strasse di lui? Infatti, non è certamente il minor merito del Dio violen­
to quello di sloggiare con violenza il credente da un comodo sapere su
Dio e rinviarlo al mistero insondabile del Nome indicibile, per costrin­
gerlo a continuare a cercarlo. In questo senso, le pagine che seguono
hanno solo l'ambizione di indicare, a partire da un approccio lettera­
rio e sincronico dei testi, l'una o l'altra pista, per tentare di dire, no­
nostante tutto, qualcosa su questa realtà impensabile davanti alla qua­
le l'Antico Testamento pone il lettore.

15
Un racconto programmatico (Gen 1-9):
un Dio mite davanti alla violenza5

Il racconto poetico che apre il libro della Genesi (Gen 1 , 1-2,3) offre
un'immagine di potenza, ma anche di mitezza, di Dio . Ma, in ciò che
appare di lui fin dal v. 2 , il suo «vento», egli possiede una forza po­
tenzialmente violenta. Infatti, in questo senso concreto, l'espressione
«vento di Dio» evoca quello che noi chiameremmo un «uragano di Dio
Padre». Secondo l'immagine di Gen 1 , 2 , ripresa in Dn 7 , 2 , dove «i
quattro venti del cielo si abbattono violentemente sul grande mare»,
questo vento agita il caos dell' oceano abissale immerso nelle tenebre,
con la violenza divina che aumenta, se così si può dire, il caos primi­
tivo. Il racconto continua registrando la metamorfosi radicale di que­
sta forza non trattenuta: «E Dio disse» (Gen 1 , 3a) . Dio trattiene, per
calmarlo, «il vento della sua bocca» (Sal 33,6) e modula questo soffio ,
articolando una parola che squarcia le tenebre: «Sia la luce ! » . Così, «in
principio», il narratore biblico mette in scena un Dio che placa la sua
violenza, le impone una saggia moderazione, mostrandosi più forte di
essa. È quest'azione a presiedere l' atto creatore sostenuto interamen­
te da questa parola, finché, il settimo giorno , Dio appone un sigillo di
mitezza sulla sua forza,6 lui che, controllando la violenza che quest'ul­
tima contiene, ha fatto ampiamente posto ad altro . E affinché la terra
conosca l' armonia che procede dalla sua mitezza, Dio invita gli uomi­
ni a conformarsi alla sua immagine, che ha deposto in loro: come lui,
essi eserciteranno il loro dominio sul mondo, in particolare sugli ani­
mali; come lui, potranno farlo senza violenza - controllando il loro do­
minio - perché si ciberanno di vegetali e non dovranno quindi uccide­
re. Questo mite dominio permetterà loro di concretizzare il sogno di­
vino di un'armonia e di una pace universali (Gen 1 , 28-30).
Avendo rinunciato a esercitare la sua forza con violenza, il Dio di
Gen 1 sembra averla esclusa dall'universo chiamato all'esistenza dal-

5 Mi permetto di presentare la questione sinteticamente, avendo già pubblicato va­


ri testi al riguardo. Cf. A. WGNIN, Non di solo pane... Violenza e alleanza nella Bibbia,
HDB, Bologna 2004, 3 5 - 1 44 e La Bible ou la violence surmontée, DDB, Paris 2008; cf.
anche Da Adamo ad Abramo o l 'errare dell'uomo. HDB, Bologna 2008.
6 P. BEAUCHAMP, Testament biblique, Recueil d'articles parus dans atudes, Bayard,
Paris 200 1 , 27-28.

16
la sua parola. Più esattamente, si preoccupa di prevenirla. Assegnan­
do agli uomini un menù vegetale, suggerisce loro di fare della mitezza
la regola del loro comportamento, per far posto, a loro volta, all'alteri­
tà (Gen 1,28-29 e 2 , 1 6-1 7).7 Ma il seguito del racconto mostra che gli
uomini preferiscono mettersi a rimorchio dell'animalità che c'è in lo­
ro piuttosto che ispirarsi all'immagine del Dio mite: spinti dalla loro cu­
pidigia, essi imboccano una strada che conduce inesorabilmente alla
violenza. L'errore della prima coppia dell' Eden (Gen 3,1-7) sconvolge
profondamente la sua vita e le sue relazioni (Gen 3 , 8 - 24) e, rilanciato
dalla gelosia di Caino , questo processo conduce al primo omicidio (Gen
4,5-8). Allora, nel racconto , Dio compare ogni volta come un giudice
che processa i colpevoli e li punisce duramente (Gen 3 , 8-24; 4,9-1 4).
Ma, nelle sue sentenze, Dio si limita a evidenziare le conseguenze del­
la cupidigia che gli uomini hanno scelto di seguire . Le cose sono rac­
contate in modo da far comprendere che questa scelta corrompe lo
sguardo portato su Dio, deforma la sua immagine, proprio mentre egli
si impegna a combattere il serpente della cupidigia e la sua sorgente
inquinata (Gen 3 , 15), cosa che fa con Caino appena quest'ultimo si tro­
va alle prese con la stessa (Gen 4, 7). s
Allora Dio è costretto a constatare che è accaduto proprio ciò che
voleva prevenire. Perciò, posto brutalmente davanti alla violenza uma­
na, cercherà di contenerla. Quando Caino confessa la sua colpa, Dio lo
protegge, imponendogli un segno accompagnato da una minaccia de­
stinata a dissuadere chiunque avvertisse un desiderio omicida:
«Chiunque ucciderà Caino, subirà la vendetta sette volte!» (Gen 4 , 1 5).
Ma il lettore attento percepirà, in queste parole in cui si esprime la be­
nevolenza divina, una certa violenza, come se Dio stesso non sfuggis­
se al rischio di lasciarsi intrappolare dalla logica della violenza nella
sua stessa volontà di combatterla. La minaccia non produce l'effetto
sperato. E il racconto continua mostrando che, lungi dal cessare, la
violenza umana si rafforza (Gen 4,23-24; 6,4-5.11-12) . Quando Dio
constata il fallimento della sua parola e le distruzioni provocate dal di­
lagare della violenza in ciò che ha creato, decide di dare libero sfogo
alla sua violenza e lasciar sprofondare il mondo nel caos dal quale lo

7 Sviluppo questo punto sulla scia di P. Beauchamp in Non solo di pane. . . , 19-42 .
8 Questa lettura è suffragata d a ciò che s i trova nel mio volume Da Adamo ad Abra­
mo.. . , 93-117 e 143-147 .

17
aveva tratto (Gen 6 , 1 3). Comunque risparmia un uomo integro, insie­
me ai suoi, per assicurarsi la possibilità di una ripartenza da zero al
momento di fare tabula rasa (Gen 6 , 1 7 - 1 8).
Al termine del diluvio, quando la sua violenza ha precipitato il mon­
do nella morte e nel caos, Dio si pente di ciò che ha fatto (Gen 8 , 2 1 -
2 2) . Dopo aver constatato l'inefficacia della minaccia, ora deve regi­
strare il fallimento del tentativo di mettere fine alla violenza con la vio­
lenza, una scelta che segna la vittoria, piuttosto che la sconfitta, della
violenza. Allora imbocca una terza strada, che consiste anzitutto a
prendere atto della violenza umana come dato di fatto. Non serve ne­
garla, perché esiste, con la sua capacità di nuocere, e le parole divine
- invito alla mitezza o minaccia - non bastano a scongiurarla. Bisogna
quindi riconoscerle uno spazio. Allora Dio permette agli uomini di uc­
cidere gli animali per cibarsene (Gen 9 , 1 -3), ma stabilisce subito una
legge: il divieto del sangue, accompagnato da un avvertimento contro
l'effetto boomerang della violenza umana. Questa legge mira a limita­
re la violenza, a contenerla, in modo che non comprometta lo svilup­
po della vita (Gen 9,4-6). Con questa nuova benedizione, che modifica
il disegno originario del Creatore (Gen 9, 1-7, cf. 1 , 28-29), si inaugura
per così dire il «mondo reale», frutto di un «compromesso sulla con­
dotta della violenza»,9 un mondo nel quale resta tuttavia immutata la
vocazione dell'uomo a vivere a immagine di Dio (Gen 9,6), anche se de­
ve essere realizzata in un contesto più difficile.
Dopo aver riconosciuto la realtà della violenza umana e previsto al
tempo stesso un dispositivo per contenerla, Dio non si ferma. Perso­
nalmente dichiara di rinunciare alla violenza, deponendo come segno
le armi, abbandonando il suo arco nelle nubi e trasformando que­
st'arma di aggressione in segno di alleanza (Gen 9,8-17). D' ora in poi,
l'alleanza sarà lo strumento privilegiato attraverso il quale cercherà di
combattere la violenza. Ma quest' «armistizio» non è una dimissione da
parte di Dio . Infatti, quando il timore di essere dispersi e quindi disgre­
gati spinge gli uomini di Babele a costruire il nido del totalitarismo,
scegliendo la schiavitù, egli si affretta a porre fine a questo progetto,
violento in quanto nega l'alterità: distinguendo le lingue - un inter­
vento che già di per se stesso fa violenza agli abitanti di Babele, in-

9 BEAucHAMP. Testament biblique, 1 71.

18
frangendone il sogno - Dio stabilisce delle distinzioni, come quando
aveva creato il mondo (Gen 11, 1-9). Tuttavia, subito dopo, con la vo­
cazione di Abramo, immaginerà un cammino di unità che non mette­
rà in pericolo le legittime particolarità degli uomini e dei popoli: il cam­
mino dell'alleanza (Gen 12, 1- 3) .10
Perciò l'immagine di un Dio mite domina il racconto biblico delle
origini: questa mitezza non ha nulla a che vedere con la debolezza,
perché è una forza che permette di contenere la violenza potenziale.
Ma la violenza umana, che il Creatore aveva cercato di prevenire me­
diante l'offerta dell'alimentazione vegetale, ha ben presto il soprav­
vento su questa scelta divina. Allora Dio cerca a tentoni di farvi fron­
te, sperimentando la difficoltà di combatterla senza cedere alla sua lo­
gica e quindi senza alimentarla. Così, dopo aver anzitutto mantenuto
soluzioni violente, finisce per scegliere chiaramente la mitezza, ma
senza fuggire davanti alla violenza, perché ha constatato che essa ri­
schia di distruggere il mondo e l'umanità. È questa la prima impres­
sione offerta dal racconto della Genesi: pur collocando risolutamente
Dio dalla parte della mitezza, non trascura di sottolineare le forti ten­
sioni cui lo sottopone questa scelta. Infatti, nello stesso momento in cui
gli uomini sono chiamati a scegliere per realizzare in loro l'immagine
di Dio, si insinua la cupidigia, tirandosi dietro la violenza, che com­
promette il disegno divino , un disegno di vita e di pace che aveva in­
dotto Dio a cercare di controllarla fin dalla creazione dell'umanità.
Ma, quando la violenza ha corrotto il mondo degli uomini, se non
vuole abbandonare il creato a se stesso, il Creatore deve necessaria­
mente affrontarla. E se non vuole abdicare e rinunciare al suo disegno,
deve fare i conti con uomini avidi e violenti, perché non sanno accet­
tare l'alterità, neppure la loro . Egli può quindi interagire solo con per­
sone nelle quali la violenza sfigurerà inevitabilmente il suo volto e che,
incapaci di riconoscere il suo desiderio di vita anche nei suoi interventi
violenti - le sentenze e le punizioni, ma anche il diluvio - proietteran­
no su di lui la loro violenza o il loro risentimento. Il Dio presentato dal
racconto biblico non teme di correre questo rischio . Egli accetta l'u­
manità reale, nella speranza, compromettendosi così con la sua vio­
lenza, di scoprire insieme ad essa delle vie in grado di trasformare

IO Cf. Wffi<JN, DaAdamo adAbramo. .. , 1 69-1 75.

19
quest'energia di morte in forza di vita. Del resto, proprio per questo
prevede leggi che, come quelle di Gen 9 , 1 -6, mirano precisamente al
contenimento della violenza, pur avendo interessi comuni con essa nel­
la misura in cui le cedono . n
Infatti, se c'è qualcosa che Dio «odia», è proprio la violenza e tutto
ciò che la provoca o la alimenta: «Il malvagio e chi ama la violenza, la
sua anima (li) odia», dice il salmista (Sall1 , 5) . Sempre in questo sen­
so l'Antico Testamento evoca l' «odio» che Dio prova, come a sottoli­
neare il suo desiderio di vita e di pace. Profeti e saggi attestano che egli
odia il potere presuntuoso e arrogante, che offende le persone sempli­
ci (Am 6 , 8 ; Pr 8,3a), aborrisce la menzogna e i giuramenti falsi, che
fanno violenza alla vita della comunità, che suppone la fiducia (Zc
8,1 7b; Pr 8, 3b), detesta il furto, che la perfidia legittima, nasconden­
dolo (ls 6 1 ,8), e non tollera il cuore che trama il male contro il prossi­
mo e usa la lingua per eliminarlo (Zc 8 , 1 7a). Per dirla con l'autore del
libro dei Proverbi:
Queste sei cose, Adonai Oe) odia,
e sette sono orrori per la sua anima:
gli occhi alteri, la lingua bugiarda,
le mani che versano sangue innocente
il cuore che trama iniqui progetti,
i piedi che corrono rapidi verso il male,
il falso testimone che proferisce menzogne
e chi provoca litigi fra fratelli (Pr 6 , 1 6 - 1 9) .

Ecco ciò che provoca l'odio di Dio: ciò che ostacola il suo disegno
di pace per tutti. Ma allora come accetta ciò che, d'altra parte, odia?

Violenze di Dio: abbozzo di una tipologia

Alla luce di questa «prefazione», nella quale Dio si schiera a favo­


re della mitezza e cerca di dare scacco matto alla violenza umana, il
racconto biblico offre fin dall'inizio una chiave di lettura che deve in­
durre il lettore a mettere in prospettiva ciò che, in seguito, si afferma
a proposito della violenza divina. Infatti il Dio di cui parla l'Antico Te-

u Cf. BEAUCHAMP, Testament biblique. 170-1 72.

20
stamento e, del resto, anche il Nuovo - si trova spesso coinvolto nel­
-

la violenza e in molti modi diversi . !:immagine piuttosto precisa deli­


neata dalle prime pagine della Genesi si scontra ben presto con com­
portamenti violenti da parte dello stesso Dio: colpisce con le piaghe il
faraone e la sua casa, dopo che il re egiziano ha introdotto Sarai nel
suo harem (Gen 1 2,17); distrugge Sodoma e Gomorra con un diluvio
di fuoco (Gen 1 9,23-28); rende sterili le donne di Gerar (Gen 20, 1 8);
chiede ad Abramo di offrirgli in olocausto addirittura il suo unico figlio
(Gen 22,2) . Il meno che si possa dire è che. in questi passi, non si tro­
va a priori l'immagine del «buon Dio» del catechismo, 12 e che, quan­
do si tratta di raccontare Dio, la Bibbia non esita a porre il lettore da­
vanti a duri paradossi, e persino a vere e proprie contraddizioni, mol­
tiplicando atteggiamenti e comportamenti che, a poco a poco, delinea­
no un'immagine di Dio molto difficile da circoscrivere. 1 3
M a occorre notarlo subito : i l fatto che i vari tratti che compongono
questo ritratto non permettano di rappresentarsi Dio è pienamente
coerente con ciò che dicono molti testi biblici - a cominciare dalla leg­
ge delle leggi, quella delle Dieci Parole (Es 20,4) - i quali vietano di
.

farsi immagini scolpite di Dio , perché Dio non è rappresentabile e non


può essere circoscritto in modo definitivo. «State bene in guardia per
la vostra vita: poiché non vedeste alcuna figura quando Adonai vi par­
lò sull'Oreb dal fuoco, per timore che vi corrompeste e vi faceste un'im­
magine scolpita. una forma di ogni immagine divina ... » (Dt 4 , 1 5 - 1 6) ; o
ancora il grande Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israe­
le, salvatore» (Is 45,1 5). Ma dove si nasconde Dio se non dietro a tut­
te le immagini parziali che il racconto biblico offre di lui? Infatti i testi
biblici non pretendono di circoscriverlo. Cercano piuttosto di avvici­
narsi a lui attraverso rappresentazioni sempre parziali, provvisorie, ri­
vedibili, di questo personaggio, che resta sempre «da venire», perché
dice di se stesso «io sono chi sarò» (Es 3,14). espressione che l'autore

12 In questo senso, M. OEMING, «Dieu et la violence dans I'Ancien Testament: obser­


vations à contre temps d'un exégète», in M. ARNOID- J.-M. PRIBUR (edd.), Dieu est·il vio­
lent? La violence et /es représentations de Dieu, Presses universitaires. Strasbourg 2005,
1 1-30, per il quale «la Bibbia corregge l'immagine unilaterale del "buon Dio"» (20).
13 Gli esegeti spiegano questa situazione con il fatto che Israele è gi unto a profes­
sare una fede monoteistica all'epoca dell'esilio a Babilonia. Le diverse proprietà distri­
buite fra i vari dèi del politeismo sono state assunte da un unico dio, che in questo mo­
do è diventato contraddittorio. Cf. , ad esempio, OEMING, «Dieu et la �olence», 29·30.

21
dell'Apocalisse commenterà in questi termini: «Colui che è, che era e
che viene» (Ap 1 ,4). Perciò le immagini violente appartengono all'im­
mensa sinfonia delle rappresentazioni parziali - e quindi criticabili -
del Dio dal Nome impronunciabile. La sfida è quindi quella di tentare
di percepire ciò che queste immagini possono esprimere di pertinente
su Dio, nei loro stessi limiti.
Analizzerò, raggruppandole in forma tematica, le principali rap­
presentazioni violente di Dio attestate nell'Antico Testamento, per cer­
care di abbozzare un quadro d'insieme, proponendo al tempo stesso
alcune piste, che non mirano a cancellare o giustificare gli aspetti scan­
dalosi della figura divina, ma a porli in prospettiva, per permettere di
percepire qualcosa di ciò che esprimono riguardo al Dio della Bibbia.

Violenza di Dio, espressione della sua giustizia

Che la violenza umana opprima le sue vittime e comprometta la vita


in società è un dato che la Bibbia assume pienamente, dal racconto del­
l'omicidio di Caino (Gen 4 , 1 - 1 6) fino ai massacri perpetrati specialmen­
te in Giuda da Oloferne e dai suoi soldati (Gdt 2-7), passando per l'op­
pressione dei figli di Israele in Egitto (Es l e 5), la guerra fra le tribù di
Israele, in seguito alla violenza fatta a una donna (Gdc 1 9-2 1), o la pre­
sa di Gerusalemme da parte dei Caldei (2Re 25). Purtroppo la storia è
abituata a questo tipo di violenza e la Bibbia non fa che riflettere ciò che
ogni lettore vede con i propri occhi. Di fronte alla violenza, molte pagi­
ne bibliche affermano - a loro modo, in base al loro proprio genere let­
terario - che Dio non resta indifferente davanti a questo doloroso spet­
tacolo, perché non può rendersi complice di queste atrocità, sotto pena
di essere tacciato di ingiustizia. Un salmista non rinuncia a ricordar­
glielo, quando lo apostrofa in questi termini: «Può essere tuo alleato un
tribunale iniquo, che con disprezzo delle leggi fabbrica l'oppressione? Si
avventano contro la vita del giusto e condannano il sangue innocente»
(Sal 94,20-2 1). Qui è in discussione proprio la giustizia di Dio.
Un modo abituale di reagire all'intollerabile è quello di usare la vio­
lenza per porre fine ai comportamenti di coloro che fanno il male. Se
questa violenza è proporzionata alla gravità dei crimini e accetta quin­
di di autolimitarsi, non è giustificabile? In ogni caso, i nostri tribunali
funzionano in genere in questo modo. Quando Abramo discute con Dio
su ciò che bisogna fare a Sodoma e a Gomorra, qualora si possa di-

22
mostrare che i loro abitanti hanno commesso violenze, non mette in
discussione il fatto che quelle città meritino una punizione esemplare.
Dubita solo che Dio faccia onore alla sua giustizia, facendo perire i giu­
sti con gli empi o anche semplicemente non risparmiando le due città
se vi si trovano dei giusti (Gen 1 8, 20-33). Dice a Dio : «Lontano da te il
far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come
l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà
la giustizia?» (Gen 1 8 ,25).
Nella Bibbia non mancano esempi di questo tipo di violenza prati­
cata da Dio in nome della giustizia. Fin dalle prime pagine della Ge­
nesi, all'inizio del racconto del diluvio, vedendo che la violenza degli
uomini distrugge la terra, Adonai decide di mettervi ordine, eliminan­
do i malvagi e risparmiando il giusto e la sua famiglia (Gen 6 , 5 - 1 3 ). Al­
lo stesso modo, la violenza fatta dagli egiziani ai figli di Israele, ridu­
cendoli in schiavitù e opprimendoli, chiama il giudizio di Dio, perché
gli oppressori - e per primo il loro re - si rifiutano di ascoltare le sue
richieste di liberare i loro servi: «Il faraone non vi ascolterà e io leve­
rò la mia mano contro l'Egitto e farò uscire dalla terra d'Egitto le mie
schiere, il mio popolo, gli israeliti, per mezzo di grandi castighi» (Es
7 ,4). Anche i profeti annunciano che le nazioni, mediante le quali Dio
ha punito il suo popolo per le sue infedeltà all'alleanza, subiranno a lo­
ro volta il giudizio divino per la loro insolenza e violenza nei riguardi
di Israele. Si può leggere in questo senso la serie di oracoli contro Ba­
bilonia ai capitoli 50 e 51 del libro di Geremia: «Convocate contro Ba­
bilonia gli arcieri, quanti tendono l'arco! Accampatevi attorno ad essa;
non abbia scampo. Ripagatela secondo le sue opere, fate a lei quanto
essa ha fatto , perché è stata arrogante con Adonai, con il Santo di
Israele» (Ger 50,29) . 1 4
M a l a giustizia che spinge Adonai a punire duramente l a violenza
non si limita ai nemici del suo popolo, come vorrebbe una logica na­
zionalistica. Lo stesso Israele ne fa spesso le spese. L'inizio del libro di
Amos ne offre una potente illustrazione. Infatti, il passo vuole smentire
l'idea che solo la violenza compiuta dagli stranieri sarà oggetto della
giustizia divina. Sette oracoli annunciano, anzitutto, il castigo inevita­
bile dei crimini co_mmessi dai popoli vicini a Israele: vengono condan-

14 Cf., anche, in particolare. Ger 5 0 , 1 7 - 1 8 : 5 1 ,34-40; o anche Is 1 4,3-2 1 .

23
nati, in rapida successione, Siria, Filistea, Fenicia, Edom, Aminon,
Moab e Giuda (Am 1 , 3-2 ,5). Ma nel momento in cui gli ascoltatori israe­
liti del profeta gioiscono per non essere inclusi nella lista ed essere quin­
di preservati dal giudizio, Amos pronuncia un ottavo oracolo - del re­
sto, molto più lungo dei precedenti - nel quale Adonai se la prende pro­
prio con loro, specialmente per le violenze e le ingiustizie perpetrate
verso i deboli e i poveri. Anch'essi subiranno un duro castigo da parte
di Dio (Am 2,6-1 6). Dice infatti Adonai: «Soltanto voi ho conosciuto fra
tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre colpe»
(Am 3 , 2) . Nello stesso senso, i re Davide e Acab non sfuggiranno al ri­
gore della punizione divina, dopo essere ricorsi, abusando del loro po­
tere, alla violenza, il primo facendo uccidere Uria, il marito della don­
na che ha messo incinta (2Sam 1 1-12), il secondo lasciando che la re­
gina trami la morte di Nabot per impossessarsi della sua vigna (1 Re 2 1 ) .
È opportuno evocare i n questo stesso contesto giudiziario l a deli­
cata questione della «vendetta» di Dio. Nella nostra cultura, la vendet­
ta è considerata una reazione primaria, benché a volte venga rimugi­
nata a lungo prima di saziarsi, perché, come dice il proverbio, la ven­
detta è un piatto che si mangia freddo. In sé, «vendicare» è infliggere
a una persona un danno come compensazione di un torto che ha fat­
to subire a un'altra persona. Ma la natura di questo atto dipende dal­
la maggiore o minore equivalenza fra il torto subito e il danno arreca­
to e dalla presenza o meno di un controllo normativo esercitato dalla
società . 1 5 Secondo il significato corrente del termine, non si tratta tan­
to di «vendicare» quanto di «vendicarsi» , ai margini dell'ordine lega­
le e al di fuori di ogni procedura giudiziaria, e, quindi, in modo arbi­
trario e spesso sproporzionato (allora si parla di vendetta). La Bibbia
ebraica conosce anche questo tipo di vendetta, ma lo considera un at­
to negativo («Non ti vendicare e non serbare rancore contro i figli del
tuo popolo», si legge in Lv 1 9, 1 8) e riprovevole (Ez 25 , 1 2 . 1 5) . Nor­
malmente nella Bibbia la «vendetta» (naqam) viene esercitata in un
quadro legale e mira a ripristinare la giustizia (Es 2 1 ,20). Quando si
tratta di Dio, il significato è spesso questo: «vendicare» o «trarre ven-

t s Su questa questione, cf. P. BovATJ, Ristabilire la giustizia. Procedure. vocabolario,


orientamenti (Analecta biblica 1 1 0), Biblica] Institute Press, Roma 1 986, 45-48. Cf. an­
che L. MAzztNGHt, «La violenza nella Bibbia. Editoriale», in Ricerche storico bibliche
20(2008), 5-16, soprattutto 7.

24
detta» nel senso di retribuire chi ha fatto un torto a Dio stesso (Lv
26,25), ai suoi servitori (Dt 32,43), a Israele (Ger 50, 1 5) e ai suoi po­
veri (Is 35 ,4), o anche a una terza persona (Ez 24,7-8). In questo sen­
so Davide preferisce lasciare a Dio il compito di vendicarlo nei con­
fronti di Saul, per evitare di commettere un'ingiustizia (1 Sam 24, 1 3) .
Manfred Oeming scrive: «Dio non desidera l a vendetta nel senso mo­
derno del termine, ma la giustizia»; e aggiunge che affidare la rappre­
saglia a Dio e !asciargliene il monopolio è un modo per prevenire l'e­
scalation della violenza. i6
È in questo senso che vanno intesi gli appelli dei salmisti, che im­
plorano Dio di vendicarli. Infatti, chi prega in questo modo rinuncia
per ciò stesso a vendicarsi da sé, per lasciare a Dio il ristabilimento
della giustizia. È ciò che fa l'orante del Sal 94: «Dio vendicatore, Ado­
nai, Dio vendicatore, risplendi! Alzati, giudice della terra . . . » (vv. 1 -2a).
A pregare in questo modo è un innocente vittima dell'ingiustizia dei
potenti, che se la prendono con le persone vulnerabili a causa della lo­
ro povertà o della loro condizione sociale (Sal 94,5-6) e si mostrano ar­
roganti, perché pensano che Dio resterà indifferente. Ma il salmista
crede che Adonai non abbandona i suoi (Sal 94, 1 4) . Perciò, lo suppli­
ca di ristabilire la giustizia derisa. rendendo i loro crimini a coloro che
li commettono (Sal 94,2b. 2 3 ) . 1 7 Allo stesso modo, nel Sal 58, è l'ingiu­
stizia dei giudici che «grida vendetta al cielo». Quando l'iniquità si in­
stalla nel luogo che deve rendere giustizia, a chi possono rivolgersi i
giusti se non a Dio stesso? Come possono infatti far valere i loro dirit­
ti davanti a magistrati corrotti fino alla radice? Ma se Dio interviene,
allora «il giusto godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue
dei malvagi» e proclamerà: «C'è una ricompensa per il giusto, c'è un
Dio che fa giustizia sulla terra! » (Sal 5 8, 1 1 - 1 2) . 1 8 Questa concezione di

1 6 OEMING, «Dieu et la violence», 30. Cf. anche BARBAGuo, Dio violento?, 1 30- 1 39, che
cita in questo senso Rm 1 2, 1 9 (TOB): «Non vendicatevi da voi stessi, carissimi, ma la­
sciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: a me la vendetta, sono io che ricambierò. di­
ce il Signore». Per evitare un controsenso in francese. la BJ e la Nouvelle Segond prefe­
riscono «fare giustizia» a «vendicarsi» per rendere il greco ekdikeo. Cf. . al riguardo, ciò
che scrive Élian Cuvillier nel capitolo 3 di questo libro.
17 Cf. J.-L. SKA. «"Dieu des vengeances, montre-toi" (Sal 94, 1 )», in We consacrée
53(198 1 ) . 353-356.
1 s P ropongo una lettura di questo salmo in Le livre des louanges. Entrer dans les
Psaumes (i!critures 6), Lumen Vitae. Bruxelles 22008, 1 32 - 1 4 1 . Cf. anche T. ROMER, Psau­
mes interdits. Du silence à la violence de Dieu, Moulin, Poliez-le-Grand 2007, 7 1 -76.

25
un Dio che pratica una giustizia muscolosa sottende una parte della
preghiera del salterio, mentre il libro della Sapienza descrive l'arma­
tura del guerriero divino che va alla battaglia per proteggere i giusti
contro gli stolti che li minacciano (Sap 5 , 1 5-20) .
Inserendosi nella stessa linea d i pensiero, altri testi biblici cercano
visibilmente di smussare gli angoli e si sforzano di minimizzare il ruo­
lo di Dio nella violenza che comporta l'esercizio della giustizia. Non c'è
forse in questo l'indizio di un certo imbarazzo negli stessi autori bibli­
ci? In alcuni racconti, Dio interviene soprattutto per far sì che il vio­
lento si autodistrugga, cada vittima della sua propria violenza. Un bel­
l' esempio è offerto dal racconto della vittoria di Gedeone sui madiani­
ti. Spaventati dal baccano improvviso e dalle fiamme delle torce dei
trecento uomini di Gedeone, i nemici, spinti da Adonai, rivolgono la
spada ognuno contro il proprio compagno (Gdc 7 , 1 9-22). Allo stesso
modo, i nemici di Giosafat si sterminano a vicenda, quando Dio ri­
sponde alla preghiera di Israele seminando la discordia fra di loro (2Cr
20, 2 1 -24).
In altri passi, è la natura che, rispondendo al suo Creatore, si ri­
volta contro i violenti, come in occasione del diluvio, quando la violen­
za delle forze della natura pone fine a quella degli uomini . 1 9 È il mo­
dello che ritroviamo nelle piaghe di Egitto e nel celebre racconto della
traversata del mare in Es 14, dove il vento e il mare uniscono le loro
forze, per iniziativa di Adonai, per inghiottire il faraone e il suo eser­
cito. Questo modello ritornerà in alcuni testi profetici, che descrivono
il castigo della parte di Israele infedele (Am 7 , 1 -6; Gl 1-2; Dt 28,38-
42). Viene ripreso anche nel libro della Sapienza (Sap 5 , 20-23), che
giunge fino ad affermare che i violenti sono puniti proprio da ciò in cui
hanno peccato (Sap 1 1 , 1 6) e sono, in definitiva, annientati dal male
che hanno commesso (Sap 1 7 , 2 1 ) . Al riguardo, non fa che riprendere
un tema noto agli autori dei salmi: «Il male fa morire il malvagio» (Sal
34,22) . . . «Il suo crimine ricade sul suo capo, la sua violenza gli piom­
ba sulla testa» (Sal 7 , 1 7).

t 9 S u questa questione, c f. . a d esempio, G.L. PRATO, «Tratti d i violenza nel volto di


Dio», in Parola Spirito e Vita 31: La violenza ( 1 998) 1 , 1 1 -24.

26
Violenza di Dio, salvezza dei poveri

Gli autori dei salmi credono fermamente che Dio prende in mano
la causa dei poveri e dei piccoli quando la loro vita è minacciata. Que­
sta concezione affonda le radici nella convinzione che Adonai è un Dio
che salva. E, in molti testi biblici, non rinuncia a ricorrere a mezzi ra­
dicali, quando si tratta di liberare persone oppresse dalla violenza dei
potenti. La grande epopea dell'uscita dall'Egitto costituisce per così di­
re il testo archetipo di questa tematica (Es 1-1 5) . 20
Sempre più numeroso, un gruppo di stranieri installato in Egitto da
qualche tempo è considerato una minaccia da un nuovo re. La paura
lo induce a «prendere misure sagge» e, per scongiurare il pericolo, sot­
topone i suoi membri a pesanti lavori di interesse nazionale. Siccome
questo non basta . a spezzame la volontà e contenerne la crescita, ag­
giunge l'oppressione alla schiavitù, poi decide di bloccare ogni sua pro­
spettiva di avvenire, uccidendo tutti i figli maschi alla nascita (Es 1 , 8 -
2 2 ) . I l suo successore (cf. 4 , 1 9) segue l e sue orme. Quando Mosè e
Aronne, da parte di Adonai, gli chiedono di lasciar andare gli schiavi
ebrei nel deserto per celebrare una festa in suo onore, il re oppone un
secco rifiuto . E, per far passare ai figli di Israele la voglia di riposare e
celebrare, ordina di sottoporli a lavori ancor più pesanti e di punire se­
veramente gli «scansafatiche», insensibile alle loro giuste recrimina­
zioni (Es 5 , 1 - 1 9) . Perciò, mentre in un primo tempo gli schiavi aveva­
no accolto favorevolmente il progetto divino della liberazione presen­
tato da Mosè e Aronne (Es 4,29-31), ora si rivoltano contro questi ulti­
mi e addebitano loro l'inasprimento delle loro condizioni di vita (Es
5 , 20-2 1 ) . Messo al corrente delle conseguenze nefaste della sua inizia­
tiva, Adonai ripete a Mosè il suo progetto e lo manda a dire ai figli di
Israele: «lo sono Adonai e vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi
libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con gran­
di castighi» (Es 6,6). Ma, oppressi dalla dura schiavitù cui sono sotto­
posti, gli israeliti si rifiutano nuovamente di ascoltare Mosè (Es 6,9).
«Vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi» . La volontà di
salvare il popolo che Dio rivendica come «suo figlio primogenito» (Es

•o Cf. l'interessante studio di L. MAZZI NGHI, « " I l Signore passerà per colpire l'Egitto":
la violenza di Dio nel racconto dell'Esodo», in Parola Spirito e Vita 37: La violenza
(1 998) 1 , 69-82 .

27
4, 22) si concretizza in potenti interventi, che suggelleranno la con­
danna degli oppressori : è la famosa serie delle dieci «piaghe d'Egitto»,
annunciata nuovamente in Es 7 , 1 - 5 , dove Adonai precisa che questa
violenza contro l'Egitto lo farà conoscere al re di quel paese, che ave­
va affermato : «Chi è Adonai perché io debba ascoltare la sua voce e la­
sciare partire Israele? Non conosco Adonai e non lascerò certo partire
Israele ! » (Es 5,2). Qui non si tratta evidentemente di minimizzare la
violenza che Dio usa contro gli oppressori del suo popolo lungo tutto il
racconto . Ma leggendolo dal suo punto di vista, si può facilmente no­
tare che esso insiste non tanto sulle azioni violente di Dio quanto piut­
tosto sulle sue parole, nonché sui negoziati fra Mosè e il faraone, mo­
strando così che Adonai non vuole distruggere l'Egitto, ma solo libe­
rare il suo popolo . «Lascia partire il mio popolo, perché mi . serva» :2 1
Adonai invita ripetutamente il re a riconoscerlo come signore di quel
popolo e a riconoscere che quest'ultimo non gli appartiene, per cui non
può privarlo della sua libertà, del frutto del suo lavoro, della sua inte­
grità fisica, e, in definitiva, della sua vita. Infatti, Israele appartiene a
un Dio che lo vuole libero e vivo e a nessun altro.
Come ogni epopea, questo racconto presenta evidenti accenti iper­
bolici: il tono è dato dall'episodio iniziale, dove si racconta che il ba­
stone di Aronne, cambiato in serpente, inghiotte quelli dei maghi d'E­
gitto . Poi il lettore scopre una sorta di disegno, nel quale non manca­
no cose inverosimili. Come immaginare, ad esempio, che il re d ' Egitto
lasci in vita Mosè e Aronne dopo che le prime piaghe hanno devasta­
to il suo paese o che l' Egitto sia completamente devastato in poche set­
timane? Del resto , il racconto non rinuncia a fare la caricatura degli
egiziani, dei loro maghi, dei loro ministri e soprattutto del loro farao­
ne, con la sua assurda ostinazione . In realtà, queste volute esagera­
zioni concorrono a sottolineare la sovranità di Dio e il suo attacca­
mento ai figli di Abramo, lsacco e Giacobbe, in forza dell'alleanza sti­
pulata in passato con loro. Perciò la violenza che si abbatte sull'Egitto
è, in negativo, il segno della determinazione con cui Adonai vuole che
i figli di Israele diventino un popolo libero, per poter prolungare con
loro l'alleanza che lo univa ai loro padri.
Il racconto epico ha anche un'altra funzione, complementare alla
prima: illustrare, con la precisione consentita dalla caricatura, la logi-

zt Quest'invito ricorre sette volte nel testo: Es 5 , 1 ; 7 , 1 6.26; 8 , 1 6; 9, 1 . 1 3; 10,3.

28
ca che sottende il comportamento dei tiranni di ogni tempo e luogo . Il
faraone che, nonostante la crescente pressione esercitata sul suo pae­
se e su di lui, si ostina nel suo rifiuto a lasciar partire gli schiavi ebrei,
incarna il delirio del despota, il quale, piuttosto di cedere a rivendica­
zioni ragionevoli e legittime, cerca di rafforzare il suo potere, senza
rendersi conto che quest'atteggiamento lo condurrà alla sua rovina e
causerà indicibili sofferenze non solo a coloro che non hanno preso le
distanze da lui, ma anche a molti innocenti, come i primogeniti elimi­
nati dalla decima piaga. Il fatto che sia Adonai a colpirli non riduce lo
scandalo . Ma il sentimento che può provare il lettore non deve fargli
dimenticare che responsabile di questo massacro annunciato (Es 4,22)
e diventato inevitabile (Es 1 0 , 2 8-1 1 , 1 0) è anche l'ostinazione ad ol­

tranza del faraone. Del resto , neppure questo colpo fatale lo farà desi­
stere dalla sua ostinazione e, solo giocando sul suo rabbioso desiderio
di riprendere ad ogni costo i suoi schiavi in fuga, Adonai riuscirà a li­
berarli, neutralizzando definitivamente il tiranno e il suo esercito che
precipita nel mare (Es 1 4).
Ma spesso fa problema anche un altro punto : il cosiddetto «indurì­
mento del cuore» del faraone , un motivo che ricorre lungo tutto il rac­
conto delle piaghe e anche nella traversata del mare . A un'attenta os­
servazione non sfugge l'uso di due verbi per indicare ciò che avviene
nel cuore del faraone: il suo cuore è «reso pesante» o «reso forte» ,
chiuso nella sua ostinata testardaggine.22 Inoltre, nel corso del rac­
conto, il soggetto dei due verbi cambia. A volte, soprattutto all'inizio,
è il faraone a «rendere pesante» o «rendere forte» il suo cuore; a vol­
te , e sempre più .con l'avanzare del racconto, è Adonai a farlo.23 Come
spiegare questo dato? In fondo, il narratore comincia con il registrare
il rifiuto del faraone a lasciar partire gli israeliti e poi la sua ostinazio­
ne in questo rifiuto, come Adonai ha preavvertito Mosé (3, 1 9): quindi

22 Il verbo «indurire» non rende correttamente i due verbi ebraici (kbd hifil, «ren·
dere pesante», e !1zq, «essere/diventare forte», all'hifil, quando il soggetto è Dio. «ren­
dere forte»). Il verbo «indurire» corrisponde piuttosto a un terzo verbo [qsh hifil), usa­
to solo in Es 7 , 3 e in 1 3 , 1 5 , non dal narratore, ma in discorsi di Adonai a Mosè. Nota­
re che, nella Bibbia, il «cuore» è non tanto la sede dei sentimenti quanto piuttosto la se­
de della riflessione e della decisione.
23 Faraone è soggetto in 7,13.1 422; 8 , 1 1 .15.28: 9,7.34-35; Adonai in 9, 12; 10,1 .2027;
1 1 , 10 e 1 4,4.8. 1 7 (in corsivo. i passi in cui si tratta di «rendere forte», verbo usato sem­
pre dal narratore quando racconta l'azione di Adonai). Cf. gli annunci da parte di Adonai
in 4,21 e 7,3.

29
liberamente il faraone «rende pesante il suo cuore», cioè continua a
non cambiare la sua decisione o addirittura la «rende (più) forte». Ma
il racconto sottolinea anche che, di fronte a quest'atteggiamento per­
sistente del re, Adonai, da parte sua, persevera nella sua volontà di
chiedere al faraone di liberare il suo popolo . Ma, date le disposizioni
del tiranno, le sue ripetute rivendicazioni contribuiscono piuttosto a
confermarlo nella sua decisione. Non c'è in questo nulla di magico o di
perverso. È la decisa volontà di Adonai di liberare gli oppressi a raf­
forzare il «cuore» o la decisione del faraone: più il primo insiste, più il
secondo si ostina. Perciò, mediante una scorciatoia, il narratore può
affermare che è Adonai a «rendere forte il cuore» del faraone, mentre,
resistendogli, lo costringe a gettare la maschera, a mostrare ciò che è
veramente e, alla fine, a vedere l'esito della sua volontà di potenza: la
sua morte e quella, tragica, dei suoi.
Dopo il faraone, Dio combatterà contro molti altri oppressori di
Israele nel lungo racconto biblico che, alla fine del Secondo libro dei
Re, prosegue e termina con i libri delle Cronache e quelli dei Macca­
bei. Quanti interventi muscolosi di Dio raccontano questi libri, quando
si tratta di salvare Israele, per continuare , con questo popolo così vul­
nerabile, l'avventura dell'alleanza stipulata all'inizio con la speranza
di strappare le nazioni a ciò che le sprofonda nella violenza? Sono
quelle che l'Antico Testamento chiama non «guerre sante» - il concet­
to non esiste nella Bibbia -, ma «guerre di Adonai»,24 nelle quali que­
st'ultimo combatte per salvare il suo popolo da nemici che lo oppri­
mono, con interventi che mirano non a prolungare la guerra, ma piut­
tosto a cercare di porvi fine. 2 5 Nello stesso senso, i profeti e i salmi si
ricollegano a questi racconti per mostrare tutta la forza che Adonai è
disposto a usare quando si tratta di strappare i poveri dagli artigli dei
potenti che li opprimono l ( Sam 2,8-10; Sal 3,2-7; Am 8 , 4 - 1 0) . In que­
sto caso, la sua violenza dimostra chiaramente che egli non accetta di

24 Le occorrenze di quest'espressione non sono molto numerose. Cf. Nm 2 1 . 1 4;


1 Sam 1 8 , 1 7 ; 25,28. In Es 1 5 , 3 e 1 Sam 1 7,47, Adonai è presentato come un guerriero.
2s Al riguardo, cf. le pagine illuminanti di M. VERVENNE, «"Satanic Verses"? Violence
and War in the Bible», in R. BuRGGRAEVE - M. VERVENNE (edd.), Swo rds into Plowshares.
Theological Reflections on Peace , Peeters, Leuven 1 9 9 1 . 6 5 · 1 26, soprattutto 105·1 1 1 , e
il capitolo 5 del libro di BARBAGuo, Dio violento?, 74- 1 0 1 , o ancora N. LoHFINK, «La "guer­
ra santa" e la "scomunica • nella Bibbia», in Parola Spirito e Wta 37: La violenza
( 1 998) 1 , 83-103.

30
lasciare le cose così come stanno, ma soccorre le vittime delle violen­
ze degli uomini. In fondo, Dio dichiara guerra alla morte, contrappo­
nendo la sua forza alle forze della distruzione (Sal 7 4 , 1 2 - 1 7) .
Ciò detto, i l lettore noterà facilmente che anche i n questo caso, !un­
gi dal parteggiare per il nazionalismo, Adonai mostra la sua giustizia
prendendosela con il suo popolo - spesso consegnandolo nelle mani dei
suoi nemici - quando quest'ultimo si abbandona all'idolatria, all'ingiu­
stizia e alla violenza. La sorte di Core e della sua banda, inghiottiti dal­
la terra in seguito a un intervento di Adonai (Nm 1 6), è esemplare al ri­
guardo. Anche il libro dei Giudici mostra ripetutamente che, intestar­
dandosi, come il faraone, nel rifiuto di ascoltare un Dio disposto ad as­
sicurargli la libertà e la pace, Israele si attira la propria rovina; infatti,
Dio, per mostrargli il suo peccato, lo consegna in mano ai nemici. Alla
fine del libro, il popolo rischierà di autodistruggersi in una guerra civi­
le, nella quale Adonai è riluttante a intervenire, quando non aggiunge
altra violenza a quella già onnipresente (Gdc 1 9-2 1 ) . Molti testi profe­
tici vanno nella stessa direzione, annunciando il castigo che Dio inflig­
gerà al suo popolo: per i suoi crimini, dovrà subire la violenza delle na­
zioni (Is 5 ,8-30; Ger 4,5-5 , 1 9). Su questo punto ritornerò più avanti.

Violenza di Dio , scandalo del lettore

Spesso la violenza divina è finalizzata al ripristino della giustizia, al­


la salvezza del povero o alla continuazione del disegno di salvezza di
Dio per tutti, ma alcune pagine bibliche parlano di un Dio che usa vio­
lenza senza motivo o se la prende con persone innocenti. Già nel capi­
tolo 12 della Genesi, ad esempio, Adonai colpisce con piaghe il faraone
che, in buona fede, ha sposato Sarai, fatta passare da un Abramo im­
paurito come sua sorella. Tuttavia è proprio Abramo ad aver mentito
spudoratamente e a trarre, alla fine, addirittura profitto dalla faccenda
(Gen 1 2 , 1 0-20; cf. Gen 20)! Certo, in questi racconti, l'accento non ca­
de sull'intervento divino che, in questo caso, contribuisce piuttosto a
mettere in risalto la giustizia del faraone: infatti, appena le piaghe gli
fanno comprendere che c'è stato un disordine, si premura di rimettere
le cose in ordine senza cercare di vendicarsi. Ma il lettore moderno sa­
rà facilmente scandalizzato da un Dio che si comporta in questo modo,
sapendo che, avendo a disposizione altri mezzi per intervenire, do­
vrebbe preferirli a quelli che implicano il ricorso alla violenza.

31
Ma questo genere di aneddoti è praticamente trascurabile di fronte
alle leggi della guerra e alla prescrizione dell'anatema nel quadro della
conquista di Canaan. Dopo aver deliberato sulla sorte da riservare alle
città lontane - potranno essere distrutte solo se rifiutano di sottomet­
tersi al lavoro coatto a vantaggio di Israele (Dt 20, 1 0-1 5) , Adonai, at­
-

traverso il suo portavoce Mosé, aggiunge: «Soltanto nelle città di questi


popoli che Adonai, tuo Dio, ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun
vivente, ma li voterai all'anatema (flerem) [ ] come Adonai, tuo Dio, ti
...

ha ordinato di fare, perché essi non vi insegnino a commettere tutti gli


abomini che fanno per loro dèi e voi non pecchiate contro Adonai, vo­
stro Dio» (Dt 20, 1 6- 1 8).26 È la regola che Israele applicherà durante la
guerra di conquista, raccontata nel libro di Giosuè (Gs 6-1 2) lì si rac­
conta che l'anatema è pronunciato contro Gerico (Gs 6,21 . 24) e la pre­
sa del bottino da parte di un solo israelita basta a scatenare la collera
divina, che abbandona Israele alla sconfitta, prima di aver scoperto il
colpevole e avergli inflitto una punizione esemplare (Gs 7-8). Anche la
città di Ai viene completamente distrutta (Gs 8 , 22-29), assieme a tutta
una serie di altre città che si coalizzano per cercare di opporsi a Israe­
le e a Giosuè (Gs 1 0,28-39; 1 1 , 1 0- 1 4). Quest'insistenza sull'anatema mi­
ra a illustrare la grande fedeltà di Giosuè, che gli ha meritato la con­
quista del paese, secondo la promessa fatta da Adonai a Mosè (Gs
1 1 , 1 5-23). Poco prima di morire, egli riconoscerà che resta ancora
qualcosa di quelle nazioni, esortando Israele a guardarsene per evitare
che l'infedeltà all'alleanza gli faccia perdere un giorno il bel paese che
ha appena ricevuto da Dio (Gs 23, 1 2 - 1 3 ; cf. Gdc 2 , 1 -3 . 20-23; 3 , 1 -6).
Di fronte a testi del genere, il lettore rimane perplesso, tanto più
che in queste pagine echeggia tragicamente l'attualità della regione
nella quale le colloca la Bibbia. In realtà, la prospettiva del lettore
odierno non è più quella delle persone per le quali sono stati scritti
questi testi . Esse infatti dovevano ammirare la fedeltà di Adonai alle
sue promesse e rallegrarsi per aver donato una terra al suo popolo, co­
ronando così la sua opera di liberazione. Dovevano comprendere che
la fedeltà di Giosuè e della sua generazione ad Adonai era decisiva in
quest'avventura (cf. Gs 1 , 1 -9) e ne coglievano la lezione per il loro pre-

26 Cf. già Dt 7 , 1 - 5 dove si parla di votare all'anatema nazioni di Canaan per eon­
servare intatta la fedeltà all'alleanza con Dio.

32
sente: l'idolatria rischia di condurre alla catastrofe. Ai loro occhi, que­
sta vittoria totale era il segno della potenza di Dio, addirittura il segno,
come afferma il Deuteronomio, della sua unicità e del suo potere uni­
versale. Infatti chi, se non l'unico Dio di tutti i popoli, sarebbe in gra­
do di «andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove,
segni prodigi e battaglie [ ... ], come fece per voi Adonai [ . . . ] in Egitto» ?
Quale altro dio sarebbe i n grado di «scacciare davanti a t e nazioni più
grandi e più potenti di te» per introdurre il suo popolo nel suo paese e
donarglielo? Per questi lettori l' Esodo e la conquista dovevano dimo­
strare che «Adonai è il vero Dio, lui e nessun altrm>, che egli «è Dio
lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ce n'è altro» (Dt 4,32-39). Per­
ciò, per loro la violenza di Dio nella realizzazione delle sue promesse
era il pegno del suo potere universale e della sua fedeltà al popolo che
si era scelto come alleato, una verità che dovevano ricordare con cura
i destinatari di allora, circondati da nazioni pagane e dai loro idoli.
Il lettore odierno può certamente comprendere la prospettiva dei
suoi lontani predecessori. Sarà indubbiamente sensibile anche agli ar­
gomenti storici cui ho accennato all'inizio di questo capitolo : dagli sca­
vi archeologici si evince che probabilmente questi racconti non hanno
nulla di storico e l'esegesi dei testi in collegamento con la letteratura
assira del VII secolo induce a ritenere che si tratta verosimilmente di
un racconto teologico redatto in quell'epoca per affermare la potenza
del Dio di Israele di fronte alle divinità assire o per legittimare le con­
quiste del re Giosia. 27 Ma questi argomenti non basteranno al lettore
odierno. Infatti, non basta affermare che queste carneficine non sono
storicamente avvenute per scagionare il Dio della Bibbia dal fatto di or­
dinarie e neppure basta spiegare ciò a cui questi testi miravano in ori­
gine per giustificare il fatto che Dio possa ordinare l'eliminazione dei
nemici per quanto idolatri possano essere. Alcuni invocano allora la
prefazione del libro di Giosuè per relativizzare la sua ottica militaristi­
ca o nazionalistica. Infatti, Dio stesso arma Giosuè, il comandante mi­
litare al quale ordina di occupare tutto il paese che vuole donare a
Israele, con il libro della Legge di Mosè, ingiungendogli di meditarlo e
rispettarlo per riuscire nella sua impresa (Gs 1 , 2-9): «Da capitano Gio-

27 Cf. sopra, p. 13. Cf. anche J.-C. BRAu - J. DEwEz, Qu'as·tu fait de tonfrère? Vio·
lences et Bible (S ens et foi 5), Lumen Vitae, Bruxelles 2004, 27-39.

