L Ultima Corsa Per Woodstock Colin Dexter by PDS

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Con Colin Dexter, a detta dei critici, siamo ai piani alti dell’arte del poliziesco.

Uno
scrittore di timbro classico, da paragonare a Ruth Rendell e P. D. James. L’ambientazione è
tipicamente inglese: l’Inghilterra da cartolina, dei pub e dei sobborghi verdi, cui però si
aggiunge subito il graffio della violenza e delle sordide passioni. Limpida è la razionalità
del puzzle, privo di effetti appariscenti e senza l’eccitante dell’azione a tutti i costi: ma
l’enigma dell’intreccio non è mai creato grazie alla trovata cervellotica, semmai sono le
sorprese che riserva la vita quotidiana a rimescolare e confondere. E l’umanità dei
personaggi, così come il retroterra culturale che sostiene ogni pagina, affiora soprattutto
nell’ininterrotto filo di ironia, a volte amara, a tratti malinconica, perfino ammiccante con i
lettori alle spalle dei protagonisti della narrazione. Insomma nei romanzi di Colin Dexter
scopriamo una prova, tra le più interessanti e riuscite, di rinnovamento del giallo inglese
tradizionale. L’ispettore E. Morse e il suo aiuto, il sergente Lewis, sono in L’ultima corsa
per Woodstock al loro esordio da protagonisti della serie che comprende più di dieci casi.
Si sono presi subito, quando Morse ha chiesto al subalterno: «Crede che stia perdendo
tempo?» e Lewis ha risposto senza affanno: «Sì signore». Il sergente ha appreso presto a
concepire come utili all’inchiesta i cruciverba del superiore, la passione per Wagner, i
sarcasmi fuori luogo, il bere, la solitudine. L’occhio scrutatore di Morse, infatti, sembra
sempre rivolto verso l’interno, dentro lui stesso mentre guarda la vita degli altri scivolare in
cupi drammi. All’inizio, la bella Sylvia Kaye, scomparsa alla fermata per Woodstock,
ritrovata ore dopo uccisa in modo brutale nel pub a nord di Oxford, era sembrata
l’interprete di una tragedia di ordinario orrore. L’inchiesta s’era avviata agevolmente. Tanto
che «Morse si era sentito fiducioso nelle proprie capacità, come uno studente che, alle prese
con un insidioso problema di matematica, in segreto si tenga accanto il libro delle risposte».
Presto però una ragazza cocciuta e intelligente aveva aperto le prime crepe nel castello di
sabbia dell’investigatore. E non era stato l’unico contrattempo. Una serie esasperante di
trabocchetti, false piste, colpi di scena, convinceva Morse che, forse, «il libro delle
risposte conteneva un errore». Norman Colin Dexter (Stamford, 1930), docente di greco e
specialista di enigmistica, tra il 1975 e il 1999 ha scritto tredici romanzi (tutti di prossima
pubblicazione) della serie dell’ispettore Morse, diventato popolarissimo in Inghilterra
grazie anche ad una fortunata serie televisiva. In questa collana Al momento della
scomparsa la ragazza indossava (2011) e Il mondo silenzioso di Nicholas Quinn (2012).
L'ultima corsa per Woodstock

1975 © Colin Dexter


2010 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo

Titolo originale: Last bus to Woodstock


«Aspettiamo ancora cinque minuti, ti prego» disse la ragazza in pantaloni blu e
impermeabile estivo. «Sono sicura che arriva subito».
Del tutto sicura non era, però, e per la terza volta si girò a esaminare l’orario affisso
nella cornice rettangolare sotto il cartello della fermata. Ma la sua mente non si era mai
mossa con scioltezza tra le colonne di numeri, e il dito che tracciava un’incerta rotta
orizzontale dal margine sinistro del riquadro non sembrava destinato a incontrare nel punto
giusto quello che calava lungo una direttrice più o meno verticale a partire dal bordo
superiore. La ragazza che le stava accanto dondolandosi impaziente da un piede all’altro
disse: «Fa’ un po’ quello che vuoi».
«Solo un minuto. Solo un minuto». Provò ancora a concentrarsi sulle colonne che le
interessavano: 4, 4A (non effettuata dopo le 18,00), 4E, 4X (solo domenica). Era mercoledì.
Quindi voleva dire che… Le 14,00 significava le due e dunque voleva dire che…
«Senti, bella, fa’ un po’ quello che ti pare, io vado di autostop». La sciatteria della sua
parlata era irritante. Aveva un accento locale così forte da storpiare le parole. Se mai
fossero diventate amiche davvero, prima o poi bisognava che glielo facesse notare.
Che ore erano? Le sette meno un quarto di sera. Quindi, le 18,45. Sì. Finalmente
cominciava a capirci qualcosa.
«Dai. Ci becchiamo un passaggio al volo, fidati. Quelli non aspettano altro che
rimorchiare un paio di ragazze».
A dirla tutta, non c’era motivo di mettere in dubbio il sano ottimismo di Sylvia.
Qualsiasi automobilista minimamente compiacente avrebbe di sicuro notato con favore la
sua gonna minuscola e il piacevole invito delle gambe più sotto.
Per qualche breve attimo le due ragazze stettero in silenzio, sospese in una tregua carica
di tensione.
Una donna di mezza età avanzava senza fretta verso di loro, fermandosi di tanto in tanto
per voltarsi a fissare la strada che si allungava nella penombra verso il cuore di Oxford. Si
arrestò a pochi metri dalle ragazze e appoggiò a terra la borsa della spesa.
«Mi scusi» disse la prima ragazza. «Sa quando arriva il prossimo autobus?».
«Dovrebbe passarne uno tra poco, cara». Guardò di nuovo verso il grigiore lontano.
«Arriva a Woodstock?».
«No, non mi sembra. Si ferma a Yarnton. Entra in paese, poi gira e torna indietro».
«Ah». La ragazza avanzò fin sulla carreggiata e allungò il collo, ma tornò indietro
all’avvicinarsi di un breve corteo di auto. Ormai, nella semioscurità del crepuscolo,
qualche automobilista aveva acceso le luci di posizione. Nessun autobus in vista, e la
ragazza sentì crescere in sé l’apprensione.
«Andrà tutto bene, ti dico» disse Sylvia, con un’ombra di fastidio nella voce. «Vedrai
che domani ci facciamo sopra quattro risate».
Un’altra auto. E un’altra. E poi di nuovo la quiete della calda sera autunnale.
«Be’, tu resta, se ci tieni. Io me ne vado». La sua compagna la guardò incamminarsi
verso la rotonda per Woodstock, un duecento metri più avanti. Non era una brutta posizione
per gli autostoppisti, perché lì le automobili dovevano rallentare per immettersi nel
raccordo trafficato.
A quel punto si decise. «Sylvia, aspetta!» e, portandosi la mano coperta da un guanto al
colletto del leggero impermeabile estivo, andò a raggiungerla con una corsetta goffa.
La donna di mezza età restò ad aspettare alla fermata. Pensò a quanto erano cambiati i
tempi da quando era giovane lei.
Ma la signora Mabel Jarman non aspettò a lungo. Distrattamente si perse in pensieri vani
e casuali – cose di nessun interesse. Presto sarebbe arrivata a casa. Come avrebbe
raccontato in seguito, poteva descrivere Sylvia con una certa precisione: i lunghi capelli
biondi, la sensualità sfrontata e provocante. Dell’altra ragazza non ricordava granché: un
impermeabile leggero, pantaloni scuri – ma di che colore? I capelli, erano castano chiari?
«La prego di fare uno sforzo, signora Jarman. È della massima importanza per noi che lei
ricordi tutto quello che può…». Aveva notato qualche auto, e un articolato pesante che
sobbalzava, carico di un numero impressionante di carcasse d’auto prive di ruote. Uomini?
Uomini che viaggiavano soli? Provò in ogni modo a ricordarseli. Sì, ne erano passati
senz’altro. Gliene erano passati davanti parecchi.
Alle sette meno dieci un’oblunga macchia rosata aveva a poco a poco assunto contorni
più precisi. Lei aveva raccolto la sporta mentre l’autobus rosso della Corporation
lentamente si staccava dal grigiore e si avvicinava alla fermata. Presto riuscì quasi a
distinguere la grande scritta bianca sopra il posto dell’autista. Cosa diceva? Strizzò gli
occhi cercando di vedere meglio: WOODSTOCK. Oh no! Allora si era sbagliata quando
quella ragazza così educata le aveva chiesto informazioni. Comunque, poco male! Non
erano andate lontano. Avrebbero trovato un passaggio, oppure avrebbero visto l’autobus e
sarebbero riuscite a prenderlo alla fermata successiva, o magari a quella ancora dopo. «Da
quanto tempo se n’erano andate, signora Jarman?».
Arretrò un poco dal ciglio della strada e l’autista diretto a Woodstock passò oltre, grato
di non doversi fermare. L’autobus non era ancora sparito dalla vista che la signora Jarman
ne vide arrivare un altro, distante appena poche centinaia di metri. Doveva essere il suo.
Alzò una mano e il veicolo a due piani accostò. Alle sette meno due minuti era a casa.
Anche se era ormai vedova, con due figli adulti e sposati, viveva ancora nella casetta di
famiglia, modesta ma dignitosa, e la sua solitudine non era priva di vantaggi. Si cucinò una
cena abbondante, lavò i piatti e accese il televisore. Non riusciva a capire perché i
programmi televisivi fossero tanto criticati. A lei piacevano praticamente tutti e spesso
avrebbe voluto poter vedere due canali alla volta. Alle dieci spaccate seguì le notizie
principali del telegiornale, spense la tv e andò a letto. Alle 22,30 dormiva profondamente.
Sempre alle 22,30 una ragazza veniva ritrovata in un cortile di Woodstock. Era stata
brutalmente assassinata.
Prima parte
In cerca di una ragazza
Capitolo uno
Mercoledì, 29 settembre

Da St Giles, al centro di Oxford, due strade si dipartono verso nord, parallele come i
rebbi di un diapason. Alla periferia settentrionale della città entrambe devono attraversare
la tangenziale nord, che è molto battuta: flussi di automobilisti frenetici la percorrono in
velocità, felici di evitare gli splendori dell’antica città universitaria. Il tratto orientale della
strada conduce fino a Banbury e di lì continua il suo percorso piuttosto insignificante verso
il cuore della regione industriale. Il ramo occidentale conduce presto alla cittadina di
Woodstock, una decina di chilometri a nord di Oxford, e di lì fino a Stratford-on-Avon.
Il viaggio da Oxford a Woodstock ha un suo fascino tranquillo. Gli ampi bordi erbosi
creano un piacevole senso di apertura e, dopo un paio di chilometri, all’altezza del villaggio
di Yarnton, una strada a due corsie, con le carreggiate separate da uno spartitraffico
alberato, fa infine scorrere il traffico veloce oltre l’aeroporto, superando la paralisi del
tratto precedente. Per il mezzo chilometro che precede immediatamente Woodstock, un muro
in pietra grigia sul lato sinistro segnala il confine estremo del vasto e meraviglioso parco
del palazzo di Blenheim, la maestosa magione voluta dalla buona regina Anna per il suo
abile generale John Churchill, primo duca di Marlborough. Un cancello di ferro battuto alto
e imponente immette sul viale di accesso principale al Palazzo che, durante la stagione
estiva, brulica di turisti smaniosi di aggirarsi nello splendore pomposo delle grandi sale, di
ammirare gli arazzi fiamminghi di Malplaquet e Oudenarde, e di contemplare la stanza in cui
ha visto la luce l’ultimo rampollo della dinastia dei Churchill, il grande Sir Winston in
persona, il quale ora riposa nel cimitero del vicino villaggio, un tempo placido, di
Balandon.
Oggi Blenheim surclassa l’antico centro di Woodstock, ma non è sempre stato così. Le
massicce case grigie che costeggiano la strada principale della cittadina hanno visto tempi
migliori e potrebbero raccontare di un glorioso passato, anche se ormai sono in gran
maggioranza trasformate in lindi negozi di regali, di antiquariato e di souvenir – o in
locande. A quanto pare fin da tempi lontani Woodstock ha sempre offerto un’ottima scelta di
alloggi e parecchi tra gli hotel e le pensioni confortevoli che si affollano lungo le sue strade
possono vantare non solo una discendenza avita, ma anche un buon numero di stelle sulle
loro vivaci insegne gialle.
Il Black Prince è situato a metà di un’ampia traversa, sul lato sinistro per chi arriva da
Oxford. Tra i nobili edifici di Woodstock il locale non può rivendicare un pedigree tra i più
ricercati, e pare estremamente improbabile, ahimè, che il Principe guerriero, figlio del re
Edoardo III, abbia mai riso, pianto, bevuto o frequentato prostitute all’interno delle sue
mura. A dire la verità, un dirigente dell’azienda londinese che aveva acquisito l’antico
edificio, cortile e scuderia inclusi, una decina d’anni prima aveva letto, in una guida
turistica dal dubbio valore documentario, che il Principe era nato da qualche parte nei
dintorni. Il consiglio d’amministrazione si era caldamente congratulato con il dirigente per il
fortunato esito della sua ricerca, come pure per la successiva scoperta che nessun Principe
figurava ancora nell’elenco telefonico di Woodstock. Così si decise per il nome «Black
Prince». La sveglia figliola del primo gestore aveva trovato in un’enciclopedia per bambini
una breve biografia, alquanto romanzata, del Principe guerriero e l’aveva trascritta in
un’adeguata grafia antica; una volta ultimato l’artefatto, l’aveva infilato per una mezz’ora
nel forno di casa a 200 gradi. Ne risultò un manoscritto rispettabilmente imbrunito dai
secoli, che fu incorniciato alla buona e da allora occupava una meritata posizione d’onore
sulla parete della sala cocktail. Insieme agli stemmi dei college di Oxford appesi
ordinatamente lungo le basse travi lucidate, contribuiva a creare un’atmosfera di classe.
Negli ultimi due anni e mezzo Gaye era stata la «barwoman» fissa del Black Prince –
secondo il gestore parlare di «barista» era un filo infra dignitatem. Non aveva torto. «Un
boccale grande della miglior rossa che hai, tesoro» era una richiesta che a Gaye non
capitava spesso di dover soddisfare e, per lei, sapeva di proletariato; qui si trattava più
spesso di vodka e lime per gruppi di giovani rampanti, di Manhattan per i turisti americani,
e di gin and french – con uno schizzo di vermut italiano – per i professori oxoniensi. Tali
miscele Gaye dispensava dal luccichio argenteo delle allettanti bottiglie allineate dietro il
bancone, con la sicurezza nata dall’esperienza.
La sala, rivestita di una moquette spessa, con sedie e panche foderate di una gradevole
stoffa aranciata, era immersa in una penombra gentile che creava un effetto di chiaroscuro
inteso a ricordare – così si sperava – una natività di Rembrandt. Quanto a Gaye, era una
piacente giovane donna dai capelli rossi e quel mercoledì sera indossava una mise
impeccabile: completo pantalone nero e camicia bianca con colletto a volant. Uno sfavillio
di pietre preziose su due dita della mano sinistra lanciava un delicato monito ai melensi
playboy dilettanti e forse – come diceva qualcuno – un invito calcolato ai donnaioli
professionisti più benestanti. Di fatto, era una donna sposata e divorziata. Al momento Gaye
viveva con il figlio ancora piccolo e con la madre, la quale non s’inquietava troppo per la
vita un poco promiscua della figlia che aveva avuto la sfortuna di sposare un «miserabile
porco». Gaye apprezzava tanto il proprio status di divorziata quanto il proprio lavoro, e
intendeva conservare entrambi.
Mercoledì era stata, come al solito, una serata piuttosto vivace e fu con un certo sollievo
che Gaye, alle 22,25, sollecitò le ultime ordinazioni con gentile fermezza. Un giovanotto
seduto su uno sgabello in fondo al bancone spinse verso di lei il bicchiere di whisky.
«Un altro».
Gaye guardò incuriosita gli occhi sfuggenti del ragazzo, ma non aprì bocca. Spinse il
bicchiere dell’avventore sotto una bottiglia di buon whisky e lo riportò sul bancone, mentre
con la sinistra batteva meccanicamente il prezzo. Il giovanotto era chiaramente ubriaco. Si
frugò nelle tasche con lenta goffaggine per recuperare la somma richiesta e, dopo un sorso,
scese di scatto dallo sgabello, puntò l’uscita con occhio incerto e vi si diresse percorrendo
la linea più diritta che ci si potesse aspettare, date le circostanze.
Dalla strada si accedeva al vecchio cortile, in cui un tempo i cavalli scalpitavano
sull’acciottolato, attraverso uno stretto ingresso ad arco. Per il Black Prince si era
dimostrato essere un vero asso nella manica. Una pioggia di multe per chi parcheggiava a
cavallo delle singole e doppie linee gialle che ormai fiancheggiavano anche i tratti di strada
più inospitali e inaccessibili stava instillando nella popolazione un recalcitrante rispetto per
la legge; e qualsiasi locale potesse vantare un «Parcheggio non sorvegliato, a uso esclusivo
dei clienti» faceva ottimi affari. Quella sera, come al solito, il cortile era pieno zeppo delle
immancabili Volvo e Rover. La lampada sotto l’arco forniva un’illuminazione, sia pure
inadeguata, all’entrata dello spiazzo, ma il resto era immerso in un’ombra fitta. Fu verso
l’angolo più remoto del parcheggio che il giovanotto si diresse barcollando; era quasi
arrivato quando notò qualcosa dietro l’auto più lontana. Senza fare rumore cercò di capire
che cosa fosse. L’orrore gli salì dal collo alla nuca e, appoggiandosi al portone sbarrato
della ex scuderia, il ragazzo ebbe un improvviso e violento urto di vomito.
Capitolo due
Mercoledì, 29 settembre

Il gestore del Black Prince, Stephen Westbrook, contattò la polizia subito dopo il
ritrovamento del cadavere e la sua chiamata fu lodevolmente seguita da un sollecito
intervento delle forze dell’ordine. Il sergente Lewis, della Thames Valley Police, gli aveva
dato istruzioni sintetiche e chiare. Un’auto della polizia sarebbe arrivata al Black Prince nel
giro di dieci minuti. Westbrook doveva fare in modo che nessuno lasciasse il locale o
avesse accesso al cortile; se qualcuno avesse insistito per andarsene, doveva segnarsi nome,
cognome e indirizzo della persona in questione; se gli avessero chiesto cosa stava
succedendo doveva rispondere la verità.
L’allegria della serata si sgonfiò come un palloncino malinconico e il vociare a poco a
poco si spense mentre in un bisbiglio si diffondeva la notizia: c’era stato un omicidio.
Nessuno sembrava aver fretta di andarsene; due o tre avventori chiesero di usare il telefono.
Tutti improvvisamente si sentirono sobri, incluso un giovanotto pallido che se ne stava
nell’ufficio del gestore dopo aver lasciato il suo bicchiere di whisky quasi intatto sul
bancone della sala cocktail.
All’arrivo del sergente Lewis e di due poliziotti in uniforme, un gruppetto di persone
incuriosite si radunò sul marciapiede di fronte al locale. Non sfuggì loro che la polizia
aveva parcheggiato sul passo carraio di accesso al cortile, di fatto sbarrandone l’uscita.
Cinque minuti dopo arrivò un’altra auto della polizia e tutti gli occhi puntarono l’uomo dalla
corporatura snella e dai capelli scuri che ne scese, scambiò poche parole con il poliziotto di
guardia all’esterno, annuì varie volte in segno di approvazione ed entrò al Black Prince.
Conosceva il sergente Lewis solo di vista, ma fu ben presto gradevolmente colpito dal
suo buon senso e dalla sua competenza. I due si consultarono concitati e concordarono in
fretta un piano d’azione preliminare. Lewis, con l’aiuto di un altro agente, doveva redigere
la lista con i nomi, gli indirizzi e le targhe delle auto di tutti i presenti e raccogliere
dichiarazioni concise su dove erano stati quella sera e dove erano diretti. C’erano oltre
cinquanta persone da intervistare, e Morse si rese conto che ci sarebbe voluto un po’ di
tempo.
«Sergente, vuole che provi a chiedere rinforzi per darle una mano?».
«Penso che possiamo cavarcela noi due, signore».
«Bene. Cominciamo».
La porta che costituiva l’ingresso laterale del Black Prince dava sul cortile e Morse la
raggiunse a passo svelto, uscì e si guardò intorno. Contò tredici macchine incastrate in
quello spazio ristretto, e forse ne aveva saltato un paio, perché le vetture più lontane erano
poco più che sagome scure contro l’alto muro di cinta. Morse pensò all’incredibile abilità e
alla precisione di guida che sarebbero state necessarie agli alticci proprietari per far
passare indenni i loro veicoli attraverso lo stretto varco dell’uscita. Perlustrò
meticolosamente il cortile con la pila e lentamente ne percorse il perimetro. Il conducente
dell’ultima auto parcheggiata sul lato sinistro era oculatamente entrato in retromarcia
nell’angusto spazio vuoto e aveva lasciato circa un metro tra la fiancata e il muro. In quel
corridoio si allungava in posa scomposta la sagoma di una ragazza. Era stesa sul fianco
destro, con la testa quasi appoggiata all’angolo del muro e i lunghi capelli biondi
crudelmente impiastricciati di sangue. Si capiva a prima vista che era stata uccisa da un
violento colpo alla nuca, e dietro al cadavere si vedeva una pesante chiave a occhio larga
un cinque centimetri e lunga cinquanta, il tipo di chiave con una curva verso le estremità che
era così comune nei tempi in cui la riparazione immediata delle gomme non era ancora stata
inventata. Morse si fermò qualche minuto a studiare la squallida scena ai suoi piedi. La
ragazza assassinata non aveva addosso granché: stivali con zeppa, una cortissima minigonna
blu e una camicetta bianca. Nient’altro. La pila di Morse inquadrò la parte superiore del
corpo. C’era uno strappo sul lato sinistro della camicetta; i primi due bottoni erano slacciati
e il terzo era stato strappato, lasciando i seni abbondanti quasi completamente scoperti.
Morse puntò la torcia sul terreno intorno al cadavere e notò quasi subito il bottone
mancante, un piccolo disco bianco di madreperla che occhieggiava tra i sassi del selciato.
Quanto detestava gli omicidi a sfondo sessuale! Chiamò l’agente di guardia all’ingresso del
cortile.
«Signore?».
«Ci servono delle luci».
«Certo sarebbero utili, signore».
«Procuratele».
«Io, signore?».
«Sì, tu».
«Ma dove posso andare a…».
«Come cavolo faccio a saperlo!» sbraitò Morse.
A mezzanotte meno un quarto Lewis aveva finito con gli avventori e andò a riferire a
Morse. L’ispettore era seduto nell’ufficio del gestore davanti a una copia del Times, e stava
bevendo qualcosa che sembrava proprio whisky.
«Ah, Lewis» disse spingendo il giornale verso di lui. «Dia un’occhiata al 14 verticale.
Appropriato, no?». Lewis guardò il 14 verticale. «Altrimenti... sono guai. Morbido, ma
diviso in due può essere minaccioso. Quattro lettere». Vide che Morse aveva completato la
riga scrivendo SENO. Non sapeva che cosa dire. Era la prima volta che lavorava con
Morse.
«Un bell’indizio, non pensa?».
Lewis, che in vita sua al massimo aveva affrontato il cruciverba del Daily Mirror, si
sentiva un pesce fuor d’acqua ed era molto confuso.
«Mi sa che non sono molto ferrato nei cruciverba, signore».
«Diviso in due, ‘Se no’... È una minaccia, capisce?».
«Non molto, signore».
«Pensa che io stia perdendo tempo, Lewis?».
Lewis non era tipo da farsi prendere in giro da nessuno, ed era un uomo di una certa
onestà e integrità. «Sì, signore».
Un sorriso simpatico s’insinuò sul viso di Morse. Lewis pensò che sarebbero andati
d’accordo.
«Lewis, voglio che lavori con me a questo caso». Il sergente guardò dritto nei duri occhi
grigi di Morse. Sentì la propria voce dire che sarebbe stato un piacere.
«Allora bisogna festeggiare» disse Morse. «Signor Westbrook!». Il gestore, che stava
aspettando fuori dall’ufficio, entrò con passo deciso. «Un doppio whisky». Morse spinse
verso di lui il bicchiere.
«Lei desidera qualcosa?» disse il gestore rivolgendosi esitante a Lewis.
«Il sergente Lewis è in servizio, signor Westbrook».
Al suo ritorno Morse gli chiese di radunare tutti i presenti, personale incluso, nella sala
più grande del locale, poi, sorseggiando in silenzio il suo whisky, terminò di sfogliare il
giornale.
«Lei legge il Times, Lewis?».
«No, signore, a casa prendiamo il Mirror». Sembrava una triste confessione.
«Lo prendo anch’io, ogni tanto».
A mezzanotte e un quarto l’ispettore entrò nella sala ristorante dove tutti erano stati
radunati.
Gli occhi di Gaye incontrarono quelli di Morse e ne sostennero per qualche istante lo
sguardo. Gaye provò un’immediata attrazione per quell’uomo che, diversamente da tanti
altri, non sembrava la stesse spogliando con lo sguardo. Era come se l’avesse fatto da
tempo. Ascoltò con interesse quel che aveva da dire.
Morse ringraziò tutti per la pazienza e la collaborazione. Si stava facendo molto tardi e
non intendeva trattenerli oltre. Voleva che sapessero il motivo della presenza della polizia.
Una persona era stata assassinata nel cortile… una ragazza bionda. Sperava capissero che
tutte le auto parcheggiate nel cortile dovevano restare dov’erano fino al mattino dopo.
Sapeva che per una parte di loro ciò avrebbe comportato qualche difficoltà a tornare a casa,
ma erano già stati chiamati dei taxi. Se qualcuno desiderava riferire a lui o al sergente
Lewis informazioni interessanti o comunque rilevanti ai fini dell’inchiesta, anche se
apparentemente di poco conto, era pregato di trattenersi. Tutti gli altri potevano andare.
A Gaye parve un discorso poco ispirato. Essere presenti per caso sulla scena di un
omicidio avrebbe dovuto essere un po’ più eccitante. Aveva voglia di tornarsene a casa,
dove sua madre e suo figlio stavano già dormendo. Del resto, anche se fossero stati svegli
non avrebbe avuto granché da raccontare, no? La polizia ormai era arrivata da più di un’ora
e mezzo. Non era proprio quello che si era aspettata in base alle sue letture di Holmes e
Poirot, che senza dubbio a quel punto avrebbero interrogato i sospetti principali e
avrebbero fatto scoperte sorprendenti deducendole da dettagli banalissimi.
Il mormorio che seguì la fine del discorsetto di Morse si spense mentre la maggioranza
degli avventori recuperava i soprabiti e se ne andava. Anche Gaye si alzò. Aveva visto
niente di interessante o significativo? Ripensò alla serata. C’era, è ovvio, il ragazzo che
aveva trovato il cadavere… L’aveva visto altre volte, ma non riusciva a ricordare
esattamente se era con qualcuno o quando era stato. Poi però le venne in mente: una bionda!
Era entrata nella sala cocktail con lui solo la settimana prima. Ma di quei tempi un sacco di
ragazze si ossigenavano i capelli. Valeva la pena parlarne? Decise di sì e si avvicinò a
Morse.
«Lei ha detto che la ragazza assassinata aveva i capelli biondi». Morse la guardò e
assentì lentamente.
«Penso di averla vista qui la settimana scorsa… era con l’uomo che ha trovato il suo
cadavere questa sera. Li ho visti qui. Lavoro nella sala cocktail».
«È molto interessante, signorina…?».
«Signora. Signora McFee».
«Mi scusi, signora McFee. Pensavo che lei indossasse tutti quegli anelli solo per
scoraggiare i ragazzi che vengono a farle gli occhi dolci al di qua del bancone».
Gaye era furibonda. Era un uomo odioso. «Senta, ispettore com’è-che-si-chiama, sono
venuta per dirle qualcosa che pensavo potesse esserle utile. Se lei ha intenzione di…».
«Signora McFee» la interruppe Morse con delicatezza, guardandola negli occhi con un
candore senza veli «se abitassi da queste parti, verrei anch’io a farle gli occhi dolci sette
sere alla settimana».
Poco dopo l’una, un sistema di illuminazione abborracciato, ma efficace, era stato
installato intorno al cortile. Morse aveva dato istruzioni a Lewis di trattenere il giovane che
aveva trovato la ragazza assassinata finché non avessero avuto modo di esaminare più
attentamente il luogo del delitto. I due stavano studiando la scena. C’era molto sangue e,
guardando la ragazza, il sergente Lewis sentì una profonda repulsione per la brutalità e
l’insensatezza dell’omicidio. Morse sembrava più interessato al cielo stellato sopra di loro.
«Lei conosce le costellazioni, Lewis?».
«Ogni tanto leggo gli oroscopi, signore».
Morse parve non aver capito. «Una volta ho sentito di un gruppo di bambini, Lewis, che
ha cercato di raccogliere un milione di fiammiferi. Dopo aver completamente riempito la
scuola, hanno deciso che dovevano smetterla». Lewis pensò che fosse suo dovere dire
qualcosa, ma non gli riuscì di trovare un commento appropriato.
Dopo un po’, Morse tornò a rivolgere la propria attenzione a cose più terrene, e i due
uomini tornarono a esaminare il cadavere della ragazza. La chiave da pneumatici e il
solitario bottone bianco erano ancora lì dove Morse li aveva visti in precedenza. Non c’era
molto altro da vedere se non la traccia di sangue secco che andava quasi da un estremo
all’altro del muro del retro.
Il ragazzo era seduto nell’ufficio del gestore. Anche se sua madre si aspettava che
tornasse tardi, probabilmente stava cominciando a preoccuparsi, ed era preoccupato pure
lui. All’una e mezzo Morse finalmente arrivò, mentre il medico legale, i fotografi e quelli
della scientifica si affaccendavano in cortile.
«Il suo nome?» gli chiese.
«Sanders. John Sanders».
«È lei che ha trovato il cadavere?».
«Sissignore».
«Mi dica tutto».
«In realtà non c’è molto da dire».
Morse sorrise. «Allora non dovremo trattenerla a lungo. Giusto, signor Sanders?».
Il giovane era irrequieto. Seduto di fronte a lui, Morse lo guardava fisso negli occhi e
aspettava.
«Be’, sono solo uscito in cortile e lei era lì. Non l’ho toccata, ma sapevo che era morta.
Sono tornato subito indietro per dirlo al gestore».
Morse annuì. «Nient’altro?».
«Mi pare di no».
«Quando ha vomitato, signor Sanders?».
«Ah, sì. Ho vomitato».
«È stato prima o dopo aver visto la ragazza?».
«Dopo. Vederla deve avermi sconvolto, una specie di shock, immagino».
«Perché non mi dice la verità?».
«Che cosa intende dire?».
Morse sospirò. «La sua auto non è qui, vero?».
«Non possiedo una macchina».
«E di solito fa due passi in cortile prima di tornare a casa?». Sanders non disse nulla.
«Quanto ha bevuto questa sera?».
«Solo qualche whisky… Non ero ubriaco».
«Signor Sanders, preferisce che venga a saperlo chiedendo a qualcun altro?». Da come
reagiva era evidente che a Sanders non piaceva quel genere di domande. «A che ora è
arrivato qui?».
«Direi verso le sette e mezzo».
«Poi si è ubriacato ed è uscito per andare a vomitare». Sanders lo ammise controvoglia.
«È sua abitudine bere da solo?».
«Non di frequente».
«Chi stava aspettando?». Sanders non rispose. «Non si è fatta vedere?».
«No» disse alla fine senza espressione.
«Però è venuta, vero?».
«No, gliel’ho detto. Sono stato tutto il tempo da solo».
«Però lei è venuta, non è vero?» ripeté Morse a bassa voce. Sanders sembrava sconfitto.
«Lei è venuta» continuò Morse quasi sussurrando. «È venuta e lei l’ha vista. L’ha vista nel
cortile, e lei era morta».
Il giovane annuì.
«Sarà meglio che si fanno quattro chiacchiere, noi due» disse Morse alla faccia della
grammatica.
Capitolo tre
Giovedì, 30 settembre

Solo, nella camera da letto di Sylvia Kaye, Morse provò un notevole sollievo: le tristi
incombenze della notte erano finite e poteva attivare i naturali meccanismi di difesa per
proteggere il suo animo stanco. Voleva dimenticare il risveglio della signora Dorothy Kaye
e la telefonata per convocare il marito, di turno presso il reparto saldatura dello
stabilimento automobilistico Cowley, le recriminazioni, inutili e aspre, e il dolore
travolgente della loro miseria vuota e amara. Per la madre di Sylvia, al momento sotto
sedativi, la presa di coscienza era rimandata all’indomani, mentre il sergente Lewis era alla
centrale per provare a tirar fuori qualcosa dal padre: prendeva pagine su pagine di appunti
accurati, ma dubitava che ci fosse alcunché di utile. Nel giro di mezz’ora avrebbe raggiunto
Morse.
La piccola stanza era una delle tre camere di una linda casetta a Jackdaw Court, una
strada tranquilla orlata di steccati in legno marcio a quattro passi dalla Woodstock Road.
Morse si sedette sul letto angusto e si guardò intorno. Si chiese se il letto così ben rifatto
non fosse opera della mamma, poiché il resto della stanza tradiva lo stile di vita trasandato
e caotico della ragazza assassinata. Il grande ritratto a colori di una pop star era appeso in
modo alquanto precario sopra il caminetto con il fuoco a gas. Morse sentì che forse avrebbe
potuto capire meglio i giovani se avesse avuto qualcuno di quell’età in famiglia; per come
stavano le cose, l’identità di quella bella ragazza era avvolta nell’anonimato e, per quanto
fingesse di saperla lunga, Morse non sarebbe mai riuscito a conoscerla veramente. Vari capi
di biancheria intima erano sparsi sul tavolo e sulla sedia che, con un armadio di legno
chiaro, in sostanza costituivano tutto l’arredamento. Con circospezione Morse raccolse un
reggiseno leggero abbandonato sulla sedia. Alla sua mente si ripresentò l’immagine di
Sylvia Kaye come lui l’aveva conosciuta. Morse vi si soffermò qualche istante, poi tornò al
presente ripercorrendo lentamente i meandri tortuosi delle ultime spiacevoli ore. Vari
numeri di riviste formavano una pila in bilico sulla mensola della finestra e Morse,
distrattamente, passò in rassegna consigli per il trucco, problemi di cuore e oroscopi.
Neanche una riga sulla pornografia. Aprì l’anta dell’armadio e, con curiosità decisamente
più viva, esaminò la schiera di gonne, camicette, pantaloni e abiti. Puliti ma in disordine.
Montagne di scarpe, ultramoderne, con la zeppa, brutte: la ragazza non era a corto di denaro.
Sul tavolo Morse vide la brochure di un’agenzia di viaggi che offriva pacchetti vacanze in
Grecia, Iugoslavia e Cipro, hotel bianchi, mare turchese e clausole scritte in piccolo circa le
responsabilità assicurative e le vaccinazioni richieste; una lettera del datore di lavoro di
Sylvia che si addentrava nelle complessità dell’imposta sul valore aggiunto e un’agenda,
che per altro conteneva solo un’unica annotazione, al 2 gennaio: «Temperatura. Visto La
figlia di Ryan».
Lewis bussò alla porta ed entrò. «Trovato niente, signore?». Morse guardò infastidito il
suo vispo sergente e non rispose nulla. «Posso?» chiese Lewis tendendo la mano verso
l’agenda.
«Faccia pure» disse Morse.
Lewis esaminò l’agenda, facendo passare una per una le date di settembre. Non
trovando nulla, scorse meticolosamente ogni pagina. «Ha scritto solo un giorno».
«Più di quanto non faccia io di solito» disse Morse.
«Pensa che ‘temperatura’ significhi che faceva freddo o che aveva la febbre?».
«Come faccio a saperlo?» sbottò Morse. «E in ogni caso che cosa importa?».
«Possiamo verificare in che cinema davano La figlia di Ryan la prima settimana di
gennaio» suggerì Lewis.
«Sì, certo. E potremmo anche scoprire quanto costa l’agenda, chi gliel’ha data e dove
comprava le biro. Peccato, però, che noi dobbiamo mandare avanti un’inchiesta su un
omicidio e non una cartoleria, sergente!».
«Scusi».
«Magari poi ha ragione lei» aggiunse Morse.
«Purtroppo il signor Kaye non aveva un granché da dirmi, signore. Vuole incontrarlo?».
«No. Lasciamolo in pace, poveretto».
«Mi sa che non stiamo facendo grandi progressi, però».
«Oh, non saprei» disse Morse. «La signorina Kaye indossava una camicia bianca, vero
sergente?».
«Sì».
«Quando sua moglie si mette una camicetta bianca, di che colore sceglie il reggiseno?».
«Di un colore chiaro, direi».
«Non ne indosserebbe uno nero, no?».
«Si vedrebbe in trasparenza».
«Mmm. Tra l’altro, Lewis, sa per caso a che ora hanno acceso l’illuminazione pubblica
ieri sera?».
«Mi spiace, no, non così su due piedi» rispose Lewis «ma posso farglielo sapere a
breve».
«Non c’è bisogno» disse Morse. «Secondo l’agenda che lei ha appena finito di
esaminare, ieri, cioè il 29 settembre, era San Michele e Tutti gli Angeli e l’accensione è
avvenuta alle 18,40».
Lewis seguì il suo superiore lungo la scala stretta chiedendosi che cos’altro avrebbe
tirato fuori. Prima che arrivassero all’ingresso principale, Morse girò un poco la testa.
«Lewis, cosa ne pensa del movimento di liberazione della donna?».
Alle undici del mattino Lewis interrogò il direttore della compagnia assicurativa Town
and Gown, che occupava il secondo e il terzo piano sopra una florida tabaccheria affacciata
sulla High Street. Sylvia lavorava lì da poco più di un anno. Era il suo primo lavoro. Era
solo una dattilografa, non essendo riuscita a convincere la scuola per segretarie, che aveva
frequentato per due anni dopo aver abbandonato gli studi, che gli scarabocchi brutti a
vedersi e spesso indecifrabili sul suo blocco di stenografia rispecchiassero in misura
sufficiente le missive che le erano state dettate. Come dattilografa produceva documenti
abbastanza accurati e precisi, e il direttore assicurò a Lewis che non aveva nulla da
rimproverare alla sua ex impiegata. Era una persona puntuale e discreta.
«Bella presenza?».
«Be’… ehm, sì. Direi di sì» rispose il direttore. Lewis prese appunti rimpiangendo che
Morse non fosse presente; ma l’ispettore aveva detto di aver sete e si era infilato al Minster,
sul marciapiede opposto.
«A quanto mi dice la ragazza lavorava con due colleghe» disse Lewis. «Penso sia
opportuno che io parli con loro, se è possibile».
«Certamente». Il direttore Palmer sembrò alquanto sollevato.
Il colloquio di Lewis con le due ragazze si protrasse piuttosto a lungo. Nessuna di loro
era stata «amica intima» di Sylvia. Per quel che ne sapevano, un vero fidanzato non l’aveva.
Sì, ogni tanto si vantava di una conquista occasionale, né più né meno della maggior parte
delle ragazze. Era abbastanza cordiale, ma non era veramente «una di loro».
Lewis ispezionò la sua scrivania. Le solite cianfrusaglie. Un pezzo di specchio rotto, un
pettine con qualche residuo capello biondo, il Sun del giorno prima, una varietà di penne,
gomme, nastri da macchina per scrivere, carta carbone. Sulla parete dietro alla scrivania era
appesa una fotografia di Omar Sharif, con di fianco un foglio ferie battuto a macchina.
Lewis notò che Sylvia aveva preso quindici giorni di vacanza nella seconda metà di luglio,
e chiese alle due ragazze dove fosse andata.
«È rimasta a casa, mi pare» rispose la più grande delle due, una ragazza sui vent’anni,
di poche parole e dall’aria seria.
Lewis sospirò. «Non è che ne sappiate molto di lei, o sbaglio?». Le ragazze non
replicarono. Lewis fece del suo meglio per ottenere un minimo di collaborazione in più, ma
con scarso successo. Lasciò l’ufficio poco prima di mezzogiorno e s’incamminò verso il
Minster.
«Povera Sylvia» disse la ragazza più giovane dopo che se ne fu andato.
«Sì, poverina» replicò Jennifer Coleby.
Alla fine Lewis, con una certa sorpresa, scovò Morse nel settore riservato al pubblico
maschile nel retro del pub.
«Ah, Lewis» Morse si alzò e appoggiò il bicchiere vuoto sul bancone. «Che cosa
prende?». Lewis chiese una rossa. «Due boccali della vostra rossa migliore» ordinò Morse
allegramente all’uomo dietro al banco «e ne beva uno anche lei».
Prima dell’arrivo di Lewis, l’argomento di conversazione dovevano essere state le
corse dei cavalli. Morse afferrò una copia di Sporting Life e, insieme al suo assistente,
cercò un posto a sedere in un angolo del locale.
«Le piace scommettere alle corse, Lewis?».
«Ogni tanto punto qualcosina al Derby o al Grand National, signore, ma non scommetto
d’abitudine».
«Così si fa!» disse Morse in tono austero. «Ma guardi qui, che cosa ne pensa?». Aprì il
giornale e indicò uno dei concorrenti della corsa delle 15,15 a Chepstow: Black Prince.
«Vale la pena provarci, non le pare sergente?».
«Di sicuro è una coincidenza strana».
«Dieci a uno» disse Morse e bevve una lunga sorsata di birra.
«Intende puntare, signore?».
«L’ho già fatto» rispose Morse, cercando con lo sguardo il vecchio barista.
«Ma non è illegale, signore?».
«Non ho mai approfondito questo ramo della giurisprudenza». Lewis si domandò se
all’ispettore importasse qualcosa del caso e, come se gli avesse letto in faccia le parole non
dette, Morse immediatamente gli chiese di riferirgli quel che aveva scoperto sulla posizione
della vittima presso la Town and Gown. Lewis fece del suo meglio e Morse non lo
interruppe. Sembrava più che altro interessato al boccale. Quando Lewis ebbe terminato,
Morse gli disse di tornare alla centrale, battere a macchina il rapporto e poi andare a casa a
dormire un po’. Lewis non protestò. Si sentiva stanco morto e il sonno era un lusso ridotto
ormai quasi solo a un ricordo.
«Nient’altro, signore?».
«Non fino a domani, quando la voglio in ufficio alle 7,30 precise, a meno che lei non
desideri puntare qualcosa su Black Prince». Lewis si frugò in una tasca e ne estrasse 50
pence.
«Cosa ne dice, accoppiata reversibile?».
«Si mangerà le mani se vince» rispose Morse.
«Va bene, 50 pence su Black Prince vincente».
Morse prese la moneta e, uscendo dal locale, Lewis vide che il barista la intascava e
versava un’altra birra per l’enigmatico ispettore capo.
Capitolo quattro
Venerdì, 1 ottobre

Il mattino dopo alle 7,30 in punto Lewis bussava alla porta dell’ufficio dell’ispettore.
Non ricevendo risposta con cautela girò la maniglia e guardò dentro. Nessun segno di vita.
Tornò verso l’ingresso principale e chiese al sergente di guardia se l’ispettore Morse era
arrivato o no.
«Non si è ancora visto».
«Mi aveva detto di trovarmi qui alle 7,30».
«Be’, sai com’è fatto l’ispettore Morse».
Mi piacerebbe tanto, pensò Lewis. Si allontanò per andare a prendere i rapporti che
aveva stancamente battuto a macchina la sera prima e li rilesse con attenzione. Aveva fatto
del suo meglio, ma di utile all’inchiesta c’era poco. S’incamminò verso la sala mensa e si
prese una tazza di caffè. L’agente Dickinson, che Lewis conosceva piuttosto bene, stava
attaccando con entusiasmo un piatto di bacon e pomodori.
«Come va il lavoro sull’omicidio, sergente?».
«È ancora presto per dirlo».
«Il vecchio Morse è il capo, no?».
«Esatto».
«Un bel tipo, vero?». Lewis non fece obiezioni. «So solo una cosa» disse Dickinson.
«Ieri sera si è fermato qui fino a un bel po’ dopo mezzanotte. E come li ha fatti trottare,
praticamente tutti quelli che erano in servizio. Mi sa che non c’era telefono qui dentro che
non fosse bollente per l’uso. Accidenti quanto lavora, quell’uomo, quando ne ha voglia».
Lewis si sentì un po’ preso in castagna. Quanto a lui, aveva dormito profondamente e di
gusto dalle sei della sera prima fino alle sei del mattino. Tra sé e sé ammise che Morse si
era meritato qualche ora di sonno e si sedette a bere la sua tazza di caffè.
Dieci minuti dopo Morse, sbarbato di fresco, entrò con passo svelto nella sala
ristorazione. «Ah, eccola qui, Lewis. Mi dispiace per il ritardo». Ordinò un caffè e si
sedette di fronte al sergente. «Mi sa che ho brutte notizie per lei». Lewis alzò gli occhi di
scatto. «Ha buttato via i suoi soldi. Quel cammello zoppo è arrivato secondo».
Lewis sorrise. «Poco male, signore. Spero solo che lei non ci abbia perso molto».
Morse scosse la testa. «Oh no, non ho perso niente, anzi ho guadagnato qualche sterlina.
Ho fatto un’accoppiata reversibile».
«Ma…» cominciò Lewis.
«Forza» disse Morse. «Finisca il suo caffè. Abbiamo un sacco di cose da fare».
Nelle ore che seguirono i due furono impegnati a riordinare i rapporti che affluivano
dall’indagine ad ampio raggio che Morse aveva avviato il giorno prima. A mezzogiorno,
Lewis ebbe l’impressione di saperne di più su Sylvia Kaye di quanto non ne sapesse su sua
moglie. Leggeva con grande attenzione ogni rapporto – su ordine di Morse – e sentiva che
molti fatti cominciavano a fissarglisi saldamente in testa. Notò che Morse divorava i
rapporti a una velocità incredibile, come uno che scorresse di fretta un romanzo noioso. Di
tanto in tanto, però, ne rileggeva uno con una concentrazione totale.
«Allora?» chiese Morse alla fine.
«Penso che molti elementi siano ormai chiari, signore».
«Bene».
«Mi è sembrato che lei abbia trovato molto interessanti un paio di relazioni, signore».
«Davvero?». Morse pareva sorpreso.
«Ha passato almeno dieci minuti a leggere quella sulla scuola per segretarie, che è lunga
solo una paginetta».
«Lei è molto perspicace, Lewis, e mi dispiace doverle dare una delusione. È una delle
relazioni peggio scritte che io abbia mai letto: ci sono nientemeno che dodici mostruosità
grammaticali in dieci righe. Di questo passo, dove andremo a finire?».
Lewis non sapeva dove sarebbero andati a finire, e neppure aveva il coraggio di
chiedere a Morse quali scoperte statistiche avesse fatto leggendo il rapporto che lui stesso
aveva scritto nel suo stile irregolare. «Pensa che stiamo quagliando qualcosa, signore?» gli
chiese invece.
«Ne dubito» rispose Morse.
Lewis non era del tutto d’accordo. I movimenti di Sylvia durante la giornata di
mercoledì sembravano ormai accertati. Era uscita dall’ufficio sulla High Street alle 17,00 e
quasi di sicuro aveva percorso a piedi il tratto di un centinaio di metri da lì fino alla fermata
dell’autobus 2, davanti allo University College. Era arrivata a casa alle 17,35 e aveva fatto
una cena abbondante. Aveva detto a sua madre che forse sarebbe tornata a casa tardi ed era
uscita intorno alle 18,30 indossando – per quanto si era potuto verificare – gli stessi abiti
che aveva quando era stata ritrovata. In qualche modo era arrivata a Woodstock. A Lewis
sembrava un punto di partenza abbastanza promettente, dopo appena qualche indagine
preliminare.
«Vuole che contatti l’azienda dei trasporti per vedere quali autisti prestano servizio
sulla linea per Woodstock?».
«Già fatto» disse Morse.
«Nessun risultato?». La voce di Lewis tradì la sua delusione.
«Non penso che abbia viaggiato in autobus».
«Un taxi, signore?».
«Improbabile, non le pare?».
«Non direi, signore. Non penso sia poi così costoso».
«Forse no, ma a me sembra piuttosto improbabile. Se avesse voluto prendere un taxi,
l’avrebbe chiamato da casa… dove c’è un telefono».
«Magari è proprio quel che ha fatto, signore».
«No, in casa Kaye non è stata fatta alcuna telefonata ieri».
Lewis sentiva che la sua fiducia in se stesso si stava pericolosamente sbriciolando.
«Non credo di essere di grande aiuto» disse. Ma Morse ignorò il suo commento.
«Lewis, lei come farebbe per andare da Oxford a Woodstock?».
«Prenderei l’auto, signore».
«Sylvia l’auto non ce l’aveva».
«Forse chiederei un passaggio a un amico».
«L’ha scritto nel suo rapporto: non pare che la ragazza avesse molti amici».
«Non potrebbe esserci di mezzo un fidanzato, signore?».
«Lei cosa ne dice?».
Lewis ci pensò un minuto. «Sarebbe strano, se è andata col fidanzato perché non si è
fatta venire a prendere a casa?».
«Già, perché?».
«Non si è fatta venire a prendere a casa?».
«No. Sua madre l’ha vista andarsene a piedi».
«Ma allora lei ha già parlato con la madre?».
«Sì, le ho parlato ieri sera».
«È sconvolta?».
«Ha le spalle larghe, Lewis, e mi è abbastanza simpatica. È terribilmente sconvolta e
scioccata, naturale, ma non ha il cuore spezzato come mi sarei aspettato. In realtà, mi sono
fatto l’idea che la sua bella figlia per lei fosse un po’ un tormento».
Morse si avvicinò a un grande specchio, si tolse di tasca un pettine e cominciò a
rassettarsi i capelli radi. Dispose con cura qualche ciocca sulla vasta piazza che aveva sulla
nuca, si rimise in tasca il pettine e chiese a un perplesso sergente Lewis se aveva fatto un
buon lavoro.
«Mi dica, Lewis, se Sylvia non ha preso l’autobus né il taxi, e se non è andato a
prenderla un fidanzato, come diavolo è riuscita ad arrivare a Woodstock? E le ricordo che
se c’è una cosa certa è che, in un modo o nell’altro, a Woodstock ci è arrivata».
«Deve aver fatto l’autostop, signore».
Morse si stava ancora esaminando allo specchio. «Sì, Lewis, penso proprio di sì. Ed è
questo il motivo per cui…» estrasse di nuovo il pettine e diede qualche ritocco alle ciocche
ribelli «… ed è questo il motivo per cui penso che dovrò apparire in TV questa sera». Fece
una telefonata e si fece passare il sovrintendente capo. «Vada a mangiare qualcosa, Lewis,
ci vediamo dopo».
«Vuole che le ordini qualcosa, signore?».
«No. Devo badare alla linea» rispose Morse.
Una ricostruzione a tinte forti della morte di Sylvia Kaye era comparsa nell’edizione
serale di giovedì dell’Oxford Mail, e la notizia ebbe grande risalto anche nella stampa
nazionale di venerdì mattina. Il venerdì sera i notiziari della BBC e di ITV passarono
un’intervista con il capo ispettore Morse che lanciò un appello a chiunque si fosse trovato
sulla Woodstock Road tra le 18,40 e le 19,15 di mercoledì 29 settembre. Morse informò la
nazione che la polizia stava ricercando un uomo molto pericoloso che poteva tornare a
colpire in qualsiasi momento; infatti l’assassino di Sylvia Kaye, una volta reso alla
giustizia, avrebbe dovuto rispondere dell’accusa non solo di omicidio volontario, ma anche
di aggressione a sfondo sessuale e stupro.
Lewis era rimasto da parte mentre Morse affrontava le troupe televisive e lo raggiunse
quando ebbe finito la sua performance.
«Questo maledetto vento!» disse Morse con i capelli scompigliati in ciuffi selvaggi.
«Pensa veramente che potrebbe uccidere ancora, signore?».
«Ne dubito proprio» disse Morse.
Capitolo cinque
Venerdì, 1 ottobre

