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Translatio studii e imperialismo culturale

2008

That we and our children were born to die,-but neither of us born to be slaves.-No-there I mistake; that was part of Eleazer's oration, as recorded by Josephus (de Bell. Judaic.)-Eleazer owns he had it from the philosophers of India; in all likelihood Alexander the Great, in his irruption into India, after he had overrun Persia, amongst the many things he stole,-stole that sentiment also; by which means it was carried, if not all the way himself (for we all know he died at Babylon) at least by some of his maroders, into Greece,-from Greece it got to Rome,-from Rome to France,-and from France to England:-So things come round.-By land carriage I can conceive no other way.-By water the sentiment might easily have come down the Ganges into the Sinus Gangeticus, or Bay of Bengal, and so into the Indian Sea; and following the course of trade, (the way from India by the Cape of Good Hope being then unknown) might be carried with other drugs and spices up the Red Sea to Joddah, the port of Mekka, or else to Tor or Sues, towns at the bottom of the gulf; and from thence by karawans to Coptos, but three days journey distant, so down the Nile directly to Alexandria, where the SENTIMENT would be landed at the very foot of the great staircase of the Alexandrian library,-and from that store-house it would be fetched.-Bless me! What a trade was driven the learned in those days! (Tristram Shandy V, 12)*

TRANSLATIO STUDII E IMPERIALISMO CULTURALE ENRICO FENZI (Università di Genova) That we and our children were born to die, –but neither of us born to be slaves. –No –there I mistake; that was part of Eleazer’s oration, as recorded by Josephus (de Bell. Judaic.) – Eleazer owns he had it from the philosophers of India; in all likelihood Alexander the Great, in his irruption into India, after he had over-run Persia, amongst the many things he stole, –stole that sentiment also; by which means it was carried, if not all the way himself (for we all know he died at Babylon) at least by some of his maroders, into Greece, –from Greece it got to Rome, –from Rome to France, –and from France to England: –So things come round. –By land carriage I can conceive no other way. –By water the sentiment might easily have come down the Ganges into the Sinus Gangeticus, or Bay of Bengal, and so into the Indian Sea; and following the course of trade, (the way from India by the Cape of Good Hope being then unknown) might be carried with other drugs and spices up the Red Sea to Joddah, the port of Mekka, or else to Tor or Sues, towns at the bottom of the gulf; and from thence by karawans to Coptos, but three days journey distant, so down the Nile directly to Alexandria, where the SENTIMENT would be landed at the very foot of the great stair-case of the Alexandrian library, –and from that store-house it would be fetched. –Bless me! What a trade was driven the learned in those days! (Tristram Shandy V, 12)* * Cito conservando le particolarità grafiche dell’originale dalla prima edizione del vol./libro V, London: T. Becket & P. A. Dehondt in the Strand, 1760: vol. 1, pagg. 440-441 della riproduzione a cura di Melwin New e Joan New, Gainesville: University of Florida [The Florida Edition of the Works of Laurence Sterne], 1978. Alle note dei curatori, vol. 3, 19 20 N ENRICO FENZI del 1726 il filosofo inglese George Berkeley, già autore di appassionati interventi sulla necessità di programmi educativi per gli abitanti del nuovo mondo, compose una lirica il cui titolo, America or the Muse’s Refuge. A Prophecy, fu poi mutato per la stampa in Verses on the prospect of Planting Arts and Learning in America1: EL FEBBRAIO The Muse, disgusted at an Age and Clime, barren of every glorious Theme, in distant Lands now waits a better Time, producing Subjects worthy Fame: in happy Climes, where from the genial Sun and virgin Earth such Scenes ensue, the Force of Art by Nature seems outdone, and fancied Beauties by the true: in happy Climes the Seat of Innocence, where Nature guides and Virtue rules, where Men shall not impose for Truth and Sense, the Pedantry of Court and Schools: there shall be sung another golden Age, the rise of Empire and of Arts, the Good and Great inspiring epic Rage, the wisest Heads and noblest Hearts. Not such as Europe breeds in her decay; such as she bred when fresh and young, when heav’nly Flame did animate her Clay, by future Poets shall be sung. Westward the Course of Empire takes its Way; the four first Acts already past, a fifth shall close the Drama with the Day; Time’s noblest Offspring is the last. pagg. 361-362, rimando anche per la questione della indiretta e imprecisa citazione da Giuseppe Flavio, che sembra derivata dal Biathanatos di John Donne. 1. Li si legga in The Works of George Berkeley Bishop of Cloyne, edited by A. A. Luce & T. E. Jessop, London & Edinburgh: Nelson, 1955, VI pagg. 369-371, con importante nota dei curatori che pubblicano anche la prima versione, con alcune notevoli varianti nelle due prime quartine e nell’ultimo verso (vv. 1-2: «The muse, offended at this Age, these Climes | where nought she found fit to rehearse»; vv. 7-8: «such scenes as shew that Fancy is outdone, | and make Poetic Fiction true»; v. 24: «the worls’s great Effort is the last». Opportunamente li ricorda R. W. Southern, Scholastic Humanism and the Unification of Europe. I. Foundations, Oxford UK & Cambridge USA: Blackwell, 1995, pagg. 208 ss. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 21 In tema di translatio studii e badando alla data, si riconoscerà che si tratta di un testo davvero intrigante, che tra altre cose ci stimola a ulteriori salti in avanti. Per esempio al volume dello storico americano Eric Fischer che, in piena guerra mondiale, giudicava che la civiltà dell’occidente avrebbe potuto salvarsi e rinnovarsi solo migrando dalla vecchia Europa verso altri continenti2, oppure, appena ieri, ai discorsi sia del parlamentare repubblicano Gingrich che del democratico presidente Clinton (il primo, il 4 gennaio 1995, nel discorso d’apertura della Camera dei Rappresentanti; il secondo poco dopo, il 24 gennaio 1995, nel Discorso sullo stato dell’Unione), che esaltavano entrambi il ruolo fondamentale di Tocqueville nella translatio dei valori sociali e politici dall’Europa all’America. E non è finita qui perché, come ognun vede, si potrebbe arrivare facilmente all’oggi: all’ideologia cosiddetta neo-con costruita attorno al ruolo «imperiale» degli Stati Uniti e alle relative polemiche contro una Europa affatto decaduta e, appunto, irrimediabilmente invecchiata. Del resto, che questa non sia una attualizzazione del tutto futile lo mostra un recente bel saggio che richiama l’attuale politica degli Stati Uniti per introdurre il tema dell’ideologia universalistica e globalizzante dell’impero romano3. Ma è curioso e suggestivo insieme che i versi di Berkeley ci proiettino contemporaneamente sia avanti che indietro: vertiginosamente indietro. I primi quattro atti sono già passati: il Dramma si chiuderà solo con il quinto e ultimo. Che significa? Di là dalla bella metafora che rinvia alla classica struttura in cinque atti della tragedia, non credo ci siano dubbi: il sapiente vescovo di Cloyne rimanda a san Gerolamo, che commentando le profezie bibliche di Daniele, aveva distinto entro la storia universale (il Dramma) quattro imperi che si erano succeduti l’uno all’altro: l’assiro-babilonese, il medo-persiano, il greco-macedone e il romano4. Ora, dice 2. Eric Fischer, The passing of the European age. A study of the transfer of Western civilization and its renewal on other continents, Cambridge Mass.: Harvard University Press, 1943 (poi, New York: Russel & Russel, 1967). Lo cita proprio nelle prime righe di un saggio assai importante, al quale dovrò più volte ricorrere, A. G. Jongkees, «Translatio Studii: les avatars d’un thème médiéval», in Miscellanea Mediaevalia in memoriam Jan Frederik Niermeyer, Groningen: J. B. Wolters, 1967, pagg. 41-51. 3. María José Hidalgo de la Vega, «Algunas reflexiones sobre los límites del oikoumene en el Imperio Romano», Gerión, 23, 1 (2005), pagg. 271-286. 4. Sulle profezie di Daniele e sull’interpretazione di Gerolamo torno poco avanti, ma avverto sùbito che tale interpretazione, per quanto in passato generalmente accolta, è stata ormai rifiutata dagli interpreti moderni che hanno qualche difficoltà a definire i quattro regni (babilonese; medo; persiano; greco, oppure, preferibilmente: babilonese, medo-persiano; greco; seleucide), ma sono concordi nell’escludere quello romano. 22 ENRICO FENZI Berkeley, è il momento del quinto e ultimo e più nobile di tutti: quello americano. Ma aggiunge ancora qualcosa che dà il senso di un movimento lento e potente, che dall’Oriente, culla del potere e del sapere, volge irresistibilmente verso Occidente: «Westward the Course of Empire takes its Way». Il che è proprio quanto scriveva a metà del XII secolo Ottone di Frisinga nel Prologo alla sua grande Chronica sive Historia de duabus civitatibus, riassumendo e rendendo esplicito quanto le sue fonti di fatto già indicavano: Et notandum quod omnis humana potentia seu scientia ab oriente cepit et in occidente terminatur, ut per hoc rerum volubilitas ac defectus ostendatur5. Ma a questo punto, varcato un così seducente ingresso, il panorama che ci si spalanca davanti è troppo ampio, sì che per percorrerlo ed arricchirlo di qualche nuova osservazione è necessario procedere con un minimo di ordine, tentando una sorta di abbozzo fortemente selettivo e «orientato» delle remote origini del motivo. 1. GLI ARCHETIPI La teoria dei quattro grandi regni, più un quinto e ultimo, ha origini orientali, assai probabilmente persiane, e, come ha mostrato Arnaldo Momigliano, era già presente a Erodoto e a Ctesia6, ed è probabile che non molto 5. Ottonis Episcopi Frisingensis Chronica, edited by Hofmeister, MGH, SS RG in usum scholarum, 1912, pag. 8. 6. Arnaldo Momigliano, «Daniele e la teoria greca della successione degli imperi», Rendiconti della Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. VIII, 35, 4 (1980), pagg. 157-162. La bibliografia è assai vasta: vedi almeno Harold H. Rowley, Darius the Mede and the four World Empires in the Book of Daniel: A historical study of contemporary theories, Cardiff: University of Wales Press Board, 1964 (prima ed., ibid. 1935); G. W. Trompf, The Idea of Historical Recurrence in Western Thought from Antiquity to the Reformation, Berkeley & Los Angeles & London: University of California Press, 1979, pagg. 222-229 (si tratta del par. The Rise, Fall, and Succession of Empires: Patristic and Medieval Themes); Mathias Delcor, Le livre de Daniel, Paris: Gabalda et Cie, 1971 (sul sogno della statua, pagg. 78-87; sul sogno delle quattro bestie, pagg. 143-149); il volume Da Roma alla Terza Roma. III. Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, Napoli, 1986, che contiene i saggi di Mathias Delcor, «La prophétie de Daniel (chap. 2 et 7) dans la littérature apocalyptique «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 23 dopo la vittoria di Scipione su Antioco III a Magnesia, nel 190-189 a. C., sia giunta a Roma, ove ne troviamo una precoce e chiara testimonianza databile tra il 189 e il 1717. Si tratta di un passo infiltratosi anticamente a mo’ di glossa nelle Historiae romanae di Velleio Patercolo, I 6, 6, trascritto dall’opera altrimenti sconosciuta De annis populi romani di un altrettanto ignoto Emilio Sura. Ecco il passo: Aemilius Sura de annis populi romani: Assyrii principes omnium gentium rerum potiti sunt, deinde Medi, postea Persae, deinde Macedones; exinde duobus regibus Philippo et Antiocho, qui a Macedonibus oriundi erant, haud multo post Carthaginem subactam devictis, summa imperii ad populum Romanum pervenit. Inter hoc tempus et initium regis Nini Assyriorum, qui princeps rerum potitus, intersunt anni MDCCCCXCV, che rimanda a una tradizione alla quale attinge anche l’autore del Libro di Daniele, un testo probabilmente composito che risale agli anni 168-165 a. C., mentre era in corso la guerra degli Ebrei contro Antioco IV. È tuttavia opportuno cominciare proprio di qui, da Daniele, dal momento che sono state proprio le sue profezie e le interpretazioni che ne ha dato Gerolamo e che Agostino ha avallato (De civ. Dei XX 23) a godere di lungo prestigio. juive et chrétienne, en réference spéciale à l’Empire romain», pagg. 11-24; di Manlio Simonetti, «L’esegesi patristica di Daniele 2 e 7 nel II e III secolo», pagg. 37-47, e di M. Pavan, «Le profezie di Daniele e il destino di Roma negli scrittori latini cristiani dopo Costantino», pagg. 291-308. Ma ora soprattutto Hervé Inglebert, Interpretatio Christiana. Les mutations des savoirs (cosmographie, géographie, ethnographie, histoire) dans l’Antiquité chrétienne (30630 après J.-C.), Paris: Institut d’Études Augustiennes, 2001, pagg. 342-364, che dedica all’argomento un ricco e fondamentale paragrafo, attento a ricostruire le vicende e la fortuna del motivo nell’area greco-cristiana, giudaica e siriaca (Afraate, Efrem di Nisbe), e infine considera la tarda ripresa nella tradizione occidentale, a partire dalla traduzione della Cronaca di Eusebio da parte di Gerolamo (circa 380), dalla Cronaca di Sulpicio Severo (ca. 400) e dal commento di Gerolamo al libro di Daniele (407), per concludere con la «variante» di Origene e con tre tavole sinottiche che riassumono le varie versioni della teoria nella tradizione orientale, in quella occidentale giudaica e cristiano-greca, e in quella occidentale latina. 7. Vedi Joseph W. Swain, «The Theory of the four Monarchies: Opposition history under the Roman Empire», Classical Philology, 35 (1940), pagg. 1-21, che già aveva chiarito sia lo sfondo storico e i relativi problemi di cronologia, sia le principali questioni relative alle varianti con le quali la sequenza compare presso autori diversi. Certo che leggendo qui, pag. 4: «We may therefore suggest that the theory of four monarchies and a fifth was brought to Rome from Asia Minor. Perhaps the list was picked up by a Roman who participated in the Magnesia campaign under Scipio», o ancora, pagg. 11-12, a proposito dei contatti con il mondo persiano dei «Roman soldiers at Magnesia», è piacevole chiedersi, con Sterne: by land oppure by water? 24 ENRICO FENZI Rileggiamo gli episodi relativi al primo sogno di Nabucodonosor (2, 145), e al sogno di Daniele stesso (7, 1-28), chiaramente tra loro collegati8. Molto sommariamente: Nabucodonosor aveva sognato una grande statua di terribile aspetto, con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e i fianchi di bronzo, la gambe di ferro e i piedi parte di ferro e parte di argilla. Mentre la contemplava, una pietra staccatasi senza intervento di mano umana dalla montagna andava a sbattere contro i piedi di ferro e di argilla e li faceva a pezzi, e rapidamente non solo il ferro ma pure il bronzo, l’argento e l’oro si polverizzavano ed erano portati via dal vento, mentre la pietra si trasformava in una grande montagna che copriva tutta la terra. Daniele spiega al re come, dalla testa ai piedi, i diversi metalli rappresentino i grandi regni, da quello d’oro che è quello di Nabucodonosor medesimo a quelli che via via gli succederanno, di metallo sempre più vile, sino a quello di ferro che sarà insieme forte e fragile, indebolito dalle instabili alleanze rappresentate dall’argilla9. La pietra che diventa montagna è invece l’ultimo regno, quello di Dio, che distruggerà tutti i precedenti e durerà per sempre. Nell’altro sogno, appaiono a Daniele quattro grandi bestie che escono dal mare: un leone con ali d’aquila, un orso, una pantera con quattro ali e quattro teste e infine, più terribile di tutte, una bestia senza nome con dieci corna e grandi denti di ferro con i quali stritola le sue vittime. Ma ecco che dinanzi a un anziano seduto su un trono di fuoco ardente si raduna un tribunale celeste, e l’ultima bestia viene uccisa mentre le altre sopravvivono private del loro dominio: dopo di che compare un essere simile all’uomo (7, 21: «quasi filius hominis veniebat») e a lui viene data potestà, onore e regno senza fine. La spiegazione della visione che, sempre in sogno, viene data a Daniele indica nelle quattro bestie quattro regni di origine terrena, e nell’ultimo che annienterà tutti gli altri e durerà in eterno il regno di Dio (7, 17-18: «hae bestiae magnae quattuor | quattuor regna consurgent de terra |suscipient autem regnum sancti Dei | altissimi | et obtinebunt regnum usque in saeculum et saeculum saeculorum»). 8. Anche sul sogno non può mancare una troppo vasta bibliografia. In aggiunta a quella specifica su Daniele data sopra, nota 6, mi limito a rinviare al ricco quadro d’assieme di Jacques Le Goff, «Le christianisme et les rêves (IIe-VIIe siècles)», in I sogni nel Medioevo. Seminario Internazionale, Roma, 2-4 ottobre 1983, a cura di Tullio Gregory, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1985, pagg. 171-218, mentre una analisi importante e una ricca bibliografia, a quella data, si trova nel vol. di Martine Dulaey, Le rêve dans la vie et la pensée de saint Augustin, Paris: Études Augustiniennes, 1973. 9. Oggi vi si intende un’allusione alla politica matrimoniale tra i Seleucidi di Siria e i Tolomei d’Egitto. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 25 Ho riassunto trascurando molti elementi, perché ciò che ora importa è isolare la teoria dei quattro regni terreni che nelle intenzioni dell’autore erano quasi certamente da identificare in quelli dei Caldei, dei Medi, dei Persiani e dei Greci. Gerolamo, che ha introdotto la teoria entro la storiografia cristiana per diretta influenza di Eusebio10, fa rientrare nella serie Roma e ribadisce la propria interpretazione istituendo un preciso, univoco parallelismo tra i due diversi sogni11. Il primo regno: testa d’oro e poi leone, è il «regnum Babylonium». Il secondo regno: petto e braccia d’argento e poi orso, è il regno dei Medi e dei Persiani: Medorum videlicet atque Persarum, quod argenti habet similitudinem, minus priore, et majus sequente [...] Bestia secunda urso similis, ipsa est de qua in visione statuae legimus: Pectus ejus et brachia de argento, haec ob duritiam et ferocitatem urso comparatur. Rigidum enim et parcioris victus in more Lacedaemoniorum regnum Persarum fuit. Il terzo regno: ventre e fianchi di bronzo e poi pantera con quattro ali e quattro teste, è il regno di Alessandro Magno: Alexandrum significat, et regnum Macedonum successorumque Alexandri. Quod recte aeneum dicitur: inter omnia enim metalla aes vocalius est, et tinnit clarius, et sonitus ejus longe lateque diffunditur, ut non solum famam et potentiam regni, sed eloquentiam Graeci sermonis ostenderet […] Nihil enim Alexandri victoria velocius fuit, qui ab Illyrico 10. Lo schema di Eusebio (Assiri, Persiani, Macedoni e Romani) è esplicito nella sua Demonstr. Evang. XV fr. 1, PG 22, col. 793 (= Eusebius Werke, edited by I. A. Heikel, nei Griechische Christliche Schriftsteller, 1913, VI, pag. 434: lo cito per comodità dalla traduzione che accompagna il testo greco nella PG): a Nabucodonosor «superbo et majorum suorum diutina dominatione elato, rerum conversio ostenditur regnorumque terrestrium finis: scilicet ob ejus animi curandam tumiditatem, atque ut is nihil in hominibus stabile judicaret, praeter divini super omnes mortales regni consummationem. Nam primam Assyriorum dominationem, quam aurum portendebat, excepturum erat secundo loco Persarum imperium argento demostratum. Deinde tertium Macedonum regnum quod aere significabatur. Post quod Romanorum quartum, caeteris quae praecesserant fortius, quare et ferro comparatur diciturque de eo: quartum erit regnum validum ferri instar. Ac veluti ferrum omnia extenuat domatque, ita hoc regnum omnia comminuturum ac subjugaturum. Post haec omnia Dei regnum in lapide totam statuam conterente agnoscere est». 