33
suè diventa una sorta di monaco ossessionato dalla lectio divina. [. ] ..

La Legge sostituisce le battaglie, la forza e i successi» .28 L'argomento


non è falso, ma dimentica che, fra le leggi da meditare, Giosuè deve ap­
plicare più spesso quella della guerra, come dimostrano i racconti dei
capitoli 6-1 2 e la conclusione del narratore in Gs 1 1 , 1 5 : «Come aveva
comandato Adonai a Mosè, suo servo, così Mosè aveva comandato a
Giosuè e così Giosuè fece, non trascurando alcuna parola di quanto
Adonai aveva comandato a Mosè» . Il narratore riassume quindi la con­
quista del paese mediante la guerra e l'anatema (Gs 1 1 , 1 6-20).29
Del resto , vari testi dimostrano che, fin dall'epoca biblica, alcuni
autori o gruppi si sono sentiti a disagio di fronte a questo genere di
rappresentazioni, come attesta probabilmente l'inizio del libro di Gio­
suè di cui abbiamo appena parlato. Fin dalla Genesi, il narratore del­
la storia di Israele insinua che Dio donerà ai figli di Abramo la terra
che ha promesso al loro padre solo quando l'iniquità degli abitanti di
Canaan raggiungerà il colmo, quasi a voler giustificare con una colpa
la perdita del loro paese a vantaggio di Israele (Gen 1 5 , 1 6) . La cosa vie­
ne confermata quando Mosè dice agli israeliti in Dt 9 , 5 : «No, tu non
entri in possesso della loro terra a causa della tua giustizia, né a cau­
sa della rettitudine del tuo cuore; ma Adonai, tuo Dio, scaccia quelle
nazioni davanti a te per la loro malvagità e per mantenere la parola
che Adonai ha giurato ai tuoi padri, ad Abramo, a lsacco e a Gacob­
be». La conquista risponde quindi a una logica e la sua violenza di­
venta un segno della giustizia divina. Nel Levitico, Adonai si esprime
nello stesso senso: poiché le pratiche delle nazioni hanno reso la terra
impura, «ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti»
(Lv 1 8 , 24-21)). Qui c'è, del resto, un avvertimento a Israele, che verrà
punito allo stesso modo se si macchia delle stesse colpe (Lv 1 8 , 2 7-29;
cf. 20, 22-23). Questo accadrà nel seguito del racconto, quando , alla fi­
ne del Secondo libro dei Re, dopo aver «seguito i costumi delle nazio­
ni che Adonai aveva cacciato davanti a loro», Israele sarà cacciato dal­
la terra data da Dio in fedeltà alle sue promesse (2Re 1 7, 5-23), prima
che Giuda ne subisca, a sua volta, la stessa sorte (2Re 24, 3 . 20).

28 J. CAZEAUX, Le refus de la guerre sainte. Josué, Juges. Ruth (Lectio divina 1 74),
C erf
, Paris 1 998, 2 2 .
29 Il racconto precisa con una certa insistenza che Giosuè agisce i n base agli ordi­
ni divini : Gs 4,8.10; 8,3 1 : 10,40; 1 1 ,9 . 1 2 .23.

34
Al termine di queste considerazioni, il lettore moderno non avrà cer­
tamente risolto il suo problema, ma io non penso che occorra cercare a
ogni costo altre circostanze attenuanti per il Dio di Giosuè . Del resto, è
anche un bell'esempio del fatto che le immagini particolari di Dio non
possono dire tutto di lui. Il Dio di Gs 6-1 2 è un guerriero in nome della
fedeltà alle sue promesse e all'alleanza con il suo popolo, manifesta in
questo modo la sua sovranità universale e la sua volontà di vita per
Israele, sottolinea che la terra è un dono, che comporta come contro­
partita l'esigenza della fedeltà all'alleanza. Ma questa faccia positiva del­
la medaglia ha incontestabilmente il suo rovescio, caratterizzato da
esclusivismo, intolleranza e violenza. Forse questi aspetti saranno cor­
retti da altri aspetti che sottolineano la volontà di salvezza di Dio per tut­
ti (cf. Is 1 9 , 1 6- 2 5 ; Mi 4,1 -4; Giona) . Ma non è detto che queste pagine
ributtanti non possano avere anche la funzione di risvegliare nel letto­
re, nel nome dello stesso Dio biblico, un rifiuto categorico dell'aspetto
violento e nazionalistico di quest'immagine di Dio , in ogni caso «quan­
do si vuole fare dell'azione violenta di Dio, nelle sue profondità che non
sono veramente comprensibili, un modello immediato per un'azione
violenta»,30 che così si sarebbe legittimata, persino sacralizzata.
Su questo punto, il lettore responsabile sarà sensibile alle sfumatu­
re offerte dagli stessi testi collocati nel contesto globale di un racconto
il cui senso si chiarisce a poco a poco. Così, ad esempio, nel Secondo
libro dei Re, un membro di una confraternita profetica presieduta da
Eliseo viene inviato a dare l'unzione regale, mentre il re Ioram è an­
cora vivo, a un certo Ieu. Lo scopo dichiarato da Dio è quello di rove­
sciare e sradicare la dinastia di Acab, un re che si è abbandonato al­
l'idolatria e alla violenza (2Re 9 , 1 - 1 0) . Ricevuta l'unzione, Ieu si tra­
sforma in giustiziere e condanna a morte il re di Israele, per vendica­
re il sangue di Nabot, un uomo giusto messo a morte al termine di un
processo farsa, per potersi impadronire della sua vigna (cf. 1 Re 2 1 , 1 -
1 6); m a Ieu assassina anche Gezabele, la moglie di Acab, e il suo al­
leato Acazia, re di Giuda (2Re 9 , 22-37). Questi omicidi sono seguiti da
un bagno di sangue compiuto in nome di Adonai. Difendendo la sua
causa, Ieu si libera dei discendenti di Acab, dei principi di Giuda e dei
sacerdoti di Baal (2Re 1 0) .

3o OBMING, «Dieu e t l a violence», 27 ( e l e opere citate in nota).

35
Ora Ieu come futuro re di Israele viene menzionato per la prima
volta al termine di un lungo racconto, nel corso del quale Dio contesta
chiaramente gli ardori stragisti del profeta Elia (predecessore di Eli­
seo) . Dopo aver guadagnato alla sua causa molti israeliti, desiderosi di
schierarsi dalla parte del Dio, apparentemente più forte, E lia ha sgoz­
zato con il loro aiuto i quattrocentocinquanta profeti di Baal, che ave­
va convocato per sfidarli e ridicolizzarli - e questo senza aver ricevu­
to alcun ordine in tal senso da parte di Dio ( l Re 1 8 , 1 6-40) . In seguito,
la violenza che ha scatenato si ritorce contro Elia. La regina Gezabele,
protettrice dei profeti assassinati, giura di fargli subire la stessa sorte.
Per salvare la pelle, Elia fugge verso sud, fino al deserto del Negev (l Re
1 9 , 1 -3). Allora sembra rendersi conto della sua colpa e chiede di mo­
rire. Ma Adonai lo invita a inoltrarsi nel deserto . Giunto all'Oreb, Ado­
nai si rivela a lui come un Dio che non si trova nelle manifestazioni di
una potenza violenta, bensì nella discreta mitezza di una «voce di fino
silenzio». È in quest' ultima che il profeta riconosce la sua presenza
( l Re 1 9, 4- 1 3).31 Allora Dio lo congeda, ordinandogli di ungere come
profeta al suo posto Eliseo, colui che invierà uno dei suoi discepoli a
ungere Ieu ( l Re 19, 1 5- 1 6) . Dio tollererebbe - addirittura approvereb­
be - in un re il ricorso alla violenza che nega al profeta? In ogni caso,
alla luce dell'avventura di Elia, il lettore è autorizzato a chiedersi se la
violenza scatenata da Ieu (e annunciata in 1 Re 1 9 , 1 7) può veramente
essere ordinata da Dio, e se le parole del giovane profeta che unge Ieu
per ordine di Eliseo sòno, come egli pretende, quelle di «Adonai Dio di
Israele». Infatti , l'ordine ricevuto da Eliseo è molto più breve di quello
che egli trasmette e anche molto più sobrio (2Re 9,6- 1 0 , comparare
con l'ordine del v. 3).

Violenza di Dio, educazione di Israele

Ho già ripetutamente sottolineato che la violenza di Dio, lungi dal­


l'esercitarsi solo contro i nemici del suo popolo, colpisce anche que­
st'ultimo . Nel discorso profetico, ad esempio, la collera, la punizione o

31 Su questo testo, cf. F. VARDNB, Se pensi che Dio ami la sofferenza, EDB, Bologna
1995, 27-5 1 .

36
la violenza di Dio, non essendo senza ritorno, vengono a volte presen­
tate come un modo per educare alla difficile fedeltà all'alleanza un
Israele continuamente recalcitrante. Così, il capitolo l di Isaia, che apre
la lunga serie dei profeti successivi, è una variazione su questo tema.
Dopo aver punito duramente il popolo che si è allontanato da lui, Ado­
nai interpella i sopravvissuti, perché aprano gli occhi sulla loro colpa -
un culto senza giustizia - e ascoltino il suo invito a convertirsi. Infatti,
intestardirsi nella ribellione equivarrebbe ad andare in rovina (ls 1 ,2-
20). Un po' più avanti, Adonai sottolinea lo scopo della punizione:
«Stenderò la mia mano contro di te, purificherò come in un forno le tue
scorie, eliminerò tutti i tuoi rifiuti. Farò ritornare i tuoi giudici come
(erano) una volta, i tuoi consiglieri come al principio. Allora sarai chia­
mata "Città di Giustizia", "Città fedele". Sion sarà riscattata dall'equità
e coloro che ritorneranno dalla giustizia» (ls 1 , 2 5-27). Un richiamo a
questo tema si trova all'inizio della seconda parte del libro (ls 40, 1 -2).
Esso ricorre anche in Geremia.3 2 In Ger 3 1 , 1 8- 1 9 , ad esempio,
Efraim dichiara gemendo: «Mi hai castigato e io ho subito il castigo co­
me un torello non domato. Fammi ritornare e io ritornerò, perché tu
sei Adonai mio Dio ! Dopo il mio smarrimento mi sono pentito; quan­
do me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto ». Anche i capitoli
...

l e 2 del libro di Gioele fanno propria questa dinamica. Di fronte alla


devastazione violenta del paese da parte di un invasore straniero e al­
la conseguente costernazione generale, il profeta (Gl 1 , 1 3- 1 8) e Ado­
nai (Gl 2 , 1 2- 1 7) lanciano un appello alla conversione e alla supplica
nella speranza di una possibile salvezza. In questa stessa linea, si pos­
sono citare altri testi, al di fuori del corpus dei profeti. Il tema ricorre
in 2Sam 7 , 1 4 , dove Adonai dice a Davide a proposito dei suoi figli : «Io
sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. Se farà il male, lo colpirò
con verga d'uomo e con percosse di figli d'uomo». E ricorre ancora, ad
esempio, nella preghiera di un peccatore che supplica Adonai di soc­
correrlo, mentre il castigo divino lo colpisce (Sal 38 ; 39, 1 1 - 1 2), nei Pro­
verbi (Pr 3 , 1 1 - 1 2) o anche in Giobbe: «Perciò beato l'uomo che è cor­
retto da Dio : non sdegnare la correzione di Shaddai, perché egli feri­
sce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (Gb 5 , 1 7 - 1 8).

3 2 In questo libro si trova anche l'idea che il malvagio è colpito dalla sua propria
colpa e che questa punizione è un invito a ritornare a Dio: Ger 2 , 1 9 . Cf. in questo sen­
so Sap 1 1 , 1 6 .

37
Anche nella Torah la tematica è chiaramente visibile nelle maledi­
zioni con cui Adonai minaccia il popolo se non ascolta e non osserva i
comandamenti (Lv 26 , 1 4-45): i duri castighi che annuncia sono pre­
sentati come una correzione da cui il popolo viene invitato a trarre le
lezioni, perché altrimenti seguiranno altre sventure (cf. Lv 26, 1 8 . 2 1 .
2 3 . 2 7) . M a quando l a punizione sarà stata inflitta frno i n fondo, i so­
pravvissuti, perendo a causa del loro peccato personale e di quello dei
loro antenati, «confesseranno le loro colpe e quelle dei loro padri» (Lv
26,40) e questo ritorno riaprirà la porta all'alleanza con Dio che si ri­
corderà di loro (Lv 26,41 -45). In tutti questi testi, la violenza di Dio nei
riguardi di Israele svolge un ruolo educativo e mira a ricondurre il po­
polo alla fedeltà, dalla quale dipendono la sua vita e la sua felicità.
Questo tema, cosi come è formulato in Lv 26, viene sfruttato con più
insistenza e in un racconto continuo, nel libro dei Giudici. Nel capitolo
2, il narratore delinea il contesto in un sommario che evoca succinta­
mente l'inizio di questo periodo. Dopo la morte di Giosuè e della sua ge­
nerazione , gli israeliti abbandonano Adonai e lo irritano servendo altri
dèi. Allora nella sua collera, egli li abbandona nelle mani dei loro ne­
mici. «In tutte le loro spedizioni, la mano di Adonai era per il male, con­
tro di loro, come Adonai aveva detto [. .. ]. Furono ridotti all'estremo»
(Gdc 2 , 1 5). Poi Dio suscita dei «giudici» che salvano Israele. Ma que­
st'ultimo non li ascolta, finendo nuovamente nella sventura, in ogni ca­
so dopo la morte del salvatore inviato da Adonai (Gdc 2 , 1 6- 1 9). Allora
la collera divina si abbatte su Israele e Adonai decide di lasciare sul po­
sto le nazioni nemiche (Gdc 2,20-23). Conosciamo la continuazione di
questa storia. Di generazione in generazione, Israele cade nell'idolatria
e Dio lo consegna a un nemico che lo opprime per un certo tempo. Poi
il popolo, sotto il peso dell'oppressione, grida e Adonai gli risponde, in­
viandogli un giudice di cui il narratore racconta più o meno a lungo l'in­
tervento salvifico. Questo schema si ripete con Otniel (Gdc 3 , 7 - 1 1}, Eud
(Gdc 3 , 1 2-30), Debora e Barak (Gdc 4-5). Durante questo lungo perio­
do, Adonai si dimostra paziente e, nella ripetizione di oppressione e li­
b erazione seguita dalla pace, sembra sperare che Israele comprenda fi­
nalmente che la sua vita dipende dalla fedeltà al suo alleato divino .
Ma questa pedagogia divina non porta i frutti sperati. Allora Ado­
nai cambia tattica. Quando Israele torna a peccare, dopo i quaran­
t'anni di tranquillità seguiti alla vittoria di Debora, Adonai, in risposta
al suo grido, gli manda un profeta a rivolgergli rimproveri espliciti e
dirgli che si aspetta la fedeltà (Gdc 6 , 1 - 1 0) . Poi suscita Gedeone per li-

38
berare il popolo dalle mani dei madianiti con mezzi talmente ridicoli
da far comprendere a tutti che l'artefice della sua salvezza è unica­
mente Adonai (Gdc 6 , 1 1-8 , 2 1 ) . Ma lo stesso salvatore provoca la rica­
duta del popolo; allora Adonai colpisce Israele con una sventura (Gdc
9,23-24. 56-57) che, in questo caso , viene dall'interno, dal regno vio­
lento di Abimelek (Gdc 8 , 2 2-9, 5 7). Di fronte a questo fallimento, Ado­
nai cambia nuovamente tattica: quando Israele torna a peccare, poi
grida verso di lui, perché lo salvi dagli ammoniti che lo opprimono,
benché confessi il proprio peccato e dimostri così di aver imparato la
lezione del profeta, Adonai si rifiuta di salvarlo, ma lo invita a implo­
rare la salvezza dagli altri dèi con i quali lo offende. E quando gli israe­
liti abbandonano questi idoli , trovano finalmente un capo, Iefte, che li
guida in una campagna militare liberatrice, pur macchiata, da una
parte , dal crudele sacrificio della figlia, immolata al suo orgoglio e al­
la sua sete di potere33 e, dall'altra, dalla guerra civile fra Galaad e
Efraim, nella quale periscono 42.000 uomini, uccisi dai loro fratelli
(Gdc 1 0,6-1 2 , 7) .
È questo a giustificare il fatto che, nella generazione seguente, l'op­
pressione dei filistei in seguito al nuovo peccato di Israele non è più se­
guita da un grido e Sansone, il «liberatore», pur consacrato fin dal se­
no di sua madre, entra con l'occupante in un cerchio infernale di vio­
lenze e vendette personali che sfocerà in un massacro (Gdc 1 3-16)? Il
lettore ha la sensazione che ormai i partner dell'alleanza sono stanchi:
da una parte, la conversione di Israele è stata più che effimera e, dal­
l'altra, Adonai sembra aver perso la voglia di salvare un popolo sem­
pre meno disposto a fare ciò che si aspetta da lui. Si può facilmente
comprendere che, in queste condizioni, Adonai abbandoni Israele ai
propri errori; infatti «ognuno faceva come gli sembrava bene», senza
rendersi conto che era male agli occhi di Dio (Gdc 1 7 ,6 e 2 1 ,25). Nel bel
mezzo della guerra civile, che contrappone tutte le tribù a Beniamino,
Adonai sembra addirittura voler aumentare la confusione, accordando
la vittoria ora agli uni ora agli altri, quando non resta semplicemente in
silenzio davanti a coloro che vanno a consultarlo per sapere come sal­
vare Beniamino dopo che i suoi sono stati decimati (Gdc 1 7-2 1 ) .
'

33 Cf. A. WtNIN, «À quoi Jephté sacrilie-t-il sa mie? Lecture de Juges 1 1 ,29-40>>, in D.


MARGuERAT (ed.), Quand la Bible se raconte (Lire la Bible 1 34), Cerf. Parls 2003, 85-103.

39
In questo senso, il libro dei Giudici - dove spesso abbonda la vio­
lenza divina - racconta come Adonai, dopo aver puntato sulla strate­
gia alternata di punizione e salvezza per educare Israele alla fedeltà al­
l'alleanza, finisce per abdicare, come paralizzato dal fallimento di que­
sta pedagogia. In realtà, se Dio non si rassegna all'infedeltà di Israele
e se vuole che si corregga ritornando all'alleanza, può farlo solo fa­
cendo appello alla sua responsabilità e alla sua libertà, e quindi accet­
tando il rischio del fallimento. Il seguito del racconto biblico - nei libri
di Rut34 e di Samuele - mostrerà Adonai che esplora altre strade, che
si riveleranno più efficaci, e questo a partire da donne atipiche, una
straniera e una moglie sterile, che , in questo contesto di una violenza
tanto onnipresente quanto deleteria, imboccano risolutamente la stra­
da dell'alleanza con Dio.

Violenza prescritta : pena di morte e sacrifici

Dopo questo abbozzo di tipologia della violenza divina, bisogna di­


re qualcosa, sia pure brevemente, sulle violenze prescritte da Dio nel­
la Legge: la pena di morte, che sanziona certi delitti, e i sacrifici cruen­
ti, che suppongono l' uccisione della vittima.
La Legge prevede spesso la pena di morte. Fra i delitti così sanzio­
nati si trovano atti violenti contro gli esseri umani: omicidio (Gen 9,6a;
E s 2 1 , 1 2- 1 3 ; Lv 24, 1 7 . 2 1 ; Nm 3 5 , 3 1 ) , a volte anche non premeditato
(Nm 3 5 , 1 6- 1 8 . 2 1 ) o commesso per imprudenza (Es 2 1 ,29) il rapimen­
to (Es 2 1 , 1 6), il sacrificio umano (Lv 20,2). Sono puniti con la morte
anche alcuni comportamenti sessuali: stupro (Dt 2 2 , 2 5-26), adulterio
con una donna sposata (Lv 2 0 , 1 0 ; Dt 2 2 , 22), varie forme di incesto (Lv
2 0, 1 1 - 1 7) , prostituzione della figlia di un sacerdote (Lv 2 1 ,9), rappor­
ti omosessuali (Lv 20,1 3), zoofilia (Es 2 2 , 1 8 ; Lv 20, 1 5 - 1 6) . Nella sfera
sacra, alcune violazioni sono punite con la morte del colpevole : anzi­
tutto l'idolatria (Es 2 2 , 1 9; Dt 1 6 , 2- 1 7 ; 1 7 ,2-7), poi la divinazione e la
negromanzia (Es 2 2 , 1 7 ; Lv 20,27), la falsa profezia (Dt 1 8 , 20; cf. Ger
26 e 28), la bestemmia (Lv 24, 1 6) ; devono essere giustiziati anche co­
loro che si avvicinano al santuario senza le condizioni richieste: stra-

34 Nell'ordine dei libri della LXX, che colloca Rt al suo posto cronologico, «al tem­
po in cui giudicava.no i giudici» (Rt 1 , 1 ).

40
nieri (Nm 1 ,5 1 ; 3 , 1 0 . 38 ; 1 8 ,7), israeliti non !eviti (1 8 , 2 2) e anche sa­
cerdoti senza i loro abiti rituali (Es 28 ,46).3 5 Infine, si punisce con la
morte la mancanza di rispetto verso il padre e la madre (Es 2 1 , 1 7 e Lv
20,9) e la violazione del sabato (Es 3 1 , 1 5 ; 3 5 , 2 ; Nm 1 5 , 3 2-36).
Gli studiosi sottolineano che, rispetto alle legislazioni note del Me­
dio Oriente antico, la lista è piuttosto ridotta. 36 E aggiungono che, «con­
trariamente a una diffusa pratica mesopotamica, che prevede la puni­
zione di una persona per un crimine commesso da un membro della
sua famiglia, la Bibbia limita la responsabilità degli atti criminali uni­
camente a chi li ha commessi».37 Certo, a parte le violenze che priva­
no l'altro della vita, oggi non si comprende una punizione così severa
dei delitti sessuali o delle violazioni nella sfera del sacro . Ma è degna
di nota e di riflessione un'antica tradizione giudaica riportata dal Tal­
mud: «Un sinedrio che pronuncia una condanna a morte ogni sette an­
ni è considerato sanguinario. Secondo R. Eleazar ben Azaria, un sine­
drio che pronuncia una condanna a morte ogni settant'anni è conside­
rato sanguinario».38 Quindi ben presto i rabbi si sono accorti che oc­
correva oltrepassare la lettera delle leggi che prevedevano la pena di
morte . Indubbiamente, più che lasciarsi accecare dalla crudeltà dei te­
sti legislativi, è meglio cercare di vedere qual è la loro posta in gioco.
Un testo importante della Torah suggerisce una pista. Riguarda uno
dei delitti sorprendenti della succitata lista: la violazione del sabato. Il
testo che prevede la pena di morte per chi viola il sabato prevede an­
che la sua «scomunica»: «Osserverete dunque il sabato , perché per voi
è santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno
farà qualche lavoro, sarà - letteralmente - separato dal suo popolo» (Es
3 1 , 1 4). Come si può separare dal popolo chi è stato giustiziato? Il para­
dosso si chiarisce considerando la pena non tanto una sanzione estrin­
seca della colpa quanto piuttosto l'espressione della sua conseguenza
intrinseca: il colpevole è punito con ciò con cui ha peccato (Sap 1 1 , 1 6) .
In questo senso, l a scomunica indicherebbe che l a violazione del saba-

35 Cf. nello stesso senso, il divieto di oltrepassare il confine che delimitava il monte
Sinai in Es 1 9, 1 2- 1 3 .
3 6 Al riguardo, a d esempio, R. D E VAux, Les lnstitutions de l"Ancien Testament, Cerf,
Paris 31 976, I, 2 30.
37 Art. «Peine capitale», in G. WIGODER (ed.), Dictionnaire encyclopédique du Juda'i­
sme, Cerf, Paris 1993, 859.
38 Talmud babilonese, Trattato MakkOt, l, 7a.

41
to esclude il trasgressore dal popolo che Adonai santifica: se il sabato
è il segno principale dell' alleanza fra Dio e Israele (Es 3 1 , 1 3 . 1 7) , chi
non lo osserva esce de facto dal popolo alleato di Dio. La pena di mor­
te sottolineerebbe che chi trascura il sabato imbocca una strada di mor­
te in quanto si rifiuta di entrare nel dispositivo dell'alleanza grazie al
quale Israele partecipa alla vita di colui che ne è l'autore e che la dona
con la benedizione. In questa linea, i testi che puniscono certi delitti con
la pena capitale potrebbero , enunciando una tale sanzione, attirare
l'attenzione su atti o omissioni che fanno correre al loro autore un ri­
schio di morte, non fisica, ma umana o spirituale.
Sui sacrifici si sono già scritte molte cose ,39 per cui qui mi accon­
tenterò dell' essenziale. La sensibilità moderna è urtata dalla violenza
inflitta dal sacrificio alla vittima, in genere un animale. Alfred Marx lo
spiega molto bene: la macellazione dell'animale è un rito preliminare
al sacrificio. Significa che l' offerente vuole donare il suo bene a Dio e
quindi che vi rinuncia. Ma, come tale, l'immolazione «non fa parte del
servizio di Dio . Non si può quindi costruire sulla messa a morte della
vittima una teoria del sacrificio» .40 Perciò, se Israele offre animali in
sacrificio, non è assolutamente per soddisfare un Dio che sarebbe as­
setato di sangue o di violenza. Questi riti mirano essenzialmente a in­
vitare Dio a un incontro vivificante con i fedeli che gli offrono l'omag­
gio di un pasto .41 Il sangue non è mai destinato a essere offerto a Dio
al posto di quello del peccatore, per placarne la collera. Al contrario,
che senso avrebbe offrire a Dio il sangue che già gli appartiene? In
realtà, proprio «perché è vita» il sangue può «procurare la vita [ . . . ] ser­
vendo da antidoto alla morte e a tutto ciò che produce la morte, con­
trapponendo alle forze di morte forze di vita» .4 2 Perciò la funzione del
cosiddetto «sacrificio di espiazione» è quella di reintegrare coloro che
sono esclusi dalla vicinanza di Dio , di permettere passaggi vitali e pu­
rificare il paese . In breve, anche se la macellazione può essere consi-

Cf., per l'Antico Testamento, le ricerche di Alfred Marx. In particolare, C. GRAPPE


39
- A. MARX, Le sacrifice. Vocation et subversion du sacrifice dans les deux Testaments
(Essais bibliques 29), Labor et Fides, Genève 1 998, o A. MARX, Les sacrifices de l 'Ancien
Testament (Cahiers Évangile 1 1 1 ) , Cerf- Évangile et Vie, Paris 2000. Al riguardo, in que­
sto libro, leggere al capitolo 2 il contributo di J.-D. Causse.
40 MARX. Les sacrifices de l'A. T. , 1 7 .
4 1 A . MARx i n GRAPPE - MARx, L e sacrifice, 22-30.
42 MARx in GRAPPE - MARX, Le sacrifice. 38.

42
derata crudele, non è questa violenza a essere gradita a Dio; essa è so­
lo la preparazione necessaria al compimento di riti a valenza simboli­
ca, che riguardano l'unione di Israele con il suo Dio. Del resto , nel si­
stema sacerdotale dei sacrifici, si valorizza in modo particolare l'offer­
ta di vegetali rispetto ai riti che comportano l'immolazione di vittime.
Quest'ultima costituisce, sempre secondo A. Marx, «il culmine del si­
stema sacrificale, quello che realizza più pienamente lo scopo ultimo
di tutto il culto sacrificale, cioè la comunione con Dio».43
Che dire allora del sacrificio di esseri umani? L'Antico Testamento
lo attesta: in Israele si sono praticati riti del genere. Ma la Bibbia con­
danna questi sacrifici, consistenti per lo più nell'immolazione di bam­
bini. Si tratta di un abominio che, in nessun caso, può piacere a Dio
(Dt 1 2 , 3 1 ) . Perciò, la Legge vieta formalmente queste pratiche (Lv
1 8 , 2 1 ; 20, 2-5; Dt 1 8, 1 0), i racconti le screditano,44 i profeti le denun­
ciano (Ger 7, 30-3 1 ; 1 9, 5 ; 3 2 , 3 5 ; Ez 1 6,20; 20,30- 3 1 ; Mi 6,7). Solo due
episodi fanno problema: il cosiddetto sacrificio di Isacco e il voto di Ief­
te. Questi due episodi richiedono lunghe spiegazioni. Ma, poiché que­
sto libro è incentrato sulla violenza divina e poiché su questi testi si ri­
tornerà in seguito ,45 qui mi limiterò a indicare alcune piste.
In Gen 22, se c'è violenza, il suo oggetto è solo Abramo che Dio met­
te sotto pressione con un ordine ambiguo: offrire in olocausto il suo
unico figlio su un monte o salire sul monte per offrirvi un olocausto al­
la presenza di !sacco, cosa che avverrà effettivamente in seguito (Gen
2 2 , 1 3) . Segnalando che si tratta di una «prova», il narratore rassicura
subito il lettore riguardo a Isacco . Una prova ha una durata limitata e
chi vi ricorre la interrompe appena sa ciò che voleva sapere . Quindi
Dio non vuole la morte di !sacco . Solo Abramo può pensarlo. La sua
prova consiste proprio in questo : come comprendere ciò che Dio gli ha
detto? Che cosa fare? Ringraziare con un sacrificio il Dio che gli ha do­
nato quell'unico figlio o renderlo simbolicamente a colui che glielo ha

•• MARX, Les sacrifices de l'A. T. , 23-24.


44 Chiel di Bete! sacrifica i suoi due tigli in t Re 16,34, perché pesa su di lui la ma­
ledizione di Giosuè (Gs 6, 26). In 2Re 1 6 , 3 e 2 1 ,6, si giudicano negativamente dei re per
essersi abbandonati a questa pratica (cf. anche 2Re 23,10).
45 Cf. sotto, al capitolo 2, le analisi di questi testi da parte di Jean-Daniel Causse.

43
donato? Legare suo figlio a sé o, al contrario, !asciarlo andare verso
colui che lo vuole libero e vivo? Quando vede che Abramo fa la scelta
del contro-dono e dell'alleanza e non cerca di conservare per sé il fi­
glio, Dio interrompe la prova. Allora Abramo vede alle sue spalle il ca­
pro e lo offre in olocausto nel luogo in cui aveva legato il figlio, mentre
il messaggero di Dio, constatando la sua obbedienza, gli assicura una
grande benedizione .46 In seguito, sull'esempio di Abramo, ogni israe­
lita sarà invitato a consacrare il primogenito ad Adonai, riscattandolo
con un capo di bestiame (Es 1 3 , 2 . 1 1 - 1 5) .
Il problema posto dall'immolazione della figlia d i Iefte è u n po' di­
verso . In questo caso, infatti, è lo stesso Iefte a fare voto di offrire a Dio
il primo essere che uscirà dalla sua casa quando ritornerà vittorioso
(Gdc 1 1 ,30). Chi sarebbe se non un essere umano ? Parlando in questo
modo, Iefte invita Adonai a scegliere lui stesso la sua vittima o affida
la cosa al caso? Sia come sia, si tratta del voto di un capo inquieto e
desideroso di assicurarsi la vittoria, mentre lo spirito di Dio riposa già
su di lui per dargli sicurezza (Gdc 1 1 ,29). Questa vittoria deve consa­
crare un potere al quale aspira (Gdc 1 1 ,9). Ma, come dice A. Marx, Ief­
te è anche un esaltato, il quale immagina che Adonai «possa godere
della sofferenza e della morte di un essere umano e, peggio, gradire la
morte di un innocente».47 In ogni caso, al ritorno di Iefte, la prima per­
sona a uscire dalla sua casa è la figlia, certamente a ragion veduta, per­
ché era perfettamente al corrente del voto pubblico del padre, come in­
dica la sua pronta risposta (Gdc 1 1 ,36). Pur dichiarandosi disperato
per il fatto di dover sacrificare la sua unica figlia e per il fatto che que­
st'ultima gli parla tranquillamente, suggerendogli, con tono rassegna­
to , di rimettersi al suo giudizio, Iefte vuole adempiere fino in fondo il
voto dal quale dipende la sua credibilità e la sua posizione di capo. Ma,
diversamente da ciò che avviene in Geo 22, Dio non interviene per im­
pedire il peggio . Questo significa che sta al gioco ambiguo di Iefte e
prova piacere per la morte di sua figlia? Non significa piuttosto - co-

46 Per un'analisi approfondita, cf. A. WaNJN, lsaac ou l'épreuve d 'A braham. Appro­
che narrative de Genèse 22 (Le livre et le rouleau 8), Lessius, Bruxelles 22008 , soprat­
tutto 30-88 .
47 C . GRAPPE - A. MARX, Sacrijices scanda/eux? Sacrijices humains, martyre et mort
du Christ (Essais bibliques 42), Labor et Fides, Genève 2008, 43-55, soprattutto 5 1 . An­
che un capitolo su Gen 2 2 è illuminante (29-4 1).

44
me nel resto del libro dei Giudici - che lascia che gli uomini si pren­
dano le loro responsabilità e si assumano le amare conseguenze delle
loro scelte sbagliate? Infatti, immolando la sua unica figlia, Iefte si au­
tocondanna a un'esistenza definitivamente sterile.48
Come si può vedere, letti nella loro prospettiva e nel loro contesto,
questi due episodi, certamente difficili da comprendere, suggeriscono
piuttosto l'immagine di un Dio che, come affermano chiaramente altre
pagine dell'Antico Testamento, non vuole che si creda di onorario con
atti di violenza - fossero pure sacrificali - di cui sono vittime altri es­
seri umani. Al contrario, leggendo i precetti accompagnati dalla pena
di morte nello spirito che ho indicato, non è difficile comprendere che
Dio mette in guardia il suo popolo da possibili scelte letali per salva­
guardarne e promuoverne la vita, sull'esempio di ciò che fa nel giar­
dino di Eden, quando avverte la prima coppia che mangiare di un de­
terminato albero potrebbe condurla alla rovina (Gen 2 , 1 6- 1 7) .

Immagini di Dio, violenza e pace.


Alcune riflessioni come conclusione49

In conclusione, prendiamo tempo per riflettere. Ho illustrato con al­


cuni esempi salienti i principali tipi di violenza attiva che l'Antico Te­
stamento attribuisce a Dio . Allineandoli in questo modo, si nota più fa­
cilmente che dipendono dalla rappresentazione letteraria del perso­
naggio divino fatta dai racconti, da colui che parla negli oracoli o dal
legislatore che si esprime nella Torah . Sono quindi un linguaggio indi­
retto su Dio, che è al di là di tutte le rappresentazioni. Sono narratori,
profeti, oranti, saggi che , costretti dalle necessità della comunicazione
umana, ricorrono a queste figure per parlare del Dio della loro fede.
Attraverso di esse evocano YHWH, il Dio dal Nome impronunciabile,
che , nella legge delle leggi, vieta di fare immagini scolpite di lui (Es

48 Per i dettagli riguardo a questo racconto, cf. lo studio citato sopra: W�NIN, «À quoi
Jephté sacrifie+il sa fille?».
49 In queste riflessioni riprende l a sostanza, e a volte la lettera, dell'articolo citato
alla nota l .

45
20,4), certamente perché ogni rappresentazione rigida deforma ciò che
viene ridotto a un unico aspetto del suo essere.
Inoltre (ed è un altro limite imposto dal passaggio attraverso la pa­
rola umana, sempre individuale), ciò che queste rappresentazioni di­
cono di Dio, lo dicono con parole di credenti , la cui vita, azione, con­
cezione e fede non possono non essere intaccate dalla violenza di cui
sono vittime o responsabili, complici o testimoni. (È ciò che suggerisce
a suo modo, come abbiamo visto, già il racconto programmatico di Gen
1-1 2). Non stupisce quindi che queste immagini siano segnate più o
meno da questa realtà. Perciò è fondamentale, quando si leggono que­
sti testi, distinguere con cura fra rappresentazioni letterarie del perso­
naggio divino, intaccate dalla violenza umana, e verità di Dio, fra le sue
raffigurazioni, in parte deformate, e la sua realtà. Infatti, la realtà di
Dio è radicalmente preclusa alla conoscenza umana e sempre inaffer­
rabile. Ci si può solo avvicinare ad essa e proprio attraverso queste im­
magini , limitate ma indispensabili.
Se così è, anche le immagini violente dicono qualcosa di Dio, come
abbiamo visto: Dio combatte il male e le forze di morte; libera, dona,
fa vivere; è giusto , fedele ai suoi impegni, esigente per il suo alleato; è
unico e la sua sovranità si estende su tutti, ecc. Ma nessuna di queste
immagini dice tutto di lui e ognuna, come ogni rappresentazione, è
parziale e partigiana al tempo stesso. Perciò il lettore, !ungi dal resta­
re di stucco di fronte a queste immagini violente o dall'accantonarle,
dovrà imparare a metterle in tensione con le altre immagini: quelle del
Dio creatore, sensibile e giusto, saggio e folle , paziente e geloso, bene­
volo e potente, tenero e severo, misericordioso ed esigente, pudico e
discreto, ecc. Questo paziente confronto permetterà sia di scoprire ciò
.che c'è di vero nell'immagine sia di temperare ciò che in essa deriva
dall'accessorio o dall'umano troppo umano. Questo sforzo non avrà
mai fine, perché dovrà essere fatto durante tutta la lettura della Bib­
bia, alla ricerca del Dio paradossale e insondabile che si presenta in
questi termini: «Adonai, Adonai, Dio di tenerezza e di grazia, lento al­
l'ira, ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore a migliaia
e toglie colpa, trasgressione e peccato , ma non può considerare inno­
cente, visitando la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli, sulla ter­
za e la quarta generazione» (Es 34,6-7). O ancora: «lo sono Adonai,
non ce n'è altri; io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e pro­
voco la sciagura: io sono Adonai .che faccio tutto questo» (ls 45 ,6-7).
Testi del genere ricordano al lettore che non si può parlare corretta-

46
mente del Dio della Bibbia, trascurando ciò che in lui sembra con­
traddittorio o resta inaccessibile. 5°
Ciò detto, per collocare queste rappresentazioni di Dio in un qua­
dro più ampio, al fine di relativizzarle mettendole in prospettiva, con­
sideriamo brevemente altre pagine , che si ritrovano nel racconto pro­
grammatico dell'inizio della Genesi per affermare la volontà divina di
un superamento definitivo della violenza. Secondo Ezechiele, nel gior­
no di Adonai, «gli abitanti delle città di Israele usciranno e per accen­
dere il fuoco bruceranno armi, scudi grandi e piccoli, e archi e frecce
e mazze e giavellotti e con quelle alimenteranno il fuoco per sette an­
ni» al punto che non si dovrà più andare a prendere legna nei campi
e nei boschi (Ez 39,9- 1 0) . Infatti, come dice il salmista, Dio ha posto la
sua dimora a Salem, la Città della pace, dove «ha spezzato le saette del­
l'arco, lo scudo, la spada, la guerra» (Sal 76, 3-4), parali zzando coloro
che assalivano la città per «salvare tutti i poveri del paese» (Sal 76, 1 0).
Il «Signore degli eserciti» (Adonai Sabaot) «farà cessare le guerre fino
ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel
fuoco gli scudi» (Sal 46 , 1 0) . Perciò , «ciò che dice Adonai è la pace per
il suo popolo, per i suoi fedeli, e che non ritornino alla follia» (Sal 8 5 ,9).
E alla fine dei giorni, «verso il monte della casa di Adonai affiuiranno
tutte le genti . Verranno molti popoli e diranno: "Venite, saliamo sul
monte di Adonai, alla casa del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue
vie e possiamo camminare per i suoi sentieri" . Poiché da Sion esce la
legge e da Gerusalemme la parola di Adonai. Egli sarà giudice fra le
genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faran­
no aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la
spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guer­
ra» (ls 2 , 2-4). Infine, come Dio dice in Zaccaria, il Messia, il futuro re
di Gerusalemme sarà un re di pace . « Egli è giusto e vittorioso, umile,
cavalca un asino, un puledro figlio di asina. Farà sparire il carro da
guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà

50 Cf. al riguardo OEMING, «Dieu et la violence», 29. Cf. anche ciò che scrive a pro­
posito dell'idolatria P. BEAUCHAMP, D 'une montagne à l'autre. La Loi de Dieu, Seui!, Paris
1 999: «Non è necessario, per essere idolatri, rap presentare Dio come un toro o un'a­
quila o una colomba. Basta vederlo forte senza dolcezza. o "amante" senza potenza. o
terribile senza pazienza. o "tenero" senza sapienza . . . Ma vedere tutte queste qualità ri­
unite insieme, non è vedere. [ . . . ] 11 molteplice si rappresenta, ma nulla somiglia al luo­
go in cui il molteplice si riunisce. È il Santo dei Santi, vuoto di ogni immagine» (6 1 ) .

47
spezzato, annuncerà la pace alle nazioni . . . » (Zc 9,9- 1 0) . Perciò come
potrebbe il Dio di giustizia compiacersi a vedere morire le sue creatu­
re? Non si compiace piuttosto al vedere vivere il malvagio, dopo che si
è allontanato dal male che lo dominava (cf. Ez 3 3 , 1 1 )?
Ma come far vivere il malvagio strappandolo alla sua violenza sen­
za ricorrere a quest' ultima, con il rischio di rilanciarla e persino di al­
largarla e rafforzarla? Un testo del libro di Isaia - il celebre poema del
«servo sofferente» (Is 5 2 , 1 3-5 3 , 1 2) - spiega come Dio ritiene di poter
neutralizzare la violenza con la libera collaborazione di un «servo». Il
testo è denso e non è possibile leggerlo in dettaglio in questa conclu­
sione. 51 Mi limiterò a riassumere l'essenziale in alcune righe, ristabi­
lendo l'ordine cronologico poeticamente rimaneggiato nel testo. Un
giusto, il servo , è un uomo non appariscente, debole, malato . Perciò,
secondo la teologia del tempo, deve essere collocato fra i peccatori.
Quindi viene anzitutto isolato , evitato, disprezzato . Poi intervengono la
brutalità, la violenza, il giudizio sommario, la morte e la fossa comu­
ne. L' uomo non ha aperto bocca, ha lasciato fare come un agnello con­
dotto al macello! Come se fosse colpevole . Come se i suoi carnefici fos­
sero quei giusti che credono di essere, trattando in quel modo colui che
considerano peccatore. Ma quando tutto è ormai compiuto, Adonai
prende la parola. Fa sapere a coloro che lo ascoltano stupiti, incredu­
li, che egli esalta il servo , lo innalza sommamente. Così annulla il loro
giudizio, riabilita il «suo servo», che essi hanno condannato . Final­
mente coloro che lo consideravano peccatore, «colpito e umiliato da
Dio», aprono gli occhi. Riconoscono di essersi completamente sbaglia­
ti riguardo a quel servo e che egli soffriva, in realtà, proprio per loro,
stritolato dal loro peccato, schiacciato dalla loro ingiusta violenza,
mentre in silenzio si addossava le sofferenze e i dolori che li rendeva­
no malvagi e ciechi.
Ma, nonostante il male che hanno riconosciuto in se stessi, nono­
stante la loro violenza, Dio non li ha colpiti con il castigo che, secondo
loro, meritano i peccatori. Non li ha neppure accusati. Ha solo con-

51 Su questo testo esistono studi eccellenti. Cf.. ad esempio, recentemente, A. ScnEN­


KER, Douceur de Dieu et violence des hommes (Connaitre la Bible 29). Lumen Vitae, Bru­
xelles 2002; GRAPPE - MARX, Sacriftces scandaleux?, 7 1 -82 (A. Marx); W�NIN, La Bible ou
la violence surmontée, 1 1 7- 1 34, sulla scia di P. BRAUCHAMP, Salmi notte e giorno, Citta­
della Editrice, Assisi 1 983, 266-272.

48
traddetto la loro sentenza. Li ha indotti a ricredersi, esaltando il giusto.
Così facendo, ha permesso loro di aprire gli occhi e di vedere la loro
vittima attraverso i suoi occhi. t\.l].ora hanno confessato la loro colpa, il
male che hanno inflitto al servo e hanno rivisto il loro giudizio su di lui,
riconoscendo che egli «non ha commesso violenza» e che «non c'è in­
ganno nella sua bocca» (Is 5 3 ,9b). Agli occhi degli uomini, è stato Dio
a compiacersi - per la salvezza dei peccatori - di colpirlo con la malat­
tia e ad annientarlo (Is 5 3 , 1 0a), ma lo stesso Adonai smentisce questa
lettura, sottolineando la piena libertà del servo che si è addossato il ma­
le degli altri (ls 5 3 , 1 2b). Ora convertiti, questi uomini costituiscono la
«discendenza» del servo di cui si parla al termine del poema, loro che,
grazie a lui, aprono gli occhi e sono quindi disposti ad abbandonare la
loro ingiustizia, la loro violenza. Infatti, alla fine, Adonai lo afferma
chiaramente: giusto, il servo è fonte di giustizia, «ha spogliato se stes­
so fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli por­
tava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli» (ls 5 3 , 1 2b).
In questo poema, a disinnescare la violenza è l'azione congiunta del
servo, di Adonai e dei violenti. Il primo, con il suo silenzio e la sua non
violenza liberamente assunta, concentra su di sé la brutalità degli al­
tri; la porta, senza rilanciarla, senza accusarli per difendersi o aggre­
dirli perché smettano di opprimerlo. Adonai attende l'esito tragico per
pronunciare una parola che apre gli occhi ai violenti; senza accusare
di malvagità coloro che si credevano giusti, concede loro la possibilità
di vedersi nella loro verità di peccatori ciechi verso la loro propria in­
giustizia. Allora, questi ultimi, entrando nella luce, accettano di cam­
biare il loro sguardo, adottando quello di Dio, e questa presa di co­
scienza della loro colpa è un primo passo verso un cambiamento di
condotta. Per dirla con le parole di Pau! Beauchamp : «Il corpo soffe­
rente del Servo è l! libro, scritto dall'uomo e non da Dio, in cui Dio, co­
me un maestro che sa attendere, mostra all'uomo il suo errore, affin­
ché, vedendolo, egli si corregga più radicalmente di quanto non avreb­
be saputo fare sotto l'urto di un rimprovero». 52

52 BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, 268. Si noterà che, al tennine della Genesi, la
storia di Giuseppe illustra molto bene il lento percorso di quest'uscita non violenta dal­
la violenza. Su questo punto. cf. WaNIN, Non di solo pane .. . , 1 06- 1 1 3 : 1 35 - 1 44.

49
Il lettore della Bibbia - il cristiano, in ogni caso - aderirà certa­
mente volentieri a quest'immagine di un Dio di pace, messa senza dub­
bio maggiormente in risalto dal Nuovo Testamento . Ma si guardi da ri­
tenersi troppo presto soddisfatto di quest'immagine più piacevole , più
in linea con i suoi desideri e le rappresentazioni che la sua educazio­
ne gli ha trasmesso o, in sua assenza, gli ha fatto sperare. Infatti, chi
si ferma a ciò che conviene rischia di restare vittima della propria im­
magin azione, negando tutta una faccia della realtà nella quale il Dio
della Bibbia vuole essere coinvolto . Infatti, le prime pagine di questo
Libro sono categoriche : la violenza è parte integrante del mondo noa­
chico che è il nostro e «non è abbandonando la scena della violenza
che si manifesterà la mitezza, ma, al contrario, su questa stessa sce­
na».53 È su questa scena, quella della realtà degli uomini, che Dio ha
voluto rivelarsi. Relegarlo al balcone non è probabilmente il modo mi­
gliore di onorario, lui che ha voluto correre il rischio dell'essere uma­
no e della sua libertà. Quindi anche della sua violenza.
Del resto , nella Bibbia, vengono riconsiderate - alla rinfusa e sen­
za una particolare cura sistematica -, molte immagini che le società e
gli uomini si sono fatti e si fanno di Dio, da quelle che ci sembrano più
belle a quelle che consideriamo detestabili . Quindi tutto avviene come
se fosse impossibile al lettore della Bibbia cercare Dio senza vagliare
ciò che gli uomini ne fanno in positivo e in negativo. Gli riconoscono il
desiderio di riunire gli esseri umani nella pace, ma gli addebitano an­
che la responsabilità di quelle fabbriche di guerra che sono il nazio­
nalismo e il fanatismo. Vedono in lui un Dio che fa grazia nella sua vo­
lontà di felicità per tutti, ma gli attribuiscono anche castighi ignobili,
per non dover riconoscere nella loro sventura il frutto di ciò che han­
no seminato . Invocano il suo Nome per celebrare la gioia di un bene­
ficio ricevuto, ma lo fanno anche quando cercano di giustificare i cri­
mini che compiono, quando non addirittura quelli che subiscono . Ne­
gando la loro realtà, fanno di Dio il riflesso a volte del loro desiderio di
felicità, a volte del loro carattere violento, come per dispensarsi dallo
scrutare il legame nascosto che unisce queste due facce di loro stessi
e non dover bloccare fin dai primi sintomi la cupidigia con l'idolatria
che la sottende - queste fabbriche di violenza.

53 P. BEAUCHAMP - D. VASSE , La violence dans la Bible (Cahler Évangile 76), Cerf-Évan­


gile et Vie, Paris 1 9 9 1 , 46.

50
Ma la Bibbia mostra tutte queste immagini, belle o ripugnanti, per
attribuire loro un'etichetta di verità quando si tratta di dire chi è Dio?
Non è forse piuttosto per impegnare il lettore a riconoscerle come sue
e quindi a lavorarle, a imparare pazientemente a scovare la menzogna
che le deforma più o meno tutte, ma anche a riconoscere la verità che
in esse si cerca di dire su Dio, ma anche sull'uomo e sulle loro rela­
zioni? Se così è, il lavoro che la Bibbia esige non riguarda solo il suo
testo e le sue immagini, ma anche e soprattutto le rappresentazioni del
lettore che le incontra durante la lettura, forse senza prestarvi atten­
zione . Infatti, preso sul serio, il testo sacro invita il lettore ad attraver­
sare continuamente le sue proprie immagini approssimative di Dio, le
sue rappresentazioni deformate di cui il Libro gli rinvia il riflesso, per
cercare il Dio che in esse si nasconde e si rivela al tempo stesso. Que­
sto riguarda anche le immagini violente di Dio . «L'uomo, attraverso le
lenti dei suoi occhiali, vede un Dio violento. Ciò non vuoi dire che non
vede Dio. Infatti Dio non si nega a questo sguardo deformato. Per tra­
sformare questa violenza, per convertirla» . 54 Ma può farlo senza che
gli uomini collaborino a questa trasformazione? Non è forse a questo
che le Scritture invitano il lettore?
Affid ando all'uomo scampato al diluvio, a Noè, la missione di essere «il
terrore»55 degli animali, Dio assume in qualche modo, interina, la no­
stra violenza. Dio ci ha accompagnati, prestandosi all'immagine che i
nostri occhi si facevano di lui: egli ha scelto per gli uomini rimasti vio­
lenti il linguaggio e l'immagine che potevano accettare; così praticava
questa dolcezza: di rivestire lui stesso la nostra violenza, in attesa di es­
seme vittima nella carne del suo Figlio fmo alla morte. 56

54 BEAUCHAMP - VASSE, La violence dans la Bible, 1 2 . È anche una delle intuizioni che
sottende il bell'articolo di VERVENNE, «"Satanic Verses"?», citato sopra (nota 25).
55 Cf. Gen 9 , 1 - 3 .
5 6 BEAucHAMP, Testament biblique, 1 8 2 .

51
Capitolo secondo

LA VIOLENZA ARCAICA
E IL PARAD O S S O
D E L SACRIFICIO
AGLI DÈI OSCURI

Jean-Daniel Causse

Nella scia del percorso proposto da André Wénin sulla violenza di­
vina nell'Antico Testamento - i suoi moventi, i suoi effetti, le sue pos­
sibili soluzioni - propongo di riprendere il problema sul terreno della
psicanalisi o, più esattamente, al confine fra etica e psicanalisi. Porrò
l'accento soprattutto sulla violenza del sacrificio e, al termine del ca­
pitolo, sulla complessa questione della gelosia divina. Ma anzitutto bi­
sogna illustrare il concetto di violenza e la sua ambivalenza.