Tutte le sere della settimana, con rare eccezioni, verso le 21,40 Bernard Crowther
lasciava la sua casetta bifamiliare sulla Southdown Road, a North Oxford. Seguiva sempre
lo stesso percorso. Si chiudeva metodicamente alle spalle il cancello bianco che
racchiudeva una stretta striscia di erba spelacchiata e si dirigeva a destra, arrivava fino alla
fine della via, girava di nuovo a destra e proseguiva, con determinazione evidente nel passo,
verso il Fletcher’s Arms. Anche se versato nell’eloquenza, d’altra parte era un professore
del Lonsdale College, trovava difficile spiegare a sua moglie, che lo disapprovava, e
persino a se stesso che cosa esattamente l’attirasse in quel pub del tutto ordinario, con la sua
clientela male assortita, ma fedele e affabile.
La sera di venerdì 1 ottobre, però, un osservatore avrebbe notato che Crowther restò
immobile per parecchi secondi dopo aver chiuso il cancello, con gli occhi bassi e turbati
come se stesse ponderando pensieri profondi e opprimenti. Poi, contrariamente alle sue
inclinazioni e abitudini, girò a sinistra. Camminò con lentezza fino alla fine della strada
dove alla sua sinistra, accanto a una fila di garage malandati, c’era una cabina telefonica.
Impaziente per natura anche nei momenti migliori, e non era uno di quelli, Crowther aspettò
con goffo nervosismo. Camminava avanti e indietro, consultando l’orologio e lanciando
occhiatacce alla florida signora che parlava al telefono, in evidente difficoltà nel gestire la
triplice offensiva dell’apparecchio pieno di tasti che le stava davanti, di un centralinista
poco collaborativo e della necessità di pescare dalla borsa monetine di varie taglie con una
mano sola. Eppure la signora teneva duro e Crowther, in un momento di magnanimità, pensò
che magari uno dei suoi figli era stato colpito improvvisamente da una grave malattia mentre
il padre era al lavoro per un turno di notte e nessun altro poteva aiutarla. Ma dubitava che la
chiamata fosse importante quanto quella che intendeva fare lui. I notiziari non mancavano
mai di attrarre la sua attenzione, per quanto banali fossero i vari servizi, e quello che aveva
visto al telegiornale delle nove della BBC era stato un servizio tutt’altro che banale.
Ricordava parola per parola quel che l’ispettore di polizia aveva detto: «Saremmo
estremamente grati se qualche automobilista…». Sì, aveva qualcosa da riferire perché
aveva avuto una parte in quella spaventosa e tragica catena di eventi. Ma che cosa avrebbe
detto? La verità non poteva dirla. Nemmeno una mezza verità. La sua fragile determinazione
cominciò a vacillare. Avrebbe dato a quella insopportabile signora ancora un minuto, non
uno di più.
Alle 21,50 di quella stessa sera un eccitato sergente Lewis stava chiamando il capo
ispettore Morse. «Siamo a una svolta, signore. Penso che siamo a una svolta».
«Davvero?».
«Sì. Una testimone, la signora Mabel Jarman. Ha visto la ragazza assassinata…».
«Immagino, sergente Lewis» lo interruppe Morse «intenda dire la ragazza che in seguito
è stata assassinata».
«Giusto. Possiamo ottenere una dichiarazione completa anche subito».
«Nel senso che ancora non ce l’abbiamo?».
«Ha chiamato solo cinque minuti fa, signore. Sto per mettermi in strada. È una del posto.
Mi chiedevo se non volesse venire anche lei».
«No» rispose Morse.
«Va bene, signore. Sarà tutto battuto a macchina e pronto per lei domattina».
«Bene».
«Un colpo di fortuna, no? Identificheremo presto quell’altra ragazza».
«Quale altra ragazza?» chiese Morse a bassa voce.
«Be’ vede, signore…».
«Dove abita la signora Jarman?». Controvoglia Morse si sfilò le pantofole e calzò le
scarpe.
«Stasera sei in ritardo all’appello, Bernard. Che cosa prendi?».
Bernard era un ospite gradito al Fletcher’s Arms, sempre pronto a offrire da bere a tutti
e anche più di una volta. I clienti regolari sapevano che era un uomo di un certo livello
culturale, ma capace di ascoltare, di ridere di cuore come gli altri alle barzellette, e lui
stesso a volte si lasciava andare a una qualche filippica contro la stupidità del governo e
l’inettitudine dell’Oxford United. Ma non quella sera. Alle 22,25, dopo aver bevuto tre pinte
della rossa migliore con la disinvoltura allenata dell’habitué, si alzò per andarsene.
«Bicchiere della staffa, Bernard?».
«No, grazie. Per questa sera ne ho bevuta abbastanza di quella piscia di cavallo».
«Sei un’altra volta in castigo?».
«Sono sempre in castigo».
Tornò a casa senza fretta. Sapeva che se la luce della camera da letto era accesa voleva
dire che sua moglie Margaret stava leggendo a letto, in attesa che quel vagabondo di suo
marito tornasse. Se la luce era spenta, probabilmente stava guardando la TV. Per decidere,
scelse un sistema assurdo come faceva da ragazzo. Se lei era a letto, sarebbe entrato
direttamente, se era ancora alzata, sarebbe andato a chiamare la polizia. Svoltò nella sua
strada e vide immediatamente che la luce della camera da letto era accesa.
La signora Jarman rese la sua testimonianza con vivacità, quasi con concitazione. I suoi
ricordi erano sorprendentemente chiari, e gli appunti del sergente Lewis si rimpinguarono di
elementi fattuali. Morse gli lasciò condurre l’intervista. Si chiedeva se Lewis non avesse
visto giusto, pensando che erano giunti a una svolta decisiva e, dopo averci pensato, decise
di sì. Quanto a lui, cominciava a spazientirsi e ad annoiarsi della scrupolosa pedanteria con
cui il sergente saggiava e verificava la tempistica dell’incontro alla fermata dell’autobus.
Ma sapeva che era giusto così e che Lewis stava procedendo come da manuale. Per tre
quarti d’ora gli lasciò carta bianca.
«Bene. La ringrazio davvero molto, signora Jarman». Lewis chiuse il suo blocco di
appunti e guardò il capo con una certa soddisfazione negli occhi.
«Forse...» disse Morse «... potrei forse chiederle di venirci a trovare domattina? Il
sergente Lewis avrà una copia dattiloscritta della sua deposizione e le chiederemmo di
darle una scorsa per controllare che abbiamo capito bene – solo una formalità,
ovviamente».
Lewis si alzò per andarsene, ma un’occhiata di Morse lo convinse a tornare a sedersi.
«Signora Jarman» continuò Morse «mi chiedevo se non potesse farci un’ultima cortesia.
Avrei proprio voglia di una tazza di tè. So che è tardi, ma…».
«Ma certo, ispettore. Avrebbe dovuto dirmelo subito». La donna corse via e l’ispettore
sentì lo scroscio di un getto d’acqua e un acciottolio di tazzine.
«Allora, sergente, ha fatto un buon lavoro».
«Grazie, signore».
«Ora senta: riguardo all’autobus, verifichi tutto non appena possibile».
«Ma aveva detto che gli autobus li aveva già controllati lei, signore».
«Be’, li controlli di nuovo».
«D’accordo».
«E c’è quel camion articolato» aggiunse Morse, «con un minimo di fortuna possiamo
rintracciarlo».
«Pensa davvero che sia possibile?».
«Abbiamo l’ora precisa… cosa si può chiedere di più?».
«Nient’altro, signore?» disse Lewis in tono mansueto.
«Sì. Resti ancora un attimo a prendere appunti. Non sarà una cosa lunga».
La porta della cucina si riaprì e la signora Jarman ricomparve. «Mi chiedevo se i
signori non preferissero un goccio di whisky al posto del tè. Ho una bottiglia che è lì da
Natale. Di solito io non bevo».
«Ma guarda!» disse Morse. «Lei è una donna piena di risorse, signora Jarman». Lewis
sorrise debolmente. Sapeva cosa stava per succedere. Déjà-vu.
«Penso che un dito di whisky mi farebbe una montagna di bene. Magari ne prende un
goccio anche lei?».
«Oh no, signore. Se non le dispiace io bevo il mio tè». Aprì un’anta della credenza e ne
estrasse due bicchieri.
«Allora basta un bicchiere, signora Jarman» disse Morse. «È un peccato, lo so, ma il
sergente Lewis è in servizio e lei saprà che ai poliziotti è vietato bere bevande alcoliche
quando sono in servizio. Non vorrà che infranga la legge?».
Lewis borbottò qualcosa tra sé e sé.
Morse sorrise guardando la propria generosa dose di whisky mentre il suo assistente,
con compunzione, girava con il cucchiaino un tè tremendamente carico servito in una
piccola tazza.
«Signora Jarman, vorrei solo farle ancora un paio di domande su ciò che ha già
raccontato al sergente Lewis. Spero che non si senta troppo affaticata».
«Assolutamente no».
«Ricorda che espressione aveva quest’altra ragazza? Sembrava forse un po’ arrabbiata?
Un po’ agitata?».
«Non penso… insomma, non lo so. Forse era un poco nervosa».
«Un po’ spaventata?».
«Oh no! Quello no. Era un po’, ehm, come dire? Eccitata».
«Eccitata e impaziente».
«Penso di sì».
«Ora vorrei che provasse a ripensare a quel momento. Chiuda gli occhi e si immagini di
essere ancora a quella fermata d’autobus. Riesce a ricordare qualcosa, una cosa qualsiasi,
che la ragazza abbia detto? Le ha chiesto se l’autobus successivo andava a Woodstock, e lei
le ha risposto. Questo ce l’ha detto. Nient’altro?».
«Non riesco a ricordare altro. Mi sembra proprio di non riuscire a ricordare altro».
«Con calma, signora Jarman, non abbiamo fretta. Si rilassi e si immagini tutto di nuovo.
Si prenda il tempo che le serve».
La signora Jarman chiuse gli occhi e Morse la guardò pieno di aspettativa. La donna non
parlava. Alla fine Morse interruppe il silenzio imbarazzante. «E la ragazza che è stata
assassinata? Ha detto nient’altro lei? Ci ha riferito prima che aveva suggerito di fare
l’autostop».
«Sì, continuava a dire cose come ‘E dai’».
«‘Andrà tutto bene’?».
«Sì. ‘Andrà tutto bene. Domattina ci faremo quattro risate sopra’».
A Morse venne la pelle d’oca. Restò perfettamente immobile. Ma la memoria della
signora Jarman non aveva in serbo altro.
Morse si rilassò. «L’abbiamo tenuta sveglia fino a tardi, ma è stata meravigliosa. E
questo deve essere un whisky di marca superiore».
«Posso offrirgliene ancora un goccio, signore?».
«Penso proprio che non dirò di no, signora Jarman. È uno dei migliori whisky che mi sia
capitato di bere negli ultimi anni».
Mentre la signora Jarman gli dava le spalle per riempire di nuovo il bicchiere, Morse,
con aria arcigna, fece cenno a Lewis di restare dov’era e per la mezz’ora successiva mise in
pratica tutti i trucchi che conosceva per risvegliare la memoria della brava signora circa il
suo casuale incontro con la ragazza assassinata e la sua compagna di viaggio, senza alcun
risultato.
«Solo un’ultima cosa, signora Jarman. Quando verrà a trovarci, domattina, faremo un
confronto all’americana. Una cosa da cinque minuti, non di più».
«Volete che io… santo cielo!».
Alle 23,45 Morse e Lewis si congedarono dalla signora Jarman. Erano in piedi accanto
alle loro auto quando la porta di casa tornò ad aprirsi e la signora Jarman li raggiunse a
passo svelto.
«Un momento, ispettore. Mi è appena tornata in mente una cosa. Quando mi ha detto di
chiudere gli occhi e di rivivere la scena, me la sono ricordata. L’altra ragazza, signore,
quando si è messa a correre aveva un passo come se avesse i piedi piatti, capisce cosa
intendo, ispettore?».
«Sì, ho capito» disse Morse.
I due tornarono alla centrale. Dopo aver chiesto se erano arrivate altre telefonate ed
aver scoperto che no, nessun altro aveva chiamato, Morse convocò Lewis nel proprio
ufficio.
«Allora, amico mio?». Morse sembrava molto compiaciuto di sé.
«Lei ha detto che faremo un confronto all’americana» chiese Lewis perplesso.
«Lo faremo. Mi dica una cosa: secondo lei qual è il dato di fatto cruciale che abbiamo
scoperto parlando con la signora Jarman?».
«Abbiamo ottenuto un bel po’ di dettagli preziosi».
«Sì, è vero. Ma è stato solo uno il fatto che le ha fatto venire la pelle d’oca, vero
Lewis?». Lewis cercò di sembrare intelligente.
«Abbiamo scoperto, non è vero Lewis» disse Morse «che l’indomani mattina le ragazze
avrebbero potuto farci quattro risate sopra».
«Ah, capisco, signore» disse Lewis non capendo affatto.
«Capisce quello che significa? Dovevano incontrarsi il mattino dopo – giovedì mattina,
e sappiamo che Sylvia Kaye lavorava, e sappiamo anche dove, non è vero?».
«Quindi l’altra ragazza lavora anche lei alla Town and Gown».
«Questo è quello che gli indizi sembrano indicare, Lewis».
«Ma sono già stato all’ufficio, signore, e nessuna tra le ragazze ha aperto bocca».
«Non trova che sia molto interessante?».
«A quanto pare non ho fatto un buon lavoro, no?» Lewis sconsolato abbassò gli occhi al
pavimento.
«Ma non capisce» continuò Morse. «Adesso sappiamo che una tra quelle ragazze…
quante sono?».
«Quattordici».
«Sappiamo che una tra quelle ragazze come minimo sta occultando prove vitali e magari
sta anche dicendo un mucchio di bugie».
«Non ho parlato con tutte, signore».
«Santa pazienza, Lewis! Sapevano tutte perché lei era lì, no? Una loro collega è stata
assassinata. Un sergente della squadra omicidi arriva nel loro ufficio. Cosa possono pensare
che sia lì a fare? A dare una sistemata alle macchine da scrivere? No, lei, Lewis, ha fatto la
cosa giusta. Non ha forzato la nostra ragazzina a tesserci una rete ingarbugliata di bugie,
così quella ora è convinta che stia andando tutto bene, ed è ciò che voglio». Morse si alzò.
«Adesso vada a dormire un po’, Lewis. Domattina avrà molto da fare. Ma prima di
andarsene mi cerchi l’indirizzo di casa del signor Palmer. Credo che sia necessario fare una
capatina da lui».
«Non penserà mica di tirarlo giù dal letto adesso, signore!».
«Non solo intendo ‘tirarlo giù dal letto’, per dirla con le sue parole, ma gli chiederò,
con grande cortesia, si capisce, di aprirmi gli uffici dove setaccerò i cassetti personali di
quattordici giovani signore. Credo che sarà una ricerca appassionante».
«Ma non le servirebbe un mandato di perquisizione, signore?».
«Non ho mai capito bene il capitolo del regolamento che parla dei mandati di
perquisizione» si lamentò Morse.
«Penso proprio che dovrebbe procurarselo, signore».
«E forse lei può anche dirmi dove diavolo trovare qualcuno che me ne firmi uno a
quest’ora della notte – o del mattino, se preferisce».
«Ma se il signor Palmer si appella ai suoi diritti di cittadino…» cominciò Lewis.
«Gli dirò che stiamo cercando di scoprire chi ha violentato e ucciso una delle sue
ragazze» sbottò Morse «non stiamo cercando cartoline equivoche da Pwllheli».
«Non vuole che l’accompagni, signore?».
«No. Faccia quel che le ho chiesto e vada a casa».
«Allora buona fortuna, signore!».
«Non ne avrò bisogno» disse Morse. «Lei non ci crederà, Lewis, ma quando voglio so
essere un funzionario maledettamente zelante. Il signor Palmer salterà fuori dal letto come se
avesse le pulci nei pantaloni del pigiama».
Ma se il direttore della Town and Gown Assicurazioni uscì dal letto di buon grado, si
rifiutò caparbiamente di uscire dal pigiama, pantaloni o giacca che fosse. Chiese a Morse
chi gli avesse dato l’autorizzazione a perquisire gli uffici e, una volta capito che non
gliel’aveva data nessuno, non si lasciò smuovere da alcuna lusinga o minaccia Morse
escogitasse. L’ispettore dovette riconoscere di aver grossolanamente sottovalutato il
piccolo direttore. Tuttavia, dopo una lunga trattativa, si arrivò finalmente a un accordo su
una strategia. Alle 8,45 del mattino seguente tutti gli impiegati della Town and Gown
sarebbero stati radunati nell’ufficio del direttore, dove si sarebbe loro chiesto di autorizzare
la polizia ad aprire qualunque lettera privata avessero ricevuto. Se nessuno si opponeva,
Palmer assicurò a Morse che avrebbe potuto aprire tutta la corrispondenza e, se necessario,
fare copie riservate di qualsiasi lettera sembrasse di interesse. Inoltre a tutte le impiegate
sarebbe stato chiesto di partecipare a un confronto all’americana presso la centrale della
Thames Valley, nella tarda mattinata. Palmer avrebbe avuto bisogno di tempo per
organizzare una copertura minima del centralino e di altri servizi essenziali. Per fortuna era
sabato e l’ufficio chiudeva a mezzogiorno.
Forse, pensò Morse in seconda battuta, non era andata poi così male. Stancamente guidò
fino alla centrale e si chiese come mai, con tutta la sua esperienza, si fosse buttato a
capofitto in un piano così mal congegnato e probabilmente inutile come quello che gli era
venuto in mente. Eppure, pensò che nonostante tutto aveva fatto bene: si sentiva nelle ossa
che in quella fase dell’indagine c’era un’urgenza. Si sentiva in procinto di fare una scoperta
decisiva, anche se a quel punto non poteva ancora sapere quante scoperte decisive ci
sarebbero volute per risolvere veramente il caso. Neanche poteva sapere che, per un
assurdo scherzo del destino, il rifiuto oppostogli da Palmer era in realtà un gigantesco colpo
di fortuna. Infatti una lettera, indirizzata a una delle giovani signore che lavoravano presso
la Town and Gown, era già in viaggio e niente al mondo, a parte l’inefficienza di un qualche
impiegato addetto alla cernita, poteva impedire che venisse consegnata, come di fatto fu.
Morse tornò alla centrale e passò l’ora successiva alla scrivania. Finì alle 4,15 del
mattino e si sedette comodo sulla sua poltrona di pelle nera. Andare a casa non aveva alcun
senso, a quel punto. Meditò sul caso, dapprima svolse una lenta e meticolosa analisi dei fatti
noti fino a quel momento e poi si abbandonò a quelli che, se fosse stato del tutto sveglio,
avrebbe definito una serie di rapidi salti mentali, e tutto ciò lo trasportò in un mondo di
crepuscolo e oscurità. Sapeva che qualunque cosa fosse successa la sera del mercoledì non
poteva che trarre origine dalle azioni di certe persone, persone motivate da normali passioni
come l’odio, l’amore, l’avidità e la gelosia. Quello non era affatto un enigma. L’enigma era
come si sarebbero collegati i pezzi del puzzle, tutti quei pezzi che stavano cominciando a
venirgli per le mani. Si appisolò. A tratti sognò un’attraente barista dai capelli rossi e una
bella ragazza bionda con i capelli coperti di sangue. A quanto pareva sognava sempre
donne. A volte si chiedeva che cosa avrebbe sognato se si fosse sposato. Probabilmente
donne, pensò.
Capitolo sei
Sabato, 2 ottobre, mattina

«E adesso cos’altro si inventeranno?» disse Judith, la segretaria personale del signor


Palmer. «Dice che apriranno le nostre lettere!».
«Avresti potuto opporti» replicò Sandra, una ragazza amabile e inconcludente che non
aveva mai ottenuto un avanzamento di carriera né un aumento di salario da che era arrivata
in quell’ufficio tre anni prima.
«Stavo per farlo io» rincarò Ruth, una ragazza dalle ciglia che sbattevano come le ali di
una farfalla e un cervello in misura. «Pensa se Bob mi mandava una di quelle sue lettere
piene di passione!». Fece una risatina nervosa.
Per la maggior parte erano ragazze giovani, non sposate, che vivevano ancora con i
genitori. Così, pensando alla consegna della posta in tarda mattinata e al timore che i
genitori potessero curiosare in faccende che non li riguardavano, molte avevano invitato i
loro corrispondenti a usare l’indirizzo dell’ufficio. E alla fine erano così numerose le
missive contrassegnate con scritte quali «Privata e personale», «Riservato» e simili che un
osservatore all’oscuro dei fatti avrebbe potuto immaginare che la Town and Gown fosse il
quartier generale di un reparto dei servizi segreti. Ma Palmer accettava questo veniale
abuso della sua azienda con filosofica placidità, mentre al contempo puntava un occhio di
falco sulle bollette telefoniche dell’ufficio. Gli sembrava un accordo equo.
Ciascuna a modo suo, tutte quante avevano avuto soggezione di Morse, e le sue
richieste, avanzate con voce tranquilla, erano state accolte senza alcun percettibile
mormorio di disapprovazione. Certo che tutti volevano essere d’aiuto. In ogni caso lui
avrebbe solo fatto delle copie delle lettere e tutto sarebbe stato trattato all’insegna della
massima riservatezza. Ciò nondimeno a Ruth era sfuggito un sospiro di sollievo quando
aveva scoperto che era una di quelle mattine in cui la creatività di Bob in materia di
messaggi lascivi si era temporaneamente esaurita. Per quanto la polizia fosse di larghe
vedute, insomma…
«Penso che dovremmo tutte aiutarli a scoprire cosa è successo alla povera Sylvia» disse
Sandra. Anche se il suo cervello girava al minimo, era una ragazza di grande sensibilità ed
era rimasta molto rattristata e un poco spaventata dalla morte di Sylvia. Nel suo modo
ingenuo sperava di poter contribuire in qualche modo all’inchiesta, ed era rimasta un po’
delusa, anche se non sorpresa, scoprendo che nessuno le aveva scritto.
Morse aveva da studiare sette lettere e due cartoline e, scorrendole velocemente una per
una prima di infilarle nella fotocopiatrice, ebbe l’impressione di aver avuto un’idea stupida.
Ma c’era ancora il confronto all’americana, nel quale sperava molto anche se, pure in quel
caso, alla luce fredda del mattino il livello delle aspettative era già calato parecchio.
«Hai mai partecipato a un confronto all’americana?» chiese Sandra.
«Ovviamente no» rispose Judith. «Non è che capiti spesso di essere coinvolti in un
omicidio, no?».
«Era solo per chiedere».
«Che cosa faremo?» chiese Ruth.
«Faremo quello che ci dicono di fare». Judith nutriva una cieca fiducia nelle virtù delle
autorità, e a volte avrebbe voluto che il signor Palmer – con tutto che era molto gentile, si
capisce – avesse un tantinello più di polso e non fosse sempre così alla mano con certe sue
impiegate.
«Una volta ne ho visto uno in un film» disse Sandra.
«Io alla televisione» disse Ruth. «Sarà uguale?».
In seguito decisero che era stato proprio uguale. Una delusione, in realtà. Una donna
qualunque era passata davanti a loro guardandole mentre, una alla volta, dicevano: «Sa
quando arriva il prossimo autobus?». Non era una donna che potesse far paura. Eppure, non
sarebbe stato terribile se avesse appoggiato la mano sulla spalla di qualcuna? Ma non
l’aveva fatto. Era passata davanti alle ragazze, era tornata indietro e se n’era andata.
L’ispettore ci aveva sperato, era chiaro. E c’era stata quella cosa un po’ ridicola, alla fine.
Correre verso la porta in fondo al cortile. Cosa c’entrava quello?
«Il cerchio si stringe intorno al colpevole» disse Sandra.
«L’hanno detto in TV» disse Ruth.
«Non devi credere a tutto quello che senti» disse Judith.
Morse era nel suo ufficio quando, a mezzogiorno, entrò Lewis. «Allora, signore, com’è
andata?». Morse scosse la testa.
«Niente di niente?».
«Ne ha indicate due o tre come possibili candidate».
«Almeno si riduce un po’ il ventaglio, signore».
«Di fatto no. Ho sentito avvocati difensori fare carne trita finissima di testimoni che
giuravano sulle tombe delle loro nonne di essere assolutamente certi di un’identificazione.
No, Lewis, temo che non ci sarà di grande aiuto».
«E quell’altra sua idea, signore? Sa, il fatto che la ragazza avesse quel buffo modo di
correre con i piedi piatti».
«Ah, le abbiamo fatte correre, questo sì».
Lewis capì di aver toccato un nervo scoperto. «Tutto inutile, signore». Era
un’affermazione, non una domanda.
«Esatto, Lewis. Tutto inutile. E sarebbe potuto venire in mente ai membri della squadra
anticrimine, a me, Lewis, e anche a lei, che tutte le ragazze corrono in quello stesso
stramaledetto modo». Scagliò quelle ultime parole in faccia al sergente, che aspettò che la
tempesta si calmasse.
«Le ci vuole una birra, signore».
Morse lo guardò già più sereno. «Mi sa che ha ragione».
«Ho un paio di notizie da darle».
«Sentiamo».
«Be’, l’autobus... è fuori gioco. Ho trovato l’autista che guidava il 4E delle 18,30
partito da Carfax. È salita solo una decina di passeggeri sull’autobus, la maggior parte
clienti regolari. È abbastanza certo che le nostre due ragazze non sono arrivate a Woodstock
in autobus».
«Non sappiamo per certo neppure se siano arrivate entrambe a Woodstock» disse
Morse.
«Ma Sylvia ci è arrivata, giusto, signore? E l’altra ha chiesto informazioni sull’autobus
per Woodstock».
«Inizio a chiedermi se la signora Jarman alla fin fine sia poi un testimone così utile».
«Penso di sì, signore, perché questa era la notizia brutta».
«Non mi dica che ne ha una bella?» Morse cercò di metterci un filo di allegria.
«Allora, signore, il camionista, quello di cui ci parlava la signora Jarman, in realtà è
stato molto facile rintracciarlo. Vede, a Cowley usano questo sistema per le carcasse
d’auto. Quando loro...».
«Sì, ho capito, Lewis. Ha fatto un gran lavoro. Ma tagli le premesse».
«Se le ricorda. Un certo George Baker, che vive a Oxford. E senta questa, signore, ha
visto le due ragazze che salivano su un’auto. Un’auto rossa – ne è sicuro. Con un tizio alla
guida – non una donna. Se lo ricorda perché anche a lui capita spesso di dare un passaggio,
specialmente se a chiederlo sono delle ragazze. Ha visto quelle due subito dopo la rotonda,
a una cinquantina di metri di distanza. Voleva fermarsi, mi ha detto, ma ha visto quest’altra
macchina che accostava, e ha dovuto superarla. La bionda l’ha vista bene».
«Siamo una banda di mascalzoni, vero Lewis?» disse Morse. «Lei le avrebbe fatte
salire?».
«Di solito non prendo autostoppisti, signore. Solo se sono in uniforme. Quand’ero sotto
le armi mi sono fatto dare anch’io un paio di passaggi che mi hanno fatto molto comodo».
Morse meditò con attenzione sul nuovo indizio. Le cose si erano certamente messe in
moto.
«Cosa mi diceva a proposito di quella birra?».
Sedevano in silenzio al White Horse di Kidlington e Morse decise che la birra era
passabile. Alla fine ruppe il silenzio. «Una macchina rossa, eh?».
«Rossa, signore».
«Vorrei affidarle una ricerca interessante. Quanti uomini possiedono un’auto rossa a
Oxford?».
«Un bel po’, signore».
«Intende dire qualche migliaia».
«Immagino di sì».
«Ma potremmo scoprirlo?».
«Immagino di sì».
«Un’impresa del genere non sarà mica al di sopra delle capacità di un’efficiente forza di
polizia?».
«Immagino di no, signore».
«E se il proprietario non abita a Oxford?».
«Certo, signore, c’è questa possibilità».
«Lewis, penso che la birra le stia rammollendo il cervello».
Se l’alcol riduceva l’acume intellettivo di Lewis, su Morse aveva l’effetto opposto. La
sua mente cominciò a funzionare con agevole chiarezza. Ordinò a Lewis di stare a casa per
il resto del weekend, di dormire, di dimenticarsi di Sylvia Kaye e di portare sua moglie in
giro per compere, e Lewis fu solo contento di obbedire.
Morse, che non era un fumatore incallito, si comprò un pacchetto di sigarette king size e
fumò e bevve ininterrottamente fino alle due di pomeriggio. Cos’era veramente successo
quel mercoledì sera? Era tormentato dall’idea che quella sera si fosse messa in moto una
sequenza di eventi di per sé banali, che ogni evento fosse la conseguenza logica di quello
che lo precedeva, che se avesse scoperto un paio di questi eventi, se solo la sua mente
avesse potuto ipotizzare una serie di normali relazioni causa-effetto avrebbe capito tutto.
Non c’era bisogno di un improvviso colpo di genio per passare dall’ignoranza
all’illuminazione. Bastava una serie di passaggi logici. Ma ogni tentativo lo portava a una
strada chiusa come i labirinti negli albi dei bambini in cui solo un filo conduce fino al
tesoro e tutti gli altri portano solo ai margini della pagina. Riprovaci.
«Mi dispiace disturbarla, ma stiamo per chiudere per la pausa» gli disse il barista.
Capitolo sette
Sabato, 2 ottobre, pomeriggio

Morse trascorse il pomeriggio di sabato 2 ottobre in uno stato di lieve ebbrezza, seduto
alla sua scrivania. Alle 16,30 aveva già finito il pacchetto di sigarette e se n’era fatto
portare un altro. La sua mente era sempre più lucida. Pensava di aver individuato il quadro
generale degli eventi accaduti la sera di mercoledì 29 settembre. Niente nomi, neanche
un’idea dei nomi al momento, ma il quadro generale sì.
Passò in rassegna le lettere che si era fotocopiato alla Town and Gown: formavano un
piccolo, triste campionario. Alcune le scartò immediatamente: nemmeno uno psichiatra
demente avrebbe potuto costruire la più vaga delle ipotesi basandosi su cinque di quelle
nove prove documentali. Una delle cartoline diceva: «Cara Ruth, tempo buono, fatto il
bagno due volte ieri. Vista una medusa morta sulla spiaggia. Ciao T.». Essere una medusa
doveva essere molto triste, pensò Morse. Solo tre missive attirarono la sua attenzione; poi
due; poi una. Era un testo battuto a macchina indirizzato alla signorina Jennifer Coleby, e
diceva:
Gentile signorina,
Dopo aver valutato le numerose domade di assunzione che abbiamo ricevuto, dobbiamo
purtrppo imformarla che la sua non ha avuto buon esito. Le segnalo però, onde lei si possa
organizzare, che a novembre sono previste altre assunzioni e, in tutta sincerità, ci
propponiamo di riconsiderere la sua candidaturra in quell’occasione.
Al momento abbiamo alocato il numero di posti disponibili presso il Dipartimento di
Psicologia; non è tuttavia improbbile che presto si liberi una posizione di assistente
qualificato, addetto alla gestione delle attività quotidiane, pe l’ufficio della Presidenza.
Cordiali saluti

La nota era firmata da qualcuno che non ci teneva particolarmente a far comparire il suo
nome. La «E» iniziale era abbastanza chiara ma il cognome che la seguiva con molti
ghirigori sarebbe rimasto un enigma per Champollion in persona.
Dunque la signorina Jennifer Coleby cercava un nuovo lavoro, si disse Morse. E allora?
Ogni giorno centinaia di persone presentavano domanda per trovare un nuovo lavoro. Ogni
tanto meditava di farlo anche lui. Si chiese come mai aveva pensato che la lettera meritasse
una seconda occhiata. Com’era prevedibile, era mal scritta, con una serie imperdonabile di
errori di battitura. E di ortografia. Di quei tempi nessuno a scuola dava molta importanza
alle regole basilari della lingua. Morse era stato tirato su con maniere più forti: errori di
ortografia, di punteggiatura e di sintassi venivano severamente puniti da insegnanti colmi
d’indignazione, e questo aveva lasciato il segno. Era diventato pedante e pignolo. Morse
ripensò alla rabberciata parodia di rapporto compilata da uno della sua squadra che aveva
letto due giorni prima, quando aveva calcolato a mente gli errori come un esaminatore che
debba dare il voto a uno studente. «Domade». Sì, quello era un errore – in mezzo a molti
altri. Il paese stava diventando sempre più illetterato, a dispetto di tutte le idee alla moda
della pedagogia progressista. Ma se la sua segretaria gli avesse presentato una robaccia del
genere, si sarebbe trovata a spasso il giorno stesso! Invece era bravissima. Le iniziali di
Julie in fondo a una lettera erano un imprimatur che garantiva un testo dattilografato in modo
pulito e impeccabile. Un momento, però... Morse tornò a guardare il foglio che aveva
davanti. Non c’era alcuna sigla. Vuoi che E. Tiziocaio se la sia battuta da solo? Se l’aveva
fatto, chi era? Un anziano amministrativo di qualche dipartimento universitario?... Morse era
sempre più perplesso. Per quale motivo non aveva usato la carta intestata? Stava dando
troppo peso a un dettaglio insignificante?
C’era solo un modo per dirimere la questione. Guardò l’orologio: erano già le 17,30. A
quell’ora la signorina Coleby probabilmente era già arrivata a casa. Dove abitava?
Controllò i meticolosi appunti di Lewis e trovò l’indirizzo di North Oxford. Un particolare
interessante? Morse cominciò a rendersi conto di quante possibilità non aveva neanche
cominciato a esplorare. Indossò il soprabito e andò a prendere l’auto. Mentre percorreva i
due chilometri verso Oxford decise che doveva sgombrare la mente da qualsiasi pregiudizio
nei confronti della signorina Jennifer Coleby. Ma non era facile perché, se ci si poteva
fidare della memoria della signora Jarman, l’ambiziosa signorina Coleby era una delle tre
ragazze che poteva aver affrontato il viaggio verso Woodstock quel mercoledì sera, in
compagnia della buonanima di Sylvia Kaye.
Jennifer Coleby aveva affittato una casetta in Charlton Road insieme ad altre due
ragazze che lavoravano a Oxford. Ognuna pagava un affitto settimanale di 8,25 sterline, gas
ed elettricità inclusi. Il tutto ammontava a un bel taglieggio di quasi 25 sterline la settimana
per l’accorto proprietario che, circa sei anni prima, si era accaparrato due proprietà di quel
genere per la cifra, che ormai sembrava modesta, di 6500 sterline. Ma era anche una bella
fortuna per le tre giovani impiegate che, per una spesa così ragionevole, si adattavano
volentieri a condividere l’unica, piccolissima stanza da bagno disponibile. Ognuna di loro
aveva la sua camera da letto (una delle quali era al piano terra), la cucina era adeguata per i
loro pasti serali, e quando stavano in casa tutte quante si ritrovavano in sala a chiacchierare
o a guardare la TV. La sistemazione nel suo complesso, a parte il bagno, funzionava
sorprendentemente bene. Di rado le ragazze erano a casa insieme durante il giorno e, fino a
quel momento, non c’era stato alcun vero litigio. Il padrone di casa aveva proibito loro di
ospitare amici maschi e la regola era stata accettata senza proteste. Naturalmente qualche
infrazione c’era stata, ma la situazione non era mai degenerata in una promiscuità
conclamata. Una regola le inquiline se l’erano imposta da sole: niente musica, e di questo
gli anziani vicini erano loro profondamente grati. La casa era tenuta in ordine e pulita, come
Morse constatò non appena la porta gli fu aperta da una ragazza dall’aria triste che stava
mangiando un sandwich ai pomodori.
«Vorrei parlare con la signorina Coleby, se possibile. È in casa?».
Due occhi scuri e languidi lo scrutarono con curiosità e Morse provò la tentazione di
rispondere facendo l’occhiolino.
«Solo un attimo» disse la ragazza e si avviò senza fretta. Poi voltò d’improvviso la testa
e chiese: «Chi devo dire?».
«Ehm, Morse, capo ispettore Morse».
«Ah».
Jennifer Coleby, una giovane dall’aria linda e tranquilla, che indossava una camicia e un
paio di jeans, andò ad accogliere Morse senza mostrare alcun entusiasmo.
«In cosa posso esserle utile, ispettore?».
«Vorrei fare due chiacchiere, se per lei va bene».
«Immagino che debba andare bene per forza. È meglio che entri».
Morse fu accompagnato in sala dove la signorina Occhiscuri fingeva di essere rapita da
un servizio TV sulla partita tra il Manchester e il Tottenham.
«Sue, ti presento l’ispettore Morse. Ti dispiace se ci mettiamo qui a parlare?».
Sue si alzò e spense l’apparecchio, un po’ troppo teatralmente secondo Morse, che
osservò con un sorriso di apprezzamento i suoi movimenti lenti e aggraziati. «Io vado di
sopra, Jen». Prima di andarsene lanciò un’ultima occhiata a Morse, notò un’ombra di
sorriso sulle sue labbra e in seguito giurò a Jennifer che le aveva strizzato l’occhio.
Jennifer fece cenno all’ispettore di accomodarsi sul divano e prese posto su una
poltrona di fronte a lui.
«Cosa posso fare per lei?». Morse notò una copia di Villette di Charlotte Brontë in
equilibrio come un accento circonflesso sul bracciolo della poltrona.
«Devo – è solo una procedura di routine – controllare i movimenti di tutte, ehm… le
persone…».
«I sospetti?».
«No, no, tutte le persone che lavoravano con Sylvia. Lei capisce che questo genere di
controlli va fatto».
«Naturalmente. Mi stupisce solo che non ci abbiate pensato prima». Morse fu colto un
po’ alla sprovvista. Già, perché non l’aveva fatto prima? Jennifer continuò: «La sera di
mercoledì scorso sono arrivata a casa un po’ più tardi del solito. Ero andata da Blackwell
per spendere un buono regalo. La settimana scorsa era il mio compleanno. Sarò arrivata a
casa verso le sei, mi pare. Sa com’è il traffico nelle ore di punta». Morse annuì. «Be’, ho
mangiato qualcosa – c’erano anche le altre ragazze – e poi sono uscita, vediamo, verso le
sei e mezzo, direi. Sono rientrata intorno alle otto o poco più tardi».
«Può dirmi dov’è andata?».
«Sono andata alla biblioteca di Summertown».
«A che ora chiude la biblioteca?».
«Alle sette e trenta».
«Vi ha trascorso circa un’ora».
«È una deduzione ragionevole, ispettore».
«Mi sembra un’eternità. Io ci resto al massimo cinque minuti».
«Forse lei prende il primo libro che le capita».
Non aveva torto. Jennifer parlava con una pronuncia sicura e chiara. Doveva aver
frequentato delle buone scuole. Ma c’era qualcosa di più. La ragazza aveva un’aria di
indipendenza disciplinata e Morse si chiese come fossero i suoi rapporti con gli uomini.
Pensò che doveva essere difficile fare progressi con quella ragazza – a meno che,
naturalmente, non fosse lei a volerlo. Sospettava che sapesse essere molto carina, quando
voleva.
«Lo sta leggendo?».
Jennifer appoggiò delicatamente sul libro la mano fresca di manicure. «Sì, lei lo ha
letto?».
«Temo di no» confessò Morse.
«Dovrebbe».
«Cercherò di ricordarmelo» borbottò Morse. Ma chi è che doveva guidare la
conversazione? «Ehm, è rimasta là per un’ora?».
«Gliel’ho già detto».
«Qualcuno in biblioteca potrebbe aver notato la sua presenza?».
«Chi sta lì non dovrebbe notare nessuno, non le pare?».
«Già, immagino che sia così» Morse sentì che stava perdendo terreno. «Ha preso in
prestito nient’altro?». Improvvisamente Morse si sentì un poco meglio.
«Le interesserà sapere che ho preso anche quello» disse indicando un tomo voluminoso,
parimenti aperto, appoggiato sul tappeto davanti alla TV. «Ha iniziato a leggerlo Mary».
Morse raccolse il libro e ne lesse il titolo. Chi era Jack lo Squartatore?
«Mmm...».
«Sono sicura che questo l’ha letto».
Il morale di Morse ricominciò a vacillare. «No, non penso di aver letto questo saggio in
particolare».
Jennifer all’improvviso sorrise. «Mi deve scusare, ispettore. Sono un po’ un topo da
biblioteca e di sicuro ho molto più tempo libero di lei».
«Torniamo un attimo a mercoledì, signorina Coleby. Ha detto di essere rientrata verso le
otto».
«Sì, più o meno a quell’ora. Sì, c’era Sue, mentre Mary era fuori, al cinema, a vedere Il
giorno dello sciacallo, credo. Non è tornata a casa fino alle undici».
«Capisco».
«Devo chiedere a Sue di scendere?».
«No. Non si disturbi». Morse si rese conto che probabilmente era inutile, ma ci provò.
«Quanto ci vuole per arrivare alla biblioteca a piedi?».
«Una decina di minuti».
«Ma lei ci ha messo quasi un’ora, se è rientrata intorno alle otto e trenta».
Di nuovo quel sorriso piacevole, i denti bianchi regolari, un accenno di simpatica presa
in giro sulle labbra. «Ispettore, penso che sia meglio chiedere a Sue se si ricorda che ore
erano, non le pare».
«Forse ha ragione».
Quando Jennifer lasciò la sala, Morse si guardò intorno con occhi mesti e stanchi,
quando un pensiero improvviso gli attraversò la mente in un lampo. Con un movimento
rapidissimo prese Villette, guardò il retro della copertina e lo rimise sul bracciolo della
poltrona. Sue arrivò e subito confermò che, per quel che poteva ricordare, Jennifer era
tornata a casa dopo le otto. Non era in grado di essere più precisa. Morse si alzò per
congedarsi. Non aveva neanche menzionato il vero motivo della sua visita, e non aveva
intenzione di farlo ora. La cosa poteva aspettare.
Restò seduto per qualche minuto sul sedile della sua auto, travolto da ondate di gelo e di
caldo. Quasi non era riuscito a credere ai propri occhi. Ma l’aveva visto nero su bianco, o
meglio blu scuro su bianco.
Morse conosceva a menadito i regolamenti delle biblioteche di Oxford perché di rado
gli capitava di restituire i suoi prestiti occasionali senza dover pagare una penale per il
ritardo. Per quanto riguardava il prestito dei libri, le biblioteche ragionavano a settimane,
non a giorni, e in biblioteca le settimane iniziavano di mercoledì. Se un libro era uscito in
prestito di mercoledì, doveva essere restituito esattamente quattordici giorni dopo, di
mercoledì. Se un libro era stato dato in prestito di giovedì, bisognava restituirlo due
settimane dopo il mercoledì successivo, cioè venti giorni dopo. Il timbro della data veniva
cambiato al giovedì mattina. Procedere di mercoledì in mercoledì semplificava
notevolmente il lavoro dei bibliotecari ed era un’usanza molto gradita a tutti gli utenti, per i
quali leggere sette-ottocento pagine in soli quattordici giorni era un’impresa titanica. Morse
avrebbe dovuto accertarsene, ovviamente, ma era sicuro che solo chi prendeva il libro in
prestito di mercoledì doveva restituirlo entro il termine fisso di quattordici giorni. Chiunque
prendesse un libro in qualsiasi altro giorno avrebbe avuto il bonus extra di qualche giorno.
Se Jennifer Coleby avesse preso Villette il mercoledì precedente, il timbro che segnava la
data in cui restituirlo avrebbe dovuto indicare il 13 ottobre. Ma non era così. Il timbro
diceva mercoledì 20 ottobre. Morse era certo oltre ogni ragionevole dubbio che Jennifer
avesse mentito circa i suoi movimenti la sera dell’omicidio. E perché? Quella domanda
cruciale non sembrava avere una risposta semplice.
Restò seduto nell’auto parcheggiata accanto alla casa. Con la coda dell’occhio scorse la
tenda alla finestra della sala fremere appena, ma non vide nessuno. Chiunque fosse, decise
di lasciar sedimentare le cose ancora un poco. A lui una boccata d’aria fresca non poteva
che far bene. Chiuse l’auto e si avviò con passo tranquillo, girò a sinistra nella Banbury
Road e accelerò un poco il passo diretto alla biblioteca. Misurò il tempo impiegato con
precisione: nove minuti e mezzo. Interessante. Si diresse alla porta della biblioteca sulla
quale era scritto «Spingere». Ma non la spinse. La biblioteca aveva chiuso i battenti due ore
prima.
Capitolo otto
Sabato, 2 ottobre

La moglie di Bernard Crowther, Margaret, detestava i fine settimana e organizzava le


faccende di casa in modo tale che non potessero goderseli troppo neanche il marito, la figlia
dodicenne e il figlio di due anni più piccolo. Margaret lavorava part-time presso la Scuola
di Studi Orientali e sospettava di accumulare, nel corso della settimana, un totale di ore di
puro lavoro superiore a quello del suo gentile ed erudito marito e della sua prole pigra ed
egoista messi insieme. Il fine settimana, per come la vedevano loro, era un intervallo di
meritato relax, ma a lei non ci pensavano. «Che cosa c’è da mangiare, mamma?». «Non è
ancora pronta la cena?». Oltre a ciò, il sabato pomeriggio c’era da fare il bucato di tutta la
settimana e la domenica mattina Margaret cercava di pulire la casa come meglio poteva. A
volte le sembrava di impazzire.
Alle cinque e mezzo del pomeriggio di sabato 2 ottobre era in piedi davanti al lavello in
compagnia dei suoi pensieri cupi. Aveva preparato uova affogate («No, un’altra volta?») e
adesso stava lavando i piatti gialli e appiccicosi. I ragazzi erano incollati alla TV e non si
sarebbero fatti sentire per un’oretta almeno. Bernard (doveva essere grata dei piccoli
miracoli) stava tagliando la siepe di ligustro sul retro della casa. Sapeva quanto lui odiasse
il giardinaggio, ma quella era una cosa che lei non aveva la benché minima intenzione di
fare. Sperava che si sbrigasse. La cura meticolosa che dedicava a ogni singolo metro
quadrato di quella maledetta siepe la esasperava. A momenti sarebbe rientrato dicendo che
gli facevano male le braccia. Lo guardò. Era sempre più stempiato, ormai, ed era ingrassato,
ma doveva ancora risultare attraente per certe donne. Fino a poco tempo prima non aveva
mai rimpianto di averlo sposato, quindici anni addietro. Rimpiangeva di aver avuto i figli?
Non ne era sicura. Dal primo istante in cui li aveva tenuti in braccio, si era preoccupata
perché si sentiva incapace di cicalare dei suoi due tesorini con la disinvoltura e l’intimità
delle altre mamme. Aveva letto un libro sulla maternità ed era giunta all’angosciante
conclusione che per lei la faccenda era perlopiù di cattivo gusto, se non proprio nauseante.
Ne aveva dedotto che il suo istinto materno era gravemente carente. Quando i bambini
avevano cominciato a zampettare era riuscita a goderseli di più e a volte non aveva avuto
troppe difficoltà a convincersi che li amava tanto entrambi. Ma le sembrava che crescendo
fossero peggiorati. Sbadati, egoisti e sfrontati. Forse era tutta colpa sua, o di Bernard. Tornò
a guardare fuori mentre riponeva gli ultimi piatti in verticale sullo sgocciolatoio.
Stava già facendo buio, dopo un’altra giornata splendida. Si chiese, come le api della
poesia, se quei giorni di caldo non sarebbero finiti mai… negli ultimi cinque minuti Bernard
era riuscito a dare un profilo regolare e arrotondato a un quindici centimetri di siepe. Chissà
a cosa stava pensando, ma quella era una domanda che sapeva di non potergli fare.
La verità, una verità che Margaret aveva visto delinearsi oscuramente da parecchi anni,
era che loro due si erano allontanati sempre più. Anche questo era colpa sua? Bernard se
n’era accorto? Lei pensava di sì. Avrebbe voluto lasciarlo, lasciare tutto e andarsene
lontano a iniziare una nuova vita. Ma naturalmente non poteva. Doveva resistere. A meno
che non fosse accaduto un evento tragico – o piuttosto finché non fosse successo un evento
tragico. Ma in quel caso lei sapeva che gli sarebbe restata accanto – a dispetto di tutto.
Margaret passò la spugna sui piani di formica intorno al lavandino, si accese una
sigaretta e andò nello studio. Semplicemente non sopportava il suono dei battibecchi
meschini e il fracasso che provenivano dalla sala. Prese in mano il libro che Bernard stava
leggendo quel pomeriggio. Le opere di Ernest Dowson. Il nome le era vagamente familiare
dai giorni della scuola. Sfogliò lentamente il volume passando di poesia in poesia finché
non trovò i versi che un tempo aveva dovuto imparare a memoria. Si sorprese di ricordarli
così bene.
Gridando chiesi musica più folle, vino più forte,
ma quando finì la festa, spente le luci,
cadde poi la tua ombra, Cynara! Tua è la notte;
E io sono infelice e malato di un’antica passione,
Sì, affamato delle labbra del mio desiderio:
Ti sono stato fedele, Cynara, a modo mio.
Rilesse quei versi e per la prima volta le parve di coglierne il ritmo e il suono magico.
Ma che cosa mai volevano dire? Frutti proibiti, una specie di delizia illecita, languida,
dolorosa. Bernard, lui sì che avrebbe potuto spiegarglieli. Aveva passato la vita a
esaminare e a commentare il mondo meraviglioso della poesia. Ma non l’avrebbe fatto
perché lei non poteva chiederglielo.
Doveva essere stata una fatica tremenda per Bernard incontrare un’altra donna una volta
la settimana. Da quanto tempo lo sapeva? Be’, ne era sicura da non più di un mese, giorno
più giorno meno. Ma, per una specie di intuizione imponderabile, se ne era accorta molto
tempo prima. Sei mesi? Un anno? Forse di più. Non con questa ragazza in particolare, ma
potevano essercene state altre. Aveva il mal di testa. Ah, che importava! Che disastro! La
sua mente continuava a girare in tondo. Siepe di ligustro, uova affogate, Ernest Dowson,
Bernard, la fatica e gli inganni degli ultimi quattro giorni. Dio mio! Che cosa poteva fare?
Non poteva andare avanti così.
Bernard entrò in casa. «Le mie povere braccia sono a pezzi!».
«Hai finito con la siepe?».
«Darò gli ultimi ritocchi domattina. È colpa di quelle forbici orripilanti. Secondo me
non sono mai state affilate da che ci siamo trasferiti qui».
«Puoi sempre farlo fare».
«Sì, così tra sei mesi sono pronte».
«Esagerato».
«Per domattina finisco tutto».
«È facile che piova».
«Be’, un po’ d’acqua non farebbe male. Hai visto il prato? Pare le piane d’Abissinia».
«Non sei mai stato in Abissinia».
La conversazione si arenò. Bernard si sedette alla scrivania e prese delle carte.
«Pensavo che stessi guardando la TV».
«I ragazzi, non li sopporto più».
Bernard la guardò con interesse. Era prossima alle lacrime. «Certo» disse «capisco
cosa intendi». Il suo sguardo si riempì di tristezza, quasi di tenerezza. Margaret, sua moglie!
A volte la trattava con indifferenza, con una grande indifferenza. Si avvicinò a lei e le mise
una mano sulla spalla.
«Sono piuttosto insopportabili. Ma non preoccuparti. A quell’età sono tutti uguali. Sai
cosa ti dico…».
«Oh, lascia perdere! Hai già fatto tante di quelle promesse in passato! Non me ne
importa. Non me ne importa. Per quel che mi riguarda possono andare al diavolo – e tu
insieme a loro!».
Cominciò a singhiozzare convulsamente e scappò fuori dalla stanza. Bernard la sentì
salire in camera, al piano di sopra e, tendendo le orecchie, sentì che i singhiozzi
continuavano. Si prese la testa tra le mani. Doveva fare qualcosa e doveva farlo in fretta.
Correva il rischio di perdere davvero tutto. Anzi, magari l’aveva già perso… Poteva
parlarne apertamente con Margaret? Non l’avrebbe perdonato mai e poi mai. Parlarne con
la polizia? Era stato lì lì per dire tutto, o per dire almeno parte di quello che era successo.
Abbassò lo sguardo sul libro di Dowson e vide a che pagina era aperto. Sapeva che
Margaret l’aveva appena letto e i suoi occhi si fermarono sulla stessa poesia.
Certo, i baci della sua bocca comprata erano dolci;
Ma ero infelice e malato di un’antica passione.
Al mio risveglio trovai che l’alba era grigia:
Ti sono stato fedele, Cynara, a mio modo.
Sì, erano stati abbastanza dolci, avrebbe mentito se avesse detto il contrario, ma adesso
sapevano di acido. Sarebbe stato un enorme sollievo averla fatta finita tanto tempo prima, e
soprattutto liberarsi dalla rete di bugie e inganni che aveva tessuto intorno a sé. Ma quanto
era stata incantevole l’idea di quelle delizie extramatrimoniali. La coscienza. Maledetta
coscienza. Alimentata da un’educazione raffinata. Fatale.
Anche se personalmente non era credente, Bernard ammetteva la verità empirica
dell’affermazione di Paolo in base alla quale la mercede del peccato è la morte. Voleva
disperatamente liberarsi dal senso di colpa e dal rimorso e ricordava vagamente, dalle
lezioni di religione ai tempi della scuola, con quanta voluttà avevano cantato tutti insieme
molti cori incentrati sul peccato:
Quand’anche i vostri peccati fossero come lo scarlatto
diventeranno bianchi come la neve.
Ma in quei giorni non riusciva a pregare – il suo spirito era rinsecchito e desolato. Lo
zelo della sua religiosità originaria si era intorpidito, rivestito com’era da strati spessi e
duri di sapere, cultura e cinismo. I paradossi della teologia avevano cessato di
sorprenderlo, e il brivido delle controversie accademiche aveva perso il suo fascino. Più
bianchi della neve, figurarsi! Piuttosto, lerci come il fango schizzato dalle auto.
Andò alla finestra che dava sulla via tranquilla. Luci brillavano a quasi tutte le finestre.
C’era qualche passante: un vicino che portava il suo cane a insozzare qualche altro
marciapiede. Una ragazza della scuola guida con gran fatica stava cercando di compiere
un’inversione, anche se la linea di simmetria della Zodiac dell’autoscuola si spostava di
sette od otto gradi al massimo a ogni manovra. Altro che inversione in tre tempi, diciamo
trentatré. L’istruttore doveva essere un tipo paziente. Una volta anche lui aveva provato a
insegnare a guidare a Margaret… Poi gli era toccato farsi perdonare. Adesso lei aveva la
sua Mini. Continuò a guardare fuori dalla finestra per parecchi minuti. Vide passare un
uomo che gli sembrava avesse un’aria familiare, ma non riuscì a identificarlo. Si chiese chi
fosse e dove stesse andando e lo tenne d’occhio finché non svoltò a destra nella Charlton
Road.
Mentre passava di lì, anche Morse si stava chiedendo dove andare. Era meglio
affrontare subito Jennifer? Non ne era certo, ma nel complesso pensava di sì. Consapevole
di non essersi coperto di gloria durante l’interrogatorio precedente, decise di ripassare
mentalmente un nuovo approccio.
«Vuole farmi qualche altra domanda?».
«Sì». A labbra strette, autorevole.
«Non vuole entrare?».
«Sì».
«Dunque?».
«Finora non mi ha detto altro che un mucchio di bugie. È meglio se ricominciamo da
capo».
«Non capisco cosa intenda dire…». Con lentezza deliberata si sarebbe alzato dalla
sedia per avviarsi verso la porta. Non avrebbe detto una parola di più. Ma mentre stava per
aprire la porta Jennifer l’avrebbe fermato «Va bene, ispettore». E lui avrebbe ascoltato.
Pensava di avere un’idea abbastanza precisa di quello che gli avrebbe detto.
Che si sbagliava, non era però destinato a scoprirlo quel giorno: risultò infatti che
Jennifer era uscita. La languida Sue, dalle lunghe gambe abbronzate e nude, non aveva idea
di dove fosse andata. «Non vuole entrare e aspettarla qui, ispettore?». Le labbra piene si
schiusero e tremarono leggermente. Morse aveva l’aria di essere pericolosamente
vulnerabile e si sentiva tale. Consultò l’orologio in cerca di sostegno morale. «Lei è molto
gentile… ma forse è meglio di no».
Capitolo nove
Domenica, 3 ottobre

Morse dormì un sonno profondo per almeno dodici ore e si svegliò alle 8,30. Dopo aver
visitato per la seconda volta l’abitazione di Charlton Road era tornato a casa con
un’emicrania feroce e lo spirito inquieto. Mentre sbatteva gli occhi, al risveglio, quasi non
riusciva a credere di sentirsi così rinfrancato.
L’ultimo libro che aveva preso in prestito alla biblioteca, e che al momento era ancora
sulla sua scrivania con tre settimane di ritardo sulla restituzione, era il Corso in 5 giorni sul
pensiero laterale di Edward de Bono. Morse aveva eseguito coscienziosamente gli
esercizi, evitando di sbirciare le risposte prima del tempo, ed era stato costretto a
concludere che, a una valutazione indulgente, il suo potenziale in materia di pensiero
laterale era piuttosto basso. Ma il libro gli era piaciuto. Oltre tutto aveva imparato che
aggredire un problema insidioso con le armi della logica, della gradualità, con un attacco
«verticale», non sempre era la soluzione migliore. Non aveva capito al cento per cento il
gergo utilizzato, ma aveva afferrato i punti sostanziali. «Come fare a percorrere in auto una
strada buia se i fari non funzionano?». Non importava quale fosse la risposta. La cosa da
fare era suggerire una qualsiasi soluzione il guidatore potesse ragionevolmente adottare:
suonare il clacson, togliere il portasci dal tettuccio, alzare il cofano. Non importava. La
pura e semplice meditazione su una soluzione inutile era già di per sé una potente spinta per
arrivare alla conclusione giusta, perché prima o poi si sarebbe accesa una luce e –
abracadabra – la soluzione giusta sarebbe saltata fuori.
Mentre era a letto sveglio decise di accantonare per un po’ l’assassinio di Sylvia Kaye.
Stava facendo progressi, lo sapeva. Ma la sua mente mancava d’incisività, si stava
ingolfando. Dopo una giornata di riposo (che del resto si meritava), l’indomani sarebbe
tornato in perfetta forma mentale.
Si alzò, si vestì, si preparò un piatto dall’aria succulenta con bacon, pomodori e funghi,
e si sentì bene. Scorse pigramente i giornali della domenica, controllò le schedine del
totocalcio, si chiese se era l’unica persona nell’intero Regno Unito che, giocando un sistema
«otto qualsiasi su sedici», era riuscita a non azzeccare neanche un risultato e si accese una
sigaretta. Il piano era di starsene seduto a oziare fino a mezzogiorno, bersi un paio di
boccali e poi cercarsi un posto dove pranzare. Gli sembrava un programma decoroso. Ma
era incapace di starsene con le mani in mano, così poco dopo stava cercando di decidere se
mettere Wagner sul giradischi o fare un cruciverba. I cruciverba erano la sua passione anche
se, dopo la morte del grande Ximenes, aveva trovato pochi autori che fossero all’altezza dei
suoi gusti. Nel complesso quelli del Listener gli piacevano più degli altri e per quel motivo
comprava la rivista tutte le settimane. D’altra parte adorava le opere di Wagner e possedeva
il ciclo completo dell’Anello del Nibelungo. Decise di fare entrambe le cose e, col
sottofondo del preludio sontuosamente orchestrato dell’Oro del Reno, tornò a sedersi e
andò alla penultima pagina del giornale. Quella sì che era vita. Le figlie del Reno nuotavano
con grazia qua e là e ci volle qualche minuto perché Morse accettasse di lasciar scivolare la
musica alla periferia della sua attenzione. Lesse il preambolo del cruciverba:
«Ogni definizione orizzontale contiene un intenzionale errore di stampa. Le definizioni
verticali sono corrette, tuttavia trascrivendo le soluzioni nello schema bisogna inserire un
errore di una sola lettera. Le lettere errate da 1 orizzontale a 28 verticale formano una
famosa citazione che rappresenta la soluzione…».
Morse smise di leggere. Saltò in piedi. Un assolo di corno morì con un lamento quando
spense l’apparecchio. Morse afferrò le chiavi dell’auto appoggiate sul ripiano del
caminetto.
Il vassoio della posta in ingresso conteneva un’alta pila di rapporti, ma Morse la ignorò.
Aprì l’armadietto chiuso a chiave, cercò il faldone di Sylvia Kaye e ne estrasse la lettera
indirizzata a Jennifer Coleby. Aveva sempre sentito che c’era qualcosa di strano in quella
faccenda. Aveva la bocca secca e gli tremavano un poco le mani, come a uno studente che
apra la busta con il risultato degli esami finali.
Gentile signorina,
Dopo aver valutato le numerose domade di assunzione che abbiamo ricevuto, dobbiamo
purtrppo imformarla che la sua non ha avuto buon esito. Le segnalo però, onde lei si possa
organizzare, che a novembre sono previste altre assunzioni e, in tutta sincerità, ci
propponiamo di riconsiderere la sua candidaturra in quell’occasione.
Al momento abbiamo alocato il numero di posti disponibili presso il Dipartimento di
Psicologia; non è tuttavia improbbile che presto si liberi una posizione di assistente
qualificato, addetto alla gestione delle attività quotidiane, pe l’ufficio della Presidenza.
Cordiali saluti