11. I passi che seguono sono citati dal Commentariorum in Danielem liber, in PL 25, coll. 503-504, e coll. 528-530. In generale, sui caratteri dell’esegesi di Gerolamo vedi Pierre Jay, «Jérome et la pratique de l’exégèse», in Le monde latin antique et la Bible, sous la direction de Jacques Fontaine-Charles Pietri, Paris: Beauchesne, 1985, pagg. 523-541. 26 ENRICO FENZI et Adriatico mari usque ad Indicum Oceanum et Gangem fluvium, non tam praeliis quam victoriis percurrit, et in sex annis partem Europae et omnem sibi Asiam subjugavit. Quatuor autem capita eosdem dicit duces ejus, qui postea sccessores regni exstiterunt, Ptolomaeum, Seleucum, Philippum, Antigonum. Il quarto regno, infine: piedi di ferro e d’argilla e poi bestia innominata dagli enormi denti di ferro, è quello di Roma, come in effetti appare dalle condizioni presenti dell’impero che Girolamo ha sotto gli occhi. Ad esso seguirà non tanto un regno vero e proprio, quanto l’universale dominio di Cristo su questa terra: Regnum autem quartum, quod perspicue pertinet ad Romanos, ferrum est quod comminuit et domat omnia. Sed pedes ejus et digiti ex parte ferrei et ex parte sunt fictiles, quod hoc tempore manifestissime comprobatur. Sicut enim in principio nihil Romano imperio fortius et durius fuit, ita in fine rerum nihil imbecillius: quando et in bellis civilibus et adversus diversas nationes, aliarum gentium barbararum indigemus auxilio. In fine autem horum omnium regnorum auri, argenti, aeris et ferri, abscissus est lapis, Dominus atque Salvator, sine manibus, id est, absque coitu et humano semine, de utero virginali, et contritis omnibus regnis, factus est mons magnus, et implevit universam terram. Passando al passo relativo alla bestia, Gerolamo non insiste nell’identificazione, che dà per scontata, ma aggiunge un’altra considerazione di carattere personale12 che non può che confermarla: Satiaque miror, quod cum supra leaenam et ursum et pardum, in tribus regnis posuerit, Romanum regnum nulli bestiae compararit: nisi forte ut formidolosam faceret bestiam, vocabulum tacuit ut quidquid ferocius cogitaverimus in bestiis, hoc Romanos intelligamos [...] dum in uno imperio Romanorum omnia simul regna cognoscimus, quae prius fuerant separata. L’interpretazione di Gerolamo dei quattro regni (ripeto: babilonese, persiano, greco-macedone e romano) ha fissato uno schema che ha fatto testo per secoli, e che la «variante» di Orosio non ha sostanzialmente 12. Circa la prima considerazione, che suona polemica verso Stilicone («in bellis civilibus et adversus diversas nationes, aliarum gentium barbararum indigemus auxilio»), vedi Pierre Courcelle, Histoire littéraire des grandes invasions germaniques, Paris: Études Augustiennes, 1964, pag. 43. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 27 intaccato13. Questo schema trascina tuttavia con sé alcuni elementi di ambiguità relativi a due possibili direzioni di lettura14. La prima di queste sta all’interno stesso del testo di Daniele, in una sentenza che per tutto il medioevo, e oltre, è stata assunta come base assoluta dell’intero edificio interpretativo: i regni di questa terra si affermano e crollano attraverso le epoche per il semplice fatto che il loro potere deriva per intero dall’arbitrio di Dio, sì che in definitiva essi altro non sono che una manifestazione particolare del fatto che ogni realtà terrena, anche quella del potere più forte e radicato, è di per sé instabile e passeggera. Si legge in Dan. 2, 21, e commenta Girolamo: Et ipse mutat tempora et aetates, et transfert regna atque constituit. Non ergo miremur, si quando cernimus, et regibus reges et regnis regna succe13. L’identificazione del quarto regno con Roma trovava appoggio nella violenza antiromana dell’Apocalisse di Giovanni (vedi in part. 17, 5). Senza scendere qui in più minute distinzioni, si hanno esempi dell’ampia fortuna del motivo in Dionigi d’Alicarnasso, Ant. Rom. I 2, 2-4; nella Storia romana di Appiano, Praef. 9 (durissimo, come Livio, sugli asiatici «effeminati e codardi»); in Claudiano, De cons. Stilichonis III 159-160, che apre e termina con Roma («Nec terminus umquam | Romanae dicionis erit, nam cetera regna | luxuries vitiis odiisque superbia vertit: | sic male sublimes fregit Spartanus Athenas | atque idem Thebis cecidit; sic Medus ademit | Assyrio Medoque tulit moderamine Perses; | subiecit Persen Macedo, cessurus et ipse | Romanis»); Rutilio Namaziano, De redito suo 83-86, ecc. Anche l’opera dello storico d’opposizione e «filo-partico» Pompeo Trogo è costruita sullo schema della successione degli imperi, a partire dagli Assiri, i Medi, i Persiani nel l. I, e passa nel l. VII ai Macedoni e poi ai Romani, ma concede largo spazio ai Parti ai quali attribuisce addirittura un altro impero: «Parthi, penes quos velut divisione orbis cum Romanis facta nunc Orientis imperium est, Scytharum exules fuere...» (in Giustino, XLI 1, 1 ss.). Vedi J. W. Swain, «The Theory of the Four Monarchies», pagg. 16-17. Aggiungo sùbito che per quanto dico e dirò è preziosissimo il volume di Werner Goez, Translatio Imperii. Ein Beitrag zur Geschichte des Geschichtsdenkens und der politischen Theorien im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, Tübingen: Mohr, 1958, al quale è indispensabile ricorrere perché in esso è raccolta una imponente e pressoché esaustiva rassegna dei testi che, attraverso i secoli, hanno toccato il tema della translatio imperii. Orosio, in II 1, 1-6, e diffusamente in VII 2, 1-16, propone uno schema diverso, che prevede, seguendo l’orientamento dei quattro punti cardinali, due imperi universali, quello di Babilonia e quello di Roma, fra i quali si intromettono due imperi minori, di transizione: quello dei Macedoni e quello dei Cartaginesi: vedi per ciò Eugenio Corsini, Introduzione alle storie di Orosio, Torino: Giappichelli, 1968, pagg. 158-168; l’esposizione di MariePierre Arnaud-Lindet nell’Introduction alla sua edizione delle Storie di Orosio, Paris: Les Belles Lettres, 1990, pagg. XLVI-LXVI, e la sintesi di H. Inglebert, Interpretatio Christiana, pagg. 360-361. Una trecentesca ripresa dello schema di Orosio è per esempio in Martino Polono: vedi Martini Oppaviensis Chronicon, edited by Pertz, MGH SS, 1872, XXII, pag. 398. 14. Tali diverse direzioni emergono bene nei sintetici cenni di Ernest Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), a cura di Roberto Antonelli, Firenze: La Nuova Italia, 1992, cap. II § 4, pagg. 36-37, e in qualche modo questa prima parte dell’intervento può anche essere intesa come un tentativo di chiarirne il senso e la portata. 28 ENRICO FENZI dere, quae Dei gubernantur et mutantur et finiuntur arbitrio. Causasque singulorum novit ille cui conditor omnium est, et saepe malos reges patitur suscitari, ut mali malos puniant15. Le ragioni ultime di tante vicende storiche sono, in definitiva, incomprensibili, pur se le colpe degli uomini restano l’unica cosa certa che non si sbaglierà mai ad allegare, come Gerolamo dice e come già diceva altrove la Bibbia, facendone la causa diretta di quelle catastrofiche translationes di regno in regno: «Regnum a gente in gentem transferetur propter iniustitias et iniurias et contumelias et diversos dolos» (Eccli. 10, 8). E sono appunto queste le parole che determineranno nei secoli seguenti almeno uno dei modi di concepire le translationes, indifferenti sotto l’aspetto storico se considerate singolarmente, e per contro unificabili solo entro la prospettiva trascendente del giudizio divino16. La sequenza dei regni, insomma, è governata da una legge puramente negativa –la corruzione di ogni istituzione umana– e al limite addirittura casuale, in ultima analisi riferibile al misterioso «arbitrio» divino ch’è libero di muoversi in tutte le direzioni e «saepe malos reges patitur suscitari, ut mali malos puniant». Occorre dire anche che questo suo carattere negativo trattiene un’intima relazione con la concezione cristiana del potere, qual è soprattutto testimoniata con particolare vigore e forza di penetrazione da Agostino. Di là dall’ampio quadro storico tracciato in De civitate Dei V 12 ss., durissima è la condanna del santo, per esempio nel libro III, della crudele serie di guerre che Roma intrapprese mossa solo dalla sua libido dominandi, e altrettanto chiara è la differenza che corre tra la «città terrena» e quella «celeste», ibid. XIV 28, e innegabile il processo di guerre attraverso le quali i grandi imperi, a cominciare da quello Assiro, allargarono il loro potere, ibid. XVIII 2. Né sarà improprio ricordare, infine, che la prima città fu fondata dal fratricida Caino (Gen. 4, 17), e che Roma fu fondata dal fratricida Romolo: coppia esemplare, 15. PL 25, col. 500. 16. Si veda per esempio Rabano Mauro, Comment. In Ecclesiasticum III 1, PL 109, col. 827: «‘Regnum a gente in gentem trasferetur propter injustitias et injurias et contumelias et diversos dolos’. Huius sententiae veritatem omnium pene gentium notant historiae, et causas diversorum populorum ostendunt. Nec hoc ignorare potest, qui Chaldaeorum et Persarum Graecorumque potentissima regna subversa legit, et Romanorum regnum vacillare conspicit, nec stabile aliquid in mundo esse perpendit. Aliter, hoc significare potest quod propter praevaricationes et caecitatem prioris populi translatum est ad gentes Evangelium Christi». Muove dalla citazione biblica e segue la stessa linea anche il capitolo Ex quibus causis transferantur principatus et regna di Giovanni di Salisbury, Policraticus IV 12, edited by Webb, pagg. 276-279. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 29 per Agostino, della violenza che regna nella «città terrena» (De civ. Dei XV 5 e 8)17. Ma non basta, ché i giudizi di Agostino s’innestano in una visione più ampia: il dominio dell’uomo sull’uomo e dunque qualsiasi «potere» in quanto tale, comunque organizzato, è intimamente contrario all’ordine naturale, ed è invece l’innaturale ed esecrabile frutto della caduta del genere umano nel peccato, della quale è insieme, ambiguamente, dura punizione e parziale quanto indispensabile rimedio (De civ. Dei XIX 15: Dio «rationalem factum ad imaginem suam noluit nisi irrationabilibus dominari; non hominem homini, sed hominem pecori. Inde primi iusti pastores pecorum magis quam reges hominum constituti sunt, ut etiam sic insinuaret Deus, quid postulet ordo creaturarum, quid exigat meritum peccatorum»). Per lui, potremmo ulteriormente compendiare, la tendenza degli uomini ad associarsi in comunità di eguali ha la sua radice nell’ordine della natura, mentre lo stato, in quanto potere coercitivo, ha la sua radice nel peccato18. Ora, si capisce bene come una concezione siffatta si prestasse a un arco assai ampio di interpretazioni e variazioni, ché da un lato invitava a percepire il carattere fondamentalmente violento e immorale del potere, e dall’altro lo sublimava quale espressione diretta della volontà divina, sia nell’aspetto spiccatamente punitivo del tiranno che in quello riparatore e ordinatore del re. Occorre dire che il secondo aspetto fu quello di gran lunga dominante, e comportò che, da Agostino in poi, ogni ribellione al potere costituito fosse 17. Sintetizza efficacemente Claudio Leonardi: «La storia della civitas hominum è per Agostino una perpetua ripetizione del gesto di Caino» («Gregorio VII a Ermanno di Metz» [1996], in Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, Firenze: SISMEL/Edizioni del Galluzzo, 2004, pagg. 399-404: pag. 400). E Lidia Storoni Mazzolari, Sant’Agostino e i pagani, Palermo: Sellerio, 1988, pag. 106: «In contrasto con la fierezza dei romani, egli [Agostino] nega il valore delle glorie e delle conquiste; percepisce il silenzio e il gemito dei vinti; definisce il dominio il risultato d’un immenso banditismo», ecc. In generale, per l’argomento qui appena sfiorato, vedi il denso volume di Gaetano Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il «saeculum» e la gloria nel «De civitate Dei», Roma: Borla, 1988. Ma particolarmente utile resta ancora il saggio di Paolo Gerosa, «S. Agostino e l’imperialismo romano», in Miscellanea Agostiniana, Roma: Tipografia Poliglotta Vaticana, 1931, II, Studi Agostiniani, pagg. 997-1040. 18. Così Robert A. Markus, Saeculum: History and Society in the Theology of Saint Augustine, Cambridge: Cambridge University Press, 1950, pagg. 204-205. Ma vedi anche P. Gerosa, «S. Agostino e l’imperialismo romano», in La dominazione degli uomini sopra gli uomini come perturbamento dell’ordine morale, part. § 5, pagg. 1031-1036, con numerose citazioni di passi agostiniani; G. Lettieri, Il senso della storia, capp. 7 e 8, pagg. 94-118, e, con ulteriori indicazioni bibliografiche, Leandro Polverini, «La storia romana nel De civitate Dei», in Il «De civitate Dei». L’opera, le interpretazioni, l’influsso, a cura di Elena Cavalcanti, Roma, Freiburg & Wien: Herder, 1996, pagg. 19-33. 30 ENRICO FENZI coerentemente considerato il peggiore dei delitti: e i fratelli Carlyle nella loro grande opera l’hanno mostrato in mille modi. Ma a me sembra che essi abbiano troppo trascurato l’altro filone che, date le premesse, non poteva non esistere: non già quello sacro e provvidenziale dell’origine divina del potere, ma quello oscuro e inquietante che riconosce tale origine e però del potere fa, con qualche inevitabile schizofrenia, il primo frutto avvelenato del peccato, e dunque della libido dominandi, della volontà di rapina, dell’ambizione, dell’avidità19. Solo così, mi pare, riusciamo a intendere le famose lettere di Gregorio VII, Ildebrando di Soana, a Ermanno vescovo di Metz, che tanto scandalo hanno suscitato e che ancora i fratelli Carlyle carcano di addolcire insistendo sul fatto che anche per Gregorio Dio è fonte di ogni potere terreno. D’accordo: ma proprio qui sta il tragico della faccenda. Cosa affermano, infatti, quelle lettere, con tanta eloquenza? Che il potere terreno, appunto, ha avuto origine dal peccato e che è e resta intrinsecamente un peccato esercitare un dominio super pares, e cioè su altri 19. Robert W. e Alexander J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, Bari: Laterza, 19561968 (1903-1909: seconda ed., 1950). La discussione sul punto potrebbe essere assai lunga: qui, brevemente, mi preme sottolineare come gli studiosi inglesi diano spazio alle lettere di Gregorio VII delle quali sùbito parlerò, ma si preoccupino anche di tagliare le unghie al loro contenuto mediante una «contestualizzazione riduttrice» (normalmente Gregorio manifesta opinioni più ortodosse…), che però non intacca la forza e l’autonomia di quelle (vedi II, pagg. 110-121). Allo stesso modo, e qui la cosa ha una portata molto più generale, essi inizialmente riconoscono il forte pessimismo di fondo della visione agostiniana, ma poi lo depotenziano in un modo che a me sembra alquanto contorto e poco convincente (vedi I, pagg. 184-190). In estrema sintesi, Agostino dimostra che se si accetta, con Cicerone, che fondamento dello stato sia la giustizia, ebbene, né quello romano ne alcun altro può essere chiamato tale; se invece si assume, accantonata la giustizia, che lo stato sia una comunità di esseri razionali uniti da un interesse condiviso, ebbene, allora non solo quello di Roma ma anche ogni altro stato storicamente esistito può essere definito così. Ma ciò comporta, e Roma ne è un esempio evidente, che la giustizia sia allora concepita come l’interesse del più forte, «id esse ius quod ei qui plus potest utile est» (De civ. Dei XIX 21, 1, con ripresa, dunque, della tesi esposta e combattuta già da Platone: ma vedi gli interi capp. 21-28, per la questione dello «stato»). Di qui la famosa battuta: «Remota itaque iustitia, quid sunt regna, nisi magna latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt, nisi parva regna?» (De civ. Dei IV 4), che i Carlyle, pur titubanti, vorrebbero intendere a rovescio, e cioè come prova che per Agostino proprio la giustizia legittimerebbe i regna contro i latrocinia, quando invece (si rilegga tutto il capitolo agostiniano) non si tratta che della riproposizione in chiave assolutamente positiva dell’aneddoto di Alessandro Magno e del pirata (tratto da Cicerone, De republica III 14, 24), il quale affermava che solo il fatto di possedere una sola nave invece di una flotta faceva di lui un pirata invece che un re. Aggiungo ancora che i Carlyle, pur parlando delle posizioni di Tolomeo da Lucca non ricordano il passo al quale faccio poco avanti riferimento (su Tolomeo, vedi in particolare III, pagg. 363-368). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 31 uomini20. Ma ancora a metà del XIII secolo Vincenzo di Beauvais si chiedeva come fosse possibile che da un lontano principium criminale i moderni governanti potessero ricavare patenti di legittimità21, e più tardi Tolomeo da Lucca, uno dei più importanti sostenitori della supremazia papale, sottolineava come «segno» e «argomento» della natura intimamente corrotta del potere fosse il fatto che, all’origine del mondo, solo e precisamente i reprobi avessero instaurato rapporti di dominio su altri uomini (il corsivo è mio): «Ab initio seculi post peccatum non eo modo dominium est assumptum, sed ex quodam fastu superbie ac dominandi libidine per usurpationem incepit, cuius signum et argumentum haberi potest, quia soli reprobi in principio creationis mundi dominium assumpserunt, unde ante diluvium primus dominus inter homines fuit Chaym, ut Augustinus dicit XV de Civitate Dei c. XX»22. In questa forma, il tema deriva dal Decretum di Graziano 20. Ecco, dalla lettera del 1081: «Quis nesciat reges et duces ab iis habuisse principium qui, Deum ignorantes, superbia, rapinis, perfidia, homicidiis, postremo universis pene sceleribus, mundi principe Diabolo videlicet agitante, super pares, scilicet homines, dominari caeca cupidine et intolerabili praesumptione affectaverunt» (Registrum VIII 21). E da un’altra, del 1076, ov’è ancora più evidente, se possibile, la matrice agostiniana: «Sed forte putant quod regia dignitas episcopalem praecellat. Ex earum principiis colligere possunt, quantum a se utraque differunt. Illam quidem superbia humana repperit, hanc divina pietas instituit. Illa vanam gloriam incessanter captat, haec ad cœlestem vitam semper aspirat» (ibid. IV 2: cito da R. W. & A. J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, II, pag. 110: ma vedi già ibid. I, pagg. 455 ss.). 21. Se, come da Agostino in poi si andava spesso ripetendo, i regni sono sorti da un atto di violenza, e il male è sempre all’origine del dominio dell’uomo sull’uomo, com’è possibile che con il tempo si trasformino in regni di diritto? «Cum autem, ut dicit eciam lex humana, res furtive vel vi possesse non possint usu capi, querunt nonnulli quo iure regna, sicut predictum est, ab antecessoribus suis usurpata vel vi possessa teneant reges moderni. Ad hoc autem quatuor concurrunt que in manu eorum eadem regna iure stabiliunt, videlicet ordinacionis divine dispensacio, populi consensus vel electio, ecclesie approbatio, longissimi temporis cum bona fide prescripcio». Tutto ciò coinvolgeva direttamente anche i romani, e finiva, com’è ovvio, per portare acqua al mulino dei re «moderni», e a quello di Francia prima di tutti. Continua infatti Vincenzo: «Sic igitur arbitrandum est de regno vel imperio Romanorum, quod etsi a principio cupiditate dominandi terminos suos per diversas naciones debachando dilataverunt, postea tamen accessit consensus populorum, qui et ab eis leges ex diversis sapientum dictis collectas spontanee receperunt. Sic eciam estimandum est de regno Francorum et eciam Anglicorum necnon et aliorum precipue cristianorum» (De morali principis institutione, a cura di Schneider, IV, Quo iure regna quondam usurpata licet retinere, pagg. 22-23). 