Il concetto di <<violenza)) secondo la psicanalisi

La violenza in quanto tale non può essere considerata un concetto


della psicanalisi. Negli scritti di Freud, il termine ricorre raramente a
differenza di altri concetti che si possono ritenere vicini a esso o gli fan­
no eco: aggressività, pulsione di distruzione, odio, sadismo o maso­
chismo, ecc. È vero che nei Tre saggi sulla teoria sessuale, quindi mol­
to presto nel suo percorso, Freud ricorda «un bisogno di mostrarsi vio­
lenti», che attribuisce alla pulsione sessuale, ma anche a una pulsione
di autoconservazione, di cui sottolinea il carattere erotico . 1 Per porta-

1 S. FRHUD, «Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti (1905)», in Opere 1 900-
1 905, Boringhieri, Torino 1 970, IV, 4 5 1 -546; qui 441 -442.

53
re l'esempio di uno scritto più tardivo e certamente più significativo,
Freud utilizza ripetutamente il termine «violenza» nel quadro di uno
scambio epistolare con Einstein, organizzato, nel 1 932, dalla Società
delle Nazioni, prima di essere pubblicato l'anno seguente con il titolo
Perché la guerra ?. 2 All'inizio della lettera indirizzata a Freud, Einstein
riprende l'articolazione classica del diritto e della forza, presentando­
la come lo strumento necessario di una regolazione sociale, ma affer­
mando al tempo stesso che uno Stato può sempre corrompersi quan­
do si lascia travolgere dal suo bisogno di potenza. Nella sua risposta,
Freud ritorna su questa prima parte delle considerazioni di Einstein e
scrive: «Posso sostituire la parola "forza" con la parola più incisiva e
più dura "violenza"»?3 Anche se diritto e violenza sono diventati ter­
mini opposti, Freud spiega un po' più avanti che «è facile mostrare che
l'uno si è sviluppato dall'altro e, se risaliamo ai primordi della vita
umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione
del problema appare senza difficoltà>> . In altri termini, «ciò che è di­
ritto in origine era in origine violenza bruta e tuttora esso non può ri­
nunciare al sostegno della violenza» .4 In breve , il diritto e l'ideale civi­
lizzatore di giustizia non hanno eliminato la violenza, ma l'hanno sem­
plicemente riorientata o reinvestita sullo sfondo di una realtà arcaica
che continua a esistere . In modo più deciso, subito dopo , Freud si ri­
ferisce alla giudiziosa osservazione di Einstein, il quale, cercando di
cogliere l'origine della violenza, ipotizza che «l'uomo sperimenta una
p ulsione all'odio e alla distruzione». 5 Allora Freud abbonda nel senso
del suo interlocutore, ma si dimostra più pessimista, sostenendo che
«non c'è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uo­
mini», prima di proseguire con una punta di ironia: «Si dice che in con­
trade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l'uomo ha
bisogno, vi sono popoli la cui vita scorre nella mitezza, presso cui la
coercizione e l'aggressione sono sconosciute . Posso a mala pena cre­
derci; mi piacerebbe sapere di più su questi popoli felici».6 In realtà,

2 S. FREUD - A. EINSTEIN, «Perché la guerra? (1 932)», in Riflessioni a due sulle sorti


del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1 989, 74- 8 8 .
3 FREUD, «Perché la guerra?». 75.
4 FREUD, «Perché la guerra?», 81.
5 F REUD , «Perché l a guerra?», 67 .
6 FREUD, «Perché la guerra?», 84.

54
in questa lettera, Freud non fa che riprendere, sotto una forma rima­
neggiata, tutta una serie di considerazioni fatte in Il disagio della ci­
viltà , dove evocava una cattiveria e una violenza non sradicabili che
restano nella parte più profonda dell'essere umano. Benché un po' lun­
go, vale la pena citare un estratto del testo freudiano: «Non compren­
do più che noi possiamo restare ciechi di fronte all'ubiquità dell'ag­
gressione e della distruzione non erotizzate e trascurare di accordare
loro il posto che meritano nell'interpretazione dei fenomeni della vita
[ . ) . È vero che coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si
. .

parla loro della tendenza nativa dell'uomo alla "cattiveria" , all'aggres­


sione, alla distruzione, e quindi anche alla crudeltà». E Freud conclu­
de imperterrito: «Una parte di vero dietro tutto questo c'è, anche se so­
vente non viene riconosciuta, ed è che l'uomo non è una creatura man­
sueta, bisognosa d ' amore, capace al massimo di difendersi quando è
attaccata; è vero invece che bisogna attribuire al suo corredo pulsio­
nale anche una buona dose di aggressività [ . . ). Egli vede nel prossimo
.

[ . ) anche un oggetto su cui può magari sfogare le proprie aggressivi­


. .

tà, sfruttandone la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusandone


sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei
suoi beni, umiliarlo , farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homi­
ni lupus: chi ha coraggio di contestare quest'affermazione dopo tutte
le esperienze della vita e della storia?» . 7 A sostegno della sua affer­
mazione, Freud ricorda l'inquisizione, le invasioni, i massacri e le
guerre , in cui l'amore del simile si fonda sull ' odio del dissimile : « È
sempre possibile riunire anche un numero rilevante di uomini che si
amino l'un l'altro fin tanto che ne restino alcuni per le manifestazioni
di aggressività» .8 Agli occhi di Freud, l'unico modo di lottare contro la
violenza umana, specialmente quella che si esprime nella guerra, è
quello di basarsi su meccanismi del super-io e di promuovere i processi
di identificazione con ideali comuni. In Perché la guerra?, Freud af­
ferma che sarebbe illusorio e poco responsabile fare appello ad argo­
menti filantropici che saltano a piè pari la violenza originaria. Per com­
battere la violenza, egli sviluppa un punto di vista vicino a quello di
Einstein e raccomanda la funzione del diritto, che è una violenza indi-

7 S. FREUD, «Il disagio della civiltà ( 1 929)», in Opere, X. 557 -630; qui 599.
·s FREUD, «Il disagio della civiltà», 601 -602.

55
spensabile fatta alla violenza per rendere possibile la vita sociale.9 A
questo aggiunge che bisogna incoraggiare l'identificazione con proget­
ti comuni: «Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi fra gli uomini deve
agire contro la guerra» . t o
Il concetto di «violenza» non manca quindi negli scritti di Freud,
ma vi occupa un posto limitato, e bisogna riferirsi a pubblicazioni re­
centi per trovare una concettualizzazione psicanalitica più approfon­
dita. 1 1 Comunque anche in Freud la relativa discrezione lessicale non
impedisce una reale considerazione della presenza enigmatica della
violenza nel mondo degli uomini e uno sforzo per spiegarla o perlo­
meno comprenderne il funzionamento . Nel suo scambio epistolare con
Einstein, Freud espone il suo punto di vista: alla radice della violenza
c'è un'ambivalenza pulsionale . La violenza appartiene al tempo stesso
alla pulsione di vita e alla pulsione di morte . Sta in questo tutta la dif­
ficoltà di spiegarla e anche di qualificarla sul piano etico.

Ambivalenza della violenza

Nella sua discussione con Einstein, Freud nota che, a causa del
composto pulsionale eros e thanatos che opera nell'uomo, non bi­
- -

sogna essere troppo precipitosi nella «valutazione del bene e del ma­
le». La violenza è l'espressione di una forza di morte o di una potenza
di vita? Come interpretarla correttamente? Certo, noi consideriamo
sp o ntaneamente la violenza un male morale, a volte un male necessa-

• Roger Mehl lo aveva evidenziato da un punto di vista etico: «Lo stato combatte la
violenza con la violenza; ciò significa che è incapace di estirparla, ma è capacissimo di
contenerla. Contenere la violenza selvaggia mediante la violenza istituzionalizzata è ga­
rantire la sicurezza pubblica» (R. MEHL, «La violence institutionnalisée», in Le Supplé­
ment 1 43[1 9821. p. 446). L'autore bilancia la sua affermazione con una critica del pote­
re dello Stato. che può anche usare la violenza istituzionalizzata in tutta legittimità per
soddisfare delle passioni.
to FREUD, «Perché la guerra?», 85.
1 1 Cf. specialmente S. AsKOFAR� - M.-J. SAURET, «Clinique de la violence. Recherche
psychanalytique», in Cliniques Médite"anéennes 66(2002), 241 -260; C. BALIER, Psycha­
nalyse des comportements violents, PUF. Paris 1 988; A. HoussAU.AH. Le virus de la vio­
lence. La guerre civile est en chacun de nous. Albin Miche!, Paris 1 996; N. JEAMMET, Des
piolences morales. Odile Jacob, Paris 200 1 ; D. StBONY, Violence. Traversées, Seuil, Paris
1998; J.-P. WtNTER, «Tentative de "viologie"», in F. HÉRITIBR (ed.), De la violence Il. Sémi­
naire de Françoise Héritier, Odile Jacob, Paris 2005, 269-288.

56
rio, o un male minore, ma comunque un male. In ogni caso , non si può
immaginare l'inserimento della violenza in un elenco di virtù. Il giudi­
zio di Freud è diverso e consiste, anzitutto, nella sospensione delle ca­
tegorie morali , per cogliere nella violenza una manifestazione dell'esi­
stenza. Non che la morale sia indifferente per Freud e Perché la guer­
ra?, testimonia, ad esempio, la preoccupazione di arginare o sublima­
re la violenza. Ma, invece di ridurre la violenza a un unico ruolo o a
un'unica funzione , Freud cerca di comprenderne la complessità all'in­
terno dello sviluppo psichico della persona. La violenza è certamente
distruttiva, ma, in realtà, essa è ancor più ambivalente. È quanto atte­
sta, del resto , l' etimologia del termine «violenza» , le cui radici indo-eu­
ropee hanno dato il termine greco bios e il termine latino vita , in altre
parole la vita nel senso di potenza vitale .. Si tratta di una realtà bruta­
le, improvvisa, che dilaga o si riversa come un ribollimento vitale e po­
tenzialmente distruttivo. Questo ribollire della vita trova progressiva­
mente le vie della propria umanizzazione. In Francia, il termine «vio­
lenza» compare all'inizio del XIII secolo, con il significato, come indi­
ca il Littré, di forza naturale brutale; viene applicato, ad esempio, al
vento , alla tempesta, ma anche al dolore della malattia, a una medici­
na, e anche alla forza delle passioni. Solo più tardi acquista un signi­
ficato morale e serve a caratterizzare un'azione costrittiva o un atto
brutale illegittimo contrario al diritto e al rispetto dell'altro.
Freud tematizza l'ambivalenza della violenza specialmente in rela­
zione alla c oppia amore-odio. Come distinguere l'amore dall'odio? Co­
me sapere se ciò che si esprime nei riguardi dell'altro è amore o odio?
Ritornerò su questa questione nel capitolo 4, dopo quello consacrato
da É lian Cuvillier al Nuovo Testamento, ma evidenzio comunque subi­
to un punto: per Freud, a livello arcaico esiste uno stadio nel quale odio
e amore sono strettamente mescolati al punto da poterli difficilmente
distinguere. Il bambino vuole incorporare, quindi divorare, l'oggetto
che ama. A questo livello, il bisogno alimentare infantile - la necessità
di ricevere dalla madre ciò che gli serve per la sua vita biologica - è
accompagnato da una tendenza a mettere in bocca ogni sorta di og­
getti, mordendoli, frantumandoli, strappandoli, ingoiandoli, ecc. L'a­
more è una pulsione di divorazione e di distruzione, che può essere at­
tribuita anche all'odio. Anche quando si è imparato a distinguere me­
glio i sentimenti e d'un tratto si scatena la violenza, non è sempre fa­
cile discernerne la fonte pulsionale: la violenza vuole significare odio
o, al contrario, amore? Si conoscono situazioni in cui si esprime la vio-

57
lenza non verso la persona che si odia, ma verso la persona che si ama
e, a volte, profondamente . Non è raro vedere qualcuno che distrugge,
o ferisce, ciò che ama maggiormente e che può diventare oggetto del
suo odio. Perciò, la violenza può manifestare ugualmente bene l'amo­
re e l'odio, non nel senso di reversione, ma nel senso di riattivazione
di un'indifferenziazione pulsionale arcaica.
Qui la violenza è un atto di divorazione dell' altro, cioè un tentativo
di incorporarlo . Da questo punto di vista, colpisce constatare che, in
un'opera come L'avvenire di un 'illusione, Freud indica non due, ma
tre divieti fondamentali che ogni persona deve necessariamente inte­
grare per accedere alla cultura: al divieto dell' omicidio e dell'incesto
aggiunge quello del cannibalismo. L'importanza di quest'ultima pul­
sione era già stata messa in risalto da Karl Abraham: «Basta guarda­
re un bambino per rendersi conto dell'intensità del suo bisogno di
mordere . È lo stadio degli impulsi cannibaleschi. Il bambino soccom­
be al fascino dell'oggetto, rischia di, o è costretto a, distruggerlo» . 1 2
Omicidio , incesto e cannibalismo, vietati o ritualizzati d a ogni società
umana, hanno un elemento in comune: la volontà primitiva di incor­
porare l'altro e quindi di fare scomparire la sua differenza. In tutti e
tre i casi , si tratta di introdurre l'altro in se stessi, per eliminare ogni
distinzione o ogni limite. La violenza nega ogni distanza fra sé e l'al­
tro: «tu sei me» o «io sono te» . È sia un tentativo di annullare l'altro,
impadronendosene, sia una volontà di scomparire, proiettandosi nel­
l'altro. È ciò che Pierre Fédida chiama «godimento dell'unità violen­
ta», aggiungendo - ed è fondamentale - che la pulsione cannibalesca
mira certamente a distruggere l'altro, ma, paradossalmente , per non
perderlo . 1 3 Il cannibalismo si spiega con la paura, e anche l' angoscia,
di non poter sopravvivere alla separazione dall'altro. Il problema si ri­
·solve pensando che, se si incorpora l'altro, quest'ultimo non potrà mai,
in alcun modo, abbandonarci, perché lo si porta sempre in sé. Fédida
precisa giustamente che l' ambivalenza del cannibalismo «significa che
il modo più sicuro di evitare la perdita dell'oggetto è quello di distrug­
gerlo per mantenerlo vivo » . 1 4 Ecco la vera natura di questa violenza

1 2 K. AIIRA HAM, «Contribution à la psychogénèse de la mélancolie ( 1 9 1 3 - 1 92 5)», in


lEuvres Complètes, Payot, Paris 1 966, Il, 277.
1 3 P. HmoA, L'absence ( F olio Essais), Gallimard, Paris 1 978, 85.
1 4 FtmoA, L'absence, 92. È anche il caso della gelosia. come mostrerò più avanti.

58
arcaica, incestuosa e assassina: il desiderio illusorio di evitare la per­
dita mediante la divorazione dell' altro, in qualunque modo si compia
un tale atto . La violenza testimonia un'angoscia primitiva, nella quale
si sperimenta la separazione come portatrice di morte , mentre essa è
invece la condizione della vita. Incesto, assassinio e cannibalismo mi­
rano quindi a una stessa non differenziazione o non distinzione attra­
verso la soppressione dell'altro . Ma, per quanto strano possa sembra­
re, è per evitare l' angoscia della perdita. Vedremo che la violenza del
sacrifico opera allo stesso modo, perché anch'essa pretende di scon­
giurare l'angoscia della perdita.
La violenza incestuosa - quella che elimina il confine fra l'altro e sé
- viene esercitata nella speranza di risparmiarsi una prova che la psi­
canalisi chiama «castrazione» e che è un limite indispensabile per l'e­
sistenza. È il limite di cui parlano i racconti biblici della creazione e
che André Wénin interpreta come una legge che trattiene la violenza
«in modo che essa non comprometta la piena realizzazione della vita».
Infatti, la Genesi presenta questa legge delle origini come la parola che
fa uscire dal tohu-bohu, dal caos primordiale e incestuoso nel quale si
trovano solo realtà in differenziate (Gen 1 ) . La parola nomina e separa,
cioè passa fra le cose e gli esseri affinché possano acquisire una pro­
pria consistenza: il giorno si distingue dalla notte, il cielo dalla terra,
il secco dall'umido, ecc. Alla fine, l'essere umano viene separato da se
stesso , con la comparsa dei due sessi eternamente irriducibili a una
qualsiasi unità. È sempre di questo limite che si tratta nel racconto del
giardino di Eden, dove i primi esseri umani possono mangiare di tutti
gli alberi, tranne che dell'albero della conoscenza del bene e del male
(Gen 2,4ss). Tutto è accessibile ; tranne un luogo che ha la funzione di
aprire il desiderio , che rende impossibile la totalità e causa la morte
del trasgressore: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma
dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare,
perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire»
(Gen 2 , 1 6) . La morte di cui qui si tratta non è la morte fisica (in que­
sto giardino che non ha nulla di un paradiso, Adamo ed Eva sono mor­
tali) , bensì il ritorno letale al caos dell'indifferenziazione. Nella sua
struttura profonda, la legge di cui parla il racconto del giardino di Eden
non appartiene al registro della morale e non si confonde con una se­
rie dei divieti. La sua funzione essenziale è quella di introdurre un li­
mite nel cuore del mondo dell'umano. Essa sbarra l'accesso a una to­
talizzazione o a una completezza di sé che è una forma, sempre illu-

59
soria, dell' autosufficienza. In questo senso , la violenza che vuole can­
cellare la differenza mediante l'incorporazione dell'altro è, come ave­
va ben compreso Freud, una forma primaria dell'autoerotismo . La vio­
lenza manifesta il desiderio di voler fare senza l'altro e di essere tutto
per sé. È un modo di autoconservazione, un rifiuto di farsi raggiunge­
re e quindi modificare dall'altro. In un certo modo, la violenza è una
forma di masturbazione e di produzione di un godimento narcisistico.
Quindi ciò che permette di uscire dal caos - meglio, ciò che fa sì
che se ne è sempre già usciti - è il carattere simbolico di una legge, il
tono perentorio di una parola, che separa, distingue e iscrive ognuno
nella sua singolarità corporea. Ma allora bisogna aggiungere che la
funzione della legge è a sua volta una forma di violenza, perché co­
stringe a limitare i propri desideri. La separazione viene vissuta come
una ferita, come la sofferenza di una perdita. Il termine «castrazione»,
nel suo uso psicanalitico , ha una risonanza violenta, perché indi c a una
ferita, un taglio, l'asportazione di una parte di sé, che allora diventa
un oggetto perduto . In realtà, parlare di perdita è inesatto o è piutto­
sto - usando un neologismo oggi ammesso nel lessico psicanalitico -
«immaginarizzare» ciò che appartiene al reale . Infatti, per aver perso
qualcosa, bisogna averlo precedentemente posseduto. Ora la perdita
di cui qui si tratta è, in senso stretto, perdita di nulla . È la perdita di
ciò che è stato sempre già perso. In altri termini, la castrazione non è
la sottrazione di ciò che noi avremmo avuto e che ci sarebbe stato sot­
tratto, ma la sottrazione di ciò che non abbiamo mai avuto . E tuttavia
l'essere umano la sperimenta come una perdita che gli fa violenza,
cioè che lo priva effettivamente di qualcosa. Da questo punto di vista,
la legge che vieta l'incesto è una violenza fatta al bambino che sogna
di non essere privato di nulla ed è una violenza fatta a sua madre che
deve accettare di separarsi da lui. È una violenza che opera la distin­
zione contro una violenza arcaica che produce la confusione. È una
violenza che permette la vita affinché non trionfi una violenza che mi­
ra alla morte.
Che cosa accade quando la violenza che accompagna l' esperienza
del limite non compare più o viene evitata, perché ogni frustrazione
sembra una ferita insopportabile? Allora si verifica questo paradosso:
l'incapacità di sostenere una violenza che segna il limite fa apparire
un'altra forma di violenza, che a volte ci lascia stupiti, come dimo­
strano talvolta le relazioni fusionali fra la madre e il bambino. La ma­
dre ama immensamente il suo bambino; è tutto per lui e lui è tutto per

60
lei; per amore, non gli rifiuta nulla; cede in tutto per timore di perde­
re l'amore del suo bambino , il quale sviluppa nello stesso tempo una
violenza incredibile, sorprendente, nei riguardi sia della madre sia
delle persone che lo circondano. Si vorrebbe essere meno amati di un
amore che avvelena la vita, pretendendo di fare tutto per la nostra fe­
licità. Questo permette di chiarire alcuni aspetti della violenza di cer­
ti adolescenti e più in generale una parte della violenza del nostro tem­
po. Lo scoppio di violenza cui a volte si assiste riattiva pulsioni arcai­
che nelle quali l'amore e l'odio sono indistinti, mentre tutto il lavoro
consiste appunto nel non confonderli, come non si deve confondere la
morte e la vita. Per questo , non si tratta semplicemente di annullare
una dualità, ma di accordare un posto diverso ai due termini. Per non
confondere la vita con la morte, bisogna poter attribuire un giusto po­
sto alla morte. Allo stesso modo , per non confondere l' odio e l' amore,
bisogna che l'odio sia riconosciuto e integrato. Quando non si sa nul­
la dell'odio, esso finisce per confondersi con un amore che diventa di­
vorante e distruttivo. A proposito di quest'odio, Lacan diceva che i cri­
stiani, per non saperlo riconoscere, l'avevano «trasformato in diluvio
di amore» . 1 5 (

Che fare di fronte alla violenza incurabile?

Il lettore avrà compreso che, per Freud, la violenza si trova al cuo­


re dell'umanità. Essa non è inumana, o animale, ma specifica dell'uo­
mo. Solo nell'uomo si trova ciò che merita il nome di «violenza» , con
l' ambivalenza che ho ricordato. Sul versante omicida - è su quest'a­
spetto che ora porrò ] ; accento -, la violenza umana differisce dalla cru­
deltà animale per il fatto di contenere un fantasma di onnipotenza. Ve­
dremo che il Dio violento si costruisce su questo modello . A fare pro­
blema nell'uomo è che la violenza non è semplicemente legata a una
bisogno vitale , biologico, alla necessità, ad esempio, di trovare una
preda per nutrirsi. E non è legata neppure alla difesa da un pericolo.
Su un certo versante, la particolarità della violenza è il godimento pu­
ro e semplice di fare il male. L'uomo è l'essere che può fare male per

1 5 J. LACAN, Le Séminaire XX. Encore. Seui!, Paris 1975, 82.

61
il piacere che questo gli procura. Perciò esiste, come ha mostrato
Etienne Balibar, una relazione essenziale fra la violenza e la crudeltà. 1 6
L' animale n o n è crudele; solo l'uomo può esserlo, o diventarlo, eserci­
tando la sua crudeltà sull'altro o su se stesso, in modo sadico o maso­
chistico . Esiste una pulsione di distruzione che il mondo animale non
conosce e che costituisce una violenza incurabile. La civiltà umana si
costituisce attraverso la necessaria rimozione di questa violenza ar­
caica, cioè attraverso l'organizzazione della sua pacificazione o della
sua ritualizzazione . Essa gli offre un quadro nel quale esercitarsi e dei
limiti accettabili. Socializza la violenza mediante il linguaggio, il rito,
gli scambi simbolici, varie procedure . Offre delle compensazioni alle ri­
nunce che ognuno ha accettato per passare dall'orda primitiva a una
cultura umana. Ma c'è sempre un resto, una parte oscura non simbo­
leggiabile, che non è priva di effetti. L'antropologo Marcel Mauss ritie­
ne che non esista società umana priva di un sistema di scambio costi­
tuito da «dono» e «contro-dono». Si tratta evidentemente di un dispo­
sitivo mirante a placare la violenza e l'odio Y Si scambia, si dona, si
riceve, si rende, quindi si stabilisce un' alleanza invece di uccidersi a
vicenda. Marcel Mauss non lo ignora, perché sottolinea che rifiutarsi
di donare, o di ricevere , equivale a rompere l'alleanza e a dichiarare
la guerra. In altri termini, il sistema dello scambio è una socializza­
zione, perché persiste la presenza arcaica, sotterranea, di una violen­
za che bisogna sempre trasformare in legami sociali. La forza del do­
no - Mauss sottolinea l'escalation nella generosità - sostituisce la for­
za della violenza, la cui ombra continua comunque ad aleggiare.
Il postulato spesso accettato di una bontà naturale dell'uomo chiu­
de gli occhi sulla presenza di una violenza originaria, che precede sem­
pre ogni storia, nel suo svolgimento, e continua, in ogni generazione,
a operare in ciascuno. La violenza non è un semplice degrado letale
della natura umana, spiegabile con l'ignoranza, l'ingiustizia sociale o
anche la mancanza di buona volontà. Non è un semplice ostacolo nel
cammino dell'umanità. La violenza imprime il suo sigillo omicida sul-

t6 E. BAUBAR, «Violence: idéalité et cruauté», in F. HÉRmER (ed.), De la violence /. Sé·


minaire de Françoise Héritier, 55-87.
1 7 M . MAuss, «Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés ar­
chaiques ( 1 9 2 3 - 1 924)», in Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1 950, 145-279.

62
la storia dell'umanità da sempre, come testimonia il racconto biblico
di Caino e Abele collocato «in principio». Abbiamo visto che Freud,
senza illudersi di poter un giorno eliminare questa parte oscura del­
l'umanità, insisteva sui mezzi con cui prevenire o limitare la violenza:
un'efficace protezione sociale e varie possibilità di identificarsi con
ideali comuni. Su questa stessa strada, Jacques Lacan farà un passo
ulteriore, considerando il narcisismo un ostacolo alla violenza. Si può
infatti contenere la violenza attraverso un gioco speculare, nel quale
l'altro appare come un altro se stesso in cui è possibile riconoscersi .
Scrive Lacan: «Noi siamo solidali con tutto ciò che riposa sull'immagi­
ne dell' altro in quanto nostro simile [ ]. Inversamente , indietreggia­
. . .

mo di fronte a che cosa? Ad attentare all'immagine dell'altro, perché


è l'immagine sulla quale noi siamo formati come "io " » . 1 8 Perciò, ama­
re l'altro è amare un'immagine di sé nell'altro. Ma, in un altro senso,
fargli violenza è fare violenza a se stesso. È questo il senso del «come
te stesso» della legge antica: una barriera innalzata davanti alla vio­
lenza nella misura in cui ci si può vedere nell'altro, proiettarsi in lui,
considerarlo come un altro se stesso. L'altro è un altro se stesso, con
cui possiamo identificarci. Perciò non gli facciamo del male, perché
fargli del male sarebbe anche farci del male; distruggerlo sarebbe an­
che distruggere la nostra immagine sulla quale siamo formati, e quin­
di distruggerci. Se l'uomo non è sempre un lupo per l'uomo è perché
evita di attentare alla sua immagine nell'altro. È perché, se si infran­
ge questa barriera immaginaria, o se saltano i catenacci sociali, non
c'è più nulla che fermi la violenza, che allora ha libero corso. In que­
sto senso, la violenza che si esercita contro l'altro è sempre anche una
violenza contro se stessi, cioè una distruzione dell'altro e un'autodi­
struzione al tempo stesso. La vittoria sulla violenza passa quindi at­
traverso la capacità di riconoscere l' altro come un proprio simile . Nel­
la violenza c'è un godimento , ma la violenza è anche ciò che ci fa or­
rore, molto prima dei divieti morali, a causa della nostra capacità di
riconoscere il prossimo come un altro se stesso.

ts J . LAcAN , Séminaire VII. L'éthique de la Psychanalyse (1959-1 960), Seuil, Paris


1 986, 230. Questa dinamica immaginaria trova la sua origine in quello che Lacan chia­
ma «lo stadio dello specchio», proponendone una prima analisi elaborata in «Le stade
du miroir comme fonnateur de la fonction du "je" ( 1 949)», in Écrits l, Seui!, Paris 1 966,
89-97.

63
Ma quest'analisi non è sufficiente e Lacan lo nota. 19 Da una parte,
anche se non esercitata contro l'altro, la violenza continua a esistere e
spesso si ritorce contro di sé con un'autopunizione tanto più intensa
quanto più forte è la coscienza morale . In questo senso, come aveva
già percepito Freud, a volte i miti torturano se stessi con una feroce
crudeltà e una segreta violenza.20 Dall'altra, anche se il narcisismo
ostacola la violenza in forza della visione dell'altro come un se stesso,
resta comunque il fatto che questa proiezione immaginaria ci induce
anche a pensare che l'altro possieda ciò di cui noi ci riteniamo privi.
Allora siamo gelosi e in preda a una gelosia a volte omicida sulla qua­
le ritornerò. Proprio per questo, il dispositivo immaginario, pur essen­
do una protezione, non basta a placare la violenza. La frena, ma può
addirittura rilanciarla in qualsiasi momento e in molti modi. In realtà,
la violenza è placata - convertita in qualche modo - dal carattere sim­
bolico della parola . Esso non si realizza solo mediante la costruzione
di un'immagine di sé, ma grazie a una parola che riconosce l'essere
umano nella sua unicità assoluta: solo venendo chiamato per nome, la
violenza può placarsi. 21 Qui la nozione essenziale è quella di alleanza
o di patto. La violenza trova il suo contrario nella parola o, più am­
piamente, nel linguaggio. Infatti, la violenza è ciò che ci accade quan­
do le cose non sono simbolizzabili, cioè quando non possono espri­
mersi, quando non entrano nel discorso. La violenza appartiene sem­
pre al regno del silenzio, anche quando passa attraverso la parola e di­
v enta menzogna. È nota l'espressione di Deleuze: «La violenza è ciò
che non parla».22 La violenza è una forma di mutismo o interviene nel­
l'umiliazione della parola, cioè quando la parola si trova schernita, de­
risa, o quando è considerata vana e priva di consistenza. È ciò che
Hanna Arendt ha analizzato a proposito della menzogna in politica,
che non è una menzogna qualunque, perché in questo caso si tratta di
un «mentire» che rende ogni parola impotente, priva di efficacia, sen-

1 9 Cf. LAr.AN, Séminaire Vll, 95.


2° Cf. FREUD, «Il disagio della civiltà», 612.
2 1 Qui bisogna sottolineare la distanza dalla posizione di
R. GIRARD, La violenza e il
sacro. Adelphi, Milano 1 980: IDEM, Delle cose nascoste fin dalla creazione del mondo,
Adelphi, Milano 1983. Girard evidenzia e analizza con cura la violenza inerente al mi­
metismo, ma trascura la possibilità di placarla mediante la simbologia della parola.
22 G. DELEUZE, Présentation de Sacher Masoch. Le froid et le cruel, É ditons de Mi­
nuit, Paris 1 967, 1 5 .

64
za alcuna possibilità di produrre senso .23 Arendt mostra che la violen­
za - contrariamente a quanto vuole far credere - non è l'espressione
del potere, ma la sua mancanza o la sua rovina. Non è il segno di una
forza, ma di una debolezza; non è un atto, ma, si potrebbe dire, un
«non-atto», un modo di non diventare il soggetto della propria parola
e dei propri atti, un modo di non cominciare a creare qualcosa. Un
punto di vista simile si trova anche in Paul Ricreur: «Ciò che fa l'unità
dell'impero della violenza è il fatto di avere il linguaggio come ciò che
le sta di fronte [. ]. Così la violenza ha il suo senso nel suo altro: il lin­
. .

guaggio» . 24 Subito dopo, parlando del linguaggio come discorso, Ri­


creur aggiunge che discorso e violenza sono gli opposti più fondamen­
tali dell'esistenza umana, nel senso che la violenza opera come silen­
zio, rifiuto di entrare nello spazio del linguaggio, contro-linguaggio.
Perciò, aggiunge, « La violenza che parla è già una violenza che cerca
di aver ragione; è una violenza che si colloca nell'orbita della ragione
e comincia già a negarsi come violenza [ . . ]. Infatti nessuno può pren­
.

dere posizione a favore della violenza senza contraddirsi; prendendo


posizione, egli vorrebbe aver ragione e così sarebbe già entrato nel
campo della parola e della discussione, lasciando alla porta la sua ar­
ma» .25 In questo senso , la violenza «desimbolizza» l'essere umano; es­
sa toglie alla parola la sua capacità di creare un legame e di rendere
possibile l'alleanza.

La violenza degli dèi oscuri


e il godimento del sacrificio

La questione della violenza di Dio deve essere pensata nel suo rap­
porto con una violenza originaria presente nel cuore dell'umanità. Vio­
lenza divina e violenza umana devono essere accuratamente articola­
te ed è questa la ragione delle considerazioni che precedono. Da una

23 Cf. H. ARENDT, «Sur la violence», in Du mensonge à la violence. Essais de politi·


que contemporaine, Calmann-Lévy, Paris 1 97 2 . 1 0 5 - 1 8 7 .
24 P. RIC<EUR, «Violence e t langage ( 1 967)>>, in Lectures 1 . Autour du politique, Seui!,
Paris 1 99 1 , 1 3 2 . Del resto, in questo stesso volume, si trova un testo più recente che è
un commento di H. Arendt: «Pouvoir et violence ( 1 989)», 20-42.
25 RICCEUR, «Violence et langage (1967)», 1 3 2 .

65
parte, il Dio biblico occupa la funzione simbolica di una potenza crea­
trice, che separa gli esseri e le cose, li distingue, li fa esistere nella lo­
ro singolarità, lottando continuamente contro il ritorno al caos pri­
mordiale. Dall ' altra, questo stesso Dio ha spesso i tratti dell'onnipo­
tenza che, come per caso, coincidono facilmente con i fantasmi del­
l'uomo . Ne abbiamo una celebre illustrazione nel racconto della cadu­
ta, al capitolo 3 della Genesi, dove il serpente tentatore fa credere al­
l'uomo che la sua condizione di creatura non è un luogo gioioso in cui
abitare, ma una maledizione, un brutto colpo del destino , un handicap
e forse persino una colpa. Il tentatore fa apparire come un male e una
sventura ciò che è buono e promessa di vita: il fatto che l'umano sia
umano . Perciò, alimentando un fantasma di pienezza, propone loro di
avere tutto, mangiando il frutto dell'unico albero vietato, il cui ruolo è
quello di aprire l'accesso al mondo del desiderio. Allora, il tentatore fa
questa promessa menzognera ad Adamo ed Eva: «Voi sarete come
dèi», sostenendo la defmizione teologica secondo cui un dio possiede
per essenza ciò di cui l'uomo è privo . La violenza divina trova quindi
la sua origine in un'elaborazione del Dio onnipotente, che permette al
credente di non rinunciare alla sua volontà di godimento totale. Perciò
quando parliamo di «violenza di Dio», in realtà, non diciamo nulla sul­
l'essere divino in sé. Possiamo pensare e analizzare solo i discorsi sul­
la violenza di Dio, cioè il modo in cui gli uomini costruiscono forme del
«credere» e agiscono di conseguenza. La violenza divina è un fatto di
linguaggio . Del resto, in generale, parlare di «Dio in sé» non ha alcun
senso, se è vero che non si può oggettivare una realtà divina e coglierla
in se stessa. Ciò che indica il termine «Dio» non può essere colto al di
fuori del legame soggettivo che si stabilisce con lui e quindi al di fuori
di ciò che si sperimenta. Alla domanda su chi è Dio , Martin Lutero , nel
Grande catechismo, rispondeva: «Fiducia e fede del cuore rendono ta­
li sia Dio che l'idolo . Se la fede e la fiducia sono ben riposte, allora an­
che il tuo Dio è quello vero; e viceversa, dove la fiducia è sbagliata e
mal riposta, fi non è il vero Dio . Infatti le due cose, fede e Dio , vanno
insieme. Ciò da cui - dico - il tuo cuore dipende e a cui si affida, quel­
lo è, propriamente, il tuo Dio».2 6 Parlando della violenza di Dio, ana-

26 M . LUTERO, ll Grande Catechismo (1529}, in Opere s�;elte, Claudiana, Torino 1 998,


123.

66
lizziamo sempre un tipo di relazione che, stabilendosi fra il credente e
il suo Dio, invita a interrogarsi sulle modalità del «credere» e sui loro
molteplici effetti.
Da questo punto di vista, il confronto con la violenza di Dio evi­
denzia la nostra crudeltà e la nostra violenza. Il Dio violento è a nostra
immagine e somiglianza. Rivela una cattiveria umana che è al cuore
dell'umanità. Ma da questo non bisogna concludere, alla ricerca di una
rassicurazione a buon mercato, che il Dio violento sia privo di consi­
stenza e che basti smascherarlo per vederlo dissolversi. Non si può
certamente scoprire un'altra immagine di Dio senza il confronto con il
suo volto enigmatico e persino crudele . Pau! Beauchamp lo indica chia­
ramente: «L'uomo, attraverso le lenti dei suoi occhiali, vede un Dio vio­
lento. Questo non significa che non veda Dio. Infatti, Dio non si nega a
uno sguardo deformato. Dio accetta di attraversare questa visione. Ma
per trasformare ciò che è deformato» . 27 In altri termini, non si può ac­
cedere a un'altra immagine di Dio, prescindendo dalla violenza divi­
na, ma solo confrontandosi con essa, esplorandola. Si può allora ri­
cordare la definizione della violenza religiosa proposta da Jan As­
smann - «la violenza esercitata per adempiere la volontà divina» - an­
che se si può non condividere, è il mio caso, la sua tesi secondo cui
questa forma di violenza compare solo con il monoteismo .28 Comun­
que l'attribuzione di una volontà alla divinità - che cosa vuole da me?
-, e la risposta data in termini di sapere, costituiscono un terreno pro­
pizio per i discorsi sulla violenza di Dio, specialmente per il discorso
relativo al sacrificio. È ciò che ora dobbiamo considerare .
Nel capitolo precedente, André Wénin ha mostrato che a volte il
racconto biblico presenta Dio come un guerriero (le «guerre di Ado­
nai»), o come colui che si considera il «Dio con noi» per giustificare la
propria violenza, o ancora come un essere che trae piacere dalla sof­
ferenza del sacrificio . Si tratta, ogni volta, di una violenza divina cui si
dà un contenuto e che sembra esigere l'atto violento che si compie. Il
crimine è commesso in nome di Dio. Non che Dio parli; si fa piuttosto
parlare il suo silenzio. O, più esattamente, si suppone che vi sia in lui,

27 P. BEAUCHAMP - D. VAssE, La violence dans la Bible, (Cahier É vangile 76), Cerf­


Évangile et Vie, Paris 1 991 . 1 2 .
2 8 J. AssMANN, Non avrai altro Dio: i l monoteismo e i l linguaggio della violenza, Il
Mulino, Bologna 2007, 20.

67
al di là della sua parola di alleanza, una volontà segreta, opaca, che bi­
sogna soddisfare. Il sacrificio è una risposta data alla supposta volon­
tà dell'Altro, che Lacan chiama il «Dio oscuro», affermando che, in un
modo o in un altro, è sempre a lui che si offrono sacrifici, per assicu­
rarsi del suo desiderio.29 Ne è un esempio commovente l' episodio del­
la figlia di Iefte, raccontato nel capitolo 1 1 del libro dei Giudici, che è
stato già ricordato da André Wénin e che ora vorrei analizzare.
Sul piano della narrazione, ricordiamo che Iefte, appartenente a
una tribù di Israele , è nato dall'unione di Galaad, il capo clan, con una
prostituta. Quindi per gli altri, e specialmente per i suoi fratellastri, Ief­
te è il figlio della vergogna. È segnato da una colpa originaria che cer­
cherà invano di espiare e della quale vorrà vendicarsi. Rifiutato dai suoi
alla morte del padre, Iefte va in esilio e, diventato un guerriero senza
pari, si pone alla testa di una banda di predatori. Non essendo stato ri­
conosciuto, si fa . un nome, una reputazione, contando unicamente sul­
le sue forze, come fanno a volte coloro che seminano il terrore per n­
tagliarsi un posto nel mondo. A un certo punto, lefte pensa di potersi
prendere una rivincita sul suo triste destino: la casa di suo padre è mi­
nacciata dagli ammoniti, discendenti di Lot; coloro che lo avevano cac­
ciato ora vengono a supplicarlo di prendere il comando del loro eser­
cito e gli promettono, in caso di vittoria, di stabilirlo capo in Israele.30
In altri termini, giurano di consacrare colui che avevano umiliato .
Per vincere il nemico, non è certamente superfluo assicurarsi la be­
nevolenza divina. È meglio che Dio sia favorevole, piuttosto che sfavo­
revole, al suo popolo . Perciò Iefte vuole fargli piacere. Vuole offrirgli
qualcosa che gli procuri un godimento . Che cosa può volere Dio dalla
tribù in cambio di una schiacciante vittoria sugli ammoniti? Iefte dà un
contenuto a questo volere divino, benché il narratore, in nessun mo­
mento, metta in bocca a Dio una sola parola. Il Dio di lefte è silenzio­
so. Resta muto e non chiede assolutamente nulla o, in ogni caso , la sua
domanda resta avvolta in un'impossibile conoscenza. Il narratore non
scrive, ad esempio: «E Dio chiese a Iefte un sacrificio . . . ». È Iefte a ri-

29 Cf. J . LACAN, Séminaire Xl. Les quatre concepts fondamentawc de la Psychanaly­


se, Seuil. Paris 1 9 7 3 , 246- 2 4 7 .
30 Il termine ebraico ro 'sh, reso con capo o testa, serve anche a indicare la forza
della virilità. «Testa della mia virilità», dice, ad esempio, Giacobbe di Ruben, il suo tiglio
primogenito (Gen 49,3). Si può facilmente comprendere l'effetto di una tale promessa su
Iefte.

68
spondere alla questione del «volere» divino, supponendo, come per ca­
so, una richiesta sacrificate : egli attribuisce al divino una volontà, che
prende a caso la prima persona che passa di lì, alla cieca, a capriccio,
senza alcuna ragione, senza regola. Allora immediatamente prima di
dare battaglia, lefte fa questa promessa: «Se tu consegni nelle mie ma­
ni gli ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per
venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli ammoniti, sarà per
YHWH e io lo offrirò in olocausto» (Gdc 1 1 , 30). Dio tace, ma lefte gli
attribuisce una volontà, che è, in realtà, - bisogna cogliere quest'a­
spetto -, una domanda invertita. È il suo desiderio inconscio che egli
attribuisce a un Altro, credendo che egli voglia ciò che vuole lui stesso
senza sapere che lo vuole. Il suo desiderio di potenza è all'altezza del­
l'umiliazione patita e il suo Dio non è che l'immagine di ciò che sa­
rebbe lui stesso se fosse un «dio»: un essere, il cui godimento e la cui
potenza non sarebbe limitata da nulla, un essere simile al padre fan­
tasmatico dell'orda primitiva che Freud ha descritto in Totem e tabù.
L'epilogo è noto : Iefte vince la battaglia, ma quando ritorna verso
casa gli corre incontro per prima la figlia, la sua unica figlia. lefte è ter­
rorizzato alla vista della figlia che gli corre allegramente incontro suo­
nando il tamburello, perché esclama: «Figlia mia, tu mi fai vacillare su
me stesso! Tu mi calpesti il cuore ! » (Gdc 1 1 ,35). Ma questo grido di do­
lore e terrore trova la sua verità nel suo contrario, rivelando di colpo
a Iefte ciò che ignora di se stesso. Si trova scisso fra ciò che vuole e ciò
che fa: lefte fa ciò che non vuole; più precisamente, ciò che fa testi­
monia un altro «volere» a lui sconosciuto . È là dove non pensava. La
cosa peggiore in questo racconto è il fatto che la figlia di lefte si costi­
tuisce da sé come oggetto del sacrificio, dicendogli di trattarla secon­
do la sua promessa. È vero che chiede un rinvio, per poter piangere la
sua verginità, ma lo fa per consegnarsi al godimento e alla violenza del
padre, che assumono l'apparenza eroica di un'offerta fatta a YHWH . Il
narratore precisa che Iefte ha fatto la sua promessa in pubblico, per
cui la figlia non poteva ignorarla. Ella si offre in sacrificio a suo padre
che, da parte sua, sapeva senza saperlo ciò che sarebbe accaduto . Il
padre e la figlia erano legati da un patto nel quale l'amore e la morte
sono strettamente intrecciati.
Bisogna fare tre considerazioni per continuare l'analisi della que­
stione della violenza del Dio oscuro :
a) Ho già indicato ciò che bisogna ancora precisare: la violenza sa­
criticale si costruisce in risposta alla domanda di sapere ciò che l'Al-

69
tro - il grande Altro - vuole . Ora una domanda del genere può emer­
gere solo quando viene meno la fiducia nella parola dell'Altro , cioè
quando si suppone che questa parola nasconda un'altra volontà se­
greta, opaca, oscura, una volontà dalla quale bisogna proteggersi a
ogni costo , perché essa comporta un male per noi. In questo senso, Ar­
mand Zaloszyc nota: «Quale che sia la parola dell'Altro , per quanto ve­
ra, completa, precisa possa essere, noi possiamo sempre porre la do­
manda su ciò che egli vuole dire».3 1 Possiamo interrogarlo per sapere
se il suo «dire» non nasconda un altro «dire», che sarebbe la negazio­
ne della sua parola espressa. È sempre possibile supporre dietro la pa­
rola dell'Altro un'altra volontà capricciosa, arbitraria, senza fede né
legge . 32 Armand Zaloszyc analizza questa faccia oscura di Dio in Es 3 3 ,
dove Dio dichiara: «Vedrai l e mie spalle, ma i l mio volto n o n s i può ve­
dere» (v. 23). Scrive : «Così Dio si presenta a colui che lo interroga co­
me bifronte: da una parte, egli è sapere possibile, dall'altra una faccia
preclusa a ogni sapere possibile, una faccia oscura, la cui oscurità non
può essere ridotta dal sapere per quanto si estendano le sue luci. Per­
ciò resta sempre questa stessa domanda: "Quest'Altro, che cosa vuole
da me? " , domanda sul desiderio di un Altro oscuro».33 Sul piano reli­
gioso, il sacrificio è una risposta data a un Dio di cui si dovrebbe sod­
disfare la volontà infinita e arbitraria. Esso poggia sulla credenza se­
condo cui l'Altro vorrebbe che gli venisse offerto qualcosa per fargli
piacere . Allora la violenza divina è simile a una bocca divoratrice e in­
saziabile : più si cerca di soddisfarla, più essa chiede, perché si nutre
precisamente delle nostre rinunce. La violenza del sacrificio è quindi
un fallimento della parola; è un'incapacità di fare credito alla parola,
di fidarsi di essa e di attenersi a questa relazione. 34 Perciò, ad esem­
pio, i fanatici religiosi che, in nome di Dio, partecipano ad attentati sui­
cidi per morire martiri non si collocano nel campo della credenza, con­
trariamente a ciò che pretendono. Il loro ricorso a lunghi discorsi sul-

3 1 A. ZALOSZYC, «Le sacrifice et n otre destinée», in Dires. Revue du centre freudien


de Montpellier 1 1 (ottobre 1991), 1 1 .
3 2 Riguardo a questo aspetto del sacrificio, h o proposto un'analisi del racconto deUa
legatura di !sacco in Gen 2 2 . in «Le jour où Abraham céda sur sa foi. Lecture psycho-anth­
ropologique de Genèse 22». in Études Théologiques et Religieuses 76(2001), 563-573.
" ZAI.oszyc. «Le sacrilice et notre destinée», 8.
34 Qui si può pensare al Sal 40,7: «Dio non vuole sacrificio, ma fa dono dell'orec­
chio».

70
la credenza e a riferimenti religiosi non deve nascondere il fatto che
scoprono in Dio la richiesta del sacrificio proprio a causa della loro
mancanza di fede. Coloro che si presentano come veri credenti cerca­
no, paradossalmente, di colmare la loro incapacità di credere median­
te la violenza del sacrificio . Chi sa che cosa vuole l'Altro e compie la
volontà degli dèi oscuri manca sempre della capacità di credere nella
parola dell'Altro . Il suo presunto sapere occupa il posto del credere nel­
l'Altro ed è proprio per questo che non dubita. Non dubita perché non
crede. La violenza degli dèi oscuri suppone sempre un presunto sape­
re al di là della parola che non viene creduta.
b) A partire di qui, si pone il problema di sapere ciò che può osta­
colare la violenza degli dèi oscuri. Vi ritornerò più avanti, a proposito
del Nuovo Testamento e della questione posta dalla morte di Gesù in
croce. Qui mi limito a indicare un atto decisivo , che consiste nel fare
della volontà divina un luogo vuoto o, in ogni caso , uno spazio che re­
sta impenetrabile al sapere. È sempre attribuendo un «volere» a Dio
che si finisce per armare il suo braccio, ignorando che si mette in mo­
to unicamente la propria violenza, cioè il proprio fondo di godimento.
Si agisce, mistificando la propria cattiveria con atti che hanno tutti i
caratteri della virtù, come il sacrificio compiuto da Iefte, che il lettore
può sempre trasformare in un magnifico atto che manifesta la gloria
divina e simboleggia la dedizione infinita dei credenti. Perciò, contro
questa forma di violenza, bisogna elaborare un non sapere costitutivo
di una relazione religiosa con il divino . Bisogna disegnare un limite che
faccia della volontà divina un luogo enigmatico che nessuno può coin­
volgere senza perdere se stesso. Lutero chiamava questo volto del di­
vino Deus absconditus (Dio nascosto), distinguendolo accuratamente
dal Deus revelatus (Dio rivelato), che era, per lui, la parte del divino
che si iscrive nel linguaggio, nella Parola fatta carne. Il Deus abscon­
ditus è il volto oscuro dell'Altro, la parte enigmatica che sfugge per
sempre al sapere. Rappresenta nel cuore dell'Altro un limite che non
si può oltrepassare senza avvicinarsi a qualcosa di temibile. Al riguar­
do si può citare un estratto del Servo arbitrio: «In che misura quindi
Dio vuole restare nascosto e a noi sconosciuto, è cosa che non ci ri­
guarda affatto . Qui vale infatti il detto: Ciò che è al di sopra di noi non
ci riguarda [ . . ]. Dio quindi deve essere lasciato nella sua maestà e nel­
.

la sua natura; in questo senso noi non abbiamo nulla a che fare con
lui, né egli ha voluto che ne avessimo . Nella misura in cui invece si è
incarnato e manifestato mediante la sua parola, con la quale ci si è pre-

71
sentato, noi abbiamo a che fare con lui [ ]. Dobbiamo guardare alle
...

sue parole e lasciar perdere la sua volontà imperscrutabile. Dobbiamo


infatti farci dirigere dalla parola di Dio e non dalla sua volontà imper­
scrutabile [ . . . ]. Ci basta soltanto sapere che esiste in Dio una certa vo­
lontà imperscrutabile».35 Altrove, Lutero sosterrà addirittura, con una
formula audace, che, volendo eliminare l'enigma, Dio prende il volto
del diavolo . 3 6 Un Dio del genere agisce come farebbe un Dio diabolico .
Per questo bisogna tracciare un limite e attenersi a ciò che si iscrive
nel campo della parola. Dopo tutto, si pone questa domanda: nella sto­
ria di Iefte, che cosa permette di distinguere fra un Dio buono e un Dio
cattivo, un Dio divino e un Dio diabolico?
c) Noto, infine, un aspetto che riguarda la conclusione del raccon­
to biblico: la figlia di Iefte sale volontariamente sull'altare per il sacri­
ficio, chiedendo solo un rinvio per piangere la sua verginità. Siamo rin­
viati alla dimensione della violenza che ricordavo all'inizio del capito­
lo a proposito della pulsione cannibalesca. Lì abbiamo visto che la di­
vorazione dell'essere amato è un modo per non perderlo o, più esat­
tamente, un modo paradossale di distruggerlo per non subire la prova
della separazione. È ciò di cui si tratta, a mio avviso, nel sacrificio del­
la figlia di lefte, che per questo padre non costituisce una vera perdi­
ta. L'uccisione della figlia è, al contrario, il modo per averla tutta per
sé e quindi di sacrificarla al suo desiderio di onnipotenza. lefte ha buon
gioco a proiettare su YHWH la propria violenza divorante, quando
chiede alla figlia: «Dimmi che tu sarai sempre mia, che lo sarai eter­
namente». Ella dice «sì», piangendo la sua verginità, offrendola, in
realtà, in sacrificio al padre , così come il padre offre la vita della figlia
al suo Dio . Ella dice «sì», quando dovrebbe dire «no». Così si chiari­
sce questo paradosso: possiamo sacrificare ciò che abbiamo di più ca­
ro per non dovercene separare. Perciò il sacrificio non consiste nel fat­
to di rinunciare, bensì nel desiderio inconscio di non rinunciare asso­
lutamente a nulla e quindi di non maqcare di nulla. In questo senso, è
una sorta di simulacro nel quale si sacrifica per non doverlo fare. È
anche ciò che si annunciava per Abramo nel racconto della legatura di
Isacco in Gen 22: parte con l'idea di sacrificare il figlio, ma non è per

35 M. LUTERo, /l servo arbitrio. in Opere scelte. 226- 2 2 7 .


36 Cf. l'edizione d i Weimar delle opere di Lutero, 4 0 , 3, 3 3 7 , citata da G. EBEUNG, Lu­
ther. lntroduction à une ré.flexion théologique (1964), Labor et Fides, Genève 1 985, 29.