Quanto era stato ottuso! Invece di perdersi a pensare con superba arroganza
all’analfabetismo e all’incompetenza di una qualche povera stupida dattilografa avrebbe
dovuto pensare esattamente l’opposto. Lo stupido era lui. Gli indizi erano alla luce del
sole. Tutta la faccenda suonava falsa – perché non se n’era accorto prima? A considerarla
con attenzione era una lettera insensata. Innanzitutto aveva commesso l’errore di
concentrarsi sui singoli svarioni, senza nemmeno darsi la pena di considerare la missiva
nella sua interezza. Ma c’era di più. Aveva aggravato l’errore, perché se avesse letto la
lettera come una lettera, avrebbe potuto considerare gli errori come errori, errori
deliberati. Prese un foglio e cominciò. «Domade» una «n» dimenticata; «purtrppo»,
mancava una «o»; ad «alocato» di certo mancava una «l»; in «improbbile» si era persa una
«a». NOLA. Cosa diavolo significava? Guarda meglio. «Imformarla», ci andava una «n» al
posto della «m»; «riconsiderere» voleva una «a» al posto della «e» e al «per» mancava una
«r». Che cosa aveva ottenuto? NONALAR. Non molto promettente. Provaci ancora una
volta. Una «p» era di troppo in «propponiamo» e una «r» in «candidaturra». E naturalmente
la cosa più evidente di tutte: la «E», l’unica lettera leggibile nella firma: NON PARLARE.
Qualcuno aveva sentito un bisogno incontenibile di dire a Jennifer di non aprire bocca, e a
quanto pareva Jennifer aveva recepito il messaggio.
Ci aveva impiegato due minuti, e meno male che la sera prima Jennifer era uscita. Ora
sapeva che se l’avesse messa davanti alla sua menzogna sulla visita alla biblioteca, lei
avrebbe detto che le spiaceva tanto, doveva essersi confusa, forse ci era andata di giovedì,
era così difficile ricostruire quello che era successo anche solo il giorno prima.
Sinceramente non riusciva a ricordarselo, ma ci avrebbe provato ancora. Magari era andata
a fare una passeggiata. Per conto suo, naturalmente.
Ma adesso non le sarebbe stato così facile. Stranamente Morse si sentiva un poco
euforico. Quando aveva conosciuto Jennifer aveva provato una curiosa simpatia nei suoi
confronti e, a ripensarci, capì quanto doveva essere stato difficile per lei. Ma doveva
guardare i fatti con obiettività. Jennifer stava mentendo. Proteggeva qualcuno – qualcuno
che, con ogni probabilità, aveva violentato e ucciso Sylvia. Non era un pensiero piacevole.
Tutti gli indizi ora dicevano inequivocabilmente che era Jennifer Coleby la ragazza in attesa
dell’autobus alla fermata del 5 insieme a Sylvia Kaye la sera del 29; che Jennifer Coleby
aveva accettato un passaggio fino a Woodstock da una o più persone sconosciute (ma più
probabilmente una sola); che Jennifer Coleby era stata testimone di qualcosa di cui le era
stato proibito di parlare. In breve, Jennifer Coleby conosceva l’identità dell’uomo che
aveva assassinato Sylvia Kaye. Morse di colpo si chiese se la ragazza non fosse in pericolo
e questo timore lo spinse a decidere che avrebbe trattenuto Jennifer Coleby come sospetta
complice di omicidio. Lewis doveva essere richiamato in servizio.
Prese il telefono con la linea esterna e compose il numero di casa del suo sergente.
«Lewis?».
«Sono io».
«Sono Morse. Mi dispiace rovinarle il fine settimana, ma ho bisogno che mi raggiunga
alla centrale».
«Subito, signore?».
«Se possibile».
«Arrivo».
Morse fece scorrere le carte sul vassoio della posta in ingresso. Rapporti su rapporti.
Senza neanche guardarli appose le proprie iniziali su quei documenti dai titoli poco
attraenti, quali Il problema della droga in Gran Bretagna , La relazione tra polizia e
cittadini e Statistiche su violenza e crimine nell’Oxfordshire (vol. secondo di quattro). Al
momento era esclusivamente interessato a un unico dato che senza dubbio avrebbe fatto la
sua comparsa nel terzo volume di statistiche sui crimini violenti nell’Oxfordshire. Non
aveva tempo per quei rapporti. In ogni caso sospettava che il 95 per cento di tutto ciò che
veniva scritto non fosse mai letto da nessuno. Ma due documenti attrassero la sua attenzione:
il rapporto del laboratorio della scientifica sull’arma del delitto e il rapporto supplementare
del Dipartimento di patologia sul cadavere di Sylvia Kaye. Entrambi non fecero che
confermare quel che già sapeva o quanto meno sospettava. La chiave a occhio si rivelò un
argomento particolarmente poco gradevole. Morse lesse tutto sulle sue misure, peso,
forma… Ma che cosa importava? Nessun mistero avvolgeva quell’oggetto. Il gestore del
Black Prince aveva trascorso il pomeriggio di martedì 28 e di mercoledì 29 a trafficare con
una vecchia Sunbeam e, per distrazione, aveva lasciato la cassetta degli attrezzi fuori dal
garage dove teneva l’auto, in fondo al cortile, sulla destra. Non c’erano impronte
utilizzabili, solo i tristi ricordi del fatto che uno degli estremi ricurvi della chiave si era
scontrato con forza contro le ossa di un cranio umano. Seguiva un esame truculento che
Morse fu lieto di saltare.
Qualche minuto dopo Lewis bussò alla porta ed entrò.
«Ah, Lewis, credo che gli dei abbiano rivolto uno sguardo benevolo alla nostra
indagine». Gli raccontò in sintesi gli sviluppi del caso. «Voglio che Jennifer Coleby venga
portata in centrale per essere interrogata. Andateci piano. Si porti dietro l’agente donna
Fuller, se crede. La tratteniamo solo per interrogarla, chiaro? Non si parla nemmeno per
scherzo di un arresto ufficiale. Se la ragazza desidera consultare un suo consulente legale,
ricordatele che è domenica e che starà giocando a golf. Ma non penso che vi darà grandi
problemi». Almeno su quell’ultimo punto Morse la indovinò.
Alle 15,45 Jennifer era seduta nella stanza per gli interrogatori numero 3. Dietro
indicazione di Morse, Lewis trascorse un’ora con lei senza fare cenno alcuno alle
informazioni che aveva ricevuto poco prima. Lewis le ricordò come, nonostante tutte le loro
ricerche, non fossero ancora riusciti a identificare la giovane che, secondo la deposizione di
due testimoni indipendenti, era in compagnia di Sylvia circa un’ora prima che venisse
uccisa.
«Deve avere pazienza, sergente».
Lewis le rivolse uno sguardo benevolo, come gli dei. «Oh, noi di pazienza ne abbiamo
da vendere, signorina, e credo che con un pizzico di spirito collaborativo ce la faremo».
«Non ne avete trovato molto finora?».
«Vuole una tazza di tè, signorina?».
«Preferirei un caffè».
La Fuller si affrettò a uscire. Jennifer si inumidì le labbra e deglutì. Lewis meditava
senza dir niente. Nella gara di silenzi che ne seguì, fu Lewis a riportare la vittoria.
«Pensa che io non abbia dato prova di spirito collaborativo, sergente?».
«Lo ha fatto?».
«Senta, ho detto all’ispettore Morse quello che sapevo. Non mi ha creduta?».
«Esattamente che cosa ha detto all’ispettore, signorina?».
«Vuole che le ripeta tutto un’altra volta?». Il volto di Jennifer esprimeva l’insofferenza
di una scolaretta cui sia stato chiesto di rifare da capo un esercizio noioso.
«In ogni caso avremo bisogno di una dichiarazione firmata».
Jennifer sospirò. «Va bene. Vuole che ricostruisca i miei movimenti – è così che si dice,
giusto? – di mercoledì».
«Esattamente, signorina».
«Mercoledì sera…» Lewis cominciò a scrivere con evidente difficoltà. «Vuole che
glielo scriva io?».
«Penso proprio che dovrò sbrogliarmela da solo, se non le spiace. Non ho una laurea in
lettere, ma farò del mio meglio». Un lampo di allarme brillò negli occhi di Jennifer. Passò
subito, ma c’era stato e Lewis l’aveva notato.
Mezz’ora dopo la deposizione di Jennifer era pronta. La ragazza la lesse, chiese se
poteva apportare un paio di correzioni – «Solo piccoli errori di ortografia, sergente» – e si
disse pronta a firmarla.
«Prima devo farla battere a macchina, signorina».
«Quanto tempo ci vorrà?».
«Oh, solo una decina di minuti».
«Vuole che lo faccia io? A me ne basterebbero due».
«Temo che tocchi a noi farlo, signorina, se non le spiace. Sa, abbiamo i nostri
regolamenti».
«Pensavo solo che magari potevo dare una mano». Jennifer si sentiva più rilassata.
«Un’altra tazza di caffè?».
«Volentieri, grazie». Questa volta fu Lewis ad alzarsi e a uscire dalla stanza.
L’agente Fuller sembrava una donna straordinariamente poco comunicativa e per oltre
dieci minuti Jennifer sedette in silenzio. Quando la porta finalmente si aprì, fu Morse a
entrare con in mano un foglio protocollo dattiloscritto con cura.
«Buona sera, signorina Coleby».
«Buona sera».
«Ci siamo già incontrati». L’ondata di rilassamento che l’aveva invasa all’uscita di
Lewis si ritirò rapidamente scoprendo la ghiaia pungente dei suoi nervi.
«Ieri sera, dopo averla lasciata, ho fatto un salto in biblioteca» continuò Morse.
«Si vede che le piace camminare».
«Dicono che camminare molto sia il segreto di un’eterna mezz’età».
Jennifer si sforzò di sorridere. «È una passeggiata piacevole, vero?».
«Dipende da che parte si va» disse Morse.
Jennifer gli lanciò un’occhiata penetrante e Morse, come Lewis in precedenza, notò
quella reazione inattesa. «Bene, mi piacerebbe molto continuare a parlare con lei, ma vorrei
firmare la mia deposizione e tornarmene a casa. Ho ancora parecchie cose da fare prima di
domani».
«Spero che il sergente Lewis le abbia chiarito che non abbiamo alcun diritto di
trattenerla contro la sua volontà».
«Ah sì, il sergente Lewis me l’ha detto».
«Ma le sarei molto grato se lei accettasse di fermarsi ancora un poco».
Jennifer si sentiva la gola secca. «E perché mai?». Il suo tono d’un tratto era diventato
un poco brusco.
«Perché» rispose Morse con calma «spero che non sarà così stupida da firmare una
deposizione che lei sa essere falsa…» Morse alzò il tono di voce «… e che io so essere
falsa». Non le diede la possibilità di replicare. «Oggi pomeriggio ho dato ordine di
convocarla per essere interrogata poiché sospettavo, e sospetto ancora, che lei stia
occultando informazioni potenzialmente vitali ai fini dell’identificazione dell’assassino
della signorina Kaye. Si tratta di un reato molto grave, come lei saprà. Ora, a quanto pare
lei è abbastanza stupida da aggravare tale stupidità con il reato, altrettanto grave e
criminale, di fornire alla polizia informazioni che non solo sono imprecise, ma
dimostrabilmente false». Morse, che aveva alzato sempre più la voce in un crescendo,
chiuse la frase dando un pugno violento sul tavolo che li separava.
Jennifer, tuttavia, non sembrava turbata come si era aspettato.
«Non crede a quello che le ho detto?».
«No».
«Mi è consentito chiederle perché?». Morse era alquanto sorpreso. Gli era chiaro che la
ragazza aveva recuperato tutto il sangue freddo che poteva aver perso prima. Le parlò con
chiarezza e pazienza. Era impossibile che lei avesse preso il libro in biblioteca mercoledì
sera, e ciò poteva essere provato contro ogni ragionevole dubbio. «Capisco». Morse aspettò
che lei continuasse a parlare. Se era rimasto leggermente sorpreso dalla domanda
precedente, restò a bocca aperta per la successiva. «E lei che cosa stava facendo al
momento dell’assassinio mercoledì sera, ispettore?».
Che cosa stava facendo? Non ne era del tutto sicuro, ma un’ammissione del genere non
l’avrebbe certo aiutato a raggiungere il suo obiettivo. Mentì. «Stavo ascoltando Wagner».
«Che cosa in particolare?».
«L’oro del Reno».
«C’è qualcuno che possa confermare la sua affermazione? Qualcuno l’ha vista?».
Morse si arrese. «No». A dispetto di se stesso, provava ammirazione per quella ragazza.
«No» ripeté, «vivo da solo. Di rado ho il piacere di avere ospiti, maschi o femmine che
siano».
«Che tristezza».
Morse annuì. «Sì, ma vede, signorina Coleby, al momento non sono ancora sospettato di
essermi travestito da donna e di essere andato all’imbocco della Woodstock Road a fare
l’autostop con Sylvia Kaye».
«E io sono sospettata di questo?».
«Sì, lei è sospettata».
«Ma presumo di non essere sospettata di aver violentato e ucciso Sylvia?».
«Spero che lei mi attribuisca un minimo di intelligenza».
«Lei non capisce».
«Che cosa intende dire?».
«Non le è mai venuto in mente che forse a Sylvia piaceva il sesso violento?». Parlava in
tono amaro ed era diventata rossa in volto.
«Questo sembra implicare che sia stata violentata prima che morisse» disse Morse
abbassando la voce.
«Mi dispiace… ho detto una cosa orribile».
Morse cercò di sfruttare il vantaggio. «Il mio compito è scoprire che cosa è successo
dal momento in cui Sylvia e la sua amica – e io credo che fosse lei – sono salite su un’auto
rossa a pochi metri dalla rotonda per Woodstock. Per qualche motivo l’altra ragazza non si
è fatta avanti, ma io non penso sia molto difficile intuire perché. Conosce l’uomo che era
alla guida della macchina e lo sta proteggendo. Probabilmente è terrorizzata. Ma anche
Sylvia Kaye era terrorizzata, signorina Coleby. Non solo, è stata colpita alla nuca con tale
violenza che il suo cranio si è fratturato in vari punti e frammenti di ossa le sono finiti nel
cervello. Le piace questa descrizione? L’omicidio è una cosa brutta, orribile e il problema,
con gli omicidi, è che di solito mettono fuori gioco gli unici validi testimoni del crimine: le
vittime. Questo significa che possiamo basarci solo su altri testimoni, per la maggior parte
gente del tutto normale che per caso, a un certo momento, si è trovata coinvolta in una
faccenda maledetta. Le persone si spaventano, certo. Preferirebbero tenersi fuori da tutto,
certo. Pensano che non siano fatti loro, certo. Ma noi dobbiamo poter sperare che alcuni di
loro abbiano il fegato e la decenza di farsi avanti e dirci quello che sanno. Ed è il motivo
per cui lei si trova qui, signorina Coleby. Devo sapere la verità».
Prese la deposizione di Jennifer e la stracciò. Ma non poteva leggerle nel pensiero.
Mentre parlava, lei aveva tenuto gli occhi fissi oltre la finestra del piccolo ufficio che dava
sul cortile interno, dove il giorno prima era stata con le sue colleghe.
«Dunque?».
«Mi dispiace, ispettore, devo averle creato un sacco di problemi. In biblioteca ci sono
andata giovedì».
«E per quanto riguarda mercoledì?».
«Sono uscita… E sono andata sulla strada per Woodstock – ma non sono arrivata fino a
Woodstock. Mi sono fermata al Golden Rose a Begbroke – sarà, diciamo, circa due
chilometri prima di Woodstock. Sono entrata e ho ordinato da bere – birra e sciroppo al
lime. Mi sono fermata a bere in giardino e poi sono tornata a casa».
Morse la guardò spazientito. «Quando era già buio, immagino».
«Sì, verso le sette e mezzo».
«Bene, continui».
«Che cosa vuol dire ‘continui’? È tutto».
«Vuole proprio che io…» disse Morse con voce furente. «Chiamatemi Lewis» gridò.
L’agente Fuller, sentendo che la tempesta era vicina, si affrettò a uscire dalla stanza.
Jennifer non sembrava preoccupata e la rabbia di Morse evaporò.
Fu Jennifer a rompere il silenzio. «Non deve arrabbiarsi troppo con me, ispettore…».
La sua voce era poco più che un sussurro. Si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi
per qualche secondo. Per la prima volta Morse la guardò con attenzione. Non si era reso
conto di quanto potesse essere attraente. Indossava un leggero impermeabile estivo su un
maglione nero, con guanti dello stesso colore. Aveva gli zigomi alti e un viso espressivo,
con la bocca leggermente socchiusa a rivelare due file regolari di denti candidi. Morse si
chiese se avrebbe potuto innamorarsi di lei e, tanto per cambiare, si rispose di sì.
«Ero così agitata, così spaventata».
Dovette chinarsi leggermente verso di lei per afferrare le sue parole. Vide che Lewis
era entrato e in silenzio gli fece cenno di sedersi.
«Senta, andrà tutto bene». Morse guardò Lewis e annuì al sergente che si accingeva a
stendere una nuova versione della deposizione.
«Perché era spaventata?».
«Be’, è stato tutto così strano, da quel giorno mi sembra di non essermi mai più
svegliata completamente… ho l’impressione di non riuscire più a distinguere cosa è reale e
cosa no. Sembrano succedere così tante cose strane». Teneva ancora la testa tra le mani, con
lo sguardo perso sul tavolo. Morse lanciò un’occhiata a Lewis. Erano quasi al punto giusto.
«Che cosa intende dire quando parla di ‘cose strane’?».
«Un po’ tutto, in realtà. Comincio a chiedermi se so quello che faccio. Che cosa ci
faccio qui? Ero convinta di averle detto la verità riguardo a mercoledì, ma mi sono resa
conto che non era così. E c’è un’altra cosa strana». Morse la guardò con intensa curiosità.
«Sabato mattina ho ricevuto una lettera: mi comunicavano che non ero stata scelta per un
lavoro… e io non ricordo di aver mai presentato domanda . Pensa che io stia
impazzendo?».
Allora era quella la storia che intendeva raccontare! Morse provò il tormento del
giocatore di bridge il cui asso era appena stato coperto dal due di atout. L’ispettore e il
sergente si guardarono, entrambi consapevoli di avere addosso gli occhi di Jennifer.
«Va bene». Morse cercò di nascondere la delusione e l’incredulità come meglio poté.
«Ritorniamo a mercoledì sera, per favore. Può ripetermi quel che mi ha appena detto?
Vorrei che il sergente Lewis lo mettesse a verbale». La sua voce tradiva l’esasperazione.
Jennifer ripeté la sua breve dichiarazione e Lewis, come aveva fatto l’ispettore prima di
lui, per un attimo parve confuso.
«Intende dire» riprese Morse «che Sylvia Kaye proseguì fino a Woodstock, mentre lei
arrivò soltanto fino a Begbroke?».
«Sì, è esattamente quello che volevo dire».
«Chiese a quell’uomo di lasciarla a Begbroke?».
«Di quale uomo sta parlando?».
«Quello che vi diede il passaggio».
«Ma non ho fatto l’autostop per andare a Begbroke».
«Come dice?» gridò Morse.
«Dico che non ho fatto l’autostop. È una cosa che non farei mai. Forse lei non lo sa,
ispettore, ma io possiedo un’auto».
Mentre Lewis faceva battere a macchina la seconda deposizione, Morse si ritirò nel
proprio ufficio. Aveva sbagliato tutto? Se quel che Jennifer aveva appena detto era vero,
certo molte cose si spiegavano. Sulla stessa strada, la stessa sera, e una delle sue amiche
del lavoro veniva assassinata? Ce n’era abbastanza da sentirsi impaurita. Ma era una
ragione sufficiente per le sue ripetute divagazioni? Allungò la mano verso il telefono e
chiamò il Golden Rose di Begbroke. Il gestore dalla voce cordiale sembrava desideroso di
rendersi utile. Mercoledì sera c’era sua moglie di turno al bar. Poteva fare un salto alla
centrale di polizia di Kidlington? Sì. Il gestore l’avrebbe accompagnata lui stesso. Bene.
Tra un quarto d’ora.
«Ricorda se mercoledì sera ha visto entrare una giovane donna? Da sola? Verso le sette
e mezzo?».
La donna dai molti anelli e dal seno prosperoso non ne era certa.
«Ma non le capiterà spesso di vedere ragazze che entrano al bar da sole, vero?».
«No, spesso no. Ma non è neanche poi così raro di questi tempi, ispettore. Uno non se lo
immagina, ma è così».
Morse pensò che oramai erano poche le cose che non poteva immaginarsi. «Ma sarebbe
in grado di riconoscere una persona che lei ha visto solo una volta?».
«Penso di sì, sì».
Morse chiamò Lewis che, insieme a Jennifer, stava aspettando nella stanza degli
interrogatori.
«La accompagni a casa, Lewis».
La proprietaria del Golden Rose si mise accanto a Morse dietro al banco all’ingresso
mentre Jennifer passava.
«È lei?» chiese Morse. Era la sua penultima domanda.
«Sì, penso di sì».
«Le sono davvero grato» mentì Morse.
«Sono lieta di essere stata d’aiuto, ispettore».
Morse l’accompagnò verso la porta. «Immagino sia impossibile che lei ricordi che cosa
ha bevuto quella ragazza…».
«Be’, a dire la verità penso di ricordarmelo, ispettore. Credo che abbia ordinato birra e
sciroppo al lime. Sì, birra e lime».
Ci volle mezz’ora perché Lewis tornasse. «Lei le crede, signore?».
«No» rispose Morse. Si sentiva più frustrato che depresso. Si rendeva conto che con la
sua scarsa professionalità aveva commesso parecchi errori, aumentando la confusione.
Aveva respinto l’offerta di personale ausiliario, e così tra le piste emerse poche erano state
seguite e indagate a fondo. Sanders, per esempio – di certo, agli occhi di qualsiasi agente
esperto, il soggetto più meritevole di un’indagine immediata e scrupolosa – fino a quel
momento lui l’aveva quasi totalmente ignorato. In realtà, anche a un esame superficiale, il
modo in cui aveva condotto il caso fino a quel punto era azzardato al limite della
negligenza. Solo il mese prima aveva tenuto personalmente una lezione ai suoi colleghi
investigatori sull’enorme importanza, in qualsiasi indagine criminale, della scrupolosità più
rigorosa e disciplinata in ogni aspetto dell’inchiesta fin dal primo momento.
Eppure, nonostante tutto, sentiva per una sorta di intuizione (procedura che non era stata
menzionata nella sua lezione) che in un certo qual senso era ancora sulla strada giusta, che
aveva fatto bene a consentire a Jennifer di andarsene, che anche se il suo ultimo tiro era
stato buttato fuori dal campo, prima o poi il goal sarebbe arrivato.
Per il paio d’ore che seguì i due poliziotti esaminarono gli appunti degli interrogatori
del pomeriggio, con Morse che saggiava spazientito le reazioni di Lewis all’evasività, alle
occhiate e ai gesti della ragazza.
«Lei pensa che stesse mentendo, Lewis?».
«Adesso non ne sono più tanto sicuro».
«Ma la finisca, Lewis! Quando uno ha la mia età riconosce un bugiardo dall’odore a un
chilometro di distanza!».
Lewis, che tra l’altro era più vecchio di lui, e di parecchi anni, si tenne i suoi dubbi. Tra
loro calò il silenzio.
«E adesso come procediamo, signore?» disse Lewis alla fine.
«Penso che attaccheremo sull’altro fronte».
«Davvero?».
«Sì. La ragazza sta proteggendo un uomo. Perché? Perché? Finora è questa la domanda
che ci siamo posti. E dove ci ha portato questo filone d’indagine? Da nessuna parte. La
ragazza sta mentendo, questo lo so, ma non siamo ancora riusciti a farla cedere, non ancora.
Mente così bene che le è facile darla a bere a qualsiasi maledetto babbeo!».
Lewis colse l’allusione. «Magari è lei che si sbaglia, signore».
Morse continuò a sbraitare, ma intanto si chiedeva se Lewis non avesse ragione. «No,
no, no. È solo che abbiamo affrontato il caso nel modo sbagliato. Ho sentito dire, Lewis,
che si può scalare l’Eiger in pantofole, se si procede con calma».
«Intende dire che abbiamo cercato di risolvere il problema frettolosamente?».
«No, intendo l’esatto contrario. Abbiamo cercato di risolverlo con calma. Adesso
dobbiamo provarci con più energia».
«E come facciamo, signore?».
«Abbiamo cercato di scoprire l’identità dell’altra ragazza perché pensavamo che ci
avrebbe portato all’uomo che vogliamo».
«E secondo lei l’abbiamo anche trovata».
«Sì. Ma è troppo furba per noi, e troppo leale. Le è stato detto di tenere la bocca chiusa
– non che avesse bisogno che qualcuno glielo dicesse, se non mi sbaglio. Ma per il momento
ci stiamo scontrando con un muro di gomma, e c’è un’unica alternativa. La ragazza non ci
porterà all’uomo? D’accordo. Troviamolo per conto nostro».
«Da che parte cominciamo?».
«Penso che un pizzico di logica aristotelica ci gioverebbe, non crede?».
«Se lo dice lei, signore».
«Le spiego tutto domattina» disse Morse.
Lewis fece per andarsene ma arrivato alla porta si fermò. «Riguardo all’identificazione
della signorina Coleby, signore. Pensa che sia giusto basarci esclusivamente sulla parola
della proprietaria del pub?».
«Perché no?».
«Be’, è stato tutto un po’ disinvolto, no? Voglio dire, non abbiamo esattamente agito
secondo le procedure».
«Quali procedure?» disse Morse.
Lewis decise che per quel giorno la sua mente era già stata scombussolata abbastanza, e
se ne andò.
Neanche la mente di Morse stava funzionando con lucidità cristallina, eppure dalla
confusione labirintica stava già emergendo il germe di un’idea. Fin dal primo momento
aveva sospettato che Jennifer Coleby stesse mentendo: ci avrebbe scommesso la propria
reputazione professionale. Ma almeno per un verso poteva essersi sbagliato. Aveva cercato
di trovare una falla nella storia di Jennifer. Forse, però, l’aveva cercata nel punto sbagliato.
E se tutto quello che aveva detto fosse perfettamente vero?… Gli stessi pro e contro
continuarono a girargli nella testa salendo e scendendo come i cavallini di una giostra,
finché nella sua mente si formò un vortice vertiginoso e Morse capì che doveva darsi tregua.
Capitolo dieci
Mercoledì, 6 ottobre

Di rado la sala cocktail del Black Prince si riempiva durante la prima ora di esercizio,
dopo l’apertura delle 11, e il mattino di mercoledì 6 ottobre le cose andarono come al
solito. Lo shock provocato dall’assassinio stava rientrando e il Black Prince stava
rapidamente tornando alla normalità.
Era incredibile la velocità con cui gli eventi venivano dimenticati nell’indifferenza
generale, pensò la signora Gaye McFee, mentre lucidava l’ennesimo bicchiere da martini e
lo riponeva in fondo alla fila ordinata dei suoi simili. Ma le cose non stavano proprio così.
Solo quel mattino un aereo di linea in arrivo a Heathrow si era schiantato portandosi via
settantanove vite. E ogni giorno sulle strade…
«Che cosa prendete, ragazzi?». A parlare era stato un signore robusto e distinto sulla
sessantina, dai capelli argentati e dall’incarnato rubicondo. Gaye l’aveva servito già molte
volte in passato e sapeva che era il professor Tompsett (Felix per gli amici che, a quanto si
diceva, non erano un esercito), professore emerito di letteratura elisabettiana alla Oxford
University e vicepreside, da poco in pensione, del Lonsdale College. I suoi due compagni,
un uomo smilzo con la barba tra i venti e i trent’anni e un signore occhialuto dall’aria gentile
sui quarantacinque, ordinarono entrambi un gin and tonic.
«Tre g and t». Tompsett aveva una voce decisa, imperiosa e Gaye si chiese se al college
si facesse girare il caffè del mattino da un inserviente. «Spero che si troverà bene da noi,
giovane Melhuish». Tompsett pose una larga mano sulla spalla del collega barbuto e
cominciò presto a parlare di argomenti che Gaye non riusciva a seguire. Era entrato un
gruppo di militari americani e Gaye si ritrovò sotto un fuoco di fila di domande su quali
marche di birra si servivano lì, sul recente omicidio e sul suo indirizzo di casa. Ma a lei gli
americani stavano simpatici e poco dopo già rideva cordialmente insieme a loro. Come al
solito dallo spillatore della lager usciva più schiuma che birra e Gaye notò che, all’altro
estremo del bancone, il membro occhialuto del triumvirato di Oxford aspettava paziente.
«Arrivo in un minuto, signore».
«Non si preoccupi. Non ho una gran fretta». Le rivolse un sorriso tranquillo. Gaye notò
uno sfavillio nei suoi occhi scuri e si affrettò a finire di servire gli affabili americani.
«Mi dica signore».
«Vorremmo tutti un altro giro, per favore. Tre gin and tonic». Gaye lo guardò con
interesse. Il gestore una volta le aveva detto che chiunque ordinasse tre «gin and tonic»
invece dell’ormai universale «g and t» doveva essere un vero signore. Sperò che le parlasse
ancora, perché le piaceva il suono della sua voce dal morbido accento del Gloucestershire.
Ma non lo fece. Lei, tuttavia, si fermò al suo estremo del bancone e tornò a lustrare con
delicatezza i bicchieri da martini.
«Perché ci hai abbandonato, dolcezza?» e richiami accattivanti dello stesso genere
arrivavano regolarmente dai suoi altri clienti, ma Gaye si disimpegnava con diplomazia e
tranquillità, mentre teneva d’occhio l’uomo del Gloucestershire. Tompsett parlava a getto
continuo.
«Non si è neppure degnato di presenziare alla mia lezione inaugurale. Che cosa mi dici
di questo, Peter, ragazzo mio?».
«Non posso veramente fargliene una colpa» rispose Peter. «Melhuish, devi sapere che
ognuno di noi è innamorato della propria prosa e s’illude che sia assolutamente
meravigliosa».
Il professore di letteratura elisabettiana rise divertito e bevve metà del suo bicchiere.
«Eri già stato qui, Melhuish?».
«No, mai. È piuttosto carino, no?».
«Un po’ famigerato al momento. L’assassinio della settimana scorsa, avete saputo…».
«Sì, ne ho letto qualcosa».
«Giovane e bionda. Violentata e uccisa, proprio nel cortile qui fuori. Una ragazza molto
attraente, stando a quel che dicono i giornali».
Melhuish, che di recente aveva ottenuto l’incarico di Junior Fellow a Lonsdale, era
molto intelligente e molto ansioso e stava cominciando a sentirsi un po’ più a suo agio con i
colleghi più anziani.
«Già. Hanno detto che è stata violentata, vero?».
Tompsett diede fondo al bicchiere. «Così si dice. Ma ho sempre avuto i miei dubbi
circa la faccenda dello stupro».
«Confucio diceva: ragazza con gonna sollevata corre più veloce di uomo con calzoni
calati».
I due uomini più anziani sorrisero cortesemente a quella battuta sentita mille volte, ma
Melhuish si pentì subito di averla detta: era fuori luogo e scontata. Gaye sentì la voce
squillante di Tompsett che interveniva per superare la pausa imbarazzante nella
conversazione. Non era uno stupido, pensò Gaye.
«Sì, sono d’accordo con te, Melhuish. Non dobbiamo prendere lo stupro troppo sul
serio. Mi ricordo che un paio di anni fa c’era una ragazza – sono sicuro che te la ricordi,
Peter – una mente svelta, lucida, gran lavoratrice, una ragazza meravigliosa. Stava
affrontando gli esami finali e aveva otto scritti da tre ore l’uno. Aveva finito il settimo
esame il giovedì mattina – no era venerdì, o era… ma non ha importanza. Completò il suo
penultimo esame al mattino e le restava da superare solo l’ultimo ostacolo nel pomeriggio.
Be’, uscì per tornarsene a Headington a mangiare qualcosa e, che mi venga un colpo, fu
violentata mentre rientrava al college. Immaginatevi lo shock della povera ragazza. Te lo
ricordi, Peter? Comunque, lei volle a tutti i costi sostenere anche l’ultimo esame e, non ci
crederai, Melhuish, ma fu la migliore della sessione».
Melhuish rise di cuore e prese i bicchieri vuoti.
«Te le inventi mentre le racconti» borbottò Peter.
«Be’, non era male, no?» disse Tompsett.
Gaye perse il filo della conversazione per qualche minuto e quando lo riafferrò le fu
chiaro che le chiacchiere avevano preso una piega leggermente più cupa. L’aveva sempre
detto lei che il gin butta giù di morale.
«… Non necessariamente violentata prima di essere uccisa, capite».
«Oh, smettila, Felix».
«Un po’ disgustoso, mi rendo conto. Ma abbiamo letto tutti la storia di Christie. Un vero
pervertito».
«Pensano che sia andata così anche in questo caso?».
«Sai che in teoria potrei veramente arrivare a saperlo?» disse Tompsett. «A capo
dell’inchiesta c’è il buon vecchio Morse – un amico che viene sempre alle serate per gli
ospiti del college. L’avevo invitato anche stasera, ma ha dovuto rinunciare. Ha avuto un
piccolo incidente». Tompsett si mise a ridere. «È caduto da una scala! Gesù, è da non
crederci! Ti mettono a capo di un’inchiesta per omicidio e tu cadi da una cavolo di scala!».
Tompsett sembrava molto divertito dall’incidente.
Gli americani avevano abbandonato ogni speranza e il bar si era ormai svuotato. I tre si
diressero verso il tavolo accanto alla finestra.
«Bene, ci conviene guardare cosa offrono a pranzo» disse Peter. «Vado a cercare il
menù».
Gaye prese una cartellina dall’aria costosa e la presentò già aperta, come un neofita che
porga la colletta del giorno al sommo sacerdote.
Peter scorse rapidamente la lista, con un’aria di gentile scetticismo. Alzò gli occhi verso
Gaye e vide che lo stava guardando. «Cosa ci consiglia, la Delizia del Professore o il
Piacere del Decano?» chiese in tono sommesso.
«Se fossi in voi, lascerei perdere la bistecca» disse Gaye, anche lei a voce bassa.
«È libera nel pomeriggio?».
Gaye valutò la situazione per parecchi secondi per poi annuire, quasi
impercettibilmente.
«A che ora passo a prenderla?».
«Alle tre».
«Dove?».
«Aspetto qui fuori».
Alle quattro i due erano sdraiati fianco a fianco nell’ampio letto matrimoniale nella
camera di Peter al Lonsdale College. Lui le abbracciava le spalle con la sinistra mentre con
la destra le carezzava delicatamente i seni.
«Tu credi che una ragazza giovane possa essere violentata?» le chiese.
Gaye meditò sul problema. Soddisfatta nel corpo e nello spirito, si girò a contemplare il
soffitto ornato. «Non deve essere facile per l’uomo».
«Mmm».
«Tu hai mai violentato una donna?».
«Lo farei con te, in qualsiasi momento».
«Ma io non te lo permetterei. Non opporrei alcuna resistenza».
Peter tornò a baciarle le labbra piene, e Gaye si voltò bramosa verso di lui.
«Peter» gli bisbigliò in un orecchio. «Violentami ancora».
D’un tratto il telefono prese a squillare, stridulo e forte, nella stanza silenziosa.
Maledizione!
«Ah, ciao Bernard. Come? No. Non stavo facendo un bel niente, sai com’è. Come? Ah,
questa sera. Sì. Be’, verso le sette, penso. Perché non passi a trovarmi? Ci beviamo
qualcosa insieme, cinque minuti. Sì. Felix? Ma lui sarà già completamente sbronzo. Sì, sì.
Bene, allora a dopo. Ciao».
«Chi è Bernard?».
«Un nostro professore di letteratura inglese. Brav’uomo. Un tempismo disastroso, però».
«Ha anche lui un appartamento come questo?».
«No, no. Lui è un padre di famiglia. Vive a North Oxford. Un tipo tranquillo».
«Allora lui non violenta le ragazze?».
«Chi, Bernard? Santo cielo, no! O almeno non penso…».
«Tu sei un uomo tranquillo, Peter».
«Chi, io?». Lei lo accarezzò con dolcezza ponendo bruscamente fine a ogni ulteriore
disquisizione su Bernard Crowther, tranquillo padre di famiglia di North Oxford.
Seconda parte
In cerca di un uomo
Capitolo undici
Mercoledì, 6 ottobre

Nata sotto un basso ponte ferroviario (altezza 3,6 m), dopo aver proseguito per molte
centinaia di metri lungo un tracciato stretto e ingombro in mezzo alle file di villette
squallide che la costeggiano soffocandola in una stretta crudele, la Botley Road pian piano
si allarga fino a diventare un tratto spazioso di superstrada a doppia corsia in cui affluisce il
traffico diretto a ovest, verso Faringdon, Swindon e tutti i villaggi intermedi. Lì le case non
si spingono l’una addosso all’altra in una vicinanza così risentita, ed è lì che molti
imprenditori di Oxford hanno trasferito le loro attività.
Chalkley e Figli, azienda specializzata in arredi per la casa, piastrelle, tappezzerie,
vernici e mobili, occupava un vasto edificio a due piani. Era un’impresa florida, apprezzata
da molti falegnami (con lo sconto), dagli architetti d’interni (con lo sconto), e da quasi tutti
gli amanti del fai da te di Oxford. Nell’angolo più remoto dello showroom al piano terra un
cartello informava i pochi clienti ancora all’oscuro del fatto che il laboratorio della formica
si trovava all’esterno, oltre il cortile, la seconda a sinistra.
In quel laboratorio un giovane stese un grande foglio di formica su un tavolo di legno,
attraversato per il lungo da un solco squadrato e profondo, e tirò verso di sé una piccola
sega automatica che scorreva su binari ben oliati, allineando con grande cura i denti dal
luccichio malevolo al segno tracciato a matita. Con gesto esperto estrasse una riga metallica
e controllò le misure. Soddisfatto dal rapido calcolo mentale, premette un interruttore e, con
un sibilo stridente, tagliò il robusto materiale con velocità precisa e mortale. Quanto gli
piaceva quella velocità! Ripeté l’operazione varie volte: per il lungo e diagonalmente, pezzi
larghi e pezzi stretti su misura che via via appoggiava ordinatamente contro la parete. Diede
un’occhiata all’orologio: erano quasi le 12,45. Un’ora e un quarto. Si chiuse dietro le spalle
la porta scorrevole e si rifugiò nello spogliatoio del personale, dove si lavò le mani, si
pettinò e, senza troppi rimpianti, disertò temporaneamente l’impresa del signor Chalkley e
dei suoi figli. Tastò un pacchetto che gli gonfiava leggermente la tasca destra del giaccone.
C’era ancora.
Anche se il luogo cui era diretto non distava più di dieci minuti a piedi, decise di
prendere l’autobus. Attraversò la strada e, nel farlo, incrociò tutte le righe – continue,
tratteggiate, larghe, strette, gialle e bianche – riportate nella legenda della carta topografica
dell’Istituto Geografico Militare. Il consiglio comunale di Oxford, infatti, aveva inasprito la
sua lunga guerra di logoramento contro il traffico automobilistico privato e aveva istituito un
sistema di corsie riservate agli autobus lungo la Botley Road. Un mezzo arrivò quasi
immediatamente e il burbero autista pakistano, che fungeva anche da bigliettaio, svolse
senza aprir bocca le sue svariate mansioni. Il giovane sperava sempre che l’autobus fosse
affollato per potersi sedere accanto a una di quelle ragazze in stivali e minigonna che
tornavano in città, ma quel giorno era quasi vuoto. Si sedette e si guardò intorno per
abitudine.
Scese alla fermata prima del ponte della ferrovia (dove l’autobus doveva fare una
deviazione a destra per evitare che le travi gli facessero lo scalpo), s’infilò in una strada
angusta dietro le schiere di casette squallide ed entrò in un negozietto. L’insegna sulla porta
sporca e scrostata diceva «Edicola e tabacchi». Ma il commercio del signor Baines era tale
ch’egli non aveva bisogno di impiegare squadre di giovani sfrontati per consegnare i
giornali del mattino e della sera, e la sua scorta di sigarette non andava al di là di una mezza
dozzina di pacchetti delle marche più popolari. Non vendeva cartoline, gelati o caramelle. Il
signor Baines – sì, era un uomo astuto – aveva calcolato che con un’unica transazione
veloce e senza complicazioni poteva ricavare tanto profitto quanto ne avrebbe ottenuto da
un’intera giornata di consegne o dalla vendita di un migliaio di sigarette. Il signor Baines
smerciava pornografia pesante.
Molti clienti si accalcavano sul lato destro dell’angusta bottega. Avanzavano sfogliando
una varietà stupefacente di riviste patinate e squillanti dai titoli che risuonavano di morbide
estasi, quali Piacevole passione, Voluttà vorace e Desiderio di donna. Anche se le
immagini delle modelle assai poco vestite di cui si fregiavano le copertine di queste opere
erano intensamente provocanti e lascive, i clienti sembravano scartabellarne le pagine con
distrazione annoiata e casuale. Ma era tutta apparenza. Un cartello, scritto di pugno dal
signor Baines, avvisava ogni potenziale acquirente di quei frutti esotici che le riviste erano
«In esposizione per la vendita» e la signora Baines, seduta su una rigida sedia dietro alla
cassa, piantava i suoi occhietti duri su ognuno degli affezionati clienti. Il giovane uomo non
gettò che uno sguardo fuggevole all’invitante sfilata di nudità alla sua destra e puntò dritto al
bancone. A voce alta chiese un pacchetto di Embassy e fece scivolare il suo involucro verso
la signora Baines, la quale, a sua volta, prese qualcosa da dietro il bancone e avvicinò al
giovane un pacco avvolto in carta marrone. Il signor Baines in persona non avrebbe potuto
che approvare una transazione tanto veloce e priva di complicazioni.
Il giovane si fermò al Bookbinder’s Arms sull’altro lato della strada e ordinò pane,
formaggio e un boccale di Guinnes. Avvertiva il consueto tormento dell’impazienza, ma
interiormente si godeva l’attesa. Non mancava molto alle cinque e il viaggio verso
Woodstock sarebbe stato infinitamente più veloce, ora che era stato aperto un nuovo tratto
del sistema tangenziale. Sua madre gli avrebbe fatto trovare la cena pronta, e poi sarebbe
stato solo. In un suo modo perverso era arrivato quasi a godersi anche l’attesa in quello che,
negli ultimi mesi, era diventato un rito settimanale. Costoso, s’intende, ma aveva ottenuto un
accordo accettabile che prevedeva lo sconto del 50 per cento su ogni rivista restituita.
A volte provava qualche (leggero) senso di colpa, ma certo non come un tempo. Si
rendeva conto abbastanza chiaramente che la sua propensione per la pornografia stava
ottundendo la sensibilità che forse prima aveva posseduto, che le sue voglie si stavano
radicando come un cancro maligno in crescita dentro al suo spirito, uno spirito che bramava
con disperazione sempre crescente quelle gratificazioni morbose e istantanee. Ma non
poteva farci niente.
Alle due in punto di mercoledì 6 ottobre il signor John Sanders rientrò nel laboratorio
della formica e ancora una volta la sega rotante, con il suo sibilo lamentoso, tornò a
risuonare dietro la porta scorrevole.
Durante l’anno accademico la sera del mercoledì, tra le sette e le nove, casa Crowther
di solito si svuotava. La signora Margaret Crowther si univa a un gruppo di studenti di
mezza età assatanati di cultura per seguire il corso serale di Civiltà classiche
dell’Associazione per l’Educazione dei Lavoratori; tutte le settimane i ragazzi, James e
Caroline, andavano a rimpolpare la folla nella discoteca organizzata presso il vicino centro
giovanile. Il signor Bernard Crowther disdegnava sia il pop che Pericle.
La sera di mercoledì 6 ottobre Margaret uscì di casa come al solito alle 18,30. Le
lezioni si tenevano presso il Centro di educazione permanente di Headington Hill, a circa
tre chilometri di distanza, e lei voleva esser certa di trovare un posto sicuro e centrale nel
parcheggio per la scintillante Mini 1000 che Bernard le aveva comprato l’agosto precedente
e di cui andava orgogliosa. Con grande cautela uscì in retromarcia dal garage (Bernard
aveva acconsentito a che fosse la sua 1100 ad affrontare i rigori invernali sul vialetto
davanti casa) e svoltò nella strada tranquilla. Anche se ancora dubitava della propria abilità
al volante (soprattutto con il buio), guidare un poco le piaceva. Le dava un senso di libertà e
indipendenza – quella era la sua macchina, e poteva andare dove voleva lei. Sulla
tangenziale come al solito prese un respiro profondo e fece uno sforzo esagerato per
concentrarsi. Una dopo l’altra le auto le sfrecciavano accanto sulla corsia esterna mentre lei
rintuzzava l’impulso di sollevare il piede destro allentando la lieve pressione che
esercitava sull’acceleratore per pigiarlo sul pedale del freno. Vedeva le luci delle auto che
sopraggiungevano alle sue spalle e immaginava che a guidarle fossero persone
sfacciatamente sicure di sé. Giocherellò con la cintura di sicurezza e lanciò un’occhiata
temeraria al cruscotto per assicurarsi di non aver acceso gli abbaglianti. Non che li
accendesse mai; temeva che, se avesse dovuto toglierli all’improvviso, per l’agitazione
avrebbe potuto spegnere le luci del tutto. Alla rotonda di Headington cambiò corsia con
abilità e coprì l’ultimo tratto del viaggio senza eventi degni di nota.
La prima volta che aveva pensato al suicidio, l’auto era sembrata una possibilità molto
concreta, ma ormai aveva capito che quel sistema non faceva per lei. Guidare riportava in
superficie tutti i suoi istinti primitivi di sopravvivenza e autoconservazione. E in ogni caso,
non poteva sfracellare la sua splendida Mini. C’erano altri modi…
Parcheggiò con cura, uscendo a controllare più volte finché non fu perfettamente certa
che l’auto fosse posteggiata in modo da non correre alcun rischio, il più possibile
equidistante dalle sue vicine, e varcò la porta in vetro all’ingresso dell’imponente edificio a
quattro piani che provvedeva ai bisogni degli studenti più maturi in città. Vide una delle sue
compagne di classe, la signora Palmer, che si avviava sulle scale diretta all’aula C26.
«Buona sera, signora Crowther! Abbiamo sentito la sua mancanza la settimana scorsa. È
stata poco bene?».
«Che cos’hanno quei due che non va?» chiese James.
Un quarto d’ora dopo che Margaret era uscita, Bernard Crowther aveva preso l’autobus
fino al Lonsdale College, dove cenava un paio di sere la settimana. I ragazzi erano soli.
«Niente di nuovo, no?» disse Caroline.
«Quasi non si rivolgono la parola».
«Tutte le coppie sposate prima o poi finiscono così».
«Ma una volta era diverso».
«Be’, tu non sei di grande aiuto».
«Neanche tu».
«Cosa vuoi dire?».
«Ma sta’ zitta!».
«Sei un idiota».
«Vaffanculo!».
In quel periodo le conversazioni tra loro di rado duravano più a lungo. Con qualche
variante poco significativa e, in presenza di mamma e papà, con qualche concessione
all’etichetta borghese, i loro genitori avevano sentito questo tipo di dialogo parecchie volte.
Per Margaret era una preoccupazione seria, per Bernard motivo di arrabbiature; entrambi
segretamente si chiedevano se tutti i ragazzi fossero cattivi, scontrosi e maldisposti come i
loro. Ma James e Caroline non erano in cima ai pensieri dei loro genitori quel mercoledì
sera.
Poiché Bernard era uno tra i professori più anziani del college, era stato invitato
d’ufficio alla festa celebrativa in onore dell’ex vicepreside che era andato in pensione
quell’estate. La cena era fissata per le 19,30 e Bernard arrivò in camera di Peter con una
mezz’ora di anticipo. Si versò un martini e si sedette comodamente in una poltrona sbiadita.
Felix Tompsett gli era simpatico – quel vecchio rimbambito! Di sicuro mangiava troppo, e
beveva troppo, e, se si doveva credere alle molte malelingue (perché no?), aveva esagerato
anche con un mucchio di altre cose. Ma come dirigente era bravo; era stato merito suo se il
college aveva acquistato numerosi terreni nei primi anni sessanta, e la sua dimestichezza
con tassi d’interesse e mutui era leggendaria. Strano ma vero. Bernard finì il martini e si
sistemò la toga intorno alle spalle. L’aperitivo a base di sherry probabilmente stava già
scorrendo a fiumi nelle sale riservate ai professori e i due amici si avviarono.
«Bene Bernard, come stai, vecchio mio?». Il sorriso di Felix diede un benvenuto sincero
al suo collega di tanti anni.
«Non posso lamentarmi» fu la risposta insipida di Bernard.
«E la tua bella mogliettina?».
Bernard afferrò uno sherry. «Oh, bene, bene».
«Donna fantastica» continuò Felix meditabondo. Evidentemente aveva già cominciato a
festeggiare la propria celebrazione con entusiasmo premeditato, ma Bernard non riusciva a
condividerne la giovialità. Mentre la conversazione intorno a lui proseguiva confusa, pensò
a Margaret… Tornò a sintonizzarsi appena in tempo per rispondere con una risata
convincente alle parole di Felix, che aveva notato una scritta comparsa di recente sulla
parete del bagno maschile del Minster bar.
«Davvero esilarante, non vi pare?» diceva Felix ridendo sguaiato.
Il gruppo si spostò nella sala accanto dove tutti si sedettero per la cena. Bernard aveva
sempre avuto l’impressione che a quelle cene servissero troppo da mangiare, ma quella sera
avevano proprio esagerato. Mentre cacciava giù a forza il cocktail di pompelmo, la zuppa
di tartaruga, il salmone affumicato, i tournedos alla Rossini, la torta, i formaggi e la frutta,
pensava ai milioni di persone nel mondo che non mangiavano in modo adeguato da
settimane o persino da mesi, e gli tornò alla mente l’immagine angosciante delle vittime
delle carestie in Asia e in Africa…
«Come sei silenzioso questa sera» disse il cappellano, passandogli il vino.
«Scusami» rispose Bernard. «Dev’essere tutto questo cibo e il vino».
«Bisogna imparare ad accettare i doni di cui ci fa omaggio il buon Signore, ragazzo mio.
Sai, devo riconoscere che più invecchio più apprezzo soprattutto due cose nella vita: le
bellezze della natura e i piaceri della tavola».
Si appoggiò allo schienale e si scolò mezzo bicchiere di rosso d’annata. Bernard sapeva
che certe persone sono grasse per natura, tutta colpa del metabolismo basale, o qualcosa del
genere. Ma non c’erano persone grasse a Belsen…
Qualunque altra confessione il buon cappellano fosse stato in procinto di rendere
pubblica fu interrotta dal brindisi alla regina e dal preside che alzandosi si schiarì la gola,
per poi dare inizio all’encomio di Felix Tompsett. Tutte cose già sentite mille volte.
Qualche indispensabile aggiustamento al repertorio di frasi venerande e banali ma, in
sostanza, sempre la stessa vecchia solfa. Felix avrebbe lasciato un grande vuoto in molti
ambiti della vita del college e sarebbe stato difficile colmarlo… Bernard pensò a Margaret.
Perché non lasciare quel maledetto vuoto così come stava... Uno dei più eminenti studiosi
della sua generazione… Bernard guardò l’orologio. Le 21,15. Non poteva ancora
andarsene. Aneddoti e risate… Bernard era pronto a scommettere che il preside avrebbe
tirato in ballo per l’ennesima volta l’episodio dello studente insoddisfatto che due anni
prima aveva urinato sul tappeto di Felix… Si tornò alle faccende accademiche. Un discorso
a braccio. Bugiardo… I suoi studi sui poeti elisabettiani… sì quel vecchio bastardo aveva
passato gran parte del tempo a fare ricerche di prima mano sulle locande storiche
dell’Oxfordshire. O sulle donne… Per la prima volta Bernard si chiese se Felix avesse mai
fatto delle avance a Margaret. Se si fosse permesso una cosa del genere…
Felix parlò bene. Un poco alticcio, piacevole, decoroso… piuttosto commovente, in
realtà. Forza! 21,45. Finito il discorso, la compagnia si sciolse alle 22,00. Bernard si
affrettò a uscire dal college e attraversò di corsa la Broad Street per arrivare in St Giles,
dove trovò subito un taxi. Ancor prima che l’auto si fosse fermata, Bernard notò un certo
movimento davanti alla sua casa che era immersa nell’oscurità. Il cuore cominciò a battergli
veloce per il panico indotto dall’angoscia. James e Caroline erano accanto alla porta
d’ingresso.
«Avresti potuto…» cominciò Caroline.
Bernard non l’ascoltò neppure. «Dov’è vostra madre?». La sua voce era dura e
incalzante.
«Non lo so. Pensavamo che fosse con te».
«Quanto tempo è che aspettate?». Parlava in un tono secco e autoritario quale i ragazzi
gli avevano sentito di rado.
«Tipo una mezz’ora. Di solito la mamma è sempre…».
Bernard aprì la porta di casa. «Chiama la scuola di Headington. Chiedi se hanno finito».
«Chiama tu, Caroline».
La mano di Bernard calò con forza feroce sulla faccia di James. «Sbrigati!» gli disse tra
i denti. Tornò al cancello. Nessuno. Pregò di sentire il rumore di un’auto, un’auto qualsiasi.
L’auto! Un sudore freddo gli si formò sulla fronte mentre si slanciava verso il garage. La
porta era chiusa. Trovò la chiave. La mano gli tremava convulsamente. Aprì la porta.
«Cosa diavolo stai combinando?».
Bernard trasalì e in cuor suo benedisse tutte le divinità passate, presenti e future. «Dove
accidenti sei stata?». In una frazione di secondo la sua paura terribile e lacerante si era
trasformata in furia – una meravigliosa furia scatenata, figlia del sollievo.
«Se vuoi saperlo si è rotto il motorino d’accensione della Mini. Non sono riuscita a
trovare nessuno che me l’aggiustasse e alla fine ho dovuto prendere l’autobus».
«Avresti potuto avvisare».
«Ah, sì, naturalmente. Secondo te, dopo aver chiamato tutti i garage della zona, dovevo
chiamare te, e poi magari anche i ragazzi?». Anche Margaret si stava arrabbiando sul serio.
«Perché tutte queste storie? Solo perché, una volta tanto, a essere in ritardo sono io!».
«I ragazzi ti aspettavano da un sacco di tempo».
«E allora?». Margaret si precipitò dentro casa e Bernard sentì un vociare infervorato
all’interno. Chiuse il cancello d’entrata, poi il garage. Chiuse per bene la porta d’ingresso.
Si sentiva felice, più felice di quanto non si fosse sentito da molti giorni e molte ore.
Capitolo dodici
Mercoledì-giovedì, 6-7 ottobre