22. E continua: «Et inde motus fuit ad civitatem edificandam, ut dominaretur in ea, et hec fuit prima civitas in mundo, quam nomine filii sui vocavit [Enoch: vedi Gen. 4, 17] ad perpetuationem domini filii. Post diluvium vero omnes, qui primo dominium assumpserunt, fuerunt de genere maledicto Cham, ut ex libro Genesis habetur [Gen. 9, 25], et Comestor et Iosephus dicunt [Hist. schol. ad lib. Genesis, c. 37: PL 98, 1088], unde post diluvium, qui primum dominium assumpsit, fuit Cham, ut infra dicetur. Secundus Nemroth, qui descendit 32 ENRICO FENZI che, seppur in maniera assai meno polemica, già puntualizzava, sull’autorità della Genesi, come la prima città fosse stata fondata da Caino e come, dopo il diluvio, fosse cominciata, con Nembroth, l’oppressione dell’uomo sull’uomo: e dal Decretum passa ai decretalisti23, seppur in forme abbastanza attenuate, dato che la loro preoccupazione è riconfermare il principio generale dell’origine divina di ogni potere e la validità giuridica della lunga «consuetudine» (non solo nel caso dell’esercizio del potere, ma anche nel caso della proprietà privata, pur essa inconcepibile nello stato di natura precedente la caduta). Di qui, infine, ritroviamo il motivo in Alberico da Rosate24, per il quale, infatti, «l’origine del potere civile […] è da porre non già nella naturale disposizione degli uomini ad associarsi, ma nell’iniquità e nella violenza; la tirannide, in tal senso, come violenta oppressione sugli uomini, precede nella storia del mondo il governo giusto: prius tamen fuit tyrannus quam rex. Nam Nembrot primus fuit tyrannus et nemo ante eum reperitur»25. Chiedo scusa di quella che può apparire, ma spero non sia, una divagazione: ci stiamo avvicinando al punto. Che è quello di un insieme di concezioni che da un lato affidavano la successione dei regni a un disegno de Cham, cuius consilio hedificata est turris Babel, ut hystoriae tradunt, ad dominandum, in cuius signum in Genesi scribitur, quod volebant cacumen eius in celum ascendere ad significandum cordis ambitionem in preeminendo aliis», ecc. (Determinatio compendiosa de iurisdictione Imperii, auctore […] Tholomeo Lucensi O. P., edited by Krammer, MGH SS RG in usum scholarum, 1909, c. XVII, pagg. 36-37). Per Caino e la sua discendenza, vedi il libro XV del De civ. Dei, e qui ancora, XVI 3-5, per la discendenza di Noè, e Cam e il gigante Nembroth. Vedi anche la nota che segue. 23. I relativi passi di Graziano e Rufino (rispettivamente Decretum d. VI, e Summa decretorum, d. VIII Diff. Quoque) sono citati dai fratelli Carlyle, Il pensiero politico, I, pag. 456. Ma vedi Diego Quaglioni, «‘Nembrot primus fuit tyrannus’. ‘Tiranno’ e ‘tirannide’ nel pensiero giuridico-politico del Trecento italiano: il commento a C. 1, 2, 16 di Alberico da Rosate (c. 1290-1360)», Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, 6 (1979-1980) [ma 1983], pagg. 83-103: in particolare, pagg. 95-98, è citato ancora il passo di Graziano, e un passo dalla continuazione di Tolomeo da Lucca del De regimine principum di Tommaso d’Aquino (IV 3, ed. Mathis, pag. 83) del tutto simile a quello citato sopra a testo («primo dominantes in mundo fuerunt homines iniqui», ecc.). 24. Alberico fu più volte ambasciatore ad Avignone per conto dei Visconti e certamente Petrarca lo conobbe, come conferma una indiretta trama di relazioni e circostanze ricostruita da Giuseppe Billanovich, «Epitafio, libri e amici di Alberico da Rosciate», Italia medioevale e umanistica, 3 (1960), pagg. 251-261. 25. D. Quaglioni, «‘Nembrot primus fuit tyrannus’», pagg. 95-96 (la citazione di Alberico da Lectura Alberici de Rosate Bergomensis super prima parte Codicis, in l. Decernimus, C. De sacrosantis ecclesiis, s. l., Ioannes de Ionuelle dictus Piston imprimebat, 1518, fol. 19r). Vedi qui anche per Nembrot, quale tradizionale «figura» del tiranno. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 33 dominato dalla vanità del tutto e dalla fondamentale ingiustizia sulla quale ogni potere terreno si regge, e dall’altro e contraddittoriamente non potevano fare a meno di porre al loro stesso interno alcune premesse che andavano nella direzione opposta, e cioè aiutavano a ravvisare almeno un filo conduttore, un’ipotesi interpretativa in chiave provvidenziale o storica. Torniamo un attimo a Daniele e a Girolamo. Nel primo, in particolare nel sogno della statua, è chiara una progressione negativa nella successione dei regni, da quello d’oro a quello di ferro e d’argilla, e nel secondo tale progressione è ulteriormente confermata dall’accumulo di spaventosa ferocia che finisce per caratterizzare la quarta bestia, quasi una somma delle peggiori qualità delle altre tre. Ma nello stesso tempo questo climax discendente, e che però termina con un «regno di ferro» ch’è il più forte di tutti, è bruscamente corretto e propriamente rovesciato dalla profezia del quinto e ultimo regno, quello di Cristo, la cui immagine non può non agire all’indietro, per dir così, e non imprimere ai regni terreni che lo precedono almeno il senso di un percorso unitario, ordinato quanto meno allo scopo realizzato dal quarto regno, quello romano. Il quale, infatti, è per lo stesso Gerolamo qualcosa che ingloba e supera tutti gli altri, come gli abbiamo visto scrivere nel commento a Daniele: «in uno imperio Romanorum omnia simul regna cognoscimus, quae prius fuerant separata», creando condizioni affatto nuove e qualitativamente superiori rispetto a quelle dei regni precedenti, come torna a puntualizzare altrove: «Ante adventum Christi unaquaeque gens suum habebat regem et de alia ad aliam nullus ire poterat nationem. In romano autem imperio unum facta sunt omnia», sì che la sua rovina travolge il mondo intero, come ancora Gerolamo scrive, nel 410, piangendo la morte di Marcella, uccisa dagli stenti durante il sacco della città da parte di Alarico: «Postquam vero clarissimum terrenorum omnium lumen exstinctum est, immo Romani imperii truncatum caput, et, ut verius dicam, in una Urbe totus orbis interiit»26. 26. Prol. ai Commentariorum in Ezechielem prophetam libri quatordecim, PL 25, coll. 1516, e Comm. a Isaia, XIX 23, CC 73, pag. 199. Per un lungo commosso elogio funebre di Marcella, una delle animatrici del «circolo dell’Aventino», vedi ancora Gerolamo, Epist. 127, a Principia. Così, qui e altrove sfioro appena il grande motivo della ideologia «romana» che si fonda sull’universalità e sulla eternità dell’impero, e che ha una sorta di centro radiante in Virgilio (Aen. I 274-278; VI 851), e che ha sortito molte affermazioni con le quali quelle di Gerolamo sono perfettamente in linea: per esempio, Rhet. Ad Herennium IV 13: «Imperium orbis terrarum, cui imperio omnes gentes reges nationes […] consensuerunt»; Ovidio, Fast. II 684: «Romanae spatium est Urbis et orbis idem» (onde quattro secoli dopo, ma in un contesto assai più melanconico, Rutilio Namaziano, De reditu, 1, 66: «Urbem fecisti quod prius orbis erat»); 34 ENRICO FENZI Eccoci dunque sulla soglia, come ognuno vede, del grande e complesso tema, che sarà assolutamente centrale nella visione dantesca (oltre la Commedia, si veda Conv. IV 4-5, e tutto il Monarchia), della natura provvidenziale dell’impero romano attraverso il quale si sarebbero realizzate le condizioni migliori di natura politica, sociale e linguistica per la diffusione della parola di Cristo. Il pensiero di Gerolamo, in particolare, è in sintonia con quello di Eusebio, che affermava l’intimo nesso tra la pace di Cristo, il monoteismo biblico e l’impero romano27, e concepiva l’intero processo della civilizzazione, a partire dalla selvatica e «bestiale» condizione primitiva, come un processo indirizzato dalla provvidenza verso la monarchia universale. Come scrive Robert Grant, in un saggio dal titolo significativo, Civilization as a Preparation for Christianity in the Thought of Eusebius: «he welcomed ideas about progress and civilisation as pointing onward toward the triumph of the Christian church in the Roman empire. The early history of civilization had prefigured the history of his own time, just as the passage from darkness to light at creation had anticipated the transmission of the gospel message»28. Plinio, Nat. hist. III 40: «Italia una cunctarum gentium in toto orbe patria»; Floro, I Intr. 2: «Ita late per orbem terrarum arma circumtulit [il popolo romano] ut qui res illius legunt non unius populi, sed generis humani facta condiscant», ecc. (vedi la sintesi di M. J. Hidalgo de la Vega, «Algunas reflexiones», e qui in particolare l’analisi dell’Elogio di Roma di Elio Aristide, pagg. 279 ss.). 27. Si veda come Gerolamo insista sul principio del governo unico, a tutti i livelli della società e della chiesa: «Imperator unus; iudex unus provinciae. Roma, ut condita est, duos fratres simul habere reges non potuit [...] In navi unus gubernator, in domo unus dominus, in quamvis grandi exercitu unius signum expectatur», ecc. (Epist. CXXV 15). Oltre a quanto è citato avanti, per Eusebio si veda pure Raffaele Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea, Zürich: Pas Verlag, 1966 (per Costantino quale «nuovo Mosè», pagg. 189 ss.; per la perfetta concidenza tra l’impero romano-cristiano e la chiesa, pagg. 163 ss.). 28. Robert M. Grant, «Civilization as a Preparation for Christanity in the Thought of Eusebius», in Continuity and Discontinuity in Church History. Essays presented to George Huntston Williams and edited by F. Forrester Church & Timothy George, Leiden: Brill, 1979, pagg. 62-70: pag. 64 (ora in Christian Beginnings: Apocalypse to History, London: Variorum Reprints, 1983, XII (num. originale delle pagine). Circa i testi di Eusebio, abbondantemente riferiti da Grant, mi limito a ricordare Preparatio evangelica I 4, 1-6, ove si dimostra che è frutto di una forza divina il fatto che l’avvento di Cristo sia avvenuto in un momento in cui la razza umana era stata liberata dalla molteplicità dei regni per opera della monarchia di Augusto (La préparation évangelique, introduction, texte grec, traduction et commentaire par Jean Sirinelli & Édouard des Places, Paris: Cerf, 1974, pagg. 118 ss. = PG XXI coll. 3740). Ma, per un panorama vasto e preciso di un nodo così importante, rimando sia per le citazioni di testi che per la bibliografia a Hervé Inglebert, Les Romains chrétiens face à l’histoire de Rome: Histoire, christianisme et romanités en Occident dans l’antiquité tardive (IIIeVe siècles), Paris: Institut d’Études Augustiniennes, 1996, passim, e alla sintesi, dello stesso studioso, «Les causes de l’existence de l’Empire romain selon les auteurs chrétiens des III e- IVe siècles», Latomus, 54 (1995), pagg. 18-50. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 35 In ciò, Eusebio metteva la sua impronta personale su un’idea che nelle sue linee essenziali era diventata predominante nel corso del secondo secolo d. C., per quanto attraversata da contraddizioni e opposizioni (per il pensiero giudaico, specie dopo la distruzione del Tempio nel 70 d. C., Roma era stato lo strumento divino per colpire gli ebrei dei loro errori, ma in sé non era altro che una nuova Babilonia che, come la precedente, sarebbe stata distrutta)29. Naturalmente, non sta a me entrare in simile discorso, e mi basta ricordare come quell’idea, con sfumature diverse, prendesse corpo attraverso Ireneo di Lione, Melitone, Teofilo d’Antiochia, Teodorete di Ciro e avesse raggiunto formulazioni estreme in Cosma Indicopleuste30, e come il cosiddetto «eusebismo cristiano» informi l’opera di Prudenzio e Orosio, e poi quella di Cassiodoro e Jordanes, per i quali l’esistenza dell’impero romano sino alla fine dei tempi era un’evidenza garantita dallo stesso Libro di Daniele: ma papa Leone Magno dalla crisi dell’impero svilupperà un’ideologia pontificale «di sostituzione», mentre il legame che governa il passaggio dall’impero romano ormai finito a quello cristiano è del tutto scontato per Gregorio Magno31. Ma, ai fini del mio discorso, merita una 29. Vedi Paul Schäfer, Histoire des Juifs dans l’Antiquité, Paris: Cerf, 1989, passim. 30. Cosma infatti intende che l’ultimo regno, quello che Dio «suscita» dopo che la statua sognata da Nabucodonosor è stata distrutta, sia insieme quello di Cristo e quello romano: «Daniel dit: ‘Le Dieu du ciel suscitera un empire qui ne sera pas détruit à travers les siècles’ [Dan. 2, 44]. Ici, tout en parlant du Seigneur Christ, Daniel inclut aussi en une allusion l’empire des Romains qui s’est élevé en même temps que le Seigneur Christ [...] L’empire des Romains participe donc des dignités de l’empire du Seigneur Christ; il surpasse, autant qu’il se peut en cette vie, tous les autres et demeure invincible jusqu’à l’accomplissement des siècles». Per questa ragione, «J’exprime donc la convinction que, même si pour la correction de nos péchés les ennemis barbares se dressent de temps en temps contre la Romanie, l’empire demeurera invincible par la puissance souveraine, afin que le monde chrétien ne se réduise pas, mais qu’il s’étende. En effet, cet empire crut le premier en Christ, avant tous les autres, et il est le serviteur des dispositions concernant le Christ; pour cette raison Dieu, le Seigneur universel, le garde invincible jusqu’à l’accomplissement des siècles» (cito dalla traduzione a fronte del testo greco, in Cosmas Indicopleustès, Topographie chrétienne, introduction, texte critique, illustration, traduction et notes par Wanda Wolska-Conus, Paris: Cerf, 1968, pagg. 388-391: II 74-75). 31. In particolare, vedi Prudenzio, Contra Symm. I 541-590, ove torna, con precise riprese da Virgilio, Aen. I 274-278, la teologia imperiale di stampo eusebiano (per Jacques Fontaine, «De l’universalisme antique aux particularismes médiévaux: la conscience du temps et de l’espace dans l’Antiquité tardive», in Popoli e paesi nella cultura altomedievale [Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XXIX], Spoleto: presso la Sede dell’Istituto, 1983, pagg. 15-45: pag. 34, Prudenzio sarebbe «le dernier témoin, presque caricatural, de la grande illusion d’un Empire chrétien, à qui le Christ aurait garanti une nouvelle théologie de la victoire impériale»); Jordanes, Romana V 1 ss. (vedi W. Goez, Translatio 36 ENRICO FENZI sosta particolare Isidoro, che produce una interpretazione originale di Dan. 7. Anch’egli identifica la quarta bestia con l’impero romano, ma contemporaneamente fa i conti con la sua avvenuta dissoluzione, ricavandone che ad esso si deve la civilizzazione universale e che, seppure politicamente scomparso, resta l’unico supremo modello di riferimento: così, i regni particolari (quello visigotico sarebbe uno dei dieci corni della bestia di Daniele) sarebbero vincolati a una sorta di imitatio imperii che dovrebbe garantire la libertà delle genti non più sottomesse32. Di fatto, insomma, quella di Isidoro è la nuova cornice ideologica che dovrebbe presiedere a una serie Imperii, pagg. 49-52); Leone Magno, Serm. 69, che sviluppa all’estremo il motivo della Roma pagana quale prefigurazione della cristiana (Romolo e Remo corrispondono a Pietro e Paolo; i martiri sono i nuovi trionfatori; l’arx imperii diventa caput orbis, ecc.). Per Gregorio Magno, vedi Robert. A. Markus, «Gregory the Great’s Europe», Transactions of the Royal Historical Society, s. 5, 31 (1981), ora in From Augustine to Gregory the Great. History and Christianity in late Antiquity, London: Variorum Reprint, 1983, XV, num. originale delle pagine; id., Gregory the Great and his World, Cambridge: Cambridge University Press, 1997, pagg. 8585. Ma vedi anche avanti, note 51-55. 32. Sulla visione storica di Isidoro fa un lungo e ricco discorso Marc Reydellet nel saggio «La signification du livre IX des Etymologies: érudition et actualité», in Los Visigodos. Historia y civilización. Actas [...], 21-25 octubre de 1985, Murcia: Universidad de Murcia (Antigüedad y cristianismo. Monografías históricas sobre la antigüedad tardía, III), 1987, pagg. 337-350 (345-346). Leggiamo qui, pag. 342: «Cette représentation d’une humanité une par l’origine, mais éclatée en gentes, laisse reconnaître l’influence du moment où Isidore écrit, et, plus précisément, on y retrouve l’écho des conceptions de Grégoire le Grand. Ce dernier est en effet le témoin privilégié de la faillite de l’universalisme imperial et de la reconaissance des regna qui trouvent droit de cité dans un nouvel ordre du monde où l’Église se substitue à l’Empire comme principe d’universalité et d’unité», e ancora, pag. 348, mettendo in risalto la componente più nuova e personale di Isidoro: «Isidore ne cherche pas seulement à transmettre un savoir passé, mais à imposer au lecteur une nouvelle image du monde. Cette image est celle d’un monde où la diversité des gentes, voulue par Dieu, est acceptée sans nostalgie de l’Empire, tout en se conciliant avec un nouveau principe d’unité qui est l’Eglise». Vedi anche J. Fontaine, De l’universalisme antique, pagg. 42-45, ove puntualizza l’isidoriana dissociazione dello spazio romano, e l’unificazione ideologica di uno spazio «provinciale», il regnum gentis Gothorum; id., Isidore de Seville. Genèse et originalité de la culture hispanique au temps des Wisigoths, Turnhout: Brepols, 2000, in part. cap. 11, De la cronique universelle à l’histoire nationale, pagg. 217-233; Marc Reydellet ancora, «La conception du souverain chez Isidore de Séville», in Isidoriana. Estudios sobre san Isidoro de Sevilla en el XIV Centenario de su nacimiento [...], bajo la dirección de Manuel C. Díaz y Díaz, León: Centro de Estudios «San Isidoro», 1961, pagg. 457-466, che tra l’altro analizza i capitoli isidoriani sortiti dal IV Concilio di Toledo, nel 633 (Sent. III 47-51: PL 83, coll. 537738), in cui è tracciato il profilo del principe ideale. Su quest’opera, vedi anche Paul Cazier, «Les sentences d’Isidore de Seville et le IVe Concile de Tolède. Réflexions sur les rapports entre l’Eglise et le pouvoir politique en Espagne autour des années 630», in Los Visigodos, pagg. 373-386 (in part. pagg. 374-377). Vedi avanti, nota 39. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 37 multipla di translationes: ed è allora specialmente significativo, vedremo, che tale idea di una naturale pluralità dei regni nati dalle ceneri dell’impero torni e si sviluppi con forza nella Francia capetingia, che insieme rivendicherà in forme altrettanto esplicite il privilegio della translatio studii. Siamo forse arrivati, sia pur per pochi e sommari esempi, a un altro snodo importante. Dovendo riassumere, porrei l’accento sul fatto che due sono le correnti profonde che non hanno mai smesso di confrontarsi e dialettizzarsi anche drammaticamente nel corso della storia dell’occidente: la corrente che ha trasmesso al medioevo (e poi alla modernità, quale potente lievito delle sue rivoluzioni) una visione integralmente pessimista e addirittura malvagia e satanica sull’origine e la natura del potere, e l’altra che affrontava il problema di capire come si fosse passati dalla brutale e criminale semplicità del dominio diretto –Nembroth, per semplificare– alla costruzione grandiosa dell’impero romano e a quella altrettanto mirabile di un modello di diritto universale che pareva disegnare per sempre l’unico orizzonte entro il quale si riuscisse a pensare la società umana e, in particolare, qualsiasi forma di legittimazione di nuove e possibili strutture di governo. Da questo punto di vista, credo che ancor oggi noi si sia entro la dimensione di «eredi dell’impero»: ma non è questo, evidentemente, il punto. Piuttosto, e sempre in termini assai generali, direi che le due visioni siano opposte e però indissolubilmente intrecciate, sì che ognuna di esse s’alimenta e vive della sua possibile negazione. E se l’una cancella nella ripetizione dell’identico ciclo di catastrofi storiche il valore di qualsisi translatio che non consista nella continuità del giudizio divino e della umana insufficienza, l’altra per contro non può che prefigurare l’intero corso della storia sub specie translationis e addirittura alla translatio affida la possibilità stessa che una storia esista, e pone tale concetto al centro della propria speculazione e s’interroga sulle speranze che suscita e sui modi della loro realizzazione. Ed è allo spessore storico-antropologico di questo quadro, per quanto qui malamente abbozzato, che le translationes delle quali resta da parlare vanno riportate, se se ne vuole recuperare la profondità ideologica e la valenza morale, e non ridurle alla mera esigenza di apparati di propaganda o a un contorto e finalmente poco interessante complesso di sciovinismi intellettuali. 