72
perderlo. Al contrario, si prepara a sacrificarlo, perché nulla di questo
figlio possa sfuggirgli. È la ragione per cui il narratore sottolinea che,
in cammino verso il monte Moria, padre e figlio sono strettamente le­
gati l'uno all' altro e formano per così dire una cosa sola. Il sacrificio
non è assolutamente il momento decisivo nel quale si separeranno, ma
l'atto che permette di non perdere la vita dell'altro , di conservarne il
godimento . Ovviamente, su una scena, è un'immensa sofferenza, la pe­
na e la desolazione, ma, su un'altra scena, è la violenza di una mo­
struosa cattura. Si tratti della figlia di Iefte o del figlio di Abramo, un
figlio è sempre capace, per amore, di offrirsi alla violenza del padre o
della madre, così come può offrirsi alla violenza divina, perché non sa
se può, se deve , odiare e rifiutare un rapporto incestuoso che lo ucci­
de. Il lettore ricorderà che, nel racconto della legatura di Isacco, oc­
corre l'intervento vigoroso dell' angelo di YHWH per fermare il braccio
di Abramo, nel momento in cui sta per tagliare la gola del figlio . I.: ar­
te ha spesso elevato questo aspetto tragico fino al sublime, come, ad
esempio , nel quadro di Caravaggio ( 1 603) esposto a Firenze, che espri­
me in modo commovente la forza con cui l'angelo ferma il braccio di
Abramo . C'è della violenza in questo gesto che costringe Abramo, con
lo sguardo pieno di tenebre, a non compiere ciò che .aveva program­
mato di fare . C osì c'è violenza contro violenza. È la violenza che sepa­
ra il padre dal figlio contro la violenza che uccide, per evitare la per­
dita e la separazione . È la violenza del Dio della parola che mette fine
alla violenza del Dio oscuro . Ma, notiamolo, in un caso si tratta di ciò
che si esprime e, nell'altro, di ciò che resta muto . Nel racconto biblico ,
Abramo deve sacrificare per perdere veramente, e non sacrificare per
non perdere nulla. Deve contrapporre al sacrificio che sacrifica per go­
dere di tutto il sacrificio che sacrifica per riconoscere in sé la man­
canza . È ciò che Iefte non compirà, confondendo la morte e la vita, il
Dio oscuro e il Dio dell'alleanza.

La gelosia divina: una forma di violenza?

La violenza che divora l'oggetto amato per non perderlo rinvia al­
la complessa questione della gelosia. Nella Bibbia, la gelosia non è so­
lo un sentimento dell'uomo; a volte è considerata anche un tratto del
carattere divino, e addirittura, in alcuni passi, una caratteristica prin­
cipale dell'essere di Dio. Dio è detto «geloso», un aggettivo che rende

73
il termine ebraico q in e 'ah (gelosia) nel senso di passione esclusiva. 37 Il
riferimento a una gelosia divina non è molto frequente nel testo bibli­
co, ma si trova in momenti abbastanza significativi per avere la sua im­
portanza. Specialmente il testo del Decalogo , al capitolo 20 del libro
dell'Esodo, ordina al popolo di non prostrarsi davanti a un'immagine
fasulla del divino e aggiunge: «lo, YHWH , tuo Dio, sono un Dio geloso»
(Es 20,5). E si indica subito l'effetto della gelosia divina: «lo punisco la
colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione , per
coloro che mi odiano, ma uso benevolenza fino a mille generazioni, per
quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Es 20, 5b-6).38
C'è indubbiamente una mancanza di simmetria fra le conseguenze del­
la colpa dei padri sui figli e la benevolenza quasi infinita, ma l'amore
e l'odio sono collocati in un rapporto dialettico. Più avanti nel libro del­
l'Esodo, dopo l'episodio della fabbricazione del vitello d'oro e la viola­
zione dell' alleanza simboleggiata dalla frantumazione delle tavole del­
la legge, questo aspetto risulta rafforzato con un testo che riformula il
patto dell' alleanza: «Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché YHWH
si chiama Geloso: egli è un Dio geloso» (Es 34, 1 4) . Qui «geloso» è il no­
me stesso di Dio, cioè ciò che costituisce il suo essere, cosa che non
può non attirare l'attenzione del lettore attento o comunque desidero­
so di comprendere , perché si tratta di ciò che riguarda la permanen­
za dell'identità e non solo la sua rappresentazione provvisoria.
Che cos'è la gelosia nel senso patologico del termine? La gelosia è
ciò che scatta quando si soffre terribilmente, a volte fino all'eccesso,
supponendo che l'altro abbia ciò che non si ha. L'altro ha ciò che non
si ha, ma si dovrebbe avere. Ciò che costituisce il desiderio dell' altro ,
il suo godimento, il suo piacere, la sua gioia, manca terribilmente alla
persona gelosa. Perciò nella gelosia c'è sempre una parte di incorpo-

37 Cf. lo studio di B . RENAUD, Je suis un Dieu jaloux: évolution sémantique et signi­


ftcation théologique de «qinéah», Cerf, Paris 1 963.
38 André Wénin ha fatto notare che il verbo paqad viene reso spesso, in modo trop­
po restrittivo, con <<punire», mentre significa «visitare». Questo verbo può indicare che
Dio constata l'effetto distruttivo delia colpa dei padri sui figli. È la sottile intuizione, con­
fermata dalla psicanalisi, di una trasmissione della colpa e delia colpevolezza fra le ge­
nerazioni. Ma il testo biblico ne sottolinea anche il limite: la ripetizione non è un desti­
no eterno e c'è una rme dell'impatto della colpa dei padri sui figli. Cf. A. WGNJN, «Dieu
qui visite la faute des pères sur les fils (Es 20.5). En marge d'un livre récent de Bernard
M. Levinson», in Revue Théologique de Louvain 38(2007), 67-77.

74
razione: non riuscendo a trovare in sé ciò che fa vivere, ciò che è es­
senziale alla propria vita - e che è sempre singolare - si ritiene di do­
verselo procurare presso l'altro, per farne una parte della propria esi­
stenza. È ciò che avviene, ad esempio, quando non parlo io stesso, ma
mi impossesso gelosamente delle parole dell' altro per «parlarle» al suo
posto. Tutto ciò che l'altro fa, io voglio farlo al suo posto , come se fos­
si lui e quindi come se lui non esistesse. Nella gelosia non c'è posto per
due. Non c'è l'uno e l'altro , ma sempre e solo l'uno o l' altro. È così che
Caino , geloso del fratello Abele, lo elimina con un atto omicida. La ge­
losia compie un continuo va e vieni fra l'amore e l'odio. Essa si mani­
festa, a volte , sotto forma di violenza improvvisa, esplosiva, verso l'al­
tro e, a volte, sotto forma di amore, dedizione, affetto . Allora pretende
di amare l'altro più di ogni cosa, una pretesa da intendere comunque
in questo modo: «Nulla di te, deve, né può, sfuggirmi» o «la tua vita è
come la mia vita, cioè essa è riferita solo a me». La gelosia è incestuo­
sa, nel senso che nega la differenza dell'altro e l'enigma del suo desi­
derio. Nella gelosia amorosa, ad esempio, l'idea impossibile da analiz­
zare e accettare è che lui o lei possa amare un' altra o un altro, che
avrebbe qualcosa «di più» . Insomma, la persona gelosa si identifica
con un'immagine idealizzata di se stessa e soffre per tutto ciò che vie­
ne a intaccarla. È bloccata nel «vedere» narcisistico, con una grandis­
sima fragilità che la rende incapace di aver fiducia nella parola del­
l'altro. Quando si è gelosi, si vuole sapere la verità nella speranza di
trovare finalmente la tranquillità e si soffre di non avere mai alcuna
certezza solida e duratura. Si vuole sapere, ma non si crede, e spesso
non si parla, sull'esempio di Caino che la gelosia rende muto e non ri­
volge più la parola al fratello . Come è noto , la violenza è l' atto che se­
gue l' eclisse della parola. Al riguardo, Denis Vasse, nella sua analisi
della gelosia, pone la domanda sull'aspetto teologico. Scrive: «Que­
st'immagine speculare dalla quale non tolleriamo di essere distaccati
ha sempre qualcosa a che vedere con l'idea che non ci facciamo di
Dio . . . Noi crediamo di essere gelosi degli altri - un amico, un collega . . .
- m a è ancora una menzogna: noi siamo gelosi solo d i Dio o, s e s i pre­
ferisce, della nostra propria immagine deificata, idealizzata» .39 Che si
possa essere gelosi del divino, che questa sia addirittura la gelosia per

39 D. VASSE , Le poids du réel. la souffrance, Seui!, Paris 1983, 55 (corsivo dell'autore).

75
eccellenza è ciò che suggerisce il racconto biblico della caduta nel mo­
mento, già ricordato, in cui l'antico serpente fa balenare davanti agli
occhi di Adamo ed Eva il fatto che Dio possiede ciò di cui loro manca­
no e che il divieto ha unicamente lo scopo di permettere a Dio di con­
servare in esclusiva il proprio godimento . Di conseguenza, l'uomo e la
donna continuano a desiderare un oggetto immaginario che appare
mancante in loro. La violenza si nutre di questo fantasma e dell'idea ·

dell' onnipotenza ad esso legata.


Che cosa accade quando Dio non è più l' oggetto di una gelosia uma­
na, ma viene presentato come geloso? È un modo inconscio di proiet­
tare sul divino la propria gelosia? Bisogna interpretare la cosa in un
altro modo? Sta qui tutto il problema e la risposta non è semplice. Per­
lomeno non è univoca. Ci si può certamente chiedere in che cosa Dio
potrebbe essere geloso, nel senso in cui ho appena definito il termine:
i m embri del suo popolo hanno forse qualcosa che egli non possiede?
Di che cosa può essere geloso? A questa domanda, i passi dell'Esodo
già citati danno una risposta: c'è un'esclusività dell'amore divino, un
netto rifiuto della possibilità di dividere quest'amore, ma anche l'idea
che il popolo possa avere l'impressione che un altro dio abbia qualco­
sa di più. Quest'idea è nella testa dei membri del popolo di Dio . Quan­
do affermano che Dio è «geloso», esprimono il loro desiderio incon­
fessato , l'antico sogno di «diventare come dèi» .40 In un certo modo, la
nostra gelosia può sempre manifestarsi in forma inversa: «io non so­
no geloso di te; sei tu che sei geloso di me». Di conseguenza: «io ti amo
e sei tu che mi odi» . Ciò detto, la menzione della gelosia di Dio nel li­
bro dell' Esodo non va interpretata da una parte sola. Bisogna vedervi
anche il fatto di un Dio, la cui gelosia rivela, in negativo, la sua pas­
sione, il suo pathos, quindi anche la sua sofferenza. La gelosia è il con­
trario positivo del Dio impassibile, immutabile, che, seduto in trono
nella sua eternità, basta a se stesso. La gelosia divina mostra una fe­
rita che è quella del posto dell'altro amato, e di un altro che sfugge. La
gelosia è una ferita narcisistica nello stesso divino. Ma in questo mo­
do essa esprime anche la rinuncia del divino alla totalità dell'essere e

4° Cf. , al riguardo. questo testo di Dt 3 2 , 2 1 : «Mi resero geloso con ciò che non è Dio,
mi irritarono con i loro idoli vani; io li renderò gelosi con uno che non è popo)o, li irri­
terò con una nazione stolta».

76
l'ingresso nel campo della relazione, basata sul linguaggio. È l'aspetto
che accentuano i profeti, quando paragonano la gelosia di Dio alla pas­
sione amorosa e ai suoi eccessi. Il profeta Ezechiele parla di un Dio fu­
rioso, in collera, contro Gerusalemme infedele, un Dio che confessa:
«io ho parlato nella mia gelosia» (Ez 5 , 1 3) . Il Dio geloso è un Dio am­
bivalente , attraversato dall'amore e dall'odio; è il ricettacolo di molte­
plici proiezioni, ma mostra anche un'immagine del divino che si af­
fligge. Gli idoli non provano nulla, perché sono «come un sogno di pie­
tra», per usare un' espressione di Baudelaire, e sono rivestiti di un'al­
tra violenza. A loro si sacrifica, senza sapere che sono un simulacro
del divino.41 Nella letteratura neotestamentaria, a volte il tema della
gelosia viene ripreso, ma anche riconfigurato in base all'idea centrale
di un Cristo che rompe radicalmente con le figure immaginarie del di­
vino. Si ritornerà su questo punto nel seguito del libro. Qui, per con­
cludere il capitolo, ricordo solo un passo commovente della Lettera di
Giacomo . Rivolgendosi ai suoi fratelli nella fede, l'autore li rimprovera
per il fatto di lasciarsi andare a rivalità e a dispute. Scrive: «Siete pie­
ni di desideri e non riuscite a possedere ; uccidete, siete gelosi e non ri­
uscite a ottenere» (Gc 4,2). La loro gelosia riguarda quindi la volontà
di strappare all' altro ciò che possiede e la sua espressione è la violen­
za. Un po' più avanti, a questa gelosia l'apostolo contrappone quella di
Dio: «0 forse pensate che invano la Scrittura dichiari: "Dio desidera ge­
losamente lo spirito che egli ha fatto abitare in noi"» ? (Gc 4,5). Diver­
samente dalla gelosia umana, che è gelosa di ciò che non possiede e
desidera in modo fantasmatico ciò che c'è nell'altro, l'autore afferma
che Dio è geloso di ciò che aveva, che era suo, ma che ha abbandona­
to e messo in mano a coloro che ama. Egli è geloso della propria ri­
nuncia. La gelosia non indica la sua sete di potenza, ma il vuoto che
ormai c'è in lui.

41 C. BAUDE!AIRE, «La Beauté», in Les jleurs du mal.

77
Capito lo terzo

VIOLENZA DE GLI UOMINI,


VIOLENZA DI DIO
UNO S GUARDO
SU ALCUNI TE STI
DEL NUOVO TE STAMENTO

É lian Cuvillier

La questione della violenza nel Nuovo Testamento è una questione


complessa e il quadro limitato di quest'opera non permette di trattar­
la in modo dettagliato . 1 Ma si impone una costatazione preliminare al­
l'esegesi dei testi, perché è evidente che, contrariamente a ciò che, a
volte, si dice o si legge e che somiglia a un marcionismo2 più o meno
cosciente , il Nuovo Testamento non presenta un Dio mite e non vio­
lento, diversamente dall'Antico Testamento che presenterebbe invece
un Dio violento e sanguinario. Qui è sufficiente ricordare alcuni esem-

t Cf. la bibliografia scelta aDa fine del libro .


2 Ricordiamo che, nella prima metà del II secolo d.C .. Marcione cerca di risolvere
la questione deUa relazione fra il Dio dell'Antico Testamento e il Dio di Gesù. Quale con­
tinuità esiste fra il Dio dell'Esodo, che strappa gli ebrei daU'Egitto con la forza, punen­
do con violenza il faraone ostinato e, in seguito, il suo popolo infedele nel deserto, e il
Dio della croce, verso il quale sale il grido «perché mi hai abbandonato?» (Mc 1 5,34)?
Marcione. lettore di Paolo, scopre in quest"ultimo - a nostro avviso. a torto - un rifiuto
del Dio deU'Antico Testamento. Secondo lui . bisogna scegliere: o il Vangelo o la Legge.
Bisogna quindi accantonare la Bibbia ebraica e, inoltre, espurgare gli scritti cristiani che
hanno falsificato il Vangelo, ri-giudeizzandolo. Marcione contrappone quindi il Dio ter­
ribile e violento di Israele al Dio di Gesù, Dio di grazia e di perdono.

79
pi noti, fra cui l'episodio della morte di Anania e Saffira nel libro degli
Atti (At 5 , 1 -6),3 le immagini violente usate da Gesù in alcune parabo­
le, specialmente nel Vangelo di Matteo (Mt 1 3 ,42; 1 8,34; 2 2 , 7 . 1 3 ;
2 5 , 30 ; 2 1 , 33-45), le invettive d i Paolo contro i suoi avversari (Gal 3 , 1 ;
Fil 3 , 2) e contro le autorità religiose giudaiche del suo tempo (l Ts 2 , 1 4-
1 6} o le scene di giudizio nell'Apocalisse di Giovanni. Senza parlare
della violenza presente nel cuore dello stesso avvenimento fondatore
della fede cristiana, la morte in croce di Gesù di Nazaret: violenza cer­
tamente subita, ma reinterpretata, già nel Nuovo Testamento, nelle ca­
tegorie di un sacrificio volontario voluto da Dio per la salvezza degli
uomini . n Dio che esige da Abramo il sacrificio cruento del suo figlio,
che alla fine non avrà luogo (Gen 22}, non ha nulla da invidiare al Dio
di Gesù che «non ha risparmiato il proprio figlio» (Rm 8, 32), facendo­
gli subire una morte particolarmente violenta e atroce. n fatto che il
sangue di un crocifisso sia, per i primi cristiani, il segno di una nuova
alleanza (Mc 14,24 Il Mt 26,28 e Le 22, 20} sottolinea, se fosse ancora
necessario, che la violenza è presente nello stesso atto di nascita del
cristianesimo . Una violenza che, sotto altre forme, lo accompagnerà
nel corso di tutta la sua storia fino a oggi.
Si potrebbero moltiplicare gli esempi che attestano, nel Nuovo Te­
stamento , non solo l'esistenza di una violenza subita dai credenti, ma
anche di un discorso o di parole violente, la cui origine deve essere col­
locata anche all'interno delle comunità cristiane e sul cui valore e si­
gnificato bisogna interrogarsi. Non si tratta quindi di negare o svuota­
re la realtà accertata della presenza di testi violenti nel Nuovo Testa­
mento , ma di cercare di comprendere quali ne sono le radici, il modo
in cui questa violenza viene denunciata o, al contrario, giustificata e
l'interpretazione teologica che se ne può dare. Si tratterà anche di ve­
dere come il Nuovo Testamento si propone di superare la violenza. E
bisognerà anche chiedersi - questo è un aspetto indubbiamente più de­
licato da affrontare - se la violenza non venga a volte ritenuta neces­
saria, addirittura, osiamo dire, positiva.

3 Su questo passo, che non sarà oggetto della mia inchiesta, si potrà leggere con
profitto D. MAIIGUBRAT, «Terreur dans I'Eglise: le drame d'Ananias et Saphira». in Cahiers
Bibliques 3 1 ( 1 992), 77-88; IDBM, «La mort d'Ananias et Saphira (Ac 5 . 1 - 1 1 ) dans la stra­
tégie narrative de Luc», in New Testament Studies 39(1 993), 209-226.

80
Poiché non è possibile essere esaustivi - è un altro indizio del posto
importante che la violenza occupa nel Nuovo Testamento - sceglierò i
testi da analizzare in tre corpora diversi, permettendo così di coprire
un'area più rappresentativa possibile. Comincerò la mia analisi dall'o­
pera del Nuovo Testamento nella quale la violenza è certamente più evi­
dente, cioè l'Apocalisse di Giovanni. Poi passerò al corpus paolino, do­
ve la violenza è presente in forma diffusa, ma ben individuabile nel­
l'insieme delle tredici lettere dell'apostolo o a lui attribuite. Infine, ana­
lizzerò il modo in cui un vangelo, in questo caso quello di Matteo, trat­
ta la questione della violenza in relazione con la figura di Gesù.
Il percorso proposto suppone che si siano precisati due punti im­
portanti, per chiarire, per quanto possibile, la lettura. Anzitutto, non in­
tendo analizzare avvenimenti storici, bensì testi letterari. Non ci trove­
remo quindi davanti ai fatti, ma alla loro espressione letteraria. Questo
punto è importante nella misura in cui, in questa questione della vio­
lenza, è essenziale non dimenticare che esiste una distanza fra la pa­
rola e la realtà. Le parole possono condurre a certi atti, ma questo non
è automatico4 e c'è, a volte, una distanza fra ciò che si dice e la realtà
effettiva. In secondo luogo, non seguo l'ordine cronologico . Parto dal te­
sto più recente, l'Apocalisse di Giovanni, redatto certamente negli an­
ni 90. Continuo con l'analisi del corpus paolino, la cui redazione copre
un arco di tempo che va dai primi anni 50 alla fine del II secolo. Ter­
mino con il Vangelo di Matteo, che mette in scena Gesù (attorno agli
anni 30), redatto verosimilmente fra il 70 e il 90. Tutti questi testi han­
no un punto in comune: sono stati redatti nella seconda metà del II se­
colo, all'interno di uno spazio che è quello del cristianesimo nascente .
La scelta di non seguire l'ordine cronologico della redazione di questi
scritti permette di evitare sia di sottoporre l'analisi a ipotesi storiche
sempre discutibili, sia di accreditare l'idea che la questione della vio-

4 Chiarisco questo punto con un esempio contemporaneo: non è il videogioco vio­


lento in quanto tale a provocare la violenza di chi lo utilizza, bensì l'interazione Ira il
gioco e la struttura psichica del giocatore, la sua fragilità, i limiti, che non ha interioriz­
zato, il quadro sociale in cui vive. Lo dimostra il fatto che, fortunatamente. la stragran­
de maggioranza delle persone non traduce in azioni violente quella che provoca con il
pulsante del videogioco. Ciò non significa evidentemente che non si debba mettere in di­
scussione e, perlomeno, rigidamente regolamentare, la violenza rappresentata e valo­
rizzata nei videogiochi, ma anche su internet o sugli schermi delle sale cinematografi­
che e della televisiòne.

81
lenza dipenda prioritariamente, se non unicamente, da un processo
evolutivo; in altri termini, che la violenza progredisca o, al contrario,
regredisca in relazione all'evoluzione dei costumi o delle persone .

Giovanni di Patmos:
la violenza al servizio della buona novella?

L'Apocalisse di Giovanni è indubbiamente il testo del Nuovo Testa­


mento nel quale si esprime con maggior forza la violenza delle parole .
Se ne possono reperire le tracce nella scrittura del libro su due piani.
Da una parte, Giovanni denuncia evidentemente la violenza omicida
della «Bestia» (Ap 1 3) e del suo principale rappresentante, l'Impero ro­
mano, contro i discepoli di Gesù. Dall'altra, il suo scritto attesta anche
l'esistenza di una violenza divina non solo contro la Bestia e i suoi epi­
goni, ma anche contro gli uomini e il creato . Anzitutto, procederò a
un'analisi più dettagliata di questa violenza di Roma denunciata da
Giovanni di Patmos: che cosa nasconde in realtà? Poi, passando in ras­
segna i settenari di Ap 8-1 1 e Ap 1 5-16, rifletterò sulla violenza retri­
butiva del Dio dell'Apocalisse. Infine, analizzerò la funzione che Gio­
vanni di Patmos attribuisce alla morte violenta di Gesù. Concluderò la
mia indagine con alcune riflessioni sulla «battaglia» che conduce Gio­
vanni di Patmos e sull'esito che ne intravvede : un creato rinnovato dal
quale è scomparsa ogni forma di violenza.

La violenza imperiale : fra brutalità e seduzione

LA PAX RoMANA UNA REALTÀ AMBIGUA

Il periodo che va dall'inizio dell'era cristiana alla fme del II secolo,


noto con il nome di Pax Romana, è caratterizzato da una stabilità po­
litica e una crescita economica senza precedenti nella storia del mon­
do. Il dominio militare incontrastato delle legioni romane per mante­
nere l' ordine entro i confini dell'Impero, lo sviluppo delle vie di comu­
nicazione per assicurare la prosperità economica e la circolazione del­
la propaganda imperiale, lo stile di vita del cittadino romano proposto
come ideale alle classi sociali superiori dei territori conquistati, lo svi­
luppo del culto imperiale come ideologia politica: tutto questo costitui­
sce in qualche modo il punto d'arrivo, nella sua versione romana, del-

82
l'ideale dell'universalismo e del cosmopolitismo perseguito in passato
da Alessandro Magno.
Infatti si può affermare che, nel mondo romano, la rivendicazione
dell'universalità - l'oikoumene, la terra abitata come confini dell'Im­
pero - coabita con una gerarchizzazione della vita in società. :L essere
umano esiste attraverso il posto che occupa nell'ordine imperiale , che
si impone a tutti. La piramide sociale indica a ciascuno il suo posto sul­
lo scacchiere ormai «globalizzato» che è il bacino del Mediterraneo. Al
vertice, l'imperatore e i membri della sua famiglia, poi l'ordine sena­
toriale e l' ordine equestre. Poi uno strato sociale diviso in due gruppi:
l'ordine dei decurioni - equivalente alla buona società locale nelle cit­
tà e nelle province - e quello dei liberti facoltosi. Infine, al di sotto di
questi gruppi, gli strati inferiori, che si possono suddividere in tre ca­
tegorie: gli uomini liberi di condizioni modeste; i liberti, gli schiavi .S
Benché le classi superiori difendano i loro privilegi con tutti i mezzi
possibili, la società romana è caratterizzata da un dinamismo ascen­
dente. È certamente quest'aspetto dell'Impero a suscitare l' ammira­
zione di coloro che possono salire nella gerarchia sociale o, se già ne
fanno parte, restarvi e prosperare. Su questo punto, le testimonianze
sono eloquenti. Mi accontento, a titolo di esempio , di citarne una scel­
ta fra molte altre . Nel 9 a.C. un decreto emanato dall'assemblea dei de­
legati delle città d'Asia attesta l'impatto della potenza imperiale sull e
élite locali, impatto che ha il suo apogeo lungo tutto il I secolo d . C . :
Poiché l a Provvidenza, che governa tutta l a nostra vita, nella sua atten­
zione e nel suo zelo, ha previsto il compimento più perfetto della vita
umana accordandole Augusto che ha riempito di virtù per il maggior be­
ne del genere umano e che ce lo ha inviato, a noi e ai nostri discenden­
ti, come Salvatore. lui che ha fatto cessare la guerra e che ha stabilito
l'ordine ovunque. E poiché Cesare Augusto, quando è apparso, ha su­
perato tutte le speranze, perché non solo è andato al di là dei benefat­
tori precedenti, ma non ha lasciato neppure a quelli che verranno dopo
di lui alcuna speranza di superarlo, e poiché la data di nascita del dio
Augusto segna per il mondo l'inizio delle buone novelle,6 per questi mo-

5 Sulla piramide sociale a Roma, cf. G. AI.FOLDY, Histoire sociale de Rome, Picard,
Paris 1 991 .
6 Il termine greco tradotto qui con «buone notizie» è euangelia. Lo stesso termine
che, al singolare, indica nel Nuovo Testamento la «Buona Novella» o il «Vangelo» di Ge­
sù Cristo!

83
tivi, è stato deciso dai greci di Asia che il nuovo anno cominci in tutte le
città il giorno nono prima delle calende d 'ottobre,
·
che è il giorno della
nascita di Augusto. 7

Ovviamente la retorica cortigiana di questo testo non rende la real­


tà quotidiana di un vasto Impero, nel quale l'ordine è assicurato dalle
legioni romane, che non esitano mai a usare violenze e brutalità ver­
so i recalcitranti alla dominazione di Roma: ne è un esempio eloquen­
te la guerra giudaica (66-70) , che ha profondamente segnato non solo
i giudei, ma certamente anche i primi cristiani, i qu11-li hanno dovuto
subire anche la persecuzione di Nerone dopo l'incendio di Roma nel
64. D'altra parte , «l' età dell'oro», promessa dalla propaganda augu­
stea, e resa molto bene da questa testimonianza, fa ben presto posto
alla realtà della corruzione delle élite per ottenere e conservare il po­
tere. Infine, i ripetuti assassinii all'interno della stessa casa imperiale
hanno aperto la strada a un discorso più critico di certe élite . 8 Tutta­
via la testimonianza che ho citato rende bene la retorica sia del pote­
re sia delle classi superiori, che trovano nell'Impero e nella sua stabi­
lità, sia pure assicurata con la violenza militare e politica, opportunità
di valorizzazione sociale.

LA «PERSECUZIONE» NELL APOCALISSE: UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA


L'Apocalisse di Giovanni, redatta sotto il regno dell'imperatore Do­
miziano, tra l'81 e il 96, viene abitualmente considerata un messaggio
di incoraggiamento rivolto a una comunità cristiana alle prese con un
sistema totalitario e oppressivo , la cui manifestazione più visibile era
quella del culto imperiale . Senza rigettarla totalmente, ricerche recen­
ti si discostano da questa ricostruzione del quadro storico dell'Apoca­
lisse. Infatti, la ricerca storica induce a relativizzare l'idea di una per­
secuzione attiva di cui sarebbero vittime i destinatari dell'opera di Gio­
vanni di Patmos. Gli storici sottolineano che il regno di Domiziano è

7 Citato da H. CousiN (ed.), Le monde où vivait Jésus. Cerf, Paris 1 998, 3 1 .


8 Così g li autori deUa fine del l secolo, come Ovidio, Luciano e Stazio, hanno una vi­
sione più critica rispetto a quella di Virgilio nell'Eneide; cf. S. FRANCHE'!' o'EsP�REY, Con­
flit, violence et non uiolence dans la Thébaiile de Stace, Les Belles Lettres, Paris 1 999,
1 3- 1 7 ; cf. 13: «Nessuno crede più che sia possibile un ritorno deU'età deU'oro, né che il
regime istituito da Augusto assicuri veramente la pace».

84
stato indubbiamente segnato da un assolutismo, caratterizzato, in par­
ticolare, dalla promozione del culto imperiale e, soprattutto verso la fi­
ne, dagli assassinii politici, ma non da persecuzioni sanguinose contro
le comunità cristiane. Certo, in qualsiasi momento, la mancanza di ri­
conoscimento come religio licita poteva indurre l' amministrazione ro­
mana a prendere delle misure contro qualsiasi gruppuscolo settario,
del resto non necessariamente sempre chiaramente identificato - spes­
so i primi cristiani dovevano essere considerati una dissidenza del giu­
daismo - ma sulla questione delle persecuzioni, gli stessi dati dell'A­
pocalisse inducono a fare due osservazioni complementari.
Nell'Apocalisse Giovanni di Patmos non ricorda alcun altro nome
di martire per la fede accanto a quello di Antipa, il «testimone fedele»
(cf. Ap 2 , 1 3), la cui morte sembra, del resto, appartenere al passato
(«al tempo di Antipa»). Le allusioni ai martiri non sembrano riferirsi
all'attualità degli ascoltatori. Esse assumano per lo più la forma di evo­
cazioni di figure del passato (i profeti dell'antica alleanza, cf. Ap 1 6 , 6
e 1 8 , 24) o d i evocazioni generali (cf. 6,9: «coloro c h e furono immolati
a causa della parola di Dio»; 1 7,6: «il sangue dei martiri di Gesù» ;
1 9 , 2 : «il sangue dei suoi servi»).
Del resto , se si considera la presenza di Giovanni a Patmos (Ap 1 ,9)
la conseguenza di un esilio forzato , allora la «persecuzione» che subi­
sce riguarda la prassi, corrente sotto Domiziano, di allontanare da cen­
tri politici importanti persone la cui parola poteva apparire fastidiosa.
Questo tende ad accreditare l'ipotesi secondo cui Giovanni è un perso­
naggio importante e certamente relativamente conosciuto dall'ammi­
nistrazione. romana d'Asia minore, cosa tuttavia impossibile da verifi­
care . Comunque questo dato non dimostra l' esistenza di una persecu­
zione sistematica contro le comunità cristiane, come avverrà nei seco­
li Il e III fino a Diocleziano. In realtà, nel testo dell'Apocalisse, nulla
permette di affermare in modo indiscutibile che Giovanni si trovi a Pat­
mos in esilio forzato (cf. Ap 1 ,9). Non si può quindi escludere l'ipotesi
che si trovi li per propria libera scelta. L'espressione «a causa della pa­
rola di Dio» (Ap 1 ,9) può rendere l'idea di un esilio scelto sia per evi­
tare eventuali noie sia per osservare a distanza la situazione generale.
Da Patmos, Giovanni si rivolge alle comunità cristiane d'Asia minore
per invitarle a interpretare la realtà nella quale vivono con uno sguar­
do diverso da quello corrente nei centri urbani d'Asia minore - allora
le sette chiese di Ap 2 e 3 si trovano in città importanti - dove trionfa
il culto imperiale e la sua propaganda.

85
Si deve allora concludere che, con le sue ripetute allusioni alla vio­
lenza imperiale, Giovanni forza le tinte e in qualche modo «annerisce
il quadro» in modo eccessivo? Per chi, nel I secolo, vuole aprire gli oc­
chi sulla realtà in un modo diverso dal ventaglio delle affermazioni
compiacenti delle élite cortigiane, la violenza alla quale l'Impero ri­
corre ogni volta che occorre, è una realtà. Le stesse giovani comunità
cristiane hanno già puntuahnente subito la mano brutale di Roma: An­
tipa ne è rimasto vittima, senza dimenticare la repressione seguita al­
l'incendio di Roma sotto Nerone. Perciò le ricorrenti allusioni di Gio­
vanni di Patmos al «sangue» versato a causa della brutalità della Be­
stia non sembrano affermazioni eccessive. Sono semplicemente consi­
derate, a seconda del punto di vista che si adotta, necessarie al man­
tenimento dell'ordine romano o, al contrario, un segno della natura
diabolica di Roma.

Giudizio, collera e violenza di Dio :


i settenari di Ap 8-1 1 e 1 5- 1 6

LA VIOLENZA D I DIO COME RISPOSTA ALL' IDOLATRIA DEGU UOMINI

Di fronte alla violenza fisica e morale della Bestia, il Dio dell' Apo­
calisse risponde con un giudizio particolarmente violento contro il
mondo e contro gli uomini. Questo tema del giudizio divino e delle sue
tragiche conseguenze viene sviluppato con intensità e drammaticità
lungo tutta l'Apocalisse. Dio vi compare sotto forma di giudice ( 1 1 , 1 8;
1 4 , 7) e il suo giudizio è anzitutto l'ora della sua collera (1 1 , 1 8 ; 1 4, 1 9;
1 5 , 1 . 7 ; 1 9 , 1 5). È lui a giudicare la «grande prostituta» ( 1 6 , 1 9 ; 1 8 , 5 ;
1 9, 2), a sedere sul trono del giudizio finale (20, 1 1 ). E per l'uomo l e con­
seguenze sono piuttosto inquietanti. Certo, ognuno sarà giudicato se­
condo le sue opere ( 2 , 2 3 ; 1 8 ,6; 20, 1 2- 1 3 ; 22, 1 2 ; cf. anche 1 6,9), ma
sembra che essere giudicato, nell'Apocalisse, equivalga a essere con­
dannato . Anche il creato, le creature, gli uomini e le potenze umane su­
biscono la collera e il giudizio di Dio (Ap 6; 8-9; 1 4,6-20; 1 5-16,9;
20, 1 1 - 1 5) . Per aver ceduto alla seduzione della «Bestia», gli uomini, i
poteri umani e, con loro, il creato e le altre creature, subiscono il giu­
dizio ( 1 6 , 2) . La stessa sorte tocca a coloro che si sono rallegrati al ve­
dere i «testimoni» di Dio subire la persecuzione (cf. 1 1 , 1 0- 1 3). «Babi­
lonia», la «Bestia» e il «Diavolo» sono giudicati e distrutti (Ap 1 6 , 10-

86
2 1 ; 1 7-18; 1 9 ; 20, 1 - 1 0). La stessa Chiesa è sotto la minaccia del giudi­
zio (Ap 2 , 5 . 1 6 . 2 3 ; 3 , 3 . 1 6) : o è fedele e ottiene la vittoria, o è infedele e
subirà il giudizio. Persino lo stesso Cristo, nell'Apocalisse, riveste la fi­
gura del giudice e ne possiede gli attributi (cf. Ap 1 , 1 6 . 1 8 ; 1 4 , 1 4- 1 6) .

l SETIENARI COME ESPRESSIONE DELlA VIOLENZA DMNA RETRIBUTNA

Nell'Apocalisse di Giovanni, riguardo alla violenza di Dio contro il


creato , sono particolarmente suggestive tre sezioni: Ap 6, 1-8 , 5 ; Ap
8,6-9 , 1 2 ; 1 1 , 1 5- 1 9 e Ap 1 5 , 1 - 1 6 , 2 1 . Si tratta dei cosiddetti «settena­
ri» - perché ciascun passo è costruito su una serie di sette - che de­
scrivono con molti dettagli il giudizio che attende il creato e i suoi abi­
tanti. Nell'Apocalisse vi sono quattro settenari: quello dei sigilli in Ap
6; quello delle trombe in Ap 8-1 1 ; il settenario tenuto segreto dei tuo­
ni in Ap 1 0 ; infine, in Ap 1 5- 1 6 , il settenario delle coppe contenenti
dei flagelli. I primi tre settenari appartengono alla prima serie di vi­
sioni (Ap 4-1 1 ) , mentre il settenario delle coppe appartiene alla se­
conda grande sezione (Ap 1 2-22). Non è direttamente legato ai sette­
nati precedenti, ma ne riprende alcuni temi. I settenari attingono a tre
fonti possibili: le tradizioni dell'Antico Testamento (in particolare, le
piaghe d'Egitto) amplificate; l'esperienza di catastrofi naturali che han­
no segnato le menti, anch'esse amplificate; infine, rappresentazioni
simboliche comuni alle persone del tempo, derivanti da una compren­
sione mitica del mondo (ad esempio, le ste lle come esseri viventi).

l SETIENARI DEI SIGILLI E DELLE TROMBE

Il settenario dei sigilli e quello delle trombe si trovano nella prima


grande serie di visioni dell'Apocalisse (Ap 4-1 1 ) . Sono organizzati in
·

base al sistema delle matrioske:


Ap 4: Visione di «Colui che siede sul trono»
Ap 5: «Colui che siede» tiene il libro chiuso con sette sigilli che r A­
gnello può aprire
Ap 6-7: Apertura dei primi sei sigilli
Ap 8 , 1 - 5 : Il settimo sigillo introduce le sette trombe
Ap 8,6-9 , 2 1 : Suonano le prime sei trombe
[Ap 1 0 , 1-1 1 , 1 4 : Intermezzo; Ap 10, 3-4: settenario
segreto]
Ap 1 1 , 1 5 - 1 9 : Suona la settima tromba

87
Ogni parte richiama la seguente ed è anche strettamente incastra­
ta nella precedente. La visione inaugurale (Ap 4-5) è teocentrica (cioè
centrata su Dio, Ap 4) e cristocentrica (cioè centrata su Cristo, Ap 5) al
tempo stesso: Dio tiene il libro (5 , 1 ) e solo Cristo può aprirlo . L'insie­
me termina (settima tromba) con una proclamazione della vittoria di
Cristo ( 1 1 , 1 5- 1 9) . Al centro (Ap 6,1-1 1 , 1 4), vi sono due tipi di rivela­
zioni e di visioni: quelle riguardanti gli eletti e la loro missione (Ap 7;
Ap 1 0-1 1 ) e quelle riguardanti il giudizio del mondo (Ap 6 e Ap 8-9).
Questo giudizio è caratterizzato da un'inesorabile escalation: i primi
sei sigilli causano castighi limitati («potere sul quarto della terra» , cf.
6,8); le prime sei trombe un castigo maggiore, ma sempre limitato («un
terzo» del creato, cf. Ap 8 , 7 . 8 .9 . 1 0. 1 1 . 1 2) .

Il settenario dei sigilli


Nel settenario dei sigilli abbondano i passi che esprimono la vio­
lenza di Dio o quella dei credenti. Due attirano in modo particolare l'at­
tenzione. Anzitutto, la figura dei quattro cavalieri. La loro descrizione
è particolarmente impressionante . Così, per citare solo i passi più sug­
gestivi, al cavaliere bianco (v. 4) è dato «potere di togliere la pace dal­
la terra e di far sì che si sgozzassero a vicenda, e gli fu consegnata una
grande spada»; .al cavallo verde e a colui che lo cavalca (v. 8), «potere
[ . . . ] su un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame,
con la peste e con le fiere della terra». Si può facilmente comprendere
il motivo per cui, nell'immaginario dell'occidente cristiano - special­
mente in letteratura e pittura - questi quattro cavalieri occupano un
posto privilegiato per descrivere il giudizio di Dio contro il creato e le
creature. La peste, le invasioni, le carestie e altre catastrofi naturali o
causate dagli uomini sono state spesso lette alla luce di questo testo
dell'Apocalisse. Una lettura che sembra confermare il testo dell'Apo­
calisse nel quale distruzione e sofferenza sono presentate come la con­
seguenza della collera divina. Così i vv. 1 2- 1 7 , che descrivono gli effetti
dell'apertura del sesto sigillo:
Vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di cri­
ne, la luna diventò tutta simile a sangue, le stelle del cielo si abbattero­
no sopra la terra, come un albero di fichi, sbattuto dalla bufera, lascia
cadere i frutti non ancora maturi. Il cielo si ritirò come un rotolo che si
avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto . Allora i re
della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uo­
mo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei

88
monti, e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascon­
deteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello , Per­
ché è venuto il grande giorno della loro ira e chi può resistervi?».

Il secondo passo che attira l'attenzione si trova al v. 10. I martiri


implorano Dio : «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero,
non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abi­
tanti della terra?» . Questo grido è un appello alla giustizia rivolto al si­
gnore della giustizia: «In un certo modo, gridando, coloro che vengo­
no sgozzati si" rimettono a lui per la loro propria giustificazione» .9 Ma
al versetto seguente, si chiede loro di «pazientare ancora un poco , fin­
ché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro
fratelli» (v. 1 1 ). Qui Giovanni riprende un tema classico della lettera­
tura del tempo, quello della preghiera dei martiri perché sia resa loro
giustizia. Si stabilisce quindi uno stretto legame fra la sorte degli elet­
ti e il giudizio dell'universo. Questa connessione ha un doppio signifi­
cato. Da una parte, il mondo non viene giudicato solo in quanto pec­
catore, ma anche in quanto si è posto contro gli eletti di Dio, ponen­
dosi contro Dio e il suo Cristo. Dall'altra, se ci si riferisce a 6 , 1 1 , il giu­
dizio del mondo è sospeso finché tutto il popolo di Dio non sia radu­
nato : questa presentazione è sottesa dal tema della pazienza di Dio. 10

Il settenario delle trombe


Nel settenario che segue, quello delle trombe, la violenza divina vie­
ne presentata in un modo particolarmente espressivo, a ogni squillo.
Tuttavia questa violenza distruttiva, maggiore rispetto a quella del ca­
pitolo 6, è ancora limitata (brucia il «terzo» della terra e degli alberi
contro il «quarto» degli elementi coinvolti nel settenario precedente).
Questa limitazione cerca anzitutto di preservare la logica narrativa del­
l'Apocalisse, che non ha ancora detto tutto sul giudizio di Dio ; infatti
essa non si preoccupa affatto della verosimiglianza; senza alcuna ve­
getazione verdeggiante e con un sole che si oscura di un terzo (cf.
8 , 1 2), ci si può chiedere come sia ancora possibile la vita sulla terra;

9 J . DELORME - l. DoNEGANI, L"Apocalypse de Jean. Révélation pour le temps de la vio­


lence et du désir, 1: Chapitres .l - 1 1 , Cerf, Paris 2010, 1 9 1 .
1 0 Vale l a pena notare che, sull'esempio dei salmi, l'espressione della sete d i ven­
detta non viene censurata: nella preghiera si può esprimere tutto. Altra cosa è la rispo­
sta che Dio decide di dare!

89
più avanti, in 9,4, ci si chiederà come si può ancora vietare alle caval­
lette di toccare la vegetazione che non esiste più (cf. 8,7)! Il giudizio di­
vino è quindi progressivo . La violenza è come controllata. Non si sca­
tena nella sfera pulsionale, senza controllo . Ha una valenza pedagogi­
ca e risuona come un avvertimento che invita a una presa di coscien­
za. Il lettore deve quindi guardarsi da ogni concordismo : qui Giovanni
non descrive una qualche catastrofe ecologica o nucleare allora im­
possibile, oggi invece diventata concepibile a causa della follia degli uo­
mini. Prendendo come sfondo le piaghe d'Egitto, egli forza voluta­
mente il tratto per cercare di far comprendere al suo uditorio una real­
tà che, ai suoi occhi di uomo del l secolo , è totalmente inverosimile e
inimmaginabile. Parte da un «credibile disponibile» (le piaghe d ' Egit­
to o una specifica catastrofe naturale che ha segnato le menti1 1 ) e si
prefigge la descrizione del giudizio di Dio come un «credibile impen­
sabile» (ampliando all'estremo ciò che era già noto) . Cerca di stimola­
re l'immaginazione dei lettori, presentando una realtà impensabile per
l'uomo del I secolo : si serve quindi di rappresentazioni o avvenimenti
che hanno segnato la mente dei suoi contemporanei, ma ingrariden­
doli all'estremo . Bisogna anche cercare dalla parte delle rappresenta­
zioni classiche dell'apocalittica, perché si trovano descrizioni paralle­
le nel libro di Enoch (cf. Hen 1 8 , 1 3 ; 2 1 , 3 e 1 08 , 4 , dove si tratta di una
descrizione di creature celesti). In realtà, il nostro testo non allude so­
lo a cataclismi naturali, ma anche a rappresentazioni mitologiche tra­
dizionali (un «credibile disponibile» : la caduta dei corpi celesti che cau­
sano distruzioni inimmaginabili; cf. questo tema anche in Ap 1 2 , 9) .

IL SETIENARIO DELLE COPPE ( 1 5 , 1-1 6 , 2 1 }

I l settenario delle coppe è l'ultimo della serie. L e immagini non so­


no meno terribilmente violente; sono raccolte principalmente nel capi­
tolo 1 6 . Il settenario delle coppe appartiene alla seconda grande serie
di visioni (Ap 1 2-2 2,5). È l'unico settenario di questa seconda parte del
libro. Per comprendere il significato che l'autore gli attribuisce, bisogna
interpretarlo nel suo contesto . Al riguardo, è illuminante uno sguardo
sull'organizzazione di questa seconda parte. Essa è articolata attorno

I l Così alcuni hanno visto un'allusione all ' eruzione del Vesuvio, nel l secolo d.C.,
nella catastrofe che coinvolge il mare in Ap 8,8-9.

90
all'idea di Wla battaglia combattuta da «Satana» e dai suoi servi contro
Dio e i suoi servi. Questa battaglia sfocia nel giudizio delle «forze del
male». Il tutto termina sulla visione finale della Gerusalemme celeste:
A. Le forze in presenza
Ap 1 2 : Visione inaugurale: la donna, il bambino, e il drago
Ap 1 3 : Le due Bestie, emanazioni del Drago O'Impero e il sistema im­
periale)
Ap 1 4 : L'Agnello e i redenti; il giudizio annunciato

B. Il compimento del giudizio


Ap 1 5- 1 6 : sulla natura, il creato e gli uomini
Ap 1 7- 1 9 , 1 0 : su Babilonia
Ap 1 9 , 1 1 - 2 1 : vittoria del Messia sulla Bestia e sul falso profeta
Ap 20, 1 - 1 5 : vittoria su Satana, millennio e giudizio fmale

C. Ap 2 1 , 1-22 , 5 : La nuova creazione

Come in Ap 1 1 , 1 5 - 1 9 , in Ap 1 6 , 1 7- 2 1 , la presentazione della setti­


ma coppa offre l'occasione per una scena di vittoria. In questo passo si
trova anche l'annWlcio di ciò che seguirà sotto forma di inclusione: Dio
si ricorda di Babilonia la Grande (questo versetto prepara Ap 17 -18).
«Gli uomini bestemmiano contro Dio» (cf. Ap 1 6 ,9. 1 1 ), ripetendo così
l'atteggiamento del faraone: subiscono la castrofe senza comprenderne
il senso e persistono nell'ostinazione. Giovanni riprende lo schema dei
capitoli 8-9 . Ma, oltre a trasformarlo nei dettagli, vi introduce alcWle
allusioni storiche (cf. 1 5, 2 e 3; 1 6 , 1 3 e 1 4 ; 1 6 , 1 9) che rinviano, più di­
rettamente rispetto ai capitoli 8-9, al contesto particolare nel quale vi­
veva l'autore. Si constata che gli oppositori diretti di Dio e dell'Agnello
vengono distrutti nell'ordine inverso del loro legame con la potenza de­
moniaca: anzitutto Babilonia (come rappresentante della potenza im­
periale); poi la Bestia e il falso profeta (l'impero e il sistema, emanazio­
ne del Drago, cf. Ap 1 3); infine, Satana (cf. Ap 12 e 20). In questo qua­
dro, Ap 1 5-1 6 è una ripresa del settenario dei capitoli 8 e 9: il giudizio
di Dio è Wliversale, riguarda anche la natura, il creato e gli uomini in
quanto sottomessi all'autorità della Bestia (cf. la sesta coppa, che allu­
de alla Bestia e al falso profeta; e la settima coppa, che allude a Babi­
lonia). Perciò il potere del drago si manifesta attraverso la Bestia, ma
mette in gioco l'insieme del creato, l'intera umanit;/t . Così la vittoria con­
tro le potenze ostili suppone una battaglia che coinvolge tutti gli ele­
menti del creato, Wla battaglia nella quale devono essere scosse le stes­
se fondamenta sulle quali il Nemico costruisce il suo potere.

91
IL CREDIBILE DISPONIBILE E L'INIMMAGINABILE DELLA DISTRUZIONE FINALE

Ora bisogna cercare di cogliere l'insieme delle informazioni che ab­


biamo raccolto in questo rapido sorvolo del complesso dei settenari.
Cercare di comprendere il significato che Giovanni attribuisce a que­
ste scene di giudizio contro il creato e contro le creature, nelle quali
l'immagine di un Dio giudice e violento supera di gran lunga quella di
un Dio di perdono e di pace.
Sottolineiamo , anzitutto, che l'Apocalisse ricorre a un immaginario
profondamente iscritto nelle rappresentazioni culturali di una deter­
minata epoca. Perciò, comprendere ciò che Giovanni cerca di trasmet­
tere riguardo all'idea del giudizio suppone un percorso interpretativo
che lo riformula in categorie più accessibili al lettore del XXI secolo. È
ciò che tentiamo di fare nei paragrafi che seguono.
Bisogna notare, anzitutto, il quadro liturgico nel quale si inserisce
il discorso sul giudizio . 1 2 Nell'Apocalisse, il giudizio di Dio è legato a
una visione la cui portata liturgica è primaria (cf. , ad esempio, i capi­
toli 4-5, che possono essere letti, interamente, come un'acclamazione
liturgica che struttura il culto della comunità primitiva). Perciò la pre­
sentazione del giudizio non appartiene alla realtà oggettivabile, ma at­
tiene alla rappresentazione simbolica, appartiene al campo della vi­
sione e non del visibile. Non è quindi la realtà che viene descritta nei
settenari: attenzione alla trappola del concordismo . Essere fedeli all'i­
spirazione del visionario è anzitutto comprendere che ciò che egli de­
scrive è indicibile , inimmaginabile, che non può trattarsi di nulla di
umanamente pensabile, che egli usa «un linguaggio spinto fino all'i­
perbole per tentare di raffigurare ciò che non è raffigurabile» . 1 3 Quin­
di la visione di Giovanni non è attuale, nel senso che ciò che allora era
impossibile ora sarebbe diventato possibile grazie al progresso della
tecnica: Giovanni non prediceva l'avvento dell' era atomica e di una
possibile distruzione dell'umanità. Si accontenta di trasmettere ciò che

1 2 !.: importanza della liturgia nell'Apocalisse di Giovanni ha attirato da molto tem­


po l'attenzione degli esegeti. Cf. P. Pnlr.HNT, Apocalypse et Liturgie, Delachaux et Niestlé,
NeucMtel 1 964; U. VANNI, «Uturgical Dialogue as a Uterary Form in the Book of Reve­
lation», in New Testament Studies 37(199 1 ) , 348-372.
13 DBLORME - DONBGANI, L'Apocalypse de Jean, 2: Chapitres 12-22, 72.