Morse non seppe mai che cosa l’avesse spinto, dopo sette mesi di buoni propositi e
tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui
l’elettricista aveva portato i fili per creare un nuovo allacciamento. Comunque, era andato
tutto per il verso sbagliato fin dal primo momento. Lo stucco in polvere, comprato quasi due
anni prima, si era indurito come un blocco di cemento; la spatola che usava per rompere le
uova e per riempire le crepe era misteriosamente sparita dalla faccia della terra, e la
rudimentale scaletta che aveva in casa non era mai stata stabile sulle sue gambe traballanti.
Forse era stato ispirato da Edward de Bono e dalle sue riflessioni sul pensiero laterale. Ma
qualunque fosse il motivo del suo improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco,
Morse sprofondò in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera,
quando la cordicella che bloccava le gambe della scala ai 30° regolamentari cedette
all’improvviso e tutto il trabiccolo fece una spaccata sotto di lui.
Come Efesto scagliato dai cristallini merli, Morse cadde sul piede destro con dolore
lancinante, restò a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandosi il sudore
freddo che gli si formava sulla fronte, e finalmente zoppicando riuscì a raggiungere la sala
dove, con il fiato grosso, si sdraiò sul divanetto. Dopo un po’ il male si attenuò e Morse si
sentì alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi comparve il gonfiore mentre fitte strazianti
e improvvise gli tormentavano il collo del piede. Sarebbe riuscito a guidare? Sapeva che
era assurdo anche solo provarci. Erano le otto e trenta di sera di martedì 5 ottobre. C’era
solo una cosa da fare. Arrancando e barcollando raggiunse il telefono e chiamò Lewis e, nel
giro di mezz’ora, si ritrovò a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso del
Radcliffe Infirmary, in attesa dell’esito delle lastre. Un ragazzo seduto accanto a lui si
massaggiava la mano sinistra dolorante (sportello dell’auto) e due uomini che avevano
riportato brutte ferite in un incidente stradale furono portati via sulle barelle per ricevere
cure d’emergenza. Morse si sentì un po’ meno depresso.
Alla fine fu visitato da un medico cinese che parlava in modo quasi incomprensibile e
che contemplò le sue lastre sul pannello luminoso con tutto l’interesse di un invitato
annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite.
«Nienterotto. Bendaegrucce». Dall’infermiera esperta alle cui cure era stato poi affidato,
Morse venne a sapere che non c’erano fratture e che gli erano stati prescritti un bendaggio e
le stampelle fornite dall’ospedale.
Espresse la sua gratitudine nei confronti dell’infermiera e del medico e, vacillando
esitante, tornò da Lewis che lo aspettava. «Lei» gli gridò il medico da dietro le spalle. «Lei,
Morse. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?».
«Non si preoccupi, grazie» disse Morse.
«Lei, Morse. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?».
«Ok». Oh, Signore!
Quella notte Morse non chiuse quasi occhio: sentiva un dolore acuto e insistente a tutte
le dita del piede. Mandò giù un’aspirina dopo l’altra e finalmente, verso l’una, si appisolò
per puro e semplice sfinimento. La sofferenza si protrasse per tutto mercoledì. Lewis, che
andò varie volte a visitarlo, verso le nove di sera vide l’ispettore abbandonarsi a un sonno
fortunatamente profondo.
Quando Lewis lo salutò, il mattino dopo, Morse si sentiva già meglio e, poiché si
sentiva meglio, la sua mente era tornata a occuparsi dell’assassinio di Sylvia Kaye e, poiché
la sua mente non era più completamente assorbita dalle tribolazioni dell’arto offeso, Morse
sprofondò in una grande depressione. Si sentiva come il concorrente di un quiz che avesse
quasi azzeccato alcune risposte, ne avesse altre sulla punta della lingua, ma alla fin fine non
avesse combinato niente. Restava la voglia di ricominciare tutto da capo…
Giaceva a letto con quei pensieri cupi per la mente. Lewis si stava dando molto da fare
per lui. Buon vecchio Lewis. Chissà che risate si facevano alla centrale. Che umiliazione,
cadere dalle scale. Be’, lui non era caduto dalle scale. Era caduto insieme alla scala.
«Lewis, immagino che lei abbia detto a tutti che cosa è successo».
«Sissignore».
«Ebbene?».
«Pensano che sia una bugia. Pensano che in realtà sia un attacco di podagra. Sa com’è,
se uno esagera con la carne…».
Morse emise un lamento. Si vedeva andare in giro zoppicando mentre, uno dopo l’altro,
i colleghi lo fermavano per interrogarlo sui particolari della sua disavventura. Quasi
avrebbe voluto metter tutto per iscritto, fotocopiare il documento e distribuirlo urbi et orbi.
«Fa ancora male, signore?».
«Ovviamente fa un male cane. Ci sono milioni di terminazioni nervose in tutte le
maledettissime dita dei piedi. Lo sapeva questo, Lewis?».
«A un mio zio una volta è rotolata una botte di birra sulle dita dei piedi, signore».
«Stia zitto» fece Morse con una smorfia. Il pensiero di qualsiasi cosa, figurarsi una botte
di birra, a distanza di meno di un metro dal suo piede dolorante era intollerabile. Una botte
di birra, però… Morse cominciava a sentirsi meglio.
«Sono già aperti i pub, Lewis?».
«Ha voglia di bere qualcosa, signore?». Lewis sembrava tutto soddisfatto.
«Un bicchiere non mi dispiacerebbe».
«Manco a dirlo l’altra sera ho portato qui qualche lattina».
«E che cosa aspetta?».
Lewis trovò un paio di bicchieri e, dopo aver disposto una sedia a una distanza adeguata
dal «piede», versò le birre.
«Niente di nuovo?» chiese Morse.
«Ancora niente».
«Mmm».
I due bevvero in silenzio. Alcune risposte erano quasi giuste… altre erano sulla punta
della lingua. E se veramente avesse avuto ragione lui, o quasi ragione? Se solo avesse
potuto ricominciare da capo… Senza pensarci d’un tratto cercò di sedersi più eretto,
dimenticando la propria infermità; gridò «Ah, il piede!» e tornò ad abbandonarsi nel nido di
cuscini. Certo che poteva ricominciare, no? «Lewis, voglio che mi faccia un paio di favori.
Mi dia un po’ di carta, la trova nel cassetto della scrivania, al piano di sotto. E per pranzo
mi porti fish and chips, le dispiace?».
Lewis annuì. Mentre stava per andare Morse lo bloccò.
«Tre favori. Mi apra anche un paio di birre».
Un pensiero vagava in testa a Morse da parecchi giorni, inafferrabile come una
saponetta in un bagno umido. All’inizio era il pensiero, e il pensiero si fece parola, e Morse
decifrò quel testo con cura e interpretò il messaggio. Im Anfang war die Hypothese. In
principio era l’ipotesi. Ma prima di formulare qualsivoglia ipotesi, anche della natura più
modesta, Morse decise che si sarebbe sentito più incisivo nel fisico e nello spirito se si
fosse lavato e sbarbato come si deve. Lentamente e non senza dolore uscì dal letto e avanzò
di sbieco lungo la parete come un granchio per poi coprire a saltelli l’ultimo tratto dentro il
bagno. Gli ci volle quasi un’ora per completare le abluzioni, ma poi si sentì rinato.
Ripercorse a ritroso i propri passi incerti e sollevò delicatamente il piede destro fino alla
sua comoda nicchia accanto al cuscino di scorta infilato in fondo al letto. Si sentiva esausto
ma meravigliosamente rinfrancato. Chiuse gli occhi e si addormentò profondamente.
Lewis non sapeva se fosse il caso di svegliarlo, ma l’odore pungente della pastella fritta
e dell’aceto lo tolsero dagli impicci.
«Che ore sono, Lewis? Mi sono addormentato».
«L’una e un quarto, signore. I fish and chips vuole che glieli metta su un piatto? Io e mia
moglie li mangiamo sempre direttamente dal cartoccio. Non so perché, ma il sapore ci
sembra migliore».
«Dicono che sia l’inchiostro della stampa che si attacca alla frittura» replicò Morse
prendendo l’involucro unto dalle mani del sergente e attaccando a mangiare di gusto. «Lo
sa, Lewis, forse abbiamo affrontato il caso nella maniera sbagliata».
«Lei dice, signore?».
«Abbiamo cercato di risolvere il caso per trovare l’assassino, giusto?».
«Immagino che più o meno l’idea fosse quella».
«Sì, ma forse otterremo risultati migliori procedendo nella direzione opposta».
«Intende…». Morse aspettava che Lewis completasse la frase, ma era ovvio che il
sergente non aveva capito un bel niente.
«Intendo che dovremmo trovare l’assassino per poi risolvere il caso».
«Capisco» disse Lewis, che continuava a non capire.
«Mi fa piacere che capisca» disse Morse. «È chiaro come la luce del sole – a proposito,
apra un po’ quelle maledette tende, per favore».
Lewis lo fece.
«Se io…» continuò Morse «… se le dicessi chi è l’assassino e dove abita, lei potrebbe
procedere all’arresto, non è vero?». Lewis annuì vagamente e si chiese se per caso il suo
superiore non avesse battuto il cranio sul lavandino della cucina prima di atterrare sul suo
prezioso piede destro. «Sì, potrebbe farlo, e potrebbe portarmelo qui, potrebbe tenerlo a
distanza di sicurezza dalla mia parte così dolorosamente lesa, e lui potrebbe raccontarci
tutta la storia, eh? Potrebbe fare lui tutto il lavoro al posto nostro, eh?».
Morse continuava a blaterare con la bocca piena di fish and chips e, con sincera
preoccupazione, Lewis cominciò a dubitare della sua salute mentale. Lo shock era una cosa
strana: l’aveva visto verificarsi tante volte dopo un incidente stradale. Succedeva che due o
tre giorni dopo il trauma l’infortunato cominciasse a dare completamente i numeri. Poi
tornava normale, naturalmente… O magari Morse aveva bevuto? La birra no. Le lattine che
aveva aperto erano ancora piene. Lewis si sentì calare sulle spalle un grave senso di
responsabilità. Cominciò a sudare leggermente. La camera era soffocante e un caldo sole
autunnale batteva forte sulla finestra.
«Ha bisogno di niente, signore?».
«Sì, una spugna, del sapone e un asciugamano. Per Giove, sua moglie ha ragione, Lewis.
Giuro che d’ora in poi li mangerò sempre dal cartoccio».
Un quarto d’ora dopo un perplesso sergente Lewis usciva dalla porta d’ingresso della
casa di Morse. Si sentiva un po’ preoccupato, ma lo sarebbe stato ancora di più se in quel
momento fosse stato ancora all’interno, se avesse sentito Morse parlare da solo e avesse
visto come, di tanto in tanto, annuiva pure, quando apprezzava in modo particolare ciò che
si era appena sentito uscire dalle labbra.
«Ora, la mia prima ipotesi, signori e signore, e, per come la vedo io, l’ipotesi più
importante di tutte – ne proporrò tante, ah sì, ne proporrò tante – è questa: che l’assassino
abita a North Oxford. Mi direte che si tratta di un’ipotesi ardita, e in effetti lo è. Perché mai
l’assassino non potrebbe abitare a Didcot o a Sidcup o persino a Southampton? Perché mai
pensare che abiti a North Oxford? E perché, per restare più nei paraggi, non potrebbe
abitare semplicemente a Oxford? Posso solo ripetervi che sto formulando un’ipotesi, cioè
una supposizione, un’idea che, per quanto azzardata, può essere ammessa per amor di
discussione; una teoria che deve essere dimostrata (o confutata – sì, occorre ammettere
questa possibilità) adducendo dei fatti, ed è alla prova dei fatti, non con fantasie campate in
aria, che cercherò di sostenere la mia ipotesi. Im Anfang war die Hypothese, come avrebbe
detto Goethe. E per favore, cerchiamo di non dimenticarci che io sono Morse dei Detective,
come avrebbe detto Dickens. Ah sì, sono un investigatore. Un investigatore ha una
sensibilità particolare nei confronti del crimine, deve sentirlo prima di poterlo indagare. Ci
sono indizi che puntano a North Oxford. Adesso non è il caso di passarli in rassegna, ma
l’ambience è proprio North Oxford. E se mi sbaglio, be’, l’indagine non ne riporterà alcun
danno. Avanziamo un’ipotesi, cioè a dire, una supposizione, un’idea che, per quanto
azzardata… ma questo l’ho già detto prima. Dov’ero rimasto? Ah, sì. Spero che accetterete,
in via provvisoria, con tutti i dubbi del caso, per disperazione se non altro, la mia ipotesi
principale. L’assassino è un abitante di North Oxford. Ho parlato di fatti, e non intendo
deludervi. Credo che Aristotele abbia classificato gli animali suddividendoli in classi, ed è
questa la procedura che adotteremo anche noi. Aristotele, quel grande genio, divideva e
suddivideva specie, sottospecie, generi… (Morse si stava perdendo) … generi, specie e
sottospecie e così via finché non raggiungeva – cos’è che raggiungeva? – l’esemplare
individuale della specie» (Così andava meglio). «Anche io mi appresto appunto a
suddividere. A North Oxford c’è, diciamo, un numero ‘x’ di persone. Ora dobbiamo
ipotizzare anche che il nostro assassino sia un maschio. Perché possiamo esserne abbastanza
certi? Perché, signore e signori, la ragazza assassinata è stata violentata. Questo è un fatto
e, durante il processo, ne porteremo le prove chiamando personale medico di alto livello
che…». Morse cominciava a sentirsi un po’ stanco e si rinfrancò con un’altra lattina di
birra. «Come stavo dicendo, il nostro assassino è maschio. Possiamo quindi dividere il
nostro numero ‘x’, diciamo, mmm, per quattro, escludendo dalla nostra stima le donne e i
bambini. Ma possiamo procedere a un’ulteriore suddivisione, vi chiederete voi? Certo che
sì. Proviamo a indovinare l’età dell’assassino. Io lo colloco – non ne sono certo, e mi
accuserete di formulare delle sotto-ipotesi – tra i 35 e i 50 anni. Sì, ho i miei buoni
motivi…». Ma Morse decise di saltarli. Magari non sarebbero risultati poi così convincenti,
e lui desiderava mantenere intatto lo slancio della sua perorazione. «Possiamo quindi
ulteriormente suddividere il nostro numero ‘x’ in due. Sembra un’idea molto ragionevole,
non è vero? Continuiamo. Cos’altro possiamo ragionevolmente ipotizzare? Io credo – per
motivi che, mi rendo conto, potreste ritenere non del tutto accettabili – che l’uomo che
cerchiamo sia sposato». Morse procedeva a tentoni con crescente insicurezza. Ma la strada
si stava già aprendo: la nebbia aveva cominciato a sollevarsi e a dissolversi al sole, così
Morse riprese con rinnovato brio. «Ora questo implica un’ulteriore riduzione della cifra. La
nostra ‘x’ sta diventando un numero maneggevole, non è vero? Il nostro obiettivo ipotetico,
tuttavia, non ha ancora messo chiaramente a fuoco l’ignara preda. Ma, un momento! Il nostro
uomo va al pub regolarmente, non è vero? Questa è di sicuro una delle nostre congetture più
ragionevoli, e dà al nostro percorso non solo i meriti di un’ipotetica plausibilità, ma anche
di un’altissima probabilità. Il caso ruota intorno al Black Prince, e uno non fa un salto al
Black Prince per consultare l’ispettore delle tasse». Morse si stava di nuovo ammosciando.
Il piede gli era tornato a pulsare con un dolore ritmico e la sua mente divagò per qualche
minuto. Dovevano essere quelle aspirine. Chiuse gli occhi e continuò il monologo forense
dentro il suo cervello.
Doveva anche, certo che doveva, includere nel calcolo il fatto che quell’uomo aveva un
QI notevole, come minimo rientrava nella fascia superiore corrispondente al 5 per cento
della popolazione. Jennifer non si sarebbe lasciata incantare da un pagliaccio ignorante, no?
Quella lettera. Tipo intelligente, istruito. Se era stato lui a scriverla. Se, se, se. Vai avanti.
Com’è messa adesso la nostra ‘x’? Va avanti. Deve essere uno che piace alle donne. Già,
ma chi può mai dire cosa piaccia a quelle creature celesti? Ma sì. Diciamo di sì. Suddividi.
L’auto! Dio, si era scordato dell’auto. Non tutti ne posseggono una. Più o meno, quale sarà
la proporzione? Non importa, suddividi. Aspetta un attimo – una macchina rossa. Si sentiva
leggermente delirante. Solo ancora una frazione… Quella era veramente la divisione
cruciale. La ‘x’ stava volteggiando lentamente nell’aria e d’un tratto sparì. Il dolore era
meno atroce. Comodo… quasi… comodo…
Fu svegliato alle quattro di pomeriggio dall’inettitudine di Lewis, che non riusciva ad
aprire la porta d’ingresso senza fare un baccano tremendo. E quando Lewis, preoccupato,
sporse la testa dentro la camera da letto di Morse, lo trovò impegnato a scrivere con la furia
che doveva aver posseduto Coleridge quando, svegliandosi, si ritrovò l’intera Kubla Khan
in mente.
«Si sieda Lewis. Son contento di vederla». Continuò a scrivere freneticamente per un
paio di minuti. Finalmente alzò gli occhi. «Lewis, vorrei farle qualche domanda. Ci pensi
bene, non abbia fretta di rispondere e mi dia delle risposte intelligenti. Dovrà tirare a
indovinare, lo so, ma faccia del suo meglio».
Maledizione, pensò Lewis.
«Quanti sono gli abitanti di North Oxford?».
«Che cosa intende esattamente per North Oxford, signore?».
«Le domande le faccio io e lei risponde. Basta che pensi in generale a quello che lei
intende per North Oxford, diciamo da Summertown in su. Forza!».
«Posso recuperare il dato, signore».
«Tiri a indovinare, cavolo, non è capace?».
Lewis era a disagio. Per lo meno, però, notò che le lattine vuote erano solo tre. Decise
di buttarsi. «Diecimila» disse con la sicurezza e la convinzione totale di uno a cui abbiano
chiesto quanto fa due più due.
Morse prese un foglio pulito e vi scrisse «10.000». «E quale sarà la percentuale dei
maschi adulti in questa popolazione?».
Lewis si appoggiò allo schienale e guardò il soffitto con il sussiego di un consulente
statistico. «Circa un quarto».
Morse prese nota della risposta scrivendo «2.500» in bell’ordine sotto la prima cifra.
«Quanti tra loro hanno tra i 35 e i 50 anni?».
A North Oxford c’erano un mucchio di pensionati, pensò Lewis, e un mucchio di giovani
nei palazzoni popolari. «Circa la metà, non di più».
Anche la terza cifra fu annotata: 1.250. «Secondo lei, quanti di questi sono sposati?».
Lewis ci pensò su. La maggioranza, sicuramente. «Quattro su cinque, signore».
Morse trascrisse con gran precisione il risultato dei suoi ultimi calcoli: 1.000.
«Quanti tra loro escono regolarmente a bere qualcosa, sa cosa intendo – pub, club
privati, quel genere di locali?».
Lewis pensò alla via in cui abitava. Non erano poi molti a farlo, come qualcuno
sembrava pensare. Dei suoi due vicini di casa, nessuno, taccagni com’erano! Pensò alla via
nel suo insieme. Che domanda insidiosa. «Circa la metà».
Morse annotò la cifra e procedette al quesito successivo. «Si ricorda la lettera che
abbiamo visto, Lewis? Quella indirizzata a Jennifer Coleby di cui lei sosteneva di non
sapere nulla?». Lewis annuì. «Se eravamo nel giusto a pensare quel che pensavamo, o quel
che pensavo io, è lecito concluderne che abbiamo a che fare con un uomo di notevole
intelligenza?».
«È un ‘se’ grosso come una casa, vero?».
«Senta, Lewis, quella lettera è stata scritta dall’uomo che stiamo cercando. Se lo ficchi
in testa. È stato il suo grande errore. Ed è l’indizio migliore che abbiamo. È per questo che
ci pagano, perché seguiamo gli indizi, no?». Morse non sembrava molto convinto, ma Lewis
gli rispose che, certo, dovevano seguire gli indizi. «Quindi?».
«Quindi cosa, signore?».
«Si tratta di un uomo intelligente?».
«E anche parecchio, direi».
«A lei verrebbe in mente di scrivere una lettera così?».
«A me? No, signore».
«E lei è piuttosto in gamba, non è vero, sergente?».
Lewis raddrizzò le spalle, fece un respiro profondo e decise di non sminuire le proprie
capacità intellettuali. «Direi che sono nella fascia del 15 per cento, signore».
«Buon per lei, Lewis. E il nostro amico ignoto? Lei ricorderà che non solo non fa errori
di ortografia nemmeno con le parole più difficili, ma che sa anche come sbagliare».
«Direi che è nella fascia del 5 per cento».
Morse trascrisse il risultato.
«Considerando l’insieme degli uomini di mezza età, in percentuale quanti piacciono alle
donne?». Domanda stupida. Morse notò l’espressione ironica di Lewis. «Lei sa cosa
intendo. Alcuni uomini risultano veramente ripugnanti alle donne!». Lewis non sembrava
convinto. «Ha presente quegli zerbini di mezza età. Lo siamo un po’ tutti. Ma alcuni uomini
colpiscono maggiormente nel segno, non è vero?».
«Non ce n’è molte che s’invaghiscano di me, signore».
«Non è quello che le ho chiesto. Mi dia una risposta, per amor del cielo!».
Lewis si buttò un’altra volta. «La metà? No, più della metà. Tre su cinque».
«È quello che pensa? Sicuro?».
Logico che non ne era sicuro. «Certo».
«Un altro numero. Quanti uomini di quell’età possiedono un’auto?».
«Due su tre». Che cosa diavolo c’entrava?
Morse trascrisse la sua penultima cifra. «Ancora una domanda. Quanti di loro
posseggono una macchina rossa?».
Lewis si avvicinò alla finestra e guardò le auto che passavano. Ne contò due nere, una
beige, una blu scuro, due bianche, una verde, una gialla, una nera. «Uno su dieci, signore».
Morse aveva dato segni di crescente agitazione nel corso degli ultimi minuti. «Chi
l’avrebbe mai detto, Lewis, lei è un genio!».
Lewis lo ringraziò per il complimento e chiese in cosa consistesse la sua genialità.
«Direi, Lewis, che stiamo cercando un maschio, che abita a North Oxford, sposato,
probabilmente con figli; uno che esce a bere qualcosa con una certa regolarità, e a volte va a
Woodstock; ha una certa cultura, potrebbe persino lavorare in università. Ha tra i 35 e i 45
anni, per come me lo immagino, e ha un suo fascino – certamente penso sia un uomo per cui
alcune ragazze potrebbero perdere la testa. Infine, ha un’auto, un’auto rossa, per essere
precisi».
«Potrebbe essere chiunque, immagino».
«Be’, anche se procediamo un po’ alla cieca, scommetterei il mio ultimo dollaro che
rientra in quasi tutte le nostre categorie. E, sa, Lewis, non penso che siano in tanti a
rientrarvi. Guardi qui». Passò a Lewis il foglio su cui aveva annotato i numeri.
North Oxford
10.000
Maschi
2.500
35-50
1.250
Sposati
1.000
Bevitori
500
QI fascia 5%
25
Fascino
15
Auto
10
Auto rossa
1
Lewis sentì tutto il peso della responsabilità per l’impressionante risultato di quei
calcoli. Si fermò accanto alla finestra e, alla luce incerta del tardo pomeriggio, vide due
macchine rosse passare l’una dopo l’altra. Quanta gente abitava a North Oxford in realtà?
Lewis aveva per davvero un QI nella fascia del 15 per cento? Più probabilmente del 25 per
cento. «Signore, sono sicuro che possiamo verificare molti di questi dati». Sentiva il dovere
di dare voce ai propri dubbi. «In ogni caso non penso che basti sparare cifre in quel modo.
Bisogna…». Ricordava vagamente che per lavorare con i dati bisognava seguire le leggi
della statistica, le categorie dovevano essere ordinate e disposte in una sequenza logica,
anche se non riusciva a ricordare esattamente come. Ma in fondo si trattava solo di un gioco
complicato per allietare la mente di un uomo in preda alla febbre. Nel giro di un paio di
giorni Morse si sarebbe rimesso in piedi. La cosa migliore era aiutarlo e rallegrarlo come
meglio poteva. Tornò a guardare le cifre sul foglio e poi vide passare un’altra macchina
rossa. C’erano nove «se». Gettò un’occhiata torva fuori dalla finestra e meccanicamente
contò le nove auto successive. Solo una rossa! North Oxford era, ovviamente, la scommessa
più azzardata. Ma da qualche parte quel tizio doveva pur vivere, no? Forse il capo non era
poi così fuori squadra. Guardò di nuovo il foglio. L’altro grosso punto di domanda era la
lettera. Se era stato l’assassino a scriverla.
«Allora, cosa ne pensa, Lewis?».
«Forse vale la pena provarci».
«Di quanti uomini ha bisogno?».
«Prima bisogna pensarci un po’ sopra, non le pare?».
«Che cosa intende dire?».
«Le autorità locali potrebbero darci una grossa mano. Innanzitutto ci serve un elenco
aggiornato dei residenti».
«Sì. Lei ha ragione. Dobbiamo pensarci su bene prima di muoverci».
«È quel che intendevo, signore».
«Quindi?».
«Potremmo cominciare domattina, signore, se lei se la sente».
«Oppure potremmo partire immediatamente, se lei se la sente».
«Sì, credo di sì».
Lewis telefonò alla sua paziente metà e trascorse le due ore che seguirono a conferire
con Morse. Dopo che se ne fu andato, Morse si allungò per prendere il telefono dal
comodino ed ebbe la fortuna di trovare il sovrintendente capo ancora in ufficio. Mezz’ora
dopo stava ancora parlando, rimproverandosi aspramente per essersi dimenticato di far
addebitare la chiamata al destinatario.
Capitolo tredici
Sabato, 9 ottobre

Il mattino di sabato 9 ottobre Bernard Crowther era seduto alla scrivania del suo studio
a leggere Milton, ma non con il suo solito entusiastico godimento. Quel trimestre teneva un
corso sul Paradiso perduto e, nonostante avesse una conoscenza profonda e dettagliata
dell’opera, si sentiva in dovere di prepararsi ancora meglio. Margaret se n’era andata in
autobus a Summertown per fare la spesa ed erano d’accordo che Bernard sarebbe andato a
prenderla in auto a mezzogiorno. I ragazzi erano usciti. Dio solo sapeva dove fossero
andati…
Il campanello della porta d’ingresso lo colse di sorpresa, perché ricevevano poche
visite. Andò ad aprire.
«Oh Peter! Che bella sorpresa! Entra, entra». Da molto tempo Peter Newlove e Bernard
erano legati da una salda amicizia. Erano arrivati al Lonsdale College nello stesso anno e da
allora avevano formato un sodalizio affettuoso e genuino. «Qual buon vento ti porta da
queste parti? Non ci capita spesso di avere il piacere di vederti a North Oxford. Tra l’altro,
pensavo che il sabato mattina tu giocassi a golf».
«Oggi non ce l’ho proprio fatta. Sul campo fa un bel freddo, sai». La temperatura era
molto calata negli ultimi due giorni e l’autunno s’era fatto d’un tratto inoltrato. Era una
giornata tetra e umida. Peter si sedette. «Lavori il sabato mattina, Bernard?».
«Mi stavo solo preparando per la settimana che viene».
Peter diede un’occhiata al tavolo. «Ah, il Paradiso perduto, libro I. Me lo ricordo,
l’avevamo portato alla maturità».
«E l’hai letto di nuovo anche dopo, ovviamente».
«Dal nascente sole alla metà del dì, da questa infino alla rorida sera, un lungo estivo
giorno durò precipitando. Che te ne pare?».
«Sei bravissimo». Bernard guardò fuori dalla finestra e vide che la brina bianca non si
era ancora sciolta sulla stretta striscia di prato davanti a casa.
«Va tutto bene, Bernard?». L’uomo del Gloucestershire aveva parlato con una gentilezza
brutale.
«Certo che va tutto bene. Perché me lo chiedi?». A Peter era chiaro che le cose
andavano tutto fuorché bene.
«Mah, non saprei. È solo che sembravi un po’ nervoso mercoledì sera. Dopo la cena sei
scappato via come una lepre spaventata».
«Mi ero dimenticato che Margaret avrebbe fatto tardi e i ragazzi erano fuori ad
aspettare».
«Capisco».
«Ho dato così tanto nell’occhio?».
«No, assolutamente. È solo che io ti stavo osservando, tutto lì. Non mi eri sembrato al
cento per cento quando sei passato da me e avevo pensato che stessi poco bene». Bernard
non disse nulla. «Tutto bene tra te e, ehm, Margaret?».
«Oh, sì. Tutto bene. Tra l’altro devo andare a prenderla a mezzogiorno. Che ore sono
adesso?».
«Le undici e mezzo». Peter si alzò in piedi.
«No, aspetta. C’è tutto il tempo per bere qualcosa. Che cosa prendi?».
«Ma bevi anche tu?».
«Certo che sì. Whisky?».
«Perfetto».
Bernard andò in cucina a prendere i bicchieri e Peter si avvicinò alla finestra che si
affacciava sulla via stretta. Un’auto bianca e azzurra, con la luce lampeggiante (spenta) sul
tettuccio e sul fianco la scritta POLIZIA in grossi caratteri neri, era parcheggiata sull’altro
lato della strada, due o tre case più a sinistra. Quando Peter era arrivato non c’era. Un
agente di polizia con indosso il copricapo d’ordinanza, il berretto piatto con il nastro a
scacchi bianchi e neri, stava uscendo da un cancello. Lo accompagnava una donna di mezza
età e i due erano impegnati in una conversazione animata, con grandi gesti che indicavano a
turno tutte le direzioni. Continuarono così per un po’. La donna stava forse puntando verso
di lui? L’agente aveva in mano un blocco e stava chiaramente controllando una lista di nomi.
La donna, che indossava solo un grembiule, se lo teneva stretto intorno al corpo per
riscaldarsi e continuava con le sue interminabili chiacchiere.
Bernard tornò con i bicchieri che tintinnavano un poco sul vassoio. «Dimmi quando
basta».
«A quanto pare la tua via è un covo di criminali».
«Come dici?» fece Bernard alzando gli occhi di scatto.
«Le forze dell’ordine sono sempre così presenti da queste parti?». Peter non poté
proseguire. Il campanello suonò due volte, acuto, perentorio. Bernard aprì la porta e si
ritrovò di fronte il giovane agente.
«Posso esserle d’aiuto?».
«Sì, penso di sì, se non la disturbo troppo. Ci vorrà solo un minuto. È sua quella
macchina?». Indicò la 1100 rossa parcheggiata all’esterno.
«Sì».
«Si tratta solo di un controllo. Ci sono stati parecchi furti d’auto negli ultimi tempi. Solo
un controllo».
Si annotò qualcosa sul blocco. «Ricorda il numero di targa?».
Meccanicamente Bernard glielo recitò.
«Chiaro che è proprio sua, signore. Ha per caso a portata di mano il libretto di
circolazione?».
«È necessario?».
«Be’, è abbastanza importante, se non le dispiace, signore. Stiamo cercando di effettuare
questi controlli con la massima scrupolosità».
Peter ascoltava la conversazione attraverso la porta aperta dello studio e si sentì
stranamente allarmato. Bernard entrò e si mise a frugare a casaccio sulla scrivania. «Dove
diavolo l’avrà messo Margaret… È un controllo per delle auto rubate, Peter. Una cosa
veloce». Era pallido come un cencio e non riuscì a trovare nulla. «Mi scusi, agente» gridò
«per favore, può venire qui un momento?».
«Grazie, signore. Non si preoccupi se ora non riesce a trovare il libretto. Basta che mi
dia lei le informazioni di cui ho bisogno».
«Che cosa vuole sapere?».
«Nome completo?».
«Bernard Michael Crowther».
«Età?».
«Quarantun anni».
«Sposato?».
«Sì».
«Figli?».
«Due».
«Lavoro?».
«Insegno all’università».
«Questo è quanto signore». Chiuse il suo blocco. «Ah, solo un’ultima domanda: di
recente ha lasciato la sua auto aperta? Capisce quel che voglio dire, per esempio, adesso è
chiusa?».
«No, credo di no».
«Infatti non lo è. Ho provato tutte le portiere prima di suonare. È come invitare a nozze i
ladri di auto, signore».
«Sì, ha perfettamente ragione. Cercherò di ricordarmelo».
«Usa spesso la macchina, signore?».
«No, non molto. Per fare le commissioni a Oxford. Non molto spesso in realtà».
«E non usa la macchina, per esempio, per andare a bere qualcosa?».
Peter pensò che finalmente cominciava a capire. Bernard doveva avere guidato in stato
di ebbrezza.
«No, non molto spesso. Di solito faccio un salto al Fletcher’s. Non è lontano e ci vado
sempre a piedi».
«Ma userebbe l’auto per andare a bere qualcosa fuori Oxford?».
«Direi proprio di sì» disse Bernard lentamente in tono quasi sconsolato.
«Be’, non esageri con l’alcol, signore, se dopo deve guidare. Ma sono sicuro che lo sa
già». L’agente diede una rapida occhiata alla stanza e fissò severo i due grossi bicchieri di
whisky, ma non aggiunse altro finché non arrivò alla porta. «Per caso conosce qualcun altro
in questa via che possegga un’auto rossa? Devo fare qualche altra verifica».
Bernard ci pensò, ma si sentiva confuso. Non gli veniva in mente nessuno. Chiuse gli
occhi e si portò una mano alla fronte. Tutti i giorni durante il trimestre andava a piedi fino in
fondo alla strada. Auto rosse? Auto rosse? La sua era l’unica, ne era abbastanza sicuro.
«Be’, non si preoccupi, signore, farò solo ancora un paio di… ehm… In ogni modo, la
ringrazio per la collaborazione». E se ne andò. Ma, notò Peter, non a fare qualche altra
verifica in quella via in particolare. Andò dritto verso l’auto (che aveva lasciato aperta) e
immediatamente ripartì di gran carriera.
Dieci minuti più tardi, mentre si dirigeva a Woodstock al volante della sua auto, Peter
Newlove si rallegrava di non essersi mai sposato. La stessa donna per trenta, quaranta,
cinquant’anni! Non faceva per lui. Difficile immaginarsi il vecchio Bernard saltare nel letto
quel pomeriggio per un vivace exploit con Margaret. Mentre lui… Pensò a Gaye che si
toglieva i vestiti e pigiò più forte sull’acceleratore.
L’agente McPherson, tremendamente eccitato, attraversò a passo svelto il cortile
anteriore della centrale della Thames Valley Police dove qualche ora prima, quella stessa
mattina, aveva visto il povero Morse camminare faticosamente, con le braccia intorno alle
spalle di due robusti colleghi. Wow! McPherson si sentiva come se avesse fatto tredici al
totocalcio. Mentre percorreva i pochi chilometri che separano North Oxford da Kidlington,
lo aveva invaso un senso di euforia mai provato prima. Gli ultimi quattro anni della sua vita
in uniforme erano stati uniformemente privi di eventi di rilievo; non aveva arrestato alcun
noto criminale né aveva assistito a memorabili violazioni del codice civile o penale. Ma
quel giorno era stato proprio fortunato! Avvicinandosi alla Banbury Road aveva acceso la
sirena e la luce blu lampeggiante, e si era goduto la deferenza con cui gli automobilisti
l’avevano lasciato passare. Si era sentito estremamente importante. Era un uomo
estremamente importante – almeno quel giorno.
Una volta entrato in centrale, McPherson per un attimo fu assalito dal dubbio. Doveva
far rapporto a Lewis? O doveva riferire le sue scoperte direttamente all’ispettore? Dopo
averci meditato, quest’ultima opzione gli parve la più appropriata, e si avviò lungo il
corridoio che portava all’ufficio di Morse. Bussò e sentì a malapena l’attutito «Avanti»
dall’altro lato della porta.
«Che cosa posso fare per lei, agente?».
McPherson ragguagliò l’ispettore con un’accuratezza e un’incisività notevoli, e Morse si
congratulò per lo svolgimento rapido ed efficiente dell’incarico. McPherson, anche se era
enormemente compiaciuto per il complimento, si stupì un po’ che Morse non sembrasse
ansioso di mettere in azione all’istante le schiere dei difensori della legge. Ma lui il suo
lavoro l’aveva fatto – e l’aveva fatto bene.
«Mi scusi se non mi alzo – la gotta, sa – ma…» Morse strinse con calore la mano a
McPherson «… la cosa non passerà inosservata, mi creda».
Dopo che McPherson se ne fu andato, Morse rimase in meditabondo silenzio per
qualche minuto, nella stessa posa in cui sedeva prima che arrivasse l’agente. Sarebbe stata
una tale delusione per McPherson se l’avesse saputo; ma a ogni modo la causa scatenante
era stato lui. No, non avrebbe mai avuto il cuore di rivelargli che il signor Bernard
Crowther aveva telefonato alle 11,45 annunciando che desiderava fare una deposizione,
parole sue.
Crowther aveva precisato che intendeva raggiungere la centrale con i propri mezzi e che
la polizia non doveva assolutamente andare a prenderlo: in qualità di testimone che si
faceva avanti volontariamente con informazioni che avrebbero potuto essere di rilievo si
aspettava come minimo che le autorità avessero l’accortezza di non andarlo a prelevare a
casa come un volgare criminale. Morse si era detto d’accordo e Bernard aveva promesso di
raggiungerlo alle 14,30.
Morse si ritrovò a scusarsi perché non poteva alzarsi e la sua prima impressione di
Crowther fu inaspettatamente piacevole. Quell’uomo era nervoso, questo era visibile a
occhio nudo, ma aveva un suo strano fascino e una sua dignità; avrebbe potuto essere uno di
quei presidi di mezza età per i quali alcune allieve si prendono una cotta.
«Senta, ispettore – lei è un ispettore capo, penso – in vita mia è la prima volta che metto
piede in una centrale di polizia. Non ho familiarità con le vostre normali pratiche e
procedure. Quindi ho preso la precauzione di buttar giù, frettolosamente temo, la
deposizione che desideravo fare».
Capitolo quattordici
Sabato, 9 ottobre

La sera di mercoledì 29 settembre lasciai casa mia, in Southdown Road, alle 18,45.
Raggiunsi lo svincolo all’estremità settentrionale della Banbury Road, dove girai a sinistra
e proseguii per circa quattrocento metri lungo la Southerland Avenue fino alla rotonda
all’estremità della Woodstock Road. Lì, lasciai la A40 e imboccai la strada che va a nord,
diretto a Woodstock. Stava già calando la notte e accesi le luci di posizione, come – ci feci
caso – la maggioranza degli altri automobilisti. Anche se c’era quella sgradevole mezza
luce con cui è più difficile guidare, non era tuttavia abbastanza buio da accendere gli
anabbaglianti, e di certo non abbastanza buio da impedirmi di notare le due ragazze che se
ne stavano un poco oltre lo svincolo, sul bordo erboso accanto alla stazione di servizio self
service. Quella più vicina alla strada la vidi bene. Era una bella ragazza dai lunghi capelli
biondi, indossava una camicia bianca e una gonna corta. L’altra ragazza era qualche metro
più in là e mi dava le spalle; sembrava decisa a lasciare alla sua compagna la fatica di
trovare un passaggio. Comunque aveva capelli sullo scuro, credo, e se ricordo bene, era di
qualche centimetro più alta della sua amica.
Voglio cercare di essere completamente sincero. Ho spesso la debolezza di
abbandonarmi a romantici sogni a occhi aperti, venati anche di erotismo, in cui immagino di
dare un passaggio a una donna estremamente attraente che poi scopro essere una conturbante
combinazione di bellezza e intelligenza. Nelle mie sciocche fantasie le prudenti schermaglie
preliminari gradualmente, ma inevitabilmente, conducono al piacere più sfrenato. Ma,
attenzione, si è sempre trattato solo di sogni e li menziono onde sia chiaro perché arrivai
alla decisione di fermarmi. Non dovrei sentirmi colpevole o contrito per una cosa del
genere, eppure, in tutta sincerità, è proprio così che mi sento e mi sono sempre sentito.
Ma questo è solo un inciso. Mi sporsi e aprii la portiera opposta alla mia, dissi che ero
diretto a Woodstock, se poteva servire. La ragazza bionda disse qualcosa come «Ah,
grandioso». Si girò verso la sua amica, disse (mi pare): «Cosa t’avevo detto?» e si sedette
davanti, accanto a me. L’altra ragazza aprì la portiera posteriore e salì anche lei. Quel poco
di conversazione che ci fu, fu stentata e deludente. La ragazza seduta accanto a me
continuava a ripetere, parlando con il tipico accento di qui, che avevano avuto «una bella
botta di fortuna» a trovare un passaggio perché avevano perso l’autobus; credo che la
ragazza seduta dietro abbia aperto bocca solo una volta, per chiedere che ore fossero.
Mentre passavamo accanto ai cancelli del Blenheim Palace dissi che ero quasi arrivato e
capii che a loro andava bene. Le feci scendere non appena giungemmo nella via principale
della cittadina, ma non badai a dove andarono. Mi venne spontaneo pensare che avessero un
appuntamento con i loro ragazzi.
C’è poco altro da aggiungere. Quanto ho scritto sopra è un resoconto veritiero degli
eventi che, come ora so, quella stessa sera portarono all’assassinio di una delle ragazze cui
avevo dato un passaggio.
Ho appena riletto ciò che ho scritto e sono consapevole del fatto che forse non contiene
molte informazioni utili alla vostra indagine. Mi rendo anche conto che la mia deposizione
solleverà due domande: innanzitutto vi chiederete perché io stessi andando a Woodstock la
sera del 29 settembre. In secondo luogo vorrete sapere perché non mi sia fatto avanti prima.
In realtà si tratta di un’unica domanda e, dandovi la risposta, mi toglierò un grave peso dalle
spalle. Tuttavia ho la più viva speranza che quanto sto per dire verrà trattato con la massima
riservatezza, poiché se la cosa diventasse di pubblico dominio altre persone, per parte loro
del tutto innocenti, soffrirebbero pene indicibili.
Da circa sei mesi, giorno più giorno meno, ho una relazione con un’altra donna.
Riuscivamo a incontrarci regolarmente una volta la settimana, quasi sempre il mercoledì
sera, quando mia moglie e i ragazzi escono ed è improbabile che mi vengano rivolte
domande imbarazzanti. Il mercoledì in questione avevamo appuntamento alle 19,15, presso
l’ingresso laterale del Blenheim Palace. Lasciai l’auto fuori dal Bear Hotel e raggiunsi a
piedi il luogo convenuto. Passeggiammo nel parco, accanto al lago e tra gli alberi – è un
luogo assolutamente splendido. Naturalmente per noi la situazione non era priva di rischi,
poiché sono in tanti a fare una gita fuori città per andare a cenare a Woodstock, ma eravamo
sempre molto attenti, e l’elemento del rischio era forse parte del piacere.
Non ho altro da aggiungere. Lessi il resoconto dell’omicidio e poi vidi il capo ispettore
Morse che lanciava il suo appello in televisione. Vorrei che sapesse che il giorno stesso fui
proprio sul punto di telefonare. Quella sera aspettai per parecchi minuti che si liberasse una
cabina telefonica sulla Southdown Road, con il fermo proponimento di mettermi
immediatamente in contatto con la polizia. Ma sto cercando scuse quando di fatto non ne ho.
Sono perfettamente consapevole che nemmeno in questa tarda fase dell’inchiesta mi sono
presentato di mia iniziativa. Quando un agente di polizia è venuto a casa mia questa mattina,
mi sono reso conto che il cerchio si stava stringendo e ho pensato che fosse meglio venire a
fare subito la mia deposizione. Ho ripetuto a mia moglie la storia dei furti d’auto che
l’agente mi aveva rifilato e le ho detto che sarei venuto qui. Farei qualunque cosa al mondo
per evitare di ferirla (non è tuttavia improbabile, lo so bene, che io l’abbia già ferita) e le
sarei estremamente grato se tutte le parti della mia dichiarazione che non sono strettamente
rilevanti ai fini dell’inchiesta che lei sta conducendo potessero restare segrete.
Confido che, da quanto ho detto sopra, risulti chiaro che sono sinceramente dispiaciuto
per i disagi e il lavoro extra che ho procurato. In caso contrario, mi affretto a porgere ora le
mie più sincere scuse per il mio comportamento egoista e vigliacco.
Distinti saluti,
BERNARD MICHAEL CROWTHER

Morse lesse lentamente la deposizione. Quando ebbe finito alzò gli occhi, poi tornò ad
abbassarli sul foglio e lo rilesse da capo con concentrazione ancora più intensa. Alla fine si
lasciò andare sulla poltrona di pelle nera, sollevò con cautela il piede destro infortunato, lo
appoggiò sul ginocchio sinistro e lo massaggiò amorevolmente.
«Sa, signor Crowther, mi sono fatto male a un piede».
«Davvero? Mi dispiace molto. I miei amici medici dicono che i piedi e le mani sono i
punti peggiori con cui andare a sbattere, per via della quantità di terminazioni nervose».
Aveva voce e modi piacevoli. Morse lo guardò dritto negli occhi. Per parecchi secondi
nessuno dei due mosse un muscolo e Morse pensò di riconoscere in quell’uomo un’onestà di
fondo. Ma non poteva nascondersi di provare un logorante senso di delusione; come
l’agente McPherson, anche lui aveva creduto di aver vinto una fortuna al totocalcio, solo per
scoprire che si trattava invece di una cifra piuttosto modesta. «Sì». Morse riprese la
conversazione. «Non potrò andare a fare una passeggiata al Blenheim Park questa sera».
«Nemmeno io».
«Molto romantico, mi immagino, avere una relazione clandestina».
«Lei lo fa sembrare molto volgare».
«E non lo è?».
«Forse».
«La vede ancora?».
«No. Direi che i miei giorni da dongiovanni sono terminati».
«L’ha più rivista da quella sera?».
«No, è finita. È sembrata la cosa migliore».
«La donna sa che lei ha dato il passaggio alle due ragazze?».
«Sì».
«È arrabbiata? Che sia tutto finito intendo».
«Penso di sì, un poco».
«E lei?».
«Per dire la verità, provo un grande sollievo. Non valgo molto come Casanova e odio
mentire».
«Naturalmente si rende conto che ci sarebbe di grande aiuto se questa giovane donna…
è giovane vero?».
Per la prima volta Bernard esitò. «Molto giovane».
«Se questa giovane donna» continuò Morse «si presentasse per confermare la sua
deposizione».
«Sì, so che sarebbe d’aiuto».
«Ma non vuole che lo faccia».
«Preferisco che lei non creda alla mia storia, piuttosto che trascinare la ragazza in tutto
questo».
«Non intende dirmi chi è? Posso prometterle che mi occuperei personalmente della
questione».
Bernard scosse la testa. «Mi dispiace, non posso».
«Non pensa che potrei cercare di scoprirlo da solo?».
«Non posso impedirglielo».
«No, non può». Con la massima cautela Morse spostò il piede riportandolo sul cuscino
strategicamente posizionato sotto la scrivania. «Signor Crowther, lei potrebbe occultare
indizi essenziali». Bernard non disse nulla. «Questa persona, è sposata?».
«Non intendo parlare di lei» disse Crowther a voce bassa e Morse percepì in lui una
forza di volontà invincibile.
«Non pensa che io sia capace di scoprire chi è?». Sentì una fitta di dolore al piede e lo
sollevò di nuovo. Al diavolo, pensò, se a quel bocconcino piace farsi carezzare i seni sotto
gli alberi, a me cosa importa? Bernard non rispondeva e Morse cambiò approccio. «Lei si
rende conto, ne sono certo, che l’altra ragazza, quella che stava sul sedile posteriore,
potrebbe darci una bella mano». Crowther annuì. «Secondo lei, come mai non si è fatta
sentire?».
«Non lo so».
«Non riesce a pensare a nessun motivo?».
Gliene venivano in mente eccome, era evidente. Ma non voleva trasformare i suoi
pensieri in parole.
«Sì che ci riesce, vero, signor Crowther? Perché potrebbe essere esattamente lo stesso
motivo che spiega la sua riluttanza a farsi avanti». Bernard annuì ancora una volta. «Chissà,
potrebbe dirci chi era il ragazzo di Sylvia Kaye, dove dovevano incontrarsi, che cosa
avevano in programma di fare – potrebbe saperci dire un sacco di cose, non pensa?».
«Non ho avuto l’impressione che si conoscessero bene, quelle due».
«Perché dice così?» chiese Morse bruscamente.
«Be’, non chiacchieravano molto tra loro. Sa, cose da ragazze, musica pop, la discoteca,
i fidanzati – semplicemente non parlavano molto, tutto qui».
«Non ha sentito il suo nome?».
«No».
«Ha provato a ricordare se Sylvia l’ha mai chiamata per nome?».
«Ho cercato di dirle tutto quello che riesco a ricordare. Di più non posso fare».
«Betty, Carole, Diane, Evelyn… no?». Bernard rimase impassibile. «Gaye, Heather,
Iris, Jennifer…». Morse non riuscì a notare nessuna reazione, neppure un battito di ciglia, da
parte di Bernard. «Aveva delle belle gambe?».
«Non belle come quelle dell’altra, direi di no».
«Quelle le ha notate».
«Secondo lei? Era seduta accanto a me».
«Qualche fantasia erotica?».
«Sì» rispose Crowther, in un violento impeto di sincerità.
«Non c’è niente di male, non è un crimine» disse Morse con un sospiro «altrimenti
staremmo tutti in galera». Scorse un lieve sorriso formarsi per un attimo sul viso
preoccupato di Crowther. Capisco che possa piacere alle donne, pensò Morse. «A che ora
arrivò a casa quella sera?».
«Più o meno alle nove meno un quarto».
«Era un orario normale, dico per, ehm, sua moglie e così via?».
«Sì».
«Un’ora alla settimana, giusto?».
«Non molto di più».
«Ne valeva la pena?».
«Al momento sembrava di sì».
«Non ha fatto un salto al Black Prince quella sera?».
«Non ho mai messo piede al Black Prince». Lo disse in tono molto deciso. Morse
abbassò di nuovo gli occhi sulla deposizione e notò che era scritta con una bella grafia. Era
quasi un peccato batterla a macchina. Continuò a interrogare Crowther per un’altra mezz’ora
e si arrese subito dopo le quattro.
«Temo che dovremo trattenere la sua auto per qualche controllo».
«Dovete proprio?» Crowther sembrava deluso.
«Sì, c’è la possibilità che troviamo qualcosa, capisce – dei capelli, quel genere di cose.
Sanno fare cose incredibili oggi giorno, i ragazzi della scientifica». Si alzò dalla poltrona e
chiese a Crowther di passargli le stampelle. «Le faccio una promessa» disse Morse.
«Terremo sua moglie fuori da questa storia. Sono certo che lei saprà inventarsi qualcosa da
dirle. In fin dei conti è abituato a questo genere di cose, no?».
Morse zoppicò dietro a Crowther e ordinò al sergente al banco d’ingresso di trovare
qualcuno per portarlo a casa. «Mi consegni le chiavi dell’auto, per favore» disse Morse.
«Le faremo riavere la macchina all’inizio della settimana prossima». I due si strinsero la
mano e dopo pochi minuti Crowther fu accompagnato verso una macchina della polizia.
Morse lo guardò andare via con sentimenti contrastanti. Sentiva di aver condotto
l’interrogatorio in modo soddisfacente. Adesso aveva bisogno di pensare, non di parlare.
Strano, però, quel commento sulle gambe dell’altra ragazza: la signora Jarman aveva detto
che indossava i pantaloni…
Chiese assistenza a un sergente e si fece aiutare a raggiungere la vettura di Crowther. Le
portiere erano aperte. Faticosamente s’infilò nel posto davanti più vicino a lui e si sedette,
appoggiandosi al sedile e allungando più che poteva le gambe. Chiuse gli occhi e si
immaginò le gambe di Sylvia Kaye, lunghe, abbronzate, ben formate, su fino alla sua gonna
corta. Pensò che forse anche lei si era allungata sul sedile. «Hot pants!» disse quasi tra sé e
sé.
«Prego, signore?» chiese il sergente che l’aveva aiutato a salire in macchina.
Per una strana coincidenza (ma esistevano veramente le coincidenze?) allo Studio 2 di
Walton Street davano un doppio sexispettacolo i cui titoli erano stati scelti apposta per
solleticare anche l’appetito più fiacco. Il primo, dalle 14,00 alle 15,05, era Sandwich
svedese (e, a giudicare dall’abbondanza di carni femminili che debordavano dai cartelloni
all’esterno, non doveva trattarsi di una specialità gastronomica), e dalle 15,20 alle 17,00
c’era la principale attrazione della settimana: Hot Pants.
Alle 17,00 gli aficionados del primo turno stavano uscendo mentre nel foyer un altro
gruppetto aspettava di poter entrare. Uno di loro di norma avrebbe fatto parte del primo
scaglione, perché quello era per lui un appuntamento settimanale. Ma il signor Chalkley e i
suoi figli avevano avuto bisogno di lui per un paio d’ore di straordinari nel laboratorio
della formica. Non ce l’avrebbe fatta, quella settimana, a godersi l’intero programma due
volte; tanto i film di rado soddisfacevano le sue esagerate aspettative, o le promesse sempre
nuove dei trailer. In quelle occasioni non si guardava mai in giro e fu una fortuna che, in
quel tardo pomeriggio di sabato 9 ottobre, come al solito evitasse lo sguardo dei suoi
colleghi voyeur. Infatti, a non più di un metro e mezzo da lui, apparentemente impegnato a
controllare gli orari del film successivo, ma in realtà attento a passare il più possibile
inosservato, c’era il sergente agli ordini del capo ispettore investigativo Morse per
l’inchiesta sull’assassinio di Sylvia Kaye. Lewis pensava che fosse uno degli incarichi più
piacevoli tra quelli che Morse gli aveva affidato e sospettava che, non fosse stato per
l’infortunio, il capo se ne sarebbe occupato di persona.
Capitolo quindici
Lunedì, 11 ottobre

Il fine settimana era scivolato via e le foglie avevano continuato a cadere. Morse si
sentiva più allegro: ora poteva caricare molto di più il piede e il lunedì mattina, avendo
deciso che poteva abbandonare le grucce per un bastone, si fece portare da McPherson
all’ambulatorio del pronto soccorso del Radcliffe Infirmary.
Lungo la strada fece molte domande all’agente. Che impressione si era fatto di
Crowther? Qual era stata la sua prima reazione? Secondo lui che tipo era in famiglia? Che
cosa stava facendo quando era arrivato lui? Morse trovò che il giovane agente non era privo
d’intelligenza e aveva una buona capacità d’osservazione, e glielo disse. Inoltre le
informazioni che ricevette lo interessarono e stuzzicarono la sua curiosità.
«Che cosa stava leggendo – è riuscito a sbirciarlo?».
«Nossignore. Ma credo fossero libri di letteratura. Poesia, ha presente?». Morse non
replicò.
«Aveva una scrivania, mi diceva».
«Sissignore. Tutta coperta di carte, ha presente?».
Morse decise di non tenere il conto degli «ha presente» pronunciati fino a quel momento
né di quelli che sicuramente sarebbero seguiti. «C’era anche una macchina per scrivere?»
chiese in tono casuale.
«Sì. Uno di quegli aggeggi portatili, ha presente?».
Morse non disse altro. Con un cenno i custodi li fecero entrare negli stretti cortili
dell’ospedale, che sembravano fatti apposta per evitare che troppi cittadini infortunati
ottenessero accesso immediato alle cure. La macchina della polizia fu parcheggiata in un
largo tratto di cemento su cui era scritto «Riservato alle autoambulanze» senza che portieri,
infermieri o vigili sollevassero obiezioni. Il destino del poliziotto, almeno nel campo del
parcheggio, non era sempre tra i più crudeli. Morse si era immaginato che scambiare le
stampelle con il bastone non sarebbe stata una transazione problematica, ma le cose
andarono diversamente. Pareva che nel mondo dei fratelli infortunati vigesse un rigoroso
regime egualitario e a Morse non restò che prendere diligentemente il suo posto e aspettare
diligentemente il suo turno mentre venivano diligentemente sbrigate tutte le formalità del
caso. Tornò a sedersi sulla stessa panca della volta prima, e nuovamente sfogliò lo stesso
numero del Punch, e provò esattamente la stessa impazienza; sentì parlare lo stesso medico
cinese, il cui sangue freddo sembrava messo a dura prova dall’incapacità di star fermo
dimostrata da un suo giovane paziente. «Se ragazzino vuole guarire, ragazzino sta fermo».
Morse fissava tristemente il pavimento e si ritrovò a spiare le gambe delle infermiere di
passaggio. Niente che rimescolasse il sangue, a dire il vero. Tranne un paio – splendide!
Morse avrebbe voluto vedere anche il resto della magnifica fanciulla, ma lei lo aveva
superato camminando svelta. Grasse, così così, magre, così così – e poi di nuovo quello
splendido paio di gambe che questa volta, come per miracolo, si fermò proprio davanti a
lui.
«Spero che la stiano curando come si deve, ispettore Morse».
L’ispettore era visibilmente stupefatto. Alzò lo sguardo lentamente e fissò a lungo il
volto malinconico e civettuolo della cara Occhiscuri, coinquilina della gelida Jennifer
Coleby. «Si ricorda di me?» chiese Morse, dimostrando scarsa capacità logica – perlomeno
a parere della giovane che lo guardava dall’alto.
«Perché, lei non si ricorda di me?» gli chiese.
«Come potrei mai dimenticarmi di lei?» disse l’ispettore che finalmente era riuscito a
ingranare. Quanto era carina! «Lavora qui?».
«Con rispetto parlando, ispettore, sono certa che nel corso degli anni le sarà capitato di
fare domande più intelligenti». L’uniforme le donava, e Morse aveva sempre pensato che
l’uniforme da infermiera valorizzasse il corpo di una ragazza più di qualsiasi raffinato abito
di alta moda.
«No, non era una domanda furba» ammise. Lei fece un sorriso delizioso.
«Si accomodi» disse Morse. «Mi piacerebbe fare quattro chiacchiere con lei. Non
abbiamo parlato granché l’altra volta, no?».
«Mi dispiace ispettore, ma non posso. Sono in servizio».
«Ah». Che delusione.
«Bene…».
«Si fermi solo un minuto» disse Morse. «Senta, mi farebbe davvero piacere rivederla
prima o poi. Possiamo incontrarci quando finisce il turno?».
«Finisco di lavorare alle sei».
«Be’, potremmo vederci…».
«Alle sei vado a casa, mangio qualcosa e poi alle sette…».
«Ha un appuntamento».
«Diciamo che sono impegnata».
«Uomo fortunato» borbottò Morse. «Domani?».
«Domani no».
«Mercoledì?». Morse si chiese tristemente se il vaglio dei rimanenti giorni della
settimana non fosse altro che una formalità vuota, ma la ragazza lo sorprese.
«Potremmo vederci mercoledì sera, se le va».
«Davvero?». Morse sembrava uno scolaretto entusiasta. Si misero d’accordo
d’incontrarsi al Bird and Baby a St Giles alle 19,30. Morse cercò di sembrare più
disinvolto. «Naturalmente la accompagnerò a casa, ma forse è meglio che non venga a
prenderla. Per lei è un problema prendere l’autobus?».
«Non sono una bambina, ispettore».
«Bene. Allora ci vediamo mercoledì». La ragazza si girò e s’incamminò. «Ah, un
momento solo» disse Morse. Lei tornò indietro. «Non so ancora il suo nome, signorina…».
«Signorina Widdowson. Ma può chiamarmi Sue».
«È una cosa riservata agli amici speciali?».
«No. Tutti mi chiamano Sue».
Nella prima settimana da che era cominciata l’inchiesta, Morse si era sentito fiducioso
nelle proprie capacità, come uno studente che, alle prese con un insidioso problema di
matematica, in segreto si tenga accanto il libro con le risposte. Fin dall’inizio del caso
aveva pensato di aver capito il quadro generale – certo avrebbe dovuto incastrare al posto
giusto gli indizi che sarebbero emersi via via, ma conosceva il disegno del puzzle. Per
quella ragione, ora se ne rendeva conto, non aveva considerato gli indizi in quanto tali, ma
solo in relazione ai propri pregiudizi e alla propria ricostruzione degli eventi. E non
essendo riuscito a trovare una soluzione al problema che avesse una sia pur vaga attinenza
con quella suggerita nel libro delle risposte, stava cominciando a chiedersi seriamente se, a
ben vedere, nel libro non ci fosse un errore. Ogni tanto, alla vigilia di una corsa importante,
scorreva la lista dei cavalli e dei fantini, chiudeva gli occhi e cercava di visualizzare i titoli
sulla pagina sportiva del giornale del giorno dopo. Neanche quel sistema gli aveva mai
procurato molti successi. Eppure pensava di essere sulla pista giusta. Era un uomo
perseverante, almeno era così che si vedeva, anche se era ben consapevole della possibilità
che Lewis (in quel momento seduto davanti a lui) interpretasse la sua tenacia come
ostinazione, e i suoi superiori come cocciutaggine pura e semplice.
In realtà Lewis non stava affatto pensando alla testardaggine del suo capo. Stava
rimuginando con irritazione l’ordine che aveva appena ricevuto.
«Ma pensa che sia corretto procedere in questo modo, signore?».
«Ne dubito» disse Morse.
«E di certo non è legale».
«Probabilmente no».
«Ma lei vuole che io lo faccia». Morse ignorò la non domanda. «Quando?».
«Prima dovrà assicurarsi che lui sia uscito».
«Come pensa che io…».
Morse lo interruppe. «Maledizione, Lewis, non è mica un bamboccio. Usi il cervello!».
Arrabbiato, Lewis se ne andò verso la sala ristorazione a prendersi un caffè.
«Qualche problema, sergente?». L’agente Dickinson come al solito mangiava.
«Quel maledetto Morse, ecco qual è il problema» borbottò Lewis sbattendo sul tavolo
la sua tazza di caffè con tale vigore che metà del liquido schizzò nel piattino.
«Vedo che le piace il caffè shakerato, sergente» disse Dickinson molto divertito.
Arrivò anche McPherson e si ordinò un caffè. «Allora, avete trovato il colpevole,
sergente?».
«No, non abbiamo trovato un bel niente!» sbottò Lewis e se ne andò senza aver neanche
toccato quello schifo di caffè grigiastro.
«Che diavolo gli è preso?» chiese McPherson. «Dio, non sa quanto è fortunato. Uomo in
gamba, quell’ispettore Morse. Te lo dico io, se non lo risolve lui l’assassinio di
Woodstock, non ci riuscirà nessuno».
Era un bel complimento e Morse ne avrebbe avuto bisogno. Dopo che Lewis se ne fu
andato, restò a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si
toccavano e gli occhi chiusi, come se pregasse una benevola divinità di gettare una luce sul
suo sentiero oscuro. Ma, sia pure senza volerlo, Morse aveva da tempo fatto la tara all’idea
che esistesse un qualsivoglia agente sovrannaturale. Stava solo pescando con pazienza nelle
acque torbide della propria mente. Catturò qualcosa verso le 16,30 e zoppicando andò a
prendere il fascicolo sull’assassinio di Woodstock. Sì, erano entrambe là. Le tirò fuori e le
rilesse ancora, per quella che gli parve la centesima volta. Aveva ragione. Doveva essere
così. Ma ancora dubitava.
La prima cosa (ed era un pesciolino, non uno squalo) che aveva ipnotizzato la sua
attenzione era che sia nella lettera del (quasi certamente) falso datore di lavoro sia nella
deposizione di Crowther lo scrivente aveva utilizzato «onde» con il congiuntivo. Morse, che
non era ferrato quanto avrebbe dovuto con le sottigliezze della grammatica, il più delle
volte, anzi quasi sempre, adesso che ci pensava, usava onde con l’infinito. Risentì la
propria voce dettare: «Caro signore, le scrivo onde evitare ulteriori malintesi…». Vuoi che
invece avrebbe dovuto dire «onde si evitino»? Prese un dizionario grammaticale. Eccolo lì.
«Molte sono le maniere per fare imbestialire il purista, ma la più sicura è di scoccargli un
onde coll’infinito. La ragione è nella natura dell’onde, che dice il modo, la materia,
l’occasione, la causa, e non il fine; che guarda indietro o intorno e non mai davanti».
Be’, pensò Morse, non si finisce mai d’imparare. Ma c’era chi lo sapeva già benissimo.
E ci mancherebbe: era o non era un professore all’università? Ma che dire del signor E.
Tiziocaio che aveva a che fare con il Dipartimento di Psicologia degli errori ortografici?
(Maledizione – bisognava controllare anche quello). Anche lui, però, era uomo
d’accademia, no? gli disse una vocina dentro la testa. Un pesciolino davvero piccolo! Però
interessante.
Lesse il documento ancora una volta. Aspetta un momento. Fermi tutti. Sì. Quello non
era un pesciolino. Proprio no! «Non è tuttavia improbabile…». La frase compariva in
entrambi i documenti. Una frase manierata, con il «tuttavia» tra verbo e aggettivo. Non era
tra le strutture sintattiche più colloquiali. E che dire del «non improbabile». Era una figura
retorica che Morse aveva imparato a scuola. «San Paolo era cittadino di una non piccola
città» consultò di nuovo il dizionario. Eccola lì. Una litote. Espressioni parallele gli
passavano per la mente. «Tuttavia è probabile…», «ma è probabile/verosimile…», «ma
forse…», «forse…», «ma io penso…». Strano. Molto strano. Una frase molto manierata.
E c’era un’altra coincidenza. Anche la frase «in tutta sincerità» compariva in entrambi
gli scritti. Lui cos’avrebbe scritto? «Francamente», «sinceramente», «a esser sincero», «a
dire la verità»? Ora che ci pensava, non voleva dire molto, erano solo tre paroline di
circostanza. La lettera era veramente molto strana. Magari la sua valutazione iniziale era
stata troppo sofisticata, troppo artificiosa. Ma la gente faceva quel genere di cose. Mogli e
mariti lo facevano in tempo di guerra, comunicandosi una gran quantità di informazioni
senza che i censori se ne accorgessero. Nella frase: «Mi è spiaciuto sapere che il piccolo
Archie ha avuto la laringite. Scriverò presto» poteva nascondersi il segreto militare che il
soldato semplice Smith stava per essere spostato da Aldershot al Cairo il sabato
successivo. Troppo fantasioso? No! Morse era certo di avere ragione.
Le ombre della sera erano calate sulla scrivania quando Morse mise via il fascicolo
sull’omicidio di Woodstock e chiuse a chiave l’archivio. La soluzione piano piano si stava
avvicinando e somigliava molto a quella scritta nel libro delle risposte.
Capitolo sedici
Martedì, 12 ottobre