38 ENRICO FENZI 2. DUE MODELLI OPPOSTI: «GRAECIA CAPTA» E «BELLA PRIGIONIERA» Un passo ancora è necessario per arrivare alle nostre translationes, e per farlo occorre scendere qualche gradino e rientrare nella più appropriata dimensione culturale e letteraria entro la quale qui ci si deve contenere. E osserviamo sùbito che il concetto cristiano di translatio resta estraneo e in linea di principio ostile all’idea di un legame tra la trasmissione del potere e quella del sapere (il famoso sogno di Girolamo in fondo estremizza l’accettazione di questa dicotomia). In esso, infatti, la chiave dei vari crolli di regno in regno è pur sempre negativa, e il sapere è in ogni caso fissato nella Rivelazione, onde il «progresso» verso il regno di Cristo è anche, intrinsecamente, un progresso nella comprensione, nella diffusione e nell’attuazione delle Sacre Scritture: e l’impero romano troverebbe appunto la sua trascendente giustificazione e la sua gloria nell’essere stato al servizio di tale diffusione. Ma all’interno del mondo romano e del suo universalismo tanto politico quanto filosofico già vive l’essenziale e per vari aspetti dirompente novità per cui quel legame tra potere e sapere è in verità strettissimo, e propriamente di consustanzialità. Né potrebbe essere diversamente, perché, se è la corruzione umana che produce le catastrofi dei vecchi regni, è la virtus che edifica e mantiene l’impero. Se dunque spostiamo l’attenzione verso il mondo romano, spicca evidente non solo l’enorme forza di impatto del mito della missione dell’impero, specie nella veste poetica e religiosa che Virgilio ha saputo conferirgli, ma anche risulta come fosse precisamente romana la visione in chiave progressiva delle translationes storiche, e come appaia al proposito esemplare la massima di Sallustio che dalle stesse premesse cristiane –sono i misfatti e le ingiustizie che distruggono i regni– ricavava la possibilità di un’interpretazione della mutabilità della storia come progressiva rifondazione ed incremento dei valori: Verum ubi pro labore desidia, pro continentia et aequitate lubido atque superbia invasere, fortuna simul cum moribus immutatur. Ita imperium semper ad optumum quemque a minus bono transfertur33. 33. De Catilinae con. 2, 5-6. Tornando alla virtus edificatrice dei romani, Enghelberto di Admont citerà ancora nei primi anni del ‘300 le eloquenti parole di Sallustio, ibid. 32, 1911, e aggiugerà: «quia non fuissent illi tales viri, nisi habuissent tales mores, neque apud Romanos tunc fuissent tales mores, nisi Roma tunc habuisset tales viros» (Speculum virtutum, VI 8, edited by Ubl, MGH Staatsschriften des späteren Mittelalters, I, 2, 2004, pag. 245). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 39 Il punto è fondamentale. Se davvero l’«imperium semper ad optumum quemque a minus bono transfertur», ciò può avvenire solo in nome di un altro tipo di «trasferimento»: quello che sposta il fuoco del discorso dall’imperium, e cioè dal potere, ai mores, e cioè, nel caso, alla dimensione etica che riveste il potere e lo legittima. Nelle parole di Sallustio la translatio riguarda in prima istanza labor, continentia, aequitas, mentre il potere, alla fine, le segue e le premia, condannando senza appello desidia, lubido e superbia. Tutto ciò corrisponde al nucleo profondo dell’ideologia romana sin dalla sua versione repubblicana, e alle sue rappresentazioni: basterebbe ricordare il celebre passo nel libro IX delle Storie di Livio nel quale gli eserciti romani guidati da Papirio Cursore sono contrapposti a quella massa informe di ubriaconi che avrebbe costituito l’esercito di Alessandro Magno, oppure al binomio pietas-virtus che sarebbe stato all’origine di tutti i futuri successi. E ci rimanda perciò alle qualità di fondo attraverso le quali i romani sono stati degni di realizzare la grande translatio che per tutto il medioevo e l’età moderna ha sempre conservato un ruolo archetipico: quella del sapere, da Atene a Roma. Al proposito, sempre si allega la formulazione oraziana, Epist. II 1, 156-157, ma non si sbaglierà a insistere ulteriormente sul punto, ed a citare l’intero passo, 156-167, che di quella translatio definisce, per così dire, le coordinate morali: Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio; sic horridus ille defluxit numerus Saturnius, et grave virus munditiae pepulere; sed in longum tamen aevum manserunt hodieque manent vestigia ruris. Serus enim Graecis admovit acumina chartis et post Punica bella quietus quaerere coepit, quid Sophocles et Thespis et Aeschylos utile ferrent. Temptavit quoque rem si digne vertere posset, et placuit sibi, natura sublimis et acer; nam spirat tragicum satis et feliciter audet, sed turpem putat inscite metuitque lituram, sottolineando come appaiano strette in un sol nodo conquista militare e translatio e come sia esaltata la natura del popolo romano in quella sua rustica e vittoriosa maniera di procedere, che mette al primo posto i doveri più duri e solo dopo averli compiuti («post Punica bella quietus») si apre a un’esperienza di progresso spirituale pur sempre posta sotto il segno dell’utile, com’è del resto da aspettarsi da chi l’affronta con la stessa serietà 40 ENRICO FENZI e determinazione con le quali ha affrontato la guerra. Ma di questa capacità di «osare per vincere» è buon testimone anche Cicerone, Tusc. IV 1: «Cum multis locis nostrorum hominum ingenia virtutesque, Brute, soleo mirari, tum maxime in iis studiis, quae sero admodum expetita hanc civitatem e Graecia transtulerunt». Il quale Cicerone non solo esalta il «genio» romano nell’appropriarsi della cultura greca, ma anche l’esigenza di conservare e incrementare il patrimonio culturale: «Hoc autem loco consideranti mihi studia doctrinae multa sane occurrunt, cur ea quoque arcessita aliunde neque solum expetita, sed etiam conservata et culta videantur» (ibid. 2), e dunque il buon diritto di una appropriazione che salva e incrementa quanto, dall’altra parte, stava andando in rovina. I greci, infatti, non avevano saputo conservare non solo il loro sapere, ma neppure quello che a loro volta avevano ereditato da altri: «nati in litteris, ardentes iis studiis, otio vero diffluentes, non modo nihil adquisierint, sed ne relictum quidem et traditum et suum conservarunt» (De orat. III 131), sì che quello dei romani nell’impadronirsi della loro «filosofia» non è solo un diritto, ma un dovere: «hortor omnis qui facere id possunt, ut huius quoque generis laudem iam languenti Graeciae eripiant et transferant in hanc urbem» (Tusc. II 5). Come si vede, i greci sconfitti si avviano a produrre già presso lo stesso Cicerone (vedi almeno De orat. I 47 e 221, ma poi soprattutto Giovenale), la caricaturale figura dei graeculi, cioè quei verbosi e petulanti chiacchieroni che insieme alla libertà hanno visto crollare anche una «parola» che ha perduto ogni rapporto con la realtà e ne è dunque riuscita ipertrofica e irresponsabile34: quei graeculi, aggiungo, che rimarranno a lungo tali, almeno sino a Petrarca, e che finiranno per far stingere le loro caratteristiche su un’altra categoria di illustri sconfitti, gli italiani. Per contro, l’apparente grossolanità romana ha saputo distinguere l’esercizio della forza da quello del potere, ed ha fatto dell’espansione imperiale un vettore di appropriazione ed incremento di saperi fondato sull’apertura universalizzante di quella medesima virtus che 34. Si veda al proposito Francisco Socas, «Graeculus esuriens: la actitud de Juvenal ante los griegos», in Graecia capta. De la conquista de Grecia a la helenización de Roma, a cura di Emma Falque & Fernando Gascó, Huelva: Universidad de Huelva, 1995, pagg. 149170, che pone giustamente l’accento sulla Sat. XI, e, in essa, sull’esaltazione di una rozzezza romana (nella presa di Corinto gli ignoranti soldati romani fusero splendide statue di bronzo per farne strumenti di guerra) in verità caricata, come del resto in Orazio, di valori positivi: «La rudeza romana es un defecto, pero si bien se mira es un valor sólido. El arte es siempre un reblandecimiento y un artificio que equivale a engaño. El valor convencional y excesivo de una rebuscada pieza de orfebrería se transforma en el valor auténtico e instrumental de una lanza o una espada. El objeto de arte es un objeto falaz y moralmente nocivo. Pero la mentira reside ante todo en la palabra...», ecc. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 41 ha assicurato la vittoria (ed è stupefacente vedere –altra irresistibile anticipazione– con quanta forza tornino questi stessi motivi nel ‘500 francese, combinando l’esaltazione del vecchio incorrotto bon naturel nazionale con quella della translatio che sull’onda delle vittorie militari ha restituito alla Francia il suo primato). L’essenza della translatio è qui limpida, e ne è altrettanto limpidamente distinta la specie particolare della translatio studii, e la sua importante funzione nei confronti dell’altra, alla quale sin qui abbiamo prestato esclusiva attenzione: la translatio imperii 35. Ed evidentemente, è solo per averle distinte che le si possono far collaborare e che può prendere forma un discorso nuovo36. Sinteticamente, si può ora precisare meglio che la mera successione degli imperi di per sé non fa storia perché il suo approdo –il regno di Cristo e l’autosufficiente totalità del sapere che esso realizza– in ogni caso la trascende: il che sta a dire che il potere terreno è sempre uguale a se stesso e, come avvertiva Agostino, in esso non c’è né progresso né salvezza: «Ille igitur unus verus Deus, qui nec iudicio nec adiutorio deseruit genus humanum, quando voluit et quantum voluit Romanis regnum dedit, qui dedit Assyriis vel etiam Persis [...]» (De civ. Dei V 21)37. Ma se e quando nella translatio del potere si cerca una translatio del sapere e dunque un riconoscibile filo di continuità e di arricchimento propriamente umani, le cesure imposte dal ferreo meccanismo della ripetizione dell’identico sono superate, e le vicende stesse del potere ne sono riscattate alla luce della difficile e nascosta ma intrinseca moralità che le anima. Insomma, descrivere le translationes imperii nei termini di una sequela di prepotenze e catastrofi non basta a fondare una storia: semmai, cristianamente, la esclude. Ma rintracciare entro di esse le vie della translatio studii la fonda, perché ne fa un percorso di civiltà38. Così, è vero che andranno 35. Vedi, per la translatio sapientiae, le indicazioni di W. Goez, Translatio Imperii, pagg. 117 ss. 36. Dice bene M. J. Hidalgo de la Vega, «Algunas reflexiones», pag. 283: «los romanos se habían helenizado y este proceso fue redefiniendo su propia identidad como conquistadores». 37. Significativamente J. Fontaine commenta: «La relativité spatiale et temporelle de l’Empire romain se trouve ainsi appuyée sur l’antique théorie des «quatre Empires» remontant au chapitre 7 du Livre de Daniel» (De l’universalisme antique, pag. 38: ma qui si vedano anche le considerazioni che seguono). 38. È di Seneca, Nat. quaest. VII 30, 5, questa bella riflessione volta al futuro: «Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet; multa saeculis tunc futuris, cum memoria nostri exoleverit, reservantur». Per il «senso della storia» quale carattere fondante e specifico della romanità, vedi le pagine di George Dumezil, Naissance de Rome, Paris: Gallimard, 1944, pagg. 182 ss. e pagg. 208 ss.; id., L’héritage indo-européen à Rome, Paris: Gallimard, 1949, pagg. 170 ss. 42 ENRICO FENZI probabilmente sfumate e modificate caso per caso, ma le parole che Raydellet ha scritto a proposito di Isidoro e che definiscono la visione della storia che sarà propria di un’età «passionale e antistorica» come quella cristiano-barbarica conservano un’indubbia portata generale nel definire lo schema profondo dell’approccio cristiano nei confronti degli imperi terreni: «Isidore n’a, à aucun degrè, le sens d’une évolution créatrice de l’histoire. Ou plus exactement, il y a chez lui deux plans: l’un est celui de la Révelation qui se déroule progressivement selon les six âges repris d’Augustin, l’autre, celui des vicissitudes des empires qui se succèdent les uns aux autres, sans que, de l’un à l’autre, progrès puisse être marqué: Regnum universae nationes suis quaeque temporibus habuerunt, ut Assyri, Medi, Persae, Aegyptii, Graeci, quorum vices sors temporum ita volutavit ut alterum ab altero solveretur. Tout, dans ce texte, juqu’au choix des expressions, révèle le scepticisme en présence de ces bouleversement: à se fier à ce seul jugement l’établissement de la monarchie wisigothique en Espagne ne saurait être que l’oeuvre d’un hasard capricieux»39. Per contro, non è invece un paradosso il fatto che le premesse e i contenuti di una storia terrena distinta da quella divina siano maturate entro un impero come quello romano che si concepiva ed era percepito come tale per la sua natura essenzialmente inglobante tanto del potere che del sapere –l’impero era la sua stessa forza inglobante– e che dunque configurava in sé, nel suo destino, la «fine della storia». Perché si tratta, appunto, della storia terrena che solo l’immanenza di una «fine della storia» altrettanto terrena può rendere, a cose fatte, riconoscibile (così come per Marx, vien voglia di dire, è lo scheletro dell’uomo che spiega, a ritroso, quello della scimmia). E del resto, solo la pervasiva grandiosità di un progetto universale che apparve sostanzialmente realizzato (specie quando, nel 212, la Costituzione antonina diede la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero)40 poteva affrontare alla pari l’altro progetto, quello cristiano, e insieme 39. M. Reydellet, «La conception du souverain», pag. 464, e soprattutto «La signification du livre IX des Etymologies», pagg. 345-346, ove il passo, da Eth. IX 3, 2 è ampiamente analizzato. Dello stesso studioso, rimando poi al grosso volume La royauté dans la littérature latine de Sidoine Apollinaire à Isidore de Séville, Roma: École française de Rome (BEFAR num. 243), 1981, passim. Le parole sull’età «passionale e antistorica» sono derivate da un importante saggio di Santo Mazzarino, «L’ ‘era costantiniana’ e la ‘prospettiva storica’ di Gregorio Magno», in Passaggio dal mondo antico al medio evo da Teodosio a san Gregorio Magno (Roma, 25-28 maggio 1977), Roma: Accademia Nazionale dei Lincei (Atti [...] 45) (1980), pagg. 10-28: § 6, pagg. 21-24. 40. Discute del decreto e porta una aggiornata bibliografia il saggio recentissimo di Ralph W. Mathisen, «‘Peregrini’, ‘Barbari’, and ‘Cives Romani’: Concepts of Citizenship and the Legal Identity of Barbarians in the Later Roman Empire», The American Historical Review, «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 43 drammaticamente distinguersi e scontrarsi e anche mescolarsi con esso in forme e modi del tutto espliciti, almeno sino alle straordinarie formulazioni dantesche del Monarchia che faranno perno sulla reciproca, intima necessità di quei duo ultima (poche espressioni sono state così pregnanti!) per dare un senso alla vita dell’uomo. Naturalmente, l’idea di progresso non è patrimonio esclusivo di Roma, perché è senz’altro vero che «Epicureanism, Skepticism, and Stoicism, the three dominant philosophical schools, all embraced progressivism in some form or other», come ha scritto Edelstein concludendo il suo classico libro, orientato in prevalenza verso il mondo greco41. Ma è altrettanto vero che è tutta romana l’idea pervasiva di una humanitas quale patrimonio vivente di civiltà e cultura che si espande nel tempo e nello spazio, così come lo è la convinzione, né potrebbe essere altrimenti, che proprio la potenza di Roma, prima repubblicana e poi imperiale, fosse insieme fondamento e funzione di una tale espansione. Anche questo è un argomento troppo grande e troppo battuto, e qui posso solo sfiorarlo al riparo di guide eccellenti, com’è un’altra ricerca, davvero monumentale, alla quale rimando: i due volumi di Antoinette Novara sulla nozione latina di progresso42. E torno invece a Cicerone, e in particolare a una citazione dalla Pro Flacco, 26, 62, 111, 4 (2006), pagg. 1011-1040 (1014-1015). Ad esso rimando dispiacendomi di non poterne raccogliere, per ragioni di spazio, tutti gli spunti che, tra altre cose, convergono e danno spessore storico a una conclusione attualizzante che, isolata dal contesto, rischia di sembrare –e non è per nulla– futile: «Since the fall of the western Roman Empire, no nation has been so grand that it could claim to encompass the whole world or attempt to create a form of universal citizenship that was open to all comers. But now, at the beginning of the twentyfirst century, there is again much discussion of the different forms that universal citizenship could take. In spite of, or perhaps because of, the chronological gap between the ancient and modern phenomena of world citizenship, it may be that the Roman model for dealing with issues of ethnicity, identity, and religion in the context of legal definition of citizenship has much to teach us. In particular, the time may have come once again for a form of citizenship unburdened by the baggage of nationalism or political allegiances». 41. Ludwig Edelstein, The Idea of Progress in Classical Antiquity, Baltimore Mar.: The Johns Hopkins Press, 1967, pagg. 178-179: ma vedi qui pagg. 168 ss. per Cicerone e soprattutto per Seneca (la morte ha impedito all’autore di andare oltre). 42. Antoinette Novara, Les idées romaines sur le progrès d’après les écrivains de la République (essai sur le sens latin du progrès), Paris: Les Belles Lettres, 1982. Sono molte le parti che si dovrebbero citare, ma l’abbondanza stessa dei materiali mi rende difficile farlo: in ogni caso, raccomando, per il suo valore fondante, la seconda parte, essenzialmente dedicata a Cicerone e al concetto di humanitas, I, pagg. 163 ss. Tornando per un attimo al tema propriamente politico dell’imperialismo romano, ho trovato utile il denso saggio di Kurt A. Raaflaub, «Born to be Wolves? Origins of Roman Imperialism», in Transition to Empire. Essays in Greco-Roman History 360-146 b. C. in Honor of E. Badian, edited by Robert W. Wallace & Edward M. Harris, Norman & London: University of Oklahoma Press, 1996, pagg. 273-314. 