92
per lui è fondamentale, cioè che la storia ha un senso e che questo sen­
so appartiene a Dio e unicamente a lui.
Perciò la convinzione teologica fondamentale delle sue affermazio­
ni sul giudizio si trova nell'idea secondo cui Dio è signore degli avve­
nimenti e della storia. Il giudizio non è causato dalle manipolazioni di
un apprendista stregone; è la sanzione ragionata di Dio contro l'idola­
tria, che, nell'Apocalisse, consiste nel riconoscere un potere assoluto
all'uomo o a un sistema politico. Questa comprensione di Dio suppone
che la storia degli uomini non è abbandonata a se stessa, all'assurdo
e al caso: se il giudizio appartiene a Dio, se la storia è nelle sue mani
e ha un senso , allora l'umanità non è abbandonata al potere del nulla
o alla follia degli uomini. Da questo aggancio teologico-cristologico del
giudizio si può trarre una triplice conseguenza antropologica.
Anzitutto, la stessa nozione di un Dio che giudica è, per l'autore del­
l'Apocalisse, una contestazione dell'uomo come padrone del mondo e
del creato . Ciò che denuncia Giovanni di Patmos al suo tempo è l'illu­
sione della Pax Romana: per lui, essa non è il solido fondamento sul
quale possono basarsi le popolazioni dell'Impero . Più ampiamente,
questo significa che il giudizio di Dio viene a ricordare all'umanità, in
positivo, la sua condizione di creatura, quindi la sua finitezza, e, in ne­
gativo, l'accecamento colpevole che manifesta. Nel suo stile molto par­
ticolare, Giovanni di Patmos ricorda che il momento del Vangelo, del­
la buona novella della salvezza, non è mai disgiunto dal momento del­
la contestazione.
In secondo luogo, il giudizio è, fin nei suoi aspetti più terribili, un
giudizio pronunciato in vista del pentimento . Pur non parlando mai di
pentimento, l'Apocalisse può essere letta, alla maniera delle richieste
profetiche, come un invito alla conversione. C'è quindi indiscutibil­
mente una responsabilizzazione dell'uomo che viene invitato a fare
delle scelte: ciò che l'uomo fa non è privo di conseguenze per lui stes­
so, per coloro che lo circondano, per il creato. In questo senso, can­
cellare l'idea stessa del giudizio equivale a negare l' u omo in quanto es­
sere responsabile , capace di decisione. L'idea del giudizio costituisce
l'uomo in regime di responsabilità. Il giudizio è la condizione stessa
della salvezza: esso rivela l'uomo a se· stesso. Paradossalmente, l'uo­
mo è condannato solo se rifiuta il giudizio . Se, al contrario, lo accetta
come la verità di ciò che egli è, allora questo giudizio è per la vita.
In terzo luogo, l'uomo non possiede il potere ultimo : non ha il po­
tere di distruggere e di giudicare. La violenza degli uomini contro il

93
creato non può nulla contro di esso. Solo Dio può porre fine a ciò che
ha cominciato. Perciò, per uno di quei paradossi di cui le Scritture han­
no il segreto, l'annuncio del giudizio potrebbe essere una fonte di spe­
ranza: mettendo nelle mani di Dio la sorte del creato e delle creature,
Giovanni rifiuta all'uomo ogni divinizzazione, liberandolo così da un
formidabile potere di distruzione . Oggi, l'orgoglio dell'uomo si è anni­
dato fin nelle sue angosce più profonde, perché egli crede, come un
dio, di poter distruggere la terra. Contro la stessa evidenza del discor­
so tecnico o ecologico che qui, stranamente, parlano con una stessa vo­
ce e potrebbero somigliare al fascino dell'idolo , Giovanni di Patmos an­
nuncia con forza che l'uomo non può distruggere l'umanità, perché Dio
non gli ha dato il potere di farlo . Perciò questo messaggio, per chi sa
ascoltarlo, apre uno spazio di libertà per un'attività tranquilla e gioio­
sa in questo mondo.
Un'ultima riflessione: l'Apocalisse è un testo ecclesiale, un testo ad
uso interno; la sua dimensione liturgica lo dimostra chiaramente. La
comunità oppressa descritta da Giovanni non si fa giustizia da sola. Se
chiede la giustizia, aspetta che sia Dio a rendergliela. Sottratto alle ma­
ni dell'uomo, il giudizio viene posto nelle mani di Dio, non in quelle
della Chiesa! Del resto , il lettore non conosce l'ultima parola del giudi­
zio e della collera di Dio (è il senso del settenario dei tuoni, in Ap 1 0, 3 -
4 che n o n viene svelato). L a violenza non è quindi nel programma del­
la comunità. Nell'espressione della fede può trovare posto il grido di
collera, la domanda di retribuzione (cf. Ap 6 , 1 0), ma non il ricorso al­
la violenza. È una differenza significativa, di cui purtroppo, nel corso
dei secoli, le chiese non hanno sempre saputo tener conto !

Il sacrificio di Cristo : un sovvertimento della violenza14

Nell'Apocalisse, Giovanni ricorda due volte le condizioni partico­


larmente violente della morte di Gesù. La prima volta, all'inizio del li­
bro (Ap 1 , 5). Per coglierne esattamente il significato, bisogna ricollo­
carlo nel suo contesto immediato, quello dei vv. 4-7 del capitolo 1 :

1 4 Sulla questione del sacrificio nell'Apocalisse d i Giovanni, cf. É . CuvtwER, «I:im­


molation du Christ, de la B�te et des croyants dans l' Apocalypse», in Le sacrifice du
Christ et des chrétiens (Cahiers Évangile 1 1 8), Cerf, Paris 200 1 , 48-56.

94
Giovanni, alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Co­
lui che è, che era e che viene, e dai sette spiriti che stanno davanti al
suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei mor­
ti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai
nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdo­
ti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei seco­
li. Amen! Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che
lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto.

È significativo che quest'allusione esplicita alla morte di Gesù come


sacrificio cruento intervenga proprio all'inizio dell'Apocalisse, nel cuo­
re di un'acclamazione (vv. 4-8) che, volendo usare un linguaggio mu­
sicale, dà il <<tono» sul quale verrà suonato lo «spartito» cristologico. I
vv. 5 e 7 riprendono, sotto forma liturgica, gli enunciati fondamentali
della fede cristiana della Chiesa delle origini.
v. 5 : Cristo è colui che ha obbedito fino alla morte (l'espressione «te­

stimone fedele», anche se il suo significato non si limita a questo , con­


tiene un'allusione alla morte di Gesù: in Ap 2 , 1 3 ; 1 1 , 3 e 1 7,6, i «testi­
moni» di Gesù sono sempre messi a morte). Egli è risorto («primoge­
nito dei morti») e ormai elevato in maestà («sovrano dei re della ter­
ra»). La sua morte deve essere compresa come sacrificio per la libera­
zione e la salvezza dei credenti («A Colui che ci ama e ci ha liberati dai
nostri peccati con il suo sangue»).
v. 6: Ne deriva la costituzione di un nuovo popolo, una comunità di
sacerdoti davanti a Dio («e ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo
Dio e Padre»).
v. 7 : La prospettiva escatologica è quella della venuta gloriosa di
Cristo in maestà, per esercitare il giudizio su tutta la terra («Ecco , vie­
ne con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e
per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto»). ·

Il secondo testo si trova in Ap 5 , 6 . 9 - 1 0 :


Poi vidi. in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli an­
ziani, un Agnello, in piedi, che sembrava immolato [ . . . ]. Ed essi cantava­
no un canto nuovo, dicendo: «Th sei degno di prendere il libro e di aprir­
ne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio. con il tuo
sangue. uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e hai fatto di loro,
per il nostro Dio, un regno e sacerdoti, e regneranno sopra la terra».

Qui siamo all'inizio di una lunga serie di visioni costruita, come ho


già detto, secondo il principio delle matrioske: l'agnello è l'unico capa­
ce di aprire il libro chiuso con sette sigilli (5,5 e 9), un'apertura che si

95
svilupperà fino all'inizio del capitolo 8 e si prolungherà poi nel suono
delle trombe fino alla fine del capitolo 1 1 . In questo modo, il complesso
delle visioni è ordinato alla cristologia. Questo Cristo prende la figura
dell'agnello, un titolo specifico dell'Apocalisse di Giovanni, quello più
spesso usato e presente nell'insieme della narrazione (5,6.8 . 1 2 . 1 3 ;
6 , 1 . 1 6; 7 , 9 . 1 0. 1 4 . 1 7 ; 1 2 , 1 1 ; 3 , 8 ; 1 4 , 1 . 4 . 1 0 ; 1 5 , 3 ; 1 7, 1 4 ; 1 9, 7 .9;
2 1 ,9 . 1 4. 2 2.23. 27; 22,1 .3). È significativo che l'introduzione di questa fi­
gura avvenga nella forma paradossale dell'immolazione e della gloria
(5,6). L'immagine è essenziale per il pensiero teologico di Giovanni: l'a­
gnello vincitore ha riportato vittoria attraverso la sua morte cruenta. La
sua vittoria sulla morte non è la vittoria di uno estraneo alla sorte di co­
loro che fa partecipare alla sua vittoria. Come loro, egli ha subito l'ol­
traggio della morte e specialmente di una morte violenta. Il verbo gre­
co per rendere quest'idea di immolazione è sfazein (Ap 5,6. 9 . 1 2 ; 6,4.9;
1 3 , 3 . 8 ; 1 8,24). Nella LXX (la versione greca dell'Antico Testamento),
questo verbo rende l'ebraico shd!J.at., che indica il gesto di immolazione
dell'animale del sacrificio. L'espressione «Agnello immolatO)) (Ap 5,6) è
quindi ispirata direttamente dalle tradizioni della Pasqua ebraica. La fi­
gura dell'agnello rinvia all'agnello pasquale dell'Esodo, quello che assi­
curava, con il suo sacrificio cruento, salvezza e redenzione al popolo in
cammino verso la Terra promessa. Ripresa dal visionario di Patmos,
l'immagine fa di Cristo colui che salva i credenti, assicurando il loro
«passaggio)) {il senso del verbo ebraico pesa!! che ha dato il termine
«pasqua))) dal vecchio mondo al mondo nuovo, dalla morte alla vita.
Collocato all'inizio di una serie di visioni (Ap 6-1 1 ) , questo riferi­
mento al sacrificio di Cristo significa che , per Giovanni di Patmos, l'a­
gnello immolato è colui attraverso il quale si decifra il mondo (cf. Ap
5 , 9: l'agnello è l'unico «degno)) di aprire il libro sigillato). Il sacrificio
pasquale è la chiave di lettura del divenire della storia dell'umanità. La
dimensione polemica è evidente: non è l'Impero , con la sua potenza
economica, la sua invincibilità militare e la sua stabilità, ad assicura­
re l'esistenza nel mondo . L'agnello immolato , che siede sul trono, tie­
ne nelle sue mani il giudizio che sta per abbattersi su un mondo che si
illude sulla sua solidità e sulla sua stabilità.
Nei due passi che ho brevemente analizzato, il linguaggio sacrifi­
cale è accompagnato dalla menzione del sangue versato, di cui ora bi­
sogna approfondire più precisamente la funzione.
In Ap 1 ,5, il sangue di Gesù «libera)) (,tOOI). L'uso del verbo con que­
sto significato è unico nel Nuovo Testamento. Ma dalla stessa radice

96
viene il verbo Àurp6m, «pagare un riscatto» , «liberare» {Le 24, 2 1 : «li­
berare Israele» ; Tt 2 , 1 4 : «per riscattarci»; 1 Pt 1 ,8 : «che siete stati ri­
scattati»); ugualmente Àthpov, «riscatto» {Mc 1 0, 4 5//Mt 20,28),
Àth'proçtç, «redenzione», «riscatto» {Le 1 ,68; 2 , 3 8 ; Eb 9, 1 2 una «reden­
zione» ottenuta «mediante il sangue» di Gesù) . L'uso originale del ver­
bo Àvetv in questo passo spiega forse il fatto che altri manoscritti leg­
gono «lavare» {Àovw). Ci si avvicina allora a Gv 1 3 , 1 0 {dimensione so­
teriologica e cristologica) e anche a Eb 1 0,22 {battesimo).
In Ap 5,9, il sangue di Gesù «riscatta» (ayopaçw; cf. 1 4, 3-4: i cre­
denti sono detti i «riscattati»; cf. 2Pt 2 , 1 ) . È un termine che ricorre
spesso in Paolo per indicare la redenzione {l Cor 6,20; 7 , 2 3 ; Gal 3 , 1 3 ;
4 , 5 . . . ) . Nell'Apocalisse, i l contesto dei capitoli 5 e 1 4 è quello d i un ri­
scatto da parte dell'agnello: l'allusione pasquale è chiara.
Altrove nell'Apocalisse, il «sangue» di Gesù assolve funzioni simili.
In Ap 7 , 1 4 : la «moltitudine immensa» è composta da coloro che han­
no «lavato>> e «reso candide>> le loro vesti nel sangue dell' agnello . Qui
viene sottolineata la doppia funzione salvifica e purificatrice del san­
gue. In Ap 1 2 , 1 1 il sangue di Gesù è un mezzo per «vincere» (vucaw) .
Così i l sangue d i Gesù h a una funzione che s i può definire militante.
Come comprendere quest'immagine? Senza dubbio il passo vuole sug­
gerire che, se l'agnello ha riportato vittoria { 5 , 5 ; 1 7, 1 4; forse anche
6,2), ne consegue che anche i credenti vinceranno attraverso il suo
«sangue» e la «parola della testimonianza» { 1 2 , 1 1 ) . Ma, come vedre­
mo, anche questa vittoria passerà attraverso una lotta, nella quale bi­
sogna mettere in conto la morte fisica. Le funzioni soteriologiche {li­
berare, riscattare, purificare) del sangue dell'agnello, come pure la sua
funzione militante, aprono allora su una triplice dimensione: sacerdo­
tale, regale { 1 ,6; 5 ,9) e liturgica {7, 1 4 e 1 4,4). Esse costituiscono il cre­
dente come combattente e vincitore delle potenze di questo mondo, te­
stimone di Dio in questo mondo e partecipe della sua vittoria finale.
Si constata allora un capovolgimento perlomeno interessante : la
violenza subita da Gesù attraverso la crocifissione viene in qualche mo­
do capovolta. Infatti, l'umiliante sconfitta costituita dalla morte in cro­
ce è trasformata in sacrificio che dona la vita e nasconde una capaci­
tà paradossale di assicurare la vittoria.

97
La fede come «lotta» contro la violenza del mondo

Come ho già sottolineato, l'Apocalisse è più di un semplice incorag­


giamento rivolto a una comunità perseguitata: essa «svela le false ap­
parenze della potenza e sgonfia le aspettative che vi si aggrappano.
Smaschera gli imperi (politici, economici, culturali, ideologici. . .) ai qua­
li la società offre sacrifici».15 Giovanni di Patmos vuole mettere in guar­
dia i suoi ascoltatori dalla seduzione che potrebbe esercitare su di loro
il discorso concorde di coloro che tessono le lodi dell'Impero . Invitan­
do i suoi ascoltatori a guardare in modo critico la società romana e il
potere imperiale, critica la stessa vita delle comunità così come appa­
re nelle «lettere aDe Chiese» (Ap 2-3) : comunità sedotte anch' esse dal
modello imperiale e desiderose di integrarsi maggiormente nella so­
cietà del loro tempo. Perciò l'Apocalisse può essere interpretata come
un tentativo di rispondere, non solo alle pressioni che subiscono i cre­
denti nelle province romane d'Asia minore, ma anche al loro desiderio
di conformarsi al quadro sociale riconosciuto dalla maggioranza.
Se così è, la scrittura di Giovanni di Patmos è motivata da una dop­
pia convinzione: sul piano esterno, uno sguardo critico sui poteri uma­
ni e qui, in particolare, sul potere imperiale; sul piano interno, il pres­
sante invito rivolto alla comunità credente a non soccombere alla se­
duzione del discorso imperiale , la cui violenza non è solo o principal­
mente fisica, ma anche ideologica. Per chi non subisce la persecuzio­
ne - tale è allora verosimilmente la situazione di molti credenti - non
deve essere facile resistere alla seduzione dell'Impero : fasti del culto
imperiale e dei giochi circensi, prove delle realizzazioni architettoni­
che e dei progressi assicurati da Roma; desiderio di partecipare all'a­
scesa sociale, quando si appartiene alle classi ricche - cosa che ri­
guarda certamente una minoranza dei membri delle comunità cristia­
ne16 -; onnipresenza della forza e della potenza delle legioni.

15 DEWRME - DoNEGANI, L'Apocalypse de Jean, 2: Chapitres 12-22, 84.


16 Non c'è ad esempio iilcuna ragione di pensare che la diversità sociologica che si
può trovare all'interno della comunità cristiana nella prima metà del I secolo non si ri·
trovi nelle comunità urbane asiatiche della seconda metà. Sulla composizione sociologi­
ca delle comunità primitive rinvio alle analisi sempre pertinenti di G. THEISSEN,
·
Histoire
sociale du christianisme primitif, Labor et Fides, Genève 1 996.

98
Questa dimensione critica si coniuga con quella che bisogna giu­
stamente chiamare una «demonizzazione» della struttura imperiale
(cf. , in particolare , Ap 1 3 e 1 7-1 8). Ma questa demonizzazione non de­
riva da un delirio paranoico o da alcune speculazioni apocalittiche in­
controllate. Si fonda su un'analisi politica e teologica della situazione
così come si presenta alla fine del I secolo . Infatti, Giovanni di Patmos
interpreta la situazione in cui vive come una pretesa totalitaria e ido­
latrica del potere imperiale . Percepisce la forza seduttrice di Roma e
vede la violenza che l'accompagna. La menzione dell'uccisione di co­
loro che non adorano l'immagine della Bestia (Ap 1 3 , 1 3) non indica
necessariamente il martirio cruento dei cristiani perseguitati al tempo
in cui Giovanni redige la sua opera, ma rinvia chiaramente alla forza
militare romana e alla violenza repressiva che scoraggia ogni velleità
di liberarsi dal giogo imperiale. L'Impero viene denunciato anche co­
me un sistema che presenta un carattere religioso e pretende di go­
vernare tutta l'esistenza umana sul piano politico , culturale ed econo­
mico. Dal punto di vista di Giovanni, questa pretesa è un segno non so­
lo dell'orgoglio degli uomini, e specialmente degli imperatori, ma an­
che della loro sottomissione alle potenze del male all' opera nel creato .
Sul piano dell' autocomprensione del credente nel mondo, quest'inter­
pretazione apocalittica della realtà trova la sua piena realizzazione in
una resistenza spirituale all'idolatria e nell'attesa del giudizio che sta
per abbattersi su un mondo dominato dalle potenze.
L'Apocalisse sviluppa quindi quello che si può giustamente chia­
mare un atteggiamento di resistenza. Giovanni si erge contro Cesare,
che pretende di qualificare l' esistenza di ogni essere umano a partire
dall' ordine romano. Qui la confessione di fede è un atto politico. Essa
mira a suscitare, nel credente, una nuova comprensione della sua esi­
stenza e del mondo in cui vive. In un certo senso, si può affermare che
Giovanni di Patmos rifà il mondo , cioè lo reinterpreta, lo ricostruisce,
lo rilegge a partire dalla sua fede in Dio così come viene rivelato da Cri­
sto (cf. Ap l , l ) . Per questo ha bisogno di un linguaggio simbolico , per­
ché solo questo linguaggio provoca una rottura e permette al lettore di
vedere diversamente le cose, di comprenderle diversamente. Per Gio­
vanni la fede è un'interpretazione del mondo a partire dall' evento Cri­
sto. Ma in che senso questo è un atto politico? Nel senso che l'evento
pasquale viene ricevuto da Giovanni come appello a opporsi a Jla logi­
ca del mondo nel quale vive. Per Giovanni l'evento pasquale introduce
una cosa diversa dalla situazione, dalle opinioni, dai saperi costituiti.

99
I: evento pasquale contesta il modo in cui il discorso ufficiale, attorno
al quale si organizza la società romana, interpreta la realtà. Esso pro­
pone un'altra lettura di questa realtà, una lettura che contesta l'inter­
pretazione generale e concorde . Giovanni afferma che il discorso del
potere imperiale al quale tutti sono invitati, per amore o per forza, ad
aderire, non è buono. Potrebbe essere riassunto così: «C'è ciò che c'è».
In altri termini, la realtà che Roma vi presenta è l'unica verità. I: ordi­
ne imperiale - la sua potenza, che assicura la stabilità economica e po­
litica, la famosa Pax Romana, l'organizzazione gerarchizzata della so­
cietà così come viene proposta - è l'unico modello valido . Di fronte a
tutto questo Giovanni proclama il contrario, affermando in sostanza:
«C'è ciò che non c'è». In altri termini, diversamente dalle apparenze e
dalla stessa evidenza, la potenza seduttrice della Bestia è pura illusio­
ne. La realtà così come viene presentata allo sguardo affascinato del
cittadino medio nel vasto Impero è solo menzogna e illusione . La po­
tenza romana e la sua volon�à di inglobare tutta la realtà dell' esisten­
za umana si fonda su una potenza letale, segno della sua origine dia­
b olica. Lungi dal portare la vita, essa causa la perdita dell'uomo.
I: opposizione dell'autore dell'Apocalisse al modello imperiale roma­
no si basa su un'analisi particolarmente critica della situazione politica
così come si presenta nel I secolo. Giovanni di Patmos considera l'uni­
versalismo romano, che si impone a tutti i popoli del bacino del Medi­
.
terraneo , una vera minaccia all'integrità dell'uomo, una violenza non
solo fisica, ma anche psicologica. Egli denuncia la potenza imperiale co­
me un sistema che pretende di governare l'intera esistenza umana sul
piano politico, culturale ed economico, reprimendo con la violenza co­
loro che si rifiutano di piegarsi alle sue regole. I:idolatria è una forma
di violenza: quindi la violenza imperiale non è solo fisica. È violenta an­
che a causa della sua pretesa totalitaria. Giovanni di Patmos denuncia
soprattutto questo. Perciò egli vede nel giudizio e nella collera una ri­
sposta alla violenza istituzionale: violenza della parola contro l'imposi­
zione del bavaglio imperiale; violenza liturgica contro il discorso gene­
rale e concorde della forza e del potere; violenza della parola che si vuo­
le imbavagliare. Per Giovanni si tratta di opporre una resistenza spiri­
tuale a questa logica, di schierare il credente contro di essa e di annun­
ciare la sua fine ineluttabile. Egli è quindi impegnato in una vera batta­
glia, nella quale la violenza delle parole cerca di opporsi alla violenza di
un sistema. Ma non combatte solo in difesa: intravede un'uscita dal re­
gno della violenza. Termina la sua opera, descrivendo la · nuova crea-

100
zione in tre quadri (2 1 , 1-8; 2 1 ,9-27; 2 2 , 1 - 5), nei quali accumula le ne­
gazioni per rappresentarla: niente più mare (2 1 , 1 ), niente più morte, lut­
to, grido e sofferenza (21 ,4), niente più Tempio (2 1 , 22), né sole né luna
(2 1 , 23), le porte della città non si chiudono più, niente più notte (2 1 , 25),
niente più impurità (2 1 , 27), maledizione (22,3), bisogno della luce del
sole o della fiaccola (22,5). Qui il visionario sperimenta i limiti del lin­
guaggio per dire l'indicibile, cioè la sua convinzione di una novità tota­
le non misurabile con qualsiasi realtà esistente. Può esprimersi solo me­
diante una comparazione, in negativo, con la realtà di questo mondo. In
questo contesto appare una via di uscita dalla violenza di questo mon­
do, alla quale, volente o nolente, il credente partecipa.H

((Date un luogo all'ira» (Rm 1 2 , 1 9)


Un percorso paolino attorno alla violenza

Analizzerò il corpus paolino a partire da una doppia domanda: che


ne è della figura di un Dio violento in Paolo e che ne è della violenza
del credente? Assolverò il mio compito in tre tappe. Cercherò, anzitut­
to, di cogliere la figura del Dio violento così come si presenta in Paolo
e come viene riconfigurata attraverso la cristologia, anch'essa non pri­
va, come vedremo, di violenza. Poi affronterò la questione della vio­
lenza del credente, sia essa subita o inflitta. Mi interesserò in modo
particolare al linguaggio della violenza - la violenza retorica - e al mo­
do in cui viene assunta nella riflessione teologica dell'apostolo . Infine,
proporrò alcune riflessioni sulla gestione della violenza di Dio e dei cre­
denti nell'eredità paolina.

La violenza di Dio in Paolo

Lo SFONDO APOCALITIICO

La dimensione violenta del Dio di Paolo è normalmente collegata


con le rappresentazioni veterotestamentarie cui l'apostolo si ispira.

17 Su Ap 2 1 . 1-2 2 , 5 , cf. É. Cwn.UER, «Le discours sur l'avenir en Apocalypse


2 1 . 1-22,5», in Graphé 1 ( 1 992), 5 1 -65.

1 01
Senza mettere in discussione questo sfondo simbolico, propongo di te­
ner conto anche del radicamento apocalittico dell'immaginario paoli­
no. Infatti, la relazione di Paolo con l'Antico Testamento è mediata dal
quadro culturale e religioso proprio del cosiddetto giudaismo del Se­
condo Tempio, nel quale l'apocalittica gioca un ruolo chiave . L'influen­
za del pensiero apocalittico su Paolo è innegabile.
In questo contesto particolare si distingue fra due tempi o due mon­
di (due 'olamim): l"olam hazzeh, il mondo dalla sua creazione alla sua
fine, e l"olam habba , il mondo venturo .18 In greco, si distinguono due
'

eoni (ailliveq). Il mondo presente (il vecchio eone) è sotto il potere del
male . Dio giudicherà questo mondo cattivo e la venuta del nuovo eone
significherà l'irruzione del mondo nuovo come contestazione del mon­
do vecchio e compimento del diritto e della giustizia di Dio sulla terra.
Un giorno non lontano Dio porrà fine allo stato attuale delle cose (cioè
al mondo presente) e ricreerà un'umanità nuova, punendo i malvagi e
premiando i giusti.
Questa comprensione del mondo, ben documentata in Paolo, am­
mette l'esistenza di una doppia violenza. Una violenza subita e una vio­
lenza attesa: la violenza subita dai giusti - e in minor misura dal crea­
to sotto il potere del male - e la violenza riparatrice, liberatrice e pu­
nitiva di Dio contro il male e i malvagi.

Creato e violenza
In sintonia con le rappresentazioni apocalittiche, Paolo sottolinea
ripetutamente la sua comprensione del mondo e dell'esistenza del giu­
sto come posti di fronte alla violenza delle potenze del male che ope­
rano in esso. Il testo di Rm 8 , 1 8-23 lo afferma chiaramente:
Ritengo infatti che le sofferenze (m =fhiJla-ra) del tempo presente non
siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L'ardente
aspettativa della creazione, infatti. è protesa verso la rivelazione dei fi­
gli di Dio. La creazione infatti, abbandonata al potere del nulla ( n'j J.la­
WIO'I'IJ'rl) , non per sua volontà, ma per volontà di colui che l'ha abban­
donata, conserva la speranza, perché anch'essa sarà liberata dalla
schiavitù della corruzione (ano � liovkiac; n'jc; ;8opiic;) per aver parte al-

1 8 Cf. 1Enoch 7 1 , 1 5 ; 4Esd 7,50. 1 1 2 . 1 19: 2Bar 44,8- 1 5 ; 83,4-9. Su questo punto cf.
M.C. DE BoER, «Pau! and Jewish Apocalyptic Eschatology», in J. MA!tcus - M . L. SOARos
(edd.), Apocalyptic and the New Testament. Essays in Honor of J. Louis Martyn, Aca­
demic Press, Sheffield 1 989, 169- 1 90, cf. 1 72ss (con le note).

102
la libertà e alla gloria dei figli di Dio . Sappiamo infatti che tutta insieme
la creazione geme (O'llaiE vaçet) ora ancora nelle doglie del parto (avvw-
6ivet). Essa non è sola: anche noi, che possediamo le primizie dello Spi­
rito, gemiamo (mEvaçoJLev) interiormente aspettando l'adozione a figli,
la redenzione del nostro corpo.

Il vocabolario è molto espressivo: oppressione, sofferenza, potere


del nulla, schiavitù, doglie del parto, gemiti, liberazione. È la violenza
dell'oppressione e del male che subiscono il creato e le creature.

Violenza di Dio
Per Paolo il mondo è uno spazio infestato da violenza, male, soffe­
renza, morte, ma questa situazione non durerà. Essa sfocerà nel giu­
dizio di Dio , che suppone una violenza retributiva, non solo sulle po­
tenze del male (Rm 1 6 , 20: «Il Dio della pace schiaccerà - ovvrpivre1 -
ben presto Satana sotto i vostri piedi»), ma anche su coloro che, rifiu­
tandosi di obbedire alla Legge di Dio, partecipano a questo disordine
del mondo . Su quest'ultimo aspetto è particolarmente espressivo un al­
tro passo della Lettera ai Romani:
Con la tua ostinazione, perché il tuo cuore si rifiuta di cambiare radi­
calmente, tu accumuli un tesoro di collera ( lhJaavpiçeiç op rJj v) per il gior­
no della collera (opyiiç} e della rivelazione del giusto giudizio (6urawiC'pt­
uiaç) di Dio, e collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del
giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere : la
vita eterna a coloro che, con la loro perseveranza in un'opera buona,
cercano gloria, onore, incorruttibilità; collera e furore (opm IC'aì llvJLOç)
contro coloro che, per ambizione personale, sono refrattari alla verità e
si lasciano persuadere per l'ingiustizia. Tribolazione e angoscia (9,1.iljll ç;
IC'aì mEvoxwpia) per ogni uomo che produce il male, per il Giudeo, pri­
ma, ma anche per il Greco. Gloria invece, onore e pace per chi opera il
bene, per il Giudeo, prima, ma anche per il Greco. Dio infatti non fa pre­
ferenza di persone (Rm 2 , 5 - 1 1 ) .

È stato dimostrato19 che la messa in scena della collera e del giu­


dizio di Dio sono al servizio della retorica paolina: si tratta di elimina­
re il privilegio dei giudei in materia di posizione davanti a Dio e di di­
fendere la buona novella del vangelo della giustificazione indistinta-

19 J .-N. Aurrn , «Rétribution et jugement de Dieu en Rm 1-3», in Didaskalia


36(2006), 47-63.

1 03
mente per tutti. Sia come sia, è evidente che la lotta contro la violenza
suppone una violenza di ritorno: Il Dio di Paolo non può lasciare im­
punito né il male che distrugge il creato né coloro che si compiacciono
nello stesso. In sintonia con il pensiero apocalittico, la manifestazione
della giustizia di Dio è sinonimo di lotta. Non c'è continuità, ma rottu­
ra, e rottura violenta, rispetto al vecchio ordine delle cose.

Salvati dalla collera


Questa violenza divina promessa al male e ai suoi servi deve esse­
·re posta in parallelo con la salvezza dei giusti che sfuggiranno alla col­
lera. Questo motivo è molto ben documentato in Paolo :
1 Ts 1 , 10: « . . . e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai
morti, Gesù, il quale ci libera dall'ira che viene ( rov p�vov !jpàç El<" Tijç
6pyijç Tijç ÉPJ('lOI!iVllc;)» .
1 Ts 5, 9 «Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira (ovk" iBero !jpàç o 6eòç
eiç op}'!Ìv) , ma a ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù
Cristo».
Gal 1 , 4: «Al fine di strapparci da questo mondo malvagio (EçeÀijmt !jpàç
El<" rov aiwvoç rov EveOTCiìroç n:oVflpofi) » .
Rm 5,9-10: «A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue (Ev fiji
aiJlan avrou), saremo salvati dall'ira per mezzo di lui (arofhJcrOJlE8a oi al)o
rou Wrò Tijç opy!jç)! Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati ricon­
ciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che
siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita».

Questi testi, in sintonia con la tradizione apocalittica, presentano


l'intervento di Dio come finalizzato a preservare i suoi eletti dalla col­
lera futura. La cosmologia di Paolo fa affidamento su uno sfondo apo­
calittico : il mondo è in potere del male , subisce la violenza dell'ingiu­
stizia e delle sofferenze causate dalle potenze. Di rimando, il Dio di
Paolo è al tempo stesso il Dio dell'Antico Testamento e il Dio dell'apo­
calittica: Dio che libera il suo popolo dall'oppressione, dall'ingiustizia
e dal . male. Questo suppone una lotta violenta.

La specificità paolina è evidentemente il costante riferimento a Cri­


sto , l' agente che permette di sfuggire alla collera. Nell'ultimo testo (Rm
5,9- 1 0), è significativa la parte di violenza che contiene l'atto stesso
mediante il quale Cristo evita la collera agli eletti: «per il suo sangue»
(sottinteso: sparso dalla violenza del sacrificio) «per mezzo della sua
morte» (sottinteso: la morte violenta della croce) . Ora devo approfon­
dire questo punto , perché, in Paolo, assume un posto centrale nell'e­
laborazione teologica: infatti la violenza della croce subita dall'inviato

104
di Dio diventa la chiave della sua soteriologia. La cristologia opera un
primo decentramento : è la morte violenta dell'inviato di Dio a essere
fonte di vittoria e non la morte che egli fa subire ai suoi avversari, che
viene riportata nel futuro della sua manifestazione finale .

Dal Dio violento al Dio violentato

LA VIOLENZA DELLA CROCE


n tema d.ella crocifissione di Gesù occupa, come è noto, un posto cen­
trale nel pensiero di Paolo. Ma non si sottolinea abbastanza quanto que­
sto motivo sia intriso di violenza. Duemila anni di cristianesimo ci han­
no fatto perdere di vista l'enorme violenza di questa punizione, cui ave­
va diritto di sfuggire ogni cittadino romano condannato a morte.20 Vio­
lenza legale, politica, giudiziaria. Ma anche violenza religiosa, anch'es­
sa molto ben documentata in Paolo . Ecco .alcuni testi chiave al riguardo:
Rm 3 , 2 5 : «È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di
espiazione (Uaanjpwv) per mezzo della fede, nel suo sangue».
Rm 8 , 3 2 : «Egli, che non ha risparmiato (oti�r é�iaaro) il proprio Figlio,
ma lo ha consegnato (tcapè&o�rev avrov) per tutti noi».
Fil 2 , 8 : «Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una
morte di croce (timj�rooç llÈJCPI 9at)cirov 9at)cirov liè omvpoil)».
Gal 3 , 1 : «0 stolti Galati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei
quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso (ÌTJ(roilç Xpunòç rrpoe­
� ÉO'WVfXJJIIÉ VOç) ?» .
Gal 3 , 1 3 : «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge (é�r rijç �ra­
'flipaç roil vO)lov), diventando lui stesso maledizione ( �rampa) per noi, poi­
ché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno (ém�ra'fliparoç 1Wç o �rpe­
)lci)lEvoç élrì çu.Wv)».
Gal 6 , 1 4: «Quanto a me invece non vi sia altro vanto che nella croce del
Signore nostro (év 1lji omvptjj roil �rvpiov tllllivi ) Gesù Cristo».
l Cor 1 , 1 8- 1 9 , 2 3 : «La parola della croce ( o Myoç yàp roil omvpoV) infat­
ti è stoltezza per coloro che si perdono, ma per quelli che si salvano, os­
sia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: "Distruggerò (citroA.Iii) la
sapienza dei sapienti e annullerò (ci6enjçco) l'intelligenza degli intelli­
genti" [ . . . ] noi invece annunciamo Cristo crocifisso (Xprcmiv éomvpi4!É­
vov), scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani».

20 Sul supplizio deUa crocifissione., d. M. HENGEL, La crucifu:ion, Cerf, Paris 198 1 .

1 05
l Cor 2 , 2 : «lo ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso (ecnavp(I)JlÉvov)».

La violenza della crocifissione subita da Gesù è come costitutiva


dell'atto di salvezza. Cosa ancor più sorprendente, in 1 Cor 1 , 2 3 , la cro­
cifissione non è solo violenza subita, ma anche, paradossalmente, vio­
lenza che Dio fa subire alla sapienza umana: «Io distruggerò la sa­
pienza dei sapienti e annienterò l'intelligenza degli intelligenti». L'ap­
parente sconfitta della croce viene reinterpretata nelle categorie di una
forza, di una violenza («distruggere» e «annientare») che capovolge la
logica e la sapienza umane. Là dove la logica umana legge la sconfitta
umiliante, lo sguardo della fede invita a leggere la vittoria di Dio . Là
dove la violenza legale segna la squalifica di Gesù, lo sguardo della fe­
de legge il rovesciamento delle potenze orgogliose. Colui che subisce la
morte è vittorioso. No: la vittima è innocente, ma piuttosto: la vittima
è vittoriosa, l'umiliato è glorificato, il debole è forte, forte di una forza
paradossale, diversa dalla forza fisica e brutale fonte di violenza. La
violenza è vinta dal più «forte» di essa, il Crocifisso.
Che cosa permette di fare un'affermazione così sorprendente? È la
morte e la risurrezione di Cristo a causare questa sconfitta della mor­
te. La violenza mortale della croce si ritorce contro se stessa grazie al­
la volontà di Dio di risuscitare Cristo. La battaglia da ingaggiare con­
tro la violenza del nemico è la risurrezione che ne segna l'inizio: Dio
«ha rialzato» Gesù dai morti. Ecco , in un certo senso, la «violenza» del­
la vita contro la violenza della croce. Perché parlare qui di violenza?
Perché anche il linguaggio della risurrezione assume accenti di vitto­
ria militare, come ora mostrerò .

UNA CRISTOLOGIA VIOLENTA?

Infatti questa vittoria nel cuore stesso della sconfitta, questa vio­
lenza paradossale (colui che la subisce firma per ciò stesso la sconfit­
ta del mondo) si prolunga, in modo piuttosto tradizionale, nell' attesa
di una manifestazione finale, nella quale la cristologia assumerà ac­
centi di guerra:
l Cor 1 5 ,24-26: «Egli consegnerà il regno (njv fkrm.l.eiav) a Dio Padre, do­
po aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza (mmpY7Jt;fl
nauav apXJiv K"aì naaav tçovaiav mi 6vvaJLtv}. È necessario infatti che egli
regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi (<lxpt où 9ff
navmç roùç ex8poliç VIrò roùç n66aç avroV}. L'ultimo nemico a essere an-

106
nientato (ÉOV!Qmç ez9pòç mmpyeifad è la morte, perché ogni cosa ha
posto sotto i suoi piedi».
1 Cor 1 5 , 5 4 - 5 5 : «La morte è stata inghiottita nella vittoria (rmremSBrJ 6 96-
varoç eiç viK"oç). Dov'è, o morte, la tua vittoria (ro viK"oç)? Dov'è, o morte,
il tuo pungiglione ( ro K"EVIpOv)?».
Fil 2 , 1 0: «Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi (nav yovv
raiplf/11.) • • • ».
Si è così ritornati classicamente alla rappresentazione apocalittica
tradizionale? Certamente. Ma allora vale la pena sottolineare - e que­
sto vale evidentemente per i testi ebraici - che le rappresentazioni apo­
calittiche dipendono dalla dimensione linguistica dell'esperienza uma­
na. Si tratta cioè di una vittoria che dipende dalla credenza del cre­
dente. La violenza che essa contiene dipende dalla proclamazione non
dalla messa in pratica! La parola sostituisce la violenza in atti. La com­
prensione di sé proposta da Paolo fa affidamento su una comprensio­
ne di Dio che è cambiata: Il Dio che pratica la violenza indubbiamen­
te rimane, ma è anche il Dio che l'ha subita attraverso il suo inviato.
Del resto , è Dio stesso che «non ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm
8, 32), che lo ha consegnato alla violenza. Questa violenza praticata è,
in definitiva, violenza subita da Dio stesso. C'è un capovolgimento : Dio
dona il suo figlio, perché subisca la violenza della croce. E questa mor­
te subita diventa una violenza fatta alla violenza in due modi: da una
parte, Dio rialza Gesù dai morti e il linguaggio è allora quello della vit­
toria sulla morte; dall'altra, la vittoria è mediata dalla parola procla­
mata, in attesa di un'eventuale manifestazione finale.

LA VIOLENZA BLOCCATA
La violenza fisica è ormai spostata in tre modi complementari: dal­
la temporalità, dal linguaggio, e dalla riflessione teologica.

LA TEMPORALITÀ CONTRO lA VIOLENZA21

Paolo riprende lo schema apocalittico, ma è indotto a renderlo più


complesso, soprattutto a differire il giudizio. Così il regno di Dio assu-

21 Sulla più ampia questione della temporalità in Paolo, cf. É. C!MLUER, «La tempo­
ralité chez Pau!», in A. DETIWILER - J.-D. KAEsru - D. MARGUERAT (edd.), Paul. Une théolo­
gie en construction, Labor et Fides, Genève 2004, 2 1 5-224.

107
me un'altra forma: essendo differito nella sua manifestazione concre­
ta, è interiorizzato e passa attraverso la proclamazione della salvezza:
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza»
(2Cor 6,2). Le categorie apocalittiche riprese da Paolo vengono rein­
terpretate mediante l'evento cristologico: è «nel tempo presente» (Rm
3 , 26) che la giustizia di Dio è manifestata, ma si tratta di una giustizia
paradossale, perché si mostra nella morte di un crocifisso. Per la Let­
tera ai Galati, che pure sviluppa il linguaggio della giustificazione, l'in­
vio del figlio alla <<pienezza del tempo» (Gal 4,4), e più precisamente la
morte di Gesù, è sinonimo per il credente non solo di giustificazione,
ma anche di «sottrazione a questo mondo malvagio» (Gal 1 ,4), di «cro­
cifissione» del mondo (Gal 6 , 1 4) e di «nuova creazione» (Kat V!Ì Krimç,
Gal 6 , 1 5). Nella Prima lettera ai Corinti, Paolo usa un altro linguaggio,
ma l'idea è fondamentalmente la stessa: la croce contesta il «ragiona­
tora di questo mondo» (l Cor 1 , 20), perché la sapienza paradossale che
essa mostra non è di questo mondo e nessun principe di questo mon­
do l'ha conosciuta (2,6-8). Essa è anche potenza di Dio per la salvezza
del credente (1 , 1 8 . 24). La conseguenza viene tratta nella Seco nda let­
tera ai Corinti, in un linguaggio che concorda con quello della Lettera
ai Galati: la morte di Cristo significa la fine delle «cose antiche», la
«nuova creazione» e l'inizio di una «realtà nuova» (cf. 2Cor 5 , 1 7) . Co­
sì il presente viene riqualificato, perché è ormai «momento favorevole
(Katpòç eintp6a&noç), giorno della salvezza» (2Cor 6,2).
Colta mediante la fede, questa nuova comprensione dell'esistenza
permette al credente di compre ndersi in modo nuovo nel cuore del mon­
do antico. Questa nuova comprensione trova il suo fondamento nella
proclamazione della croce come rivelazione paradossale di Dio (l Cor
1 , 1 8-25):22 Essa introduce nel cuore del mondo una realtà che non è per­
capibile da parte di quest'ultimo e ne costituisce, per il credente, sia
un'interpretazione sia una contestazione. C'è, in nome dello sguardo del­
la fede, una battaglia condotta contro il vecchio mondo - siamo in piena
apocalittica - ma la violenza viene differita. Diventa linguaggio della pro­
clamazione nell'esistenza compresa come esistenza «fra due epifanie».23

22 Sulla teologia della croce, cf. J . ZusMTEIN, «Paul et la théologie de la croiX», in Étu­
des Théologiques et Religieuses 76(200 1), 4 8 1 -496.
23 [;espressione è presa da Y. RF:oAUe, Paul après_ Pau/, Labor et " Fides, Genève
1 994. 1 7 4 .

1 08
LA «PAROLA» COME VIOLENZA FATTA ALLA VIOLENZA

Ormai la violenza è mediata dal linguaggio. Infatti Paolo esprime la


sua «battaglia» per la verità del vangelo con un linguaggio marziale:
In realtà, pur essendo uomini, noi non combattiamo in modo puramen­
te umano. No, le armi della nostra battaglia non sono di origine umana,
ma la loro potenza viene da Dio per la distruzione delle fortezze. Noi di­
struggiamo i ragionamenti pretenziosi e ogni potenza arrogante che si
leva contro la conoscenza di Dio . Noi facciamo prigioniera ogni cono­
scenza per condurla a obbedire a Cristo (2Cor 1 0,3-5).

LUNIVERSALISMO . CONTRO LA VIOLENZA

Sul piano teologico, il capovolgimento che fa di Paolo un discepolo


di Cristo è anche un'apertura all'universalità della salvezza («quando
Dio si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annuncias­
si in mezzo alle genti»: Gal 1 , 1 5). La conseguenza è un cambiamento
anche sul piano religioso : l'impuro non è più rifiutato, è riconciliato.
Nella «pace» con Dio (un tema importante in Paolo : Rm 5 , 1 ; 26 occor­
renze nelle lettere autentiche; 1 5 nelle deutero-paoline; in tutto 4 1 ; 3 1
nei quattro vangeli; 1 6 nel resto del NT). Dio è un Dio d i pace e di in­
clusione e non più di violenza e di esclusione (pur trattandosi di un uni­
versalismo che può essere definito «selettivo»).

La violenza del credente

VIOLENZA DEL «PERSECUTORE»

Qui mi interessa il modo in cui Paolo vede, a posteriori, la sua espe­


rienza. Questo sguardo non costituisce in alcun modo la descrizione del
cammino religioso di un ebreo del I secolo ! Ci offre piuttosto la com­
prensione che Paolo aveva di se stesso come credente , «pieno di zelo»
per la «tradizione dei suoi padri». Qui la ricerca riguarda la testimo­
nianza personale di Paolo che ripetutamente, ripresa, del resto , dal­
l'autore degli Atti, si presenta come un «persecutore>> della Chiesa:
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel
giudaismo: perseguitavo ferocemente la chiesa di Dio e la devastavo, su­
perando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazio-

1 09
nali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri (Gal l , l 3- 1 5 ;
cf. Fil 3,7; l Cor 1 5 ,9}.

Si comparerà con ciò che scrive Filone di Alessandria nel De spe­


cialibus legibus 2 , 54-57 {cf. anche 2 ,252-2 54):
Se [ . . . ) dei membri della nazione abbandonano il culto dell'Unico, per
l'abbandono dei ranghi più importanti, quelli della pietà e della fede, de­
vono essere pWliti con le pene più severe, perché preferiscono l'oscuri­
tà alla luce più splendente, accecano uno spirito capace di una visione
penetrante. Ed è legittimo autorizzare tutti coloro che sono pieni di ze­
lo (zh 'lo n} per la virtù ad applicare queste pene immediatamente e sul
campo, senza tradurre i colpevoli davanti a Wl tribWlale, un consiglio o
W1R qualsiasi autorità. Essi possono dare libero sfogo a quest'odio del
male , a quest' amore di Dio che li spinge a punire inesorabilmente gli
empi, ritenendo che in questo caso essi sono al tempo stesso consiglie­
ri, giudici, magistrati, membri dell'assemblea, accusatori, testimoni, leg­
ge, popolo, cosicché, non essendo ostacolati da nulla, possono senza ti­
more, in tutta impWlità, condurre la battaglia della fede.

Occorre analizzare questo concetto di «zelo» . Qui seguo la ricerca


di Torrey Seland che analizza la testimonianza di Paolo in Gal 1 , 1 3- 1 4
alla luce degli scritti d i Filone {cf. Spec 1 , 54 - 57 e 2 , 252-254).24 Secon­
do Seland, lo «zelo» per Dio e per la Torah non rinvia direttamente al
partito degli zeloti, ma a persone che si sentono inviate in missione per
difendere la Legge fino all'uso della violenza fisica verso coloro che
considerano bestemmiatori. Il modello centrale per tutti questi «zelo­
ti» è Pinchas {Nm 25), che uccide un israelita e la donna madianita che
voleva possedere: eliminazione degli ebrei trasgressori della Legge e
distruzione dei pagani che sviano Israele. Si può pensare anche al pro­
feta Elia che uccide i sacerdoti di Baal. Il concetto di «zelo» deve esse­
re inteso nel senso di una forma violenta di intolleranza religiosa che
affonda le radici nell'epoca dei Maccabei. Essa è anzitutto diretta con­
tro i correligionari. Il Paolo «precristiano» appartiene certamente a
una frangia farisaica radicale che pratica questa forma di violenza re­
ligiosa. Come fariseo si riteneva certamente un Pinchas, pieno di zelo
per la Legge fino a ricorrere alla violenza fisica contro coloro che con­
siderava bestemmiatori, idolatri, falsi profeti, che conducevano il po-

z• T. SELAND, «Saul of Tarsus and Early Zealotism. Reading Gal 1 , 1 3- 1 4 in Ught of


Philo's Writing», in Biblica 83(2002), 449-47 1 .

110
polo all'apostasia (tutte cose di cui si potevano accusare certi discepo­
li di Gesù) . In questo contesto , la persecuzione che Paolo pratica con­
tro i giudeo(-cristiani) non ha solo un significato morale. Essa rappre­
senta probabilmente qualcosa di più di una dura polemica o di una
molestia verbale, ma comprende senza dubbio misure violente per «di­
struggere» la fede degli avversari. Pur mancando di prove per affer­
mare che perseguitasse «fino alla morte» (At 22 ,4), non dobbiamo sot­
tovalutare la natura violenta di queste persecuzioni. In ogni caso, il te­
sto di Filone suggerisce che persone che commettevano gravi «crimi­
ni» come idolatria, apostasia, spergiuro, potevano essere aggredite fi­
sicamente da «zeloti» violenti. Senza dubbio , Saulo , il fariseo «zelan­
te», riteneva che i primi cristiani (giudeo-cristiani aperti ai pagani) co­
stituissero un pericolo reale per l'integrità di Israele e, proprio per que­
sto , cercava di «distruggerli» .
Paolo presenta i l suo percorso come u n capovolgimento, u n cam­
biamento di identità. In questo quadro, passa da una violenza inferta
a una violenza subita . Da persecutore diventa perseguitato, da carce­
riere prigioniero : vedere l'immagine che offre di se stesso nella Lette­
ra ai Filippesi. Il modo in cui interpreta il suo percorso indica che or­
mai comprende lo zelo religioso come una violenza contro Dio stesso
o il suo inviato e i suoi discepoli (cosa che Luca esprimerà sul piano
narrativo con il celebre «sono io, Cristo , che tu perseguiti»). È degno
di nota il fatto che una volta passato dalla parte dei perseguitati, Pao­
lo abbandona ogni forma di coercizione fisica contro i suoi avversari.
Come spiegare questo cambiamento? La mia ipotesi è la seguente :
la violenza subita da Cristo ha fatto scoprire a Paolo la perversione del
suo zelo per la Legge. La violenza fisica «cessa» per il fatto di aver col­
pito «il giusto» in persona. Paolo passa allora dallo «zelo» per la Leg­
ge allo «zelo» per la buona novella di un crocifisso, di un perseguitato
a causa della Legge . Ma allora non può più esservi violenza contro co­
loro che rifiutano o bestemmiano questo giusto. La violenza viene rin­
viata a Dio, non è più spettacolare, ma è ormai mediata da un terzo,
Dio, colui che ha accettato di donare il suo Figlio perché subisse la vio­
lenza degli uomini. Si realizza uno spostamento , un acquietamento del­
la pulsione di violenza fisica contro gli avversari. Ciò significa che Pao­
lo ha chiuso con la violenza fatta ad altri? Non è così semplice.