Martedì mattina alle 11,00, mezz’ora dopo che Crowther aveva preso l’autobus per il
centro, un camioncino da lavoro con la scritta «Macchine per scrivere Kimmons» si diresse
verso la residenza dei Crowther nella Southdown Road. Ne scese un uomo con indosso una
giacca grigia leggera con «Kimmons» ricamato sul taschino. L’uomo entrò nel cancello
bianco, superò il prato spelacchiato e bussò. Margaret Crowther si asciugò le mani sul
grembiule e aprì la porta.
«Sì?».
«Per favore, mi può dire se è qui che abita il signor Crowther?».
«Sì».
«È in casa?».
«No, in questo momento non c’è».
«Ah. E lei è la signora Crowther?».
«Sì».
«Suo marito ci ha chiamati per dare un’occhiata alla macchina per scrivere. Dice che il
carrello s’incastra».
«Ah, va bene. Prego, si accomodi».
L’uomo delle macchine per scrivere estrasse dalla tasca, con gesto un po’ teatrale, una
scatoletta che veniva da pensare contenesse gli indispensabili ferri del mestiere, avanzò con
ostentata insicurezza nell’angusto ingresso e fu condotto nella stanza che si apriva sulla
destra, dove Bernard Crowther trascorreva gran parte del suo tempo meditando sulle glorie
della tradizione letteraria inglese. Notò subito la macchina per scrivere.
«Ha bisogno di me?». La signora Crowther sembrava non veder l’ora di tornare alle sue
mansioni culinarie.
«No, no, ci vorranno cinque minuti al massimo, a meno che non ci sia qualcosa di
serio». La voce sembrava forzata.
«Bene, mi chiami quando ha finito. Io sono di là, in cucina».
L’uomo si guardò attentamente intorno. Batté a caso qualche tasto della macchina, fece
scorrere il rullo varie volte, con tintinnio finale, e tese l’orecchio. Udì un clangore di piatti
e posate e si sentì abbastanza sicuro e molto agitato. Rapidamente aprì il cassetto della
piccola scrivania in alto a destra: graffette, biro, gomme, elastici – niente di particolarmente
sospetto. Sistematicamente esaminò gli altri due cassetti di destra e i tre di sinistra, più o
meno sempre con lo stesso risultato. Fogli di appunti raccolti da fermagli, corposi ordini del
giorno per le riunioni al college, cartellette, carta, carta e ancora carta: a righe, bianca,
intestata, protocollo, in folio, in quarto. Ripeté la sua piccola pantomima e udì, in gradito
contrappunto, un rumore di piatti dalla cucina. Prese un foglio da ciascuna pila di carta e li
nascose nella tasca interna della giacca. Alla fine prese un foglio A4 e l’infilò nella
macchina, fece scorrere il rullo e rapidamente batté due righe di testo:
Dopo aver valutato le numerose domade di assunzione che abbiamo ricevuto dobbiamo
purtrppo imformarla che la sua non ha avuto buon esito.
La signora Crowther lo accompagnò alla porta. «Bene, ora dovrebbe essere tutto a
posto, signora Crowther. Polvere nei cuscinetti del rullo, tutto qui». Lewis sperò che le sue
parole suonassero plausibili.
«Quanto le devo?».
«Niente. Non è il caso, per questa volta». Se ne andò.
A mezzogiorno Lewis bussò alla porta di Bernard Crowther nel secondo cortile del
Lonsdale College e lo trovò impegnato in un colloquio con un occhialuto studente dai
capelli lunghi.
«Non c’è fretta» disse Lewis. «Posso tranquillamente aspettare finché non avete finito».
Ma Crowther aveva finito. Aveva fatto la conoscenza di Lewis il sabato precedente, ed
era ansioso di sentire tutto quello che aveva da dirgli. Il giovanotto venne congedato
all’istante con la temibile intimazione di preparare per l’incontro successivo un saggio sul
Simbolismo in Cimbelino, e Crowther chiuse la porta. «E allora, sergente Lewis?».
Lewis gli disse esattamente quel che era accaduto quella mattina, senza girare intorno
alla questione, e confessò che non gli era piaciuto dover usare un sotterfugio. Crowther non
si mostrò molto sorpreso e parve preoccupato soprattutto per sua moglie.
«Be’, signor Crowther» disse Lewis «le assicuro che se lei dirà che aveva chiesto alla
Kimmons di mandare un incaricato per dare un’occhiata alla macchina per scrivere, non vi
sarà alcun problema».
«Non avreste potuto chiedermelo?».
«Be’, signore, sì, avremmo potuto, ma sa l’ispettore Morse voleva che la cosa si
svolgesse con la massima discrezione possibile».
«Sì, me l’immagino». C’era una venatura di amarezza nella voce di Crowther. Lewis si
alzò per andarsene. «Ma perché? Che cosa vi aspettavate di trovare?».
«Volevamo cercare di scoprire su quale macchina era stata battuta, ehm, una certa
comunicazione».
«E pensavate che c’entrassi io?».
«Dobbiamo verificare ogni possibilità».
«Ebbene?».
«Ebbene cosa, signor Crowther?».
«Avete trovato quel che cercavate?».
Lewis sembrava a disagio. «Sì, signore».
«Cioè…?».
«Diciamo, signore, che non abbiamo trovato alcunché, ehm, d’incriminante. In sintesi le
cose stanno così».
«Intende dire che pensavate che io avessi scritto qualcosa con quella macchina per
scrivere e ora avete scoperto che non l’ho fatto».
«Ehm, per informazioni al riguardo la pregherei di rivolgersi all’ispettore Morse».
«Ma lei ha appena detto che la lettera non è stata scritta con…».
«Non ho mai detto che fosse una lettera, signore».
«Ma la gente scrive le lettere a macchina, non è vero sergente?».
«Certo, signore».
«Sa, sergente, lei sta cominciando a farmi sentire in colpa».
«Mi dispiace, signor Crowther, non era nelle mie intenzioni. Ma in un lavoro come il
nostro dobbiamo veramente sospettare di chiunque. Le ho detto tutto quello che potevo.
Qualunque sia la macchina per scrivere che cerchiamo, non è quella di casa sua. Ma c’è più
di una macchina per scrivere al mondo, non è vero, signore?».
Crowther non contestò la verità di quell’affermazione. Una grande finestra a veranda
offriva una vista meravigliosa sul morbido prato del secondo cortile, uniforme e verde come
un tavolo da biliardo. Davanti alla finestra c’era una grande scrivania di mogano, ricoperta
di carte, lettere, tesine e libri. E in mezzo a quella confusione letteraria, si ergeva stabile
una grande, vecchia e usurata macchina per scrivere.
Di ritorno a Kidlington Lewis percorse l’ampia arteria bordeggiata d’alberi di St Giles
e si spostò sulla destra per immettersi sulla Banbury Road e attraversare North Oxford.
Mentre superava alla sua destra il grande complesso dell’università, vide una donna
piuttosto alta in pantaloni scuri e un cappotto lungo e pesante che camminava lungo la
strada, sporgendo il pollice ogni quattro o cinque passi con fare molto demoralizzato e poco
convinto. Aveva lunghi capelli biondi, di un biondo naturale, per quel che si poteva capire,
che le arrivavano fino a metà schiena. Lewis pensò a Sylvia Kaye. Povera ragazza. Superò
la bionda proprio nell’attimo in cui lei girava la testa e Lewis si ritrovò a sbattere gli occhi.
In che razza di mondo viviamo! Infatti la bella bionda aveva il volto incorniciato da basette
e barba. Idea interessante…
Morse non era riuscito a nascondere la propria irritazione quando Lewis gli aveva fatto
rapporto giungendo con assurda precipitazione alla certezza che la lettera su cui l’ispettore
aveva puntato tutto non era stata scritta con la macchina per scrivere personale di Crowther,
né su alcuno dei campioni di carta che aveva così abilmente sottratto dalla scorta personale
del professore. La sua unica e sola preoccupazione era stata quella di cancellare le tracce di
una procedura tanto irregolare, ed era per quella ragione che aveva immediatamente spedito
Lewis a parlare con Crowther. Ascoltò con attenzione, ancorché senza entusiasmo, il
resoconto di quel colloquio quando Lewis rientrò all’una.
«Allora, sergente, non una mattina tra le più fortunate…».
«No. Preferirei evitare questo genere di cose in futuro, signore».
Morse fu comprensivo. «E tuttavia non penso che abbiamo fatto niente di male, vero
Lewis? Non sono troppo preoccupato per Crowther, d’altra parte non è che lui abbia
giocato pulito con noi, no? Ma la signora Crowther, lei avrebbe potuto essere un problema.
In ogni modo la ringrazio». Parlava con evidente sincerità.
«Si figuri, signore. Almeno ci abbiamo provato». Lewis si sentì molto rinfrancato.
«Che cosa ne dice di bere qualcosa?». I due uscirono con disposizione d’animo più
lieve.
A nessuno dei due poliziotti era venuto in mente che una donna con l’intelligenza e
l’esperienza della signora Margaret Crowther non avrebbe mai presa per buona
automaticamente e senza domande l’identità del primo Tom, Dick o Harry che si fosse
presentato alla sua porta. Inoltre, prima di sposare Bernard la signora Crowther era stata
una segretaria: in realtà la macchina per scrivere era sua e proprio quel mattino l’aveva
usata per scrivere due lettere indirizzate una a suo marito e l’altra all’ispettore Morse, c/o
Thames Valley Police, Kidlington. La macchina per scrivere funzionava alla perfezione, lo
sapeva benissimo, e aveva visto quel nervoso sedicente addetto della Kimmons aprire uno
dopo l’altro i cassetti della scrivania di Bernard. Si chiedeva che cosa stesse cercando, ma
in realtà non le importava. Dopo aver chiuso la porta le era persino sfuggito un sorriso, sia
pure sofferto e stanco. Ben presto sarebbe stata pronta a spedire le due lettere. Ma voleva
essere sicura.
Per gran parte del pomeriggio Morse lavorò alla sua scrivania. Il rapporto sull’auto di
Crowther era arrivato, ma sembrava non dire nulla di significativo. Un lungo capello
biondo, pesantemente ossigenato, era stato ritrovato sul pavimento dietro il sedile sinistro,
ma era più o meno tutto. Nemmeno l’ombra di una traccia della seconda ragazza. Molti
nuovi rapporti, ma ancora niente che potesse far progredire l’indagine. Morse si dedicò ad
altre questioni. Il mattino dopo doveva presentarsi in tribunale: doveva leggere documenti e
memorandum. Era contento, una volta tanto, di dovere usare la testa per assimilare dati
tangibili e si mise a lavorare sulle carte senza accorgersi del passare del tempo. Quando
alle 17,00 guardò l’orologio, si sorprese di come fosse trascorso in fretta il pomeriggio. Un
altro giorno era finito – quasi. Domani sarebbe stato un giorno nuovo. Per qualche motivo si
sentiva allegro e si chiese se quel buon umore avesse per caso a che vedere con il fatto che
l’indomani era mercoledì, e con Sue Widdowson.
Chiamò Lewis, che stava per andarsene. Certo, naturalmente poteva raggiungerlo.
Poteva forse dare un colpo di telefono alla sua paziente mogliettina? Probabilmente aveva
appena iniziato a friggere le patatine. «Lewis, lei mi diceva che Crowther ha un’altra
macchina per scrivere nella sua stanza al college. Penso che dovremo controllarla. Che ne
dice?».
«Come crede meglio, signore».
«Ma questa volta, se non mi sbaglio, lei preferirebbe agire senza sotterfugi».
«Penso che sarebbe la cosa migliore, signore».
Morse conosceva abbastanza bene il preside del Lonsdale College e gli telefonò senza
por tempo in mezzo. Lewis fu un po’ sorpreso dalla richiesta di Morse. Il capo quella volta
voleva proprio far le cose per bene. Ascoltò il monologo. «Quante macchine per scrivere ci
saranno? Sì, sì. Incluse quelle... Sì. Così tante! Ma è fattibile? Be’, sarebbe un aiuto enorme,
naturalmente… Preferisce procedere in questo modo? No, no per me va benissimo,
naturalmente. Per la fine della settimana? Bene. Le sono davvero grato. Adesso mi ascolti
con attenzione…».
Morse diede le sue istruzioni, protrasse i ringraziamenti per un tempo esageratamente
lungo e, quando finalmente posò la cornetta, lanciò un’occhiata trionfante al sergente. «Un
tipo davvero collaborativo».
«Non che avesse molta scelta, no?».
«Forse no, ma ci farà risparmiare un sacco di tempo e fastidi».
«Intende dire che risparmierà a me un sacco di tempo e fastidi».
«Lewis, amico mio, io e lei formiamo una squadra, non è così?». Lewis assentì
controvoglia. «Per la fine della settimana avremo un campione di ogni singola macchina per
scrivere del Lonsdale College, che ne dice?».
«Inclusa quella di Crowther?».
«Naturalmente».
«Ma non sarebbe stato più semplice…».
«Colpire direttamente il bersaglio? Sì, sarebbe stato più semplice. Ma lei ha detto che
voleva agire in base ai grandi principi della giustizia inglese. Non abbiamo un bel niente su
Crowther, è innocente come mia zia Freda».
Poiché Lewis non aveva mai visto né sentito la suddetta zia Freda, si astenne da ogni
commento. «Pensa che Crowther sia l’uomo che cerchiamo, signore?».
Morse si tirò un angolo della bocca con il pollice. «Non lo so, Lewis, non lo so
proprio».
«Oggi mi è venuta una specie di idea, signore» disse Lewis dopo una pausa. «Ho visto
quella che pensavo fosse una ragazza ma, mentre mi avvicinavo, si è girata e non era una lei,
ma un lui».
«Si esprime con notevole concisione, sergente».
«Ma lei ha capito quel che intendo dire».
«Sì, l’ho capito. Quando eravamo ragazzi noi, ci tenevamo a sembrare ragazzi, e chi
aveva un aspetto effeminato era una checca. Oggi giorno ci sono ragazzoni che si truccano
gli occhi e girano con la borsetta. È una cosa che dà da pensare».
Morse non aveva capito dove Lewis volesse andare a parare e il sergente dovette
spiegarglielo. Non era un uomo di idee, lo aveva sempre saputo, e aveva un gran pudore a
sottoporre al suo capo la sua teoria. «Capisce, signore, è solo una cosa che mi è venuta in
mente. La signora Jarman ha visto due ragazze alla fermata dell’autobus». Non ci sarebbe
stato bisogno di proseguire, ma Morse non diceva una parola. «Di sicuro ha visto giusto,
non c’è dubbio. Ha addirittura parlato a una di loro, e l’altra era Sylvia Kaye. E poi c’è
quel camionista, il signor Baker. Uscendo dallo svincolo ha visto due autostoppiste che
salivano su un’auto rossa guidata da un uomo. Ma stava calando il buio. Dice di aver visto
due ragazze, ma potrebbe essersi sbagliato. Questa mattina io avrei potuto giurare di aver
visto una ragazza, ma mi sarei sbagliato. Tutti erano colpiti da Sylvia – tutti gli occhi erano
puntati su di lei, e per buoni motivi. Ma se il camionista avesse visto Sylvia insieme a
un’altra persona? E se quest’altra persona avesse avuto l’aspetto di una ragazza senza
esserlo veramente? L’altra persona avrebbe potuto essere un uomo. Si ricordi, signore, che
la seconda ragazza vista dalla signora Jarman portava i calzoni e la descrizione di Baker
coincideva così bene con quella della signora Jarman da farci dar per scontato che fossero
la stessa persona. E se invece l’altra ragazza avesse deciso che non voleva fare l’autostop?
Magari ha raggiunto Sylvia e le ha detto che alla fin della fiera non aveva nessuna voglia di
andare fino a Woodstock. E magari Sylvia ha incontrato un uomo, uno che conosceva già,
che si era già messo a cercare un passaggio ancor prima che Sylvia arrivasse e i due hanno
deciso di procedere insieme. So che di sicuro anche lei avrà già valutato questa possibilità,
signore (Morse non confermò né negò – ma non ci aveva pensato) ma sentivo che era mio
dovere parlargliene. Siamo alla caccia dell’uomo che ha commesso l’omicidio, e io ho
pensato che magari era con Sylvia fin dall’inizio».
«Abbiamo la testimonianza di Crowther, sergente» disse Morse lentamente.
«Lo so, signore, e mi piacerebbe rileggerla, se possibile. Per quel che ricordo non
aveva molto da dire a proposito dell’altra ragazza».
«È vero» confermò Morse «e io non riesco a togliermi dalla testa che sappia più di quel
che ci ha detto».
Andò all’archivio e ne estrasse la dichiarazione di Crowther. Finì di leggere la prima
pagina, la passò a Lewis e attaccò la seconda. Quando entrambi ebbero terminato, si
guardarono dai lati opposti della scrivania.
«Ebbene, signore?». Morse lesse ad alta voce: «‘Quella più vicina alla strada la vidi
bene. Era una bella ragazza dai lunghi capelli biondi, indossava una camicia bianca e una
gonna corta. L’altra ragazza era qualche metro più in là, mi dava le spalle; sembrava decisa
a lasciare alla sua compagna la fatica di trovare un passaggio. Comunque aveva capelli
sullo scuro, credo, e se ricordo bene, era di qualche centimetro più alta della sua amica…’
Che ne pensa?».
«Non è molto preciso, vero signore?».
Morse cercò l’altro brano interessante: «‘credo che la ragazza seduta dietro abbia
aperto bocca solo una volta, per chiedere che ore fossero’. Sa, Lewis, potrebbe averci visto
giusto».
Lewis si appassionò alla propria teoria. «È una cosa che si sente dire spesso, signore,
che quando una coppia fa l’autostop la ragazza, per così dire, mostra le gambe mentre
l’uomo si tiene a debita distanza. Tipo che salta fuori all’improvviso quando un’auto si è già
fermata ed è ormai troppo tardi perché l’automobilista possa tirarsi indietro».
«Ma non è andata così questa volta, Lewis».
«No. Lo so, signore. Eppure c’è qualche elemento che corrisponde: ‘sembrava decisa a
lasciare alla sua compagna la fatica di trovare un passaggio’». Lewis sentiva di dover anche
lui esibire i suoi indizi.
«Mmm. Ma se lei ha ragione, che cosa è successo all’altra ragazza?».
«Magari se n’è tornata a casa, signore. Potrebbe essere andata ovunque».
«Ma voleva andare a Woodstock, e ci teneva tanto, a sentire la signora Jarman».
«Forse è andata alla fermata dell’autobus».
«L’autista non se la ricorda».
«Ma quando gliel’abbiamo chiesto pensavamo a due ragazze, non a una ragazza che
viaggiava da sola».
«Mmm. Magari vale la pena di interrogarlo di nuovo».
«E un’altra cosa, signore». La marea si stava alzando inesorabilmente e l’acqua già
lambiva i castelli di sabbia che formavano il quadro generale di Morse.
«Sì?».
«Spero che non le dispiaccia se glielo ricordo, signore, ma Crowther dice che l’altra
ragazza era di qualche centimetro più alta di Sylvia». Morse emise un lamento, ma Lewis
continuò, senza rimorsi come la marea. «Ora Sylvia era alta 1,75, se non mi sbaglio. Se
l’altra ragazza era Jennifer Coleby si vede che camminava sui trampoli. Mi sembra sia alta
più o meno solo 1,70…».
«Ma non capisce, Lewis? Questo è proprio il genere di cose su cui Crowther potrebbe
aver mentito. Vuole depistarci, vuole proteggere l’altra ragazza».
«Sto solo ragionando in base agli indizi a disposizione, signore».
Morse annuì. Pensava seriamente che avrebbe fatto meglio a dedicarsi all’insegnamento.
La scuola elementare magari era al suo livello. L’ortografia poteva essere un terreno sicuro.
Perché non aveva pensato alla faccenda dell’altezza? Ma sapeva perché: nel quadro
generale era previsto che il colpevole fosse Crowther.
E ora le onde lambivano pericolosamente l’ultimo dei suoi castelli di sabbia: l’acqua
aveva già riempito il fossato e fatto breccia nelle contrafforti. Erano le sei di pomeriggio e
anche la seconda infornata di patatine destinata al sergente si stava raffreddando.
Morse zoppicò fuori dalla centrale in compagnia di Lewis. Si fermarono parecchi minuti
a parlare accanto all’auto del sergente. Lewis cominciava a sentirsi come un allievo della
scuola elementare di Morse che avesse beccato il maestro in fallo nell’ortografia di una
parola semplice, ed esitava a far notare un piccolo particolare che gli si era ficcato in mente
da parecchi giorni. Magari era meglio aspettare l’indomani. Ma sapeva che Morse avrebbe
avuto una giornata piena in tribunale. Decise di buttarsi.
«Sa quella lettera indirizzata a Jennifer Coleby, signore?».
Morse la sapeva a memoria. «Che cos’ha da dirmi in proposito?».
«Pensa che avrebbero potuto esserci delle impronte digitali sulla copia originale?».
Morse udì la domanda e tenne lo sguardo fisso nel vuoto. Alla fine scosse la testa
tristemente. «Ormai è troppo tardi».
La scuola elementare diventava una prospettiva sempre più concreta man mano che i
minuti passavano. Il castello di sabbia era inclinato su un fianco e da un momento all’altro
sarebbe crollato del tutto. Era tempo di passare il testimone: doveva fare un salto dal
sovrintendente.
Un’auto della polizia si fermò a qualche metro da lui. «Le serve una mano, ispettore?».
«No, sono a posto, grazie». Morse si scosse la tristezza di dosso. «Questa settimana
torno e riprendo gli allenamenti. Mi vedrete tra gli undici titolari nella prossima partita in
casa».
L’agente rise. «Chissà che scocciatura, però. Soprattutto non poter guidare».
Morse si era quasi dimenticato dell’auto. Era ferma immobile da parecchi giorni.
«Agente, si sieda accanto a me, per favore. Ormai è arrivato il momento di provarci». Prese
posto dietro il volante, cercò con il piede destro il freno e l’acceleratore, spinse poi con
forza sul pedale del freno e decise che poteva farcela. Accese il motore e fece il giro del
cortile per vedere se era ancora capace di fare le mosse giuste. Si fermò e scese dalla
macchina raggiante come un orfanello che abbia ricevuto in dono un orso di pezza.
«Non male, eh?». L’agente lo aiutò a tornare all’interno della centrale e a raggiungere il
suo ufficio.
«Domani sarà in grado di tornare a usare l’auto, vero signore?».
«Penso di sì» rispose Morse.
Si sedette e pensò al giorno dopo. Il sovrintendente. Forse era meglio incontrarlo nel
pomeriggio. Compose il numero del suo superiore, ma nessuno rispose. Alla sera aveva
anche lui un altro impegno. Non vedeva l’ora di uscire con Sue Widdowson, era inutile far
finta di no. Ma che pasticcio aveva combinato. Il Bird and Bay, figurarsi! Perché diavolo
non l’aveva invitata all’Elisabeth, al Sorbonne o allo Sheridan? E perché non si era messo
d’accordo di passare a prenderla, come avrebbe fatto qualsiasi uomo con un minimo di
cortesia? Al diavolo Jennifer Coleby. Ma non era ancora troppo tardi, no? A quell’ora lei
doveva essere a casa. Guardò l’orologio: le 18,30. Sulla sua scrivania c’era una copia
dell’Evening Mail e Morse diede un’occhiata alla pagina degli spettacoli. Notò che Hot
Pants e Sandwich svedese erano in programma ancora per un’altra settimana «a grande
richiesta». Poteva portarla al cinema, naturalmente. Magari non allo Studio 2. Ristoranti.
Niente di che. Poi vide un annuncio. «Cena danzante allo Sheridan. Ingresso per due – £ 6.
Dalle 19,30 alle 23,30. Aperitivi». Chiamò lo Sheridan. Sì, qualche biglietto per due era
ancora disponibile, ma doveva andare a ritirarli in serata. Poteva richiamare nel giro di un
quarto d’ora? Sì, gli avrebbero tenuto da parte un biglietto.
Il numero di telefono di Jennifer Coleby era da qualche parte nel fascicolo del caso, e lo
trovò rapidamente. Pensò a che cosa doveva dire. «La signorina Widdowson» era la cosa
migliore. Sperava che rispondesse Sue.
Tu-tuu. Si sentiva agitato. Stupido.
«Sì?». La voce di una ragazza. Ma chi era? La linea gracchiava.
«Ho chiamato Oxford 54385?».
«Sì. Chi desidera?». Sentì un tuffo al cuore. Era senza ombra di dubbio la voce fredda e
cristallina di Jennifer Coleby. Morse fece un vago tentativo di parlare come se non fosse
Morse. «Desidererei parlare con la signorina Widdowson se è in casa, per favore».
«Sì, è in casa. Chi devo dire che la cerca?».
«Oh, le dica che è un suo vecchio compagno di scuola» rispose con la voce da non-
Morse.
«Gliela chiamo subito, ispettore Morse».
La sentì gridare «Sue! Su-ue! Un tuo vecchio compagno di scuola al telefono».
«Pronto, sono Sue Widdowson».
«Pronto». Morse non sapeva come presentarsi. «Sono Morse. Mi chiedevo solo se
domani sera non preferiresti andare allo Sheridan, invece di andare a bere qualcosa. C’è
una cena danzante e ho i biglietti. Che ne dici?».
«Sarebbe fantastico». Morse pensò che la sua voce gli piaceva. «Davvero fantastico. So
che ci va anche qualche altro amico. Dovrebbe essere molto divertente».
Oh no! pensò Morse. «Non troppi, spero. Non vorrei doverti dividere con tanta altra
gente, sai». Lo disse in tono scherzoso ma aveva il cuore pesante.
«Parecchi, a dire la verità».
«Allora andiamo da qualche altra parte. Conosci qualche altro posto?».
«Oh no, sarebbe un peccato, e comunque hai già comprato i biglietti. Ci divertiremo
vedrai!».
Morse si chiese se avrebbe mai imparato a dire la verità. «Va bene. Posso passare a
prenderti se vuoi. Ti andrebbe?».
«Oh, sì, grazie. Jenny mi voleva dare un passaggio con la sua macchina, ma se tu…».
«Benissimo. Passo a prenderti alle sette e un quarto».
«Allora alle sette e un quarto. Ci vuole l’abito lungo?». Morse non lo sapeva. «Non
preoccuparti. Lo scoprirò facilmente».
Senza dubbio chiedendolo a uno dei tuoi amici, pensò Morse. «Bene. Non vedo l’ora».
«Anch’io». Sue riattaccò subito e Morse non poté sfoderare un congedo accattivante.
Era vero che non vedeva l’ora? Di solito quel genere di incontri erano una delusione. Ma gli
avrebbe fatto bene. O gli avrebbe dato una bella lezione. Non gliene importava molto. In
ogni caso avrebbe mangiato una cena decorosa, e sarebbe stato bello tenere ancora una
volta sottobraccio una ragazza, danzare con leggerezza… Oh maledizione! Se ne era
completamente dimenticato. Aveva proprio perso il lume della ragione da quel vecchio
stupido rimbecillito che era. Poteva invitare la bella signorina Widdowson a godere
insieme a lui delle delizie del walzer tanto quanto poteva invitare un rabbino a fare una
scorpacciata di salame. Faticosamente raggiunse il bancone all’ingresso. «Mi chiami una
macchina, sergente».
«Ne arriverà una in pochi minuti, signore. Dobbiamo…».
«Mi trovi una macchina subito, sergente, e intendo dire subito!». L’ultima parola
risuonò dura e nell’ingresso molte teste si voltarono. Il sergente al banco prese il telefono.
«Aspetto fuori».
«Ha bisogno d’aiuto signore?». Il sergente era un uomo dall’animo gentile e conosceva
l’ispettore Morse da tanti anni. Morse decise di aspettare accanto al banco. Era arrabbiato
con se stesso e aveva molte buone ragioni per esserlo. Ma cosa gli desse il diritto di
riversare la sua rabbia contro un vecchio amico, non riusciva proprio a immaginarselo.
Maledisse il proprio egoismo e la propria rozzezza.
«Sì, sergente, penso di aver bisogno di aiuto». Non era la sua giornata.
Capitolo diciassette
Mercoledì, 13 ottobre, mattina

Una tormenta anomala colpì l’area di Oxford nelle prime ore di mercoledì mattina,
abbattendo camini e trascinando con sé antenne e tegole. Secondo il notiziario delle sette il
maltempo aveva lasciato dietro di sé una scia di devastazione a Kidlington,
nell’Oxfordshire, dove la signorina Winifred Fisher si era salvata per un pelo quando la
tettoia del garage, divelti gli ancoraggi, era piombata dentro la finestra del primo piano di
casa sua. «Non so proprio come descriverlo» aveva detto la signorina. «È stato
terrificante». La radio portatile era sul comodino accanto al telefono e alla sveglia che, alle
sette meno dieci, aveva strappato Morse da un lungo sonno tranquillo.
Uscì dal letto alla fine del notiziario e sbirciò tra le tende. Per fortuna il suo garage
sembrava intatto. Strano, però, che la tempesta non l’avesse svegliato. A poco a poco il
ricordo degli eventi della giornata precedente riaffiorò alla coscienza e si depositò greve
sul fondo della sua mente. Le schiere degli angeli che avevano protetto il suo sonno erano
svanite e Morse sedette sul bordo del letto tastandosi la barba ispida sul mento e
chiedendosi che novità ci sarebbero state quel giorno. Man mano che il caso procedeva il
grafico del suo umore assomigliava sempre più al profilo frastagliato di una catena
montuosa, con vette e valli, picchiate e impennate.
Alle otto meno un quarto era rasato, lavato e vestito, e si sentiva fresco e fiducioso.
Lavò la tazza serale di Horlicks, sciacquò il bicchiere di whisky della buonanotte, riempì il
bollitore e rivolse la propria attenzione a un problema importante.
Negli ultimi giorni aveva indossato, sul piede infortunato, una scarpa da ginnastica
bianca fuori misura, allacciata larga e tagliata sul retro. Era tempo di tornare a una calzatura
normale. Non gli andava di apparire in tribunale con una scarpa così eccentrica e gli
sembrava improbabile che la signorina Widdowson si esaltasse all’idea di essere condotta
alla danza da un accompagnatore calzato per metà in scarpe da tennis. Aveva solo due paia
di scarpe e una scorta pericolosamente esigua di calzini adeguati; con un ventaglio di
combinazioni così ristretto, le possibilità di essere abbigliato decorosamente erano alquanto
remote. Tornò a infilarsi la sua vecchia e fidata scarpa da ginnastica e decise di andare a
comprarsi un paio di mocassini di taglia grande da M and S, il suo negozio preferito.
Sarebbe stata una giornata alquanto dispendiosa. Bevve una tazza di tè e guardò fuori dalla
finestra. Il coperchio del suo bidone della spazzatura era finito contro il cancello d’ingresso
e i rifiuti si erano sparsi dappertutto. Doveva ricordarsi di dare un’occhiata alle tegole…
A ripensarci, gli parve di aver avuto reazioni del tutto sproporzionate agli eventi del
giorno prima: era rimasto troppo vicino agli alberi, ma in quel momento gli sembrava di
scorgere ancora una volta il solito vecchio bosco, labirintico finché si vuole, che aveva
visto fin dall’inizio. Sentiva di essere tornato la persona tenace che sapeva di essere, o
quasi. Quanto alla scelta drastica che aveva deciso di fare – che dire? Bisognava pensarci
su, ma al momento la sua mente era impegnata da un problema più immediato. Dove erano la
penna, il pettine e il portafoglio? Con sua grande sorpresa, e altrettanto sollievo, li trovò
tutti in un mucchietto sopra la mensola del camino, in camera da letto.
La vecchia, fida Lancia era ancora lì. Potente, sicura, e faceva 300 chilometri con un
pieno. Aveva spesso pensato di cambiare auto, ma gliene era sempre mancato il cuore.
Scivolò nello stretto passaggio tra il posto del guidatore e la parete intonacata del garage.
Era sempre stata una manovra complicata e lui non era certo divenuto più snello. Ma era
bello sedersi di nuovo al volante. Tirò l’aria un po’ più del solito alla sua vecchia amica –
dopo tutto era rimasta ferma per una settimana – e premette lo starter. Prr... prr… prr… prr.
No. Doveva tirarla ancora un po’? Ma senza ingolfarla. Riprova. Prr… prr… prr… prr…
prr… Strano. Non aveva mai avuto problemi del genere prima. Il tre porta fortuna. Prr…
prr… prr…La batteria doveva essere un po’ scarica. Oh santo cielo. Diamole un minuto di
riposo, facciamole riprendere fiato. Ma che sia la volta buona! Prr… prr… Maledizione!
Ancora una volta. Prr… «La mia solita maledetta scalogna!» si disse Morse. «Come cavolo
faccio ad andare in giro senza…». Si fermò ed ebbe un brivido involontario. Un’alba grigia
gli si stava schiudendo nella mente e i raggi del sole nascente rischiaravano gli oscuri
misteri del crepuscolo. «Ed era beatitudine in quell’alba essere vivi». Era Wordsworth,
giusto? Era citato nel cruciverba del Times della settimana prima. Finalmente le onde si
stavano ritirando dalla spiaggia. Le bianche creste dei marosi rotolavano ininterrotte e senza
tregua verso la riva, ma avevano perso la loro forza. Vide il quadro generale davanti ai
propri occhi e scoprì che l’ultimo, piccolo castello di sabbia era sopravvissuto all’attacco
del mare possente.
Il capo del garage Barkers a Oxford fu così colpito dalle suadenti parole con cui Morse
chiese di avvalersi dei suoi servizi che una nuova batteria era in viaggio nel giro di dieci
minuti e fu installata in quindici. Le nubi volavano alte e bianche e il sole splendeva
luminoso. Un cielo sereno, come avrebbe detto Jane Austen. Morse recuperò il coperchio
del bidone e con gran cura raccolse tutti i rifiuti sparsi nel giardino.
Le università di Oxford erano piene di gente quel mattino, il terzo giorno dall’inizio del
semestre autunnale. Gli studenti del primo anno, ognuno con la sciarpa del college nuova di
zecca gettata sulle spalle, setacciavano con passione le librerie sulla Broad Street e
passeggiavano un po’ impacciati lungo la High Street per imboccare l’affollata Cornmarket
Street fino a Woolworth e Marks and Spencer. Da lì, a seconda dei gusti, si dirigevano al
pub o al bar più vicino. Alle 13,00 Morse era seduto nel reparto di calzature maschili di M
and S. Di solito portava un 41, ma quel giorno stava sperimentando con pazienza e
determinazione. Con il 42 cambiava poco e, dopo un certo numero di avanti e indietro a
piedi scalzi tra la merce esposta e il posto a sedere prescelto, optò per un paio di mocassini
in cuoio nero numero 43. Sembravano enormi ed erano ovviamente destinati a essere
inutilizzabili nel lungo periodo. Ma chi se ne importava? Sul piede sinistro avrebbe
indossato due paia di calzini. Ecco, se ne era ricordato. Pagò, tornò a infilarsi la scarpa da
ginnastica, con gran stupore di una cassiera grassa e svogliata che probabilmente portava lei
stessa il 43, e si diresse verso il bancone delle calze, dove acquistò una mezza dozzina di
paia di calzini dai colori vivaci. Se ne fosse stato in grado, sarebbe ritornato sulla
Cornmarket con passo leggero. L’auto funzionava, le commissioni erano finite, l’inchiesta
andava benone.
Anche altri stavano facendo compere. Gli affari andavano bene quel mattino, e non solo
nei grandi magazzini sulle vie principali del centro di Oxford. Più o meno nello stesso
momento in cui Morse, il megapodo, si infilava sotto il braccio i suoi acquisti, un’altra
transazione veloce e priva di complicazioni veniva completata in una scialba vietta dietro la
Botley Road, e si poteva ben dire che almeno questa volta John Sanders aveva fatto l’affare
migliore.
Capitolo diciotto
Mercoledì, 13 ottobre, sera

Al Lonsdale College quella di mercoledì 13 era la prima serata con ospiti del trimestre
autunnale e Bernard Crowther uscì di casa un po’ prima del solito. Alle 18,15 bussò alla
porta dell’appartamento di Peter Newlove ed entrò senza aspettare la risposta.
«Sei tu, Bernard?».
«Sì».
«Versati qualcosa da bere. Ci metto un minuto».
Poco prima Bernard era passato dalla portineria e aveva raccolto tre lettere dalla sua
casella. Ne aprì due senza troppe cerimonie e rapidamente le relegò nella tasca della
giacca. La terza recava la scritta «Riservato» e conteneva una nota del preside.
«Nel contesto delle indagini sul recente omicidio di Woodstock, la polizia è entrata in
possesso di una lettera dattiloscritta che si pensa possa rappresentare una prova
documentaria e della quale è essenziale scoprire la provenienza. Mi è stato richiesto un
aiuto affinché tutte le macchine per scrivere del college possano essere controllate e invito
tutti i colleghi ad acconsentire a tale richiesta. Il capo dell’Economato ha accettato di
assumersi questo incarico e secondo la mia opinione, condivisa anche dal vicepreside,
dobbiamo accogliere con la massima disponibilità questa legittima richiesta di
collaborazione. Ho quindi informato il capo ispettore Morse, responsabile delle indagini
sull’omicidio, che l’intero corpo docente è lieto di collaborare in tutti i modi possibili.
L’Economato ha un inventario di tutte le macchine per scrivere di proprietà del college, ma
potrebbero esservene di private nelle stanze di molti docenti: nel caso vi chiedo di
segnalarlo immediatamente all’Economato. Vi ringrazio per la collaborazione».
«Che succede, Bernard? Non vuoi niente da bere?». Peter era arrivato dal bagno e si
stava pettinando i capelli radi con un pettine dai denti radi.
«Tu l’hai ricevuta?».
«Certo che ho ricevuto la comunicazione dal nostro riverito e reverendo preside, se ti
riferisci a quella».
«Ma di cosa si tratta?».
«Non lo so, vecchio mio. È una faccenda misteriosa, non è vero?».
«Quand’è che parte la grande indagine?».
«Quando parte? È già finita. Quanto meno per me. Questo pomeriggio è arrivata una
ragazzina, in compagnia del capo dell’Economato, naturalmente. Ha battuto un messaggio
criptico sulla mia macchina e se n’è andata. Un vero peccato. Era proprio carina, penso che
dovrei frequentare più spesso gli uffici dell’amministrazione».
«Non credo che potrò essere di grande aiuto, purtroppo. Quel mio aggeggio infernale
deve essere stato fabbricato nel Medio Evo ed è senza nastro da più di sei mesi. Penso
comunque che sia del tutto inutilizzabile».
«Bene, così c’è un sospetto di meno. Allora, Bernard, beviamo qualcosa sì o no?».
«Non pensi che berremo già abbastanza più tardi?».
«No, vecchio mio, direi proprio di no». Peter si sedette e si infilò un paio di pesanti
brogue marroni numero 44, che però non erano state acquistate al reparto calzature di Marks
and Spencer.
«Abbiamo solo il tempo di bere qualcosa in fretta, credo». Erano quasi le sette e mezza
di sera. «Che cosa prendi?».
«Uno sherry secco per me, grazie. Arrivo subito. Devo ritoccarmi il trucco». Sue si
avviò verso il bagno. Erano rimasti in pochi nella sala del bar e Morse, che fu subito
servito, prese i due bicchieri, li portò a un tavolino in un angolo della sala e si sedette.
Lo Sheridan era l’hotel più alla moda di Oxford e molte stelle del palcoscenico, del
grande schermo, dello sport e della televisione di passaggio in città si fermavano in quel
grande edificio in pietra ben arredato che si trovava appena oltre St Giles. Un baldacchino a
righe si allungava fin sul marciapiede e, accanto alla luccicante targa in metallo, un custode
in livrea era di guardia sui bassi gradini che, dalla porta girevole, conducevano in strada.
Morse sospettava che la direzione tenesse sempre pronto un tappeto rosso nascosto in
qualche angolo dell’edificio. Non che l’avessero srotolato quella sera: in realtà non era
nemmeno riuscito a trovare un posto per parcheggiare nell’angusto cortile dell’hotel ed era
stato costretto a lasciare l’auto sulla St Giles. L’inizio della serata non era stato tra i più
promettenti e i due avevano scambiato solo poche parole.
La guardò mentre tornava. Si era tolta il soprabito e camminava verso di lui con
invidiabile eleganza, mentre l’abito lungo di velluto rosso scuro sottolineava delicatamente
le forme del suo corpo. E improvvisamente, dolcemente il cuore di Morse cominciò a
battere più forte, i loro occhi s’incontrarono e lei sorrise. Si accomodò accanto a lui che,
come quando poco prima gli si era seduta accanto in macchina, percepì la strana e sottile
promessa del suo profumo.
«Cin cin, Sue».
«Cin cin, ispettore».
Non aveva un rimedio per quel problema del nome. Come un vecchio maestro di scuola
che incontri una delle sue ex allieve, si sentiva imbarazzato da quel titolo usato in
continuazione, ma ogni altra alternativa sarebbe suonata falsa. Per il momento andava bene
così. La situazione poteva cambiare, naturalmente. Morse le offrì una sigaretta, che lei
rifiutò. Mentre Sue sorseggiava il suo sherry, Morse notò le dita sottili e curate con
discrezione: niente anelli, niente smalto. Le chiese com’era andata la giornata al lavoro e lei
glielo disse. Erano entrambi un po’ impacciati. Finirono di bere, uscirono dalla sala bar e
salirono le scale fino alla sala Evans, Sue sollevando leggermente l’abito per affrontare i
gradini e Morse tentando di non pensare alla stretta che gli premeva il piede destro mentre
inarcava disperatamente il sinistro per non perdere la scarpa.
La sala era addobbata con eleganza sommessa e delicata: i tavoli erano disposti a
intervalli regolari intorno a un pista da ballo piccola e ben lucidata. Le posate d’argento
luccicavano sulle tovaglie immacolate, e su ogni tavolo brillava una candela rossa con le
fiamme gialle e azzurre che si assottigliavano con una grazia che a Morse ricordò quella del
corpo di Sue Widdowson. Molte coppie avevano già preso posto e a Morse fu subito
tristemente chiaro che tra loro vi erano alcuni dei maledetti amici di lei. Un complessino
suonava una languida melodia orecchiabile e, mentre loro due venivano accompagnati al
tavolo, una giovane coppia cominciò a ballare, gioiosa e spensierata, gli occhi di lei
avidamente fissi in quelli di lui.
«Sei mai stata qui prima?».
Sue annuì e Morse, seguendo con lo sguardo la giovane coppia, si ripropose di smetterla
di fantasticare. Li raggiunse il cameriere con il menù, e Morse fu grato per la distrazione.
«Il vino è incluso?».
«Sì, un bottiglia a ogni coppia».
«Tutto qui?».
«Perché, non è sufficiente?».
«Be’, è un’occasione speciale, no?». Sue non si sbilanciò. «Che cosa ne diresti di una
bottiglia di champagne?».
«Ti ricordo che devi portarmi a casa in macchina».
«Possiamo sempre prendere un taxi».
«E la tua auto?».
«Magari la porta via la polizia». Sue rise e Morse vide i denti bianchi comparire tra le
labbra piene. «Che cosa ne dici?».
«Sono nelle tue mani, ispettore». Magari lo fossi, pensò lui.
Molte altre coppie si erano unite alla danza e Sue le guardava. «Ti piace ballare?». Sue
annuì tenendo gli occhi fissi sulle coppie impegnate sulla pista. Un giovane belloccio salutò
con la mano guardando nella loro direzione.
«Guarda chi si vede, Sue. Tutto bene?». Sue alzò una mano per salutare.
«E quello chi è?» disse Morse aggressivo.
«Il dottor Eyres. È uno dei medici del Radcliffe». Sembrava quasi ipnotizzata dalla
scena.
Ma ritornò sul pianeta di Morse all’arrivo dello champagne e dopo un poco la
conversazione prese un andamento più sciolto. Morse si sforzava al massimo di
chiacchierare con amabilità e interesse e Sue sembrava piacevolmente rilassata. Ordinarono
da mangiare e Morse versò un altro bicchiere di champagne. La musica si fermò: le coppie
sulla pista applaudirono senza troppo entusiasmo per qualche secondo e si ritirarono ai
margini della sala, ciascuna al proprio tavolo. Il dottor Eyres e una giovane ragazza bruna
con gli occhi pesantemente truccati si diressero verso il tavolo di Morse e Sue parve
contenta di vederli.
«Dottor Eyres, le presento l’ispettore Morse». I due uomini si strinsero la mano. «E
questa è Sandra. Sandra, ti presento l’ispettore Morse». Sandra dagli occhi bistrati, si
scoprì poi, era anche lei un’infermiera ed era una collega di Sue al Radcliffe. Il gruppo
musicale attaccò un altro brano malinconico.
«Le dispiace se le rubo Sue per questo ballo, ispettore?».
«Certo che no» disse Morse sorridendo. Dottorino inetto e bavoso che non sei altro.
Sandra si sedette e fissò Morse con evidente curiosità.
«Mi dispiace tantissimo di non poterla invitare a ballare» disse lui «ma ho avuto un
incidente al piede. Comunque è quasi guarito».
Sandra era la compassione fatta persona. «Oh, poverino. Com’è successo?».
Per la quindicesima volta negli ultimi sette giorni Morse ripeté le circostanze della sua
disavventura. Ma con il pensiero stava seguendo Sue. Mentre lei raggiungeva il medico
sulla pista pensò ai versi di Coleridge:
Ecco, la sposa è apparsa nella sala,

rossa come una rosa.

Li guardò ballare, vide le braccia di Sue chiudersi intorno al collo del compagno, il
corpo di lei stringersi al suo, poi lui le strofinò la guancia sui capelli, mentre lei,
compiaciuta, gli appoggiava la testa sulla spalla. Morse sentì una spaventosa fitta di gelosia.
Distolse gli occhi dalle coppie che amoreggiavano. «Sa una cosa, penso che con una musica
così forse posso farcela anch’io a ballare. Permette?». Prese Sandra per mano, la condusse
sulla pista e, posandole con fermezza un braccio intorno alla vita, la trasse a sé. Non gli ci
volle molto per rendersi conto di quanto era stato stupido. Il piede infortunato andava che
era una meraviglia, ma poiché non si fidava a sollevare l’altro a più di un centimetro da
terra, cominciò presto a inciampare nei piedi della ragazza con una regolarità monotona e
irritante. Misericordia volle che la canzone finisse presto e, borbottando una quantità di
scuse per il suo piede screanzato, Morse si trascinò fino al rifugio del suo tavolo. Sue stava
ancora parlando animatamente con il dottor Eyres e, quando Sandra li raggiunse, il terzetto
scoppiò a ridere fragorosamente.
Dieci minuti prima Morse si era immaginato che persino la bistecca più succulenta
quella sera era destinata a sembrargli secca come un pomo di Sodoma, e invece si buttò
sulla cena con determinazione. Mangiare, quello almeno poteva farlo. Anche se non poteva
ballare, anche se si era scordato di essere ormai diventato un uomo di mezza età, anche se
Sue desiderava una compagnia diversa, lui poteva sempre mangiare. E la cena era ottima.
Parlarono poco e quando, arrivati i caffè, qualcosa fu detto, per Morse fu una vera sorpresa.
«Perché mi hai invitato fuori, ispettore?».
Morse la guardò: i capelli castano chiaro delicatamente raccolti intorno al volto tutto
freschezza e delizia, le guance ora appena arrossate dal vino e soprattutto la magia di quegli
occhi larghi e tristi. Aveva avuto in mente un proposito preciso quando l’aveva invitata?
Non ne era certo. Appoggiò i gomiti sulla tavola e il mento sulle mani incrociate. «Perché
mi sembri così bella e volevo stare con te».
Sue lo guardò per parecchi secondi, con sguardo fermo e gentile. «Lo pensi veramente?»
gli chiese a bassa voce.
«Non so se lo pensavo quando ti ho invitata. Ma lo penso ora – e credo che tu lo
sappia». Parlò con semplicità e con calma, tenendo gli occhi fissi in quelli di lei. Vide due
splendide lacrime addensarlesi tra le palpebre, poi lei allungò la mano e gliela posò sul
braccio.
«Balla con me» bisbigliò Sue.
La pista era affollata e non poterono fare molto più che ondeggiare al ritmo dolce e
basso della musica. Sue appoggiò leggermente il volto sulla guancia di Morse che percepì
con un’emozione meravigliosa l’umidità dei suoi occhi. Desiderò che il mondo si fermasse
e che quell’attimo di paradiso venisse lanciato nei vasti mari dell’eternità. Le baciò
l’orecchio, le disse goffe frasi d’amore e Sue si nascose sempre più tra le sue braccia e lo
strinse sempre più a sé. Restarono fermi insieme quando la musica finì e Sue alzò lo
sguardo. «Possiamo andare via, per favore? Da qualche parte, per conto nostro?».
Morse non ricordava granché dei minuti che seguirono. L’aveva attesa sognante accanto
alle porte girevoli e, a braccetto, si erano incamminati lentamente sulla St Giles, diretti
all’auto.
«Ti devo chiedere una cosa» disse Sue una volta che furono seduti in macchina.
«Ti ascolto».
«Quando mi hai detto che forse quando mi hai invitato non pensavi… in realtà non
pensavi veramente quello che mi hai detto stasera... Ah, che confusione. Voglio soltanto dire
– c’era qualcosa che volevi chiedermi, non è vero?».
«Tu dici?» disse Morse.
«Lo sai che è vero. Su Jennifer, è il motivo per cui ci siamo conosciuti, no? Pensavi che
lei avesse qualcosa a che fare con l’omicidio di Woodstock…». Morse annuì. «E volevi
chiedermi dei ragazzi che frequenta e quel genere di cose».
Morse sedeva in silenzio nell’oscurità dell’abitacolo. «Non ho alcuna intenzione di
chiedertelo adesso, Sue. Non preoccuparti». Le mise un braccio intorno alle spalle,
l’attrasse a sé e baciò teneramente le labbra più soffici, più celestiali che Dio onnipotente
avesse mai creato. «Quando possiamo rivederci, Sue?». Non appena ebbe pronunciato
quelle parole sentì che qualcosa non andava. Sentì che il corpo di lei s’irrigidiva,
staccandosi dal suo. Sue cercò un fazzoletto e si soffiò il naso. Stava per scoppiare a
piangere. «Mai» gli rispose «non possiamo rivederci mai più».
Morse sentì un dolore che non aveva mai provato prima, e parlò con voce tesa e
incredula. «Ma perché? Perché? Certo che ci vedremo di nuovo, Sue».
«Non è possibile». Le sue parole suonarono fredde e inappellabili. «Non possiamo
incontrarci mai più, ispettore, perché… perché sono fidanzata e sto per sposarmi».
Riuscì appena a buttar fuori quelle ultime parole, poi sprofondò la testa sulla spalla di
Morse e scoppiò in un pianto angosciato. Con un braccio Morse la teneva stretta mentre
ascoltava con indicibile tristezza i suoi singhiozzi convulsi. Il parabrezza si era coperto del
vapore dei loro respiri e Morse cercò distrattamente di pulirlo con il dorso della destra.
Fuori si vedeva il massiccio muro esterno del St John’s College. Erano solo le dieci e un
gruppo di studenti rideva allegramente fuori dalla portineria. Morse conosceva bene
l’edificio. Lui stesso era stato uno studente di quel college, ma era accaduto vent’anni prima
e da allora era come se la vita l’avesse lasciato indietro.
In silenzio raggiunsero North Oxford dove Morse accostò con la Lancia proprio di
fronte alla porta di casa di Sue. In quell’istante la porta si aprì e Jennifer Coleby, con in
mano le chiavi della macchina, si diresse verso di loro.
«Ciao, Sue. Sei tornata a casa presto!».
Sue abbassò il finestrino. «Non volevamo che ci fermassero per guida in stato
d’ebbrezza».
«Entra per un caffè?». La domanda era indirizzata a Morse attraverso il finestrino
aperto.
«No, penso sia meglio che io torni a casa».
«Ci vediamo tra un minuto, allora» disse Jennifer rivolta a Sue. «Vado a sistemare la
macchina e torno». Entrò in una piccola FIAT dalle linee eleganti e si allontanò per
raggiungere il garage che aveva affittato nella via accanto.
«Sono auto piccole e carine, le FIAT» disse Morse.
«Ma le auto inglesi sono migliori, vero?» chiese Sue. Stava coraggiosamente cercando
di non fare un’altra volta la figura della stupida.
«Molto affidabili, a quanto mi dicono. E nel caso in cui qualcosa non andasse, c’è
sempre un concessionario come si deve nelle vicinanze, a quanto pare». Morse sperò di
essere stato abbastanza disinvolto, ma in fondo non gliene importava.
«Sì, è vero, ce n’è uno proprio a un passo da casa».
«L’ho presente, anch’io mi sono sempre trovato bene da Barkers».
«Anche Jennifer» disse Sue.
«Bene, credo sia ora di andare».
«Sei sicuro che non vuoi entrare per un caffè?».
«Sì, ne sono sicuro».
Sue gli prese una mano e la tenne con delicatezza tra le sue. «Lo sai che mi
addormenterò piangendo, vero?».
«Non dire così». Non voleva più essere ferito.
«Vorrei che venissi a dormire con me» gli bisbigliò lei.
«Vorrei che tu dormissi con me per tutta la vita, Sue».
Non si dissero altro. Sue uscì dalla macchina, salutò con la mano mentre la Lancia si
allontanava lentamente e si girò verso la porta, con gli occhi accecati dalle lacrime.
Morse guidò fino a Kidlington con il cuore pesante. Ripensò alla prima volta che aveva
visto la signorina Occhiscuri e ripensò a quest’ultima volta. Perché le cose non erano andate
diversamente? Gli venne in mente il verso più triste che avesse mai letto:
Di lei non ho neanche una riga,

non una ciocca di capelli

e il ricordo non lo rinfrancò. Non aveva voglia di tornare a casa: non si era mai accorto
di quanto era solo. Si fermò al White Horse, ordinò un doppio whisky e si sedette in un
angolo libero. Lei non gli aveva neppure chiesto il suo nome… Pensò al dottor Eyres e alla
sua Sandra dai capelli bruni e immaginò, senza un briciolo d’invidia, che a quell’ora
probabilmente stavano andando a letto insieme. Pensò a Bernard Crowther e dubitò che la
sua relazione illecita con la ragazza a Blenheim Park fosse imbevuta di metà della tristezza
che in quel momento lui provava. Pensò a Sue e al suo fidanzato e si augurò che fosse un
bravo ragazzo. Chiese un altro doppio whisky e, alticcio e sentimentale, se ne andò non
appena il barista annunciò che il locale stava per chiudere.
Mise l’auto in garage con cautela eccessiva e sentì che il telefono squillava prima
ancora di aver aperto la porta di casa. Il cuore prese a battergli veloce. Arrivò di corsa
nell’ingresso proprio quando il telefono smise di suonare. Era lei? Era Sue? Poteva sempre
richiamarla. Com’era il numero? Non se lo ricordava. Era nel fascicolo alla centrale.
Poteva farselo dire. Sollevò la cornetta – e la riabbassò. Di sicuro non era Sue. E se era lei,
poteva chiamare di nuovo. Probabilmente lo aveva cercato per tutto il tempo in cui se ne era
stato al White Horse. Maledizione. Chiama ancora, Sue. Fammi solo sentire la tua voce.
Chiama ancora, Sue. Ma per quella notte il telefono non squillò più.
Capitolo diciannove
Giovedì, 14 ottobre

Giovedì mattina Bernard Crowther sentiva i postumi dell’alcol. Alle 11,00 aveva
lezione e stava riguardando gli appunti sugli «Influssi sullo stile poetico di Milton» con
angoscia crescente. Alle nove meno un quarto Margaret gli aveva portato una tazza di caffè
nero e bollente: lei lo capiva sempre e di solito glielo faceva notare. Era in piedi dalle sei e
mezzo, aveva preparato la colazione ai ragazzi, lavato camicie e camicette, rifatto i letti,
passato l’aspirapolvere nelle camere e in quel momento si stava infilando il cappotto
nell’ingresso. Sporse la testa nello studio. «Tutto bene?» Bernard s’infastidì a sentirselo
ricordare.
«Bene, bene».
«Devo prenderti qualcosa in centro – latte, compresse di magnesia?». Sembravano
vivere in un perenne stato di belligeranza, fissandosi l’un l’altra dai due lati di un confine
che da tempo era oggetto di dispute. Margaret! Margaret! Quanto avrebbe voluto poterle
parlare.
«No. Niente, grazie. Senti, Margaret, tra poco vado in città anch’io. Puoi aspettare
cinque minuti?».
«No. Devo andare. Ci sei a pranzo?».
A che cosa serviva? «No. Mangio qualcosa al college». Sentì la porta sbattere
fragorosamente e la guardò camminare spedita fino alla fine della strada, per poi svoltare e
sparire alla sua vista. Andò in cucina, si riempì un bicchiere d’acqua fresca e vi lasciò
cadere dentro due compresse di aspirina solubile.
Quella mattina Morse e Lewis si abboccarono dalle nove alle dieci. Parecchie cose
erano rimaste in sospeso ed erano emerse numerose piste interessanti. Quanto meno, quello
fu il modo in cui Morse presentò la situazione a Lewis. Dopo che Lewis l’ebbe lasciato,
Morse ricevette la telefonata di un giovane giornalista dell’Oxford Mail, in seguito alla
quale sarebbe apparso un breve trafiletto sull’edizione serale del giornale. Risposte di
routine. In realtà non aveva molto da dire, ma tentò di sembrare il più possibile fiducioso.
Per tenere alto il morale.
Cercò il fascicolo Kaye e passò l’ora che seguì a rileggere i documenti relativi al caso.
Alle 11,00 mise via tutto, prese la guida telefonica di Oxford e comuni limitrofi, cercò sotto
la «C» il numero che voleva e chiamò il direttore della Chalkley e Figli, sulla Botley Road.
Non ebbe fortuna. John Sanders quel giorno non si era presentato al lavoro, aveva chiamato
la madre, un brutto raffreddore o qualcosa del genere.
«Che opinione si è fatto di lui?» chiese Morse.
«Bravo ragazzo. Tranquillo, forse un po’ scontroso. Ma di questi tempi lo sono quasi
tutti. Lavora abbastanza bene, credo».
«Bene, mi spiace di averla disturbata, volevo solo fare due chiacchiere con Sanders,
tutto qui».
«Riguardo all’omicidio di Woodstock?».
«Sì. È lui che ha trovato la ragazza, lo sa, vero?».
«Sì. L’ho letto e naturalmente qui tutti hanno cercato di farlo parlare della faccenda».
«Ha detto qualcosa di interessante?».
«Di fatto no. Non sembrava aver voglia di parlarne. È comprensibile, credo».
«Sì. Bene. Di nuovo molte grazie».
«Prego, non c’è di che. Le serve per caso l’indirizzo di casa?».
«No, grazie. Ce l’ho già».
Lewis fu alquanto più fortunato. La signora Jarman era a casa a pulire le scale.
«Ma non capisco, sergente. Sono certa che fossero due ragazze».
Lewis annuì. «Si tratta solo di un semplice controllo».
«Ma come lei sa ho parlato con una di loro e quell’altra povera ragazza… be’, lei sa
tutto… E a me sembrava che fossero più o meno alte uguale; ma è sempre così difficile
ricordare, sa…». Sì, Lewis lo sapeva. La lasciò ai suoi doveri domestici.
Trovò l’autista dell’autobus seduto alla mensa di Gloucester Green a bersi un caffè.
«Una ragazza che è salita sull’autobus? Ma se prima avevate detto due?».
«Sì, lo so. Ma ci è venuto il dubbio che forse era una sola».
«Spiacente. Non mi ricordo. Mi dispiace davvero – ma ormai è passato parecchio
tempo».
«Sì. Non si preoccupi. Come le dicevo, è solo un dubbio. Caso mai le venisse in mente
qualcosa…».
«Si capisce».
George Baker stava lavorando in giardino. «Salve, capo. Ti ho già visto da qualche
parte?».
«Sergente Lewis, della Thames Valley Police».
«Ah, ma certo. Cosa posso fare per lei?».
Lewis gli spiegò il motivo della visita, ma la risposta di George fu solo marginalmente
meno scoraggiante di quelle degli altri.
«Boh, forse poteva essere un ragazzo, ma che mi venga un colpo, capo, io giurerei che
erano tutt’e due donne».
I ricordi cominciavano a impallidire e il caso stava diventando stantio. Lewis andò a
casa a mangiare.
Alle 14,00 fu accompagnato nell’ufficio del direttore dell’officina Garage Barkers sulla
Banbury Road dove trascorse più di un’ora a scorrere sistematicamente le centinaia di
copie carbone di ordinativi, fatture, prenotazioni e tutti gli altri documenti relativi a
riparazioni effettuate durante le settimane del 22 e del 27 di settembre. Non trovò nulla.
Passò un’altra ora controllando fino all’inizio di settembre, sempre più consapevole che era
fatica sprecata. La signorina Jennifer Coleby, che pure era cliente di quel garage, non
portava la macchina a riparare o controllare da luglio. Aveva acquistato l’auto nuova dallo
stesso Barkers più di tre anni prima; rate quasi finite, nessun problema con i pagamenti,
nessun problema meccanico di rilievo. Controllo ai 6.000 chilometri il 14 luglio, con una
sistematina a qualche piccola magagna. 13,55 sterline. Conto saldato il 30 luglio.
Lewis era deluso, ma non sorpreso. Morse era proprio fissato con quella signorina
Coleby. Magari era la volta buona che mollava il colpo? Ma Lewis ne dubitava. Fece due
passi lungo la strada fino all’edicola e comprò il giornale della sera. Un titolo nell’angolo
in fondo a destra della prima pagina catturò la sua attenzione.
OMICIDIO DI WOODSTOCK
A UN PASSO DALLA SOLUZIONE
In seguito a indagini serrate, la polizia è fiduciosa di arrivare presto a identificare
l’assassino di Sylvia Kaye, la ragazza violentata e uccisa che è stata ritrovata la sera del 29
settembre presso il Black Prince di Woodstock. Morse, il capo ispettore della Thames
Valley Police a capo dell’inchiesta, ha detto oggi che svariati testimoni chiave si sono già
fatti avanti: è solo una questione di tempo perché il colpevole venga assicurato alla
giustizia.
Lewis pensò che fosse una bufala.
Se la conduttrice della nota trasmissione radiofonica che chiedeva ai suoi ospiti che
cosa avrebbero portato con sé su un’isola deserta avesse rivolto al fiducioso capo
dell’inchiesta sull’omicidio la fatidica domanda sulla cosa di cui avrebbe sentito meno la
mancanza, Morse avrebbe senza dubbio risposto «Le riunioni». Quella convocata il giovedì
pomeriggio per discutere di pensioni, promozioni e incarichi sembrava estendersi
all’infinito come un deserto arido. Il suo unico contributo era stato una parola di elogio per
l’agente McPherson. Gli era sembrato un valido motivo per abbandonare momentaneamente
il suo solito, caustico mutismo. Quando, alle cinque e cinque, la riunione finalmente si
sciolse, Morse tornò sbadigliando nel suo ufficio e trovò Lewis immerso nella lettura dei
pronostici per la trasferta dell’Oxford United a Blackpool il sabato successivo.
«Ha visto questo, signore?» disse passandogli il giornale e indicandogli il titolo che
annunciava il giorno del giudizio per l’assassino di Woodstock.
Morse lesse l’articolo con compostezza stanca. «Distorcono sempre le dichiarazioni,
questi giornalisti, vero?».
Anche la giornata di Sue Widdowson si trascinava stancamente. La notte prima aveva
provato un bisogno disperato di parlare con Morse. Chissà cosa avrebbe potuto dirgli?
Aveva il telefono rotto? Comunque, alla luce fredda del mattino si era resa conto di quanto
sarebbe stato stupido. Sabato arrivava David per il fine settimana e lei doveva andarlo a
prendere alla stazione alla solita ora. Aveva ricevuto un’altra lettera proprio quel mattino.
Era così gentile e lei gli voleva tanto bene. Ma… No! Doveva assolutamente smetterla di
pensare a Morse. Era un’impresa quasi impossibile. Sandra aveva continuato a farle
domande e il dottor Eyres le aveva dato una pacca sul sedere prendendosi davvero troppa
confidenza. Si sentiva terribilmente, disperatamente infelice.
La signora Amy Sanders era preoccupata per suo figlio. Ormai era più o meno da una
settimana che sembrava svogliato e malaticcio. In passato era capitato che non andasse al
lavoro per un giorno o due, e più di una volta le era toccato metterla giù un po’ dura nel
descrivere alla Chalkley e Figli i sintomi della malattia fittizia che l’aveva
temporaneamente colpito. Ma quel giorno era in ansia per davvero. John aveva vomitato due
volte nel corso della notte e alle sette, quando era andata a chiamarlo, l’aveva trovato
tremante e sudato. Il ragazzo non aveva toccato cibo per tutto il giorno e, ignorando la sua
volontà, alle cinque di pomeriggio la signora Sanders aveva chiamato l’ambulatorio
medico. No, non pensava che fosse urgente, ma sperava vivamente che il dottore potesse
fare un salto a vederlo.
Il campanello suonò alle 19,30 e la signora Sanders aprendo la porta d’ingresso si trovò
davanti un uomo che non aveva mai visto prima. Del resto in quel periodo i medici
cambiavano ambulatorio in continuazione.
«Il signor John Sanders abita qui?».
«Sì. Prego, entri, dottore. Sono così contenta che sia riuscito a passare».
«Non sono un medico, purtroppo. Sono un ispettore di polizia».
Il padrone del Bell a Chipping Norton prese personalmente la prenotazione alle 20,30.
Sfogliò il registro e riprese in mano la cornetta.
«Per domani e sabato sera, giusto?».
«Sì».
«Penso che non ci siano problemi, signore. Una doppia. Vuole una camera con bagno?».
«Sarebbe perfetto. E, per favore, con letto matrimoniale, se possibile. Non riusciamo
proprio a dormire nei letti gemelli».
«Va bene, non c’è problema».
«Temo che non mi sarà possibile confermarle la prenotazione per iscritto».
«Oh, non si preoccupi, signore. Se solo fosse così cortese da darmi il suo nome e
indirizzo».
«Signor John Brown e signora. Hill Top, Eaglesfield (una parola sola), Bristol».
«Benissimo».
«D’accordo. Mia moglie e io saremo lieti di alloggiare presso di voi».
«Spero che la vostra permanenza sarà piacevole, signore».
L’albergatore riattaccò la cornetta e scrisse «signor J. Brown e signora» sul registro
delle prenotazioni. Insieme a sua moglie una volta aveva contato i John Brown che avevano
prenotato una stanza al Bell: solo in un mese ne erano passati sette. Ma non erano problemi
suoi. In ogni caso quell’uomo gli era sembrato molto gentile e colto. Aveva pure una bella
voce: accento delle regioni occidentali, un po’ come lui. E in mezzo al mucchio doveva pur
essercene uno che si chiamava John Brown per davvero.
Capitolo venti
Venerdì, 15 ottobre, mattina