44 ENRICO FENZI là dove Cicerone indica ai giudici i membri della legazione ateniese giunti a Roma per testimoniare a favore del suo difeso: «Adsunt Athenienses unde humanitas, doctrina, religio, fruges, iura, leges ortae atque in omnis terras distributae putantur». Prima di tutto qui parla l’avvocato, è indubbio. Ma ciò non toglie la sostanziale verità dell’omaggio, né l’evidente sottinteso con il quale i giudici sono invitati a riconoscere, attraverso la presenza degli ateniesi, ciò che essi stessi ora sono: i rappresentanti di una humanitas romana ch’è perfettamente in grado di ricostruire la propria storia e che è chiamata ad agire perché ha assunto su di sé e moltiplicato quella originale forza distributrice. Il motivo profondo, insomma, è quello di una sorta di partita doppia, o di una translatio di ritorno, dai vincitori verso i vinti. E ciò definisce precisamente la dimensione storica entro la quale tale translatio sviluppa la propria dinamica: prima come capacità di appropriazione garantita dalla forza della conquista, e poi come capacità tendenzialmente illimitata di moltiplicazione e distribuzione garantita dall’esercizio del potere. Un tale schema operativo –che tale in effetti è– si è consolidato per secoli attraverso l’immagine emblematica di quella che è stata e ancora è la madre di tutte le translationes imperii et studii, il loro inimitabile archetipo: ripeto, la translatio da Atene e Roma, ch’è diventata prima che un tenace, frequentatissimo topos culturale, un vero e proprio varco epocale. Ho detto: imperii et studii, ma l’ordine andrebbe mutato perché, nel caso, è il sapere che fa aggio sul potere, è l’humanitas colta nel suo divenire che soppianta la bestiale successione biblica dei regni. E, occorre dirlo sùbito, davanti alla potenza di un siffatto modello la tradizione cristiana non ha potuto opporre che una mezza soluzione, fatta insieme di accettazione e di rifiuto: una translatio di quella natura e qualità non le appartiene né, geneticamente, può appartenerle. I piani sono troppo diversi, e la questione è semmai diventata sin da principio quella delle condizioni di un possibile rapporto, di una modalità. Leggiamo un passo di Tertulliano (Tertulliano certo non tenero con il pensiero pagano, ché sua è l’icastica definizione: «haereticorum patriarchae, philosophi»: Contra Herm. 8, 3, PL 2, col. 204), De anima 30, 3: Certe quidem ipse orbis in promptu est cultior de die et instructior pristino. Omnia iam pervia, omnia nota, omnia negotiosa, solitudines famosas restro fundi amoenissimi oblitteraverunt, silvas arva domuerunt, feras pecora fugaverunt, harenae seruntur, saxa panguntur, paludes eliquantur, tantae urbes quantae non casae quondam. Iam nec insulae horrent, nec scopuli terrent; ubique domus, ubique populus, ubique respublica, ubique vita. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 45 E ancora di lui, De pallio 2, 7: Sed vanum iam antiquitas, quando curricula nostra coram. Quantum reformavit orbis saeculum istud! Quantum urbium aut produxit aut auxit aut reddidit praesentis imperii triplex virtus! Deo tot Augustis in unum favente, quot census transcripti, quot populi repurgati, quot ordines illustrati, quot barbari exclusi! Revera orbis cultissimum huius imperii rus est, eradicato omni aconito hostilitatis et cacto et rubo subdolae familiaritatis convulso, et amoenus super Alcinoi pometum et Midae rosetum43. Non è questione qui né di saperi né di translationes, ma nondimeno questo è il «luogo» di entrambi: un luogo che per merito del progresso governato dall’impero è più dolce del giardino di Alcinoo e del roseto di Mida. Tertulliano non è il solo, tutt’altro, nell’esprimere questo senso di raggiunta compiutezza, che non può che confermare l’accettazione piena dell’idea tutta romana di progresso. Ma una esaltazione siffatta non può neppure escludere la somma materiale di saperi che una simile situazione trasforma in concreta esperienza di vita, sì che proprio in virtù della forza di quell’idea Tertulliano tende a limare l’espressione dell’assoluta e alternativa verità del cristianesimo, e a definirne la superiorità in termini di compimento, di ultimo traguardo (ciò che distingue il cristiano è anche il perfetto possesso di tutte le qualità civili che l’impero richiede ai cittadini, e poiché la fine dei tempi è vicina, per il mantenimento dell’impero il cristiano deve pregare e operare). In questo quadro di fondo, allora, come comportarsi verso la cultura classica? Rifiutarla è impossibile: altre non ne esistono. La si deve usare, invece, per progredire nella giusta direzione. In pratica, se ne eliminino le parti inaccettabili e si assuma quanto più possibile di quello che resta, secondo una sorta di progetto di politica culturale di lungo respiro che si articola in una scelta strategica. Le lettere pagane vanno imparate ma non insegnate, scartando l’ipotesi rigorista secondo la quale, se non devono essere insegnate, non possono neppure essere apprese: Scimus dici posse: si docere litteras dei servis non licet, etiam nec discere licebit, et, quomodo quis institueretur ad prudentiam interim humanam 43. La triplex virtus ha fatto discutere: tra varie proposte (193: Settimio Severo, Pescennio Nigro, Clodio Albino; 209-211: Settimio Severo, Geta, Caracalla) pare preferibile una terza, riferita ai primi anni di Alessandro Severo, 222-235, onde: Settimio Severo, Giulia Mammea e Giulia Mesa. Vedi Jean-Claude Fredouille, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris: Études Augustiniennes, 1972, pag. 248, nota 63. Debbo anche dire che gran parte di ciò che dico di Tertulliano s’appoggia alle pagine di questo bel libro. 46 ENRICO FENZI vel ad quemcumque sensum vel actum, cum instrumentum sit ad omnem vitam litteratura? Quomodo repudiamus saecularia studia, sine quibus divina non possunt? Il passo, dal De idolatria 10, 4, è famoso, e per lo più ha fatto parlare di una mezza soluzione difficile e in ogni caso equivoca o addirittura insostenibile. Giustamente Fredouille cerca di difenderla, e richiama l’attitudine utilitaristica tutta romana verso il sapere, ma non mi pare che sia questa una via davvero convincente44. Tornerei invece a dire che essa ha senso se la si intende protratta nel tempo, sì da opporre una specie di filtro generazionale che eviti uno scontro diretto e perdente, e però di fatto ottenga di eliminare seppur lentamente le scorie dell’idolatria. Resta comunque che non esistono soluzioni migliori, e che si tratterà in altre parole di promuovere una translatio affatto speciale, che va promossa nel momento stesso in cui viene censurata. Da questo punto di vista si potrebbe dire persino che il suggerimento di Tertulliano aspira a una sorta di concretezza politica: che non ha comunque sèguito, mentre, sul piano dei principi se non nella pratica, si perpetua il compromesso, la mezza misura. Ed è singolare che più o meno duecento anni dopo, quando tutto è cambiato: il bel giardino descritto da Tertulliano non c’è più, la devastazione e la paura avanzano e nel crollo dell’impero proprio i cristiani sono sotto accusa e l’eusebianesimo politico sembra ormai fallito, ebbene, Gerolamo e Agostino non possano, seppur in modi diversi, che riproporre tal quale la sostanza di quel compromesso, nell’aggravato quadro di una radicale presa di distanza dalla «città terrena» che ha la sua più alta espressione nel De civitate Dei45. Il che, diciamo pure, ci fa anche gettare uno sguardo dall’altra 44. J.-C. Fredouille, Tertullien, pagg. 418-422. 45. R. A. Markus, «The Roman Empire in Early Christian Historiography» (1963), in From Augustine to Gregory the Great, num. IV, pag. 347: «Looked at from this point of view, the theme of the work is a radical and sustained rejection of the Eusebian type of view of the Empire». Qui, vedi anche una sintetica analisi dell’impatto provocato nelle coscienze dal sacco di Roma del 410, per la quale si vedano anche le numerose indicazioni contenute in W. H. C. Frend, Orthodoxy, Paganism and Dissent in the Early Christian Centuries, Aldershot: Variorum, 2002, specialmente nei due saggi, rispettivamente del 1994 e del 1982, num. XIII, «Augustine’s Reactions to the Barbarian Invasions of the West, 407-417: Some Comparison with his Western Contemporaries», pagg. 241-255, e num. XV, «Augustine and Orosius: On the End of Ancient World», pagg. 1-38 (num. originale), ove è ben messo in rilievo, nel confronto, il particolare pessimismo storico di Agostino, del quale sono tra l’altro ricordati i Sermones 81, 105 e 296. Sul ruolo centrale del De doctrina christiana nel delineare un progetto di recupero della cultura classica intesa come propedeutica al sapere cristiano mi «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 47 parte, per dir così, e ci induce a raccontare di nuovo la storia di Ataulfo che proprio in quegli anni, 414, sposa la figlia di Teodosio, Galla Placidia, e lentamente ma inesorabilmente subisce il fascino della civiltà e delle leggi romane, e dichiara che il suo è un popolo barbaro e incivile, e che il resto della sua vita egli l’avrebbe dedicato a salvare quanto più possibile di quello stesso impero che non era riuscito a distruggere. La bella storia la racconta Orosio, VII 43, 2-8, ed è singolare quanto essa assomigli, nel suo infrangibile nucleo di verità, a quella che Borges ha ricavato, in un racconto bellissimo, dalla vicenda di Drotculf, il barbaro che assediando Ravenna resta folgorato dalla bellezza classica e ad essa si converte46. Ma si diceva di Gerolamo e Agostino: anch’essi affascinati da quella bellezza, certo, ma anche e prima di tutto testimoni di una città e di una bellezza tutt’affatto diverse. Come rispondono al problema già posto da Tertulliano? Riprendendo entrambi due diverse immagini di Origene: Gerolamo quella della «bella prigioniera», e Agostino quella dell’ «oro degli Egizi». Origene infatti, come ha mostrato Henri de Lubac47, a proposito della legge del Deuteronomio, 21, 10-14, che ordinava di strappare ai nemici la donna bella e desiderabile, di tagliarle i capelli e le unghie, di tenerla per trenta giorni vestita a lutto e poi di sposarla, aveva commentato: «Quaecumque enim bene et rationabiliter dicta invenimus apud inimicos nostros, si quid apud illos sapienter et scienter dictum legimus, oportet nos mundare id et ab scientia, quae apud illos est, auferre et resecare omne quod emortuum et inane est –hoc enim sunt omnes capilli capitis et ungulae mulieris ex inimicorum spoliis adsumptae»48, e Gerolamo riprende più volte l’immagine limito a rinviare alle limpide pagine di Henri Irenée Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris: De Boccard, 1958, in particolare il c. III, La formation de l’intellectuel chrétien, pagg. 387-413. 46. Naturalmente il racconto di Orosio ha fatto a lungo discutere, ma sono d’accordo nel riconoscerne la sostanziale verità, seguendo in ciò François Paschoud, «Le mythe de Rome à la fin de l’Empire et dans les royaumes romano-barbares», in Passaggio dal mondo antico, pagg. 123-138: pagg. 128-130. Il racconto di Borges, Historia del guerrero y de la cautiva, è compreso nella raccolta El Aleph. 47. Henri de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’écriture, Paris: Aubier, 1959, t. I, 1, pagg. 290-304, che per primo passa in rassegna le origini, gli sviluppi e la fortuna delle due immagini. Ma vedi ora l’ampia schedatura di testi di Georges Folliet, «La Spoliatio Aegyptiorum (Exode 3, 21-23; 11, 2-3; 12, 35-36). Les interprétations de cette image chez les pères et autres écrivains ecclésiastiques», Traditio, 57, 2002, pagg. 1-48, che conferma la frequente associazione delle due immagini e la prevalenza dell’interpretazione di tipo origeniano, ma rileva anche l’esistenza di altre varianti. 48. Origène, Homélies sur le Lévitique, texte latin, introduction, traduction et notes par Marcel Borret S. J., Paris: Cerf, 1981, t. I, VII 6, pagg. 347-349. 48 ENRICO FENZI di questa censoria translatio applicandola al pericoloso fascino delle lettere classiche, da sequestrare e da usare, appunto, con cautela espurgatoria49. L’altra immagine, che Agostino riprende da una lettera di Origene soprattutto nel De doctrina christiana, II 40, 60-61 (ma vedi anche Conf. VII 9, 15) si rifà alle ricchezze rapite dagli Ebrei agli Egiziani al momento della loro partenza (Ex. 12, 35 ss.), ed è un’immagine più semplice e più forte, e si presenta con l’aspetto di un vero e proprio ordine: è per volontà di Dio che ai pagani deve essere sottratto il patrimonio del loro sapere, perché sia messo al servizio della verità50. Siamo a un altro snodo. Nell’un caso e nell’altro, come si vede, abbiamo a che fare con «prede», o «spoglie» sottratte più o meno violentemente al 49. Vedi Epist. 70, 11, a Flavio Magno: «Legerat in Deuteronomio Domini voce praeceptum mulieris captivae radendum caput, supercilia, omnes pilos et ungues corporis amputandos, et sic eam habendam in coniugio. Quid ergo mirum, si et ego sapientiam saecularem propter eloquii venustatem et membrorum pulchritudinem, de ancilla atque captiva Israhelitin facere cupio? Et si quidquid in ea mortuum est, idolatriae, voluptatis, erroris, libidinum, vel praecido vel rado et mixtus purissimo corpori vernaculos ex ea genero Domino Sabaoth? Labor meus in familiam Christi proficit»; Epist. 66, 8, a Pammachio: «Christum facimus sapientiam. Hic thesaurus in agro Scripturarum nascitur, haec gemma multis emitur margaritis. Sin autem adamaveris captivam mulierem […] et ejus pulchritudine captus fueris, decalva eam», ecc.; Epist. 21, 13, a papa Damaso: «Huius sapientiae typus et in Deuteronomio sub mulieris captivae figura describitur, de qua divina vox praecipit ut, si Israhelites eam habere voluerit uxorem, calvitium ei faciat, ungues praesecet, pilos auferat et, cum munda fuerit effecta, tunc transeat in victoris amplexus». 50. Vedi anche H. I. Marrou, Saint Augustin, pagg. 393-394. Il passo di Origene è in una lettera a Gregorio (forse il Taumaturgo, vescovo di Cappadocia), che è giunta a noi perché compresa nella Philocalia origeniana di Gregorio di Nazianzo (per maggiori notizie, vedi Origène, Philocalie 1-20. Sur les écritures et la lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne, introduction, texte, traduction et notes par Marguerite Harl, Paris: Cerf, 1983, nota pagg. 399404). Vedi per il testo greco Henri Crouzel, Grégoire le Thaumaturge. Remerciement à Origène. Lettre d’Origène à Grégoire, Paris: Cerf, 1969, introduzione pagg. 79-92; testo e traduzione pagg. 185-195. Vedi anche Pierre Naudin, Origène. Sa vie et son oeuvre, Paris: Beauchesne, 1977, pagg. 155-161, ove la lettera è tradotta e annotata. Nella lettera, indirizzata a Gregorio che per studio deve andare ad Alessandria, Origène ricorda la vicenda biblica di Ader l’Idumeo (3 Reg. 11, 14-22) che, recatosi in Egitto fece carriera e sposò la sorella della moglie del Faraone, e quando tornò in Israele era un perfetto idolatra: «Et cependant la divine Écriture sait que pour certains ce fut un malheur de descendre du pays des fils d’Israël en Égypte, en donnant à entendre que c’est un malheur pour certains de séjourner chez les Égyptiens, c’est-à-dire dans les sciences de ce monde, après avoir été élevé dans la loi de Dieu» (P. Naudin, Origène, pag. 159). Agostino riprende ampiamente l’immagine dell’ «oro degli Egizi» nel De doctrina christiana II 40, 60-61, e a questa sua ripresa esplicitamente rimanda nel Contra Faustum man. XXII 91 (ma vedi anche ibid., 71). Un cenno appena è anche in Conf. VII 9, 15 (ma vedi ancora De div. quaest. LIII 2, 92; En. in Psalmos CIV 28, 1; Serm. VIII 14, 322-323, ecc.). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 49 nemico, e questo tratto che, in altro contesto, durerà a lungo, sino a tutto il ‘500, quando specialmente caratterizzerà la versione francese della translatio, induce a sottolineare un aspetto nuovo che la translatio ha finito per assumere in questa età difficile: essa non è più reversibile e generalizzabile, com’era nel disegno ideale dell’humanitas proprio dell’universalismo romano, e davvero si oggettiva in un bottino, cioè in qualcosa ch’è semplicemente sottratto e trasferito altrove e impiegato ad altri usi. E seppur in maniera tendenziale una translatio siffatta in qualche modo cessa d’essere tale e appare attratta, piuttosto, nell’orbita di quella stessa visione che riferiva le successioni dei regni a un piano metastorico. In questo senso, «bella prigioniera» oppure «oro» che sia, direi che ci si trovi dinanzi a un irrisolto stato di necessità che dai tempi di Tertulliano si è fatto più duro, e dunque a un blocco. Poco meno di altri duecento anni dopo, infatti, è evidente come il blocco permanga e si sia fatto sempre più rigido, ed abbia finito per soffocare l’esigenza alla quale da Tertulliano a Gerolamo e Agostino si era cercato di dar voce. Penso naturalmente al «barbaro» Gregorio Magno, all’odiatore dell’antichità, al nemico della grammatica: accuse tutte dalle quali Henri de Lubac e poi Riché intelligentemente lo sollevano, almeno nei termini di invecchiati atteggiamenti polemici51. Ma non è questo il punto. Anche Gregorio, come gli altri prima di lui, dovendo affrontare –e rifiutando– una implicita translatio, ha scritto qualcosa su cui i lettori si sono a lungo impuntati. Il passo, ricavato dalla lettera di dedica a Leandro di Siviglia dei suoi Moralia in Job, è famoso: Quaeso autem, ut huius operis dicta percurrens in his verborum folia non requiras, qui per sacra eloquia ab eorum tractatoribus infructuosae loquacitatis levitas studiose compescitur [...] Unde et ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae terror enuntiat, non metacismi collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs modosque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati52. 51. H. De Lubac, Exégèse médiévale, t. II 1, pagg. 53-98; Pierre Riché, Éducation et culture dans l’Occident barbare, VIe-VIIIe siècle, Paris: Seuil, 1995 (quarta ed. rivista e corretta), pagg. 123 ss. Vedi anche, un po’ meno convincente perché troppo interno alla logica di Gregorio Magno, Claude Dagens, Saint Grégoire le Grand. Culture et expérience chrétiennes, Paris: Études Augustiniennes, 1977, pagg. 31-34. Tra i tanti accusatori di Gregorio, vedi, particolarmente duro, Ferdinand Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Âge (1927), Paris: Albin Michel, 1968, pag. 331. 52. La si legge in Morales sur Job, a cura di Gillet-Gaudemaris, Paris: Cerf, 1989, pagg. 114-134: pag. 132. Christine Mohrmann, «Le problème de la continuité de la langue 50 ENRICO FENZI Queste parole, che arrivano alla fine di una lettera per altro assai bella, certo non mostrano amore per la cultura classica, ma di per sé non possono tuttavia dimostrare odio, come è stato detto, ma semmai una forte polemica verso forme di idolatria formale che riprende una linea ben presente nella tradizione cristiana: si trattebbe insomma di una estremizzazione efficace e provocatoria, che pone sul tappeto altre questioni. Fa pensare semmai un’altra lettera che, questo sì, non può non condizionare almeno un poco l’interpretazione della precedente. Si tratta del severo rimprovero mosso al vescovo di Vienne, Didier, al quale Gregorio scrive allarmato: Pervenit ad nos, quod sine verecundia memorare non possumus, fraternitatem tuam grammaticam quibusdam exponere. Quam rem ita moleste suscepimus ac sumus vehementer aspernati, ut ea quae dicta fuerant in gemitum et tristitiam verteremus, quia in uno se ore cum Iovis laudibus Christi laudes non capiunt. Et quam grave nefandumque sit episcopis canere quod nec laico religioso conveniat, ipse considera [...] Unde si post hoc evidenter haec quae ad nos perlata sunt falsa esse claruerint neque vos nugis et saecularibus litteris studere constiterit, et Deo nostro gratia agimus, qui cor vestrum maculari blasfemis nefandorum laudibus non permisit53. littéraire», in Il passaggio dall’antichità al medioevo in occidente (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, IX), Spoleto: presso la Sede del Centro, 1962, pagg. 329-349: pagg. 339-342, la inquadra entro l’esigenza di un rinnovamento linguistico in senso antiletterario e le affianca opportunamente una analoga citazione di Gregorio di Tours, nella Praefatio al suo Liber de gloria confessorum (PL 71, coll. 827-830). Anche per Pierre Riché le frasi di Gregorio sono in linea con la tradizione, come mostra un passo singolarmente simile di Cassiodoro, Inst. I 15, 7: vedi Éducation et culture, pagg. 128-129, e pagg. 463-464. 53. Gregorii I Registr. Epist. 11, 34, a cura di Ewald-Hartmann, MGH Epist. 