111
VIOLENZA o 'APOSTOW

Troviamo in Paolo un linguaggio aggressivo contro gli avversari o


contro i suoi destinatari quando considera riprovevole la loro condotta:
- «Stolti Galati» (Gal 3 , 1 ) :
- «Guardatevi dai cani, guardatevi dai "mal mutilati"» (Fil 3 , 2)
- « . . . perché anche voi avete sofferto le stesse cose da parte dei vostri
connazionali, come loro fie comunità di Giudea) da parte dei Giudei; es­
si che hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi,
non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impediscono a noi
di predicare ai pagani perché possano essere salvati e in tal modo essi
colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l'ira è
giunta al colmo» ( 1 Ts 2 , 1 4- 1 6) .

In questi testi Paolo si dimostra u n uomo a l servizio della verità del


vangelo . A volte anche un uomo con un'immagine di se stesso e un
narcisismo feriti: il discorso «folle» di 2Cor l 0-1 3 non è privo di una
violenza che si potrebbe quasi accostare a una violenza «passionale».
Paolo ferito nel suo amor proprio può diventare violento nelle sue af­
fermazioni (la «fine» degli avversari sarà «secondo le loro opere» : 2Cor
1 1 , 1 5) e persino minacciare rappresaglie («pronti a punire qualsiasi
disobbedienza» 2Cor 10,6; «non perdonerò» 2Cor 1 3 , 2 ; «per non do­
vere poi agire severamente» 2Cor 1 3 , 1 0) .
Ma l a violenza n o n è più fisica. È a livello del linguaggio. Promes­
sa, minaccia, delusione, ferita narcisistica Un punto essenziale: Paolo
.

non è più lo strumento, il braccio armato della violenza divina. Essa


passa attraverso la parola.
Excursus: a proposito di 1Ts 2 , 1 4- 1 6
n passo appartiene all'azione d i grazie in cui l'apostolo fa l'elogi o del­
l'accoglienza del Vangelo, dimostrata dai Tessalonicesi ( 1 , 2- 1 0 ; 2 , 1 3).25
I: essenziale per lui è sottolineare la perseveranza dei nuovi convertiti a
Tessalonica nelle molteplici prove cui sono esposti. In questo contesto,
Paolo ricorda la sofferenza delle comunità giudeo-cristiane della Pale­
stina a causa della continua ostilità dei giudei. Ma chi sono questi giu­
dei? Stando alle stesse affermazioni di Paolo, essi sono caratterizzati

25 A volte si è considerato questo passo una glossa introdotta in un secondo mo­


mento, dopo il 70, nel corpo della lettera, ma quest'ipotesi non è avvalorata da alcun
elemento testuale.

1 12
dalla partecipazione attiva all'uccisione di Gesù e dei profeti (Paolo pen­
sa certamente a profeti cristiani), dalla persecuzione di Paolo e dei suoi
collaboratori, dal divieto della missione presso i pagani. Questi atti chia­
ramente indicati mostrano che non si tratta dell'intero popolo ebraico,
ma dei suoi responsabili religiosi (il sinedrio e forse anche i capi delle
sinagoghe) che avevano la competenza di deferire Gesù alle autorità ro­
mane e che, come faceva Paolo prima della sua conversione, cercavano
in tutti i modi di escludere dalle sinagoghe quei giudeo-cristiani che era­
no favorevoli a un'apertura ai pagani. La designazione «nemici di tutti
gli uomini» (v. 1 5), che purtroppo ha fatto fortuna nella storia dell'occi­
dente cristiano (ma che è un luogo comune anteriore a Paolo), nonché
l'allusione secondo cui «non piacciono a Dio» (v. 1 5) devono essere com­
prese in questo quadro specifico e non possono essere intese né come
lo sguardo di Paolo sui suoi compatrioti (in questo caso, non si com­
prenderebbe come potrebbe, lui stesso ebreo , redigere in seguito i ca­
pitoli 9-1 1 della Lettera ai Romani!} né, a fortiori, come una descrizio­
ne dell'ebreo di tutti i tempi e di tutti i luoghi! La menzione dei loro pec­
cati (v. 1 6b) e della manifestazione definitiva della collera di Dio su di
loro (v. 1 6c) deve essere interpretata come un'allusione al rifiuto violento
e omicida dei responsabili religiosi e non come un riferimento ad avve­
nimenti storici, quali l' espulsione dei giudei da Roma da parte di Clau­
dio o la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 o nel
1 3 5 d . C . Checché si pensi di queste affermazioni di Paolo appartenenti
al registro della retorica di controversia, esse riguardano le autorità re­
ligiose del giudaismo del suo tempo, in quanto responsabili, a suo avvi­
so, della morte di Gesù e contrari all'evangelizzazione dei pagani (come
faceva lui stesso quando era fariseo) . Non riguardano i giudei in quan­
to tali, per cui questo testo è privo di qualsiasi connotazione razziale.

IL CREDENTE E LA VIOLENZA

Ora devo mostrare come Paolo invita le comunità cui si rivolge a si­
tuarsi nel mondo e di fronte alla violenza onnipresente. Mi sembra che
si possano individuare tre orientamenti che propongono un modo di­
verso di comprendere se stessi nel mondo.

a) «Crocifisso con» Cristo


L'esperienza della salvezza passa attraverso una morte violenta a

se stessi e a questo mondo.


Rm 6,6: «Lo sappiamo. l'uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con
lui affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fos­
simo più schiavi del peccato».
Rm 6,7: «Infatti chi è morto, è liberato dal peccato».

1 13
Gal 2 , 1 9 : «In realtà, mediante la Legge io sono morto alla Legge, affin­
ché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo».
Gal 5 , 24: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con
le sue passioni e i suoi desideri».
Gal 6 , 1 4 : «Quanto a me invece non vi sia altro vanto che nella croce del
Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è sta­
to crocifisso, come io per il mondo» .

b) Violenza subita nella fiducia e nella gioia


Rm 8,35-37: «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazio­
ne, l' angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, sia­
mo considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi sia­
mo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» .
2 C o r 1 2 , 1 0 : «Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze , negli oltraggi,
nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: in­
fatti quando sono debole, è allora che sono forte».

Violenza della vittima? Ascoltiamo al riguardo Nietzsche, con il


quale Jean-Daniel Causse dialogherà più a lungo nel capitolo seguen­
te: «l sofferenti sono tutti spaventosamente solleciti e ingegnosi nel tro­
vare pretesti per dolorose passioni; assaporano già il loro sospetto , il
lambiccarsi su scelleratezze e apparenti nocumenti, grufolano nei vizi
del loro passato e del loro presente alla ricerca di cupe problematiche
storie, dove sono liberi di crogiolarsi in una tormentosa diffidenza e di
inebriarsi del loro veleno di malvagità - strappano le bende alle più an­
tiche piaghe; da cicatrici risanate da molto tempo spremono il sangue
fino a morirne».26 In Paolo, questa violenza subita non offre alcun pre­
testo per il risentimento , ma piuttosto un'occasione per un decentra­
mento da sé. Qui la Lettera ai Filippesi può indicare una strada per
l'interpretazione di questo decentramento attraverso il motivo della
«gioia», ricorrente nella lettera ( 1 6 occorrenze del verbo xaipru e cruv­
xaipru e del sostantivo xapri: 1 .4 . 1 86i•; 1 . 2 5 ; 2 , 2 ; 2 , 1 7- 1 84xa; 2 , 2 8 . 29;
3 , 1 ; 4, 1 ; 4 ,46is; 4 , 1 0). «Stare saldi» e «combattere» (1 . 2 7 e 4,3) è la­
sciare che la propria esistenza sia spostata da una nuova comprensio­
ne di Dio, di se stessi e degli altri, sull'esempio del percorso di abbas­
samento di Cristo. Se si tratta di «soffrire» per Cristo ( 1 , 29), questa co-

26 F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Adelphi Edizioni, Milano 2006, § 15, 122.

1 14
munione alle sofferenze di Cristo (3 , 1 0), lungi dall'essere sinonimo di
ripiegamento, decentra da se stessi e apre sugli altri: qui risiede la fon­
te della vera gioia che sperimenta Paolo (cf. 2 , 1 7 - 1 8) .

c) Spostamento della collera: «Date un luogo all'ira»


Rm 1 2 , 1 4-2 1 : «Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non ma­
ledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli
che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli al­
tri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umi­
le. Non stimatevi sapienti da voi stessi.
Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene da­
vanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in
pace con tutti. Non vendicatevi da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare
all'ira divina (lett.: date un luogo alla collera [li.Uà &5-re rotrov f!i Opyffl ) , poi­
ché sta scritto: A me la vendetta, 27 sono io che retribuirò, dice il Signo­
re. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete,
dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra
il suo capo. Non !asciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene».

È opportuno dare un luogo alla collera dei credenti e questo luogo


è Dio stesso. La conseguenza è quindi l'abbandono della legge del ta­
glione, un'etica personale vicina al discorso della montagna e, d'altra
parte, al tempo stesso , una sottomissione alla morale comune che re­
gola la violenza con la legge (di cui la violenza fa parte : cf. Rm 1 3) . Per
il resto , il programma è chiaramente indicato nel passo di Rm 1 3 (cf.
anche Rm 1 4 , 1 9 : «cerchiamo dunque ciò che porta alla pace»).

L'EREDITÀ PAOLINA (EF 2 , 1 3- 1 7)

Ef 2 , 1 3 - 1 7 : «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lon­


tani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la no­
stra pace; di ciò che era diviso, egli ha fatto un'unità. Nella sua carne,
ha abbattuto il muro di separazione: l'odio. Così egli ha abolito la Leg­
ge e i suoi comandamenti con le loro osservanze. Ha voluto così, a par­
tire dal Giudeo e dal pagano, creare in se stesso un solo uomo nuovo,
facendo la pace, e riconciliarli con Dio tutti e due in un solo corpo, per
mezzo della croce ; lì egli ha ucciso l'odio. Egli è venuto ad annunciare
pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini».

27 La BJ e la Nouvelle Segond preferiscono «fare giustizia» a «Vendicarsi» per ren­


dere il verbo greco i�<o<.-eiv.

1 15
In questo passo c'è una sorta di sintesi del percorso teologico che
mi è sembrato di scoprire in Paolo riguardo alla violenza religiosa e al
suo spostamento verso la pacificazione. La morte violenta di Cristo ri­
concilia con Dio. Questa morte distrugge il muro di separazione che co­
struisce la Legge: è grazie alla fine della Legge che nasce un solo uo­
mo pacificato (l'universalismo contro il particolarismo). La croce è una
battaglia violenta contro l'odio. Una battaglia nella quale colui che è
violentato «uccide» l'odio. Da questa battaglia nasce un uomo che è
unificato e vive nella pace (qui si ritrova il fondamento dell'etica pao­
lina) . Tutto questo dipende dalla proclamazione pasquale e fonda l'es­
sere al mondo del credente.

Conclusione

Saulo il fariseo, appartenente a un gruppo integralista, è struttura­


to su un pensiero apocalittico (quello dei due eoni) , nel quale non man­
ca la violenza. In un certo senso, il pensiero dei due eoni rende neces­
saria la violenza. La si ritrova nell'espressione cristiana dell' avveni­
mento della salvezza. Ma l'evento Cristo modifica la struttura apoca­
littica in due modi. A livello della temporalità e al livello stesso della
relazione con la violenza, non più anzitutto inflitta ma accettata.
La temporalità paolina (reinterpretazione dell'apocalittica) introdu­
ce uno spazio, una dilatazione del tempo, che è sinonimo di posizione
a distanza, quindi di pacificazione, di spostamento delle pulsioni pri­
marie. Essa permette di lasciare uno spazio a qualcosa di diverso dal­
la collera pulsionale. Diventa sorgente di vita possibile.
La parte di violenza che comprende questa predicazione della buo­
na novella è una violenza fatta alla violenza: da una parte, essa pone
dei limiti alla hybris umana e alla hybris divina nella figura di un Cri­
sto crocifisso e, dall'altra, sul versante dei credenti, attraverso l'accet­
tazione di una regolamentazione della violenza mediante la legge co­
mune degli uomini.
Il giudizio non viene cancellato, ma la volontà di salvezza diventa più
pressante e si allontana un po' il «giorno della collera di YHWH» per fa­
re posto alla volontà di riconciliazione. Paradossalmente, questo non av­
viene senza sofferenza, ma passa attraverso una violenza fatta alle im­
·magini abituali di Dio. Per i successori di Paolo , e per il cristianesimo,
la cosa non è mai stato ovvia. E il percorso paolino deve essere sempre

116
ripreso. È la battaglia di tutta una vita che può sperare di sfociare su
una salvezza finale, i cui accenti di guerra sempre presenti non sono or­
mai più prioritariamente al servizio del giudizio degli empi, bensì al ser­
vizio della proclamazione a «tutte le nazioni» (2Tm 4,6- 18).

UNA VIOLENZA POSITIVA?

È praticamente impossibile immaginare di inserire la violenza in


un elenco delle virtù. Ma, prima di considerare la violenza sul piano
morale, bisogna considerarla anzitutto un dato fondamentale dell'esi­
stenza. E al termine di questo percorso sorge spontanea questa do­
manda: la violenza è sempre necessariamente negativa? Mi sembra
possibile, prudentemente, rispondere di «no» a questa difficile do­
manda. E il percorso attorno a Paolo indica almeno due direzioni di
una violenza «positiva».
l) La violenza delle parole può essere l'espressione di uno sposta­
mento della violenza. Essa non si traduce in atti, ma si presenta come
una denuncia della violenza. Ne costituisce la sovversione. Il linguag­
gio edulcorato di una certa forma di cristianesimo, !ungi dal lottare ef­
ficacemente contro la violenza del male, non apre forse la porta al suo
dilagare senza limiti?
2) La violenza della vita contro la violenza della morte (quest'ultima
può indossare evidentemente la maschera della Legge e della religione).
Questa violenza della vita non è la potenza di Dio che risuscita Gesù dai
morti e costituisce, in Paolo, una violenza fatta alla violenza della morte?

Gesù alle prese con la violenza nel Vangelo di Matteo28

I lettori del primo vangelo conoscono questa sorprendente parola di


Gesù: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli su­
bisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 1 1 , 1 2).29 Ricorda-

2 8 Una prima versione di questo capitolo ha già dato luogo a una pubblicazione; cf.
É. CUVILUER, «Jésus aux prises avec la violence dans l'évangile de MatthieU», in Études
Théologiques et Religieuses 74(1 999), 335-349.
29 Un passo parallelo si trova, sotto una forma diversa, in Le 1 6 . 16: «La Legge e i
Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sfor­
za di entrarvi».

117
no anche quest'altra sua parola perlomeno sorprendente: «Non credia­
te che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non
pace, ma spada» (Mt 10,34). Ciò significa che l ingresso nel regno di Dio
'

è questione di violenza? Che la buona novella di Gesù suppone il con­


rutto violento, la lotta armata? Evidentemente si potrebbero contrap­
porre a queste due parole altre affermazioni dello stesso Gesù e nello
stesso Vangelo di Matteo. Si pensa ovviamente alle beatitudini del discor­
so sul monte (Mt 5,3- 1 1 ) , in particolare alla settima: «Beati gli operato­
ri di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (v. 9), o anche alla sua
reazione di fronte a Pietro, che vuole intervenire per difenderlo in occa­
sione dell'arresto: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti coloro
che prendono la spada, di spada moriranno>> (M t 26,52). E si potrebbe­
ro moltiplicare gli esempi contraddittori nei quali, da una parte, Gesù
pronuncia parole dure, piene di violenza, a volte urtanti, 30 e nei quali,
dall'altra, appare il predicatore pacifico al quale siamo abituati.31 Come
comprendere questa tensione insita nella narrazione evangelica?32 È ciò
che cercherò di fare in quest'ultima parte del mio contributo.

Il destino del Gesù matteano :


un percorso costellato di violenza

LA VIOLENZA ALLE ORIGINI DELL'ESISTENZA STORICA DI GESÙ

Fin dall'apertura del vangelo, il lettore attento constata la presen­


za della violenza nel racconto dell'infanzia di Gesù (Mt .1-2). Essa è
presente in due modi diversi e complementari:33
1. La genealogia di Gesù che apre il vangelo (Mt 1 , 1 - 1 7) attesta ri­
petutamente che la violenza precede la nascita di Gesù. Infatti, la lun-

30 Si pensi alle maledizioni contro gli scribi e i farisei di Mt 23.


31 Si ricorderà l'antitesi sulla legge del taglione dove Gesù invita a porgere l'altra
guancia (Mt 5,38-42) o quella dell'amore dei nemici (5,43-44); anche l'affermazione di Mt
1 1 ,29, dove Gesù si presenta come un maestro dolce e umile di cuore, in sintonia con la
citazione di compimento di Mt 1 2, 1 8-21 dove il Servo di YHWH non provoca la lite (v. 1 9).
32 Sarebbe facile mostrare che questa costatazione valevole per il Vangelo di Mat­
teo vale più o meno anche per gli altri tre. Infatti si troverebbe un'analoga tensione fra
parole pacifiche e parole violente in ciascuno dei quattro vangeli.
33 Sul racconto matteano dell'infanzia, cf. É. ClMWER, Naissance et enfance d'un
Dieu. Jésus Christ dans l'éuangile de Matthieu, Bayard, Paris 2005 .

1 18
ga lista dei suoi antenati, molti dei quali noti dall'Antico Testamento,
contiene la storia movimentata e violenta del popolo di Israele. Come
Figlio dell'uomo, inserito nella storia di una nazione, Gesù viene al
mondo carico del peso della storia del popolo di Israele, una storia fat­
ta di crimini di sangue , di violenze fisiche o psicologiche, di guerre e di
pace, di violenze e di riconciliazioni. Basti un esempio per mostrarlo
chiaramente. Un dettaglio di questa genealogia indica che Gesù è se­
gnato dalla violenza, non solo come membro del popolo di Israele, ma
come membro di una stirpe particolare: dopo aver indicato che Gesù è
«figlio di Davide» (Mt 1 , 1 ), Matteo precisa, al v. 6, che «Davide generò
Salomone da quella che era stata la moglie di Uria» . Perché non indi­
care questa donna, come nel caso di Tamar (v. 3), Racab e Rut (v. 5),
con il suo nome, Betsabea? Bisogna vedere in questo un ricordo dell'e­
pisodio nel quale Davide, dopo aver commesso adulterio con quella che
diventerà un'antenata di Gesù, ne fa uccidere il marito (cf. 2Sam 1 1 ).
2. Al capitolo 2 , Matteo riferisce un atto particolarmente violento,
quello del massacro dei bambini di Betlemme (Mt 2 , 1 6- 1 8). Mediante
questo assassinio collettivo, Erode cerca di sbarazzarsi di un concor­
rente indesiderabile. Due osservazioni sull'episodio :
a) La citazione di compimento del v. l 7 ricorda il profeta Geremia.
Questo profeta riveste un interesse particolare per Matteo, che lo nomi­
na esplicitamente tre volte (oltre 2 . 1 7-18, vedere 27,9- 1 0 - riferimento
a Geremia, per parlare della «vendita» di Gesù da parte di Giuda ai ca­
pi del popolo - e 1 6 , 1 4, dove Gesù viene assimilato a Geremia). Il primo
e l'ultimo riferimento (2, 1 7- 1 8 e 27,9- 1 0) sono in stretta relazione fra lo­
ro, attestando, in Matteo, l'opposizione mortale al Messia da parte di co­
loro che avrebbero dovuto riconoscerlo e riceverlo. La menzione di Ge­
remia rafforza il legame fra i racconti dell'infanzia e il racconto della Pas­
sione, sottolineando il rifiuto del Messia da parte del suo popolo, più esat­
tamente da parte delle autorità religiose. La sua menzione in Mt 1 6 , 1 4
conferma, i n un altro modo, l e osservazioni precedenti: secondo Matteo,
i contemporanei di Gesù lo considerarono un profeta di sventura. Come
Geremia, egli ne subisce le conseguenze, cioè il rifiuto. 34 Per Matteo, que­
sto rifiuto è già iscritto all'inizio dell'esistenza terrena di Gesù.

34 Sulla figura di Geremia in Matteo, cf. M. KNOWLES, Jeremiah in Matthew 's Gospel.
The Rejected Prophet Moti[ in Matthaean Redaction, Academic Press, Sheffield 1993;
ugualmente F. VouGA, «La seconde Passion de Jérémie», in Lumière et \ile 32(1983), 71-82.

119
b) I.: episodio del massacro dei bambini e della fuga di Gesù in Egit­
to va letto in parallelo con la storia di Mosè. Le allusioni più suggesti­
ve sono queste : 1 ) l'assassinio dei primogeniti di Israele in Egitto per
ordine del faraone (Es 1 , 22), assassinio al quale sfugge Mosè (Es 2 , 1 -
1 0) ; 2 ) la fuga d i Giuseppe «di notte» evoca l a fuga dall'Egitto l a notte
di Pasqua (Es 1 2 , 3 1 ) , ma anche la fuga di Mosè, in pericolo di morte,
dopo aver ucciso il soldato egiziano (Es 2, 1 1 s) ; 3) il ritorno di Gesù nel
suo paese che inaugura il ministero di Gesù, l'inviato di Dio; questo ri­
torno è quindi profondamente solidale con le sventure del suo popolo
(cf. M t 8 , 1 7 ; 11 , 28-30), fin nella violenza subita dai più piccoli fra loro
e alla quale, nella logica del racconto di Matteo, egli sfugge solo prov­
visoriamente.
Perciò Gesù, fm dall'inizio della sua vita, è doppiamente segnato
dalla violenza: violenza al tempo stesso originaria (è iscritta nel cuore
stesso della sua genealogia) e secolare (in lui si ripete il tema vetero­
testamentario della rivolta contro l'inviato di Dio) . Attraverso questo
racconto dell'infanzia, Matteo vuole certamente ricordarci che l'incar­
nazione non è una parola teologica senza effetto sulla realtà. Da que­
sta convinzione - per i primi cristiani, Dio in Gesù si è dimostrato so­
lidale con ciò che costituisce la condizione umana - Matteo trae tutte
le conseguenze: Gesù viene coinvolto in tutto ciò che costituisce la no­
stra condizione umana e segnato in particolare, suo malgrado , da quel­
la violenza nativa contro la quale noi tutti, volenti o nolenti, dobbiamo
combattere e dalla quale dobbiamo imparare a liberarci.

Tracce di violenza nella narrazione evangelica

La violenza non è presente solo nei primi capitoli del Vangelo. Se


ne scoprono profonde tracce lungo tutta la narrazione evangelica. Sen­
za pretendere di essere esaustivo, ne evidenzio alcune.

I..A VIOLENZA CONTRO I DISCEPOU E CONTRO GIOVANNI BATIISTA

In Mt 1 0 , Gesù annuncia la violenza che subiranno i discepoli nel­


la loro missione di proclamazione del regno di Dio; cf. 1 0 , 1 6-42 (vv. 2 1 -
2 2 : «Il fratello farà morire i l fratello e i l padre i l figlio; e i figli s i alze­
ranno ad accusare i genitori e li uccideranno . Sarete odiati da tutti a
causa del mio nome, ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salva-

120
to»; v. 34: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla ter­
ra; sono venuto a portare non pace, ma spada»). Il rifiuto del Vangelo
e la violenza che provoca nei suoi avversari vengono motivati teologi­
camente: Cristo è oggetto di scandalo . Rivendica tutto l' essere umano
e provoca quindi odio e discordia. Così l'odio che si attirano i discepo­
li non è semplicemente frutto del caso o della cattiveria degli altri. Es­
so è, più profondamente, il risultato della separazione che opera il Van­
gelo : bisogna abbandonare le proprie sicurezze e le proprie certezze
per seguire Cristo, e questo è oggetto di scandalo per tutti gli uomini,
sia giudei che pagani (cf. vv. 34-38).
In Mt 1 4 , 1 - 1 2 , l'evangelista riferisce la morte violenta di Giovanni
Battista. Questo omicidio deve essere interpretato nel quadro della vio­
lenza che la venuta del Regno suscita nell'uomo. Giovanni Battista è la
figura del profeta messo a morte perché, in nome di Dio, interpella i
potenti. In questo senso, la violenza che subisce annuncia quella che
·
subirà Gesù. Lo stesso Matteo lo attesta in modo esplicito : «Ma io vi di­
co: Elia è già venuto e non l'hanno riconosciuto; anzi hanno fatto di lui
quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell'uomo dovrà soffrire
per opera loro . Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di
Giovanni il Battista» (Mt 1 7 , 1 2- 1 3) .

L a morte d i Gesù come conseguenza della violenza


La morte di Gesù si iscrive quindi in questa tradizione dell'inviato
di Dio rifiutato e violentato dal popolo, sotto l'influenza dei suoi capi
religiosi, dei quali contesta, con la sua predicazione, l'autorità. Basti­
no a sottolinearlo due esempi.
In Mt 1 2 , 1 4, dopo la radicale presa di posizione di Gesù contro la
loro interpretazione del sabato (cf. 1 2 , 1 - 1 3), i farisei concepiscono il
progetto di farlo morire. È la prima volta, dopo il progetto di Erode al­
l'inizio del Vangelo, che Gesù viene esplicitamente fatto oggetto di un
desiderio di morte . Si profila già, all' orizzonte del racconto, l'arresto,
la condanna e l' uccisione dell'inviato· di Dio .
Ma qui bisogna menzionare soprattutto i tre annunci della Passio­
ne. In Mt 1 6 ,2 1 , Gesù annuncia che sarà consegnato a «anziani, capi
dei sacerdoti e scribi»; in 1 7, 2 2 , che sarà consegnato «nelle mani de­
gli uomini»; in 20, 1 7 , che i capi dei sacerdoti e gli scribi, dopo averlo
condannato a morte , lo consegneranno ai «pagani». La violenza con­
tro Gesù non è la violenza dei capi del popolo in quanto giudei, ma è
la violenza, al di là del caso particolare di Israele, di ogni uomo (ebreo

121
o pagano) di fronte alla parola del predicatore del Regno dei cieli. Ge­

sù «mostra» (deiknuvein, cf. 1 6 , 2 1 ) ai suoi discepoli la prospettiva del­


la sua morte, il che significa che ne ha compreso il carattere inelutta­
bile. Il Gesù di Matteo è quindi consapevole della violenza che suscita
la sua parola. Come i profeti dell'antico Israele , portatori della parola
di Dio, come Giovanni Battista, Gesù è rifiutato e subirà la violenza
omicida. Coloro che si richiamano a lui subiranno la stessa sorte, per­
ché «un discepolo non è più grande del maestro» (Mt 1 0, 24).

Il Regno preso d 'assalto con la violenza (Mt 1 1 . 12)


E vengo, per concludere questa prima parte, al logion di Mt 1 1 , 1 2
(// Le 1 6 , 1 6) che h o ricordato all'inizio e che ora devo interpretare. Le
interpretazioni principali del versetto sono cinque. Tre comprendono
il logion in senso positivo, due in senso negativo.
In senso positivo , il log ion significherebbe: l ) la «santa violenza di
coloro che si impadroniscono del regno di Dio con le più dure rinun­
ce»;35 2) rendendo il verbo fjui.t;ro con un attivo («<l Regno dei cieli si
apre il suo cammino con la violenza»), idea secondo la quale il Regno,
nonostante tutti gli ostacoli, verrebbe con potenza;3 6 3) «i violenti» (fjla­
araì) sarebbe una designazione dei discepoli di Gesù da parte dei loro
avversarP7 o un'autodesignazione .38 Ormai questi «violenti», queste
«persone ai margini» si impadroniscono del Regno.
In senso negativo , il logio n indicherebbe: l ) la violenza degli zelo­
ti, che vogliono far venire il Regno con le armi (e che Gesù disappro-

3s P. BENOIT, L'Éuangile selon Saint Matthieu, Cerf, Paris 1 950, 78, nota b. In un sen­
so vicino, DEWRME - DoNEGANJ, L'Apocalypse de Jean, 1: Chapitres 1 · 1 1 , 1 3 , nota 2: «Il
regno "subisce violenza" da parte di tutti coloro che, quale che sia il loro grado di mo­
ralità o la loro purezza legale, forzano la sua porta d'ingresso: «In verità, io vi dico che
i pubblicani e le prostitute vi precedono nel Regno di Dio».
36 G. HIIFNER, «Gewalt gegen die Basileia? Zum Problem der Auslegung des "Stiir­
merspruches" Mt 1 1 , 1 2», in Zeitschrift fiir die Neutestamentliche Wissenschaft
83(1 992), 2 1 -5 1 .
3 7 J . JEREMJAS, Théologie du Nouveau Testament, Cerf, Paris 1975, 1 44 [tr. it. : Teo­
logia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1 972].
38 G. THEJSSEN, «Le mouvement de Jésus, une révolution charismatique des valeurs»,
in Histoire sociale du christianisme primitif, Labor et Fides, Genève 1 996, 7 1 -90, cf. 88-
90. Ugualmente, «Jiinger als Gewalttiiter (Mt 1 1 , 1 2f ; Lk 1 6 , 1 6)», in Studia Theologica
1 49(1995), 1 83·200.

122
verebbe);39 2) nei termini dell'apocalittica ebraica, la lotta delle forze
del male (Satana e i suoi rappresentanti terreni, cioè Erode, che ha fat­
to arrestare e poi uccidere Giovanni Battista, e, in seguito , le autorità
giudaiche e romane, che mettono a morte Gesù) contro il Regno di Dio
e i suoi inviati . In altri termini, la sofferenza di Giovanni Battista e di
Gesù dopo di lui viene interpretata nei termini della tribolazione esca­
tologica degli ultimi giorni. 40
Nel contesto del Vangelo di Matteo, e alla luce di ciò che ho detto
riguardo alla forte presenza della violenza contro gli inviati di Dio, si
può interpretare il passo come una metafora della sorte riservata pri­
ma a Giovanni Battista e poi a Gesù: nella loro persona, è lo stesso Re­
gno di Dio ad essere preso d'assalto e a subire violenza. Qui i violenti
sono coloro che mettono le mani sugli inviati di Dio per impossessar­
si di un bene che non appartiene a loro (cf. Mt 2 1 , 3 8). È in corso Wla
battaglia apocalittica fra Dio e le forze del male. A partire da Giovan­
ni Battista, il nuovo eone è alle porte (cf. Mt 3 , 1 ) e l'opposizione è al
parossismo. Giovanni Battista è in prigione (sarà ben presto ucciso) e
la sorte che attende Gesù non è diversa. Perciò la violenza è costituti­
va anche della prossima venuta del Regno di Dio . Infatti quest'ultimo
suscita, negli oppositori, Wla violenza omicida. Qui continua la tradi­
zione profetica: il rifiuto e, a volte l'uccisione, dell'inviato di Dio che
provoca la collera e il giudizio di Dio sul suo popolo . In questo conte­
sto si potrebbe ascoltare l'altra parola di Gesù che ho ricordato all'ini­
zio di questa parte e sulla quale ritornerò più avanti: «Non crediate che
io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pa­
ce, ma spada» (Mt 10, 34). Gesù sottolineerebbe quindi che la sua pa-

39 O . Cull.MANN, Dio e Cesare: il problema dello stato nella Chiesa primitiva, Edizioni
di Comunità, Milano 1957, 29-30: Dobbiamo «pensare piuttosto a della gente simile al
capo zelota Giuda ... senza dubbio questa parola non racchiude solo un biasimo: Gesù ri­
conosce che simili persone si danno premura per il Regno di Dio, ma disapprova il loro
modo di agire, perché il Regno di Dio non può essere preso con la forza umana, né sa­
rà instaurato come regno politico».
4° Così, con varianti nei dettagli, N. PERRIN, Rediscovering the Teaching of Jesus.
SCM Press-Harper & Row New York·London 1 967, 74-75; W. D . DAVIES - D.C. ALusoN,
Matthew, T & T Clark, EdiNmurgh 1 9 9 1 , II, 256; S. LLEWELYN, «The Traditionsgeschich·
te of Matt. 1 1 : 1 2- 1 3 . par. Luke 1 6 : 1 6». in Novum Testamentum 36(1 994], 330-349; que­
sto autore propone anche un suggestivo accostamento con la parabola dei vignaioli omi­
cidi, che sarebbe stata, originariamente. un'illustrazione di questo logion.

123
rola suscita opposizione e violenza da parte di coloro che la rifiutano,
perché vi leggono la loro messa in discussione. In questo senso, la buo­
na novella divide e suscita una forma di violenza. Per Matteo, il perio­
do che inizia con Giovanni Battista e termina con Gesù è il periodo del­
la fine, quindi quello di una violenza che raggiunge il parossismo.
Concludo questa prima parte, dedicata alle costatazioni. Attraver­
so la genealogia e il racconto dell'infanzia, Matteo sottolinea che la vio­
lenza è costitutiva dell'esistenza storica di Gesù per il fatto di apparte­
nere a una discendenza umana caratterizzata dalla violenza e dall'as­
sassinio. A questa violenza comune a ogni destino umano, si aggiun­
ge, per Matteo, la violenza suscitata dalla proclamazione della vici­
nanza del Regno di Dio. Questa proclamazione, che interpella l' uomo
nelle sue certezze e nella sua sufficienza, suscita il rifiuto e l'odio nei
riguardi dell'inviato di Dio ed è quindi fonte di conflitto e di violenza.

La violenza del Dio di Gesù contro i suoi oppositori

Allora ci si può chiedere se, assalito dalla violenza degli uomini, il


Regno di Dio non diventi esso stesso violento . Se lo stesso predicatore
del Regno non sia spinto a rispondere alla violenza degli uomini con
un appello alla violenza vendicativa di Dio. In realtà, nel contesto spe­
cifico del primo vangelo, si pone la questione della retribuzione vio­
lenta che il Dio di Gesù Cristo , Dio del giudizio, prevede come retribu­
zione per i suoi nemici. Nella logica culturale e religiosa di Matteo, la
violenza contro i profeti chiama un giudizio di Dio (il tema del giudizio
è onnipresente in Matteo41). Ed è vero che le parole vendicative, e quin­
di violente, di Gesù non mancano nel primo vangelo . Un breve elenco
di alcune fra le più significative permette di farsi un'idea dell'impor­
tanza del tema della violenza retributiva del Dio del Gesù matteano:
- Mt 1 1 ,2 1 -24, maledizione contro Corazin, Betsaida e Cafarnao (cf. v.
2 3 : «E tu, Cafarnao [ . . . ) sarai precipitata fmo agli inferi»).
- Mt 1 3 , 36-43, spiegazione della parabola della zizzania (cf. v. 42: «li
getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti»).

41 Su questo tema matteano, cf. D. MAIIGUERAT, Le jugement dans l'évangile de Mat­


thieu, Labor et Fides, Genève 21995; cf. in particolare 1 3-50 per un inventario delle men­
zioni del giudizio in Matteo.

124
- Mt 1 8 , 2 3 - 3 5 , parabola del debitore spietato (cf. v. 34: «E nella sua col­
lera, lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse rimborsato tutto
il suo debito»).
- Mt 2 2 , 1 1 - 1 4 , parabola degli invitati al banchetto nuziale (cf. v. 7 : «Al­
lora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassi­
ni e diede alle fiamme la loro città»; cf. anche v. 1 3 : «Legatelo mani e
piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»).
- Mt 23, invettive contro scribi e farisei (cf. le sette maledizioni, di una
rara violenza verbale; così, v. 33: «Serpenti, razza di vipere! Come po­
trete sfuggire alla condanna della Geenna?»).
- Mt 2 5 , 14-33, parabola dei talenti (cf. v. 30: «E questo buono a nulla
sia gettato fuori nelle tenebre : là sarà pianto e stridore di denti»).
- Mt 2 1 ,33-45, parabola dei vignaioli omicidi. La violenza retributiva
raggiunge qui il suo parossismo. La parabola dei vignaioli omicidi è at­
traversata, da un capo all'altro , dal tema della violenza omicida di co­
loro che vogliono impadronirsi dell'eredità che non appartiene a loro.
Qui l'omicidio è il gesto ultimo mediante il quale si tenta di diventare
proprietari della vigna. Allora la violenza genera violenza: il padrone
della vigna viene a punire i miserabili facendo subire loro la sorte che
essi hanno fatto subire al figlio.42

Ma vale la pena sottolineare alcune differenze fra la violenza sub­


ita da Gesù e Giovanni Battista e la violenza divina, annunciata da Ge­
sù ai suoi nemici:
- Il Gesù di Matteo fa appello alla vendetta, ma non si vendica da
sé. In altri termini, a volte la parola di Gesù è violenta, ma non i suoi
atti. L'episodio dei venditori cacciati dal Tempio (Mt 2 1 , 1 2 - 1 3) non ri­
entra nella categoria della violenza retributiva, ma costituisce un gesto
di purificazione del Luogo santo . Questo gesto non è certo privo di vio­
lenza, ma quest'ultima non può essere iscritta nel registro della forza
brutale che si abbatte sull'innocente o sul debole. Essa appartiene al
gesto profetico contro l'infedeltà.
- Le parole di giudizio del Gesù matteano si trovano spesso inseri­
te nelle parabole del Regno. Il linguaggio metaforico può essere consi­
derato un modo per spostare l'appello alla violenza: il padrone che pu­
nisce il suo servo malvagio, il re che fa perire gli invitati recalcitranti,
o anche il padrone della vigna che fa perire i vignaioli, non possono

42 Qui bisogna tuttavia ricordare che la parola violenta del v. 4 1 («Quei malvagi, li
farà morire miseramente») non è di Gesù, ma degli avversari che rispondono alla do­
manda che pone loro sul comportamento atteso dal padrone della vigna.

125
·
e ssere assimilati direttamente a Dio. Ne sono solo delle rappresenta­
zioni approssimative. Più profondamente, le parabole rinviano il letto­
re alle sue immagini di Dio e al modo in cui le utilizza. Così la cosid­
detta parabola del «debitore spietato» (Mt 1 8 , 23-35), nella quale que­
st'ultimo non si considera perdonato43 e non può quindi perdonare
l'altro : al termine, è giudicato dal «dio» che immagina . Lo stesso nel­
la cosiddetta parabola dei talenti (Mt 2 5 . 1 4-30): il «servo malvagio» è
valutato in base all'immagine che si fa del suo maestro. Poiché lo con­
sidera un padrone severo e ingiusto (cf. v. 24: «so che sei un uomo du­
ro» . . . ). sarà giudicato in base all'immagine che ne ha!
- In diretto collegamento con ciò che precede, la cornice narrativa
nella quale Matteo inserisce alcune parabole di giudizio è fondamen­
tale nella comprensione che se ne può avere. Così, in Mt 1 8 , la para­
bola del debitore spietato (vv. 23-35) è preceduta dalla parabola del
buon pastore (vv. 1 2- 1 4): l'immagine del re misericordioso ma dalla
giustizia temibile non richiede forse di essere interpretata a partire da
quella del pastore pazzo d'amore per le sue pecore?44 Anche in questo
caso, la domanda posta al lettore è quella dell'immagine del Dio nel
quale pone la sua fiducia: è più vicino al re giusto e temibile o al buon
pastore che cerca la sua pecora perduta?45
- Nella tradizione veterotestamentaria, la funzione del linguaggio
del giudizio resta l'appello al pentimento . Così il Gesù matteano si col­
loca nella grande tradizione profetica.46 Inoltre, si è dimostrato47 che
la minaccia del giudizio divino non riguarda solo Israele o gli incredu-

43 Come si evince dal «pagherò tutto» del v. 26. La promessa non può essere man­
tenuta (il debito è enorme: cf. v. 24), per cui l'atteggiamento del servo è falso: non spe­
rimenta il perdono, ma crede di essere riuscito a piegare il suo padrone con una pro·
messa che sa di non poter mantenere.
44 Allo stesso modo la parola di esclusione di 1 8 , 1 7 dovrebbe essere interpretata al­
la luce dell'episodio di Mt 9 , 1 0.
45 Evidentemente le immagini di Dio che abbiamo in noi sono diverse e ambigue.
La sfida consiste allora nel lasciarsi sloggiare da alcune di esse: le parabole mirano a
questo.
46 Per J. ZuMSTEIN, «Violence et non-violence dans le Nouveau Testament», in Miet­
tes Eségétiques, Labor et Fides, Genève 1 991 . 355·368. le maledizioni «hanno lo scopo
di mettere in guardia i loro destinatari dalla possibile esclusione dalla salvezza escato­
logica». Quest'opinione ci sembra esatta, ma ci sembra perlomeno discutibile sostenere
che queste stesse maledizioni «non riguardano direttamente la problematica» della vio­
lenza (p. 356, nota 2).
47 Particolarmente, e in modo convincente, da MAHGUERAT, Le jugement.

126
li, ma anche figure del racconto dietro le quali membri della comunità
matteana si possono riconoscere (il debitore spietato , l'invitato al ban­
chetto nuziale . . . )
.

- La violenza messa in bocca al Gesù matteano (cf. , in particolare,


Mt 23) si spiega anche con il contesto storico nel quale vive e si svi­
luppa la sua comunità.48 In un senso, ci si chiede se la violenza verba­
le non abbia un effetto catartico sulla violenza fisica o morale subita.
Chi può esprimerla riesce anche a espellerla. Allora viene espulsa pas­
sando attraverso la parola piuttosto che attraverso l'azione .
Concludendo, possiamo dire che, in Matteo, Gesù e i capi del po­
polo sono in una relazione di violenza reciproca, nel senso che, attra­
verso il suo comportamento e le sue parole, Gesù provoca i capi del po­
polo e i capi del popolo rifiutano Gesù. Al termine del racconto, i capi
radunano il popolo nell'odio e nella volontà di far morire Gesù. Pre­
sente fin dall'inizio, questo rifiuto provoca, in Gesù, l' appello al giudi­
zio divino. Nel discorso del Gesù matteano sul giudizio, opera, sullo
sfondo, un Dio giusto ma violento, un Dio temibile che rende a ciascu­
no secondo le sue opere. Ma questo giudizio divino, sempre sotto for­
ma metaforica, viene rinviato a un futuro escatologico che evita a Ge­
sù e ai suoi discepoli di esserne personalmente i depositari nel tempo
presente. Al contrario, le parole del giudizio risuonano come un av­
vertimento rivolto anche ai discepoli.

La morte di Gesù come fine della violenza retributiva

Nella logica narrativa di Matteo, la morte di Gesù è l'ultima violen­


za umana contro il Regno. L'ultima violenza fatta a Dio stesso nella
persona del Figlio. Ora quest'ultima violenza che avrebbe dovuto logi­
camente condurre a una ritorsione violenta da parte di Dio stesso (cf.

48 La redazione del Vangelo di Matteo viene collocata abitualmente attorno agli an­
ni 80-90. In questo contesto storico, quali che siano i legami precisi fra la comunità
matteana e il giudaismo del suo tempo (rottura consumata o meno), la violenza delle
affermazioni del Gesù di Matteo si può spiegare con l'asprezza del conflitto che oppo­
ne l'evangelista ai suoi correligionari. Con la sua asprezza, questo conflitto ricorda quel­
lo che oppone i settari di Qumran al culto ufficiale di Gerusalemme. Su tutte queste que­
stioni, vedere, ad esempio, G.N. STANTON, A Gospel/or a New People, T & T Clark. Edin­
burgh 1992.

127
la parabola dei vignaioli omicidi) diventa il luogo in cui, in Matteo, Ge­
sù accetta di liberarsi dal bisogno della violenza e della vendetta, non
solo negli atti, ma anche nelle parole.
Questo rifiuto da parte di Gesù di una contro-violenza, di un ap­
pello alla vendetta, avviene in tre tappe. Anzitutto, al Getsemani (Mt
26, 36-45), il Gesù matteano accetta di subire la violenza, sottomet­
tendosi alla volontà del Padre (cf. v. 39). Poi, in occasione dell'arresto
(Mt 26,47-56) - episodio proprio di Matteo (26 , 5 1 -56) -, Gesù accetta
di non fare intervenire la forza divina e anche di non rispondere alla
violenza con la violenza: è l'incidente nel corso del quale una perso­
na vicina a Gesù colpisce il servo del sommo sacerdote , provocando
un intervento assolutamente non ambiguo di Gesù: «Rimetti la tua
spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spa­
da moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che met­
terebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (cf.
Mt 26, 5 1 -53). Infine, quando Gesù muore (Mt 2 7 , 45-50), muore con
lui, e per lui, un'immagine di Dio. Più precisamente, un'immagine di
Dio lo abbandona. Non è forse così che si potrebbe interpretare il fa­
moso grido di Gesù: «Dio mio , Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(v. 46). Sul Calvario, muore il Dio della vendetta e della retribuzione.
Forse lo strappo del velo del Tempio (v. 5 1 ) ne è un segno narrativo:
ormai l'antico sistema sacrificale, basato sulla riparazione violenta
della colpa, è abolito .49
Qui si devono aggiungere quattro osservazioni complementari.
È interessante constatare che, tranne una notevole eccezione (la
parabola dei vignaioli omicidi), le numerose parole di Gesù che an­
nunciano il giudizio di Dio non sono legate alla prospettiva della sua
morte ormai imminente. Anche i logia del Figlio dell'uomo come de­
positario del giudizio divino, molto numerosi in Matteo, non stabili­
scono alcun legame fra questo giudizio e la morte di Gesù (cf. Mt 1 3 ,41 ;
1 6, 2 7 , cf. anche Mt 24-25). Meglio ancora, i logia sul Figlio dell'uomo
sofferente non sono mai accompagnati da un annuncio del giudizio.
L'unica eccezione è Mt 26,24 (maledizione contro Giuda), che si rea­
lizza, nel racconto, in Mt 2 7 , 3 - 1 0 .

49Non è forse privo d i importanza i l fatto che Matteo metta due volte In bocca a Ge­
sù citazione di Os 6.6: «Voglio la misericordia e non il sacrificio". Tutto avviene come
la
se il ministero in Galilea preparasse ciò che la croce rivelerà.

128
Si è osservato, 5° in Matteo, un contrasto particolarmente sorpren­
dente fra l'importanza attribuita alle parole di Gesù nel corso del suo
ministero terreno e il suo silenzio durante il racconto della Passione.
Questo passaggio dalla parola violenta dei discorsi profetici (cf. , in par­
ticolare, Mt 23 e 24-2 5) al silenzio di colui che viene consegnato alla
violenza degli uomini è un segno narrativo del cambiamento che in­
terviene: «Alla figura del profeta che lotta contro le potenze ideologi­
che succede quella del profeta abbattuto da queste stesse potenze , ri­
dotto al silenzio». s i
I: abbandono di Gesù da parte di Dio, la fine di un vecchio sistema
(lacerazione del velo del Tempio) e la confessione di Gesù come «Figlio
di Dio» (cf. 2 7 , 54) sono proposti, da Matteo, nel quadro di un'inter­
pretazione apocalittica della croce e della risurrezione. Questo quadro
apocalittico è sottolineato , nella narrazione, dalle tradizioni relative al
terremoto, all'apertura delle tombe e alla risurrezione dei santi che
escono dai sepolcri il mattino di Pasqua, che Matteo - e lui solo fra i
quattro evangelisti - inserisce nel racconto della morte di Gesù (cf. Mt
2 7 , 5 1 b-53).52 Ormai è giunto ciò che la predicazione di Giovanni Bat­
tista e di Gesù lasciava intravedere (cf. Mt 3 , 2 e 4 , 1 7). Per Matteo, la
morte di Gesù e la sua risurrezione sono il luogo di un ribaltamento:
termina il vecchio eone e comincia il nuovo eone. 53 In un certo senso,
il giudizio è già avvenuto.
Perciò è degno di nota il fatto che il Risorto non pronunci alcuna
parola di vendetta o alcun appello al giudizio. Più che del risentimen­
to, della retribuzione contro i colpevoli o dell'appello al giudizio di Dio,
il Risorto si preoccupa di «fare dei discepoli» (cf. M t 2 8 , 1 6-20). Si può
interpretare questo cambiamento a partire dall'osservazione prece-

5° Così, sulla scia di altri, F. VouGA H. Morru, «La Passion de la Parole. Jésus, pro­
-

phète invectivant et souffrant», in Bulletin du Centre Protestant d'Étude de Genèue


30(1 978), 38-46, qui 44.
51 VouGA Morru , «La Passion de la Parole», 44.
-

5 2 Su questo passo, cf. R.E. BaoWN, La morte del Messia. Un commentario ai rac­
conti della Passione nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia 1 999, 1 26 1 - 1 278.
53 Nello stesso senso, S. L�GASSB, Le procès de Jesus, Cerf, Paris 1 995, Il, che parla,
a p. 292, dei «segni del passaggio a una nuova era». Ugualmente, A.G. VAN AAana, «Mat­
thew 27:45-53 and the Turning of the Tide in lsrael's History», in Biblica/ Theology Bul­
letin 28(1 998), 1 6-26, cf. bibliografia, pp. 24-26.

129
dente: se è vero che, nella sua morte e nella sua risurrezione, il giudi­
zio ha già avuto luogo , allora il Risorto non è colui che lo annuncia.
Concludendo questa parte, sintetizzo i principali risultati della mia
analisi. In un primo tempo, Gesù fa appello a un giudizio che chiede a
Dio, a una violenza divina che riflette indubbiamente la sua. Al Getse­
mani, accetta la volontà del suo Dio e si abbandona così alla violenza
degli uomini. Sulla croce è il suo stesso Dio ad abbandonarlo: «Dio mio ,
perché mi hai abbandonato?». Quest'abbandono da parte del suo Dio
segna, in Gesù, la fine di una certa comprensione di Dio. Rilette nel
quadro della presentazione apocalittica di Matteo, la morte e la risur­
rezione di Gesù possono essere interpretate non solo come fine della
violenza in Dio (o fine di un'immagine violenta di Dio), ma anche co­
me fine del sacrificio (cf. la lacerazione del velo del Tempio), inteso co­
me sistema di riparazione violenta della colpa: nell' evento pasquale,
comincia un' epoca nuova, nella quale non hanno più corso il vecchio
ordine delle cose e la sua logica. Ormai il giudizio annunciato è avve­
nuto, per cui il Risorto non è più colui che lo annuncia. Rimane co­
munque da interrogarsi, cosa che farà Jean-Daniel Causse nel prossi­
mo capitolo , sulle ragioni per le quali, nella storia del cristianesimo, la
morte di Gesù continua a essere interpretata attraverso il registro del
sacrificio «sostitutivo» .

Il «sangue del giusto» come segno di spostamento

La tematica del sangue offre un'illustrazione di questo cambia­


mento. In Mt 23,30 e 3 5 , nella linea della tradizione veterotestamen­
taria, 54 Gesù annuncia che il sangue dei giusti e dei ·profeti deve rica­
dere sugli scribi e sui farisei. Qui il Dio della retribuzione è al cuore
delle invettive del Gesù matteano. Più avanti, Giuda subisce questa lo­
gica retributiva, avendo «consegnato un sangue innocente» (27,4),
preceduto dalla maledizione pronunciata su di lui da Gesù (Mt 26,24) .
D e l resto, dopo essersi suicidato, viene sepolto nel campo del sangue
(cf. 2 7 , 6 e 8). Pilato si «lava le mani» e si dichiara innocente del san­
gue di Gesù (27,24), mentre il popolo chiede che il suo sangue ricada

54 Cf. H. CAzHLI.Es, «Sang», in Supplément au Dictionnaire de la Bible, Letouzey &


Ané, Paris 1 991 , Xl, c. 1 33 2 - 1 3 5 3 .