Morse si alzò tardi venerdì mattina. Il Times era già sul pavimento dell’ingresso e una
busta sporgeva in modo precario dalla buca delle lettere. Era il conto di Barkers – nove
sterline e venticinque. Lo infilò dietro l’orologio sulla mensola del camino, dove era in
buona compagnia.
Il motore dell’auto partì al primo, delicato tentativo. Sul sedile posteriore c’era ancora
il bastone e decise di passare dal Radcliffe prima di andare in ufficio. Mentre si univa
all’infinita coda di auto che strisciava lentamente lungo la Woodstock Road tra sé e sé
deliberava il da farsi. Poteva incontrarla per puro caso, naturalmente, com’era successo
l’ultima volta, oppure poteva chiedere di lei. Ma a lei avrebbe fatto piacere? Desiderava
solo poterla vedere ancora una volta e, maledizione, lei era lì. Era la cosa più naturale del
mondo! La notte prima aveva sognato Sue, ma era stato un sogno vago, sfuggente che aveva
finito per restargli conficcato in un angolo della mente. Era lei all’altro capo del telefono
mercoledì notte?
Tagliando il flusso del traffico svoltò per entrare nel cortile del Radcliffe, si fermò in
una zona dove il parcheggio era vietato, bloccò il primo inserviente che gli capitò a tiro, gli
diede il bastone e la ricevuta con cui si era impegnato a restituirlo, e gli disse di pensarci
lui. Polizia!
La strada per uscire da Oxford era libera e, mentre guidava veloce, Morse a tratti se ne
diceva di tutti i colori: avrebbe dovuto entrare, imbecille che non era altro! Sotto sotto
sapeva di non essere affatto un imbecille, ma non per questo si sentiva meglio.
Lewis lo stava aspettando. «Che cos’abbiamo in programma, signore?».
«Pensavo che tra un po’ potremmo fare un bel giretto in autobus, Lewis». Niente meno!
Ma non stava a lui impicciarsi del perché. «Sì, pensavo che potremmo andare insieme a
Woodstock in autobus. Che cosa ne dice?».
«L’auto si è bloccata un’altra volta?».
«No. Va che è una meraviglia. E ci mancherebbe altro. Stamattina mi è arrivato il conto
della maledetta batteria. Provi a indovinare».
«Sei, sette sterline».
«Nove sterline e venticinque!».
Lewis arricciò il naso. «Se fosse andato dall’elettrauto-gommista su a Headington
avrebbe risparmiato. Non ricaricano sulla manodopera. Mi sono sempre trovato molto bene
con loro».
«A sentirla si direbbe che ha in continuazione problemi con l’auto».
«A dire il vero no. Ho solo bucato un paio di volte di recente».
«E non sa cambiarsi una gomma da solo?».
«Be’, sì, certo, non sono mica una vecchietta, sa? Ma bisogna avere la gomma di
scorta».
Morse non lo stava più ad ascoltare. Sentiva il familiare formicolio di sangue gelato
nelle braccia. «Lei è un genio, sergente. Mi passi la guida del telefono. Prenda le pagine
gialle. Eccoci qua… ci sono solo due numeri. Quale proviamo?».
«Perché non cominciare dal primo, signore?».
Pochi secondi dopo Morse era al telefono con Cowley – elettrauto e gommista. «Vorrei
parlare con il responsabile. È urgente. È la polizia». Strizzò l’occhio a Lewis. «’Giorno.
Capo ispettore Morse, della Thames Valley Police… No, no, niente del genere… Ecco,
vorrei solo che guardasse il suo registro per la settimana del 27 settembre… Sì, vorrei
sapere se ha fornito una batteria nuova o se ha sostituito uno pneumatico a una certa
signorina Jennifer Coleby. C-O-L-E-B-Y. Sì, potrebbe essere stato uno qualsiasi tra quei
giorni… probabilmente martedì o mercoledì. Allora mi chiama lei? Per favore, lo faccia
subito. È della massima urgenza. Bene. Ha il mio numero? Bene. A presto». Chiamò il
secondo numero e ripeté il discorsetto. Lewis si mise a sfogliare il fascicolo sul caso di
Sylvia Kaye che giaceva aperto sulla scrivania di Morse. Si fermò sulle fotografie: grandi
riproduzioni patinate in bianco e nero, con una definizione incredibile. Guardò ancora una
volta l’immagine della ragazza abbandonata nel cortile del Black Prince. Era veramente
bella. La camicetta bianca era stata strappata di netto sul lato sinistro e solo l’ultimo dei
quattro bottoni era rimasto chiuso. Il seno sinistro era completamente scoperto e alla mente
di Lewis si presentarono con forza le pose provocanti delle modelle nelle riviste
pornografiche. Guardare quelle fotografie poteva quasi diventare un’esperienza erotica…
ma Lewis ripensò alla nuca di quella testa bionda, al cranio sfracellato crudelmente. Pensò
alla figlia, la sua preferita – aveva tredici anni e ormai aveva una piccola figura graziosa…
Dio, che razza di mondo in cui tirare su dei figli. Sperava e pregava che a lei andasse bene,
e sentì un’urgenza profonda e bruciante di trovare l’uomo che aveva ridotto a quel modo
Sylvia Kaye.
Morse aveva finito.
«Vuole aggiornarmi sulla situazione, signore?».
Morse si appoggiò allo schienale e ci pensò sopra per qualche minuto. «Immagino che
avrei dovuto parlargliene prima, Lewis, ma c’erano un paio di cose di cui non ero ancora
sicuro – be’, non ne sono sicuro neanche ora. Praticamente fin dal primo momento ho
pensato di avere un’idea abbastanza precisa del quadro generale dell’accaduto. Pensavo
fosse questo. Due ragazze cercavano un passaggio per Woodstock e abbiamo prove
abbastanza certe del fatto che l’hanno trovato, in due». Lewis annuì. «Né l’uomo alla guida
dell’auto né l’altra ragazza si erano fatti avanti. La domanda che mi ponevo era ‘Perché?’
Perché queste due persone ci tenevano tanto a non farsi trovare? Una delle due aveva motivi
abbastanza ovvi per tenere la bocca chiusa. Ma perché tutt’e due? A me sembrava alquanto
improbabile che fossero entrambe complici in un’attività criminale. Quindi, che cosa mi
restava? Una possibilità molto concreta, per come la vedevo io, che i due si conoscessero.
Ma per qualche motivo non mi sembrava una spiegazione sufficiente. La maggior parte della
gente non occulta prove e di sicuro non s’imbarca in bugie complicate solo per nascondere
che si conoscono. Ma se quei due avevano la coscienza sporca, questo sarebbe stato un
buon motivo per voler tenere segreta la cosa, no? E se la coscienza sporca fosse dovuta al
fatto che loro si conoscevano un po’ troppo bene? E se – per non girare intorno alla
questione – quei due fossero stati amanti? Non sarebbe stata una bella situazione per loro,
vero? Con un assassinio sullo sfondo, poi, una brutta situazione per davvero». Lewis
sperava che Morse proseguisse nella spiegazione. «Ma torniamo indietro un momento. A
prima vista gli indizi da subito suggerivano che l’incontro tra le due ragazze e l’uomo che
diede loro il passaggio fosse del tutto accidentale. La testimonianza della signora Jarman è
chiarissima in proposito. Ora, con un sacco di fatica inutile, abbiamo scoperto che l’uomo
alla guida dell’auto era Crowther. Nella sua testimonianza ha ammesso che aveva una storia
con un’altra donna e che il luogo prescelto per queste divagazioni extramatrimoniali era
Blenheim Park. Inoltre, sempre in base alla sua deposizione, la sera di mercoledì 29
settembre stava andando a incontrare la sua amante. A quel punto ho fatto un salto nel buio.
E se la sua amante fosse stata una delle due ragazze cui aveva dato un passaggio?».
«Ma…» cominciò a dire Lewis.
«Non mi interrompa, Lewis. Ora, forse che l’amante era Sylvia Kaye? Non credo.
Sappiamo che il 29 settembre il signor John Sanders aveva un appuntamento, per quanto
vago, con lei. Non che questo provi granché in un senso o nell’altro, ma Sylvia è la
candidata più improbabile tra le due. Quindi, non resta che l’altra ragazza – la signorina o
signora X. In base alla testimonianza della signora Jarman è evidente che la signorina X
sembrava ansiosa ed eccitata, e penso che nessuno possa essere troppo ansioso o eccitato
all’idea di andare a Woodstock a meno che non abbia un appuntamento, anzi, un
appuntamento importante, e poco tempo a disposizione. Crowther ha detto un’ora al
massimo, vero?».
«Ma…» Lewis provò a intervenire, ma subito ci ripensò.
«Dalla testimonianza della signora Jarman siamo anche venuti a sapere che Sylvia
conosceva l’altra ragazza. C’era quella frase sul farsi quattro risate sopra il mattino dopo.
Così abbiamo preso in considerazione l’ufficio in cui Sylvia lavorava e abbiamo trovato
una lettera stranissima, inspiegabile, indirizzata alla signorina Jennifer Coleby, che è
diventata la candidata numero uno per il ruolo di signorina X. Ammetto che la lettera non
costituiva una prova decisiva, ma era un indizio che valeva la pena seguire. È una ragazza
sveglia, la nostra Jennifer. Aveva due bastoni da metterci tra le ruote. Innanzi tutto sembra
che quella sera fosse in un pub al di qua di Woodstock, invece che a Blenheim Park. In
secondo luogo – e questo per me era un problema, e lo è ancora – perché mai uno dovrebbe
prendere l’autobus per andare a Woodstock, o chiedere un passaggio, se possiede una
macchina? E lei, come sappiamo, la possiede. Sembra un’obiezione insuperabile. Ma lo è
veramente? Mercoledì mattina la mia auto non partiva perché la batteria era scarica. Lei ha
detto che, nell’ultimo periodo, le è capitato di bucare e di non aver potuto sostituire subito
la ruota. Ha aggiunto anche di non essere una vecchietta. Ora, Jennifer Coleby non è una
vecchietta – ma è una donna. E se avesse scoperto che la macchina non partiva? Che cosa
avrebbe potuto fare? Avrebbe chiamato il garage. È una cosa ovvia, di qui la sua spedizione
da Barkers che, come sappiamo, è finita in niente. Ma questa mattina mi si è accesa una
lampadina. Mi è arrivato il conto per la batteria e poi lei ha tirato fuori l’elettrauto-
gommista. La vera domanda è: quand’è che Jennifer Coleby ha scoperto che l’auto non
andava? Certo non prima di essere tornata dal lavoro, verso le 17,30. Di questi tempi non
sono molti i garage che garantiscono un pronto intervento a quell’ora: gli operai sono già
andati a casa. Ma una piccola impresa di elettrauto-gommista non fa orari sindacali, mi sono
detto, e valeva la pena provarci. Devo presumere che Jennifer non abbia trovato nessuno
che le sistemasse l’auto quella sera – non perché fosse impossibile, ma perché non ce
l’avrebbero fatta in tempo . Lei potrebbe aver scoperto il problema anche verso le 18,15 o
le 18,30. Ma penso che abbia provato a farsela sistemare, e che non ci sia riuscita. Be’, che
cosa poteva fare? Naturalmente poteva prendere l’autobus. Era la prima volta che provava
ad andare a Woodstock con i mezzi, ma spesso le era capitato di vedere gli autobus che
andavano in quella direzione e per questo motivo credo che fosse Jennifer la ragazza che è
stata vista alla fermata la sera in cui Sylvia Kaye è stata uccisa. Ha incontrato una compagna
di viaggio impaziente, e insieme hanno deciso di fare l’autostop. Arrivano fin oltre lo
svincolo e si ferma una macchina: quella di Crowther. Non si può dire che sia una
coincidenza, no? Anche lui deve arrivare a Woodstock e arrivarci più o meno alla stessa
ora in cui deve esserci Jennifer. Se l’abbia riconosciuta (si stava facendo piuttosto buio)
non lo so proprio. Però sospetto di sì». Morse si fermò.
«E dopo che cosa è successo secondo lei, signore?».
«Crowther ci ha detto quello che è successo durante il viaggio».
«Lei gli crede?».
Morse sedeva pensieroso e non rispose subito. Squillò il telefono. «No» disse Morse.
«Non gli credo». Lewis guardò l’ispettore. Non riusciva a sentire quel che diceva la
persona all’altro capo del telefono. Morse ascoltava impassibile.
«Molte grazie» disse alla fine. «A che ora potrebbe andarle bene? D’accordo. Grazie».
Abbassò la cornetta e Lewis lo guardò incuriosito.
«Allora, signore?».
«Gliel’ho detto, Lewis, lei è un genio».
«La sua macchina era veramente in panne?».
Morse annuì. «La signorina Jennifer Coleby ha telefonato alla Cowley Pneumatici e
Batterie & Co. alle sei e un quarto del pomeriggio di mercoledì 29 settembre. Ha detto che
era urgente – una gomma anteriore del tutto a terra. Avrebbero potuto essere da lei verso le
sette e lei ha detto che era troppo tardi».
«Abbiamo fatto progressi, signore».
«Può ben dirlo. E adesso, che cosa mi dice di quel giretto in autobus?».
I due presero il 4A delle 11,35 diretto a Woodstock. Era mezzo vuoto e si sedettero
davanti al piano superiore. Morse era taciturno e Lewis rimuginava gli strani sviluppi del
caso. L’autobus viaggiava abbastanza spedito e fece solo quattro fermate prima di
Woodstock. Alla terza Morse diede una gomitata nelle costole a Lewis che guardò fuori per
vedere dove fossero arrivati. L’autobus aveva accostato in una piazzola stretta appena fuori
Begbroke, presso un grande edificio dal tetto in paglia con un giardino affollato di sedie e
tavolini disposti sotto ombrelloni a strisce dai colori vivaci. Lewis inclinò la testa verso il
bordo inferiore del finestrino per riuscire a leggere l’insegna del pub e lesse le due parole
«Golden Rose».
«Interessante?» chiese Morse.
«Molto» rispose Lewis. Pensò che avrebbe pure potuto dire qualcosa di più.
Scesero a Woodstock e Morse fece strada. «Pronto per una birra, sergente?».
Entrarono nella sala cocktail del Black Prince. «Buon giorno, signora McFee. Immagino
che non si ricordi di me».
«Me ne ricordo molto bene, ispettore».
«Che memoria!» disse Morse.
«Che cosa posso offrirvi, signori?». Era evidente che non si stava divertendo.
«Due boccali della rossa migliore che ha, per favore».
«Siete qui per lavoro?». Il fastidio per il modo di fare di Morse non bastava a soffocare
la sua curiosità naturale.
«No, no. Solo una visita amichevole per poterla ammirare ancora una volta». Il capo è
di buon umore quest’oggi, si disse Lewis.
«Ho letto sul giornale che sperate di…» non riusciva a trovare le parole.
«Stiamo facendo progressi, non è vero sergente?».
«Ah sì» disse Lewis. Dopo tutto lui era parte attiva di quelle indagini serrate.
«Non le danno mai qualche ora di permesso?» chiese Morse.
«A dire la verità sono molto carini». Si stava addolcendo un poco nei suoi confronti; era
sempre piacevole quando qualcuno le faceva notare che era una gran lavoratrice. «Sono
libera questa sera e tutto sabato e domenica».
«E dove andiamo di bello?». Beata lei, pensò Lewis.
La barista fece un sorriso professionale. «Lei che cosa suggerisce, ispettore?».
Morse prese il menù e lo studiò attentamente.
«Come si mangia qui?» chiese Morse.
«Perché non lo verifica di persona?».
Morse sembrò valutare la possibilità, ma alla fine chiese se c’era un buon chiosco di
fish and chips nelle vicinanze. Non ce n’erano. Nel frattempo erano entrati molti avventori e
i poliziotti uscirono dalla porta laterale ed entrarono nel cortile. Alla loro destra era
accucciata un’auto priva di entrambe le ruote davanti. Sotto la macchina, adeguatamente
protetto dal grasso e dall’olio e con in mano un’enorme chiave inglese, era sdraiato il
direttore del Black Prince, con accanto la cassetta degli attrezzi in cui, fino a non molto
tempo prima, era riposta una lunga e pesante chiave a occhio.
Senza che Morse e Lewis, già diretti verso l’uscita, lo notassero, un giovane uomo era
entrato nel bar e aveva ordinato un’acqua tonica. A quanto pareva il signor John Sanders si
era rimesso dai suoi attacchi di febbre e brividi quanto bastava per tornare a godersi la vita
sociale di Woodstock, anche se non abbastanza da riprendere servizio presso la Chalkley e
Figli.
Durante il viaggio di ritorno, Morse sprofondò nella lettura degli orari degli autobus
nelle Midland Counties e di una cartina di North Oxford. Di tanto in tanto guardava
l’orologio e scriveva una nota veloce in un quadernetto. Lewis aveva fame. Che peccato non
aver trovato il chiosco di fish and chips.
Capitolo ventuno
Venerdì, 15 ottobre, pomeriggio

Una busta gonfia con la scritta «Riservato» arrivò sulla scrivania di Morse alle 15,30 di
quel pomeriggio «Da parte del preside». Avevano svolto un lavoro accurato e completo,
questo era evidente. A quanto pareva, c’erano novantatré macchine per scrivere al Lonsdale
College. Per la maggior parte erano di proprietà del college ed erano distribuite in varia
misura nelle stanze dei docenti; più di una ventina erano proprietà personale dei membri del
college. Novantatré fogli, tutti numerati, erano ordinatamente impilati e bloccati da un
grosso fermaglio. Altri due fogli graffati insieme fornivano la legenda dei campioni
dattiloscritti e, come era giusto, al numero 1 si trovava la macchina per scrivere del preside.
Morse sfogliò il blocco. Si trattava di una faccenda più impegnativa di quanto avesse
immaginato e chiamò in aiuto i ragazzi del laboratorio. Gli dissero che ci sarebbe voluta
un’oretta.
Lewis aveva trascorso gran parte del pomeriggio a battere i suoi rapporti e non si fece
vedere nell’ufficio di Morse fino alle 16,15.
«Sperava in un weekend libero, Lewis?».
«No, se c’è qualcosa che posso fare per lei, signore».
«Temo proprio che avremo parecchie cose da fare. Penso che sia ora di organizzare un
piccolo confronto, non le pare?».
«Un confronto?».
«Sì. Un piccolo, simpatico confronto tra una certa signorina Coleby e un certo signor
Crowther. Che cosa ne dice?».
«Potrebbe chiarire un po’ la situazione».
«Sì. Pensa che questa vecchia baracca sarà in grado di fornirci quattro tazze di caffè
domani mattina?».
«Vuole che ci sia anch’io?».
«Siamo una squadra, Lewis, vecchio mio. Mi sembra di averglielo già detto».
Morse chiamò la Town and Gown e chiese del signor Palmer.
«Chi devo dire che lo desidera?».
Era la compassata, piccola Judith.
«Il signor Sgobbo» disse Morse.
«Attenda in linea prego, ora glielo passo».
«Non penso di aver capito il suo nome. È Palmer che parla».
«Morse, l’ispettore Morse».
«Ah, buongiorno ispettore!». Stupida ragazza!
«Vorrei parlare un attimo con la signorina Coleby. In via confidenziale. Mi chiedevo
se…».
Palmer lo interruppe. «Mi dispiace moltissimo, ispettore. Oggi pomeriggio non è qui.
Voleva trascorrere un weekend lungo a Londra e… be’, ogni tanto bisogna dimostrare un
po’ di flessibilità, capisce. A volte contribuisce, ehm, al buon andamento delle cose…».
«A Londra, mi diceva?».
«Sì. Ha detto che avrebbe trascorso il fine settimana da certi suoi amici. Ha preso il
treno di mezzogiorno».
«Ha lasciato un recapito?».
«Mi dispiace, penso di no. Potrei provare a ehm…».
«No, non si preoccupi».
«Vuol lasciare un messaggio?».
«No. La contatterò al suo ritorno». Forse avrebbe potuto rivedere Sue… «A proposito,
quand’è che ritorna?».
«Non so di preciso, ma direi domenica sera».
«Va bene. Allora la ringrazio».
«Mi dispiace di non aver potuto…».
«Non è colpa sua». Morse riattaccò la cornetta con ancor meno cortesia del solito.
«Una delle nostre prede ci è sfuggita, Lewis». Rivolse la sua attenzione a Bernard
Crowther e decise di provare prima al college.
«Portineria».
«Può passarmi l’ufficio del professor Crowther, per favore?».
«Solo un momento, signore». Morse tamburellava sulla scrivania. Forza!
«È ancora in linea, signore?».
«Sì, sono ancora qui».
«Mi spiace, ma non risponde nessuno».
«Era al college oggi pomeriggio?».
«L’ho visto questa mattina, signore. Un minuto». Tre minuti dopo Morse si stava
chiedendo se il maledetto portinaio non fosse andato a fare una passeggiata in cortile.
«È ancora in linea, signore?».
«Sì. Sono sempre qui».
«È da qualche parte fuori città, signore, per il fine settimana. Ci deve essere un
congresso».
«Non sa quando rientra?».
«Mi dispiace, signore. Vuole che le passi l’amministrazione?».
«No, non si preoccupi, riproverò un’altra volta».
«Grazie, signore».
Morse tenne il telefono in mano per qualche secondo e alla fine abbassò la cornetta con
la massima delicatezza. «Vorrei sapere. Vorrei sapere…». Era perso nei suoi pensieri.
«A quanto pare entrambe le nostre prede ci sono sfuggite, signore».
«Mi chiedo se quel congresso si tenga a Londra».
«Non penserà che…?».
«Non so che cosa pensare» disse Morse.
E non seppe che cosa pensare neanche mezz’ora dopo, quando lo chiamarono per
comunicargli gli esiti del laboratorio. Lewis osservò la curiosa reazione dell’ispettore.
«Siete sicuri?... Ne siete proprio sicuri? Sì. Bene. Mille grazie. Li portate su voi?
Ottimo. Grazie».
«Bene, Lewis, ho una sorpresa per lei».
«Circa quella lettera?».
«Sì. Circa quella lettera – la lettera che qualcuno ha scritto alla giovane signorina che
attualmente è in visita da ‘certi amici’ a Londra. Dicono di aver scoperto quale macchina
per scrivere è stata usata».
«E qual era, signore?».
«È proprio ciò che mi lascia perplesso. La macchina è quella di un certo Peter
Newlove. Mai sentito nominare».
«E chi è?».
«È ora di scoprirlo». Chiamò il Lonsdale College per la seconda volta in quel
pomeriggio e trovò lo stesso portinaio che cercava informazioni al rallentatore.
«Il professor Newlove, signore? No, temo che non si trovi all’interno del College. Mi
lasci controllare il registro… No, signore. Starà via fino a lunedì. Vuole lasciare un
messaggio? No? Va bene. Arrivederci, signore».
«Bene. È tutto» disse Morse. «Tutte le nostre prede ci sono sfuggite. E non vedo alcun
motivo di restarcene qui. Lei che cosa ne dice, Lewis?». Lewis era d’accordo.
«Facciamo un po’ di ordine» disse Morse.
Lewis raccolse i fogli dalla sua parte del tavolo – le fotografie di Sylvia Kaye e le
cartine accurate del cortile del Black Prince, su cui era annotato con grafia piccola e
filiforme tutto quello che vi era stato trovato – e provò un bisogno paterno e protettivo di
coprire la brutale nudità di quel bellissimo corpo.
«Vorrei proprio beccare il bastardo che ha fatto questo» borbottò.
«Quella che cos’è?» disse Morse prendendogli una fotografia dalle mani.
«Dev’essere un maniaco sessuale, non crede, signore? Strapparle i vestiti in quel modo
e lasciarla in mostra sotto gli occhi di tutti. Dio, come vorrei sapere chi è!».
«Ah. Non penso che sia una cosa molto difficile» disse Morse.
Lewis lo guardò incredulo. «Intende dire che lei lo sa?».
Morse annuì con lentezza, e mise via il fascicolo sul caso Kaye.
Terza parte
In cerca di un assassino
Capitolo ventidue
Domenica, 17 ottobre

Domenica Sue accompagnò alla stazione David che doveva prendere il treno delle
19,13 per Birmingham. Gli disse che era stato un fine settimana meraviglioso, ed era la
verità. Sabato erano andati al cinema, avevano fatto una cenetta deliziosa in un ristorante
cinese e in generale si erano goduti la compagnia l’uno dell’altra. Avevano trascorso gran
parte della domenica a Headington, a casa dei genitori di David, persone piacevoli e
affettuose che avevano avuto abbastanza buon senso da lasciare i due innamorati soli per
quasi tutto il tempo. Progettavano di sposarsi nel corso dell’autunno, quando David avrebbe
finito il suo anno di postdottorato in metallurgia presso l’università di Warwick. Lui
sperava di ottenere un insegnamento da qualche parte (si era laureato con ottimi voti) e Sue
lo incoraggiava: avrebbe preferito sposare un docente piuttosto che un ingegnere
metallurgico o quel che era. Se c’era qualcosa in David che non riusciva proprio ad
approvare era la scelta di studiare metallurgia. Era un’antipatia che risaliva ai giorni della
scuola e al fastidio che aveva sempre provato in mezzo agli odori e alle scaglie argentate
del laboratorio di scienze. C’entravano anche le mani delle persone che lavoravano con i
metalli, con quella specie di sporcizia che non veniva mai via, a dispetto della pazienza con
cui se le lavavano e rilavavano.
Il treno restò fermo alla stazione di Oxford per parecchi minuti e mentre David si
sporgeva fuori dal finestrino Sue lo baciò appassionatamente, come se fossero stati soli.
«È stato bello vederti di nuovo, tesoro» disse David.
«Sì, è stato fantastico».
«Sei stata bene, vero?».
«Certo che sì». Rise allegramente. «Perché me lo chiedi?».
David sorrise. «È solo che è bello sentirselo dire, tutto qui». Si baciarono ancora e Sue
lo accompagnò per un breve tratto mentre il treno si metteva in movimento.
«Ci vediamo tra due settimane. Non dimenticarti di scrivermi».
«Non me ne dimenticherò» disse Sue. «Ciao». Lo salutò con la mano e restò a guardare
il treno che lasciava la banchina e curvava diretto a nord, con la luce posteriore rossa che
sobbalzava e pulsava nell’oscurità sempre più fitta. Sue ripercorse il binario, scese nel
sottopassaggio e risalì dall’altra parte all’altezza dell’uscita. Consegnò il biglietto per
l’accesso ai binari e s’incamminò verso Carfax. Lì dovette aspettare mezz’ora prima che
arrivasse l’autobus numero 2 ed erano già le otto quando scese a North Oxford. Attraversò
la strada e con la testa china percorse la Charlton Road ripensando agli ultimi due giorni.
Non avrebbe mai potuto parlare a David di mercoledì sera. D’altra parte non c’era niente da
dire, no? Solo un piccolo peccatuccio. Pensava che capitasse a molti – anche alle persone
fidanzate – di avere un attimo di follia e certe cose proprio non si potevano dire. Non che
David si sarebbe ingelosito, non era proprio il tipo: il suo David era mite, equanime,
equilibrato. Forse non le sarebbe dispiaciuto che fosse un pochino geloso. Ma sapeva, o
pensava di sapere, che non lo era. Sue riconosceva la gelosia a un chilometro di distanza.
Pensò a Morse. Era stata veramente perfida allo Sheridan con il dottor Eyres, e Morse si era
ingelosito – di una gelosia rabbiosa, furente. Si era segretamente divertita a farlo ingelosire,
finché… Be’, non aveva nessuna intenzione di pensarci… Ma per David non aveva mai
pianto. Si chiese se Morse le avesse creduto, quando mercoledì sera gli aveva detto che si
sarebbe addormentata piangendo. Sperava di sì, perché era vero. Ecco che riattaccava,
partiva da David e finiva con lui. Lui probabilmente ci aveva messo una pietra sopra…
David! Era il suo uomo. Una volta sposata con David sarebbe stata finalmente felice. Il
matrimonio. Un passo importante, lo dicevano tutti. Ma ormai lei aveva ventitré anni…
Sperava che Morse avesse pensato un poco a lei… Dimenticatelo!
Ma non le fu concesso di dimenticarlo. Mentre si avvicinava a casa sua notò la Lancia
parcheggiata all’esterno. Il cuore prese a sbatterle contro le costole e sentì un’involontaria
ondata di gioia. Entrò e andò diretta in soggiorno. Lui era lì, seduto a parlare con Mary. Al
suo ingresso, si alzò in piedi.
«Salve».
«Salve» rispose lei debolmente.
«In realtà ero venuto a trovare la signorina Coleby, ma a quanto pare potrebbe rientrare
tardi. Così ho fatto quattro chiacchiere con la simpatica signorina Mary».
Buona, quella! Rotondetta, lentigginosa, piccola mangiatrice di uomini! Perché non
sparisci, Mary? Perché non ci lasci da soli per qualche minuto? Ti prego! Si sentiva
ferocemente gelosa. Ma Mary sembrava molto presa dall’affascinante ispettore e non dava
segno di volersi ritirare. Sue, con ancora indosso il soprabito leggero, si sedette sul
bracciolo di una poltrona cercando di resistere all’ondata di disperazione che minacciava di
travolgerla.
Sentì la propria voce dire: «Credo che prenderà il treno delle 20,15 da Paddington.
Probabilmente sarà qui per le dieci».
Cioè due ore dopo. Due ore piene. Se solo Mary se ne fosse andata! Lui avrebbe potuto
invitarla a bere qualcosa e avrebbero potuto parlare. Ma la disperazione prese il
sopravvento e fu Sue ad andarsene salendo di corsa le scale. Quando Sue lasciò la stanza
Morse si alzò e ringraziò Mary per l’ospitalità. Ma mentre stava per aprire la porta
d’ingresso si voltò indietro. Mary poteva essere così gentile da chiedere a Sue di scendere
un minuto? Avrebbe voluto scambiare due parole con lei. Anche Mary sparì al piano di
sopra e per fortuna abbandonò definitivamente il campo. Morse uscì sul vialetto in cemento
e Sue apparve sulla soglia, incorniciata dalla porta. Si fermò lì.
«Volevi dirmi qualcosa, ispettore?».
«Qual è la tua stanza, Sue?». Lei lo raggiunse e si fermò accanto a lui. Alzò la mano a
indicare la finestra immediatamente sopra la porta d’ingresso e il suo braccio sfiorò quello
di Morse, che sentì una fitta pungente alle tempie. Non era un uomo molto alto e Sue, che
indossava scarpe con una zeppa vertiginosa, era alta quasi quanto lui. Abbassò il braccio e
le loro mani s’incontrarono in un modo casuale e bellissimo. Lascia lì la tua mano, Sue.
Lasciala lì, tesoro mio. Morse sentì l’elettricità del contatto e delicatamente, dolcemente
fece scorrere le punte delle dita sul polso di lei.
«Perché volevi saperlo?». La sua voce era roca.
«Non lo so. Forse perché così se passo di qui e vedo una luce alla tua finestra, so che lì
ci sei tu». Sue non poté resistere oltre. Allontanò la mano da quella di lui e si girò. «Sei
venuto per parlare con Jennifer, allora?».
«Sì».
«Glielo dirò, naturalmente – non appena rientra». Morse annuì.
«Pensi che c’entri qualcosa con quella faccenda di Woodstock, non è vero?».
«Qualcosa, forse».
Restarono in silenzio per un po’. Sue indossava un abito senza maniche e si sforzava di
non tremare.
«Bene, è meglio che vada».
«Allora buona notte». Morse si diresse verso il cancello e l’aveva quasi raggiunto
quando si girò di nuovo. «Sue». Lei si era fermata sulla soglia.
«Sì?».
Morse tornò indietro. «Sue, che cosa ne diresti di uscire con me, solo per pochi minuti».
«Oh…» Sue non poté finire la risposta. Gli gettò le braccia intorno al collo e pianse di
gioia sulla sua spalla. Nessuno dei due sentì il cancello che si apriva.
«Permesso, scusatemi» disse una voce fredda e bene impostata, e Jennifer li superò per
entrare in casa.
Anche altri viaggiatori stavano rientrando a Oxford. Bernard Crowther era tornato da
Londra sullo stesso treno di Jennifer Coleby, ma avevano viaggiato in carrozze diverse e
nessuno che li avesse visti arrivare al binario 2 avrebbe potuto avere il benché minimo
sospetto che fossero consapevoli dell’esistenza l’uno dell’altra.
Più o meno a quell’ora, in Church Street, a Woodstock, Peter Newlove stava prendendo
congedo da una donna raggiante dai capelli rossi. Si baciarono un’altra volta con avidità ed
evidente insaziabilità.
«Ti chiamo presto, Gaye».
«Sì, ti prego, e grazie ancora».
Era stato un fine settimana dispendioso, anzi molto dispendioso. Ma, secondo Peter, ne
era valsa la pena quasi al cento per cento.
Capitolo ventitré
Lunedì, 18 ottobre

Lunedì mattina Morse aveva deciso che, anche se era molto imbarazzante, gli toccava
farlo. Ma quanto lo temeva! Era il momento decisivo, quello che avrebbe risolto il caso (ne
era abbastanza convinto), eppure si sentiva come se il colpevole fosse lui. Lewis andò a
prendere Jennifer Coleby con la sua macchina privata. Morse pensava di poterle ancora
risparmiare l’apparato dell’ufficialità. Bernard Crowther disse che sarebbe venuto da solo,
se per loro andava bene. Nessun problema. Morse aveva cercato di pensare al modo
migliore per impostare l’incontro, ma negli ultimi tempi la sua capacità di concentrazione
era diventata molto labile. Decise di lasciare che le cose andassero come volevano.
Alle 10,25 del mattino arrivò Crowther, con cinque minuti di anticipo, e Morse gli versò
un caffè buttando lì qualche domanda casuale sul «congresso».
«Oh, le solite cose. Una noia mortale» disse Crowther.
«Esattamente qual era il tema del congresso?».
«Le ammissioni all’università. Era in discussione il requisito della votazione alta alle
superiori. Non godiamo di grande popolarità presso le autorità scolastiche, capisce.
Pensano che Oxford sia l’ultimo bastione dell’elitismo universitario. In realtà, secondo me
si tratta solo di…», ma non ebbe la possibilità di approfondire l’argomento. Lewis entrò
seguito da Jennifer Coleby e Crowther si alzò in piedi.
«Voi due vi conoscete?» chiese Morse. Non c’era neanche un’ombra d’ironia nella sua
voce. Stranamente, o almeno parve strano a Morse, Jennifer e Crowther si strinsero la mano.
Si scambiarono dei «Buongiorno» e Morse, preso un poco alla sprovvista, versò altri due
caffè.
«Voi due vi conoscete, no?». Non sembrava molto sicuro di sé.
«Abitiamo molto vicini l’uno all’altro, non è vero, signor Crowther?».
«Sì, certo. L’ho vista spesso sull’autobus. Lei è la signorina Coleby, se non sbaglio. È
passata da noi per la Società di Protezione dell’Infanzia».
Jennifer annuì.
Morse si alzò e fece girare la zuccheriera. Sentiva che gli era impossibile restare seduto
e fermo.
Nei minuti che seguirono Lewis finì per domandarsi se l’ispettore non avesse
completamente perso il suo smalto. Non faceva che dire «Uhm» e «Ah» e «A dire la verità»,
e alla fine riuscì a suggerire ai suoi due indiziati principali, quasi scusandosi, che forse
erano amanti.
Jennifer per poco non scoppiò a ridere e Bernard sorrise timidamente. Fu Bernard a
parlare per primo. «Le posso assicurare che mi sento molto lusingato, ispettore, e che
magari mi piacerebbe molto avere una qualche relazione segreta con la signorina Coleby.
Ma temo che la risposta sia no. Che altro posso dirle?».
«Signorina Coleby?».
«Penso di aver parlato al signor Crowther due volte in vita mia, per chiedergli di fare
una donazione alla SPI. A volte lo vedo sull’autobus che va in città – saliamo e scendiamo
alle stesse fermate. Ma, se non mi sbaglio, lui sale sempre al piano superiore e io non lo
faccio mai perché odio la puzza di fumo».
Morse, che stava fumando la sua terza sigaretta, si ritrovò un’altra volta a pensare che
con Jennifer Coleby non gliene andava bene una. Si rivolse a Crowther.
«C’è una cosa che devo chiederle, signor Crowther. La prego di pensarci bene prima di
rispondere, e le ricordo che lei si trova qui in relazione a un omicidio, l’assassinio della
ragazza che ha viaggiato in macchina con lei». Morse vide che sul viso di Jennifer si
dipingeva un’espressione sorpresa. «La qui presente signorina Coleby è una delle due
ragazze cui lei diede un passaggio quella sera?».
Crowther rispose con un’immediatezza e una convinzione che addolorarono
profondamente Morse. «No, ispettore, non era lei. Di questo può essere sicuro al cento per
cento».
«E lei, signorina Coleby, nega di essere salita sull’auto di Crowther insieme a Sylvia
Kaye?».
«Sì, lo nego assolutamente».
Morse trangugiò il suo caffè.
«Non vuole che firmiamo qualcosa, ispettore?». Jennifer aveva un’espressione
decisamente sarcastica.
Morse scosse la testa. «No, il sergente Lewis ha preso nota delle vostre risposte.
Un’ultima domanda, signorina Coleby, se non le dispiace. Potrebbe darci l’indirizzo degli
amici che l’hanno ospitata a Londra durante il fine settimana?».
Jennifer estrasse una busta bianca dalla borsa e annotò un indirizzo in Lancaster
Gardens. Prima di consegnarla a Morse ci ripensò e aggiunse anche il numero di telefono.
«Mentono entrambi» disse Morse quando se ne furono andati.
Crowther doveva recarsi in centro a Oxford e, cavallerescamente, aveva offerto un
passaggio alla sua co-indiziata. Morse si chiese di che cosa avrebbero parlato. Lewis non
diceva niente.
«Mi ha sentito?». Morse era arrabbiato.
«Sì, signore».
«Ho detto che sono una coppia di bugiardi in piena regola, BUGIARDI». Lewis rimase
in silenzio. Pensava che l’ispettore avesse torto. Gli era capitato di interrogare dei bugiardi
ed era fermamente convinto che sia Crowther sia la Coleby avessero detto la pura e
semplice verità.
Morse guardò dritto in faccia il sergente. «Coraggio. Sputi l’osso!».
«Che cosa intende dire, signore?».
«Che cosa intendo dire? Lo sa cosa intendo dire. Lei pensa che io stia dando fuori di
matto, non è così? Lei pensa che io abbia perso la trebisonda. Lei è disposto a credere a
chiunque passi di qui, ma non crede a me. Coraggio. Me lo dica! Voglio sentirmelo dire».
Lewis era sconvolto. Non sapeva come reagire e Morse stava perdendo gli ultimi
brandelli di autocontrollo, gli occhi che mandavano lampi e una voce sempre più cattiva e
tagliente. «Coraggio. Me lo dica. Ha sentito quel che ho detto. Voglio sentirglielo dire!».
Lewis gli lesse negli occhi l’amarezza del fallimento. Avrebbe voluto indorare la
pillola, ma non poteva. Era stata quella la qualità che fin dal primo momento gli aveva reso
Morse simpatico: la sua integrità e l’onestà di fondo.
«Penso che lei si sbagli, signore». Gli era costato fatica dirlo, ma l’aveva detto, e non si
meritava la violenta reazione dell’ispettore.
«Lei pensa che io mi sbagli? Be’, lasci che le dica una cosa, Lewis. Se c’è qualcuno che
si sbaglia qui, non sono io, è lei. Lo capisce? LEI – non io. Se lei non ha abbastanza
cervello da capire che quelle due anguille viscide mentono, mentono per salvarsi la pelle,
lei non ha diritto di lavorare al caso. Mi ha sentito? Lei non dovrebbe lavorare a questo
caso».
Lewis si sentì profondamente offeso, ma non per se stesso. «Forse dovrebbe scegliersi
qualcun altro. Per lavorare al caso, intendo».
«Forse lei ha ragione». Morse si stava calmando un poco e Lewis lo notò.
«C’è questo Newlove, signore… Non dovremmo…».
«Newlove? Chi diavolo è?». Lewis aveva detto la cosa sbagliata e la rabbia e la
frustrazione appena sopite di nuovo consumarono Morse come una febbre. «Newlove? E chi
cavolo ne ha mai sentito parlare? Possiede una macchina per scrivere, d’accordo. Non è un
peccato mortale, le pare? Non ha scritto lui quella lettera. L'HA SCRITTA CROWTHER! E
sei lei non ha capito questo, è segno che è stupido come una capra!».
«Ma non pensa che…».
«Oh, si tolga dai piedi, Lewis. Lei mi sta annoiando».
«Significa che mi solleva dall’incarico, signore?».
«Non lo so. Non m’importa. Vada fuori dai piedi, mi lasci in pace e basta». Lewis uscì
e lo lasciò in pace.
Pochi minuti dopo squillò il telefono. Morse alzò la cornetta e chiuse la propria mente a
tutto. «Non ci sono» sbottò «sono andato a casa». Sbattè giù il telefono e cominciò a
recriminare furiosamente tra sé e sé. Si scordò persino di Sue. Anche l’ultimo dei suoi
castelli di sabbia alla fine era crollato. Dopo aver resistito alle acque così a lungo, adesso
non era altro che un mucchio informe di fango. Ma proprio in quel momento una strana
chiarezza cominciò a pervadere la mente di Morse. Si alzò dalla poltrona di cuoio, andò
verso l’archivio e ne estrasse il fascicolo di Sylvia Kaye. Lo aprì alle prime pagine ed era
ancora immerso nella lettura nel tardo pomeriggio, quando le ombre si insinuarono nella
stanza e leggere diventò sempre più faticoso, e un nuovo, orripilante pensiero cominciò a
prendere forma nella sua mente torturata.
La tragica notizia arrivò alle sette e un quarto. Margaret Crowther si era suicidata.
Capitolo ventiquattro
Lunedì, 18 ottobre

Dopo aver lasciato Jennifer Coleby sulla High Street, Bernard Crowther aveva avuto la
fortuna di trovare parcheggio nella Bear Lane. Ormai non era più permesso neanche ai
docenti di parcheggiare davanti al college. Aveva pranzato nelle Sale riservate ai professori
e aveva lavorato per tutto il pomeriggio. I ragazzi erano andati per una settimana in
campeggio con la scuola a Whitham Woods. In tali occasioni era consuetudine che i genitori
andassero a trovare i figli una sera della settimana, ma i giovani Crowther avevano detto
che non ce n’era bisogno, e così era stato. Quantomeno Bernard e Margaret avrebbero avuto
la possibilità di fare qualche pasto decente, senza le onnipresenti patatine e il ketchup
versato su qualsiasi cosa.
Bernard uscì dal college verso le sei e venti. Il traffico stava già diminuendo e il viaggio
verso casa fu scorrevole. Aprì la porta con la sua Yale e appese il cappotto. Che strano
odore. Gas?
«Margaret?». Andò a lasciare la valigetta nello studio. «Margaret?». Si diresse verso la
cucina, e vide che la porta era chiusa. «Margaret!». Provò la maniglia, ma era chiuso a
chiave dall’interno. Batté i pugni sulla porta. «Margaret! Margaret! Sei lì?». Adesso l’odore
di gas era più intenso. Bernard aveva la bocca completamente secca e la sua voce tradiva il
panico. «MARGARET!». Tornò di corsa alla porta d’ingresso, uscì in giardino e provò la
porta sul retro. Era chiusa. Piagnucolava come un bambino. Sbirciò dentro la cucina
attraverso la grande finestra sopra il lavello. La luce elettrica era accesa e, per una frazione
di secondo, un’ultima scintilla di speranza brillò, arse e svanì. Lo spettacolo surreale che si
presentò ai suoi occhi era così bizzarro e poco plausibile che gli si registrò sulla retina
come un’immagine priva di senso – una statua di cera, dagli occhi lucenti e dai colori
vividi, con un sorriso fisso nel vuoto. Che cosa ci faceva seduta a terra in quel modo?
Puliva il forno?
Prese un mattone dimenticato accanto al muro, infranse il vetro della finestra, raggiunse
la maniglia ferendosi malamente la mano e aprì. L’odore nauseabondo del gas lo colpì con
un urto quasi materiale e gli ci vollero alcuni secondi per riuscire a scavalcare goffamente il
davanzale, con un fazzoletto premuto sulla bocca, e andare a spegnere il gas. La testa di
Margaret era appoggiata sullo sportello del forno, sopra un morbido cuscino rosso. Come
stordito, gli venne il pensiero folle che bisognava rimettere a posto il cuscino sul divano del
salotto. Con occhi vuoti, da zombie, si guardò i tagli irregolari sulla mano e
meccanicamente li tamponò con il fazzoletto. Vide la carta adesiva marrone che sigillava le
fessure lungo i bordi della porta e della finestra e notò che Margaret l’aveva ritagliata con
la stessa precisione con cui tagliava la carta per impacchettare i regali di compleanno dei
ragazzi. I ragazzi? Grazie a Dio erano lontani! Vide le forbici sul piano in formica sopra la
lavatrice e, muovendosi come un robot, andò a riporle in un cassetto. L’odore era ancora
fortissimo e nauseante e sentì il vomito salirgli in gola. Fu in quel momento che, a poco a
poco, l’orrore della scena gli penetrò nella mente, come una macchia d’inchiostro si
espande sulla carta assorbente. Capì che era morta.
Aprì la porta della cucina, raggiunse il telefono nell’ingresso e con una voce assente e
ottusa parlò con la polizia. Accanto alla rubrica del telefono c’era una lettera indirizzata a
lui. La prese, se la infilò nel taschino della giacca e tornò in cucina.
Dieci minuti dopo la polizia lo trovò seduto per terra accanto a sua moglie, con la mano
sulla testa di lei e gli occhi spenti, velati. Non aveva sentito il suono stridente del
campanello della porta d’ingresso.
Morse arrivò solo pochi minuti dopo la macchina della polizia e l’ambulanza. A
chiamarlo era stato l’ispettore Bell della Oxford City Police: Crowther aveva insistito che
fosse avvisato. I due ispettori, che si erano già incontrati varie volte, si fermarono
nell’anticamera a parlare sottovoce. Un medico della polizia aveva condotto Bernard fuori
dalla cucina senza che lui opponesse resistenza e l’aveva accompagnato in sala, dove ora
lui sedeva con la testa sprofondata fra le mani. Sembrava inconsapevole di quel che stava
accadendo o di quanto veniva detto intorno a lui, ma quando Morse entrò nella sala sembrò
rianimarsi.
«Buonasera ispettore». Morse gli appoggiò una mano sulla spalla, ma non riuscì a
pensare a niente da dire che fosse d’aiuto. Niente poteva essere d’aiuto. «Ha lasciato
questa, ispettore». Bernard si tolse di tasca la busta ancora sigillata.
«È indirizzata a lei, lo sa, signor Crowther? È per lei, non per me» gli disse Morse a
voce bassa.
«Lo so. Ma la legga lei. Io non ce la faccio». Tornò a prendersi la testa tra le mani e
singhiozzò in silenzio.
Morse diede un’occhiata interrogativa all’ispettore suo collega. Bell annuì, e Morse
aprì la busta con delicatezza.
Caro Bernard,
quando leggerai questa mia, io sarò morta. So che cosa significherà questo per te e per i
ragazzi, e questa consapevolezza è l’unica cosa che mi ha trattenuto dal farlo prima – ma
ormai non posso più venire a patti con la vita. Mi è così difficile pensare a quel che dovrei
dire – ma voglio che tu sappia che non è colpa tua. Non sono stata quel che una moglie
dovrebbe essere e ho fallito miseramente come madre, una cosa s’è sommata all’altra, e io
ho bisogno di trovare un po’ di pace, di riposo lontano da tutto e da tutti. Capisco bene
quanto sono egoista e so che la mia è solo una fuga. Ma se non scappo perdo la ragione.
Devo scappare. Non ho più il coraggio di affrontare la realtà.
Sulla scrivania trovi tutti i conti. Le fatture sono tutte pagate, tranne quella del signor
Anderson che ha potato i meli. Gli dobbiamo 5 sterline, ma non sono riuscita a trovare il
suo indirizzo.
Ripenso ai primi tempi, quando eravamo così felici. Niente e nessuno può portarceli
via. Stai vicino ai ragazzi. La colpa è mia, non loro. Spero che tu non mi giudichi troppo
male e che possa perdonarmi.
MARGARET

Non sarebbe stata di grande consolazione, ma prima o poi bisognava che Crowther la
leggesse.
«Per favore, la legga, signor Crowther».
Bernard lesse la lettera senza mostrare alcuna emozione. La sua disperazione non poteva
raggiungere un abisso più profondo. «E i ragazzi?» disse alla fine.
«Non deve preoccuparsi di nulla, signor Crowther, pensiamo noi a tutto». Il medico
della polizia parlava svelto. Quelle situazioni per lui non erano una novità e conosceva a
fondo la procedura da seguire da quel momento in poi. Non poteva fare molto, ma qualcosa
poteva fare.
«Senta, signor Crowther, adesso lei deve…».
«E i ragazzi?». Era un uomo spezzato, distrutto e Morse lo lasciò alle cure del medico.
Insieme a Bell si ritirò nello studio e vide i conti, le assicurazioni, le ricevute del mutuo e
degli investimenti azionari che Margaret aveva lasciato in una pila ben ordinata sotto un
fermacarte sulla scrivania. Ma non toccò nulla. Quei documenti erano una cosa tra marito e
moglie, una moglie che era ancora in vita quando lui aveva interrogato Crowther poche ore
prima.
«Quindi lei lo conosceva già» gli chiese Bell.
«L’ho visto questa mattina» disse Morse. «L’ho sentito a proposito dell’omicidio di
Woodstock».
«Davvero?» Bell sembrava sorpreso.
«È l’uomo che ha dato il passaggio alle ragazze».
«Pensa che sia coinvolto?».
«Non lo so» disse Morse.
«Crede che quella faccenda c’entri qualcosa?».
«Non lo so».
L’ambulanza stava ancora aspettando in strada e occhi curiosi sbirciavano da dietro tutte
le tende della via. In cucina Morse si fermò a guardare Margaret Crowther. Non l’aveva mai
vista prima e si stupì notando che doveva essere stata molto attraente. Sui quaranta? I
capelli erano un po’ ingrigiti, ma la figura era bella e definita e il volto aveva lineamenti
raffinati, ora distorti e bluastri.
«Non c’è più motivo di tenerla qui» disse Bell.
Morse scosse la testa. «Nessun motivo».
«Ci ha messo parecchio tempo, sa, con questo gas scadente».
I due continuarono a parlare in modo casuale per vari minuti, e Morse si preparò ad
andarsene. Ma mentre si dirigeva verso l’auto sentì la voce del medico della polizia che lo
chiamava.
«Può tornare indietro un minuto, ispettore?». Morse rientrò nella casa.
«Dice che ha bisogno di parlarle».
Crowther sedeva con la testa appoggiata allo schienale della poltrona. Respirava
faticosamente e sulla fronte gli erano spuntate delle gocce di sudore. Era in un profondo
stato di shock ed era già stato sedato.
«Ispettore» disse aprendo stancamente gli occhi. «Ispettore, devo parlarle». Gli era
costata grande fatica pronunciare quelle poche parole e Morse guardò il medico che
lentamente scosse la testa.
«Domani, signor Crowther» disse Morse. «Ci vediamo domani».
«Ispettore, devo parlarle».
«Sì, lo so. Ma non ora. Parleremo domani. Domani starà meglio». Morse toccò con la
mano la fronte di Crowther e ne sentì l’umidità appiccicosa.
«Ispettore!». Ma l’angolo tra la parete e il soffitto che Crowther stava cercando di
mettere a fuoco si stava sfaldando lentamente davanti ai suoi occhi, le linee si
confondevano, cominciavano a girare e svanivano.
Lentamente Morse uscì dalla Southdown Road. Si rese conto di quanto Crowther e
Jennifer Coleby abitassero vicini. Era una notte scura e la luna era lontana, coperta da
nuvole sempre più basse. Rettangoli di luce attenuata dalle tende risplendevano in gran
parte delle stanze che davano sulla strada e in molte Morse scorse la luce azzurra degli
schermi televisivi. Guardò in particolare una certa casa, e alzò lo sguardo su una finestra
particolare, la finestra subito sopra la porta d’ingresso. Ma era buia, e Morse passò oltre.
Capitolo venticinque
Martedì, 19 ottobre, mattina

Morse aveva dormito molto male e si svegliò con il mal di testa. Odiava i suicidi.
Perché quella donna si era uccisa? Che cos’era il suicidio? Il rifugio del codardo davanti
alla disperazione più nera? Oppure era, a modo suo, un atto di coraggio che rivelava una
sorta di eroismo distorto? Non quel suicidio, però. Così tante vite erano collegate. Il peso
non era affatto stato deposto, era semplicemente passato dalle spalle di una persona a quelle
di un’altra. La mente di Morse sembrava non volersi dar tregua e continuava a girare in
tondo in una specie di interminabile giro di giostra.
Le nove erano già passate quando l’ispettore si sedette sulla poltrona di cuoio, con
l’umor nero avvolto come una cappa intorno alle spalle curve. Convocò Lewis, che bussò
preoccupato alla porta prima di entrare, ma a quanto pareva Morse si era completamente
dimenticato dello spiacevole episodio del giorno precedente. Riferì a Lewis i dati
essenziali del suicidio di Margaret Crowther.
«Pensa che il signor Crowther abbia qualcosa di importante da dirle, ispettore?».
Bussarono alla porta prima che Lewis potesse ricevere risposta e una ragazza consegnò
la posta, salutò con un allegro «Buongiorno!» e se ne andò. Morse diede una scorsa alla
decina di lettere arrivate quel giorno e gli cadde l’occhio su una busta ancora chiusa
indirizzata a lui, su cui era scritto «Strettamente personale e riservato». Era una busta
identica a quella che aveva visto la sera precedente.
«Non so se Crowther abbia o no qualcosa da dirci, ma a quanto pare la sua defunta
moglie sì». Aprì la busta di netto con un tagliacarte e lesse ad alta voce il testo
dattiloscritto.
Caro Ispettore,
non ci siamo mai incontrati, ma so dai giornali che lei è a capo dell’inchiesta sulla
morte di Sylvia Kaye. Avrei dovuto dirle queste cose molto tempo fa, ma spero comunque
che non sia troppo tardi. Vede, Ispettore, io ho ucciso Sylvia Kaye. (Queste parole erano
sottolineate due volte).
Devo cercare di spiegarmi. Per favore, mi perdoni se sarò un po’ confusa, ma è come se
tutto fosse successo tanto tempo fa.
Sapevo da circa sei mesi – ma forse l’avevo capito molto tempo prima – che mio marito
aveva una relazione con un’altra donna. Non ne avevo le prove e non le ho neanche adesso.
Ma è così difficile per un uomo tenere nascosto questo genere di cose alla propria moglie.
Siamo sposati da quindici anni e lo conosco così bene. Lo si capiva da tutto quello che
diceva, da tutto quello che faceva e dall’aspetto che aveva – credo che fosse tremendamente
infelice.
Mercoledì 22 settembre uscii di casa alle 18,30 per recarmi alla scuola serale di
Headington, ma invece di dirigermi subito là, mi fermai appena arrivata sulla Banbury
Road. Mi pare di essere rimasta lì tanto tempo senza avere un’idea precisa di quello che
volevo fare. Poi, verso le sette meno un quarto Bernard, mio marito, arrivò dalla Charlton
Road e girò a destra verso la rotonda che porta a nord. Lo seguii meglio che potei – lo dico
perché non sono brava a guidare – e oltretutto stava diventando buio. Non c’era molto
traffico e lo vedevo chiaramente un paio di auto più in là della mia. Alla rotonda della
Woodstock Road è uscito dopo la A34. Guidava troppo veloce per me e io restavo sempre
più indietro. Pensavo di averlo perso, ma più avanti c’erano dei lavori stradali e il traffico
doveva scorrere su una sola corsia per circa un chilometro. In testa c’era un grosso, lento
automezzo pesante e riguadagnai terreno – Bernard era solo sei o sette auto più in là. Il
camion prese la deviazione per Bladon, io riuscii a non perdere di vista Bernard e lo vidi
prendere la prima a sinistra per entrare a Woodstock. Avevo una leggera sensazione di
panico e non sapevo che cosa fare – svoltai nella strada successiva, mi fermai e tornai
indietro a piedi. Ma ormai l’avevo perso. Mi avviai verso Headington e arrivai alla lezione
con soli venti minuti di ritardo.
Il mercoledì successivo, il 29 settembre, tornai a Woodstock, uscendo di casa almeno
dieci minuti prima del solito, parcheggiai l’auto ben dentro il paese e tornai a piedi nella
via in cui Bernard aveva svoltato la settimana precedente. Non sapevo dove appostarmi e
mi sentivo stupida ed esposta, ma trovai un posticino abbastanza riparato sulla sinistra della
strada – avevo il terrore che Bernard potesse vedermi – cioè, se poi fosse arrivato – e restai
lì ad aspettare, guardando ogni auto che svoltava l’angolo. Era una posizione comoda per
vedere le macchine che giravano – e anche le persone che vi viaggiavano. Arrivò alle sette
e un quarto e io cominciai a tremare come una foglia. Non era solo: seduta accanto a lui
c’era una ragazza dai lunghi capelli biondi che indossava una camicetta bianca. Pensai che
dovessero avermi visto perché quando l’auto fu a una distanza di circa cinque o sei metri da
me svoltò dentro al parcheggio del Black Prince. Mi tremavano le gambe e il sangue mi
pulsava nelle tempie, ma qualcosa mi spinse ad andare fino in fondo. Con cautela mi
avvicinai al parcheggio e guardai dentro. C’erano già molte auto e all’inizio non riuscii a
individuare quella di Bernard. Avanzai lungo la fiancata di un’auto – subito a sinistra
entrando nel cortile – e poi li vidi. L’auto era sul mio stesso lato ma in fondo, con il
bagagliaio verso il muro. Doveva essere entrato in retromarcia. Erano ancora seduti in
macchina e per un po’ stettero lì a parlare. Sentii dentro di me una rabbia gelida. Bernard e
una bionda volgare – non le davo più di diciassette anni! Vidi che si baciavano. Poi scesero
dall’auto e rientrarono sui sedili posteriori. Non riuscii a vedere altro: almeno questo mi fu
risparmiato.
Non so spiegare bene quel che provai. Ora che lo scrivo sembra tutto così piatto… così
poco importante, in un certo senso. Sentivo più rabbia che gelosia – questo mi è chiaro. Una
rabbia bruciante perché Bernard mi aveva umiliato in quel modo. Uscirono circa cinque
minuti dopo. Si dissero qualcosa, ma non riuscii a sentire che cosa. C’era un attrezzo – un
lungo levagomme – lo trovai sul pavimento del cortile e lo presi. Non so perché. Mi sentivo
così spaventata, così arrabbiata. E improvvisamente il motore della macchina si accese e
poi le luci, e tutto il cortile fu illuminato. L’auto si diresse verso l’uscita e, dopo che se ne
fu andata, l’oscurità sembrò ancora più fitta di prima. La ragazza era rimasta dove lui
l’aveva lasciata e io strisciai dietro le tre, quattro macchine che ci separavano e arrivai alle
sue spalle. Non dissi nulla e sono certa che lei non mi sentì arrivare. La colpii dietro la testa
con una forza che mi venne naturale. Sembrava di essere in un sogno. Non provavo nulla, né
rimorso, né paura – niente. La lasciai lì dov’era, vicino al muro. Era ancora molto buio.
Non sapevo quando o come l’avrebbero ritrovata – e non me ne importava.
Bernard ha sempre saputo che ero stata io a uccidere Sylvia Kaye – mi superò mentre
tornavo a Oxford. Deve avermi visto perché io vidi lui. È stato proprio dietro di me per un
po’ e deve aver letto il numero di targa. Io vidi la sua auto chiara come il sole quando mi
superò.
So che avete avuto dei sospetti su Bernard. Ma vi sbagliavate. Non so cosa vi abbia
detto, ma so che gli avete parlato. Se vi ha mentito, lo ha fatto solo per proteggermi. Ma
adesso non ho più bisogno che nessuno mi protegga. Abbiate cura di Bernard e non lasciate
che soffra troppo a causa mia. Ha fatto quello che fanno centinaia di uomini, e anche di
questo do la colpa solo a me stessa, e a nessun altro. Non sono stata una buona moglie per
lui e neanche una brava madre per i miei figli. Sono solo molto stanca – così disperatamente
stanca di tutto. Di ciò che ho fatto, ora sono profondamente pentita, ma mi rendo conto che
questo non basta a scusarmi. Cos’altro potrei dire – cos’altro c’è da dire?
MARGARET CROWTHER