1890, II, pag. 303. La Mohrmann nel saggio citato nella nota precedente riporta il rimprovero al fatto che ai vescovi era esplicitamente proibito insegnare, ma che Didier era evidentemente obbligato a farlo, considerate le penose condizioni di ignoranza dei suoi preti. Così pure argomenta con ampiezza Riché, che attraverso altre citazioni ribadisce la posizione perfettamente ortodossa e assolutamente normale di Gregorio. Ma il problema, direi, è proprio questo, e nonostante le belle e importanti pagine che lo studioso dedica a Gregorio, arrivando a una valutazione equilibrata della sua cultura e dei suoi atteggiamenti, qualche perplessità resta, soprattutto verso quella che potremmo chiamare la sua «politica culturale»: questa infatti è in discussione, non la sua cultura personale. Scrive Riché, Éducation et culture, pag. 76: «A la fin du Ve et au VIe siècle, par suite du déclin des études, on ne retient que les défauts de la culture classique. L’humanisme qu’elle contenait est caché par les complications de la forme et le paganisme de la pensée. Une telle formation intellectuelle paraît mettre en danger la foi chrétienne, et empêcher les moins instruits d’avoir accès au message évangelique». Si imprima su queste stesse parole, senza cambiarne una virgola, un minimo spostamento «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 51 Che Gregorio abbia le sue buone ragioni e che, tutto considerato, non faccia altro che ribadire doverosamente la necessità di una serie di obblighi e cautele sui quali esisteva un larghissimo accordo, non toglie che quanto egli afferma abbia un importante significato, quanto meno sintomatico in un’epoca di devastante ignoranza che, per le concordi diagnosi degli storici, ha visto ogni forma di cultura e di semplice alfabetizzazione raggiungere il suo punto più basso. Che per lui papa, attorno al 600, la grammatica brutalmente equivalga alle laudes Iovis, e che un vescovo nel dilagare dell’analfabetismo tra gli stessi appartenenti al clero debba ignorare o mostrare di ignorare o evitare di partecipare ad altri i fondamenti del suo linguaggio, della sua cultura e infine di quel tanto o poco di concreta civiltà sulla quale pur sempre appoggia il suo mondo, ebbene, ciò sta quanto meno a significare che quel blocco non si è affatto sciolto, al contrario. Bene o male, la grammatica Didier la sa e deve saperla, così come deve sapere qualcosa della letteratura «secolare»: solo, non può insegnarla. Di là dai pretesti formali, la lacerazione è più che mai aperta, a dispetto di tutta l’intelligenza e gli sforzi spesi nei secoli precedenti per definire una possibile via mediana54. E ciò spicca e turba ancor più, quasi una smisurata schizofrenia, in un papa del quale è stato detto: «His political imagery saw the Empire as grounded in the hierarchical order of the world, an integral part of the cosmic hierarchy. This is the old image of a world dominated by Rome, whose universal Empire was part of the fixes order of things»55. Si ammetterà che tra l’ordine cosmico e la guerra alla grammatica c’è il gran salto di una translatio mancata e di una humanitas smarrita: forse la translatio non del punto di vista, un poco di «straniamento», e il panorama ch’esse tracciano diventa subito agghiacciante, e in rapporto ad esso Gregorio sembra più sensibile ai rischi del saper leggere e scrivere che a quelli dell’analfabetismo. Ma poi: di Virgilio, per esempio, si vedrebbero solo i difetti? Che vuol dire? Di solito si trova ciò di cui si va in cerca, e certo appaiono lontani i tempi in cui, che so? Minucio Felice si entusiasmava, da cristiano, per quanto trovava sullo stato delle anime nel discorso di Anchise, nel VI dell’Eneide, e persino Lattanzio, con alcuni opportuni distinguo, subiva il fascino di quei versi e li elogiava. 54. Di nuovo, assai più sfumata è la posizione di Isidoro, pure ufficialmente in linea con Gregorio Magno: al proposito non si può che rimandare alla grande opera di Jacques Fontaine, Isidore de Séville et la culture classique dans l’Espagne wisigothique, Paris: Études Augustiniennes, 1983 (seconda ed. rivista e corretta), passim. Ma vedi in particolare il cap. VI, Bilan de la rhétorique isidorienne, I, pagg. 322-337, ove si indica senza mezze misure il decisivo patronato di Cicerone e Quintiliano, e si parla, rispetto ai rigorismi altrui, di ambiguïté e timidité di Isidoro. 55. R. A. Markus, «Gregory the Great’s Europe», pag. 23. Ma vedi pure S. Mazzarino, «L’era constantiniana», passim, che in sintonia con Markus e altri, accenna ai caratteri «orientali» della visione di Gregorio Magno, e ne indica la prospettiva tutta ecclesiastica e sacrale. 52 ENRICO FENZI era mai stata davvero tra le opzioni possibili, certamente non è avvenuta ed anzi, proprio in quanto tale, e cioè nei termini archetipici e modellizzanti riassunti nei poli di Atene e Roma, è stata stravolta e avversata56. Che nella pratica si possano portare vari esempi che mostrerebbero il contrario, e cioè un inevitabile flusso di saperi e di modi e tecniche specificamente letterarie dalla cultura classica e pagana alla cristiana, non modifica di una virgola le cose: del resto, anche la successione dei regni tra Assiri e Medi e Persiani e Greci e Romani ha comportato una storia reale che esorbita e resta essenzialmente estranea e indifferente alla visione trascendente che ne dà Daniele e l’esegesi cristiana, ma ciò non intacca il senso e il valore profondi di un’altra storia di cui quella visione non può rinunciare a dare testimonianza. Ciò che in ogni caso importa, a questo punto, è che questa dura, difficile e differita translatio quanto più appare lontana tanto più incombe, e si trasforma nel nodo che l’Occidente deve assolutamente sciogliere in modo positivo: ma può cominciare a farlo solo quando sembrerà che si possa sciogliere insieme anche l’altro, il nodo gemello, quello del potere, che per ora ha ancora un solo nome: l’impero. E infatti il punto di svolta oltre il quale gli uomini del medioevo potranno finalmente rivendicare qualcosa che ai loro occhi assomiglia alla translatio da Atene e Roma e che, per quanto da lontano, annuncia la coscienza di un’età nuova, è costituito dall’impero carolingio. È da lì, infatti, che di translatio si può cominciare a parlare. 56. Il discorso è in verità complesso, ma, scusandomi per ritagliarne solo alcune affermazioni, evidentemente mi riconosco in quanto scrive Claudio Leonardi, quando sottolinea come tra mondo gentile e mondo cristiano esista frattura e divergenza; ridimensiona la portata di un supposto «umanesimo» di Agostino, e per contro dichiara l’umanesimo scomparso dall’Occidente: «Non è possibile parlare di umanesimo quando la cultura, dalle arti alla filosofia, è concepita come uno strumento alla comprensione teologica; o quando si pensa la teologia (e la Chiesa) come diverse dalla cultura (e dalla storia). Nella storia post-origeniana non si dà dunque propriamente umanesimo. Quando un fenomeno umanistico sembra comparire nel Medioevo, esso appare come un fenomeno contestatore e minoritario, se non come un fatto criptico o mistificato. Quando poi compare l’umanesimo che ha il suo centro nel secolo XV, l’egemonia cristiana è finita, ma non a caso la Chiesa si porrà presto contro la tradizione umanistica, incapace di staccarsi da quanto aveva costruito nel Medioevo e di intendere nuove e diverse esigenze». Cito da C. Leonardi, «Alcuino e la scuola palatina: le ambizioni di una cultura unitaria», in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XXVII), Spoleto: presso la Sede dell’Istituto, 1981, pagg. 459-496 (470-471) (ora il saggio è compreso in Medioevo latino, pagg. 191-217). Come si vedrà poco avanti, direi invece qualcosa di leggermente diverso, o quanto meno di più sfumato, rispetto ad Alcuino. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 3. CARLO MAGNO E 53 ALCUINO Andiamo sùbito al punto. Etienne Gilson, in un saggio del 1930: Humanisme médiéval et Renaissance57, ha individuato tanto il tema della translatio, quanto il momento in cui esso si pone in termini compiuti e coscienti: Le moyen âge [...] il a accepté et revendiqué comme un honneur le rôle de transmetteur d’une civilisation qui lui était dévolu. Dès le temps de Charles le Chauve, et grâce à la présence de Jean Scot Erigène, ce qu’Alcuin n’avait encore consideré que comme un rêve, apparait aux contemporains comme une réalité; l’Athènes du Christ existe, elle est en France, son fondateur n’est autre que le maître d’York et de SaintMartin de Tours. Pour constater la réalité et la vivacité de ce sentiment, il faut suivre l’histoire d’un thème littéraire trop négligé, le De translatione studii. Dès le temps de Charles le Chauve, dunque a partire dalla seconda metà del IX secolo, non prima: i secoli precedenti sono tagliati via, con un giudizio che lascia molte cose in sospeso, dato che in ogni caso Gilson non si spinge più indietro del «sogno» di Alcuino. E la cosa va osservata, soprattutto se si accettano, come credo si debba fare, le parole di uno studioso come Santo Mazzarino, per il quale già da molto prima il «problema della fine del mondo antico» era diventato «un problema di translatio»58, quella translatio che la Chiesa, appunto, non volle, o gravò di troppe ipoteche. Gilson muove in ogni caso dall’epoca di Carlo il Calvo perché ad essa risale la più antica testimonianza ch’egli avesse trovato dell’emersione del tema, quella contenuta nei Gesta Karoli del Monaco di san Gallo, Notker le Bègue (885 circa), ed è infatti al regno di Carlo Magno che occorre retrocedere per trovarvi le radici della translatio e della renovatio insieme (il che sta a dire, di nuovo, la cosciente novità della cosa)59. Prima di farlo, vorrei però 57. Il saggio è ora compreso nel volume dello stesso Gilson, Les idées et les lettres, Paris: Vrin, 1955 (prima ed., 1932), pagg. 171-196 (183-185). Da queste pagine prende le mosse Édouard Jeauneau, Translatio studii. The Transmission of Learning. A Gilsonian Theme, Toronto: Pontifical Institute of Mediaeval Studies, 1995, dedicando al tema lo studio sin qui più ampio e ricco di riferimenti, al quale rimando per puntuali integrazioni. 58. Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano: Garzanti, 1959, pag. 72 (è appena il caso di sottolineare che si tratta di una delle cose più belle e intense che sull’argomento siano state scritte). 59. L’aver riportato a Carlo Magno le radici della translatio costituisce l’apporto più importante del saggio di A. G. Jongkees, Translatio Studii, citato all’inizio, nota 2. 54 ENRICO FENZI restare un attimo sui Gesta Karoli e citare non solo le parole, per altro davvero significative, alle quali Gilson si rifà: divenuto abate di san Martino in Tours, Alcuino lo trasforma in un centro di cultura, «cujus in tantum doctrina fructificavit, ut moderni Galli sive Franci antiquis Romanis et Atheniensibus aequarentur»60, ma proprio le parole con le quali la cronaca comincia, a mio avviso essenziali: Omnipotens rerum dispositor ordinatorque regnorum et temporum, cum illius admirandae statuae pedes ferreos vel testaceos comminuisset in Romanis, alterius non minus admirabilis statuae caput aureum per illustrem Karolum erexit in Francis. Qui cum in occiduis mundi partibus solus regnare coepisset, et studia litterarum ubique propemodum essent in oblivione, ideoque verae deitatis cultura teperet, contigit duos Scottos de Hibernia cum mercatoribus Brittannis ad litus Galliae devenire, viros et in saecularibus et in sacris scripturis incomparabiliter eruditos. A parte alcune ingenuità61, queste frasi sono dense di significato. Il ritorno della profezia di Daniele –il sogno della statua– e dell’interpretazione di Gerolamo sta a dire che la successione dei regni, dopo il crollo dell’impero Romano, ha ripreso il suo corso: addirittura, con Carlo Magno il cammino riprende dal punto più alto, dal caput aureum. In secondo luogo, proprio perché siamo dinanzi a un salto epocale e un nuovo regno s’inaugura, è finalmente possibile porre il tema della translatio, fino a quel 60. Monachi Sangallensis Gesta Karoli lib. I, edited by Pertz, MGH SS, II pag. 731 (così pure la citazione che segue). Commenta E. Gilson, Les idées, pag. 183: «Le fait est d’autant plus intéressant, que ce chroniqueur vivait hors de France et que son témoignage exprime par conséquent une opinion déjà largement répandue […] Nous avons ici l’amorce di thème de translatione studii. Puisque Athènes s’est transportée en France depuis la venue d’Alcuin, c’est donc que la science grecque, transmise jadis par la Grèce à Rome, a désormais été transmise par Rome à la France. À mesure que l’importance de Paris augmente, c’est naturellement Paris qui prend la place d’Athènes, mais on ne doute pas du résultat produit par l’enseignement d’Alcuin et nul ne se trompe sur sa portée veritable» (questa di Parigi è per la verità un’anticipazione). Ma del tutto corretto è il commento più recente di Olaf Pedersen, The First Universities. «Studium Generale» and the Origins of University Education in Europe, Cambridge: Cambridge University Press, 1997, pag. 77: «Even if this pronouncement presupposed a serious ignorance of ancient culture, it gives a correct impression of the dream of its rebirth in the Carolingian age» (vedi anche avanti, nota 68). 61. Alcuino incontrò per la prima volta Carlo a Parma, nel 781, e l’anno seguente accettò l’invito a trasferirsi in Francia. Circa i dotti che fecero capo alla corte carolingia, molto si ricava dai densi inquadramenti di C. Leonardi ora compresi nel suo Medioevo latino, in part. «L’irlandese Dungal e l’iconoclasta Claudio» (1982), pagg. 275-288; «L’enciclopedia di Rabano» (1994), pagg. 289-306; «La scuola carolingia e Remigio d’Auxerre» (1975), pagg. 307-320. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 55 momento inconcepibile perché l’epoca precedente, nella quale gli studi sono stati dimenticati, non è altro che la lunga appendice di quel crollo: è quel crollo. Translatio imperii e translatio studii, insomma, sono, nel segno della novità, una cosa sola: e di colpo le contorte perplessità e ostilità del pensiero cristiano dei secoli precedenti, che forse con qualche ingenerosità, possiamo riassumere nel nome di Gregorio, cominciano a uscire dalla storia. O meglio, rimangono e cercheranno ancora varie volte d’imporsi, ma la loro originale dimensione egemonica all’interno di uno spazio culturale unificato non la ritroveranno mai più. Si vuol forse dire che le laudes Jovis hanno finito per oltrepassare la diga, e che il pensiero pagano dilaga? Per nulla. L’identità cristiana del regno di Carlo Magno non solo non è in discussione, ma addirittura ne costituisce l’assoluto fondamento ideologico. Le grandi iniziative per la riorganizzazione e l’istruzione del clero62, l’opera di rassettatura e riordino dei testi sacri e il personale e profondo cristianesimo dei suoi intellettuali, Alcuino in testa, lo confermano in mille modi63. Solo, quel regno, in quanto 62. L’Admonitio generalis, del 789, oltre a una lunga serie di disposizioni riguardanti la vita e l’organizzazione del clero, prescriveva, all’articolo 72, che presso i monasteri e le chiese cattedrali fossero istituiti regolari corsi scolastici per insegnare i salmi, la notazione musicale, il canto, la matematica e la grammatica; la contemporanea e famosa Epistola de litteris colendis, formalmente mandata all’abate Baugulf di Fulda, ma in realtà indirizzata a tutto il clero, di quell’articolo sviluppa i vari punti (vedi Giles Brown, «Introduction: the Carolingian Renaissance», in Carolingian Culture: Emulation and Innovation, edited by R. McKitterick, Cambridge: Cambridge University Press, 1994, pagg. 1-51: pagg. 17 ss., e ancora Maurice Roger, L’enseignement des lettres classiques d’Ausone à Alcuin: Introduction à l’histoire des écoles carolingiennes, Paris: Picard, 1905, in rist. anastat., Hildesheim: Olms, 1968, passim). 63. Vedi due saggi di Pierre Riché, «Instruments de travail et méthodes de l’exégèse à l’époque carolingienne», e «La Bible et la vie politique dans le haut Moyen Âge», entrambi in Le Moyen Âge et la Bible, dir. Pierre Riché & Guy Lobrichon, Paris: Beauchesne, 1984, rispettivamente pagg. 147-161, e pagg. 385-400. Il primo, assai denso, offre un quadro completo del lavoro esegetico compiuto sulla Bibbia nell’ambiente di Carlo Magno, che vi era personalmente coinvolto (onde si è detto che egli avesse messo tanto ardore nel correggere i testi biblici quanto ne metteva nel vincere i nemici sul campo di battaglia); il secondo precisa la concreta dimensione ideologico-politica dell’investitura religiosa della quale il regno capetingio, a partire già da Pipino il Breve, si ammantava, presentando il popolo d’Israele e i suoi re come altrettanti prototipi del popolo Franco del quale Carlo Magno viene proclamato rex et sacerdos (per questa immagine di dominatore teocratico e strumento di Dio e della Chiesa cucita addosso a Carlo Magno vedi l’ampio capitolo di Reto R. Bezzola, «Les carolingiens», pagg. 86-224 del suo Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200), part. I, La tradition impériale de la fin de l’antiquité au XIe siècle, Paris: Champion, 1968). Ma si vedano anche, per la profondità dell’impegno culturale speso in campo religioso, i densi capitoli del volume di Donald A. Bullough, Carolingian renewal: 56 ENRICO FENZI unione di Germania, Francia e Italia, ha in sé il germe di qualcosa di inedito, un’idea dell’Europa, che «è un fatto medioevale, non un’esperienza di epoca classica», e di un’Europa che definitivamente si stacca da Bisanzio e dal mondo ellenico, e dunque «spezza i ponti con la tradizione classica»64. Li spezza perché è, finalmente, un’altra cosa, e precisamente per questo, senza l’aiuto di ponti malfidi e traballanti ma in nome di un impero ritrovato, può porre all’ordine del giorno la necessità di «tradurre» per sé quella tradizione, senza timidezze e con un senso davvero nuovo dei propri diritti e doveri culturali. I Gesta Karoli affermano come nel campo del sapere i Franchi abbiano eguagliato gli Ateniesi e i Romani, offrendo dunque ai secoli che verranno la base del classico topos: Atene-Roma-Parigi, e lo fanno senza minimamente preoccuparsi di aggiungere cautelosi e cristianizzanti distinguo. Il che testimonia di una certa naturale spregiudicatezza: della quale troviamo conferma se ci volgiamo indietro, là dove ci viene indicato d’andare, cioè alla corte di Carlo Magno. Qui, non sembri esagerato parlare di un atteggiamento che suona libero e leggero, quando ci si trova dinanzi all’entusiasmo scevro di sensi di colpa con il quale Alcuino (il quale, si ricordi, ha assunto il nome poetico di Flaccus: e altri attorno a lui vollero chiamarsi Omero, Pindaro, Marone, Tirsi, Menalca...) continuamente parla del suo lavoro e, dentro di esso, della componente classica. Lo si vede, per esempio, nel lungo componimento Versus de sanctis euboricensis ecclesiae, là dove fa un altissimo elogio dell’amico divenuto vescovo di York nel 767, Aelberto, grande maestro di scuola e avido cercatore di libri, che agli allievi insegna l’arte grammatica, la retorica, il diritto, e «illos Aonio docuit concinnere cantu, | Castalida instituens alios resonare cicuta, | et iuga Parnassi lyricis percurrere plantis», o là dove, poco avanti, s’esalta elencando i libri di cui la biblioteca della cattedrale era ricca e tocca proprio il tema della trasmissione dei testi e dei sources and heritage, Manchester & New York: Manchester University Press, 1991. Per la dimensione politica assunta dall’elemento religioso, vedi I Deng-Su, «La saecularis potestas nei primi specula carolingi», in Culto cristiano, politica imperiale carolingia (9-12 ottobre 1977), Todi: Accademia Tudertina (Convegni del Centro di Studi sulla spiritualità medievale & Università degli Studi di Perugia, XVIII), 1979, pagg. 363-446, e, nello stesso volume, Cyrille Vogel, «Les motifs de la romanisation du culte sous Pépin le Bref (751-786) et Charlemagne (774-814)», pagg. 13-41 (accentua il senso delle motivazioni strettamente politiche delle scelte di Pipino e Carlo). Di qui si ricaverà altra bibliografia: in genere, si veda ancora Louis Halphen, Charlemagne et l’Empire carolingien, Paris: Albin Michel, 1947, pagg. 25 ss.; Marc Bloch, I re taumaturghi, Torino: Einaudi, 1975 (I ed. fr., 1924), passim. 