130
su di esso e sui suoi discendenti ( 2 7 , 2 5). L'omicidio chiama l'omicidio,
il sangue chiama il sangue . Predomina ancora la legge del taglione, la
legge del sangue.
C'è tuttavia un'altra interpretazione proposta dalla voce di Gesù,
ma del Gesù in cammino verso la sua Passione e non più del Gesù del­
le invettive di Mt 2 3 : in occasione dell'ultima cena, Gesù annuncia che
il suo sangue diventa il sangue versato per la moltitudine e per il per­
dono dei peccati (Mt 26,28). Non si vendica più questo sangue, ma lo
si riceve come segno di alleanza e di perdono. Fra Mt 2 3 , 3 0 . 3 5 e Mt
26,28 si assiste a un vero spostamento : il sangue non cade più come
una maledizione, ma diventa segno di perdono.
In una di queste numerose opposizioni che gli sono familiari (cf. Mt
5 , 1 9 contro Mt 1 1 , 1 1 ; Mt 5 , 2 2 contro Mt 2 3 , 1 7 ; Mt 1 0 , 5b-6 contro Mt
2 8 , 1 9 ; Mt 2 3 , 3 5 contro Mt 26,28 . . . ), Matteo rivela un Gesù alle prese
con la contraddizione che svela, in cammino verso Gerusalemme e ver­
so la morte, il pieno significato del suo vangelo . In questo contesto spe­
cifico del primo vangelo, non è certamente privo di significato il fatto
che la fin troppo nota parola del popolo: «Noi prendiamo il suo sangue
su di noi e sui nostri figli» (Mt 2 7 , 2 5) sia preceduta dall'annuncio che
questo stesso sangue è segno di perdono (Mt 26,28). In altri termini,
nella mente di Matteo, resta aperta una porta, perché ogni membro di
questo popolo possa «prendere su di sé» questo sangue in un modo
nuovo : come segno di perdono e non più di giudizio.
Concludendo questa parte, raccolgo i principali risultati della ricer­
ca. Nella tradizione veterotestamentaria, il sangue versato ingiusta­
mente richiede riparazione, il che suppone il versamento in cambio del
sangue del colpevole. Nel Vangelo di Matteo, specialmente nel capito­
lo 23, Gesù si richiama a questa logica retributiva per pronunciare la
condanna sugli scribi e sui farisei. Ma, nel corso dell'ultima cena, que­
sta logica viene infranta: il sangue di Gesù non è più il sangue che si
vendica, ma diventa segno di alleanza e di perdono . Nella configura­
zione narrativa del Vangelo di Matteo, il significato che Gesù attribui­
sce alla coppa condivisa con i suoi discepoli (Mt 26,28) è la possibilità
offerta di un nuovo rapporto con il sangue versato, di cui Giuda, a cau­
sa della precedente maledizione di Gesù - cf. Mt 26,24 non può be­ -

neficiare . Invece il caso del popolo di Gerusalemme che afferma di vo­


ler prendere su di sé il sangue di Gesù (Mt 2 7 , 2 5) resta più aperto.

131
Il Discorso sul monte : nuovo discorso su Dio

Una peculiarità di Matteo è quella di collocare all'inizio del mini­


stero di Gesù in Galilea il discorso sul monte , che si apre con le beati­
tudini («Beati gli umili, i miti, gli operatori di pace . . . »). Un po' più
avanti si trovano le antitesi (cf. in particolare Mt 5 , 2 1 -26 e 38-48). Qui
con una radicalità senza pari il Gesù matteano pone fme alla logica del
taglione. «Le antitesi del discorso sul monte sono una denuncia della
violenza che abita la realtà umana e questo alla luce del Regno che vie­
ne [. . . ] Il Cristo del discorso sul monte rivela il mondo degli uomini per
ciò che è - uno spazio infestato dalla violenza - ma, contemporanea­
mente, chiama i suoi discepoli a fare apparire un nuovo ordine di va­
lori nel quale ognuno è radicalmente rispettato per quello che è, ac­
colto nella sua identità - anche problematica - e rimesso a Dio il cui
amore non discrimina» . 55 Alla violenza, costitutiva di ogni società
umana, il Gesù del discorso sul monte invita a rispondere con un cam­
biamento radicale, un'opposizione non violenta, che è una vera di­
chiarazione di guerra alla violenza degli uomini. Il discorso sul monte
contiene, per la sua stessa radicalità, una violenza fatta alla logica del
mondo . Un nuovo discorso su Dio che suscita violenza e opposizione
contro colui che ne è in particolare il predicatore. Del resto, il seguito
del racconto matteano mostra che Gesù dovrà assumere la violenza
che suscitano le sue parole . Mostra anche che Gesù stesso, per essere
coerente con queste parole inaudite del discorso sul monte, dovrà pas"
sare attraverso una perdita fondamentale, quella di un'immagine vio­
lenta e retributiva di Dio, profondamente radicata nella sua storia e
nella sua cultura. Il racconto matteano sottolinea che il Gesù terreno è
venuto a compiere, fin dal suo ministero in Galilea, ciò che il discorso
sul monte annuncia (cf. Mt 1 1 ,28-30; 20,28), ma questo compimento è
solo parziale. La parola di Gesù, nel seguito del vangelo , spesso non
collima con la logica radicale e inaudita del discorso sul monte (in cer­
ti momenti, Gesù si trova addirittura sotto il peso del suo proprio giu­
dizio: comparare Mt 5 , 2 2 e Mt 23 , 1 7). Solo la Passione permetterà la
piena realizzazione in Gesù di questo nuovo discorso su Dio.

55 ZuMSTEIN, «Vìolence et non-violence dans le Nouveau Testament», 360.

132
Nel discorso sul monte, e in modo programmatico, come dimostre­
rà, anche in questo caso, Jean-Daniel Causse nel capitolo seguente, il
Gesù matteano rompe con la logica della violenza. La parola che allo­
ra pronuncia è veramente Parola di alterità, in quanto enuncia l'inau­
dito, un inaudito che non si confonde totalmente con ciò che il Gesù
terreno mostra di se stesso nel seguito del suo ministero in Galilea. Il
discorso sul monte anticipa ciò che si realizzerà pienamente nella Pas­
sione di Gesù. Il rifiuto di prendere la spada, al momento dell' arresto,
indica che si preferisce l'azione della Parola a quella delle armi. La
morte in croce è il luogo in cui Gesù attua, fino in fondo alla sua logi­
ca, la parola inaudita del discorso sul monte. Al Golgota, Gesù viene ri­
velato veramente come il «Figlio di Dio» che spezza la logica della vio­
lenza e offre un luogo in cui scoprire quel nuovo volto del Padre che il
discorso sul monte annunciava.

La «violenza» di Gesù: un appello alla vita

Seguendo il percorso narrativo che ho proposto, si potrebbe pen­


sare che il Vangelo di Matteo cerchi di sottolineare che progressiva­
mente scompare in Gesù ogni traccia di violenza per lasciare appari­
re solo la figura di un Messia «mite e umile di cuore» (Mt 1 1 , 29), che,
come il Servo di YHWH, non provoca la contesa ( 1 2 , 1 9). Ma quest'im­
magine di un Gesù «non violento» è incompleta e addirittura carica­
turale. Indubbiamente - insisto su questo punto che è uno dei princi­
pali risultati della mia ricerca - il Gesù che presenta Matteo è radical­
mente distante dalla violenza brutale, sia essa violenza fisica, violen­
za di stato , violenza rivoluzionaria o anche violenza divina, ma, al di
là delle parole di giudizio , che ho mostrato come devono essere inter­
pretate, restano nel vangelo parole di Gesù nelle quali si può scoprire
una forma di violenza, una violenza che si potrebbe dire positiva. Qui
mi limito a due esempi, nel Vangelo di Matteo, molto diversi fra loro
ma che tracciano una stessa strada, quella di una violenza al servizio
della Vita.

«PORGERE L' ALTRA GUANCIA)) ; UNA VIOLENZA CHE SPOSTA

Nella quarta antitesi del discorso sul monte (Mt 5 , 3 8-42), il Gesù
matteano affronta la questione del taglione. Anzitutto, ne reitera la re-

1 33
gola (v. 38) che, ricordiamolo , segna un progresso nelle relazioni wna­
ne rispetto a una pratica consistente nel farsi giustizia da sé con una
vendetta che oltrepassa, in violenza o in danni, il pregiudizio inizial­
mente arrecato (cf. , ad esempio, la storia di Dina vendicata dai suoi
fratelli in Gen 34) . Poi, nei vv. 39-42, Gesù invita a superare la legge
del taglione con affermazioni di una radicalità che fa letteralmente vio­
lenza alla logica della retribuzione normalmente in vigore nelle socie­
tà umane. È così che deve essere compresa la proposizione che invita
a «porgere l'altra guancia»: lungi dall'essere un gesto di sottomissione
servile mediante il quale la persona si sottomette alla volontà arbitra­
ria dell'avversario, è, al contrario, un atteggiamento energico e volon­
tario con il quale la persona cambia radicalmente atteggiamento (non
risponde all'aggressione con un'analoga aggressione), invitando così
l'avversario a cambiare il modo in cui vede se stesso e l' altro . Si trat­
ta di destabilizzarlo , per vincere in lui la pulsione originaria che lo por­
ta a rispondere alla violenza fisica con una violenza simile . Il seguito
dell'affermazione deve essere inteso in base alla stessa logica, quella
che consiste nell'adottare una posizione che mira a cambiare la rela­
zione dell'altro con la realtà attraverso una profonda messa in discus­
sione della sua comprensione del mondo. La logica è quella del rifiuto
della specularità e dell'«effetto specchio». Lungi dall'essere non vio­
lenta, la logica «dell'altra guancia» contiene una forma particolare di
violenza, nel senso di un appello a una forza della Vita che si erge con­
tro la violenza bruta del «colpo per colpo», che è quella del taglione.
Perciò il Regno di Dio che nasce da questa possibilità offerta di una
nuova comprensione dell'esistenza (cf. 5 , 20) suppone una violenza fat­
ta alla logica del mondo.

« LA SPADA, NON LA PACE» : UNA VIOLENZA TAGUENTE CHE FA VIVERE

«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono ve­
nuto a portare non pace, ma spada (lett . : «un coltello»). Sono infatti ve­
nuto a separare l'uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuo­
ra da sua suocera; e nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa»
(Mt 10, 34-36).
Ho già ricordato questo passo , sottolineando che dimostra indub­
biamente l' opposizione alla predicazione di Gesù e quindi la violenza
che essa suscita. Ma devo fare un altro passo, suggerito dalla costa­
tazione che i conflitti di cui qui si tratta riguardano unicamente le re-

134
!azioni familiari. Il passo, che si trova nel cuore del discorso missio­
nario, si apre con un'antitesi che contesta l'idea di un messia che por­
ta la pace, un'immagine frequente nei testi del giudaismo dell' epoca.
Ricordiamo che, nelle tradizioni apocalittiche, l'era messianica dove­
va essere preceduta da un tempo di tribolazione, di cui le divisioni fa­
miliari erano uno dei segni più caratteristici (cf. Mt 1 0 , 2 1 ) . Qui si mo­
stra chiaramente che le divisioni familiari non precedono la venuta
del Messia, ma ne sono la conseguenza: Gesù porta la divisione nella
famiglia e non la pace messianica attesa. Bisogna prestare attenzione
al termine greco (pcixarpa) , che le nostre traduzioni rendono abitual­
mente con «spada» . In realtà, non si tratta tanto della spada del sol­
dato quanto piuttosto della spada corta di cui ognuno poteva usare
nella vita quotidiana, di quello che oggi chiameremmo un coltellaccio
o un coltello . Perciò Marie Balmary56 si chiede: «A che serve il coltel­
lo, che cosa fa quando agisce in questo testo? » . 57 Risponde : il coltello
non serve a uccidere, ma a «fare due», a separare una persona da
un'altra. Questa separazione interviene giustamente là dove c'è il ri­
schio che due facciano solo uno (l'uomo e suo padre, la figlia e sua
madre) . In altri termini, il figlio farebbe uno con il padre, «non di­
venterebbe figlio, ma il-medesimo-del-padre , resterebbe non separa­
to» . 58 Del resto, questo coltello non separa solo in seno alla famiglia
originaria, ma anche fra adulti, nella famiglia del coniuge. Allora la
prescrizione di 2 , 2 4 («Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua ma"
dre e si unirà a sua moglie») acquista tutto il suo significato e può rea­
lizzarsi pienamente : se il coltello ha fatto il proprio lavoro di separa­
zione, non si corre più il rischio che l'uomo possa essere ricondotto
nel grembo della madre dalla moglie (che farebbe una cosa sola con
la suocera) . Ogni essere umano e ogni coppia può esistere e realizzarsi
singolarmente, separata dal rischio di una fusione letale con la pro­
pria famiglia d' origine o di adozione. Qui è in gioco tutta la questione
dell' alterità . Ora questo processo vitale per ogni essere umano non
può realizzarsi con dolcezza: c'è una «violenza» , quella della separa­
zione, necessaria per la stessa possibilità della vita, dell'esistenza di
un soggetto (come una nascita suppone una separazione dal ventre

56 M. BALMARY, Il sacrificio interdetto: Freud e la Bibbia, Queriniana, Brescia 1 99 1 .


57 BALMARY, Il sacrificio interdetto, 101 .
s a BALMARY, Il sacrificio interdetto, 1 0 1 .

1 35
della madre , separazione che non avviene senza violenza, sia per la
madre sia per il bambino). 59
Qui bisogna affrontare un ultimo punto: come coniugare la figura
di un Gesù che non porta la pace ma la separazione e la beatitudine
proclamata da questo stesso Gesù in 5,9: «Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio». Questa tensione interna alla nar­
razione matteana invita a ripensare la nozione di pace: la pace di cui
si tratta nella settima beatitudine non evita una separazione, una frat­
tura fra la logica del mondo e quella del Regno. Del resto, questi ope­
ratori di pace vengono dichiarati «figli di Dio», cioè persone apparte­
nenti a una nuova famiglia che non proviene più dalle filiazioni e dal­
le genealogie umane che la spada o il coltello del Cristo matteano di­
vide in modo salutare.

Conclusione

Nel contesto della narrazi one matteana, Mt 1 1 , 1 2 inserisce i mi­


·nisteri di Giovanni Battista e del Gesù terreno in un 'epoca di conflit­
to violento che caratterizza la prossimità del regno di Dio . In termini
apocalittici, è ingaggiata una battaglia spietata fra Dio e i suoi invia­
ti, da una parte, e il mondo degli uomini, in potere del diavolo (Mt
4,8), dall' altra.
In questa battaglia, il Gesù matteano si posiziona in due modi di­
versi: da un lato, annunciando la giustizia retributiva di Dio su coloro
che si oppongono alla venuta del Regno; dall'a ltro, proclamando la pa­
rola radicalmente non violenta del discorso sul monte.
In Matteo, la croce rivela la violenza estrema contro Gesù: i violen­
ti hanno perseguito fino in fondo il loro progetto di impadronirsi del
Regno dei cieli (cf. Mt 2 2 , 38). Ma contrariamente a ciò che ci si pote­
va aspettare (cf. Mt 2 2 , 4 1 ) , il frutto di questa violenza contro Gesù non
è il giudizio , bensì l'avvento del tempo nuovo, quello dell'alleanza e del

59 È in questa direzione che bisogna interpretare la parola violenta di Gesù nel Van­
gelo di Luca: «Se uno viene a me e non odia suo padre. la madre. la moglie, i tigli, i fra­
telli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Le 1 4,26); su
questo passo, cf. C. SINGER, «La difficulté d'etre disciple: Luc 1 4/25-35», in Études Théo­
logiques et Religieuses 73(1 998), 2 1 -36.

136
perdono (Mt 26,28) di cui i discepoli si faranno ormai banditori (Mt
28 , 1 6-20) .
Comunque la buona novella proclamata da Gesù contiene una di­
mensione violenta. ma si tratta di una violenza molto particolare. per­
ché è la violenza che ingaggia una lotta per la Vita. Ogni nascita, fisi­
ca o spirituale. suppone un passaggio, una rottura, un abbandono,
quindi, in un modo o in un altro, una violenza: bisogna separarsi o dal­
la fusione originaria, dal bozzolo protettivo, o dalle catene che impri­
gionano e impediscono di vivere; , in breve, bisogna forzare il passag­
gio, liberare la potenza della Vita che legami letali vogliono impedire
di schiudersi e fiorire . La predicazione di Gesù di Nazaret è una bat­
taglia a favore di questa risurrezione. Essa contiene quindi intrinseca­
mente una parte di violenza: quella della Vita in continua lotta contro
le potenze di morte.

137
Capitolo quarto

lA RELIGIONE
DELL'AMORE :
UNA RIS OLUZIONE
DELIA VIOLENZA DIVINA?

Jean-Daniel Causse

Nel capitolo precedente, É lian Cuvillier ha analizzato il modo in cui


gli autori del Nuovo Testamento (in questo caso, Giovanni di Patmos,
Paolo e Matteo) riprendono la questione della violenza divina in fun­
zione della confessione cristiana di Dio che si rivela nella persona di
Gesù. Lungi dal contrapporre un Dio giudice e, a volte, violento, che
sarebbe quello della Bibbia ebraica, e un Dio misericordioso e pieno
d'amore , che sarebbe quello del Nuovo Testamento, Cuvillier ha mo­
strato che la questione era più complessa. Gesù permette di scoprire
un volto diverso di Dio, ma anche nella letteratura neo testamentaria vi
sono molti testi che suggeriscono una violenza divina, teorizzata, ad
esempio, a partire dalla nozione di giudizio. In senso inverso, come ha
mostrato , da parte sua, André Wénin, la Bibbia ebraica evoca una vio­
lenza divina, ma attesta anche la mitezza, la misericordia, il ritegno,
ecc. del Dio dell'alleanza. Su questo piano, ogni opposizione fra i due
Testamenti non solo è vana, ma pone anche un problema dottrinale: si
può sospettare un ritorno del marcionismo, cioè della �olontà di espur­
gare il cristianesimo di una parte di se stesso, della parte ebraica, con­
siderata obsoleta o superata dalla nuova religione. 1 I padri della Chie-

t Vedere la citazione di un testo di Marcione nel capitolo redatto da André WllNtN.

139
sa hanno costantemente combattuto quella che era, a loro avviso, un'e­
resia e sostenuto l'unità della rivelazione biblica.
Il problema della violenza si pone nel cristianesimo come in altre
religi oni. Certo , nel cristianesimo la questione appare in un modo par­
ticolare e, come vedremo, piuttosto insolito, ma il Dio violento non ha
solo un volto . Troviamo, ad esempio, nel Nuovo Testamento, le beati­
tudini che proclamano «beati i miti>», o «beati gli operatori di pace»», o
anche «beati i perseguitati per la giustizia»» (cf. Mt 5 , 1 - 1 0) . Ma, nono­
stante un testo così emblematico e il posto che occupa nella tradizione
cristiana, con la fede evangelica si sono giustificati atti estremamente
violenti: crociate, inquisizione, persecuzioni dei non cristiani, costri­
zioni ideologiche, ecc. Già Freud aveva sottolineato che con l'amore
cristiano si era sostenuto l'odio del prossimo: « È sempre possibile ri­
unire anche un numero rilevante di uomini che si amino l'un l'altro fin
tanto che ne restino alcuni per la manifestazione dell'aggressività».2 E
aveva aggiunto: «Poi che l'apostolo Paolo ebbe posto l'amore univer­
sale fra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era ine­
vitabile sorgesse l' estrema intolleranza della cristianità contro coloro
che rimanevano al di fuori» . 3 Si sottolineerà giustamente, da un pun­
to di vista storico, una confusione nefasta fra il potere secolare e il po­
tere religioso e l'uso dell'uno a vantaggi o dell' altro. Resta comunque
un dispositivo di legittimazione religiosa della violenza e quindi il fat­
to inevitabile che la confessione cristiana non ha come effetto diretto
la fine di un'immagine violenta di Dio e del credente. La realtà è deci­
samente più ambivalente. Ad esempio, ci si è potuti servire, in modo
perverso, della croce, che simboleggia, come ha mostrato É lian Cuvil­
lier, il Cristo che subisce la violenza umana, per legittimare atti violenti
compiuti in nome di Dio. In quest'ultimo capitolo del libro , riprendo
questa relazione complessa fra il cristianesimo e la violenza di Dio, ri­
flettendo specialmente sul Dio d 'amore proclamato dal cristianesimo e
sulla morte di Gesù, interpretata da una parte della tradizione cristia­
na in termini di sacrificio . Così, al termine della mia riflessione, potrò
indicare le risorse interne al cristianesimo per combattere certi aspet­
ti della violenza divina.

2 FREUD, «D disagio della civiltà (1929)», in Opere, Boringhieri, Torino 1 978, X, 601 -602.
3 FREUD, «Il dis agi o della civiltà», 602.

1 40
L'amore cristiano di fronte alla filosofia di Nietzsche4

Non basta parlare di un Dio d'amore, come ama fare il cristianesi­


mo, perché sia privo di ogni violenza, al contrario. Bisogna osservare
con più attenzione le varie forme della violenza. Il Dio del giudizio ha
perlomeno il merito della chiarezza. È molto più difficile scoprire una
violenza divina che indossa la maschera affascinante dell'amore. Esi­
ste una forma subdola della violenza che si presenta mascherata. Essa
riesce abilmente a farsi passare per il suo contrario: Opera con il regi­
stro della seduzione. Attira e finisce addirittura per convincere colui
che la subisce che è un «bene». È un «bene» che fa il male. Noi siamo
attenti e pronti a denunciare la violenza visibile. Sappiamo turbarci e
condannare coloro che, ad esempio, usano il nome di Dio per compie­
re crimini politici o spingono i fedeli ad affidare la loro libertà al guru
di una setta. È più difficile discernere una violenza nascosta, cioè quel­
la forma sottile della violenza che può assumere facilmente i tratti del­
la morale, specialmente della morale cristiana. Un pensatore come
Nietzsche (1 844-1 900) con il suo sguardo dotato di una rara capaci­
-

tà di penetrazione - ha smitizzato una violenza che ha l'apparenza del­


la virtù e si prende per ciò che non è, cioè una violenza che si fa chia­
mare «mitezza» o «amore» o «bontà» per non mostrare il suo vero vol­
to . Invece di restare saggiamente ai bordi dell'esistenza umana, Nietz­
sche è penetrato nel territorio tenebroso dell'anima umana. Abbando­
nando un modo accademico di esercitare il mestiere di filosofo, ha vo­
luto pensare «al di là del bene e del male», sollevando il velo steso sul­
la morale occidentale. Si è quindi interrogato sulle fonti dei valori che
sono oggetto di consenso. A proposito dello sguardo di Nietzsche, Ste­
phan Zweig affermava: È «un raggio di Rontgen, [che] attraversa i ve­
stiti, i peli, la pelle e la carne, va fino in fondo a ogni problema». 5
Con un'intuizione folgorante, Nietzsche svela l a violenza, l'odio, il
risentimento, che si nascondono dietro certi valori morali. Smitizza e
può farlo perché non si preoccupa di fare una scelta fra i valori (alcu-

• Questa sezione riprende elementi che ho sviluppato, da una parte, in L'amour et


la haine de Dieu, Labor et Fides, Genève 1 999, 1 1 -30 e, dall'altra, in «La violence divi­
ne sous le masque de l'amour», in D . MARGUERAT (ed.), Dieu est-il violent?, Bayard, Pa­
ris 2008, 87-98.
s S . ZWEIG, Nietzsche, Stock, Paris 1993, 63 .

141
ni sono buoni, altri sono cattivi). ma mette in discussione i fondamen­
ti della morale.6 Elabora una genealogia della morale per scoprire l'o­
rigine dei valori ai quali noi ci riferiamo, il terreno sul quale sono na­
tU Usando quest'immagine, possiamo dire che Nietzsche non si inter­
roga sull'albero , ma sulle sue radici e sul suolo in cui cresce. Se il ter­
reno è malsano, allora i frutti faranno male alla salute. Nietzsche vuo­
le mostrare che il suolo dell'occidente giudaico-cristiano è malato , pu­
trefatto, ma che questo male è nascosto . Si trova nelle radici; corrom­
pe il terreno sul quale cresce l'albero , ma con una formidabile mistifi­
cazione noi confondiamo continuamente frutti bacati con frutti sani e
pieni di vita. Chiamiamo «bene» ciò che è, in realtà, solo espressione
del nostro risentimento verso la vita, manifestazione delle nostre pau­
re e delle nostre frustrazioni. Ora, come vedremo, la violenza non è
mai solo il sintomo della nostra debolezza e della nostra incapacità di
volere la vita. Non è una volontà di potenza, ma il suo contrario : è im­
potenza, è ciò che Nietzsche indica con il termine «nichilismo».
In Genealogia della morale (1 887), Nietzsche elabora una tipologia,
delinea cioè delle figure paradigmatiche e quindi classifica dei modi di
esistenza. Si contrappongono due figure. Da una parte troviamo quel­
.
lo che Nietzsche chiama «l'uomo del risentimento», o «l'uomo debole»,
o ancora «lo schiavo» . Non bisogna sbagliarsi sul significato di questi
termini: è sempre questo tipo d'uomo a trionfare e governare il mon­
do. Come si definisce? La specificità dell'uomo del risentimento è quel­
la di costruirsi su una modalità reattiua: incapace di accogliere la vita
nel suo splendore, nella sua complessità, nel suo mistero. nei suoi ri­
schi, cioè, in definitiva, in tutto ciò che la compone, egli adotta un at­
teggiamento di difesa verso tutto ciò che proviene dal di fuori e che gli
sembra strano, estraneo o diverso . È su questo piano che si colloca

6 F. NIETZSCHE, Genealogia della morale. Adelphi Edizioni, Milano 2006.


7 Nella genealogia non si tratta di ritrovare. attraverso un procedimento archeologi­
co, un sen s o originario, una verità prima, ma di lavorare sulle forze in presenza e sui pro­
cessi di interpretazione che sono all'opera. Come ha mostrato Miche! FouCAULT, non si trat­
ta di passare dalla parola alla realtà significata, ma dalla parola a chi la enuncia, cioè di
evidenziare il momento in cui si trasforma !"interpretazione del concetto. Cf. M. FoucAULT,
«Nietzsche . la généalogie, l"histoire», in Hommage à Jean Hyppolite. PUF, Paris 1 9 7 1 e
«Nietzsche, Freud et Marx». in Nietzsche (Cahiers de Royaumont, Ph ilo sop hie 6), M inuit,
Paris 1 967. 1 9 1 : «Non si interpreta ciò che c'è nella realtà significata, ma si interpreta il
fondo: chi ha enunciato l'interpretazione? Il princip io dell'interpretazione altro non è che
l'interprete ed è forse questo il senso che Nietzsche ha dato al termine psicologia».

1 42
l'opposizione nietzschiana fra il forte e il debole, il padrone e lo schia­
vo. Infatti, dall'altra parte, troviamo quello che Nietzsche chiama «l'uo­
mo forte» o «il padrone», l'uomo nel quale, secondo l' espressione di
Deleuze, «l'affermazione occupa il primo posto».8 Egli è capace di ac­
cettare la vita come cambiamento , sofferenza, morte, sessualità, in­
quietudine. Accoglie la vita con ciò che contiene di problematico e di
ambivalente, specialmente l'inestricabile mescolanza di amore e odio,
mitezza e violenza. Il debole invece è colui che rifiuta la vita, si protegge
da essa, la sfugge, la condanna e cerca di conservarla intatta. In que­
sta prospettiva, la violenza altro non è che la manifestazione del risen­
timento nei riguardi della vita. Essa traduce la volontà di vendicarsi da
una vita che non si dimostra mai all'altezza dei nostri sogni. È ciò che
Nietzsche chiama «ideale ascetico» e considera un atteggiamento leta­
le mediante il quale la vita si ritorce contro se stessa. Scrive: «Una vi­
ta ascetica è infatti un'autocontraddizione: domina qui un ressentiment
senza eguali, quello di in insaziato istinto e una volontà di potenza che
vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stes­
sa, sulle sue più profonde, più forti, più sotterranee condizioni» .9 E più
avanti aggiunge che «l'ideale ascetico è uno strattagemma nella con­
servazione della vita», cioè un dispositivo per tentare di ripararsi dal
tempo, dalla finitezza e dalla morte, quindi un modo di proteggersi da
tutto ciò che irrompe nell'esistenza e la altera. 1 0 In questo senso, l'atto
ascetico è una vera pulsione di morte, nel senso freudiano del termine,
cioè non un «voler morire», ma un desiderio di ritrovare, se fosse pos­
sibile, una pienezza originaria che si suppone perduta.
La violenza del debole è quindi il frutto del suo risentimento nei ri­
guardi della vita. Ma questa violenza non può sfogarsi direttamente,
perché non ne ha la forza o il coraggio. È la violenza dell'impotenza e
non della potenza, per cui · si esprime sempre scegliendo un percorso
indiretto. È l'impotenza o la debolezza a renderla ancora più temibile.
Così si può precisare l'operazione: il risentimento è creatore di mora­
le grazie a un processo di rinomina. Si tratta di dare un nome nuovo
alle cose, non inventando parole, ma producendo una trasmutazione
semantica che è tanto più sottile per il fatto di riguardare dei valori. Co-

8 G . DELEUZE,Nietzsche (1 965), PUF, Paris 2008, 25.


9 NIETZSCHE, Genealogia della morale, III, § 1 1 , 1 1 1 . Corsivo mio.
to NIETZSCHB, Genealogia della morale, III, § 1 3 , 1 1 4 .

1 43
me trasformare meglio la «bassezza» in virtù che attribuendole un al­
tro nome e giustamente un nome contrario, come quello di «nobiltà»?
La bassezza non cessa di essere bassezza quando viene chiamata no­
biltà, ma, mediante una presa di potere, diventa un attributo virtuoso
e così la vera nobiltà viene considerata la peggiore delle cose. È attra­
verso questo capovolgimento che la violenza, non potendo esprimersi
direttamente, trova il modo di eserCitarsi. Ad esempio, quando non ab­
biamo il coraggio di affrontare l'altro, possiamo dire che pratichiamo
la carità cristiana, l'umiltà o la mitezza evangelica. Possiamo riferirei
al discorso sul monte e alla raccomandazione di Gesù ai suoi discepo­
li di non resistere al male, di porgere l'altra guancia e anche di consi­
derarsi «beati» quando si viene insultati o perseguitati. Per chi consi­
dera l'atto solo in superficie, tutto sembra virtuoso. Ma la verità è com­
pletamente diversa: noi vorremmo schiacciare l'altro, esercitare su di
lui il nostro potere, dominarlo, ma, avendo paura o sentendoci troppo
deboli, lo amiamo per debolezza. Siamo miti per semplice incapacità di
esercitare un potere. Questa mitezza non è tale, pur portandone il no­
me e anche assumendone l'aspetto. La falsificazione consiste nel con­
ferire un'apparenza di bene morale a questa mitezza o a questo amo­
re, che è, in realtà, solo il prodotto del risentimento, al punto che, a vol­
te, certi miti sono capaci di un'incredibile crudeltà quando vedono l'al­
tro in uno stato di debolezza. Certi uccelli predatori si camuffano da co­
lombe, perché si fanno schiavi nella speranza di diventare un giorno i
padroni e far pagare all'altro tutto ciò che hanno subito. Nietzsche non
smette mai di smascherare una violenza e un odio che operano sotto
copertura di virtù. Scrive, ad esempio : «E l'impotenza che non si pren­
de la rivalsa, deve essere falsata in "bontà " , la timorosa abiezione in
"umiltà"; la sottomissione dinanzi a coloro che odiano in "obbedienza"
[ ]. L'inoffensività del debole, la stessa codardia di cui costui è ricco, il
...

suo stare alla finestra, il suo inevitabile dover aspettare, acquista ora
un buon nome, in quanto "pazienza", e viene altresì a significare la vir­
tù stessa; il non potersi vendicare è detto non volersi vendicare, forse
addirittura perdonare ("giacché costoro non sanno quel che fanno" -
noi soltanto sappiamo ciò che essi fanno ! ) . Si parla anche dell'amore
verso i propri nemici - e intanto si suda». 1 1 Qui abbiamo quello che

11 NIE1ZSCHB, Genealogia della morale, I, § 14, 36. Corsivo dell'autore.

144
Nietzsche chiama «l'odio dell'impotenza» o, potremmo dire, quella for­
ma della volontà di potenza che, rinunciando alla vitalità che c'è in es­
sa, aspira alla calma della morte. 1 2
Il lettore avrà compreso che l'uomo del risentimento non è privo di
violenza, ben al contrario. Egli conferisce piuttosto un'apparenza mo­
rale alla sua violenza, manifestandola sotto una forma contraria. Pren­
diamo l'esempio del perdono , considerato ·un atto virtuoso. Esiste cer­
tamente un perdono che perdona veramente, senza secondi fini, senza
conservare nulla, ma esiste anche una forma di perdono che è espres­
sione del risentimento. li perdono può essere semplicemente l'incapa­
cità di vendicarsi. In realtà, questo perdono è una forma di vendetta
molto più raffinata rispetto a quella di farla pagare all'altro. Esso per­
mette di sottometterei la persona che ci ha offeso in un modo molto più
duraturo, rendendola eternamente debitrice senza che possa mai libe­
rarsi della colpa che ha commesso. Stranamente, in questo caso, il per­
dono è un modo molto più crudele di esercitare la punizione e soddi­
sfare la sete di potenza. La vendetta è tanto più temibile quanto più ve­
ste i panni della virtù, della gentilezza, della mitezza evangelica. Que­
sta forma di perdono intrattiene un debito che non può essere estinto.
Non ce ne si può mai liberare. Non si è mai finito di pagare per rim­
borsare la misura infinita di questa forma di perdono o di amore. Il de­
bito è tanto più terribile per il fatto di operare in base a una negazio­
ne: essendo nascosto, non fa che aumentare tragicamente oltre ogni
misura. Volendo fare un altro esempio, la violenza può vestire i panni
della giustizia o del diritto. In Genealogia della morale, Nietzsche ana­
lizza l'evoluzione della relazione fra la colpa e la punizione che, anche
codificata in una legge, riguarda comunque sempre un godimento de­
rivante dalla sofferenza dell'altro. Nietzsche sottolinea che il danno
causato trova sorprendentemente la sua compensazione nel diritto con­
ferito al creditore di far soffrire il debitore: «I:equivalenza è data dal

1 2 A proposito degli esseri deboli Nietzsche scrive: «Essi hanno osato, con una ter­
rificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell'odio più abissale (l'o­
dio dell'impotenza), questo rovesciamento, affermando "i miserabili soltanto sono i buo­
ni: solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono i buoni. i sofferenti, gli indigenti. gli infer­
mi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii, per i quali soli esiste una
beatitudine - mentre invece voi, voi nobili e potenti, siete per l'eternità i malvagi. i cru­
deli, i lascivi, gli insaziati, gli empi e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledet­
ti e i dannati! » (N!ETZSCHE, Genealogia della morale, l, § 7, 22-23).

1 45
fatto che al posto di un vantaggio in diretto equilibrio con il danno (al
posto dunque di una compensazione in danaro, terra, possessi di qual­
sivoglia specie) viene concessa al creditore a titolo di rimborso e di
compensazione una sorta di soddisfazione intima - la soddisfazione di
poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria potenza su un essere
impotente, la voluttà di "fare il male per il piacere di farlo" , il piacere
di far violenza [. . ]. La compensazione consiste quindi in un mandato e
.

in un diritto alla crudeltà».13 È facile comprendere che, per esercitare


la violenza in tutta impunità, bisogna occupare il posto della vittima,
che permette di mascherare il «fare violenza» in «rendere giustizia» o
in «essere risarcito per ciò che si è sofferto». A partire da qui si po­
trebbe analizzare un aspetto del processo «vittimistico» che opera nel­
le nostre società occidentali. Infatti, apparire vittima permette di di­
chiararsi innocenti ed esigere una compensazione per ciò che si è su­
bito. La posizione della vittima dà «diritto» ad aggredire, moralizzan­
do a priori il proprio atto, cioè facendo in modo di compiere il male
inalberando al tempo stesso il volto della vittima. Identificarsi con la
posizione della vittima diventa un modo sottile di perseguitare l'altro
in tutta impunità ed avendo dalla propria parte il diritto e la morale.
Nietzsche ha analizzato molto bene la mistificazione in questo passo già
citato da É lian Cuvillier nel capitolo precedente, ma che vale la pena ri­
ascoltare : «l sofferenti sono tutti spaventosamente solleciti e ingegnosi
nel trovar pretesti per dolorose passioni; assaporano già il loro sospet­
to, il lambiccarsi su scelleratezze e apparenti nocumenti, grufolano nei
visceri del loro passato e del loro presente alla ricerca di cupe proble­
matiche storie, dove sono liberi di crogiolarsi in una tormentosa diffi­
denza e di inebriarsi del loro stesso veleno di malvagità - strappano le
bende alle più antiche piaghe; da cicatrici risanate da lungo tempo
spremono il sangue fino a morirne».t4
In questo complesso, Dio è a immagine e somiglianza dell'uomo del
risentimento . Come scriveva 25 anni fa Walter Kasper, in riferimento
a Nietzsche: «Dio è la nostra più lunga menzogna [ . . ], l'anti-concetto
.

di vita, l'espressione del risentimento che si prova per la vita». 1 5 Ora

13 Nmrz�cHH, Genealogia della morale, Il, § 5, 53 .


. 14 NIETZSCHE, Genealogia della morale, lll, § 1 5 , 1 22.
15 W. KAsPHR, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1 984, 61.

146
questa figura del divino non ha alcun tratto apparente del Dio violen­
to; egli è «amore» , ma un amore che è, in realtà, un odio feroce del
mondo, di tutto ciò che è qui e ora. Questo Dio ama soltanto quello che
Nietzsche chiama un «retro-mondo», cioè un mondo costruito come la
figura capovolta del nostro mondo . Così il risentimento proietta un al­
tro luogo, un «Regno di Dio», nel quale lo schiavo sarà ricompensato
per il suo rifiuto del mondo e otterrà la sua rivincita sul padrone. Que­
sto capovolgimento della realtà in nome di un altro mondo più «vero»,
di un'eternità contrapposta all'illusoria temporalità, è uno strumento
sottile per soddisfare una crudeltà mascherata da giustizia divina. Dio
è un puro riflesso dell'uomo del risentimento: non potendo assumere
l'odio, lo maschera come amore e lo esercita attraverso i negatori del­
la vita. Nella finzione del cielo , l'amore di Dio permette finalmente ai
deboli di godere della sofferenza dei forti, di soddisfare nell'eternità il
piacere della persecuzione come compensazione per la loro rinuncia
alla terra. Il testo nietzschiano lo enuncia con un'ironia pungente:
«Nella fede in che cosa? Nell'amore per che cosa? Nella speranza di
che cosa? Questi deboli - infatti, a un certo momento, anch'essi vo­
gliono essere i forti, non v'è dubbio, a un certo momento deve venire
anche il loro "regno" - presso di loro si chiama né più né meno che
"regno d' Iddio " , come si è detto : sono invero così umili in tutto! Sol­
tanto per fare esperienza di questo si sente la necessità di vivere a lun­
go , oltre la morte - anzi si ha bisogno della vita eterna per poter al­
tresì rifarsi eternamente, nel "regno d'Iddio " , di questa vita terrena
vissuta "nella fede, nell'amore, nella speranza" » . 16 E, un po' più avan­
ti, Nietzsche ricorda, come per completare una dimostrazione, un te­
sto di Tommaso d'Aquino, che mette in scena un paradiso nel quale,
in una sorta di godimento innocente e sadico, i santi ricevono la ri­
compensa dei loro sforzi terreni assistendo alla sofferenza dei danna­
ti: «Ma è meglio che ce lo attesti espressamente un'autorità indiscuti­
bile in questa materia, Tommaso d'Aquino, il grande maestro e santo.
"Beati in regno crelesti" , dice costui con la mitezza di un agnello, "vi­
debunt pamas damnatorum, ut beatitudo illis magis complaceat"».17

t6 N IETZSCHE, Genealogia della morale, l, § 1 5 , 38.


1 7 NIETZSCHE, Genealogia della morale. Nietzsche cita qui un estratto del Commen­
tario sul Libro delle Sentenze, IV, L, 2, 4, 4: «l beati nel regno dei cieli vedranno il tor­
mento dei dannati, affinché la beatitudine sia per loro ancor più piacevole».

147
La volontà nichilistica di dominare la vita suppone una sofferenza per­
sonale, ma essa non è priva della speranza di una ricompensa nella
quale la beatitudine si congiunge stranamente con il piacere di far sof­
frire l'altro attraverso l'intervento del braccio divino. Interpretato in
questo modo, il desiderio di Dio come rinuncia a se stessi trova ripa­
razione nella sofferenza inflitta ai vecchi padroni.
Perciò, per esercitare il suo odio e la sua crudeltà, l'uomo del ri­
sentimento inventa una forma d'amore che gli permette, facendosi ga­
rante della morale, anzitutto di condannare coloro che acconsentono al
carattere effimero degli esseri e delle cose , e poi, di appendere la sua
vendetta alla giustizia divina. Facciamo, con Nietzsche, un ulteriore
passo in quest'analisi: volente o nolente , anche l'uomo del risentimen­
to resta sottomesso alla condizione umana. Qualunque cosa faccia, non
può sottrarsi al tempo, alla fugacità della gioia, all'alterità, alla morte,
all'incognito. Perciò , nonostante lo sfogo del risentimento, la sofferen­
za resta presente e diventa allora oggetto di una seconda operazione,
che compie defmitivamente il programma nichilistico. Nietzsche fa in­
tervenire quello che chiama il prete asceta che, da buon pastore qua­
le è, dà un senso al «malessere» che prova la sua pecora malaticcia. Se
non basta riversare il proprio odio sull'altro , si può ancora rivolgerlo
contro se stessi imprigionandosi nel senso di colpa. Si può esercitare la
propria violenza sull'altro , ma si può anche ritorcerla contro se stessi.
Si può essere al tempo stesso carnefice per risentimento e vittima per
espiare la propria cattiva coscienza. Nietzsche immagina il dialogo che
unisce risentimento e cattiva coscienza: «"lo soffro: qualcuno deve
averne la colpa"» - così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pasto­
re, il prete asceta, dice a essa: "Bene così, la mia pecora! qualcuno de­
ve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu
ad averne la colpa - sei unicamente tu ad aver colpa di te stessa!"». 1 8
Attribuendo una causa al malessere provato, il prete asceta dichiara
che la colpa non è una colpa precisa, localizzabile, e quindi riparabile,
ma è una diffusa sensazione di essere colpevole, colpevole di essere in­
serito nella finitezza e nella contingenza e quindi, in realtà, colpevole
semplicemente della propria umanità. Sono i molteplici segni della no­
stra umanità in quanto tale a venir registrati come colpe e quindi co­
me ciò che richiede una punizione, un'espiazione e una redenzione.

1 8 N!ETZSCHB, Genealogia della morale, III. § 15, 1 2 2 .

1 48
Il legame fra piacere e crudeltà, presente nel risentimento, non è
escluso da questo secondo momento strutturato dalla cattiva coscien­
za. L'uomo trova la sua parte di godimento a sottomettersi al verdetto
del prete asceta. Nietzsche lo constata e, chiudendo l'analisi del con­
cetto di colpa, giunge a questa conclusione, che illumina la violenza
con la sua luce cruda: «Una cosa d'ora innanzi sarà nota - non ne du­
bito - vale a dire di quale specie è il piacere che prova il disinteressa­
to, il negatore di se stesso, l'immolatore di sé: questo piacere rientra
nella crudeltà» . 1 9 Questo piacere crudele accompagna la trasformazio­
ne del risentimento in cattiva coscienza. Ma si tratta ancora di un ef­
fetto di falsa apparenza: se si tratta di straziare la propria condizione
umana, è, paradossalmente e segretamente, per non mancare di nul­
la. Così si può rinunciare a molte cose, ci si può privare continuamen­
te, ma, in realtà, per non rinunciare assolutamente a nulla. Come ho
sottolineato nel capitolo 2 a proposito del sacrificio della figlia di Iefte,
il sacrificio di sé e la violenza dell'autopunizione possono essere
espressione di un formidabile orgoglio e di un desiderio di potenza. Qui
troviam o ciò che Freud chiama «al di là del principio del piacere», cioè
il fatto che il dispiacere che si cerca, a volte persino la mortificazione
del desiderio che ci si infligge, contengono, in realtà, un grande godi­
mento . Del resto, si può facilmente associare una dose di godimento
alla sofferenza che si prova. 20 È ciò che Nietzsche percepisce nella vo­
lontà di occupare il posto di un oggetto umiliato per diventare perso­
nalmente una divinità e collocarsi al di qua o al di là dell' esistenza in
un «retro-mondo». Nel 1 88 1 , in Aurora, egli aveva segnalato la divi­
nizzazione prodotta dal sacrificio : «In verità, non sembrate tanto im­
molarvi, quanto, invece, tramutarvi, col pensiero , in divinità e, come
tali, godere di voi stessi» . 2 1 Il lettore ricorderà il racconto della tenta-

19 NIETZSCHE, Genealogia della morale. II. § 1 8 , 78. E un po' più avanti aggiunge:
«Qui c'è malattia, non v'è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata tino a og·
gi nell'uomo - e chi ancora riesce a udire (ma oggi non si hanno più orecchie per que·
sto! -), come in questa notte di martirio e di assurdità ha echeggiato il grido amore, il
grido del più struggente rapimento, della redenzione nell' amore, si volge altrove, colto
da un raccapriccio incoercibile . . . Nell'uomo v'è tanto di terribile ! . . . Già troppo a lungo
la terra fu un manicomio! . . . » (NIETZSCHE, Genealogia della morale, Il, § 22, 83-84).
2° Cf. S. FREUD, «Au-delà du principe de plaisir ( 1 920)», in Essais de Psychanalyse,
Payot, Paris 1 9 8 2 , 4 3 - 1 1 1 (tr. it.: «Al di là del principio di piacere», in Opere, Boringhieri,
Torino 1 9 7 7 , IX).
2 1 F. NIETZSCHE, Aurora. Pensieri sui pregiudizi' morali, Adelphi, Milano 1 984, 1 60.

149
zione in Gen 3, nel quale, apparendo la con dizione umana come una
sventura e addirittura una colpa da cui dover guarire, il serpente mel­
lifluo mormora «sarete come dèi» alla prima coppia, la quale non può
più fare a meno di odiare la sua umanità. Risentimento e cattiva co­
scienza non sono nient' altro che odio della castrazione.

Il sacrificio sostitutivo di Cristo e la violenza divina

Della lezione nietzschiana si ricorderà l'illustrazione radicale di una


violenza divina che assume il volto menzognero dell'amore e della bon­
tà. Sul piano dell'esperienza umana, sappiamo, ad esempio, che un
amore eccessivo può contenere in sé una forte violenza. Così vediamo
certi bambini che sono «adorati» dai loro genitori e al tempo stesso
sempre malati. Quest'«amore» ha su di loro l'effetto che si attribuisce
normalmente all'odio : li distrugge. Analogamente, il Dio violento può
assumere l'aspetto, tipico di una certa lettura del Nuovo Testamento, di
un Dio il cui amore senza limiti divora l'uomo. Riguardo a questo divi­
no, Maurice Bellet scrive: «Dio è amore: dona tutto, perdona tutto, si
dona fino a morire per noi, nel suo Figlio, sulla croce [ . . ]. Dio ama tal­
.

mente che esige tutto, vuole unicamente per sé tutto il nostro deside­
rio, distrugge tutto ciò che potrebbe rendere la nostra gioia troppo
umana. A chiunque volesse sfuggire al suo amore implacabile, Dio op­
pone la minaccia terribile della perdita assoluta, eterna [ . . .]. Scoperta
terribile: il Dio buono non è buono, ma crudele [ . . ]. Scoperta vietata:
.

questa bestemmia sarebbe la colpa irreparabile che ci farebbe perde­


re l'amore di Dio, cioè tutto».22 È così che, sempre nel pensiero di
Nietzsche, il risentimento raggiunge il suo parossismo nel sacrificio di
Cristo : infatti, da una parte, per espiare la colpa umana, Dio rovescia
su di lui la crudeltà, sotto la maschera dell'amore; dall'altra, appare il
carattere infmito del debito, perché solo Dio è in grado di sborsare il
prezzo della colpa: «Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell'uomo,
Dio stesso che si ripaga su se stesso, Dio come l'unico che può riscat­
tare l'uomo da ciò che per l'uomo stesso è diventato irriscattabile - il
creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo poi

22 M. BEwrr, Le Dieu pervers, Desclée de Brouwer, Paris 1 979, 1 6 - 1 7 .

150
crederci?) -, per amore verso il suo debitore».23 La violenza si nascon­
de, prendendo il volto dell'amore e del sacrificio. Dio appare come una
madre che dicesse al suo bambino: «Con tutto ciò che ho fatto per te,
con tutto ciò che ti ho dato e ti ho sacrificato, come puoi farmi questo?».
Troviamo una concezione simile a quella di Nietzsche in Freud, quan­
do pubblica, nel 1 939, quella che sarà la sua ultima opera: Mosè e il
monoteismo. Riprendendo la lezione di Totem e Tabù per continuarla,
Freud interpreta la morte di Cristo come l'atto religioso che permette
di espiare la colpa originaria dei figli colpevoli di aver ucciso il padre.
Il momento mitico che fa iniziare la storia dell'umanità con un assas­
sinio ossessiona la memoria collettiva e fa sì che la colpevolezza sia
sempre reperibile per quanto si risalga indietro nella catena delle ge­
nerazioni. Allora Freud attribuisce all'apostolo Paolo, facendone il fon­
datore del cristianesimo, il fatto di aver compreso l'assassinio origina­
rio nei termini del peccato originale. Spiega: «Con il peccato originale,
la morte era comparsa nel mondo . In realtà questo delitto, punibile con
la morte, era stato l'uccisione del Padre, in seguito deificato. Il fatto de­
littuoso in sé, tuttavia, non era ricordato . Al suo posto , stava la fanta­
sia di espiazione; ed è così che questa fantasia poté essere accolta co­
me un Vangelo di salvazione (Evangelo) . Un Figlio di Dio, innocente, si
era sacrificato, e aveva così assunto per sé le colpe del mondo . Doveva
necessariamente essere un Figlio. perché il peccato era stato l'uccisio­
ne del Padre».24 È così che la «religione del Figlio» succede alla «reli­
gione del Padre», cosa che, agli occhi di Freud , costituisce al tempo
stesso un regresso e un progresso nella storia delle civiltà. Infatti, il cri­
stianesimo, da una parte, non pratica l'ascesi spirituale dell'ebraismo,
specialmente il suo totale rifiuto delle rappresentazioni del divino, dal­
l'altra, assume meglio il ritorno del rimosso ed elabora modi di libera­
zione dalla colpevolezza arcaica. Quindi, in una forma parallela a quel­
la di Nietzsche, Freud interpreta la morte di Gesù come un sacrificio
sostitutivo: il Figlio di Dio deve morire per lavare con il suo sangue la
colpa dei figli che hanno ucciso il padre e non riescono, da allora, a li­
berarsi dal senso di colpa. Oggi, molti psicanalisti riprendono l'argo­
mentazione di Freud senza rendersi conto che dipende da conoscenze
esegetiche piuttosto datate e da una particolare forma di pietà cristia-

23 NIETZSCHE, Genealogia della morale, II, § 2 1 , 82.


24 S. FREUD, Mosè e il monoteismo ( 1 939), Pepe Diaz Editore, Milano 1952, 1 4 1 .

151
na, in voga specialmente nella Vienna sansulpiziana. Daniel Sibony, ad
esempio, va nella stessa direzione in un capitolo dedicato a Paolo e al
cristianesimo: «Il fatto che Gesù incarna la faglia divina e la copre con
il suo sacrificio è una pura novità, una costruzione non prevista dal­
l'Antico Testamento, esclusa in un certo senso [ . ]. Ma essa soddisfa un
. .

fantasma nel quale Dio viene a immolarsi per salvare l'uomo».25 Que­
sta comprensione della morte di Gesù ha certamente delle fonti nella
storia della religione cristiana, ma non è l'unica interpretazione e non
è certamente quella che spiega meglio il pensiero paolino.
Nella sua forma classica, la terminologia cristiana dirà che Cristo è
morto per noi, al nostro posto, per salvarci dal peccato. È in questa
confessione che si radica l'idea del sacrificio sostitutivo, che segnerà a
lungo l'occidente e che Nietzsche ha fortemente criticato. L'interpreta­
zione della morte di Gesù come sacrificio espiatorio sostitutivo, pur
basata su fonti scritturistiche, non è così attestata come si potrebbe
credere. Si trova molto raramente nella teologia dei padri della Chiesa
che, quando usano il vocabolario sacrificale, accordano a Gesù un ruo­
lo attivo : poiché gli uomini erano in mano al diavolo, il Figlio di Dio
sceglie lo stesso percorso di alienazione per liberare coloro che sono
schiavi del peccato e della morte. Accetta la morte per vincerla dal­
l'interno. La versione della morte di Cristo intesa come sacrificio so­
stitutivo compare soprattutto nell'XI secolo con Anselmo di Canterbury,
che ne offre una versione esemplare, ispirandosi, nel contesto medie­
vale, alle relazioni fra il signore e i suoi vassalli: il peccato degli uomi­
ni ha offeso Dio, che allora reclama un sacrificio in grado di placare la
sua collera e soddisfare la sua giustizia. 26 Ma siccome gli uomini non
possono soddisfare una richiesta di giustizia così elevata, il Figlio di
Dio si sostituisce a loro e paga personalmente il debito contratto con
Dio . Gesù Cristo muore per noi nel senso che muore al nostro posto.
Versa il suo sangue al posto del sangue degli uomini. Insomma, sacri­
fica la sua vita al posto della nostra vita per riparare l'onore di Dio e
ottenere il suo perdono. L'uomo moderno fa fatica ad accettare l'inter­
pretazione sacrificale - nel senso di sacrificio sostitutivo - ma occorre
misurarne la parziale pertinenza: essa difendeva la convinzione che gli
uomini non devono soffrire perché Cristo ha sofferto al loro posto. Si

zs D. S1BONY, Nom de Dieu. Par-delà les trois monothéismes, Seui!, Paris 2002, 78.
26 ANSElMO, Pourquoi Dieu s 'est fait homme?, Cerf, Paris 2005 .