La voce di Morse si spense gradualmente e la stanza diventò molto silenziosa. Lewis


aveva sentito una profonda commozione mentre Morse leggeva ad alta voce quella lettera,
come se Margaret Crowther fosse stata lì presente. Ma lei non avrebbe mai più parlato.
Pensò a quando era andato a casa sua e cercò di immaginare la sofferenza atroce che doveva
aver provato in quegli ultimi mesi.
«Lei si era immaginato qualcosa del genere, signore?».
«No» rispose Morse.
«È un po’ un fulmine a ciel sereno, vero? Totalmente imprevisto, insomma».
«Non mi piace molto lo stile della lettera» disse Morse. Porse il foglio a Lewis. «Usa
troppi trattini per i miei gusti». Il commento parve spietato e fuori luogo. Lewis rilesse la
lettera per conto suo.
«Però era una brava dattilografa: neanche un errore, signore».
«Un po’ strano, non crede, che abbia firmato battendo a macchina il proprio nome
invece di aggiungerlo a mano».
Metti una lettera in mano a Morse e la sua fantasia parte in quarta verso i regni dei
serafini dagli occhi splendenti. Lewis lo sopportò in silenzio.
«Pensa che sia stata lei a scriverla, non è vero, signore?».
Di malavoglia Morse tornò alla realtà. «Sì, l’ha scritta lei».
Lewis pensava di capire quel che passava per la testa all’ispettore. Bisognava ancora
fare qualche verifica, naturalmente, ma il caso era sostanzialmente chiuso. Era stato quasi
sempre piacevole lavorare con quell’ispettore irascibile e balzano, ma ora… Il telefono
squillò e Morse rispose, disse «Capisco» una decina di volte e abbassò la cornetta.
«Crowther è ricoverato al Radcliffe, ha avuto un leggero infarto. Per almeno due giorni
non può vedere nessuno».
«Forse non ha molto di più da dirci» suggerì Lewis.
«Oh, sì che ce l’ha» disse Morse. Si appoggiò allo schienale, si mise le mani dietro la
testa come uno scolaro scomposto e fissò con sguardo vuoto un angolo della stanza. Lewis
pensò che fosse meglio star zitto ma cominciò a sentirsi irrequieto con il passare dei minuti.
«Vuole un caffè, signore?». Morse parve non averlo sentito. «Caffè? Vuole un caffè,
signore?». Gli sembrava di parlare con una persona affetta da grave sordità con
l’apparecchio acustico spento. Altri minuti passarono prima che gli occhi grigi tornassero a
mettere a fuoco il mondo che li circondava.
«Bene, almeno una cosa è chiara, Lewis. Possiamo cancellare Crowther dalla nostra
lista dei sospetti».
Capitolo ventisei
Martedì, 19 ottobre, pomeriggio

A mezzogiorno Peter Newlove era seduto in camera sua. Non aspettava nessuno. Fosse
stato un giorno come un altro, Bernard avrebbe potuto passare di lì per un gin, ma la notizia
si era diffusa nel college in mattinata: Margaret si era uccisa e Bernard aveva avuto un
infarto. E la doppia disgrazia aveva colpito Peter più di tutti gli altri. Conosceva Margaret e
le voleva bene, e Bernard era il suo migliore amico, quel genere di amicizia scherzosa che
nasce spesso tra accademici nei college universitari. Aveva chiamato l’ospedale, ma non
erano consentite visite almeno fino a giovedì. Aveva mandato dei fiori: Bernard amava i
fiori e non aveva più una moglie che potesse mandarglieli… Si era anche informato
riguardo ai ragazzi. Erano andati a stare con una zia a Hendon, anche se Peter non riusciva
proprio a capire come una sistemazione del genere potesse aiutarli.
Sentì bussare alla porta. «È aperto».
Non aveva mai visto Morse prima e fu piacevolmente sorpreso quando l’ispettore
accettò la sua proposta di bere qualcosa. Morse spiegò in termini schietti e senza ambiguità
il motivo della sua visita.
«Ed è stata scritta con quella?». Newlove aggrottò la fronte guardando la macchina per
scrivere portatile sul suo tavolo.
«Senza ombra di dubbio».
Newlove sembrava alquanto perplesso, ma non disse nulla.
«Lei conosce una ragazza di nome Jennifer Coleby, la signorina Jennifer Coleby?».
«Non mi pare» disse Newlove, aggrottando ancora di più la fronte.
«Lavora sulla High Street, non lontano da qui, presso la Town and Gown
Assicurazioni».
Newlove scosse la testa. «Non posso escludere di averla vista, naturalmente. Ma non la
conosco. Quel nome non l’ho mai sentito prima».
«E non ha mai scritto una lettera a qualcuno che si chiama così?».
«No. Come avrei potuto? Come le ho detto, non ho mai sentito parlare di quella donna».
Morse inarcò le sopracciglia e continuò. «Chi avrebbe potuto usare la sua macchina per
scrivere, signor Newlove?».
«Be’, non saprei. Più o meno chiunque, in un certo senso. Non mi capita spesso di
chiudere a chiave la stanza, a meno che non ci siano in giro i testi degli esami».
«Intende dire che lascia la porta aperta così chiunque passa può approfittare delle sue
bottiglie, dei suoi libri o… della sua macchina per scrivere?».
«No, le cose non vanno proprio così. Ma parecchi docenti sono di casa qui».
«E in particolare chi, secondo lei?».
«Be’, ad esempio c’è un nuovo giovane professore questo trimestre, Melhuish. Lui è
passato abbastanza spesso negli ultimi tempi».
«E poi?».
«Una decina d’altri». Sembrava un po’ a disagio.
«Ha mai visto qualcuno dei suoi, ehm, amici usare la macchina per scrivere?».
«Be’, no. Direi di no».
«Ognuno di loro ne ha una, e usa la propria, giusto?».
«Sì, immagino di sì».
«Non c’è molto da immaginare al riguardo, non le pare?».
«No, infatti».
«Non le viene in mente proprio nessuno?».
«Non sono di grande aiuto, lo so. Ma non mi viene in mente assolutamente niente».
Bruscamente Morse cambiò argomento. «Conosceva la signora Crowther?».
«Sì».
«Ha saputo quel che le è successo?».
«Sì» disse Newlove a bassa voce.
«E sa anche quel che è successo a Bernard Crowther?». Newlove annuì. «Da quel che
mi dicono è uno dei suoi migliori amici». Newlove annuì un’altra volta. «Sono passato nella
stanza di Bernard Crowther questa mattina, signor Newlove. Per dirla brutalmente sono
andato a ficcare il naso. Ma, capisce, spesso ho il dovere di ficcare il naso. Non è che la
cosa mi piaccia particolarmente».
«Mi rendo conto» disse Newlove.
«Mi chiedo se si renda conto veramente, signor Newlove». Ora nella sua voce si sentiva
un’impazienza repressa. «Passa spesso a trovarla, vero?».
«Molto spesso».
«E pensa che entrerebbe, se avesse bisogno di qualcosa?».
«Intende dire se verrebbe qui piuttosto che da qualcun altro?».
«Sì».
«Sì, verrebbe da me».
«Lo sapeva che con la macchina per scrivere di Crowther non si riesce a battere
neanche una virgola?».
«No, non lo sapevo» rispose Newlove, mentendo.
Dopo aver accompagnato Morse al Lonsdale, Lewis si dedicò ai propri incarichi.
Neanche a morire riusciva a capire l’utilità del compito che gli era stato assegnato, ma
Morse aveva detto che era di vitale importanza. Qualcosa aveva galvanizzato Morse,
dandogli nuovo slancio, ma non era più il Morse allegro e incontenibile dei primi tempi del
caso. Gli era calata addosso una specie di tetraggine e Lewis talvolta lo temeva un po’.
Sperava solo che non spuntassero altre lettere a provocare altre inutili elucubrazioni.
Parcheggiò l’auto di ordinanza nel piccolo cortile del Centro medico di Summertown,
situato all’angolo tra la Banbury e la Marston Ferry Road. Era un imponente edificio in
mattoni rossi, ben costruito, con scalini che conducevano a un portico sotto cui si trovava
l’ingresso – una delle numerose magioni costruite dall’alta borghesia lungo la Banbury
Road nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Lewis era atteso e dovette aspettare
solo un paio di minuti prima di essere condotto nello studio di uno dei soci anziani.
«È tutto qui, sergente» disse il dottor Green porgendogli una cartelletta.
«È sicuro che ci sia proprio tutto, dottor Green? L’ispettore Morse ha sottolineato che
dovevo prendere proprio tutto».
Il dottor Green restò zitto per un momento. «L’unica cosa che manca è… l’unica cosa
che manca ehm... sono gli appunti che avevamo ehm... che forse avevamo sulle
conversazioni ehm... che abbiamo avuto con la signorina Kaye circa la sua ehm... vita
privata. Di certo, sergente, lei capirà che ci sono ehm... il vincolo morale ehm... la natura
confidenziale ehm... del rapporto tra il medico e il paziente».
«Quel che vorrebbe dirmi è che prendeva la pillola, dottor Green» intervenne
audacemente Lewis affrontando con piglio poliziesco un terreno in cui l’angelico dottor
Green temeva d’addentrarsi.
«Ehm… non è esattamente quel che ho detto, non è vero, sergente? Io ehm... ho detto che
noi ehm... che è molto scorretto, sì, scorretto tradire… tradire le confidenze che noi ehm...
che noi ehm... che ci vengono fatte nei nostri ambulatori».
«E se la ragazza non avesse preso la pillola, questo avrebbe potuto dircelo?» chiese
Lewis in tutta innocenza.
«Ora, questa è ehm... una domanda molto difficile. Lei ehm... noi ehm... lei ehm... lei mi
sta un po’ mettendo in bocca ehm... parole che non ho mai detto, no? Io ho detto solo che
ehm…».
Lewis si chiese che cosa avrebbe mai detto il socio anziano a un paziente che avesse il
cancro. Di sicuro il colloquio si sarebbe protratto piuttosto a lungo. Ringraziò il bravo
medico e se ne andò più in fretta che poteva, e solo quando fu a metà degli scalini sotto il
portico riuscì a scrollarsi di dosso gli insistenti «ehm» del dottor Green. Pensò che quella
sera doveva raccontare a sua moglie del ehm... dottor Green.
Come d’accordo, Lewis andò a prendere Morse fuori dal Lonsdale College all’una in
punto. Raccontò all’ispettore quanto era turbata la coscienza del dottor Green riguardo al
problema del segreto professionale ma Morse, cinico com’era, non parve molto colpito.
«Sappiamo già che prendeva la pillola, ricorda?». Lewis avrebbe dovuto ricordarlo.
Aveva letto i rapporti, anzi Morse gli aveva chiesto espressamente di studiarli meglio che
poteva. Ma a quel tempo non era sembrato un particolare molto importante. Vuoi che fin
d’allora Morse avesse capito che invece lo era? Ma Lewis ne dubitava e i suoi dubbi, come
risultò poi, erano fondati.
Mentre Lewis, che era alla guida, si dirigeva fuori città Morse gli chiese di svoltare al
motel vicino alla rotonda per Woodstock. «Ci prendiamo un panino e qualcosa da bere,
eh?».
Si accomodarono nel Morris Bar e Morse sprofondò nella lettura della storia clinica di
Sylvia Kaye. A fasi intermittenti la cartella copriva tutta la vita della ragazza nella sua
commovente brevità, dal leggero attacco di itterizia quando aveva due giorni a una brutta
frattura al braccio nell’agosto che aveva preceduto la sua morte. Il morbillo, le verruche
sulle dita, un’infezione all’orecchio medio, dismenorrea, emicranie (miopia?). Una storia
clinica piuttosto normale. La maggior parte delle annotazioni scritte a mano era
ragionevolmente leggibile e, strano ma vero, il principe dell’esitazione, il coscienzioso
dottor Green, aveva una bella grafia arrotondata meravigliosamente chiara. I suoi unici
contatti diretti con Sylvia erano connessi ai due ultimi malanni della lista, le emicranie e la
frattura al braccio. Morse passò la cartella a Lewis e andò a prendere altre due birre.
Alcuni particolari erano già presenti nel rapporto dell’autopsia, ma la memoria non era il
forte di Lewis.
«Lei si è mai rotto un braccio?» gli chiese Morse.
«No».
«Dicono che sia molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del
genere. Come quando ci si fa male a un piede, Lewis. È molto, molto doloroso».
«Se non lo sa lei, signore».
«Ah, ma se uno di base ha una costituzione forte come la mia, si riprende in fretta».
Lewis gliela diede buona. «Ha notato» continuò Morse «che Green l’ha vista il giorno
prima che morisse?».
Lewis tornò ad aprire la cartella clinica. Aveva letto quell’annotazione, ma non aveva
fatto caso alla data. Sylvia si era recata al Centro medico di Summertown il martedì 28
settembre con una lettera del chirurgo ortopedico del Radcliffe. Diceva: «Braccio ancora
molto rigido e alquanto dolente. Si richiede ulteriore terapia. Si raccomanda di continuare
la cura fisioterapica, il martedì e il giovedì mattina».
Lewis poteva immaginarsi com’era andata la visita. E all’improvviso un pensiero gli
attraversò la mente. Era stato contagiato da Morse. Cominciava a concepire sospetti
strampalati, folli come quelli dell’ispettore. «Di sicuro lei non penserà che ehm…». E si era
pure beccato il morbo di Green.
«Che cosa?» disse Morse, con un’espressione stranamente grave in volto.
«Che Green avesse una relazione con Sylvia?».
Morse fece un sorriso vago e vuotò il bicchiere. «Credo che potremmo scoprirlo».
«Ma lei diceva che questi referti medici erano molto importanti».
«A dir poco».
«Ha trovato quello che cercava, signore?».
«Sì. Sinceramente sì. Diciamo che cercavo solo una piccola conferma. Avevo già
parlato al telefono con Green ieri».
«E lui ehm... lui ehm…». L’imitazione di Lewis fu l’unico, isolato momento di
leggerezza negli ultimi tetri giorni dell’indagine.
Martedì pomeriggio Sue era in ferie, e ne era contenta. Il lavoro al pronto soccorso era
molto faticoso, soprattutto per i suoi piedi. Era sola in casa. Dopo essersi abbrustolita
qualche fetta di pane si sedette nella piccola cucina e si perse con lo sguardo fisso sulle
piastrelle bianche del pavimento. Aveva promesso a David che gli avrebbe scritto e quel
pomeriggio doveva davvero mettercisi. Si chiese che cosa poteva dirgli. Poteva
raccontargli del lavoro o ripetergli quanto era stato bello il weekend passato e quanta
voglia aveva di rivederlo ancora. Eppure quelle parole sembravano prive di partecipazione.
Si rimproverava aspramente dandosi dell’egoista, ma allo stesso tempo sapeva che i propri
desideri e sogni venivano prima di quelli di chiunque altro. Anche prima di quelli di David,
anzi prima di quelli in particolare. Era inutile, era del tutto impossibile, era assolutamente
folle, era persino pericoloso pensare a lui – cioè a Morse. Ma lo desiderava così tanto.
Voleva che lui la chiamasse – non chiedeva altro che vederlo. Qualsiasi cosa… E mentre
stava seduta nella piccola cucina con lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche si sentì
travolgere da un sentimento di disprezzo per se stessa, di solitudine e infelicità.
Martedì pomeriggio Jennifer aveva da fare. Palmer le aveva passato la bozza di una
lettera chiedendole di sistemargliela. I premi di praticamente tutte le polizze sarebbero
aumentati del 10 per cento dopo Natale e tutti i clienti dell’assicurazione dovevano esserne
informati. Il caro Palmer, pensava Jennifer, in realtà non è molto bravo. Il primo paragrafo
della lettera le ricordava i tortuosi esercizi di latino che le davano da fare a scuola. Una
diabolica infilata di «che». Si mise a correggere il testo con grande sicurezza. Un punto qui,
un a capo lì, un vocabolo più appropriato là… molto più chiaro. Palmer sapeva che lei era
di gran lunga la ragazza più in gamba di tutto l’ufficio e, quando c’era una comunicazione
importante, le faceva sempre leggere la prima stesura. In ogni caso non intendeva restarci
molto a lungo, in quel posto. La settimana prima aveva spedito il curriculum ad altre due
aziende. Ma non le passava neanche per l’anticamera del cervello di parlarne a qualcuno,
neppure al signor Palmer. Non che fosse sgradevole lavorare lì, al contrario. E guadagnava
quasi quanto Mary e Sue messe insieme… Sue! Pensò alla domenica sera in cui era tornata
da Londra. Che spasso trovarli in quella situazione! Rivide di nuovo la scena e un sorriso
crudele si formò sulle sue labbra.
Prese la bozza corretta e la portò nell’ufficio di Palmer, dove Judith stava cercando di
stare dietro al suo datore di lavoro che le dettava una lettera a velocità peraltro abbastanza
moderata. Gli diede il foglio. «Ho segnato qualche suggerimento».
«Ah, grazie mille. L’avevo buttata giù di fretta, sa. Ho scritto la prima cosa che mi è
venuta in mente. Sapevo benissimo che era, capisce, un po’ ehm... un po’ grezza. Grazie
davvero. Molto bene!».
Jennifer non disse altro. Uscì, e mentre risaliva il corridoio fino alla stanza delle
dattilografe ancora una volta il sorriso cattivo le tornò sulle labbra.
La terza della triade, l’intrepida, rotondetta, lentigginosa, piccola Mary lavorava per
Radio Oxon. Per le mansioni che svolgeva, alla BBC avrebbe ottenuto il titolo non
spregevole di segretaria di redazione, ma in una stazione locale il suo era solo un lavoro
senza prospettive. Come Jennifer, aveva pensato alla possibilità di cambiare anche se,
diversamente da Jennifer, aveva poche qualifiche. Jennifer aveva i suoi bei voti all’uscita
dalle superiori e i suoi certificati di stenografa e dattilografa… a scuola doveva essere stata
tra le prime della classe. Mica male, essere una che sa sempre tutto… Andava abbastanza
bene la convivenza tra loro tre, ma a Mary non sarebbe neanche dispiaciuto trasferirsi
altrove. Sue era brava, le era veramente simpatica, anche se ultimamente era stata un po’
lunatica e depressa. Problemi con gli uomini. Che si fosse innamorata di quel Morse? Non
poteva darle torto. Perlomeno Sue era umana. Quanto a Jennifer, non ne era altrettanto
sicura.
Dopo pranzo, martedì, uno degli assistenti andò a fare due chiacchiere con lei. Era un
uomo con la barba, un modo di fare spigliato, cinque figli piccoli e un occhio attento alle
signore. Mary non fece grandi sforzi per respingere le sue attenzioni.
Capitolo ventisette
Giovedì, venerdì; 21, 22 ottobre

Stando alle parole dell’infermiera di sala, Bernard Crowther era in condizioni


«soddisfacenti», così giovedì pomeriggio poté mettersi seduto a letto per accogliere il suo
primo visitatore. Stranamente Morse non aveva rivendicato la precedenza e aveva ceduto il
suo posto.
Peter Newlove fu contento di trovare il suo vecchio amico meglio del previsto.
Conversarono con naturalezza e tranquillamente abbastanza a lungo. C’erano cose che
andavano dette, ma dopo aver assolto quel dovere Peter era passato ad altri argomenti,
sapendo che Bernard capiva. Era quasi arrivato il momento di andare, ma Bernard gli mise
una mano sul braccio e Peter tornò a sedersi accanto all’amico. Il tubo dell’ossigeno
pendeva dalla spalliera in metallo dietro la testa di Bernard e una macchina con vari
schermi stava di guardia all’altro lato del letto.
«Voglio dirti una cosa, Peter».
Peter si chinò leggermente verso l’amico per sentirlo meglio. Ora Bernard faceva più
fatica a parlare e doveva prendere fiato a fondo prima di pronunciare ogni frase. «Possiamo
parlare ancora domani. Adesso è meglio che ti riposi».
«Ti prego, resta». Bernard lo disse con una voce tesa che esprimeva un senso di
urgenza. «Devo dirtelo. Tu conosci la storia dell’omicidio di Woodstock?». Peter annuì.
«Sono io quello che ha dato il passaggio alle due ragazze». Di nuovo respirò a fondo e un
mezzo sorriso gli comparve sulle labbra. «C’è da ridere, in realtà, perché avevo un
appuntamento con una delle due. Ma avevano perso l’autobus e così ho dato loro un
passaggio. Rovinando tutto, naturalmente. Loro due si conoscevano e… la cosa mi ha
spaventato». Riposò per un attimo e Peter guardò con curiosità il suo vecchio amico
cercando di non fare un’espressione troppo incredula.
«Per farla breve, ho finito per andare con quell’altra. Te lo immagini, Peter? Ho finito
per andare con quell’altra! Era molto provocante, Dio se lo era! Peter, mi ascolti?». Si
abbandonò sul cuscino, scosse la testa tristemente e prese un altro respiro profondo.
«L’abbiamo fatto… sui sedili posteriori dell’auto. Con lei mi sono sentito lascivo come
un vecchio satiro. E poi… e poi me ne sono andato. Questa è la cosa da ridere. L’ho
piantata lì. Sono tornato a casa. Tutto qua».
«L’hai piantata lì dove, al Black Prince?».
Bernard annuì. «Sì. Dove l’hanno trovata. Sono contento di avertelo raccontato».
«Intendi raccontarlo anche alla polizia?».
«È quello che volevo chiederti, Peter. Capisci, io…» s’interruppe. «Io non so se faccio
bene a dirtelo, e tu devi promettermi di non fiatare con anima viva» guardò il suo amico con
intensa angoscia, ma alla fine dovette pensare che si poteva fidare. «Ma sono abbastanza
sicuro di aver visto qualcuno nel cortile quella sera. Non ho visto chi era, naturalmente».
Ogni frase che pronunciava sembrava rubargli sempre più le forze e Peter, preoccupato, si
alzò in piedi.
«Aspetta». La scalata era quasi finita. «Non ho visto bene… era così buio. Però non ero
tranquillo. Mi sono preso un whisky doppio in un pub lì vicino e mi sono avviato verso
casa». Le parole gli uscivano più lente. «L’ho superata. Che imbecille sono stato. Lei mi ha
visto».
«Di chi stai parlando? Chi è che hai superato?».
Bernard aveva chiuso gli occhi e sembrava non sentire. «Ho controllato. Quella sera non
era andata a lezione». Alzò le palpebre pesanti: era contento di averlo raccontato a
qualcuno e che quel qualcuno fosse Peter. Ma Peter sembrava stranito e confuso. Si alzò, si
chinò sul suo amico e a bassa voce, ma nel modo più chiaro che poté, gli parlò all’orecchio.
«Vuoi dire che pensi… che sia stata Margaret a ucciderla?». Bernard annuì.
«E che sia questo il motivo per cui lei…». Ancora una volta Bernard annuì stancamente.
«Torno a trovarti domani. Cerca di riposare». Peter si preparò ad andarsene e stava già
uscendo quando sentì di nuovo chiamare il suo nome.
Bernard aveva aperto gli occhi e aveva sollevato una mano con fragile autorità. Peter
tornò sui suoi passi.
«Non ora, Bernard. Dormi un poco».
«Voglio chiederti scusa».
«Chiedermi scusa?».
«Hanno identificato la macchina per scrivere, non è vero?».
«Sì, era la mia».
«Sono stato io a usarla, Peter. Avrei dovuto dirtelo».
«Non pensarci. Che importanza ha?».
E invece era importante. Bernard lo sapeva, ma era troppo stanco e non riusciva più a
pensare. Margaret era morta. Quella era la schiacciante realtà dei fatti. Solo in quel
momento cominciava ad afferrare la completa devastazione causata da quell’unica terribile
realtà di fatto: Margaret era morta.
Si lasciò andare e da sveglio sprofondò in una sorta di sogno. I personaggi erano tutti
presenti e lui rivide l’intera scena un’altra volta, ma in modo distaccato e impersonale,
come se si fosse trovato fuori da se stesso.
Quando l’aveva vista aveva capito subito che era lei, ma non era riuscito a spiegarsi
perché stesse facendo l’autostop. Non si erano detti neanche una parola e lei si era seduta
dietro. Doveva essersi resa conto, come lui, che la situazione, d’un tratto, era diventata
pericolosa; era evidente che conosceva l’altra ragazza. Fu quasi un sollievo quando lei
disse che voleva fermarsi a Begbroke. Lui aveva trovato una scusa – doveva comprare le
sigarette – e si erano messi a bisbigliare nervosamente. Per quella sera era meglio lasciar
perdere. Era preoccupato. Non poteva permettersi di rischiare. Ma poteva passare a
prenderla più tardi, no? Glielo aveva chiesto con una rabbia malcelata. Aveva percepito,
mentre guidava, la gelosia che doveva provare mentre la ragazza seduta davanti
chiacchierava con lui. Non che le avesse dato alcun incoraggiamento. In ogni caso non fino a
quel momento. Ma era sinceramente preoccupato e gliel’aveva detto. Potevano vedersi la
settimana dopo: le avrebbe scritto nel solito modo. Fu un breve scambio di bisbigli
frenetici, niente di più, appena dentro la porta del Golden Rose. Aveva visto
l’esasperazione e anche un lampo di furia cieca negli occhi di lei. Ma poteva capirla. Anche
lui la desiderava ancora, la desiderava sempre tantissimo.
Era tornato in auto e aveva proseguito per Woodstock. Ora che aveva la scena tutta per
sé, la bionda sembrava ancora più libera da ogni inibizione. Si appoggiò allo schienale con
sensualità rilassata ed evidente. Il primo bottone della sottile camicetta bianca che
indossava era slacciato, e la stoffa sembrava un baccello di seta, pronto a dischiudersi sui
seni rigonfi come frutti maturati al sole.
«Che lavoro fai?».
«Lavoro all’università».
«Insegni?».
«Sì». I loro occhi si incontrarono. Era andata avanti così finché non erano arrivati a
Woodstock. «Bene, dove vuoi che ti lasci?».
«Bah, fa lo stesso».
«Hai un appuntamento con il tuo ragazzo?».
«Solo tra una mezz’ora. Ho un sacco di tempo».
«Dove dovete incontrarvi?».
«Al Black Prince. Lo conosci?».
«Vuoi bere qualcosa con me prima?». Si sentiva molto nervoso ed eccitato.
«Perché no?».
Nel cortile, in fondo a sinistra c’era un posto libero e vi entrò in retromarcia.
«Forse non è una buona idea quella di bere qualcosa qui» disse lei.
«Già, forse no».
La ragazza si lasciò di nuovo scivolare sul sedile, con la gonna che le risaliva intorno
alle cosce mentre distendeva le lunghe gambe invitanti, leggermente aperte.
«Sei sposato?» gli chiese. Lui annuì. Con la destra lei giocherellava a tratti con la leva
del cambio, carezzandone il pomello. I finestrini si stavano a poco a poco appannando per il
loro fiato e, chinandosi verso il vano portaoggetti del cruscotto per prendere un panno, la
sfiorò con il braccio. Sentì che il corpo di lei rispondeva con una delicata pressione. Trovò
lo straccio e senza convinzione cominciò a pulire il vetro. Mentre si sporgeva leggermente
dalla sua parte, con la gamba schiacciò un poco la mano di lei, che non la ritrasse. Fece
passare l’altro braccio dietro lo schienale del sedile della ragazza che si voltò verso di lui.
Aveva labbra piene e socchiuse e vi passò sopra la lingua con fare allettante. Non riuscì più
a resisterle e la baciò con un abbandono brutale e appassionato. Lei gli insinuò la lingua
nella bocca e girò il corpo spingendo i seni protesi contro di lui. Le accarezzò le gambe con
la destra, crogiolandosi in un’eccitazione puramente animale mentre lei le muoveva appena,
schiudendole ancora di più in un invito esplicito. La ragazza a un tratto interruppe i baci
frenetici, gli sfiorò il lobo dell’orecchio con la lingua e sussurrò: «Slacciami la camicetta.
Non ho niente sotto».
«Andiamo dietro» disse lui roco. Aveva un’erezione smisurata.
Finì tutto troppo in fretta e lui si sentì in colpa per come si era comportato. Voleva
allontanarsi da lei, che ora gli sembrava completamente diversa, una metamorfosi avvenuta
in un solo minuto.
«È meglio che vada».
«Così presto?». Con gesti lenti lei si allacciava la camicetta, ma l’incanto ormai era
rotto.
«Sì, devo proprio».
«Ti è piaciuto, vero?».
«Ma certo. Lo sai benissimo».
«Ti piacerebbe rifarlo, prima o poi?».
«Lo sai che mi piacerebbe». Si sentiva sempre più impaziente di andarsene. Aveva visto
veramente qualcuno o se l’era solo immaginato? Un guardone, magari?
«Non mi hai detto il tuo nome».
«E tu non mi hai detto il tuo».
«Sylvia. Sylvia Kaye».
«Senti, Sylvia». Cercò di sembrare più affettuoso che poteva. «Non pensi che sarebbe
meglio se noi, diciamo, pensassimo a questo come a una cosa bella che ci è capitata. Solo
una volta. Qui, questa notte».
Lei reagì in tono cattivo e aspro. «Non vuoi vedermi mai più, vero? Sei come tutti gli
altri. Un po’ di sesso, uno sfogo e via, spariti». Persino il modo in cui parlava era diverso.
Sembrava una comune prostituta, una rozza sgualdrina da poco prezzo raccattata su una
strada secondaria a Soho. Ma aveva ragione, certo, aveva assolutamente ragione. Lui aveva
avuto quel che voleva. E lei, invece, no? Era veramente una prostituta? Ripensò al periodo
passato sotto le armi e ai commilitoni che si erano beccati la sifilide. Doveva andarsene di
lì, da quell’auto claustrofobica e da quello squallido cortile buio. Si mise una mano in tasca
e trovò una banconota da una sterlina. A parte qualche spicciolo, non aveva altro denaro con
sé.
«Non una sterlina! Non una maledetta sterlina! Cristo, devi proprio pensare che valgo
poco. Portati dietro un po’ di grana la prossima volta – o tieni a posto quelle tue mani
schifose!».
Provava un profondo senso di vergogna e corruzione. Lei scese dalla macchina: lui la
seguì.
«Scoprirò chi cavolo sei, caro mio, io… vedrai!».
Quel che successe dopo non lo sapeva. Ricordava di aver detto qualcosa e ricordava
vagamente che lei gli aveva risposto. Ricordava i fari della macchina che inondavano di
luce il cortile e ricordava di aver aspettato un varco nel traffico per immettersi nella strada
principale. Ricordava di essersi fermato a bere un doppio whisky e ricordava di aver
guidato veloce nel tratto a due corsie, di aver raggiunto un’auto che viaggiava davanti a lui,
di averla superata e di essere volato nella notte con la mente sconvolta. E giovedì
pomeriggio aveva letto sull’Oxford Daily dell’assassinio di Sylvia Kaye.
Era stato uno stupido a scrivere quella lettera, ma perlomeno adesso avrebbero lasciato
in pace Peter. Mettere qualcosa per iscritto è sempre andare a caccia di guai, ma fino a quel
momento il sistema aveva funzionato piuttosto bene. In ogni caso l’aveva suggerito lei e a
suo tempo era sembrato necessario. Il servizio postale a North Oxford era veramente
scadente, la posta arrivava alle dieci, ultimamente persino più tardi, e il fatto che le ragazze
ricevessero lettere personali sul lavoro sembrava non dar fastidio a nessuno. E a lui
capitava spesso di non essere del tutto sicuro fino all’ultimo minuto. A volte si creavano
complicazioni tremende, ma di norma il sistema funzionava senza problemi. Erano riusciti a
trovare un buon modo per comunicare, piuttosto ingegnoso. Tanto nessuno faceva caso alle
date. Ogni tanto lui inseriva anche un breve messaggio, come l’ultima volta. L’ultima
volta… Morse doveva essere un tipo veramente sveglio, ma non abbastanza da cogliere tutti
i particolari… Naturalmente non aveva potuto dirgli tutta la verità, ma non l’aveva neanche
deliberatamente ingannato. Un pochino, certo. Quella storia dell’altezza, per esempio… Gli
sarebbe piaciuto rivedere Morse. Forse in circostanze diverse avrebbero potuto conoscersi
meglio, diventare amici…
Si addormentò del tutto ed era buio quando si svegliò. Le luci erano abbassate. La
sagoma bianca e silenziosa di un’infermiera era seduta a un tavolino all’altro estremo della
stanza e quasi tutti gli altri pazienti dormivano. La realtà tornò ad aggredirlo: Margaret era
morta. Perché? Perché? Era per i motivi che aveva scritto nella lettera? Come poteva
tornare ad affrontare la vita? Pensò ai ragazzi. Chissà cosa gli avevano detto.
Acute fitte di un dolore lacerante gli trapassarono il petto e d’improvviso ebbe la
certezza che stava per morire. L’infermiera comparve al suo fianco, poi anche il medico.
Era zuppo di sudore. Margaret! Era stata lei a uccidere Sylvia o l’aveva uccisa lui? Che
importanza aveva? I dolori si stavano attenuando e provò uno strano senso di serenità.
«Dottore» disse Crowther.
«Non si agiti, signor Crowther. Presto si sentirà meglio».
Ma Crowther aveva avuto una grave trombosi coronarica e le statistiche sulla
sopravvivenza non erano in suo favore.
«Dottore. Posso chiederle di scrivere una cosa per me?».
«Sì. Naturalmente».
«È per l’ispettore Morse. Scriva».
Il medico prese un blocco e annotò il breve messaggio. Guardò Crowther con
preoccupazione. Il polso si stava indebolendo rapidamente. La macchina funzionava a pieno
ritmo, con i numeri neri che giravano fino a raggiungere i valori massimi. Bernard si sentì la
maschera dell’ossigeno sulla faccia e con una bizzarra lucidità percepì i particolari più
minuti di quel che gli accadeva intorno. Morire sarebbe stato molto più facile di quanto
avesse mai sperato. Più facile che vivere. Con vigore sorprendente si strappò la maschera e
disse le sue ultime parole.
«Dottore, dica ai miei figli che li amavo».
Chiuse gli occhi e parve sprofondare in un sonno pesante. Erano le 2,35 del mattino.
Morì alle 6,30 prima che il sole si levasse nel grigiore screziato del cielo orientale e prima
che gli addetti del primo turno arrivassero con i loro carrelli cigolanti lungo i corridoi
dell’ospedale.
Morse abbassò lo sguardo su di lui. Erano le 8,30 del mattino e, senza clamore, i resti
mortali di Bernard Crowther erano stati trasportati nell’obitorio dell’ospedale quasi da due
ore. A Morse Crowther era simpatico. Una faccia intelligente, e anche piacevole. Pensò che
un tempo Margaret doveva averlo amato tanto, e probabilmente sotto sotto non aveva mai
smesso di amarlo. E non solo Margaret. C’era stato qualcun altro, non è vero, Bernard?
Morse guardò il foglio di bloc-notes che aveva in mano. «All’ispettore Morse. Mi dispiace
moltissimo. Le ho raccontato così tante bugie. Vi prego, lasciatela in pace. Lei non c’entra
niente. Come potrebbe? Ho ucciso io Sylvia Kaye».
I pronomi erano enigmatici o almeno tali erano parsi al medico che aveva trascritto il
messaggio. Ma Morse li sapeva interpretare e sapeva che anche Bernard Crowther, prima di
morire, aveva indovinato la verità. Tornò a guardare il cadavere: i piedi erano freddi come
la pietra, Bernard non avrebbe mai più «ciangottato di verdi campi».
Morse si girò lentamente sui tacchi e se ne andò.
Capitolo ventotto
Venerdì, 22 ottobre, mattina

Più tardi quel venerdì mattina, Morse, seduto nel suo ufficio, aggiornò Lewis sugli
ultimi sviluppi. «Capisce, da sempre il problema con questo caso è stato non tanto che ci
abbiano raccontato delle bugie pure e semplici, ma che ci hanno servito un miscuglio molto
insidioso di verità e menzogna. Ma, grazie a Dio, siamo quasi arrivati alla fine della
strada».
«Non abbiamo ancora finito, signore?».
«Be’, lei cosa ne dice? Non possiamo dire che il caso sia chiuso in modo pulito. Una
confessione fa sempre piacere, d’accordo, ma che si fa quando ce ne sono due?».
«Forse non sapremo mai la verità, signore. Penso che stessero cercando di proteggersi
l’un l’altra, capisce – prendendosi la colpa di quel che l’altro aveva fatto».
«Secondo lei chi è stato, sergente?».
Lewis aveva la sua risposta già pronta. «Credo che sia stata lei, signore».
«Ma va’!». Be’, aveva il cinquanta per cento di possibilità di azzeccare, e aveva
sbagliato. O almeno era quello che pensava Morse. Ma anche lui, nell’ultimo periodo, non
era poi in gran forma, no? «Coraggio, mi dica. Che cosa la fa propendere per la povera
signora Crowther?».
«Be’, penso che abbia scoperto che il marito si vedeva con quest’altra donna, e penso
sia vero quello che ha scritto, che l’ha seguito e l’ha visto a Woodstock. Ci sono dei
particolari che non avrebbe potuto sapere se non fosse stata presente, no?».
«Prosegua» disse Morse.
«Voglio dire, per esempio, non avrebbe potuto sapere dove era parcheggiata l’auto in
quel cortile, o il fatto che a un certo punto si sono spostati dietro. Voglio dire, quello non lo
sapevamo neanche noi, ma sembra spiegare il ritrovamento del capello di Silvia. Secondo
me questi dettagli non può esserseli inventati. E non avrebbe potuto scoprirli dai giornali
perché non sono mai stati resi pubblici».
Morse annuì. «E le dirò un’altra cosa, Lewis. Quel mercoledì Margaret Crowther non è
andata alla lezione a Headington. Sul registro non c’è il segno di presenza accanto al suo
nome per quella sera. Ho controllato».
Lewis era contento che gli indizi corroborassero la sua tesi. «Eppure non pensa che sia
stata lei, signore?».
«So che non è stata lei» disse Morse con semplicità. «Vede, Lewis, penso che se quella
sera Margaret Crowther avesse avuto voglia di uccidere qualcuno, sarebbe stato il cranio di
Bernard a prendersi il colpo di chiave a occhio, non quello di una nullità come Sylvia
Kaye».
Lewis sembrava tutt’altro che convinto. «Secondo me si sbaglia, signore. Capisco quel
che intende dire, ma ogni donna è fatta a modo suo. Non si può semplicemente dire che una
donna avrebbe fatto questo o non avrebbe fatto quest’altro. Ci sono donne capaci di tutto.
Deve aver provato una gelosia tremenda nei confronti di una ragazza che le portava via il
marito a quel modo».
«Ma lei non ha detto di aver provato gelosia. Lei parlava di ‘rabbia bruciante’
ricorda?».
Lewis non se lo ricordava, ma intravide una possibilità di rivincita. «Ma come mai, tutto
d’un tratto, lei sembra così disposto a credere a quel che ha dichiarato? Mi sembrava che
avesse detto che non le credeva».
Morse annuì con approvazione. «È precisamente quel che intendevo. C’è un tale
miscuglio di verità e menzogna. È nostro dovere separare il grano dal loglio».
«E come si fa?».
«Be’, tanto per cominciare abbiamo bisogno di un po’ di intuizione psicologica. Io
penso fosse sincera quando diceva che era furibonda. Diciamo che in qualche modo mi
suona vero. E se era arrabbiata, penso che l’oggetto della sua rabbia fosse il marito, non
Sylvia Kaye».
A Lewis il ragionamento sembrava debole e vago. «Non ho mai avuto una gran passione
per la psicologia, signore».
«Non l’ho convinta, Lewis?».
«Non con questo argomento, signore».
«Non posso darle torto» disse Morse. «Non sono molto convinto neanch’io. Ma le farà
piacere sapere che non siamo costretti a basarci sulla mia abilità di psicologo. Ci pensi un
attimo, Lewis. Margaret Crowther dice di esser entrata nel cortile tenendosi accosto ai
bordi – sulla sinistra, cioè – e di essere avanzata stando dietro alle auto. Poi ha visto il
marito in fondo al cortile, anche lui sulla sinistra. Siamo d’accordo?».
«D’accordo».
«Ma l’arma del delitto, se dobbiamo credere alle testimonianze, e non vedo un motivo al
mondo per cui non dovremmo credervi, era dentro, o accanto, alla cassetta degli attrezzi
lasciata in un angolo del cortile, ma sulla destra. L’arma con la quale la signora Crowther
afferma di aver ucciso Sylvia Kaye era ad almeno una ventina di metri di distanza da dove
si trovava lei. Nella sua dichiarazione non solo diceva di essere arrabbiata, ma di avere
anche avuto paura. E non mi è difficile crederle. Chi non ne avrebbe avuta? Aveva paura
per quello che stava succedendo, paura del buio, forse, ma soprattutto aveva paura che la
vedessero. E ciò nonostante lei mi chiede di credere che ha attraversato il cortile e ha preso
la chiave a occhio che quasi certamente non era a più di quattro o cinque metri da dove si
trovava Bernard con la sua bionda ossigenata? Stupidaggini! Aveva letto della chiave sui
giornali».
«Qualcuno potrebbe averla spostata, signore».
«Sì, certamente, qualcuno potrebbe averla spostata. Secondo lei, chi?».
Lewis sentiva che, finché Morse era in quello stato d’animo, discutere con lui era quasi
altrettanto sacrilego che se Mosè si fosse messo a discutere col Signore sul Monte Sinai. E
comunque avrebbe dovuto notare dall’inizio quella faccenda della chiave. Pessimo,
veramente. Ma qualcos’altro l’aveva disturbato nella lettera di Margaret. Era sembrato così
ovvio fin dal primo momento che si trattava di un delitto compiuto da un maschio, non da
una donna. Lui stesso, quando aveva guardato Sylvia quella sera, aveva saputo con certezza,
senza bisogno del referto del patologo, che la ragazza era stata violentata. Aveva i vestiti
strappati ed era evidente che qualcuno era stato preso da una voglia frenetica di mettere le
mani sul suo corpo. Non era stata una sorpresa per lui, e tanto meno per Morse, il fatto che
il referto parlasse di sperma gocciolato sulle gambe o di ematomi intorno ai seni. Ma tutto
ciò non quadrava con la deposizione di Margaret Crowther. Aveva detto di averli visti
passare sui sedili posteriori. Lì era stato trovato un capello della ragazza, ma quello non
dimostrava granché. Poteva esserci finito in centinaia di modi diversi. No. I conti non
tornavano in nessun modo.
Non riusciva a farli tornare. Mise i suoi pensieri in parole e Morse l’ascoltò con
attenzione.
«Ha ragione. È un problema che mi ha provocato gravi perplessità».
«E che adesso non è più un problema, signore?».
«Oh, no. Se fosse l’unico problema che abbiamo, la strada sarebbe tutta in discesa».
«E invece no, secondo lei».
«Temo che dobbiamo affrontare ancora una bella scalata». Morse, teso e grigio in volto,
continuò a parlare con voce affaticata. «C’è un’altra cosa che avrei dovuto dirle, Lewis.
Dopo aver lasciato il Radcliffe, questa mattina, sono passato da Newlove. Ieri pomeriggio
era andato a trovare Crowther ed era disposto a parlarmi di lui».
«Qualche novità, signore?».
«Sì, penso che in un certo senso si possa dire che ce ne sono. Newlove non ha voluto
approfondire l’aspetto personale della vicenda, ma mi ha detto che Crowther gli ha parlato
della sera dell’omicidio. Il suo racconto coincide in gran parte con quanto già sappiamo o
abbiamo ipotizzato. Tranne per una cosa, Lewis. Crowther gli ha detto di aver pensato che
ci fosse qualcuno nel cortile quella sera».
«Ma questo lo sapevamo, signore».
«Aspetti un attimo. Proviamo a immaginarci la scena. Crowther esce dal posto anteriore
e sale in quello dietro, giusto? Sylvia Kaye fa lo stesso. Ora, intorno all’auto c’era
pochissimo spazio e non era né il luogo né il momento adatto per fare il galante, quindi
immagino sia praticamente certo che lei sia uscita per rientrare nel sedile immediatamente
posteriore e lui abbia fatto lo stesso dall’altra parte. In altre parole si sono seduti dietro
nelle stesse posizioni che avevano occupato sedendo davanti, lui a destra e lei a sinistra.
Ora, per quanto Crowther possa aver poi adottato una posizione originale, penso che per la
gran parte del tempo abbia dato le spalle al punto in cui si trovava sua moglie, in altre
parole penso che lei fosse proprio dietro di lui. Ma Bernard non aveva gli occhi dietro la
testa e Margaret, come abbiamo detto, era paralizzata dal terrore di essere vista. Per come
la vedo io, tutto porta a un’unica conclusione: Crowther non vide sua moglie quella sera.
Sono certo che lei ci fosse, ma non penso che lui l’abbia vista. Vide qualcun altro. In altre
parole, c’era anche un’altra persona quella sera nel cortile, una persona molto più vicina
a lui di quanto non fosse Margaret, qualcuno che era molto vicino alla cassetta degli attrezzi,
e qualcuno che Crowther percepì fuggevolmente dal retro della propria auto. E io penso che
potrebbe essere stata quella persona, Lewis, a uccidere Sylvia Kaye».
«Quindi non pensa che sia stato neppure Bernard?».
Per la prima volta Morse parve stranamente esitante. «Avrebbe potuto farlo,
ovviamente».
«Ma io non riesco a vedere un movente. E lei, signore?».
«No» disse Morse senza espressione «non ci riesco neanche io». Si guardò intorno,
avvilito.
«Ha saputo altro dal signor Newlove, signore?».
«Sì. Crowther gli ha detto che aveva usato lui la macchina per scrivere».
«Intende quella di Newlove?».
«Sembra sorpreso».
«Quindi alla fin della fiera è stato proprio Crowther a scrivere quella lettera?».
Morse gli lanciò un’occhiata in cui si leggeva un disincanto. «Ma di certo lei non ne ha
mai dubitato?».
Aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse una busta bianca sigillata che passò a
Lewis. Era indirizzata a Jennifer Coleby. «Voglio che vada da lei, Lewis, voglio che le dia
questa lettera e che sia presente quando la apre. Dentro c’è un foglio per la risposta e una
busta intestata a me. Le dica di rispondere alla domanda che le faccio e di sigillare la sua
risposta dentro quella busta. Tutto chiaro?».
«Ma non sarebbe più semplice telefonarle, signore?».
Gli occhi di Morse improvvisamente mandarono un lampo d’ira, anche se poi, quando
parlò, le sue parole furono pacate e controllate. «Come le stavo dicendo, Lewis, resti con la
ragazza e, quando avrà scritto la risposta, si assicuri che la busta sia ben sigillata. Vede, non
voglio che lei legga né la domanda che le faccio né la risposta che lei darà». La sua voce
era diventata gelida, e Lewis si affrettò ad annuire. Non si era mai ben reso conto di quanta
paura poteva incutere l’ispettore e fu felice di andarsene via.
Capitolo ventinove
Venerdì, 22 ottobre, pomeriggio

Dopo che Lewis se ne fu andato, Morse si mise a pensare a Sue. Erano successe tante
cose da lunedì, ma Sue era rimasta in cima ai suoi pensieri per quasi tutto il tempo. Doveva
rivederla. Guardò l’ora. Si chiese cosa stesse facendo, e d’un tratto passò all’azione.
«Parlo con il Radcliffe?».
«Sì».
«Il pronto soccorso, per favore».
«Glielo passo, signore».
«Buongiorno, pronto soccorso». Non era Sue.
«Vorrei parlare con la signorina Widdowson, per favore».
«Intende l’infermiera Widdowson». Non ne era sicuro.
«Penso che il nome di battesimo sia Susan».
«Mi dispiace, signore. Le infermiere non sono autorizzate a prendere telefonate esterne
tranne…».
«Potrebbe essere un’emergenza» lo interruppe Morse speranzoso.
«È un’emergenza?».
«Veramente no».
«Mi dispiace, signore».
«Senta, è la polizia che parla».
«Mi dispiace, signore». Chiaramente era una storia che aveva già sentito.
A poco a poco Morse si stava di nuovo arrabbiando. «C’è la responsabile?».
«Vuole che gliela passi?».
«Precisamente».
Dovette aspettare due minuti buoni. «Buongiorno, parla la responsabile del servizio
infermieristico».
«Buongiorno. Chiamo dalla Thames Valley Police, sono l’ispettore capo Morse. Vorrei
parlare con l’infermiera Widdowson. Capisco che avete i vostri regolamenti e naturalmente
se si trattasse di ordinaria amministrazione non mi permetterei…».
«È urgente?». Vox auctoritatis.
«Be’, diciamo che è importante».
Nei minuti che seguirono la donna gli spiegò con calma e precisione i regolamenti
vigenti in materia di corrispondenza personale e telefonate dall’esterno per i membri del
«suo» staff infermieristico. Espose chiaramente le regole e le ragioni per cui erano state
imposte, mentre Morse, come al solito tamburellando con le dita sul tavolo, si spazientiva
all’altro capo del telefono.
«Vede, lei non può avere un’idea della quantità di lettere e telefonate che tutti i miei
reparti ricevono ogni giorno. E se avessimo anche la complicazione di tutte le lettere e le
telefonate personali, dove andremmo a finire? Ho provato, credo con buon successo, a…».
Morse la ascoltò fino alla fine. Mentre quella donna parlava un’ipotesi follemente
improbabile gli si era ormai radicata nella mente. Avrebbe quasi voluto farle ripetere il suo
tedioso catalogo di divieti. «Le sono molto grato, signora. Vorrei scusarmi…».
«Non si preoccupi. È stato un piacere parlarle. Ora, la prego, se posso esserle d’aiuto in
qualsiasi modo...». In quel momento avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, lo sapeva, ma la
situazione era cambiata. In quel momento c’era un’infima, folle possibilità dove fino a un
attimo prima non ve ne era alcuna. Chiuse la telefonata più in fretta che poté, con la capo-
infermiera che quasi lo implorava di potergli fare un favore. Ma Morse non aveva bisogno
di nulla: adesso sapeva quel che doveva fare.
Sue stava pranzando mentre Morse finiva l’interminabile telefonata con la sua diretta
superiore. Stava anche pensando a lui. Se solo l’avesse conosciuto prima! Sapeva, con una
sicurezza dettata dalla passione, che la sua vita sarebbe stata diversa. Ma anche adesso, era
veramente troppo tardi? Il dottor Eyres, seduto accanto a lei, approfittava di ogni
opportunità anche solo vagamente decorosa per avere un contatto fisico ravvicinato con la
graziosa infermiera, ma Sue non sopportava più né la sua vicinanza né le sue insinuazioni e,
rinunciando al dessert, si alzò da tavola appena poté. Oh, Morse! Perché non ti ho incontrato
prima! Tornò nel pronto soccorso e si sedette su una delle sedie rigide della sala
accettazione. Sovrappensiero prese un vecchio numero di Punch e ne sfogliò
meccanicamente le pagine sbiadite… Che cosa doveva fare? Lui non l’aveva più avvicinata
da dopo quella maledetta sera in cui Jennifer li aveva sorpresi. Jennifer! E pensare che era
stata così stupida da confidarsi con lei. David? Doveva scrivergli. Ne sarebbe rimasto
sconvolto; ma vivere, dormire per quaranta o magari cinquant’anni con qualcuno che non si
ama veramente…
Poi lo vide. Se ne stava lì con quel suo sguardo angosciato e vulnerabile. A Sue vennero
le lacrime agli occhi e provò una gioia indicibile. Lui la raggiunse e le si sedette accanto.
Non cercò nemmeno di prenderle la mano, non ce n’era bisogno. Si misero a parlare, Sue
non sapeva neanche di che cosa. Non aveva importanza.
«Ora è meglio che vada» gli disse. «Tornerai presto a trovarmi, vero?». Era l’una e
mezzo passata.
Morse si sentiva un grande dolore nel petto. La guardò a lungo e seppe di amarla
profondamente.
«Sue?».
«Sì».
«Non hai una tua foto da darmi?».
Sue frugò nella borsetta e trovò qualcosa. «Non è molto bella, a dire la verità».
Morse guardò la fotografia. Sue aveva ragione: l’immagine non le rendeva giustizia, ma
era chiaramente lei. Se la infilò nel portafoglio con ogni cura e si alzò per andarsene.
C’erano già alcuni pazienti in attesa: pazienti con ingessature ingombranti alle braccia o alle
gambe, pazienti con la testa o i polsi bendati; una vittima di incidente automobilistico con
del sangue intorno alla bocca e il viso cinereo. Era ora di andare. Le sfiorò leggermente la
mano e le loro dita si incontrarono in un tenero addio. Sue seguì con lo sguardo Morse che
si diresse, zoppicando leggermente, verso i pannelli di plastica appesi a mo’ di porta, e se
ne andò.
Erano quasi le due meno un quarto quando Morse uscì dal Radcliffe e raggiunse l’ampia
arteria bordeggiata d’alberi di St Giles. Stava quasi per rimandare il suo impegno
successivo, ma era una cosa che prima o poi andava fatta, ed era già sul posto. Tenendosi
sul marciapiede di destra, avanzò lungo la St Giles procedendo grosso modo in direzione
del Martyrs’ Memorial. Si fermò al primo bar che trovò, il Wimpy Grill, ed entrò. Poiché,
per sua stessa ammissione, l’italiano piccolo e scuro che rivoltava gli hamburger sulla
piastra non parlava molto bene l’inglese, una cameriera giovane e sciatta fu subito invitata a
prender parte al consulto. Morse se ne andò accompagnato da un grande scuotere di teste e
da un gesticolare frenetico: l’impresa si preannunciava impegnativa. Pochi metri più in là si
fermò al Bird and Baby, dove ordinò un boccale di rossa e si dedicò per parecchi minuti a
una conversazione seria e tranquilla con il barman, che risultò essere anche il proprietario e
che, all’ora di pranzo, era sempre di turno dietro il bancone. No, purtroppo no. Oh, sì che
l’avrebbe notato! Gli dispiaceva, ma la risposta era no. Sarebbe stata un’impresa lunga e
scoraggiante, ma solo Morse poteva farlo.
Uno per uno visitò la decina di locali che davano sulla Cornmarket prima del Cinema
ABC, attraversò la strada a Carfax e riprese dall’altro lato. Fu in un piccolo bar-pasticceria
(«Si servono spuntini»), nascosto accanto all’enorme palazzo di Marks and Spencer, che
trovò la persona giusta. Era una donna in carne, con i capelli grigi, un viso gentile e modi
cordiali. Morse le parlò a lungo e anche in questo caso la signora annuì e indicò con la
mano, ma non vagamente verso l’esterno, verso la tal via o la tal stradina secondaria.
Questa volta le indicazioni puntavano dritte verso la piccola sala sul retro dove venivano
serviti gli spuntini. Anzi, a voler essere precisi, la signora indicò in particolare il tavolino
nell’angolo più lontano della stanza, con due sedie ora vuote, una saliera, un portacenere
sporco e una bottiglia di ketchup su una tovaglia a strisce bianche e rosse.
Erano le 15,45. Morse si avvicinò al tavolino e si sedette. Sapeva che il caso era ormai
quasi chiuso, ma non si sentiva euforico. Gli facevano male i piedi, soprattutto il destro, e
aveva assolutamente bisogno di qualcosa che lo tirasse su. Di nuovo estrasse dal portafoglio
la fotografia di Sue, la donna che amava senza alcuna speranza. La cameriera dai capelli
grigi gli si avvicinò.
«Posso servirle qualcosa, signore? Mi scusi ma non avevo capito che lei…».
«Grazie, cara, mi porti una tazza di tè» disse Morse. Era meglio di niente.
Tornò in ufficio solo alle 16,45. Sulla scrivania trovò un biglietto di Lewis. Il sergente
sperava che non fosse un problema se staccava un po’ prima del solito. Che lo chiamasse
senz’altro se c’era bisogno di lui. Sua moglie aveva qualche linea di febbre e star dietro ai
ragazzi era pesante.
Morse accartocciò il biglietto e lo buttò nel cestino. Sotto il biglietto Lewis gli aveva
lasciato la lettera di Jennifer Coleby. Dopo essersi accertato che era ancora perfettamente
sigillata, senza aprirla Morse l’infilò nell’ultimo cassetto a sinistra della scrivania, che poi
chiuse a chiave.
Cercò un numero nella rubrica e ascoltò l’insistente «tu-tuuu», segnale che la linea era
libera. Guardò l’ora: erano le cinque. Anche fosse già uscito, non era una tragedia, ma
Morse avrebbe preferito chiarire la cosa al più presto. «Tu-tuuu-tu-tuuu». Stava quasi per
rinunciarci quando qualcuno rispose alla chiamata.
«Pronto?». Era Palmer.
«Ah, sono contento di averla trovata. Sono Morse».
«Oh». Il piccolo direttore non sembrava inebriato di gioia. «È fortunato. Stavo proprio
per chiudere baracca e burattini, ma ho pensato che fosse meglio tornare indietro a
rispondere. Con questo lavoro, non si sa mai. Poteva essere una chiamata importante».
«È importante».
«Ah».
Palmer abitava nella Observatory Street, una via alla moda in fondo alla Woodstock
Road. Sì, poteva incontrare Morse – certo che poteva – se la cosa era importante. Si misero
d’accordo di vedersi al Bull and Stirrup nella vicina Walton Street, alle 20,30.
Era uno di quei locali molto terra terra, brutti e male illuminati; uno di quei posti
deprimenti che attirano una clientela scadente con le macchine mangiasoldi, le freccette e le
scommesse sui cavalli. Morse voleva affrontare e chiudere la questione il più in fretta
possibile, ma l’inizio fu molto faticoso: Palmer era evasivo e reticente. Morse però sapeva
troppe cose e così alla fine, controvoglia, ma con evidente sincerità, Palmer gli raccontò la
sua piccola, triste storia.
«Lei penserà che avrei dovuto dirle tutto quanto fin dall’inizio».
«Non saprei. Non sono sposato». Morse sembrava del tutto indifferente. Erano le nove e
Morse si congedò.
Percorse la Woodstock Road superando un po’ i 50 all’ora, ma notando più avanti
un’auto della polizia, rallentò fino a raggiungere il limite stabilito per legge. Arrivò alla
rotonda, dove tutto quel brutto pasticcio aveva avuto inizio, e si diresse verso Woodstock.
Si fermò a Yarnton e parcheggiò la Lancia davanti alla casa della signora Mabel Jarman,
dove si trattenne solo per qualche minuto.
Sulla strada verso casa si fermò alla centrale. I corridoi erano bui, ma Morse non si
diede la pena di accendere le luci. Nel suo ufficio, aprì il cassetto in fondo a sinistra della
scrivania e ne estrasse la busta. La mano con cui prese il tagliacarte e aprì il margine
superiore della busta tremava leggermente. Si sentiva come un giocatore di cricket che,
finito il turno senza aver fatto neanche un punto, lanciasse un’occhiata al tabellone per
vedere se l’intervento di un altro battitore non gli avesse per caso evitato la figuraccia. Ma
Morse non credeva ai miracoli e sapeva cosa era scritto in quella lettera ancor prima di
leggerla. Diede una scorsa al foglio, ma non lo lesse. Considerò quel testo nel suo insieme,
senza soffermarsi sulle singole lettere e parole che lo componevano. I miracoli non
esistevano.
Spense la luce, chiuse a chiave la porta dell’ufficio e ripercorse il corridoio buio.
L’ultima tessera era andata al suo posto. Il puzzle era completo.
Capitolo trenta
Sabato, 23 ottobre