64. Così Santo Mazzarino, «Il nome e l’idea di ‘Europa’», in Antico, tardoantico ed era costantiniana, Bari: Dedalo, 1980, pagg. 412-430: pagg. 428-429. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 57 saperi dalla Grecia a Roma, implicandone quanto meno l’attuale continuità: «Illic invenies veterum vestigia patrum, | quidquid habet pro se Latio Romanus in orbe, | Graecia vel quidquid transmisit clara Latinis, | Hebraicum vel quod populus bibit imbre superno» (corsivo mio), e finisce appunto con un elenco di autori classici e con i retori e i grammatici antichi65. Oppure là dove raccomanda attenzione e scrupolo di correttezza agli addetti allo scriptorium, con un senso vivo sia del valore della trasmissione dei testi che dell’oggetto, il libro medesimo (e si osservi l’immagine del «volo» della penna): non siano «frivoli», dunque, «frivola nec propter esset et ipsa manus, | corretosque sibi quaerant studiose libellos, | tramite quo recto penna volantis eat. | Per cola distinguant proprios et commata sensus, | et punctos ponant ordine quosque suos», ecc.66 Non voglio discutere qui del concetto di «rinascimento carolingio», e nemmeno mi importa se alla fin fine si continuasse a pensare quello che già pensava Gaston Paris, quando scriveva che nella Scuola palatina «l’on s’encourageait à aquérir et à propager une science à moitié naïve, à moitié prétentieuse [...] où lui [Carlo Magno] et les siens cachaient leur personalité barbare sous la masque des plus illustres anciens»67. Né mi spaventa il deciso giudizio di Claudio Leonardi: «Alcuino è mosso da interessi culturali che si 65. Alcuini Carmina, edited by Duemmler, MGH Poetae aevi carolini, I, 1881, pagg. 201 e 203-204, vv. 1436-1438, e vv. 1535-1538. 66. Alcuini Carmina, pag. 320, XCIV vv. 4-8. Parla di questi versi David Ganz, «Book production and the spread of Caroline minuscole», in The new Cambridge Medieval History, vol. II c. 700-900, edited by Rosamond McKitterick, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pagg. 786-808: pagg. 795-796. Ma in questo stesso volume rimando soprattutto all’ampio saggio di John J. Contreni, «The Carolingian Renaissance: Education and Literary Culture», pagg. 709-757, con amplissima bibliografia. Vedi anche Rosamond McKitterick, «Eigth-Century Foundations», ibid., pagg. 681-694, e già The Frankish Kingdoms under the Carolingians, 751-987, London & New York: Longman, 1983, soprattutto per i due importanti capitoli «The Foundation of the Carolingian Renaissance», pagg. 140-168, e «Scolarship, Book production and Librairies: the Flowering of the Carolingian Renaissance», pagg. 200-227; il vol. Carolingian Culture: Emulation and Innovation, edited by R. McKitterick, Cambridge: Cambridge University Press, 1994, e qui in particolare ai saggi di G. Brown, «Introduction: the Carolingian Renaissance», pagg. 1-51, e di Mary Garrison, «The emergence of Carolingian latin literature and the Court of Charlemagne (780-814)», pagg. 111-140. Per l’attività di trasmissione dei testi, vedi Bernhard Bischoff, «Panorama der Handschriftüberlieferung aus der Zeit Karls des Grossen», in Mittelalterliche Studien. Ausgewählte Aufsätze zur Schriftkunde und Literaturgeschichte, Stuttgart: Hiersemann, 1981, III, pagg. 5-38; Leighton D. Reynolds & Nigel G. Wilson, Scribers and Scholars: a guide to the Transmission of Greek and Latin Literature, Oxford: Clarendon Press, 1991, pagg. 84-94. 67. Gaston Paris, Histoire poétique de Charlemagne, Paris: Franck, 1865, pag. 34 (ma vedi in fine, pag. 449, un riconoscimento più largo). 58 ENRICO FENZI possono comprendere solo riconoscendo che egli opera all’interno della visione agostiniana, e non fonda nessun umanesimo, né laico né cristiano. Non ne esistono le condizioni culturali, né Alcuino ha le capacità e il gusto teoretico per un’alternativa alla tradizione in cui si pone»68. Certo di alternativa non si può parlare, ma alcune importanti differenze saltano agli occhi. Ci si ricordi di Gregorio Magno e del suo diffidente rapporto con la grammatica: ebbene, dice Alcuino, autore di un De grammatica, un De ortographia e un De dialectica (e non c’è bisogno di immaginarlo in diretta polemica con le posizioni del papa), se non si vuole che sia quella si abbia almeno il coraggio di farne un’altra, ma una grammatica è indispensabile: «si nota et olim audita non licet inferre, quid faciemus de litteris syllabis etiam et verbis, quibus uti nobis necesse est cotidie, nisi novas grammaticae artis regulas excogitare incipiamus?»69. Ma ancora, rivolgendosi a Carlo Magno e parlando del suo insegnamento presso san Martino di Tours, sembra addirittura distinguere gli studenti per indirizzi e persino per sedi di studio: «Ego vero Flaccus vester secundum exhortationem et bonam voluntatem vestram aliis per tecta sancti Martini sanctarum mella scripturarum ministrare satago; alios vetere antiquarum disciplinarum mero inebriare studeo; alios grammaticae subtilitatis enutrire pomis incipiam», ecc. (corsivi miei)70. Ch’egli tranquillamente e senza ombra di auto-censura possa dire che s’ingegna di inebriare col vino vecchio della cultura antica parte dei suoi studenti non mi pare, insomma, cosa da nulla, e per apprezzarne la novità non è necessario supporre un inesistente spirito laico, perché è ben chiaro ch’egli mette il tutto sotto il larghissimo ombrello della dimensione religiosa. Per esempio lo fa proprio là dove, anticipando i Gesta Karoli, già 68. C. Leonardi, «Alcuino e la scuola palatina», pag. 479. Di nuovo, pare assai equilibrato il giudizio di Pedersen, The First Universities, pagg. 89-91, quando scrive che «In none of the areas specified above is there any justification for saying that the schools of the Carolingian age pursued original research, if by this we mean conscious efforts to bring new knowledge into being», ma riconosce d’altro lato che allora «for the first time, society in Latin Europe had admitted some responsibility for education, and Charlemagne’s dream of providing educational opportunities for the laity was a seminal value, despite the fact that the material conditions needed for carrying it out were not yet at hand». 69. Alcuini Epistolae, edited by Duemmler, MGH Epistolarum IV, Karolini aevi II, 1895, pagg. 232-233: Epist. 145. Qui Alcuino risponde ad alcune obiezioni dello stesso Carlo Magno, sì che si dovrebbe riportare il senso complessivo della questione al notevolissimo scambio di battute tra i due che è nel De arte rhetorica dialogus, noto anche come Dialogus de rhetorica et virtutibus (nei Rhetores latini minores, a cura di Helm, Lipsia, Teubner, 1863, pagg. 525-550 = PL 101, 919-946). Vedi C. Leonardi, «Alcuino e la scuola palatina», pagg. 475-479. 70. Alcuini Epistolae, cit., pag. 176: Epist. 121. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 59 abbozza il tema della translatio verso quella nuova Atene ch’è la Francia cristiana: «si, plurimis inclitum vestrae intentionis studium sequentibus, forsan Athenae nova perficeretur in Francia, immo multo excellentior». Prosegue infatti: «Quia haec Christi domini nobilitata magisterio omnem achademicae exercitationis superat sapientiam. Illa, tantummodo Platonicis erudita disciplinis, septenis informata claruit artibus; haec etiam insuper septiformi sancti Spiritus plenitudine ditata omnem saecularis sapientiae excellit dignitatem»71. Naturalmente, ciò non significa affatto che manchino i soliti avvertimenti a preferire le verità della Rivelazione alle favole dei poeti: i cantici della Bibbia sono migliori del «falso Marone», e certo la Trinità «in Virgiliacis non invenietur mendaciis», e, chiudendo una lettera, al discepolo lontano augura: «Utinam evengelia quattuor, non Aeneades duodecim pectus compleant tuum»72. Ma ecco, proprio qui molto graziosamente aveva insi71. Alcuini Epistolae, cit., pag. 279: Epist. 170. Questo testo è stato già citato da A. G. Jongkees, Translatio Studii, pagg. 46-47, che giustamente vi ravvisa l’idea della translatio (ma in una traduzione, mi permetto di dire, che vela un poco proprio l’intenzione con la quale lo allega). Tra altre lettere che si potrebbero ricordare, segnalerei ancora la lunga Epist. 307, pagg. 466-471, che si sofferma sulla disputa di Paolo con i sapienti greci narrato in Act. 17, 18, e, toccando il tema dell’oro degli Egizi (si aggiunga dunque questa testimonianza di Alcuino a quelle elencate da De Lubac), dichiara di adottare le medesime armi dialettiche dell’avversario, «ut, suorum sauciatus armis, in catholici exercitus libens castra recurrat» (corsivo mio). 72. Alcuini Carmina, cit., pag. 299: LXXVIII 5-8: «Has rogo menti tuae, iuvenis, mandare memento: cantica sunt nimium falsi haec meliora Maronis. | Haec tibi vera canunt vitae praecepta perennis, | auribus ille tuis male frivola falsa sonabit»; Alcuini Epistolae, cit., pag. 475: Epist. 309; ibid., pagg. 38-39: Epist. 13. Ma si veda in particolare pag. 183: Epist. 124, ove, con toni che possono ricordare Gregorio Magno, rimprovera Higbald vescovo di Lindisfarne che allietava i conviti con canti pagani dedicati alle antiche leggende anglo-sassoni intorno al re Ingeld: «Verba Dei legantur in sacerdotali convivio. Ibi decet lectorem audiri, non citharistam; sermones patrum, non carmina gentilium. Quid Inieldus cum Christo? Angusta est domus: utrosque tenere non poterit. Non vult rex celestis cum paganis et perditis nominetenus regibus communionem habere...». La sincerità è indubbia, ma si tratta di ammonimenti assolutamente topici: vedremo ancora, per esempio, Pietro di Blois sgridare con assai maggiore violenza il vecchio Raoul di Beauvais perché alla sua età continuava a insegnare le arti liberali (con espressioni che Petrarca riecheggerà, nella sua polemica contro i «dialettici»): «Vos autem tumultuoso strepitu et clamore nautico de nugis assidue disputantes inutiliter aera verberatis [...] vos, puer centum annorum et elementarius senex, docetis sapientiam. Verecundum siquidem et onerosum satis est mihi quod omnes coaetanei vestri in montem eminentioris scientiae ascenderunt et vos in coeno crassioris intelligentiae cum asino remansistis. Priscianus et Tullius, Lucanus et Persius, isti sunt dii vestri. Vereor ne in extremae necessitatis articulo vobis improperando dicatur: ubi sunt dii tui?» (Petri Blesensis Epistolae, VI, PL 207, coll. 18-19). 60 ENRICO FENZI nuato: «Flaccus recessit, Virgilius accessit, et in loco magistri nidificat Maro», e questa battuta disinvolta offre in verità una piccola chiave per entrare in una dimensione nella quale lo scrupolo cristiano si presenta del tutto privo di doppiezza e però riesce a non sacrificare l’intelligenza e a non rinchiudersi in grevi atteggiamenti di censura. Come racconta la Vita di lui, il vecchio Alcuino aveva proibito ai giovani allievi la luxuriosa facundia di Virgilio, e aveva rimproverato, ma anche benignamente perdonato, Sigulfo Vetulo che insieme ad altri ne aveva organizzato una lettura clandestina: ma l’episodio non ha nulla di cupo e semmai rimanda indietro, all’Alcuino giovane, che a sua volta, quasi novello Gerolamo, si rimprovera di preferire Virgilio ai Salmi73. Ma il tono non è mai pesante, e semmai rimanda a un’oscillazione affatto prevedibile nella sua novità, e spinge a ricordare come egli avesse vivacemente protestato per l’assenza di Virgilio nei programmi d’insegnamento: «Quid Maro versificus solus peccavit in aula? | Non fuit ille pater iam dignus habere magistrum, | qui daret egregias pueris per tecta camenas?»74. Insomma, di là da tante possibili analisi si oserebbe quasi pensare che lo spontaneo calore con il quale Alcuino tratteggia la sua triadica amicale comunità –il maestro, gli studenti, i libri– suoni come una sorta di flebilissimo annuncio, quanto si voglia condizionato e formalmente approssimativo, di una futura comunità che si riconosce e comunica attraverso i libri, quella di Petrarca e i suoi amici (il quale Petrarca, non dimentichiamo, dovrà pure lui fare i conti tra Virgilio e i Salmi...). La voce attenta e simpatica di Alcuino75 non è naturalmente la sola, ed è facile collocarla e in qualche modo completarla entro il coro nel quale risuonano inni assai più enfatici alla grandezza di Carlo Magno restauratore della grandezza della Roma antica. In essi s’alternano, com’è naturale, accenti posti sulla trascendente continuità dell’impero e accenti posti sulla carica di novità della renovatio, ma in ogni caso, anche se manca la parola, l’idea della translatio è ormai affatto acquisita, e Carlo Magno stesso, summus apex regum e sommo sophista e letterato e poeta incarna esemplarmente il nesso strettissimo tra la somma del potere e la somma del sapere. Così è, infatti, nei versi già molte volte citati (forse di Angilberto) 73. Vita Alcuini, edited by Arndt, MGH SS XV pars I, rispettivamente pagg. 193 e 185. Sugli aneddoti riferiti dalla Vita e per altre citazioni di testi entro un discorso su Alcuino con il quale sono in sintonia, vedi Vincenzo Cilento, «Il mito medievale della translatio studii», Filologia e letteratura, 12 (1966), pagg. 1-15 (7 ss). 74. Alcuini Carmina, cit., pag. 245: XXVI vv. 18-20. Cita e osserva l’importanza di questi versi M. Garrison, The emergence, pag. 124. 75. Elinando lo definirà magister deliciosus di Carlo Magno (Chronicon 790, PL 212, 837). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 61 del componimento Karolus Magnus et Leo papa, ove si allude alla costruzione del grande palazzo e della cappella Palatina di Aquisgrana (fr.: Aixla-Chapelle), consacrata nell’805: Grammaticae doctor constat praelucidus artis; nullo umquam fuerat tam clarus tempore lector; rethorica insignis vegetat praeceptor in arte; summus apex regum, summus quoque in orbe sophista extat et orator, facundo famine pollens; inclita nam superat praeclari dicta Catonis, vincit et eloquii magnum dulcedine Marcum, atque suis dictis facundus cedit Homerus, et priscos superat dialectica in arte magistros [...] sed et urbe potens, ubi Roma secunda flore novo, ingenti, magna consurgit ad alta mole, tholis muro praecelsis sidera tangens. Stat pius arce procul Carolus loca singula signans, altaque disponens venturae moenia Romae. Hic iubet esse forum, sanctum quoque iure senatum, ius populi et leges ubi sacraque iussa capessant76. Mentre Moduin (Moduinus) d’Autun può parlare di una rinata e rinnovata aurea Roma: Prospicit alta novae Romae meus arce Palemon, cuncta suo imperio consistere regna triumpho, rursus in antiquos mutataque secula mores. Aurea Roma iterum renovata renascitur orbi,77 76. MGH Poetae latini aevi carolini, cit., pagg. 367-368: vv. 67-75 e 94-100. 77. MGH Poetae latini aevi carolini, cit., pag. 385: Ecloga vv. 24-27. È appena il caso di dire che a partire di qui diventa del tutto pervasiva la colorazione romana che assumono le lodi di Carlo Magno e dei suoi successori: per esempio, l’abate Abbone loda lui e il figlio Ludovico che «certe utrique pro tempore ac ratione noverant parcere subiectis et debellare superbos», e dunque applica al regno carolingio quella ch’era la «marca» sublime dell’impero romano (Liber Canonum Abbonis Abbatis, in Recueil des Historiens des Gaules et de la France, Paris: Palmé, 1874, X, pag. 627). E più tardi Enghelberto di Admont lo metterà tranquillamente con Alessandro Magno, Ciro e Giulio Cesare: «qui precipue in rebus bellicis claruerunt, sicut ab Alexandro Magno in bellis Grecis et a Cyro in bellis Persicis et a Cesare Iulio in bellis Ytalicis [non ‘Gallicis’, si noti], a Karolo Magno in bellis Germanicis; in materia de virtutibus a Seneca et Tullio», ecc. (Speculum virtutum [vedi sopra, num. 33], pag. 344: X 17). Merita forse ricordare anche un tratto idiosincratico del ritratto di Carlo Magno sottolineato 62 ENRICO FENZI fissando in una formula efficace il ruolo di Carlo Magno come «rigeneratore» della grandezza antica, per cui Acquisgrana diventa una «seconda Roma»78. Ma il campo delle lodi di Carlo è in verità sterminato. Restiamo dunque attaccati al filo della translatio, e citiamo ancora un passo assai significativo di Héric d’Auxerre, tratto dalla epistola dedicatoria, Commendatio sequentis operis ad gloriosum regem Karolum per epistolam facta, con la quale egli dedica nel 873 a Carlo il Calvo la sua Vita metrica S. Germani: id vobis singulare studium effecistis, ut sicubi terrarum magistri florerent artium, quarum principalem operam philosophia pollicetur, hos ad publicam eruditionem undecunque vestra celsitudo conduceret, comitas attraheret, dapsilitas provocaret. Luget hoc Graecia novis invidiae aculeis lacessita: quam sui quondam incolae iamdudum cum Asianis opibus aspernantur, vestra potius magnanimitate delectati, studiis allecti, liberalitate confisi; dolet inquam se olim singulariter mirabilem ac mirabiliter singularem a suis destitui; dolet certe sua illa privilegia (quod numquam hactenus verita est) ad climata nostra transferri79. Come si vede, il «trasferimento» ad climata nostra, dalla Grecia alla Francia (Roma qui non compare) è tanto spirituale quanto materiale: si trasferisce la filosofia perché si trasferiscono gli uomini, e costoro lo fanno perché cooptati entro un progetto epocale, quale appunto è quello della translatio medesima, irresistibilmente calamitata dalla forza attrattiva del nuovo regno. Anche questo testo è già stato citato al proposito, ma, un po’ come avveniva per i Gesta Karoli, ci sono in esso anche altre parole che meritano d’essere ricordate. In apertura della lettera, infatti, Héric ripete da Martino Polono: «Hic etiam solitus erat, cum se de nocte in lecto deponeret, ad caput suum pennam et incaustum cum pergameno reponere, ut si in stratu aliquid utile futuro tempore faciendum cogitatu occurreret, ne a memoria laberetur, scriberet vel signaret» (Martini Oppiaviensis Chronicon, sub Karolo Magno, pag. 461). 78. Sul tema della «seconda Roma», vedi ancora l’eccellente contributo di William Hammer, «The Concept of the new or second Rome in the Middle Ages», Speculum, 19 (1944), pagg. 50-62. Lo studioso prende in considerazione sette città che si sono fregiate di quel titolo, Costantinopoli, Aquisgrana, Treviri, Milano, Reims, Tournai e Pavia, e discute, pagg. 53-54, dei famosi Versus Romae (nono o decimo secolo) a proposito di Costantinopoli (v. 9: «Constantinopolis florens nova Roma vocatur») che eccezionalmente configurano una translatio orientale, che resta in ogni caso secondaria, e non incide per nulla sulla linea maestra che qui cerco di seguire. 79. MGH. Poetae aevi carolini, edited by Traube, 1964, III, 1964, pag. 429 (vedi R. Bezzola, Les origines, pag. 202 nota 1; A. G. Jongkees, «Translatio Studii», pagg. 47-48). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 63 il «proverbio» di Platone che da Alcuino in poi era diventato un topos negli elogi di Carlo Magno e dei successori: quae ante nos dicta est, sententiae veritate repungor «felicem fore rempublicam, si vel philosopharentur reges vel philosophi regnarent»80. E così facendo, egli conferma l’indicazione di Alcuino che presentava un re filosofo che non ha nulla a che fare con il tradizionale modello biblico di David (ch’era per altro il nome «poetico» che Carlo aveva scelto per sé), ma ripiglia invece il filo di una lunga tradizione che risale a Platone, Rep. VI 499b ss.81, e che passa per Cicerone, Ad Quintum fr. I 1, 29, e De officiis I 28; Apuleio, De Platone et eius dogmate II 24, 257; Historia Augusta: Giulio Capitolino, Vita Marci Antonii 27; Boezio, Cons. I 4, 5-6: «Atqui tu hanc sententiam Platonis ore sanxisti beatas fore res publicas si eas vel studiosi sapientiae regerent vel earum rectores studere sapientiae contigisset», e arriva a Lattanzio, Inst. III 21, 6: «At idem [Platone] dixit beatas civitates futuras fuisse, si aut philosophi regnarent aut reges philosopharentur», e poi a Gerolamo, In Ionam IV (PL 25, col. 1143) e, in altra forma, ad Agostino, Quest. In Hept. I 153 (commentando Gen. 46, 32-34): «qui excellunt ratione excellant dominatione». In campo cristiano ad Alcuino ed a Héric non mancavano dunque le autorizzazioni, ma soprattutto importano qui 80. Alcuini Epistolae, cit., pag. 373: Epist. 