152
tratta di una teologia di acquietamento mirante a convincere il cre­
dente a non mortificarsi per espiare le sue colpe. La teologia di Ansel­
mo afferma che Cristo ha offerto la sua vita per te, per cui tu non de­
vi pagare più nulla. In questo senso, il sacrificio di Gesù pone fine al­
la serie senza fine dei sacrifici, raggiungendo in un certo senso la tesi
di René Girard , secondo cui la morte di Cristo come vittima innocente
manifesta e, per ciò stesso cancella, il meccanismo del capro espiato­
rio . 27 Thttavia la teologia anselmiana e quella di coloro che lo seguono
pongono un doppio problema. Da una parte, el<ibora l'immagine di un
Dio che esige la sofferenza e il versamento del sangue per concedere
il perdono . Non è forse l'immagine di un Dio violento, pur avendo cer­
cato di purificarla con un discorso sull'amore divino? Dall'altra, que­
sto sacrificio «per amore», pur affermando che Dio sacrifica il suo Fi­
glio per evitare all'uomo di dover pagare personalmente il debito , co­
struisce tutto un mondo di debiti che può rivelarsi peggiore dell'esi­
genza di giustizia. Abbiamo visto la domanda centrale posta da Nietz­
sche : come pagare il prezzo dell'amore e del sacrificio infiniti? Biso­
gna quindi riprendere la questione, al di fuori di una teologia del sa­
crificio sostitutivo, per cogliere il modo in cui il cristianesimo contiene
il proprio antidoto alla violenza divina. In altri termini, la religione cri­
stiana è servita, e può sempre servire, a fare il gioco della violenza, ma
contiene anche una profonda contestazione di un Dio violento.

La decostruzione cristiana del Dio violento

Si possono rilevare tre elementi importanti per comprendere .il mo­


do in cui il cristianesimo decostruisce una violenza divina.

Il dono che supera ogni misura

Nel 1 976, in un'opera pluridisciplinare consacrata al significato


della morte di Gesù, l'esegeta Xavier Léon-Dufour, prendendo le di­
stanze da alcuni aspetti dall'eredità di Anselmo, scriveva: «Davanti al

27 Cf. R. G1RARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1 980.

1 53
Cristo dei vangeli, sembra immediatamente aberrante pensare che la
giustizia divina esiga come riscatto per l'offesa il prezzo di una vita, e
ancor più quella del Figlio di Dio. Thtto l'atteggiamento di Gesù nei ri­
guardi del peccato contraddice quest'idea. [ . .] La dottrina del sacrifi­
.

cio espiatorio sostitutivo, invece, pone Dio in un rapporto di ugua­


glianza simmetrica con il suo partner. [ . ) Si conserva l' idea di un equi­
..

librio fra colpa e soddisfazione, il che ha senso solo in un rapporto di


uguaglianza basato sulla stretta giustizia» . 28 In realtà, il problema po­
sto dall'idea del sacrificio sostitutivo è il fatto di restare nel quadro del­
la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Ma mentre la
legge del taglione ha almeno il merito di porre un limite alla violenza,
ed è quindi un modo per regolamentare il desiderio di vendetta - non
due occhi per un occhio, ma una stretta equivalenza - la dottrina del
sacrificio sostitutivo associa in modo p roblematico uguaglianza e di­
smisura: ciò di cui bisogna sdebitarsi non è a misura d'uomo. È im­
possibile uscire dalla violenza per questa strada e si resta imprigiona­
ti in un'immagine perversa del divino. Proprio per questo , la risolu­
zione evangelica della violenza consiste nel cambiare il quadro della ri­
flessione, cioè nel rompere con il do ut des . 29 Più esattamente, nell'in­
troduzione di una tensione fra una reciprocità, in realtà mai annulla­
ta, e una sovrabbondanza, che un filosofo come Pau! Ricamr chiama
«super-etica» . 30 È specialmente il caso del discorso sul monte, nel ca­
pitolo 5 del Vangelo di Matteo, dove si legge l'ingiunzione scandalosa
di Gesù, che comanda di amare i propri nemici. Come comprendere
un tale imperativo? Il suo effetto è quella di rompere con la violenza o
è, al contrario, il modo migliore di consegnarsi alle mani feroci del-

2 8 X . UoN-DUFOUR, «La mort rédemptrice du Christ selon le Nouveau Testament», in


Mort pour nos péchés. Recherches pluridisciplinaires sur la mort rédemptrice du Christ,
Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1 984, 5 7 . Nell'opera, un punto di vista si­
mile è sostenuto da Antoine Vergote e. specialmente, da Joseph Moingt.
29 Studiando questa questione, Jacques DERRIDA nota che Nietzsche tiene conto di
«ciò che oltrepassa l'economia come scambio, e del commercio del rin-graziamento. Ora,
invece di accreditare questo alla bontà pura, alla fede, al dono infinito. vi scopre, assie­
me alla soppressione dell'oggetto, un'autodistruzione della giustizia nella grazia» (J. DER­
RIDA, «Donner la mort», in L'éthique du don. Jacques Derrida et la pensée du don, Mé­
tailié-Transition, Paris 1 99 2 , 1 05).
3° Cf. P. RIG<EUR, «Entre philosophie et théologie: la Règle d'or en question ( 1 989)»,
in Lectures Ili. Aux frontières de la philosophie, Seui!, Paris 1 994, 273-279; Amour et
justice, Mohr, Tiibingen 1 990; Soi-méme comme un autre, Seui!, Paris 1 990, 254-270.

154
l'altro? Conosciamo la risposta di Freud in Il disagio della civiltà. Do­
po aver commentato il comandamento «amerai il prossimo tuo come
te stesso», continua: «C'è un secondo comandamento che mi sembra
ancora più incomprensibile e che solleva in me un'opposizione ancor
più violenta. È : "Ama i tuoi nemici". Riflettendoci, ho torto a conside­
rarlo una pretesa ancor più assurda. In fondo è la medesima cosa. Mi
sembra ora di udire una voce che gravemente mi ammonisce: "Proprio
perché il tuo prossimo non è degno di amore e anzi è tuo nemico, do­
vresti amarlo come te stesso" . Capisco allora che si tratta di un caso
simile a quello del Credo quia absurdum». 3 1 Freud vuole affermare che
il comandamento «ama i tuoi nemici» esprime il senso reale dell'amo­
re del prossimo. Delinea il volto del prossimo che il comandamento
chiede di amare . Infatti, è proprio il nemico che bisogna amare, cioè
chi ci vuole del male e non del bene. Lungi dal cancellare la violenza,
il discorso sul monte, con il suo carattere smisurato , la alimenta. Un
giudizio analogo si trova in Daniel Sibony, che tuttavia pone l'accento
sulla violenza di chi pretende di non ricorrervi: «[. ] c'è nella storia
..

questo appello sorprendente : "amate i vostri nemici", appello che può


passare per il simbolo della bontà. È un bel rilancio , ma che ne è? [ . ] . .

Porgere l'altra guancia genera la violenza attraverso il disprezzo del­


l'altro e del suo modo di essere: pretendete di vederlo da molto più lon­
tano dal luogo in cui si trova e ricondurlo all'innocenza "originaria" di
prima della vita, mentre lui vi convoca a una situazione che gli sta a
cuore, che lo blocca o la fa esplodere».32 Infatti, interpretato come
espressione di un rapporto simmetrico, il discorso sul monte offre nuo­
ve possibilità alla violenza che pretende di combattere . Ma è così? Non
bisogna piuttosto comprendere questo testo fondamentale della tradi­
zione cristiana come l'invenzione di un'altra possibilità per la rifles­
sione e per la vita? É lian Cuvillier, nel capitolo 3, ha mostrato breve­
mente il modo in cui il Gesù del Vangelo di Matteo «rompe con la lo­
gica della violenza» . Qui vorrei procedere a un'analisi delle sfide .
A un'attenta lettura, il discorso sul monte si oppone alla violenza su
due piani, distinti e inseparabili al tempo stesso.33 Da una parte , ri-

3 1 FREUD, «Il disagio della civiltà», 598-599.


32 D. SIBONY, Don de soi ou partage de soi?, Odile Jacob, Paris 2000, 1 90- 1 9 1 .
33 Ho cercato di evidenziarne le sfide etiche in L'instant d'un geste. Le sujet, l'éthi­
que et le don, Labor et Fides, Genève 22008.

1 55
prende, senza rifiutarla, la legge della reciprocità contenuta nel­
l'«amerai il prossimo tuo come te stesso», che permette di vedere nel­
l'altro un proprio simile. Ho indicato, nel capitolo 2, che il registro spe­
culare costituiva un ostacolo alla violenza. Ora si può aggiungere un
complemento in relazione alla riflessione di Ricamr sulla regola d'oro
così come è formulata da Hillel, il maestro dell'apostolo Paolo, nel Tal­
mud babilonese: «Non fare al tuo prossimo ciò che detesteresti che ve­
nisse fatto a te. Questa è tutta la legge; il resto è commento» (Shabbat,
3 1 a) . Un'altra formula si trova in Le 6,3 1 : «Come volete che gli uomini
facciano a voi, così anche voi fate a loro» o anche in Mt 7 , 1 2 : «Tutto
quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: que­
sta infatti è la Legge e i Profeti» . Ora Ricreur nota che la regola d'oro ­
di cui è espressione anche l' «amerai il prossimo tuo come te stesso» -
non postula una simmetria all'origine; bisogna piuttosto affermare che
essa ristabilisce una simmetria o la instaura, sul fondo di una dissim­
metria iniziale. È in questo senso che la regola d'oro introduce un im­
perativo morale nel cuore della violenza, che è sempre già presente e
deriva dal fatto che le posizioni non sono pensate come reversibili. Da
una parte, si trova chi fa l'azione e, dall'altra, chi la subisce. La dis­
simmetria genera violenza, perché suppone sempre più o meno una re­
lazione nella quale uno esercita un potere sull 'altro . Questo non impe­
disce un desiderio benevolo, ma una benevolenza nella quale, nota Ri­
creur in Sé come un altro, «l'altro sembra ridotto alla condizione di ri­
cevere solamente».34 Qui non c'è possibilità di scambio e di reciproci­
tà. Possiamo a volte incontrare, sotto il segno apparente della genero­
sità, il godimento che si esprime nella riduzione dell'altro a un oggetto
di cura o a una mano tesa. Il gesto morale può essere rapace, quando
si nutre della sofferenza e dell'angoscia del prossimo, trovandovi una
consistenza o una legittimità. Allora, di fronte ai molteplici volti di una
violenza intrinseca alla dissimmetria, Ricreur fa della regola d'oro un
correttivo fondamentale che è un principio di reversibilità delle posi­
zioni, in altri termini una capacità di considerarsi al tempo stesso co­
me soggetto e come oggetto dell'atto morale. Ricreur nota che si tratta
di elevare l'idea di giustizia al rango di «reciproco indebitamento», cioè
al fatto che «ognuno si senta debitore di ognuno» . 35 La sfida è quella

34 P. Ricama, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1 993, 286.


35 RIC:<EUR, Amour et justice, 38.

156
della giustizia e ha sempre come imperativo l'introduzione della mag­
giore uguaglianza possibile nella disuguaglianza. In questa prospettiva,
il discorso sul monte adotta la regola d'oro come una forma di resi­
stenza alla violenza e all'ingiustizia, ma sapendo anche che essa ali­
menta, con il s uo effetto speculare, l'aggressività e la gelosia.
D'altra parte, il discorso sul monte fa dell'«amate i vostri nemici»
una formula che rompe con il ciclo della violenza. Sottolineiamolo an­
cora una volta: la regola d'oro non viene abbandonata, e neppure ol­
trepassata, ma piuttosto attraversata da un'altra logica, che Ricceur
chiama «economia del dono». Che l'«amate i vostri nemici» si oppon­
ga alla violenza è forse meno evidente di quanto sembri a prima vista.
Freud aveva qualche ragione di pensare che questo comandamento
poteva rivelarsi non solo assurdo, ma anche assolutamente nocivo.
Thtto dipende dal quadro nel quale è collocato. A ben comprenderlo, il
comandamento «amate i vostri nemici» non va oltre la regola d' oro,
chiedendo di più; conduce piuttosto altrove, cioè verso un altro modo
di comprendere il mondo, l'altro e se stessi. Infatti, se andasse sem­
plicemente oltre, apparterrebbe alla stessa logica della regola d' oro;
certo , esigerebbe di più, ma rimanendo nella concezione di una stret­
ta reciprocità; sarebbe un «donando-donando», nel quale il sacrificio
attende una ricompensa o il suo vantaggio . Con questa forma di ec­
cesso continua a operare tutta una violenza e, in questo punto, ritro­
viamo il problema della dottrina del sacrificio sostitutivo che suppone
una relazione simmetrica fra Dio e l'uomo. In questa prospettiva nes­
sun sacrificio è all' altezza del peccato originale e solo il Figlio di Dio
può ripagare il debito contratto dall'umanità. C'è una dismisura, ma
una dismisura che resta sempre nel registro simmetrico del do ut des.
Secondo il racconto evangelico invece la dismisura è ciò che rompe
con ogni reciprocità. Essa non è un «sempre più della stessa cosa»,
bensì un nuovo modo di agire basato su una diversa comprensione del­
l'esistenza. È vero che la dismisura è un eccesso. Essa è un «in più»,
ma non nel senso di ciò che si può aggiungere a una somma e che fa
numero con essa; qui ciò che è «in più» non entra nella logica nume­
rica e non è quindi contabilizzabile. Non si tratta quindi di una so­
vrabbondanza che eccede le misure disponibili nel modo in cui un con­
tenuto può debordare da ciò che lo contiene. La sovrabbondanza non
è quantitativa; è qualitativa e proprio per questo è in grado di aprire
un nuovo spazio sia per la rappresentazione dell'azione sia per la sua
traduzione in pratica. In questo senso, la sovrabbondanza ha unica-

157
mente una sorgente divina. È grazia divina, come testimoniano molti
racconti del Nuovo Testamento a proposito di Dio che non esige nulla
in cambio di ciò che dona e riguardo al quale il discorso del monte af­
ferma addirittura che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa
piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45) o come testimonia il poe­
ma del Servo sofferente analizzato da André Wénin al termine del ca­
pitolo consacrato alla Bibbia ebraica. Il capovolgimento nella violenza
è reso possibile dalla sospensione della reciprocità. Reciprocità e so­
vrabbondanza sono quindi in una tensione dialettica, perché entram­
be operano, ciascuna a suo modo, contro la violenza: la regola d'oro ,
stabilendo la reciprocità nelle relazioni umane, e l'economia del dono,
introducendo una cesura nella relazione simmetrica.

La croce e la rivelazione della violenza

La passione e morte di Cristo in croce, come luogo simbolico, può


a�entare tutto un immaginario della violenza divina; essa può anche,
in un modo molto diverso, produrre il capovolgimento dell'immagine
religiosa di un Dio violento . 36 Più globalmente , la molla che permette
di sciogliere il legame fra realtà religiosa e violenza è il dogma cristia­
no dell'incarnazione, cioè la rappresentazione di un Dio spogliato dei
tratti che si possono normalmente supporre in una divinità onnipo­
.
tente . Se ne trova una formulazione esemplare nella lettera d i Paolo ai
Filippesi, che riprende certamente un inno liturgico primitivo: «Cristo
Gesù svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventan­
do simile agli uomini. . . fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2 , 7-
8). È attraverso una kenosis, uno svuotamento, che si produce la ca­
duta di una figura del divino, che l'uomo religioso protegge per conse­
rare la speranza di oltrepassare i confini della condizione umana. Con
il cristianesimo, si assiste a tutto un lavoro di decostruzione di una di­
vinità onnipotente che alimenta la violenza. In questa prospettiva, La­
can nota che «ciò che viene proposto dal cristianesimo è un dramma
che incarna letteralmente la morte di Dio», se è vero che questa mor­
te ha senso solo in funzione della credenza secondo cui un Dio deve

36 È ciò che avviene già nel poema del servo (ls 5 2-53), analizzato da André Wénin
nel capitolo l .

158
essere o avere per definizione ciò di cui ci priva.37 Del resto, quest'af­
fennazione di Lacan si collega con un'altra affermazione dello stesso
seminario secondo cui «c'è un certo messaggio ateo nello stesso cri­
stianesimo».38 La confessione cristiana dell'incarnazione opera la di­
struzione degli dèi; in altri termini, essa provoca quella destituzione di
Dio (o degli dèi) che la religione, nella sua essenza, protegge dalla man­
canza e dalla morte. È anche la ragione per cui, nel corso della sua sto­
ria, il cristianesimo attesta una difficoltà ricorrente, forse addirittura
un'impossibilità, ad assumere l 'atto che lo fonda e si sforza di ridurre
l'impatto dell'incarnazione.
Questo lavoro di decostruzione trova il suo compimento nella cro­
ce di Cristo, di cui bisogna allora cogliere l'effetto di capovolgimento
decisivo: non è più l' essere umano a subire la violenza divina; è il di­
vino a subire la violenza umana e a trovarsi, nell'uomo Gesù, messo a
morte . Il Dio che fa violenza diventa il Dio al quale si fa violenza. In
questo senso, André Dumas sottolinea giustamente che la croce è «la
messa in risalto nel passaggio all'atto di tutte le nostre violenze rien­
trate, esitanti e camuffate [ . ]. Così la cristologia non nega la violenza,
..

ma la rende terribilmente evidente».39 La croce, in quanto simbolica,


rivela la violenza presente nel cuore dell'uomo. Per questo non do­
vrebbe più permettere, salvo perversione, di servirsi del Dio cristiano
per odiare, escludere, ferire o uccidere, nella misura in cui il Dio mes­
so in croce è giustamente colui che si lascia odiare, rifiutare e uccide­
re dagli uomini. È un profondo cambiamento della comprensione di
Dio, che favorisce specialmente la liberazione dell'amore dalla sua par­
te di violenza. La croce costituisce quindi una risposta specifica alla
tendenza umana alla violenza, per il fatto di non contare su un sem­
plice incoraggiamento alla buona volontà, che indurrebbe a credere in
una bontà «naturale» dell'uomo. La croce è al tempo stesso rivelazio­
ne della violenza umana e offerta di una nuova comprensione del di­
vino e di se stessi.

37 J. LAcAN, Le séminaire VII. L'étique de la psychanalyse (1959-1960). Seui!. Paris


1986. 2 2 7 .
3 8 LA CAN , Le séminaire VII, 209.
39 A. DUMAS, «Bible et violence», in A la recherche d'une théologie de la violence,
Cerf. Paris 1 968. 1 3 .

1 59
Da questo non bisogna concludere che la tematica della croce sia
l'unica a fare ostacolo all'immagine di un Dio violento e che, in un cer­
to modo, basti semplicemente sostituire un discorso sul Dio onnipo­
tente con un discorso sulla debolezza di Dio, come si è a volte teso a
fare, specialmente nel corso del XX secolo. Senza moltiplicare i riferi­
menti, si trova quest' accento piuttosto netto e ripetuto in Bonhoeffer,
nell'ultimo periodo della sua vita. Ad esempio, questa lettera dal car­
cere del 16 luglio 1 944: «Dio si lascia cacciare fuori dal mondo sulla
croce, Dio è impotente e debole nel mondo, e appunto solo così egli ci
sta al fianco e ci aiuta».40 Da una parte, è vero che il discorso religio­
so ha creduto a lungo di poter risolvere la questione del male e della
violenza mediante il concetto di potenza e il postulato di un Dio al qua­
le nulla sfugge . Rifiutandosi di lasciare intatto l'enigma, si è giunti al­
l'idea di un Dio buono che può essere anche un Dio cattivo. Voler ri­
spondere, ad esempio, alla domanda su come un Dio considerato buo­
no possa lasciar morire un bambino, mentre nulla gli sfugge, conduce
a un Dio cattivo, anche se questa cattiveria viene spesso negata o ri­
mossa. Sono noti i disastri causati dall'idea che Dio avrebbe «voluto»
la morte di una persona, la cui scomparsa è particolarmente scanda­
losa. La volontà di formulare a ogni costo un sapere sulla volontà di­
vina segreta conduce necessariamente alla costruzione dell'immagine
di un Dio violento. E tuttavia, d'altra parte, la nozione di impotenza di
Dio di fronte al male e alla violenza può rientrare nello stesso disposi­
tivo mentale. L'effetto è contrario, ma la logica rimane la stessa: forni­
re una spiegazione che permetta di risolvere l'enigma. Così, ad esem­
pio, a proposito del dramma di Auschwitz, il filosofo Hans Jonas so­
stiene che Dio è rimasto in silenzio non perché non sapeva o non vo­
leva, ma «perché non poteva».41 Vediamo che il concetto di impotenza
in sostituzione di quello di potenza conserva la stessa logica: risolvere
l'enigma mediante una pretesa di sapere . La figura di Giobbe esem­
plifica molto bene, al termine di una lunga battaglia, lo spostamento di
questo punto di vista: la pretesa di sapere che pone davanti a un Dio
crudele cede il posto a una posizione di non sapere che permette la fi­
ducia. Ancor più, il grido di Gesù sulla croce - «Dio mio, Dio mio, per-

40 D. BoNHOEFFER, Resistenza e resa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1 988, 440.
•• H . JoNAS, Le concept de Dieu après Auschwitz, Payot, Paris 1984, 34.

1 60
ché mi hai abbandonato?» (Mc 1 5,33) segna a livello cristologico la
-

fine della violenza in Dio attraverso una domanda che resta posta, ma
autorizzando il «Padre, mi rimetto nelle tue mani» cf. Le 23 ,46).

Il diabolico e il simbolico

Noterò, per terminare, un elemento che ci conduce al cuore del pro­


blema. Nel racconto della Passione e al momento della morte in croce,
Gesù si rivolge al suo Dio. Gli parla , mentre tutto lo spinge al mutismo.
Si rivolge a lui, anche se da lui non viene alcuna risposta. Ho citato i
testi dei Vangeli di Marco e di Luca. Nel capitolo 2, ho già delineato
l' opposizione fra violenza e parola. Ora preciso un punto che chiarisce
un aspetto della violenza del nostro tempo . Una forma della violenza
disumanizza non solo perché è una forza brutale o l'espressione di una
potenza, ma anche, e certamente anzitutto, perché cerca di fare tace­
re l' altro. Essa attacca ciò che è più costitutivo dell'uomo: il fatto di
parlare e di esistere solo attraverso il linguaggio . Ora il linguaggio è
fondamentalmente un sistema di rappresentazione. È la capacità di
rappresentarci le cose, cioè di farle esistere attraverso la parola, an­
che in loro assenza. Quando uno parla, non è più incollato al mondo;
non fa più semplicemente corpo con il mondo, ma gli conferisce una
rappresentazione; non è più in una relazione diretta, istintiva, con gli
altri e neppure con se stesso ed esiste in un'indispensabile distanza. In
questo senso il linguaggio è simbolico : passa fra gli esseri e le cose per
farle esistere nella loro singolarità. La violenza è un odio della parola
che produce la distanza fra l'uno e l'altro, che fa sì che l'uno non sia
più l'altro. Interviene quando la relazione con l'altro non passa più at­
traverso la parola, ma diventa una relazione diretta, come può esser­
lo un pugno. È una forma di passaggio all'atto e in questo senso anche
le parole possono essere svuotate della parola; allora sono parole che
diventano cose lanciate contro il volto dell'altro . Oggi questo è un
aspetto centrale della violenza, se è vero che viviamo in un'epoca del­
la «parola umiliata»,42 cioè in un'epoca nella quale la parola viene per-

42 Per riprendere il titolo di un libro di J. Eu.ur., La parole humiliée, Seuil, Paris


1981.

1 61
cepita come priva di consistenza, priva di effetti e, per usare un con­
cetto della pragmatica della comunicazione, priva di performatività. La
violenza consiste sempre nell'idea che la parola è nulla , che parlare
non serve a nulla , che il parlare non può avere alcun senso . Essa ci in­
troduce in un universo senza parole per dire le cose e quindi disuma­
nizzato. Troviamo nei vangeli, specialmente nei racconti di miracoli,
una tematizzazione profonda di questa forma della violenza alla qua­
le si dà spesso il nome di diabolos. Come nota Henri Rey-Flaud , «la tra­
dizione evangelica, perpetuando la figura del seduttore della Genesi,
presenta sempre l'istanza diabolica come il contrario del simbolico, fa­
cendone il nemico della parola, sia che essa renda l'uomo muto (cf. Le
1 1 ) sia che gli strappi grida informi (Le 9)».43 Ci si può stupire per l'u­
so di questo termine, perché dia-bolos significa etimologicamente «ciò
che divide», «ciò che separa» , passando attraverso,44 mentre sym-bo­
lon era, in origine, un coccio spezzato in due e condiviso fra due per­
sone in occasione di un patto o di una separazione e la cui riunione co­
stituiva un segno di riconoscimento . Perciò, come intendere che il sim­
bolico, al contrario del diabolico, sia ciò che unisce, o raduna, mentre
ho giustamente indicato il ruolo di separazione della parola simbolica?
La contraddizione è solo apparente, se si comprende che la divisione
del diabolos è ciò che fa perdere il legame fra la carne e il linguaggio,
cioè che cerca di fare abitare al di fuori di un universo di parole. Il sim­
bolico invece unisce ciò che è stato separato o, più esattamente, fa del­
la separazione la condizione del legame con l 'altro e di un riconosci­
mento reciproco .
In realtà, diabolos e symbolon non sono tanto l'esclusione l'uno del­
l'altro quanto piuttosto in rapporto dialettico, come lo è, in Freud, la
dualità fra pulsione di morte e pulsione di vita. Del resto, è sorpren­
dente vedere che· Freud, nel momento in cui concettualizza la nozione
di pulsione di morte, nel 1 920 in Al di là del principio di piacere, ne
parla ripetutamente come di un principio «demoniaco», al quale non
attribuisce una connotazione religiosa.45 C'è violenza quando manca­
no le parole e quindi quando c'è una carenza di simbolizzazione. Ma,
qualunque cosa facciamo, noi non possiamo, e non potremo mai, dire

43 H. REY-FLAuo, Le Sphinx et le Graal, Payot, Paris 1 998, 1 27 .


44 In seguito, diabolos significa «calunniatore», «mentitore».
45 FREUD, «Au-delà du principe de plaisir», dove il termine ricorre quattro volte.

1 62
tutto . Vi sarà sempre un resto - ciò che Lacan chiamerà «reale» - che
è un impossibile da dire . È questo a far sì che la violenza non possa
mai essere totalmente eliminata e contenga una parte incurabile . C'è
ciò che non può essere simboleggiato, che resiste e che, come diceva
Freud a proposito della pulsione di morte, «lavora in modo muto».46
La violenza che opera su questo versante, in silenzio , non va negata;
dobbiamo piuttosto imparare a pacificarla, a inserirla, per quanto pos­
sibile - anche se c'è un resto - nel mondo umano della cultura e del
linguaggio . È così, ad esempio, che la carezza amorosa è un gesto di
presa che è stato pacificato , in un certo senso metabolizzato, per di­
ventare un' espressione dell'erotico . Resta comunque il fatto che solo la
parola, nella sua funzione simbolica, può fare sì che la violenza non in­
vada il campo delle relazioni. Lacan scriveva: «Sappiamo che ai confi­
ni dove la parola si dimette, comincia il campo della violenza e che es­
sa già vi regna, anche se non la si provoca».47
Un racconto evangelico, in Mc 5 , 1 -20, che riferisce l'incontro fra Ge­
sù e un uomo posseduto dal demonio «Legione», permette di illustrare
l'opera della parola nella violenza. I:uomo è escluso dalla vita sociale,
emarginato, «ha la sua dimora fra le tombe», «nessuno riesce a tener­
lo legato, neanche con catene, ma ha spezzato le catene e spaccato i
ceppi e nessuno riesce più a domarlo . Continuamente, notte e giorno,
fra le tombe e sui monti, grida e si percuote con pietre» (vv. 3-5). Que­
st'uomo è diventato estraneo a se stesso. È diviso, nel senso del diabo­
los. È diventato l'oggetto di una forza che lo lacera e lo spinge in un
luogo arido, dove il grido sostituisce la parola. Egli sperimenta anche
la parola di Gesù che si avvicina come violenza, come colpi che gli ven­
gono sferrati, al punto da supplicarlo: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del
Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi! » (v. 6).
Per lui, le parole sono, come tutto il resto, cose che non vengono colte
nel loro registro metaforico . Non riesce a distinguere fra la vita e la
morte, la violenza per la vita e la violenza per la morte. Thtto è confu­
so, al punto da amare la sua sofferenza e godere della violenza che su­
bisce o che infligge, come capita spesso a chi soffre e si oppone alla

46 FREUD, «Il disagio nella civiltà», 6 1 2 .


4 7 J. i..ACAN , «lntroduction a u commentaire d e Jean Hyppolite s ur l a "Verneinung"
de Freud (1954)», in Écrits l, Seuil, Paris 1 999, 373.

1 63
guarigione. Egli scambia la morte per la vita o per l'unica vita possibi­
le.
Quando Gesù gli chiede di: dire il suo nome, cioè di declinare la sua
identità, parlando in prima persona singolare, risponde : «Il mio nome
è Legione, perché siamo in molti». Si nomina attraverso una moltepli­
cità, che qui non è semplice pluralità, ma frantumazione del suo esse­
re. Di fronte alla violenza che abita in quell'uomo, Gesù si tiene conti­
nuamente dalla parte del simbolico, usando la parola come istanza di
distinzione e di riconoscimento. Separa per permettere il legame, la re­
lazione sociale, contro la divisione che isola e riduce la parola al si­
lenzio . Questa separazione non è priva di forza, di sradicamento; di­
ciamo anche di una certa violenza, che si esprime specialmente nella
resistenza dell'uomo posseduto da «Legione» e anche nel fatto che, al
termine del racconto, i demoni entrano in una mandria di porci e si
precipitano giù dalla rupe nel mare (cf. v. 1 3). Da un capo all'altro del
racconto, Gesù viene presentato come colui che opera unicamente at­
traverso la parola, che permette di simboleggiare una parte della vio­
lenza. Non si tratta di eliminare la violenza, ma di fissarle dei limiti,
come ognuno deve, per se stesso, dare dei contorni al proprio corpo,
quindi alla differenza fra sé e l'altro. L' amore non basta per combatte­
re la violenza; a volte, è addirittura più terribile delle violenze e può
ferire per sempre . Come distinguere allora nel cosiddetto «amore» fra
ciò che inganna e ciò che conserva la parola, fra ciò che fa morire e
ciò che fa vivere? La verità non si giudica dalla mitezza o dalla durez­
za, dalla compassione o dell'esigenza, della parola o dell' atto, bensì dai
suoi effetti di vita. Così ritroviamo la lezione di Nietzsche: l'albero si
riconosce sempre dai suoi frutti.

1 64
ALCUNI LIBRI
PER ANDARE OLTRE

Bibbia (in generale)

ARNOLD M. - PRIEUR J.-M. (edd.), Dieu est-il violent? La uiolence et les


représentations de Dieu, Presses universitaires, Strasbourg 2005.
BARBAGLIO G., Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane,
Cittadella Editrice, Assisi 1 99 1 .
BEAUCHAMP P. , «La violence dans l a Bible», i n Testament biblique. Re­
cueil d 'articles parus dans Études, Bayard, Paris 200 1 , 1 6 3 - 1 8 3 .
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Cerf- É vangile et Vie, Paris 1 99 1 .
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- DEwEz J . , Qu 'as-tu fait de ton frère? Violences e t Bible
(Sens et foi 5), Lumen Vitae, Bruxelles 2004.
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GIBERT P. , L'espérance de Cain. La violence dans la Bible, Bayard, Pa­
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GRAPPE C . MARX A., Le sacrifice. Vocation et subuersion du sacrifice
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dans les deux Testaments (Essais bibliques 29), Labor et Fides, Ge­
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Antico Testamento

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Nuovo Testamento

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freudien de Montpellier l l (ottobre 1 99 1 ) , 7-20.

1 67
Indice biblico

ANTICO TESTAMENTO

Genesi 6,5- 1 3 23
1 1 6 30 59 6, 1 1 - 1 2 17
1-1 2 46 6,13 18
1-9 16 6,17-18 18
1 , 1-2 , 3 16 8 , 2 1 -22 18
1 ,2 16 9,1-3 18 51n
1 ,3a 16 9, 1 -6 20
1 , 28-29 17 1 8 9,1-7 18
1 , 28-30 16 9,4-6 18
2,4ss 59 9,6 18
2,16 59 9,6a 40
2 , 1 6- 1 7 1 7 45 9,8 - 1 7 18
2 , 24 135 1 1 , 1 -9 19
3 1 50 1 2, 1 - 3 19
3 , 1 -7 17 1 2 , 1 0-20 31
3,8-24 17 12,17 21
3,15 17 15,16 34
4,1-16 22 1 8,20-33 23
4,5-8 17 18,25 23
4,7 17 1 9,23-28 21
4,9-14 17 20 31
4, 1 5 17 20, 1 8 21
4,23-24 17 22 43 44 70n 72 80
6,4-5 17 22,2 21

1 69
22, 13 43 9,13 28n
34 1 34 9,34-35 29n
49,3 68n lO, l 29n
10,3 28n
Esodo 10,20 29n
l 22 10,27 29n
1-1 5 27 1 0, 28-1 1 , 1 0 29
1 ,8-22 27 11,10 29n
1 ,22 1 20 12,31 120
2,1-10 1 20 1 3,2 44
2,11s 120 13,1 1-15 44
3,14 21 13,15 29n
3,19 29 14 1 2 26 2 9
4, 1 9 27 14,4 29n
4,21 29n 1 4,8 29n
4,22 28 2 9 1 4, 1 7 29n
4,29-3 1 27 1 5 ,3 1 1 1 2 30n
5 22 19,12-13 41n
5,1 28n 20 74
5,1-19 27 20,4 21 46
5,2 28 20,5 74n
5 , 20-21 27 20,5b-6 74
6,6 27 2 1 , 1 2- 1 3 40
6,9 27 21,16 40
7,1-5 28 21,17 41
7,3 29n 2 1 ,20 24
7,4 23 21 .29 40
7,13 29n 22, 1 7 40
7,14 29n 22, 1 8 40
7,16 28n 22,19 40
7,22 29n 28,46 41
7,26 28n 31,13 42
8,1 1 29n 31,14 41
8,15 29n 3 1 , 1 5- 1 7 41
8,16 28n 31,17 42
8,28 29n 33 70
9,1 28n 34,6-7 46
9,7 29n 34, 1 4 74
9,12 29n 35,2 41

1 70
Levitico 35,21 40
18,21 43 35,31 40
1 8, 24-25 34
1 8 , 27-29 34 Deuteronomio
19,18 24 4 , 1 5-1 6 21
20,2 40 4,32-39 33
20,2-5 43 7,1-5 32n
20,9 41 9,5 34
20, 1 0 40 1 2, 3 1 43
20, 1 1 - 1 7 40 16,2- 1 7 40
20, 1 3 40 1 7 ,2-7 40
20, 1 5- 1 6 40 18,10 43
20,22-23 34 1 8 ,20 40
20,27 40 20, 1 0- 1 5 32
21,9 40 20, 1 6- 1 8 32
24, 1 6 40 22,22 40
24, 1 7 40 22,25-26 40
24, 2 1 40 28, 38-42 26
26 38 32,21 76n
26, 1 4-45 38 32,43 25
26, 1 8 38
26, 2 1 38 Giosuè
26,23 38 1 , 1 -9 32
26,25 25 1 , 2-9 33
26,27 38 4,8 34n
26,40 38 4, 1 0 34n
26,41-45 38 6-1 2 32 34 35
6,21 32
Numeri 6,24 32
1,51 41 6,26 43n
3,10 41 7-8 32
3,38 41 8,22-29 32
1 5 , 32-36 41 8,31 . 34n
16 31 1 0,28-39 32
18,7 41 10,40 34n
1 8, 2 2 41 1 1 ,9 34n
21,14 30n 1 1 ,12 34n
25 1 10 1 1 , 1 0- 1 4 32
3 5 , 1 6- 1 8 40 11,15 34

1 71
1 1 , 1 5-23 32 1 Samuele
1 1 ,23 34n 2,8-10 30
1 1 , 1 6-20 34 1 7 ,47 30n
2 3 , 1 2- 1 3 32 18,17 30n
24, 1 3 25
Giudici 25,28 !iOn
2 38
2 , 1 -3 32 2Samuele
2,15 38 7,14 37
2 , 1 6- 1 9 38 11 119
2 , 20-23 32 38 1 1-1 2 24
3 , 1 -6 32
3 , 7- 1 1 38 t Re
3 , 1 2-30 38 16,34 43n
4-5 38 1 8 , 1 6-40 36
6,1-10 38 19,1-3 36
6 , 1 1 -8 , 2 1 39 1 9 , 4- 1 3 36
7 , 1 9-22 26 1 9 , 1 5- 1 6 36
8 , 2 2-9, 5 7 39 19, 1 7 36
9 , 2 3-24 39 21 24
9, 56-57 39 21,1-16 35
1 0 , 6-1 2 , 7 39
11 68 2Re
1 1 ,9 44 9,1-10 35
1 1 , 29 44 9,3 36
1 1 , 29-40 39n 9,6- 1 0 36
1 1 ,30 44 69 9,22-3 7 . 35
1 1 ,35 69 10 35
1 1 ,36 44 16,3 43n
1 3- 1 6 39 1 7,5-23 34
1 7-2 1 39 21,6 43n
1 7 ,6 39 23,10 43n
1 9-2 1 22 3 1 24,3 34
2 1 ,25 39 24,20 34
25 22
Rut
1,1 40n 2Cronache
20, 2 1 -24 26

1 72
Giuditta 5,20-23 26
2-7 22 1 1 , 16 26 37n 41
17,21 26
Giobbe
5 , 1 7- 1 8 37 Isaia
l 37
S almi 1 ,2-20 37
3,2-7 30 1 , 25-27 37
7, 1 7 26 2,2-4 47
1 1 ,5 20 5,8-30 31
33,6 16 14,3-21 23n
34,22 26 1 9 , 1 6-25 35
38 37 35,4 25
39, 1 1 - 1 2 37 40, 1 - 2 37
40,7 70n 45,6-7 46
46, 1 0 47 45, 1 5 21
58 25 52-53 1 58n
58 , 1 1 - 1 2 25 52, 1 3-53 , 1 2 48
74, 1 2 - 1 7 31 53,9b 49
76,3-4 47 5 3 , 1 0a 49
76, 1 0 47 53, 1 2b 49
85,9 47 61,8 20
94, 1 25n
94 , 1 -2a 25 Geremia
94,2b 25 2,19 37n
94,5-6 25 4,5-5 , 1 9 31
94, 1 4 25 7 , 30-3 1 43
94,20- 2 1 22 19,5 43
94,23 25 26 40
28 40
Proverbi 3 1 , 1 8- 1 9 37
3, 1 1 - 1 2 37 32,35 43
6,16-19 20 50 23
8,3a 20 50, 1 5 25
8,3b 30 50, 1 7- 1 8 23n
50,29 23
Sapienza 51 23
5 , 1 5-20 26 5 1 ,34-40 23n

1 73
Ezechiele 2,12-17 37
5,13 77
1 6 , 20 43 Amos
20,30-31 43 1 , 3-2 , 5 24
24,7-8 25 2,6- 1 6 24
25,12 24 3,2 24
25, 1 5 24 6,8 20
33, 1 1 48 7 , 1 -6 26
39,9- 1 0 47 8,4- 1 0 30

Giona 35
Daniele
7 ,2 16 Michea
4,1-5 35
Osea 6,7 43
6,6 1 28n
Zaccaria
Gioele 8 , 1 7a 20
1-2 26 8 , 1 7b 20
1 13 18
, - 37 9,9- 1 0 48

Nuovo TESTAMENTO

Matteo 5,1-10 1 40
1-2 117 5,3-1 1 1 18
1,1 119 5,9 1 1 8 1 36
1.1-17 117 5,19 131
1,3 119 5 , 20 1 34
1,5 119 5 , 2 1 -26 132
1,6 1 19 5,22 131 1 32
2 119 5,38 1 34
2,16-18 119 5,38-42 1 1 8n 1 33
2,17 119 5,3 8-48 132
2,1 7-18 119 5,39.42 1 34
3,1 123 5,43-44 1 1 8n
3,2 129 5,45 148
4,8 1 36 7,12 156
4, 1 7 1 29 8,17 120
5 1 54 9,10 1 26n

1 74
10 1 20 2 1 , 33-45 80 1 2 5
1 0 , 5b-6 131 21 ,38 1 23
1 0 , 1 6-42 1 20 2 1 ,41 1 25
10,21 135 22,7 80
10,21-22 1 20 22 , 1 1 - 1 4 125
1 0,24 1 22 22, 1 3 80
10,34 1 1 8 1 2 1 1 23 22,38 1 36
1 0,34-36 1 34 22,41 1 36
1 0,34-38 121 23 1 1 8n 1 2 5 1 27 1 29
11,11 131 131
1 1.12 1 1 7 1 22 1 22n 1 3 6 23, 1 7 131 132
1 1 . 1 2- 1 3 123 2 3 , 30 1 30 1 3 1
1 1 ,21-24 1 24 23,33 125
1 1 , 23 124 23,35 1 30 1 3 1
1 1 ,28-30 1 1 7, 132 24-2 5 1 28 1 2 9
1 1 , 29 1 1 8n 1 3 3 2 5 , 1 4-30 126
12,1-13 121 2 5 , 1 4-33 125
1 2, 1 4 121 2 5 , 30 80
1 2 , 1 8- 2 1 1 1 8n 26,24 1 28 1 30 1 3 1
12,19 133 26,28 80 1 3 1 1 3 7
1 3 , 36-43 124 26, 36-45 1 28
1 3, 4 1 128 26,39 1 28
1 3,42 80 26,47-56 1 28
14,1-12 121 26, 5 1 - 5 3 1 28
16,14 1 19 26, 5 1 -56 1 28
16,21 .1 2 1 1 2 2 26,52 118
1 6,27 1 28 27,3- 1 0 1 28
1 7, 1 2 - 1 3 121 27,4 1 30
1 7,22 121 27,6 1 30
18 1 26 27,8 1 30
1 8 , 1 2- 1 4 1 26 27,9- 1 0 119
18,17 1 26n 27,24 1 30
1 8 , 23-35 125 126 27,25 131
1 8 ,24 1 26n 27,45-50 128
1 8 , 26 1 26n 27,45-53 1 29
18,34 80 27 ,46 128
20, 1 7 121 27,51 128
20,28 97 1 32 2 7 , 5 1 b-5 3 1 29
2 1 , 1 2- 1 3 125 27,54 1 29

1 75
2 8 , 1 6-20 129 1 3 7 5,1 1 09
28, 1 9 131 5,9- 1 0 1 04
6,6 113
Marco 6,7 113
5 , 1 20 - 163 8 , 1 8-23 102
5 , 3-6 163 8,32 80 105 107
5,6 163 8,3 5- 37 1 14
5,13 1 64 9 11- 113
1 0,45 97 1 2 , 1 4-21 115
14,24 80 12,19 25n 101
1 5,33 161 13 115
1 5 ,34 79n 14,19 115
1 6 , 20 103
Luca
1 ,68 97 l Corinzi
2,38 97 1,18 108
6,31 1 56 1 18 19
, - 105
9 162 1 , 1 8-25 108
11 1 62 1 , 20 108
1 4 25-35
, 1 36n 1,23 106
1 4,26 1 3 6n 1 , 24 108
16,16 1 1 7n 1 2 2 1 22n 2,2 1 06
2 2 , 20 80 2,6-8 108
2 3 , 46 161 6,20 97
24,21 97 7,23 97
15,9 1 10
Giovanni 1 5 , 24-26 1 06
13,10 97 1 5 ,54-55 107

Atti 2Corinzi
5 , 1 -6 80 5,17 108
5,1-11 80n 6,2 108
22,4 111 10-1 3 112
10,3-5 1 09
Romani 1 0,6 112
1 3
- 103 11,15 112
2 , 5- 1 1 103 12,10 1 14
3,25 105 1 3,2 112
3,26 108 1 3, 1 0 112

1 76
Galati l Tessalonicesi
1,4 1 04 1 08 1 ,2 - 1 0 112
1 , 1 3-14 1 1 0 1 1 0n 1,10 1 04
1,13-15 1 10 2,13 112
1,15 1 09 2,14-16 80 1 1 2
2,19 114 2,15 113
3,1 8 0 1 05 1 1 2 2 , 1 6b 113
3,13 97 1 0 5 2 , 1 6c 113
4,4 108 5,9 1 04
4,5 97
5,24 1 14 2Timoteo
6,14 105 1 08 1 1 4 4,6- 1 8 17
6, 1 5 108
Tito
Efesini 2,14 97
2,13-17 115
Lettera agH Ebrei
Filippesi 9,12 97
1 ,4 114 10,22 97
1,18 114
1 , 25 114 Giacomo
1,27 1 14 4,2 77
1 ,29 114 4,5 77
2,2 114
2 , 7-8 1 58 l Pietro
2,8 105 1,8 97
2,10 1 07
2 , 1 7- 1 8 114 115 2Pietro
2,28 114 2,1 97
2,29 114
3,1 1 14
3,2 80 1 1 2 Apocalisse
3,7 1 10 1-1 1 1 2 2n
3,10 115 1,1 99
4,1 114 1 ,4 22
4,3 114 1 ,4-7 94
4,4 1 14 1 ,4-8 95
4,10 114 1 ,5 94 96

1 77
1 ,5-7 95 7 88
1 ,6 97 7,9 96
1,7 95 7,10 96
1 ,9 85 7,14 97
1,16 87 7,1 7 96
1,18 87 8 ·88
2-3 98 8-1 1 8 86 87
2,5 87 8-9 86 88 9 1
2,13 85 9 5 8,1-5 87
2,16 87 8,6-9 , 2 1 87
2,23 86 87 8,6-9, 1 2 87
3,3 87 8,7 8 8 90
3,16 87 8,8 88
4 87 88 8,8-9 90
4-1 1 87 8,9 88
4-5 88 92 8,10 88
5 87 96 8, 1 1 88
5,1 88 8,12 8 8 89
5,5 95 97 9,4 90
5,6 8 95 9 6 10 87
5,8 96 1 0-1 1 88
5,9 95 96 97 1 0 , 1-1 1 , 1 4 87
5,9-10 95 10, 3-4 87 94
5,12 96 11 96
5,13 96 1 1 ,3 95
6 86 88 1 1 , 1 0- 1 3 86
6-1 1 96 1 1 , 1 5- 1 9 87 8 8 9 1
6-7 87 11,18 86
6,1 96 12 91
6 , 1-8 , 5 87 1 2-22 , 5 90
6 , 1-1 1 , 1 4 88 1 2-2 2 87
6,2 97 1 2 ,9 90
6,4 96 12, 1 1 9 6 97
6,8 88 13 82 9 1 99
6,9 85 96 13,3 96
6,10 94 1 3,8 96
6,1 1 89 13,13 99
6,12-17 88 14 91 96
6,16 96 14,1 96

1 78
14,3-4 97 1 8,24 85
14,4 96 97 19 87
1 4,6-20 86 19,2 85 8 6
14,7 86 19,7 96
14,10 96 19,9 96
1 4 , 1 4- 1 6 87 1 9, 1 1 -2 1 91
14,19 86 1 9, 1 5 86
1 5-16,9 86 20 91
1 5-16 8 86 87 91 20, 1 - 1 0 87
1 5 , 1-1 6 , 2 1 8 7 90 20, 1 - 1 5 91
15,1 86 20, 1 1 86
1 5 ,2-3 91 20, 1 1 - 1 5 86
15,3 18 86 91 96 20, 1 2- 1 3 86
15,7 86 2 1 , 1-22 , 5 91 101n
16 90 21,1 96 101
16,2 86 2 1 , 1 -8 101
1 6,6 85 2 1 ,4 101
16,9 86, 91 2 1 ,9 96
1 6, 1 0-21 87 2 1 ,9-27 101
1 6, 1 1 91 21,14 96
16,13-14 91 2 1 ,22 96 1 0 1
1 6 , 1 7-21 91 21 ,23 96 101
16,19 86 2 1 ,25 101
1 7-1 9, 1 0 91 2 1 ,27 96 1 0 1
1 7-1 8 87 91 99 22, 1 -5 101
1 7 ,6 85 95 22,1 96
17,14 96 22,3 96 1 0 1
18,5 86 22,5 101
18,6 86 22, 1 2 86
Indice

'
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . p. 5

Capitolo primo
«ADONAI È UN GUERRIERO» (ES 1 5 , 3) .
LA VIOLENZA DIVINA NELL'ANTICO TESTAMENTO
(André Wénin) .............................. ..................................... » 11
Un racconto programmatico (Gen 1-9):
un Dio mite davanti alla violenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16
Violenze di Dio: abbozzo di una tipologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 20
Immagini di Dio, violenza e pace.
Alcune riflessioni come conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 45

Capitolo secondo
LA VIOLENZA ARCAiCA E IL PARADOSSO
DEL SACRIFICIO AGLI D È I OSCURI (Jean-Daniel Causse) .. . » 53
Il concetto di violenza secondo la psicanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53
Ambivalenza della violenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 56
Che fare di fronte alla violenza incurabile? .. .. �.. .. . ......... .. .. » 61
L a violenza degli dèi oscuri e i l godimento del sacrificio . . . » 65
La gelosia divina: una forma di violenza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73

Capitolo terzo
VIOLENZA DEGLI UOMINI, VIOLENZA DI DIO .
UNO SGUARDO SU ALCUNI TESTI
DEL NUOVO TESTAMENTO ( É lian Cuvillier) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79
Giovanni di Patmos: la violenza al servizio
della buona novella? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 82

1 81
«Date un luogo all'ira» (Rm 1 2 , 1 9).
Un percorso paolino attorno alla violenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 101
Gesù alle prese con la violenza nel Vangelo di Matteo » 117

Capitolo quarto
LA RELIGIONE DELL'AMORE:
UNA RISOLUZIONE DELLA VIOLENZA DIVINA?
(Jean-Daniel Causse) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 39
L'amore cristiano di fronte alla filosofia di Nietzsche . . . . . . . . » 141
Il sacrificio sostitutivo di Cristo e la violenza divina . . . . . . . . . . » 1 50
La decostruzione cristiana del Dio violento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 153

ALCUNI LIBRI PER ANDARE OLTRE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 65

INDICE BIBLICO ................................................ . . . ............. » 1 69

182

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