Fin dall’ora di colazione Sue stava provando a scrivere a David. Un paio di volte era
riuscita a buttar giù una mezza paginetta, per poi appallottolarla e cominciare da capo su un
foglio pulito. Ma le parole, così difficili da trovare, le mancavano dopo solo una breve
frase. Provò di nuovo.
Mio caro David,
sei stato così gentile e affettuoso nei miei confronti, e so che questa lettera per te sarà un
colpo durissimo. Ma sento che devo dirtelo… non è giusto che io ti nasconda alcunché. La
verità è che mi sono innamorata di un’altra persona e…
Che cos’altro poteva dire? Non poteva chiuderla lì… Anche l’ultimo tentativo fu
bocciato e andò ad aggiungersi al mucchietto di carte appallottolate sul tavolo.
Quel mattino Morse sedeva cupo nella sua poltrona di pelle nera. Un’altra notte agitata e
senza sonno. Aveva bisogno di vacanze.
«Ha un’aria stanca, signore» disse Lewis.
«Sì, ma adesso il cerchio si è chiuso».
Morse parve risollevarsi. Trasse un profondo respiro. «Ho preso un paio di strade
sbagliate, come lei ben sa, ma la buona sorte ha voluto che andassi sempre nella direzione
giusta – fin dalla notte del delitto. Si ricorda quando eravamo in quel cortile? Io ricordo di
aver guardato le stelle e di aver pensato agli innumerevoli segreti che dovevano conoscere,
loro che vedono tutto. Ricordo anche che allora mi sforzai di scorgere il disegno
complessivo dell’accaduto, non solo le linee che lo componevano. Sa, Lewis, c’era
qualcosa di molto strano nell’aria, quella notte. Sembrava abbastanza chiaramente un
assassinio a sfondo sessuale. Ma non sempre le cose sono quello che sembrano, non è
vero?».
Parlava con voce incantata e cantilenante, quasi come se fosse drogato. «Certo è
possibile fare in modo che le cose risultino un po’ bizzarre, ma devo ancora trovare un
assassino abbastanza intelligente da riuscirci. Oppure le cose semplicemente accadono in
quel modo, eh? Era strano che Sylvia fosse stata violentata nello stesso luogo in cui è stata
poi trovata, non è vero? So che quella sera il cortile era buio, ma automobili con i fari
accesi entravano e uscivano in continuazione. E ci vuole molta fantasia per pensare che
qualcuno sia così folle da violentare una ragazza alla luce degli anabbaglianti». A Lewis
sembrò che si stesse rilassando un poco e che i suoi occhi avessero perso quella fissità
opaca. «Ebbene?». Adesso sì che riconosceva il capo.
«Penso che lei abbia ragione, signore».
«Ma sembrava strano. Una giovane bionda dalle gambe lunghe era stata uccisa e
violentata, o violentata e uccisa. In qualsiasi modo fossero andate le cose, tutto puntava
nella stessa direzione: un omicidio a sfondo sessuale. Ma non ero convinto. Si dice che non
sia facile violentare una ragazza e, come le dicevo, non riuscivo a credere che Sylvia fosse
stata violentata in quel cortile. Avrebbe potuto gridare e strillare – a meno che,
naturalmente, non fosse già morta. Ma sono un po’ schifiltoso riguardo quel genere di cose,
e trovavo altamente improbabile che avessimo a che fare con un necrofilo alla Christie. E
allora, che fare?». Lewis sperava che fosse una domanda retorica, come in effetti era. «Be’,
si concentra l’attenzione sui due elementi prendendoli uno alla volta: lo stupro e l’omicidio.
Proviamo a pensarli come due azioni distinte, e non una sola. Immaginiamo che la ragazza
abbia avuto un rapporto con un uomo – del resto non c’erano dubbi circa il fatto che un
rapporto l’avesse avuto. Immaginiamo inoltre che lei fosse del tutto consenziente. E in effetti
c’era almeno un piccolo indizio in favore di questa ipotesi. Sylvia non era una femminista,
ma non indossava il reggiseno e ciò mi era sembrato, se non inusuale, diciamo un poco
audace. Abbiamo scoperto che Sylvia possedeva parecchie camicette bianche, e neanche un
reggiseno di quel colore. E come mai? Una persona che teneva tanto alla propria figura e al
proprio aspetto come Sylvia Kaye non avrebbe mai, per noncuranza, indossato un reggiseno
nero sotto una leggera camicetta bianca, vero? Potevo trarne una sola conclusione: che non
di rado Sylvia usciva senza reggiseno; e quando lo indossava, era di colore nero perché
tutte le ragazze sono convinte che la biancheria intima nera sia terribilmente sexy. Ora, tutto
questo induceva a credere che fosse una fanciulla alquanto di facili costumi, e penso sia
abbastanza chiaro che le cose stanno così».
«Non aveva indosso neppure le mutande, signore».
«No, ma il referto del patologo suggerisce che prima le aveva – c’era il segno
dell’elastico intorno ai fianchi. Sì, sono abbastanza certo che portasse le mutande e che
queste siano rimaste infilate in tasca a qualcuno che poi le ha buttate o bruciate. Comunque
non è importante. Torniamo alle due componenti del crimine. Prima un uomo ha un rapporto
con Sylvia – quasi certamente non contro la sua volontà. Poi qualcuno la uccide. Magari era
stato lo stesso uomo, ma non era facile immaginare un movente. Gli indizi che avevamo
nella fase iniziale sembravano indicare che quell’uomo fosse un incontro casuale, il primo
che le aveva dato un passaggio sulla strada per Woodstock. D’accordo. Ma da quando
abbiamo scoperto che a fermarsi alla rotonda per Woodstock era stato Bernard Crowther,
certi aspetti del caso sono diventati ancora più enigmatici, anziché il contrario. Non avevo
difficoltà a immaginare che Crowther fosse il tipo d’uomo che di tanto in tanto tradisce la
moglie; a giudicare da quel che sappiamo, la relazione tra i due negli ultimi anni si era
deteriorata, si era passati dalla beatitudine idilliaca al battibecco idiota. Ma se la persona
che cercavamo era un uomo avvelenato di sesso, mi sentivo abbastanza sicuro che non
potesse essere Crowther. A me lui era sembrato essenzialmente una persona civile. Si
ricorda, Lewis, quando lei ha rivisto quelle fotografie di Sylvia? Si ricorda di aver detto
che dovevamo prendere quel bastardo? Credo che lei in quel momento pensasse a un
crimine composito; lei stava mettendo insieme lo stupro e l’assassinio con qualcos’altro: il
fatto evidente che gli abiti succinti di Sylvia erano stati strappati. Sinceramente non riuscivo
a immaginarmi Crowther in quella parte; e se c’era qualcosa di vero nella lettera della
signora Crowther, era la sua descrizione di quel che aveva visto accadere dentro
all’automobile. L’ha notato anche lei, Lewis. E allora, cosa ci resta in mano? Prima l’uomo
ha un rapporto con la ragazza sul sedile posteriore dell’auto. Poi potrebbe aver litigato con
lei per qualche motivo. Diciamo che lei era una professionista e che aveva accettato di fare
l’amore con lui in base a un accordo di quelli che praticano le comuni prostitute. Diciamo
che lui non poteva o non voleva pagarla. Diciamo che litigano e che lui la uccide. È una
possibilità. Ma io proprio non riesco a credere che, se questa fosse stata la catena degli
eventi, noi avremmo trovato Sylvia nelle condizioni in cui l’abbiamo trovata – con la
camicetta strappata via. O quantomeno non l’avremmo trovata così se avessimo avuto
ragione di pensare che il colpevole era Crowther».
Lewis lo interruppe a bassa voce. «Lei diceva di sapere chi è stato».
«Penso che lo sappia anche lei, Lewis» rispose Morse. «Man mano che l’indagine
proseguiva sembrava esserci un’unica persona con una mente così deviata e perversa da
arrivare a violare il cadavere di una ragazza assassinata. Un uomo che stava aspettando, un
uomo che, come sappiamo, si tortura e tormenta in continuazione pensando al sesso; un
uomo che una volta alla settimana si ingozza di film erotici e di pornografia. Lei lo conosce
bene, Lewis. E una settimana fa sono andato a trovarlo. Nella sua stanza c’è l’armamentario
completo: dalle cartoline sconce alle riviste, pornografia dura e compagnia. È un uomo
malato, Lewis, e sua madre lo sa. Ma non è un uomo cattivo. In realtà non è antipatico, in un
suo modo sgradevole. Mi ha confessato di aver immaginato spesso di denudare il corpo di
una ragazza morta».
«Dio mio» esclamò Lewis.
«La cosa non dovrebbe sorprenderla, sa?» disse Morse. «A quanto mi si dice, Freud
parla di questo genere di sogni come di una fantasia sessuale abbastanza diffusa tra i
guardoni frustrati». Lewis ripensò al film. Persino lui l’aveva trovato un po’ eccitante, no?
Ma non aveva voluto ammetterlo nemmeno a se stesso.
«Aveva già incontrato Sylvia molte volte. Di solito si trovavano nella sala cocktail del
Black Prince, bevevano qualcosa e poi andavano a casa di lui, in camera sua. La pagava.
Me l’ha detto lui».
«Per un verso o per l’altro spendeva parecchio, il ragazzo».
«Altro che! Comunque, la notte in cui Sylvia fu uccisa, lui la stava aspettando più o
meno dalle otto meno un quarto. Aveva continuato a bere e si sentiva sempre più disperato
quanto più il tempo passava senza che Sylvia si facesse vedere. Era uscito varie volte a
cercarla, ma non aveva visto nessuno. Quando alla fine la trovò, ormai stava male
fisicamente ed era fuori di sé per l’accumulo di frustrazione sessuale e di alcol. La trovò
per caso – così mi ha detto, e io gli credo».
«E poi… lei intende dire che lui… ha violato il cadavere?».
Morse annuì. «Sì, è quel che ha fatto».
«Quell’uomo deve farsi curare, signore».
«Mi ha promesso che si cercherà uno psichiatra, ma non è che io sia troppo ottimista al
riguardo. Solo una volta mi è capitato di incontrarne uno. Un tipo strano. Se c’era al mondo
un uomo che aveva bisogno di cure era lui». Morse sorrise mestamente, e Lewis pensò che
il suo capo stava piano piano tornando alla normalità.
«Allora quel particolare poteva considerarlo chiarito, signore».
«Sì. Ma non mi era di grande aiuto, no? Ero assolutamente certo che Sylvia Kaye non
fosse stata uccisa dal signor John Sanders. Stando al referto del patologo era morta più o
meno tra le sette e le otto di sera. Ora, la storia dell’assassino che torna sul luogo del delitto
la conosciamo tutti, ma non riuscivo a credere che Sanders se ne fosse stato per due ore e
mezzo o tre a bere whisky a non più di una cinquantina di metri di distanza dal luogo in cui
giaceva la donna che lui aveva ucciso. Di sicuro se l’avesse uccisa lui, se la sarebbe data a
gambe. Quel che non riuscivo a capire era come mai il cadavere non fosse stato scoperto
prima. Ma lei mi ha fornito la spiegazione».
Lewis, che sapeva ciò cui Morse stava alludendo, si rallegrò scoprendo di aver dato
almeno un contributo al caso. Il sergente aveva intervistato tutti gli avventori che quella sera
avevano parcheggiato la macchina nel cortile. Il proprietario dell’auto accanto alla quale
Sylvia era stata ritrovata in un primo momento aveva parcheggiato in qualche modo fuori
dal cortile del Black Prince, ma non era tranquillo perché temeva di aver bloccato qualche
altra macchina, e non appena aveva visto un’auto uscire dal cortile, aveva subito sfruttato la
possibilità di infilare la sua nel posto che si era liberato. Era entrato a marcia indietro e le
sue luci posteriori non potevano aver illuminato il cadavere di Sylvia. Quando poi era
sceso, Sylvia si trovava accanto al muro, sul lato opposto dell’auto.
«Bene» continuò Morse «a quel punto, per un motivo o per l’altro, eravamo arrivati a
Crowther. O meglio ai coniugi Crowther. Forse non riusciremo mai a scoprire il ruolo che
ciascuno di loro ebbe la notte del delitto. Ma una cosa penso che possiamo affermarla con
certezza: in conseguenza di quello che era successo, Margaret pensava che Bernard avesse
ucciso Sylvia. Se lei poi si sia suicidata solo a causa di questo sospetto non posso saperlo,
anche se fu sicuramente uno dei fattori che la spinsero a farlo. Ma questa è solo metà della
storia. Infatti secondo me Bernard pensava che Margaret avesse ucciso Sylvia . Se questo è
vero, si spiegano tante cose. Bernard aveva due motivazioni fortissime per non farsi avanti.
Innanzitutto la sua relazione segreta di sicuro sarebbe venuta alla luce, con tutte le
conseguenze del caso. Ma in secondo luogo, e forse è questa la ragione principale, la sua
testimonianza avrebbe potuto portarci a scoprire l’assassino che, per come la vedeva lui,
probabilmente era sua moglie Margaret. Ah, caro Lewis, se solo quei due si fossero parlati!
Non si sospetta un’altra persona di aver commesso un crimine di cui siamo colpevoli. E io
penso che ciascuno di loro sospettasse sinceramente dell’altro. Così possiamo dire con tutta
sicurezza che nessuno dei due è il colpevole. E se Bernard avesse avuto un briciolo di
lucidità si sarebbe reso conto di quanto fosse improbabile il coinvolgimento di Margaret
nell’omicidio. L’aveva superata mentre tornava a Oxford! Sappiamo dalla testimonianza di
Margaret che lei non aveva certo una guida veloce e probabilmente si sarebbe fatta superare
da chiunque. Ma se lui se n’è andato da Oxford prima di lei, è fisicamente impossibile che
l’abbia superata, giusto?».
«A meno che si sia fermato a bere o qualcosa del genere, signore».
«Non ci avevo pensato» disse Morse lentamente. «Ma non è un punto di vitale
importanza. Continuiamo. La persona chiave nel caso è stata fin dall’inizio la signorina X –
la signorina X che viaggiava con Sylvia Kaye nell’auto di Bernard Crowther. Che cosa
abbiamo trovato su di lei? L’indizio più interessante a nostra disposizione era una frase
udita dalla signora Jarman; e lei è perfettamente convinta di averla sentita – sono tornato a
chiederglielo ieri sera. Ha sentito Sylvia dire: ‘Vedrai che domani ci facciamo quattro
risate sopra’. Allora, a quel punto il campo si è ristretto notevolmente, non è vero?
Abbiamo preso in considerazione la Town and Gown Assicurazioni e abbiamo scoperto
alcune cose interessanti. E quella più interessante di tutte è che qualcuno ha detto alla
signorina Jennifer Coleby di tenere la bocca chiusa». Lewis fece per aprire la sua, di bocca,
ma non riuscì a dire nulla. «So che, secondo lei, ce l’ho avuta con quella signorina fin dal
primo momento; ma ora sono certo, del tutto certo, che la lettera indirizzata a Jennifer
Coleby sia stata scritta da Bernard Crowther. Se vuole che scenda nei particolari, è stata
scritta venerdì 1 ottobre nella stanza del signor Peter Newlove presso il Lonsdale College,
con la macchina per scrivere dello stesso Peter Newlove. E questo, Lewis, è un fatto».
Ancora una volta Lewis avrebbe voluto obiettare qualcosa, e ancora una volta Morse lo
fermò con un gesto della mano. «Mi lasci finire, Lewis. Jennifer Coleby ha mentito fin dal
primo istante. Anzi, tra tutte le persone coinvolte nel caso, è Jennifer Coleby a detenere il
primato della menzogna. Bugie, bugie, un mare di bugie. Ma perché mentiva? Perché mai
desiderava tanto portarci fuori strada? Abbastanza presto mi convinsi che la ragione in
realtà era piuttosto semplice. La ragazza che sedeva sul sedile posteriore dell’auto era
l’amante di Bernard, e tutto quello che Margaret ci ha rivelato conferma la veridicità di ciò
che lo stesso interessato ha ammesso: Bernard Crowther aveva un’amante. Non c’è bisogno
che le ricordi tutte le bugie che Jennifer ci ha rifilato; ma nell’intricata ragnatela di
menzogne c’era un filo di verità. E proprio quando sembrava aver sparato la frottola più
grande di tutte, proprio allora stava dicendo il vero. Ci ha detto che lei aveva una
macchina».
Lewis non riuscì più a trattenersi. «Ma aveva forato, signore. Sappiamo tutto al
riguardo».
«Oh, non metto in dubbio che avesse forato. Lo abbiamo verificato. Sappiamo che
chiamò quell’elettrauto-gommista. Ma se lui non è potuto andare a riparargliela, magari l’ha
fatto qualcun altro, non le pare? Se ricorda, Jennifer non chiese al gommista di passare
appena poteva; e non ha fatto cambiare la gomma neanche da Barkers. Ma qualcuno gliel’ha
cambiata, Lewis. Magari ci è riuscita da sola. In fondo non è una sprovveduta, no? Potrebbe
aver chiesto aiuto a un vicino di casa. Non lo so. Ma si può cambiare una gomma in cinque
minuti senza grandi problemi, e Jennifer Coleby è una ragazza pratica che, quella sera,
aveva bisogno della sua auto».
«Questa non l’ho capita, signore» disse Lewis confuso.
«Non tema, la capirà». Morse guardò l’orologio. «Voglio che vada a prenderla, Lewis».
«Chi? La signorina Coleby?».
«E chi diavolo, se no?».
Morse seguì Lewis fuori dall’ufficio, bussò alla porta del capo sovrintendente Strange
ed entrò.
Circa una mezz’ora dopo la porta si riaprì e Strange si fermò sulla soglia insieme a
Morse. Entrambi avevano un’espressione seria e Strange annuì gravemente mentre Morse gli
diceva ancora qualche parola.
«Lei ha un’aria molto stanca, Morse. Dovrebbe prendersi un paio di settimane di ferie,
ora che questa storia è finita».
«Be’, non è ancora del tutto finita, signore».
Lentamente Morse tornò verso il suo ufficio.
Quando Jennifer Coleby arrivò, Morse le chiese di accomodarsi e poi si avvicinò a
Lewis. «Si tratta di una conversazione riservata, Lewis. So che lei capirà».
Lewis non capì e si sentì offeso. Ma li lasciò soli e si avviò verso la mensa della
centrale.
«Senta, ispettore, dopo la visita del suo sergente, ieri, ero convinta che lei avesse
finito...».
Morse la interruppe bruscamente. «Io le ho chiesto di venire e sarò io a parlare. Lei
faccia la cortesia di restarsene seduta e buona per qualche minuto». Nella sua voce c’era
una minaccia appena velata e Jennifer Coleby, molto allarmata, obbedì.
«Lasci che le dica, signorina Coleby, quel che sospettavo da molto tempo. Può
interrompermi se sbaglio, ma non voglio più sentire le sue miserevoli bugie». Lei scoccò
uno sguardo velenoso agli occhi grigi dell’ispettore, ma non aprì bocca. «Mi lasci dire
quello che penso. Penso che una sera due ragazze abbiano accettato un passaggio da un
uomo e che una delle due era l’amante di quell’uomo. Penso che quell’amante di solito si
recasse agli incontri in auto, ma che quella sera in particolare non fu possibile, e che per
quel motivo fu costretta a cercare di prendere l’autobus oppure a trovarsi un passaggio.
Sfortunatamente, e per puro caso, trovò un passaggio e a darglielo fu proprio l’uomo con il
quale doveva incontrarsi. D’un tratto l’intera faccenda divenne troppo pericolosa – è quel
che mi immagino io, signorina Coleby, capisce? – e i due decisero di lasciar perdere
l’appuntamento e di aspettare che si presentasse un’altra opportunità. Penso che a un certo
punto lungo la strada quella ragazza, l’amante, abbia detto che le andava bene scendere lì.
Probabilmente si inventò una scusa che suonò molto naturale – era brava a mentire – e gli
disse che voleva essere lasciata lì. Ma sapeva dove era diretta quell’altra ragazza – senza
dubbio quell’altra ragazza gliel’aveva detto – e per qualche motivo provò una gelosia
incontrollabile. Forse aveva percepito qualcosa durante il tratto di strada in cui avevano
viaggiato tutti insieme. Capisce, Jennifer, la ragazza che sedeva davanti era molto attraente.
E forse, chissà, l’uomo, quell’uomo che lei conosceva così bene, avrebbe tradito la moglie.
D’altra parte, l’aveva già tradita con lei! Perché non farlo ancora? Quindi io penso che le
cose siano andate così. Lei scese dall’auto, ma non tornò a casa. No. Si mise ad aspettare
l’autobus, e ne arrivò uno quasi subito. Quanto deve aver maledetto il destino! Se solo non
avesse fatto l’autostop! Comunque, prese l’autobus e poi s’incamminò verso il luogo dove
sapeva che avrebbe potuto trovarli. Era buio e non riusciva a vedere un granché, ma quel
che vide le bastò. E sentì montarle dentro la gelosia, una furia assassina non tanto diretta
contro il suo amante, ma contro quella miserabile puttana, quella ragazza che conosceva da
tempo ma che non le era mai stata simpatica, una ragazza che ora lei odiava con una
violenza indicibile. Penso che forse, dopo che l’uomo se ne fu andato, le due si siano
parlate – ma sto tirando a indovinare e potrei sbagliarmi. La ragazza che era appena scesa
dall’auto forse percepì la minaccia letale sul volto dell’altra e forse tentò di scappare. Ma
non appena si girò, fu raggiunta da un colpo brutale alla nuca e crollò morta
sull’acciottolato. Penso che il cadavere sia poi stato preso per le braccia e trascinato
nell’angolo più buio del cortile e penso che la ragazza che aveva commesso l’assassinio si
sia allontanata nella notte e sia tornata a casa in autobus».
Morse si fermò e nella stanza calò un silenzio assoluto. «Pensa che le cose siano andate
così, signorina Coleby?».
Jennifer Coleby annuì.
«Sappiamo tutti e due chi ha ucciso Sylvia, non è vero?». Morse parlava a voce così
bassa che lei riusciva a malapena a distinguere le parole. Annuì di nuovo.
Morse chiamò Lewis e gli chiese di tornare nell’ufficio. «Prenda qualche appunto,
sergente. Ora, signorina Coleby, ancora qualche domanda, se non le spiace. Chi l’ha aiutata
a cambiare la gomma?».
«L’uomo che abita di fronte a noi, il signor Thorogood».
«Quanto tempo ci ha messo?».
«Cinque, dieci minuti. Non molto. L’ho aiutato anche io».
«Da quanto tempo è l’amante del suo datore di lavoro, il signor Palmer?». Lewis alzò
gli occhi stupefatto.
«Da quasi un anno».
«Non ha pensato che fosse pericoloso confidarsi con qualcuno?».
«Immagino di sì. Ma così potevamo usare la mia camera una volta alla settimana».
«Questa mattina Palmer le ha detto che io sapevo tutto?».
«Sì». Fino a quel momento aveva risposto con una certa mitezza. Ma in quel momento un
lampo tornò a brillarle negli occhi. «Come ha fatto a capirlo?».
«Ho dovuto indovinare. Ma sulla base di motivi fondati. È stato casuale, in realtà. Ho
controllato il registro della scuola serale per vedere se la signora Crowther era presente la
sera di mercoledì 29 settembre. Lei non ci era andata, ma sul registro ho notato il nome di
un’altra persona, che quella sera invece era presente alla lezione, la signora Josephine
Palmer. Ebbene…».
«Lei ha un animo sospettoso, ispettore».
«E quand’è che è iniziata la faccenda delle lettere?».
«Durante l’estate. Un’idea stupida, davvero. Ma funzionava bene, così dicevano».
«Può giurarmi che non parlerà di questo con anima viva, signorina Coleby?».
«Sì, ispettore. Almeno questo penso di doverglielo».
Morse si alzò. «Bene, Lewis, trovi qualcuno che la riporti al lavoro. Abbiamo fatto
perdere abbastanza tempo alla signorina Coleby». Lewis, stupefatto, li guardava a bocca
spalancata come un pesce fuor d’acqua e Jennifer si girò per rivolgergli un sorriso vago e
triste.
«Non è stato molto corretto nei miei confronti, signore» Lewis sembrava depresso e
infastidito.
«Che cosa intende dire?».
«Aveva detto che il caso era quasi chiuso».
«È chiuso» disse Morse.
«Sa chi è il colpevole?».
«Una persona è già stata arrestata e incriminata per l’assassinio di Sylvia Kaye».
«E quando è successo?».
«Questa mattina. Ecco!» disse Morse porgendogli la lettera di Jennifer Coleby che
Lewis stesso gli aveva consegnato. Lewis prese il foglio e lesse con incredulità cieca,
attonita e ottusa la riga che Jennifer Coleby aveva vergato in risposta alla domanda di
Morse.
«Sì» disse Morse a bassa voce. «È proprio vero».
Lewis aveva tantissime domande, ma non ricevette alcuna risposta. «Guardi, Lewis, ho
bisogno di stare da solo. Vada a casa e, una volta tanto, si prenda cura di sua moglie. Ci
vediamo lunedì».
I due uscirono dall’ufficio. Lewis indossò il soprabito e se ne andò via in fretta. Morse
s’incamminò lentamente verso le celle che si trovavano in fondo all’ala settentrionale della
centrale.
«Vuole entrare, signore?» gli chiese il sergente di guardia.
Morse annuì. «Mi può lasciare solo, per favore?».
«Come desidera, signore. Cella numero 1».
Morse prese le chiavi, aprì la porta che portava alle celle e si diresse verso la cella
numero 1. Appoggiò le mani sulle sbarre e guardò dentro con aria triste.
Capitolo trentuno
Lunedì, 25 ottobre

Era cominciata come una giornata luminosa e serena, ma verso metà mattinata una
malinconica schiera di nubi grigie si era ammassata in cielo e spruzzi di una pioggia sottile
già luccicavano sui vetri della finestra nell’ufficio di Morse, quando i due investigatori si
trovarono ai lati opposti della scrivania per discutere, per l’ultima volta, il caso di Sylvia
Kaye.
«Che cosa sapevamo della signorina X?» chiese Morse per poi rispondere da sé alla
domanda. «Conoscevamo più o meno il suo aspetto, sapevamo più o meno che cosa
indossava, e avevamo più o meno un’idea della sua età. Era già qualcosa, ma con queste
informazioni non potevamo andare da nessuna parte. Sapevamo anche che le due ragazze in
attesa alla fermata non solo si conoscevano, ma si sarebbero riviste il mattino dopo . Ora
questo era senza dubbio l’indizio più utile che avessimo e cercammo subito di sfruttarlo.
Giustamente pensammo che quella informazione poteva restringere il campo delle indagini
e, com’era logico, ci concentrammo sulle ragazze che lavoravano con Sylvia Kaye. Certo,
avrebbe anche potuto trattarsi di un’amica, una che magari Sylvia incontrava all’ora di
pranzo o sull’autobus. Si potevano fare altre mille ipotesi. Ma noi non le facemmo. E non le
facemmo perché i nostri sospetti, fin dall’inizio, per ottime ragioni si concentrarono su una
delle ragazze che lavoravano in ufficio con Sylvia – la signorina Jennifer Coleby. Ma, anche
se in quel momento noi non lo sapevamo, c’era un’altra persona che Sylvia pensava di
incontrare il mattino dopo e, se fossimo stati un pizzico più svegli in quella prima fase,
forse l’avremmo identificata molto più in fretta. Per via del braccio rotto Sylvia era in cura
al Radcliffe, dove faceva una fisioterapia, e si recava all’ospedale regolarmente ogni
martedì e giovedì mattina. Il che significa che doveva presentarsi per la fisioterapia
all’infermiera responsabile dell’accettazione la mattina di giovedì 30 settembre. In altre
parole, doveva presentarsi all’infermiera Widdowson». Lewis si alzò per chiudere la
finestra sulla quale ora la pioggia aveva cominciato a battere più forte. «Naturalmente
questo, di per sé non era troppo significativo» continuò Morse. «Ma sapevamo che Sylvia
non aveva molte amiche intime, non è vero? Era un dato interessante. Sì, come minimo era
un dato interessante». Per un momento Morse parve perdersi e, come prima aveva fatto
Lewis, guardò dalla finestra il cortile in cemento che luccicava sotto un cielo sempre più
plumbeo. «Ma torniamo a Jennifer Coleby. Crowther le aveva mandato una lettera, questo
l’avevamo accertato al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma Crowther non aveva scritto
quella lettera per Jennifer: lei era solo l’intermediario. Jennifer l’ha ammesso, del resto non
aveva altra scelta. Quando le ho scritto, non le ho chiesto di accusare nessuno di omicidio,
le ho chiesto solo se la lettera era destinata a Sue Widdowson, e lei me lo ha confermato.
Non può neanche lontanamente immaginare, Lewis, l’angoscia che ho provato all’idea che
questa fosse la verità».
La pioggia batteva nel cortile e l’ufficio era diventato tetro e buio. La luce elettrica si
accese in molte delle stanze adiacenti, ma non nell’ufficio di Morse. «Ci pensi un momento,
Lewis. Jennifer aveva un’auto. Questo dato di fatto era centrale per il nostro caso. E
nonostante il problema transitorio allo pneumatico, Jennifer usò la macchina la sera del
29. Ce l’aveva detto, ricorda? Ed era vero. Io in quel momento non le avevo creduto, ma
avevo torto. Quella sera incontrò qualcuno che la vide alla guida della sua auto. Qualcuno
che non aveva assolutamente niente a che vedere con l’assassinio di Sylvia Kaye. Si tratta
della persona con cui Jennifer Coleby aveva una relazione: il suo datore di lavoro, il signor
Palmer. Così, anche se tutti gli indizi quasi senza eccezione puntavano su Jennifer Coleby, a
sorpresa lei ha sfoderato un alibi del tutto inattaccabile. Fino a quel punto ero stato
assolutamente convinto che la seconda ragazza fosse lei, ma ho dovuto poi accettare
l’indubitabile, incontrovertibile fatto che chiunque fosse seduto dietro Sylvia Kaye sull’auto
di Bernard Crowther quella sera, non era, certamente non era Jennifer Coleby. Ma allora chi
era? Anche se ero stato costretto a rinunciare a Jennifer come sospetto numero uno – anzi a
rinunciare a lei come sospetto tout court – ero testardamente legato alla mia idea originaria
che chiunque fosse quella ragazza, doveva essere l’amante di Bernard Crowther, e che il
messaggio di Crowther era destinato a lei. Quindi, proviamo per un attimo a guardare le
cose dal punto di vista di Bernard Crowther. Penso di poter dire senza ombra di dubbio che
era terrorizzato. Provi a mettersi nei suoi panni, Lewis. Mercoledì sera aveva lasciato
Sylvia Kaye viva e vegeta – di questo era sicuro. E il giorno dopo, che cosa scopre? Legge
sul giornale che quella stessa ragazza è stata assassinata. Ma non assassinata in un posto
qualunque. Assassinata esattamente nel luogo in cui lui l’aveva vista per l’ultima volta, il
cortile del Black Prince. Chi poteva sapere che anche lui era stato in quel cortile? Soltanto
lui e Sylvia – e lei non poteva più dire niente a nessuno. Ma Sue Widdowson poteva
arrivarci, perché Sylvia di sicuro le aveva detto dove era diretta. Deve essere impazzito per
l’angoscia e certamente, per essere l’uomo intelligente che era, non ha poi agito in modo
molto razionale. Era ossessionato dal terrore che Sue non capisse quanto sarebbe stato
pericoloso parlarne con anima viva. Si sarà detto che di certo lei se ne sarebbe
perfettamente resa conto. Ma i dubbi non gli davano pace. Sue era l’unica persona che
poteva mandare tutto all’aria – non solo poteva renderlo un sospetto per l’assassinio di
Sylvia Kaye, ma poteva gettare tutta la sua vita familiare in un subbuglio che lui non si
sentiva di affrontare. Doveva esserne sicuro, o in ogni caso doveva fare qualcosa. Non
osava andare a cercarla, così le scrisse». Lewis mostrava i soliti segni di disagio e Morse
annuì per indicargli che capiva. «Lo so, Lewis. Perché scrisse a Jennifer?».
«Perché scrivere in generale, signore? Perché non fare una telefonata?».
«Sì, ci stavo arrivando. Ma prima accertiamoci al cento per cento dei fatti – ed è un
fatto che Crowther scrisse a Jennifer Coleby. Se capiamo bene il significato di questo fatto,
possiamo cominciare a rispondere alla domanda perfettamente lecita che lei si pone. Perché
non telefonarle? La risposta è abbastanza semplice. Chi poteva chiamare, e dove?
Immaginiamo per un attimo che volesse chiamare Jennifer – il messaggero fidato. Al
lavoro? No, era troppo pericoloso. Tutte le ragazze dell’ufficio conoscevano bene le
opinioni di Palmer in materia di chiamate personali, e le rispettavano di buon grado, perché
in cambio lui chiudeva un occhio sulla corrispondenza privata. Ma c’era di più. Telefonare
era comunque troppo pericoloso, perché tutte le chiamate entranti, tranne quelle dirette al
telefono personale di Palmer, passavano per il centralino e, come lei sa, chiunque sia al
centralino può ascoltare impunemente ogni conversazione. No. Quella possibilità era
esclusa. E allora? Perché non chiamare direttamente Sue Widdowson? Perché non
telefonare alla sua amante e parlarle direttamente, a casa o all’ospedale? Anche in questo
caso non è difficile capire perché non lo fece. Se avesse chiamato Sue a casa, non avrebbe
potuto avere la certezza che le altre due non fossero presenti, le pare? Con Jennifer poteva
correre il rischio, ma non con Mary. Deve essersi detto – e con ragione – che origliare sia
pure solo metà di una telefonata è così facile da essere una grande tentazione oltre che un
passatempo interessante».
Dopo aver bussato educatamente, la ragazza della posta entrò con passo vispo e posò le
lettere arrivate in mattinata per l’ispettore nel vassoio della posta entrante.
«Oggi il tempo non è un granché, ispettore».
«No» disse Morse.
«Probabilmente più tardi migliorerà». Gli fece un sorriso cordiale e se ne andò e Morse
annuì gentilmente in risposta. Gli dava una specie di piccola consolazione sapere che
intorno a lui la vita continuava. Guardò distrattamente fuori dalla finestra e notò che la
pioggia era calata. Forse la ragazza aveva ragione. Probabilmente più tardi il tempo sarebbe
migliorato…
«Ma perché non poteva chiamarla sul lavoro, signore?».
«Ah sì, mi scusi, Lewis. Lei mi chiede perché non poteva chiamarla sul lavoro. Ho
trovato la risposta solo venerdì scorso. Al Radcliffe è praticamente impossibile per
qualsiasi esterno, persino per la polizia, riuscire a contattare direttamente un’infermiera
dello staff. Ci ho provato io stesso, ed è come chiedere al servizio informazioni un numero
di telefono senza avere l’indirizzo. C’è un’agguerrita capo-infermiera vecchio stile…».
«Ma perché Crowther non scrisse direttamente a lei? Di sicuro…».
«Sì, avrebbe potuto scriverle. E sinceramente non so perché non l’abbia fatto, se non
che… Capisce Lewis, per lui era diventata un’abitudine. Lasci che provi a spiegarle come
può essere cominciata. Come lei sa, la qualità del servizio postale non fa che peggiorare un
po’ dappertutto. Ma a North Oxford sembra che la situazione sia particolarmente brutta. Di
rado la posta arriva prima delle dieci di mattina, troppo tardi perché Sue potesse riceverla
prima di andare al lavoro. E anche se fosse arrivata presto, diciamo alle otto, sarebbe stato
comunque troppo tardi. Perché non scriverle all’ospedale, allora? La risposta è che la
nostra cara capo-infermiera è d’ostacolo anche a questo: bada a che l’ospedale respinga
qualsiasi missiva personale».
«Ma se Crowther avesse spedito la lettera all’indirizzo di casa, lei l’avrebbe ricevuta
non appena fosse tornata dal lavoro, no?».
«Sì, è vero. Ma lei sta mettendo il dito nella piaga, e questo è il vero motivo per cui
Jennifer Coleby è entrata nella storia. Come molti altri docenti universitari, Bernard
Crowther non lavorava al Lonsdale a orari fissi, mi segue? Poteva sempre capitare un
intoppo all’ultimo minuto – questioni disciplinari, visite inattese, riunioni impreviste – e
Crowther non poteva organizzare le sue scappatelle extraconiugali se non sulla base di una
speranza generica che nei giorni successivi prima o poi avrebbe avuto del tempo libero.
Inoltre, cosa anche più importante, doveva verificare attentamente i programmi dei suoi
familiari. Margaret poteva organizzare qualcosa, i figli potevano avere una mezza giornata
di vacanza senza preavviso, o potevano ammalarsi o… be’, come vede, c’erano parecchie
variabili che potevano andare storte e mandare all’aria il piano più accuratamente
congegnato. Così ho l’impressione che spesso Crowther non potesse sapere fino a poche ore
prima se e quando era libero di incontrare la sua amante. Ma, Lewis, il Lonsdale College
dista al massimo un centinaio di metri dall’edificio sulla High Street in cui ha sede la Town
and Gown Assicurazioni».
«Intende dire che Crowther semplicemente ci passava davanti e consegnava di persona
il suo messaggio?».
«È precisamente quel che faceva».
«Ma neanche Jennifer poteva contattare Sue durante il giorno, non è vero? Lei ha appena
detto…».
«So quello che vorrebbe dirmi, Lewis. Tanto valeva scrivere direttamente a Sue
all’indirizzo di casa. In ogni caso lei avrebbe ricevuto il messaggio solo la sera, esattamente
come sarebbe accaduto con la posta normale, che l’avrebbe aspettata al suo ritorno a casa.
Ma tutto questo è vero se immaginiamo che Crowther potesse scrivere il giorno prima per
organizzare l’incontro dell’indomani e, come le dicevo, io sospetto che molto spesso non
potesse farlo. Inoltre c’è un’altra cosa che è molto più importante, Lewis. Lei dice che
Jennifer non poteva contattare Sue durante il giorno. Invece poteva, e lo faceva spesso. Le
due si incontravano abbastanza regolarmente per mangiare qualcosa insieme a pranzo. Si
trovavano in un piccolo bar di fianco a Marks and Spencer. Lo so, Lewis, perché ci sono
stato». Il tono meccanico e malinconico con cui Morse aveva pronunciato queste ultime
parole incuriosì Lewis. Qualche minuto prima Morse aveva detto una cosa. Era quasi come
se…
«Ma allora Jennifer Coleby sapeva tutto di loro, signore».
«Non so se sapeva tutto, ma ne sapeva abbastanza. Troppo, forse…». Per qualche
minuto Morse tacque, ma quando riprese a parlare la sua voce era più energica e vitale.
«Non so come sia cominciata, ma a un certo punto loro due devono essersi reciprocamente
confidate i loro segreti. Mi dicono che le donne, e anche gli uomini, per quel che vale,
amano parlare con gli altri delle loro conquiste; una parola buttata lì potrebbe averle
avvicinate e subito si deve essere creata una complicità. Non credo ci siano dubbi al
riguardo. Penso che sia stato Crowther, magari dopo un paio di malintesi e di incontri
mancati con Sue, a suggerire l’idea che poteva lasciare qualche innocua missiva indirizzata
a Jennifer Coleby nella cassetta della posta della Town and Gown. Sono abbastanza sicuro
che era il tipo di persona che ama l’idea dei messaggi cifrati, e con il tempo questo diventò
il loro normale sistema di comunicazione. Lui faceva due passi e andava a consegnare una
lettera o una cartolina all’ufficio. Semplice, non doveva neanche fare molta strada.
All’inizio probabilmente succedeva solo quando si presentava una possibilità inattesa, ma
più il tempo passava più diventava una routine così naturale che Crowther la seguì anche
per questo suo ultimo messaggio. E oltre a essere un sistema molto semplice ed efficiente, a
Crowther deve essere sembrato una bella fortuna non dover scrivere delle vere e proprie
lettere a Sue. Come la maggior parte delle persone che hanno una relazione illecita, si
sarebbe molto preoccupato all’idea che un’eventuale lettera finisse nelle mani sbagliate, che
venisse aperta dalla persona sbagliata o che saltasse fuori per caso da qualche parte. Ma in
questo modo anche se fosse capitato nessuno ci avrebbe capito un granché, no?».
«Quando le è venuto in mente per la prima volta che c’entrava la signorina
Widdowson?». Lewis pose la domanda con una cortesia inusuale: finalmente aveva
cominciato a capire.
Lo sguardo triste e stanco di Morse era fisso sulla scrivania su cui le sue dita
tamburellavano nervosamente. «Credo che sia cominciato tutto con una vaga sensazione…
oh, non saprei. Ma non ne sono stato sicuro fino a venerdì scorso. Forse la prima volta che
cominciai a sospettare la verità fu quando controllai il registro delle lezioni serali, cercando
informazioni sulle assenze di Margaret Crowther. Casualmente notai che, per una curiosa
coincidenza, anche la moglie di Palmer era iscritta a quel corso. E la coincidenza mi diede
da pensare, mi diede molto da pensare. Pensai che Jennifer Coleby non era il tipo di
persona che faceva molti favori senza chiedere niente in cambio e meditai sul legame che
poteva esserci tra lei e l’altra ragazza. In modo contorto cominciai a valutare la possibilità
che le due ragazze si trovassero in circostanze simili nei confronti del mondo esterno. Nei
confronti degli uomini. Così avanzai varie ipotesi e mi immaginai che Jennifer Coleby
stesse con qualcuno e Bernard Crowther con qualcun’altra e che magari c’entrava anche
Palmer. E poi… be’ poi pensai a Sue Widdowson e improvvisamente tutti i pezzi del puzzle
cominciarono ad andare al loro posto. Era possibile che Jennifer avesse una relazione con
Palmer? Sono situazioni che si verificano spesso tra colleghi di lavoro, e chi altro c’era,
alla Town and Gown, a parte Palmer? Era l’unico maschio in tutto l’ufficio. Continuavo a
domandarmi che cosa Jennifer ricavasse dall’accordo. E improvvisamente mi venne in
mente qual era la cosa che lei desiderava più di ogni altra. Sa a cosa mi riferisco, Lewis?».
«Temo di non avere abbastanza esperienza in materia, signore».
«Neanch’io» disse Morse.
«Be’, immagino che in quelle circostanze si desideri un posto dove stare insieme da
soli. Ah, capisco, lei intende…».
«Sì, Lewis. Qualcuno poteva avere offerto a Jennifer la possibilità di avere un posto in
cui stare da sola con Palmer. Mary non usciva spesso, ma quando usciva c’era il via libera,
perché l’altra componente del terzetto poteva fare in modo di assentarsi cortesemente anche
lei. Ed è così che andavano le cose».
«Un attimo, signore». La mente di Lewis era tormentata dalla sensazione che qualcosa
non quadrasse. Stava ripensando alla sera di mercoledì 29 settembre… Poi ci arrivò. «Ma
quel mercoledì sera la casa era libera, no? Se non ricordo male Jennifer Coleby aveva detto
che Mary era andata al cinema o qualcosa del genere».
«Lei dovrebbe fare il poliziotto, Lewis». Morse si alzò, batté la mano sulla spalla del
suo sergente e si fermò a guardare le nubi minacciose che lentamente veleggiavano verso
occidente. Aveva smesso di piovere e l’acqua nelle pozzanghere del cortile era immobile.
«Temo che fosse un’altra delle bugie di Jennifer. Quella sera Mary era a casa, me l’ha detto
lei stessa. Ma anche se Mary fosse uscita, non credo che avrebbe fatto alcuna differenza.
Sono abbastanza sicuro che Jennifer aveva preso l’impegno di accompagnare in macchina
Sue agli appuntamenti con Crowther. Era così che la ripagava. E mercoledì 29 settembre
avevano entrambe un appuntamento, come sappiamo».
«Ma perché non…» Lewis sembrava imbarazzato a finire la frase, e Morse lo fece al
suo posto.
«Perché non sfruttavano tutti e quattro la possibilità di usare la casa ogni volta che Mary
usciva? È questo che mi voleva chiedere?».
«Sì».
«Be’, naturalmente per Palmer non c’erano troppi problemi. Abita abbastanza lontano da
lì e a North Oxford non correva un gran rischio di essere riconosciuto. Diciamo che era un
rischio ragionevole. Anzi, so con certezza che è stato lì. Ho fatto sorvegliare la casa per
tutta la scorsa settimana e mercoledì sera l’auto di Palmer era parcheggiata nella via
accanto. McPherson l’ha scovata – gli avevo dato l’incarico in via straordinaria». Lewis
parve leggermente infastidito, ma Morse lo ignorò. «Di fatto non ha visto Palmer entrare, ma
l’ha visto uscire e venerdì sera, quando ho parlato con lui, Palmer ha ammesso tutto».
«Ma per Crowther era troppo rischioso?».
«Lei che cosa ne dice? Viveva a due passi da lì. No, sarebbe stata la cosa più stupida
del mondo. Abita da quelle parti da molti anni. Praticamente lo conoscevano tutti e
percorreva quella strada quasi tutte le sere per andare a bere qualcosa al Fletcher’s Arms.
La gente avrebbe immediatamente cominciato a chiacchierare. No, no, quella possibilità era
stata esclusa fin dall’inizio».
«Perciò, quando entrambe avevano un appuntamento…».
«Jennifer aveva il compito di dare un passaggio a Sue, esatto».
«Quindi se quella sera Jennifer non avesse all’improvviso scoperto di aver forato,
Sylvia non sarebbe stata uccisa».
«Proprio così». Morse attraversò la stanza e tornò a sedersi nella sua poltrona. Aveva
quasi finito. «La sera dell’omicidio, Sue Widdowson era impaziente e probabilmente un po’
seccata con Jennifer, non so. In ogni caso non ebbe voglia di stare ad aspettare mentre
Jennifer faceva qualche telefonata ai gommisti della zona per poi ricorrere a un vicino
anziano e cortese che magari ci avrebbe messo un secolo. Temeva di arrivare in ritardo e
decise di prendere l’autobus. Andò a piedi in Woodstock Road e si mise ad aspettare alla
fermata e… be’ il resto lo sa già. Trovò un’altra persona a quella fermata. Trovò Sylvia
Kaye».
«Se solo avesse aspettato».
«Se solo avesse aspettato, sì. Jennifer riuscì a farsi aggiustare la ruota nel giro di cinque
o dieci minuti, a quanto dice lei. Quella sera era d’accordo d’incontrare Palmer al Golden
Rose. Capisce, Lewis, di solito Jennifer accompagnava Sue fino a Woodstock e le veniva
comodo incontrarsi con Palmer in un pub nelle vicinanze – a Begbroke, Bladon o nella
stessa Woodstock. E quella sera si incontrarono, come sappiamo. In realtà, nonostante tutti
gli inconvenienti, Jennifer arrivò prima di Palmer. Si prese una birra con lo sciroppo al
lime e andò a sedersi in giardino per vederlo arrivare».
«È strano, non è vero. Se Sue Widdowson…».
«Quanti ‘se’, Lewis!».
«La vita è piena di ‘se’, signore».
«Verissimo».
«Ma a quel punto le sue erano ancora solo delle ipotesi, non è vero? Intendo dire, non
aveva ancora nessuna prova concreta».
«A quel punto magari no. Ma tutto tornava. Sue e Jennifer sono più o meno alte uguale,
hanno capelli più o meno dello stesso colore, ma…».
«Ma che cosa, signore?».
«Non importa. Lasciamo perdere. Ho visto il soprabito descritto dalla signora Jarman,
ho visto pantaloni di quel tipo, ed era Sue Widdowson a indossarli. Venerdì sera ho
mostrato alla signora Jarman una fotografia di Sue e lei l’ha riconosciuta immediatamente.
Ovvio che la povera donna non abbia identificato nessuno durante il confronto
all’americana. La ragazza della fermata dell’autobus non era lì».
«A volte la gente si sbaglia, signore».
«Vorrei che fosse vero, Lewis. Lo vorrei proprio».
«Ma neanche questa è una vera prova!».
«No, probabilmente no. Ma ho scoperto un’altra cosa. Quando sono andato al Radcliffe
per vedere il cadavere di Crowther, l’infermiera del reparto mi ha consegnato le sue chiavi,
quelle che teneva nella tasca dei calzoni. Le ho chiesto se per caso qualche infermiera era
andata a visitarlo, e mi ha risposto di no. Però mi ha detto che l’infermiera Widdowson le
aveva chiesto come stava l’ammalato e che si era fermata a lungo all’ingresso della camera,
a guardare il letto in cui giaceva Crowther».
Morse parlava con voce sempre più angosciata, ma si riprese subito. Ancora una volta
andò alla finestra e guardò il sole che cominciava a spuntare tra le nuvole ormai sottili.
«Sono andato al Lonsdale College e ho perquisito la stanza di Crowther. Ho trovato un solo
cassetto chiuso a chiave, uno dei cassetti della scrivania – il cassetto in basso a sinistra, se
le interessa saperlo». Si girò a guardare Lewis, e la sua voce si fece dura e cattiva. «Ho
aperto il cassetto e ho trovato… ho trovato una foto di Sue». La voce improvvisamente si
ridusse quasi a un bisbiglio e Morse tornò nuovamente a guardare fuori dalla finestra. «Una
copia della stessa fotografia che aveva dato anche a me». Ma queste ultime parole Morse le
disse a voce così bassa che Lewis non le udì.
Epilogo
Preludio

Era finita

Lewis tornò a casa per pranzo, sperando che sua moglie stesse meglio. Passò davanti a
un’edicola che esponeva un giornale con un titolo scritto a lettere cubitali: L’OMICIDIO DI
WOODSTOCK – UNA DONNA COLLABORA CON LA POLIZIA. Non si fermò a
comprarlo.
Morse andò ancora una volta nell’ala dove erano le celle e trascorse qualche minuto con
Sue. «Ti serve qualcosa?».
Con gli occhi pieni di lacrime Sue scosse la testa, e Morse le si avvicinò dentro la cella,
imbarazzato e sperso. «Ispettore?».
«Sì?».
«Forse non mi crederai, e in ogni caso non importa, ma… io ti ho amato».
Morse non disse niente. Sentì un prurito agli occhi e se li strofinò con una mano,
pregando che lei non se ne accorgesse. Per un po’ non si sentì di parlare, poi guardò la
ragazza che amava e le disse: «Addio, Sue».
Uscì e chiuse la porta. Non poteva dirle altro. A fatica si allontanò e, mentre percorreva
il corridoio, sentì per l’ultima volta la voce di lei.
«Ispettore?».
Si girò. Era in piedi accanto alle sbarre della cella, con il viso inondato di lacrime di
angoscia e disperazione. «Ispettore, non mi hai mai detto il tuo nome».
Stava facendo buio quando Morse finalmente uscì dall’ufficio. Salì nella sua Lancia,
uscì dal cortile, nel quale le pozzanghere erano ormai quasi asciutte, e girò a sinistra per
immettersi nella corrente del traffico diretto in città. Mentre superava la rotonda vide due
persone accanto alla strada con il pollice alzato. Una di loro era una ragazza, una ragazza
carina, per quel che poteva giudicare. Forse anche l’altra era una ragazza. Difficile dirlo.
Morse tornò a Oxford, a casa sua.
Paolo Zaccagnini

Dobbiamo alla pioggia gallese se oggi ci apprestiamo a entrare nel brusco mondo
dell’ispettore E. Morse. La spiegò anni fa la genesi del personaggio il suo autore, l’ex
insegnante di latino e greco Norman, nome lasciato cadere, Colin Dexter, nato a Stamford,
Lincolnshire, il 29 settembre 1930. «Era il 1972, estate, avevamo affittato questo cottage tra
Caernarfon e Pwllheli, pioveva sempre e allora un sabato pomeriggio iniziai a scrivere una
storia dai contorni polizieschi…». Quelle pagine si sarebbero sviluppate poi nel primo
romanzo della serie con protagonista Morse e il suo Watson, il sergente Lewis. L’ultima
corsa per Woodstock era il titolo del romanzo che venne pubblicato nel 1975 e che ha dato
il via a una carriera fulgida.
Sinceramente pensiamo che Morse, le cui tredici avventure sono state editate dal 1975
al 1999 – in Italia, venne proposto da Longanesi e Mondadori in collane economiche –
avrebbe meritato, come è capitato in tutto il mondo, gran successo e seguito ma, succede
spesso con gli scrittori di qualità, Morse e Dexter sono stati schiacciati in Italia da legioni
di autori di best-sellers strombazzati e che non valgono la carta su cui sono stampati. Di chi
la colpa di questa negligenza nei confronti di una delle figure più amate e popolari della
moderna letteratura poliziesca, e sottolineo poliziesca? Innanzitutto di Dexter stesso,
sospeso tra insegnamento, interrotto per una fortissima forma di sordità, e importanti cariche
amministrative nella prestigiosa università di Oxford, sede anche delle storie di Morse.
Dexter, come ogni scrittore di questo nome, ha sempre lasciato parlare il suo personaggio –
vi viene in mente qualche grande che si sia messo a fare l’imbonitore per pubblicizzare i
suoi scritti? – lui si è limitato a costruirlo al meglio ma senza mai presentarcelo a tutto
tondo, lasciandocene scoprire aspetti diversi man mano che le sue avventure procedevano.
È forse questa una delle chiavi di lettura del crescente successo del personaggio, oltre a
meccanismi criminali da disvelare pressoché perfetti. E che molto si rifanno ai maestri
dell’«età dell’oro» del poliziesco, vale a dire gli anni tra il 1920 e il 1940-50.
Di Morse, un po’ Maigret e un po’ Wallander per dare due riferimenti del passato e del
presente, sappiamo che il suo alter ego, il sergente Lewis, lo è in tutto e per tutto nel senso
che l’ispettore è un solitario, non si sa se per scelta o per caso, mentre il fedele sottoposto è
uno di famiglia, e felice di esserlo. Che beve, troppo, tanto da mettere in pericolo la propria
vita. Che ama la musica classica, e un musicista in particolare, e la sua vecchia Jaguar. Ama
anche le donne ma in modo conflittuale, drammatico, il suo carattere scontroso non lo porta
ad avere relazioni stabili e serene, si strugge e sembra quasi felice di farlo mentre trangugia
alcool. Personalità autodistruttiva alle prese sempre con i suoi indomabili, innominabili
demoni: questo è E. Morse, è per questo che ci piace così, tanto simile a noi o a come
vorremmo essere. Appagato dalla vita ma deciso a tutto per mettersi in discussione indagine
dopo indagine, nemico della routine, delle soluzioni facili, scontate. Dexter è anche uno dei
più noti enigmisti inglesi, dalla sua può vantare la collaborazione col quotidiano londinese
«The Times», che dalla sua fondazione si vanta di pubblicare le parole crociate più difficili
del mondo; ovvio abbia costruito i suoi libri attraverso innumerevoli trabocchetti, false
piste, tranelli, indizi: leggendolo, insomma, si deve far lavorare il cervello e non limitarsi a
indossare un grembiule per evitare il sangue innocente, e quasi sempre incomprensibile, che
gocciola da così tanti «gialli» moderni.
Un classico dei giorni nostri come P. D. James e Ruth Rendell, ecco chi è Dexter.
Cresciuto come lettore, prima che come autore, con le pagine dei maestri del poliziesco
tanto che una delle storie più note di Morse, The wench is dead, ricalca, e Dexter lo
rivendica con orgoglio, La figlia del tempo della scrittrice scozzese Josephine Tey, vero
nome Elizabeth Mackintosh, volume pubblicato qualche anno fa in questa collana. La
televisione italiana, tutte le reti indistintamente, snobbarono gli sceneggiati BBC
protagonista John Thaw nei panni di Morse – salvo vederlo spuntare oggi sui canali
satellitari ma, ci sembra, senza alcun rispetto cronologico –, quindi per il lettore che si
appresta a pacificamente salire sull’ultimo bus per Woodstock – il quarantennale del
festival rock più famoso della storia non c’entra nulla – la sorpresa sarà ancora più
piacevole. «E.» – per svelare cosa significa questa iniziale Dexter attese l’ultimo libro
della serie, The remorseful day – Morse, nonostante il suo carattere spigoloso, i suoi
attacchi d’ira, l’apparire spesso scostante e sempre politically incorrect – se un personaggio
uccide lo chiama assassino, non uno che ha sbagliato, fa di tutto per arrestarlo e sbatterlo
dietro le sbarre –, il suo vagare di bicchiere in bicchiere, con le dovute pause per gli amati
cruciverba e musica classica, l’indagare uno o più delitti ma anche il mondo che questi ha
generato è, sì, pur sempre anche lui un essere umano. Che lotta il Male. Anche e soprattutto
quello che alligna in lui. Letteratura. Poliziesca. Di gran valore e cifra stilistica. Personaggi
solidi, nati per restare. Carne, ossa, idee, pulsioni, rabbie, frustrazioni, amori, odii. Non vi
fate intimorire dai modi, comportatevi come il mite sergente Lewis, incassate ascoltando e
meditando. Solo così potrete godere appieno dell’ispettore E. Morse e delle sue indagini, di
una realtà, quella oxfordiana permeata e profumata di solida tradizione «British», e di
un’Inghilterra da cartolina da incorniciare. Peccato entrambe grondino sordidezza e sangue.
PAOLO ZACCAGNINI

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