229, a Carlo Magno benedicendolo per la sua incoronazione: «Beata gens, cui divina clementia tam pium et prudentem previdebat rectorem. Felix populus cui sapiente et pio regitur principe; sicut in illo Platonico legitur proverbio, dicentis «felicia esse regna, si philosophi», id est amatores sapientiae, regnarent vel reges philosophiae studerent. Quia nihil sapientiae in hoc mundo conparari poterit». Per la fortuna del proverbio, che arriva al medioevo soprattutto attraverso Boezio, vedi in particolare Pierre Courcelle, La Consolation de Philosophie dans la tradition littéraire. Antécédents et posterité de Boèce, Paris: Études Augustiniennes, 1967, pagg. 60-66, che rileva appunto la speciale fortuna carolingia del motivo, ripreso poi in epoche successive, e cita ancora Walafrido Strabone (829), Pascasio Radberto (circa nella stessa data); un anonimo che scrive per Carlo il Calvo, ecc. 81. Vedi al proposito Michel-Pierre Edmond, Le philosophe-roi. Platon et la poltique, Paris: Payot, 1991, passim (ma vedi pagg. 170 ss.); Gian Carlo Garfagnini, «Platone ‘teologo’ e politico: il sogno di uno stato ‘divino’», Rinascimento, II, 42 (2002), pagg. 3-30; Dominic O’Meara, «Conceptions néoplatoniciennes du philosophe-roi», in Images de Platon et lectures de ses œuvres. Les interprétations de Platon à travers les siècles, édité par Ada Neschke-Hentschke avec la collaboration de Alexandre Etienne, Louvain-la-Neuve & Louvain-Paris: Éditions de l’Institut supérieur de Philosophie & Éditions Peeters, 1997, pagg. 35-50, che considera in particolare la continuità dell’immagine del filosofo-re in Plotino, Giamblico, l’imperatore Giuliano, Sinesio di Cirene, Ierocle. 64 ENRICO FENZI almeno tre cose: prima di tutto, l’associazione del «proverbio» con la catena della translatio che per via diretta, saltando ogni mediazione, ha portato la filosofia da Atene alla corte di Carlo Magno; che aggiungano alla catena già solidamente ancorata entro il mondo della sapienza antica l’anello costituito dall’immagine del re-filosofo; che tale anello consista, precisamente, nella regalità della filosofia medesima, che è, si badi, proprio la filosofia che arriva da Atene, la «ragione», com’è del resto evidente dalla traduzione che della massima ha dato Agostino. Si tratta di un piccolo, forse minimo percorso, che apre però uno spiraglio nell’attimo stesso in cui sembra messa tra parentesi la lunga ostilità cristiana nei confronti della filosofia, vista, da Tertulliano a Gregorio Magno, come la nemica dell’universo cristiano, incubatrice delle eresie e diretta responsabile della peste del sincretismo82, e in cui si respira, di nuovo, la lontana premessa dell’orgoglio «filosofico» di Abelardo. Quanto alla formula, sarà forse il caso di aggiungere ch’essa tornerà ancora in Giovanni di Salisbury, il quale la appoggia a parallele citazioni bibliche: «Socrates […] tunc demum res publicas fore beatas asseruit si eas philosophi regerent aut rectores earum studere sapientiae contigisse»), dopo aver definito i re ignoranti, con un’immagine famosa che sarà ripresa da Petrarca, come «asini coronati»: Princeps vero cotidie legit, et leget cunctis diebus vitae; quia qua die non legerit legem, ei non dies vitae sed mortis est. Hoc utique sine difficultate illiteratus non faciet. Unde et in litteris quas regem Romanorum ad francorum regem transmisisse recolo, quibus hortabatur ut liberos suos liberalibus disciplinis institui procuraret, hoc inter cetera eleganter adiecit quia rex illiteratus est quasi asinus coronatus83. 82. Rimando alle indicazioni di J. Fontaine, Isidore de Séville et la culture classique, pagg. 594-596 (§ Isidore et la tradition chrétienne hostile à la philosophie). Vedi il giudizio di Tertulliano sui filosofi citato sopra, da Contra Herm. 8, 3, PL 2, col. 204. 83. Policraticus IV 6, ed. Keats-Rohan, I, pagg. 253 e 251 = ed. Webb, I, pagg. 256 e 254. Di qui deriva il motivo Petrarca, scrivendo nel 1348 la Fam. VII 15, de principibus literatis, a Luchino Visconti: «unde illud regale dedecus videmus, plebem doctam regesque asinos, coronatos licet; sic enim eos vocat romanis imperatoris epystola quedam ad Francorum regem» (§ 12). Circa l’epistola, sembra l’abbia scritta l’imperatore Corrado III al re di Francia Luigi VIII: vedi Giuseppe Rotondi, «Note alle Familiari del Petrarca», Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, s. III, 76 (1942-1943), pagg. 114-132 (pagg. 123-124). Vedi anche Vincenzo di Beauvais, De morali principis institutione, a cura di Schneider, XV pag. 80, r. 66, che più fedelmente deriva da Giovanni di Salisbury: «Hinc est quod in litteris quas rex Romanorum misisse legitur ad regem Francorum, hortans eum ut liberos suos liberalibus disciplinis institui faceret, adiecit inter cetera: ‘Rex illiteratus est quasi asinus coronatus’» (ma si leggano per intero i capp. XV. Quod debet [il re] eciam esse sapiens in «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 65 Ripeto a questo punto che non è il caso di entrare nella polemica, che ha inevitabilmente qualcosa di nominalistico, sul «rinascimento carolingio»84, quand’è invece importante sottolineare l’essenziale. Nella coscienza dei contemporanei e in quella dei primi osservatori l’impero carolingio ha goduto di una rappresentazione ideologica fortissima che ne esaltava soprattutto il carattere unitario, inteso quale somma non contraddittoria di profonde e opposte tradizioni: era un impero che si aggiungeva quale quinto alla serie dei regni del mondo non già nel segno del catastrofico percorso della corruzione e della vanità di ogni «città» terrena, ma piuttosto quale erede di quella stessa egemonia politica e culturale della quale l’impero romano era rimasto esempio insuperato. Nelle parole dei suoi scrittori e poeti, insomma, cristianesimo e romanità riuscivano a comporsi in un quadro che ricominciva a disporre i propri elementi attorno a un’identità culturale che era anche un dato storico, e che scopriva nella grammatica il linguaggio del potere, e la possibilità di formazione di un’élite intellettuale. In termini forse grossolani ma efficaci, potremmo dire che il potere riscatta il sapere, tutto il sapere se davvero è tale, come lo è quello di Atene e dei filosofi antichi, e che il sapere riscatta e legittima il potere, in una sorta di corto circuito che riconosce e si piega alla preminenza della verità cristiana, ma nello stesso tempo, e sia pure per margini strettissimi, ritaglia lo spazio della propria autonomia. E questo è precisamente lo spazio nel quale la translatio riesce finalmente a trovare la dimensione sua propria. Così, Carlo Magno è rex et sacerdos, ma è anche «filosofo» e quando in Aquisgrana rinnova l’aurea Roma, e quando è oratore migliore di Catone e poeta più dolce di Virgilio e più facondo di Omero, ecco che egli non usa di queste immagini per qualificare la sua potenza dinanzi al trascendente modello della Chiesa ma piuttosto dinanzi alla storia degli uomini: scripturis maximeque divinis, e XVI. Exemplar super hoc in regibus antiquis, pagg. 78-84, che contengono una esaltazione della cultura e dell’amore per le lettere di Carlo Magno e della dinastia capetingia). La fortuna del topos è confermata ancora nella seconda metà del XII secolo da Elinardo di Froidmont (Courcelle non giunge sin lì), De bono regimine principis, XV, PL 212, col. 736: «Plato enim, ut Boetius testis est, respublicas fore beatas dixit, si eas aut sapientes regerent, aut earum rectores sapientiae studerent», e Walter, Prov. num. 26852. 84. Nel caso, rivendica però la doverosa legittimità del «nominalismo», avversando quella definizione, Angelo Monteverdi, «Il problema del rinascimento carolingio», in I problemi della civiltà carolingia (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, I), Spoleto: presso la Sede dell’Istituto, 1954, pagg. 359-372: pagg. 366 ss. Per la discussione, vedi ancora Hans Liebeschutz, «Thedulf of Orléans and the problem of the Carolingian Renaissance», in Fritz Saxl, 1890-1948: a Volume of Memorial Essays from his Friends in England, edited by Donald J. Gordon, London: Nelson & Sons, 1957, pagg. 77-92. 66 ENRICO FENZI potremmo anche dire, più precisamente, dinanzi alla altrettanto trascendente idea di quella humanitas che ancora si specchiava e riconosceva nella storia di Roma. Certo, il nodo sembra ancora insolubile, ma non è veramente così, perché è intanto chiaro che si comincia a concepire un processo di translatio studii solo là dove una effettuale translatio imperii può promuoverlo e farlo proprio e piegarlo alle proprie totalizzanti esigenze di sovranità. Ed è proprio di qui, per come è stata partorita ed ha mosso i primi incerti passi nell’àmbito dell’ideologia imperiale carolingia, che quella translatio ha ricavato il tratto di fondo che ne ha fatto una delle funzioni più rappresentative del potere politico e delle sue lotte, come i secoli successivi inevitabilmente dimostrano. 4. PARIGI CAPITALE DELLA «CLERGIE» Dopo essersi affermato in ambito carolingio, il concetto di translatio non sembra trovare sviluppi immediati, quasi abbia subìto la crisi stessa della dinastia alla quale era stato legato. Ne deriva una sorta di cesura che trovo non sia stata colta da chi si è occupato del problema: disinvoltamente, infatti, gli studiosi sono passati da quelle prime testimonianze alle successive, del XII e XIII secolo e oltre, e di ciò offre esempio lo stesso Gilson, nella sua veloce translatio da Aquisgrana a Parigi: «c’est donc que la science grecque, transmise jadis par la Grèce à Rome, a désormais été transmise par Rome à la France. À mesure que l’importance de Paris augmente, c’est naturellement Paris qui prend la place d’Athènes»85. Ma appunto, tra Aquisgrana e Parigi c’è un bel salto, e sembra proprio che il disfacimento dell’impero carolingio e la mancanza di un centro politico che si proponesse in maniera organica quella politica di reclutamento di intelletti che aveva stupito e ammirato gli uomini dell’età di Carlo Magno, abbia privato il concetto della sua operatività tanto descrittiva quanto ideale. Così, mentre il fiume lento e potente della trasmissione del sapere antico continua il suo corso, la nozione che lo nomina e gli dà senso e direzione politica scompare, per riapparire, sì, a Parigi, nei primi decenni del secolo dodicesimo, ma in una prospettiva sensibilmente mutata. In verità, si ha l’impressione che tutto ricominci daccapo, e che il discorso torni sostanzialmente 85. Vedi sopra, nota 60. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 67 ad assumere i toni dell’integralismo religioso, nella dimensione propriamente escatologica che aveva nel Libro di Daniele e in Gerolamo. Intorno al terzo o quarto decennio del dodicesimo secolo Ugo di san Vittore, stabilendo che «ordo esse non potest, ubi finis non est» invita a uscire dal «diluvio» delle cose del mondo per recuperare in un’unica grandiosa visione d’insieme il destino dell’umanità nell’imminenza, ormai, della sua fine: Ordo autem loci, et ordo temporis fere omnia secundum rerum gestarum seriem concurrere videntur, et ita per divinam providentiam videtur esse dispositum, ut quae in principio temporum gerebantur in Oriente, quasi in principio mundi gererentur, ac deinde ad finem profluente tempore usque ad Occidentem rerum summa descenderet, ut ex ipso agnoscamus appropinquare finem saeculi, quia rerum cursus jam attigit finem mundi. Imo primus homo in Oriente, in hortis Eden jam conditus collocatur, ut ab illo principio propago posteritatis in orbem proflueret. Item post diluvium principium regnorum et caput mundi in Assyriis et Chaldaeis, et Medis in partibus Orientis fuit. Deinde ad Graecos venit, postremo circa finem saeculi ad Romanos in Occidente, quasi in fine mundi habitantes, potestas summa descendit. Atque ita serie rerum ab Oriente in Occidentem recta linea decurrente, ea, quae a dextris vel a sinistris, hoc est ad aquilonem vel ad austrum gesta sunt, ita suis significationibus respondent, ut si quis diligentius consideraverit, per divinam Providentiam ita disposita esse ambigere non possit86. 86. Ugo di san Vittore, De arca Noe morali, IV 9, PL 176, coll. 677-678. E ancora, De vanitate mundi, II, in fine, PL 176, col. 720, con forte accentuazione del carattere discendente del movimento che sempre più allontana dall’originale perfezione edenica: «divina providentia decursum rerum sic ordinavit, ut ea quae in principio saeculi facta sunt, in oriente quasi in principio mundi fierent, tandemque decurrentibus temporibus ad finem saeculi rerum summa ad occidentem descenderet, hoc est ad finem mundi; ideo primus homo postquam creatus est, positus est in paradiso, in plaga orientali, ut inde quasi a principio mundi per omnes terras proflueret universa propago generis humani. Deinde caput regnorum primum in oriente apud Assyrios fuit, novissimis autem temporibus saeculi ad Romanos in occidente positos potestas summa descendit». Altrove, Excerptionum allegoricarum libri XXIV, VIII 1, PL 177, col. 255, egli specifica, in altro contesto: «aedificavit Constantinus Byzantium maritimam urbem, vocavitque Constantinopolim de nomine suo; Urbem vero Romam cum palatio suo, quod Lateranense dicitur, concessit apostolis Petro et Paulo, et sancto papae Sylvestro, et Constantinopolim imperialem sedem constituit; dignitate tamen Romani imperatores appellati sunt successores usque ad tempus illud quo Romanorum imperium ad reges Francorum translatum est. Postea enim ii, qui apud Constantinopolim imperabant, Graecorum potius imperatores sunt vocati». Queste parole sono letteralmente riprese più di due secoli dopo da Dietrich von Niheim, Gesta Karoli Magni imperatoris, edited by ColbergLeuschner, MGH Staatsschriften des späteren Mittelalters, 1980, V, pag. 305. 68 ENRICO FENZI Una simile visione non ha molto a che fare con la nostra translatio, e del resto il tono violentemente apocalittico dell’intero passo va in tutt’altra direzione. Né sembra che egli sia sfiorato da possibili valenze moderne quando nel Didascalicon, III 2, De auctoribus artium, fornisce un fitto e abbastanza caotico elenco di «autori» grossamente distinti per materie all’interno del quale spicca ripetutamente l’oriente e l’Egitto in particolare quale culla delle arti e delle scienze: geometria, astrologia, astronomia, l’arte di filare il lino, la coltivazione della vite, sino alla conclusione generale che riconosce due translationes, dall’Egitto alla Grecia e dalla Grecia a Roma, la prima dovuta a Platone e la seconda ai «traduttori» latini, quali Varrone e Cicerone: Aegyptus mater est artium, inde in Graeciam, deinde in Italiam venerunt . In ea primum grammatica reperta est tempore Osiris mariti Isidis. In ea quoque dialectica primum inventa est a Parmenide [...] Plato autem post mortem Socratis magistri sui, amore sapientiae in Aegyptum migravit, ibique perceptis liberalibus disciplinis Athenas rediit; et apud Academiam villam suam coadunatis discipulis philosopiae studiis operam dedit. Hic primum logicam rationalem apud Graecos instituit, quam postea Aristoteles discipulus ejus ampliavit, perfecit et in artem redegit. Marcus Terentius Varro primus dialecticam de Graeco in Latinum transtulit. Postea Cicero topica adjecit. Demosthenes Fabri filius, apud Graecos rhetorice princeps creditur. Tisios apud Latinos. Corax apud Syracusas. Haec ab Aristotele et Gorgia et Hermagora in Graeco scripta est, translata in Latinum a Tullio, Quintiliano et Titiano87. 87. Didascalicon III 2, PL 176, coll. 765-767. Circa le translationes della geometria, vedi già Hibernici Exulis Carmina, XX, De artibus liberalibus, 5, 12 (la geometria): «Cuius ab Egypto prima processit origo, |finibus in cuius est celebrata nimis. |Attica quam multum quondam doctrina secuta est, |inde Latinorum nec minus aucta modo» (ed. Pertz, MGH. Poetae aevi carolini, I, pag. 409). A proposito del passo di Ugo, osserva Serge Lusignan, Parler vulgairement. Les intellectuels et la langue française aux XIIIe et XIVe siècles, Paris: Vrin, 1987, pagg. 159-160: «La translatio devient aussi une appropriation. Hugues de SaintVictor arrête cependant le déplacement culturel à Rome […] Il n’isole aucun lieu culturel spécifique en Europe de l’ouest ou en France, qui supposerait une nouvelle migration depuis Rome. Hugues se manifeste ici comme un authentique clerc latin à qui la latinité suffit comme cadre d’identité culturelle. Il se perçoit sans doute en continuité avec les auteurs latins de l’Antiquité et du haut moyen âge». A Roma ferma anche la migrazione della Grammatica, partita dall’Egitto e passata per la Grecia, Thierry di Chartres, nel Prologus al suo Heptateucon: vedi per ciò É. Jeauneau, Translatio studii, pagg. 14-16. Il Prologus è stato pubblicato due volte dallo stesso Jeauneau, dal ms. di Chartres 497 fol. 2r, prima in «Le ‘Prologus in Heptatheucon’ de Thierry de Chartres» (1954), poi in «Note sur l’Ecole de Chartres» (1964). I due studi sono ora ristampati in «Lectio philosophorum». Recherches sur l’Ecole de Chartres, Amsterdam: Hakkert, 1973, rispettivamente pagg. 87-91 (il testo, pagg. 90-91), e pagg. 5-49 (il testo, pagg. 38-39). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 69 Se è dunque vero che Ottone di Frisinga, probabilmente allievo a Parigi di Ugo di san Vittore, può averne tratto lo spunto per quella che è stata definita come l’esposizione più compiuta della teoria della translatio imperii e studii 88, occorre anche dire che egli comincia con l’escludere quegli elementi di fatto –le traduzioni– che seppur brevemente Ugo di san Vittore presentava circa il passaggio da Atene a Roma, e insieme si stacca decisamente rispetto a quello che si cominciava a intravvedere nell’esperienza carolingia, operando semmai una sorta di fagocitazione delle vicende del sapere umano entro le coordinate di una visione di tutt’altra natura. È vero che Ottone poco dopo la metà del secolo, nella sua grande Chronica, sive historia de duobus civitatibus, che termina con l’anno 1146, rilascia una rapida e però assai sintomatica dichiarazione che riconosce i meriti culturali dell’impero carolingio, là dove scrive che «translato ad Francos imperio cum imperiali gloria crescere simul cepissent et ingenia», ma non sta precisamente entro questa dimensione quanto diffusamente scrive nel Prologo89: Sed quid mirum, si convertibilis est humana potentia, cum labilis sit etiam mortalium sapientia? In Egipto enim tantam fuisse sapientiam legimus, ut secundum Platonem Grecorum philosophos pueros vocarent et inmaturos. Moyses quoque legislator, cum quo Deus tanquam vicinus cum vicino loquebatur eumque divina sapientia replevit, erudiri omni sapientia Egipti non erubuit [...] Hinc translatam esse scientiam ad Grecos, deinde ad Romanos, postremo ad Gallos et Hyspanos diligens inquisitor rerum inveniet. Et notandum quod omnis humana potentia seu scientia ab oriente cepit et in occidente terminatur, ut per hoc rerum volubilitas ac defectus ostendatur. 88. Così A. G. Jongkees, «Translatio Studii», pagg. 43-44 (vedi W. Goez, Translatio imperii, pagg. 111-122). 89. Ed. Hofmeister, rispettivamente pag. 278, e pag. 8: VI 18, e Prol. Per un’idea d’insieme dell’opera e delle sue tesi, vedi G. W. Trompf, The Idea of historical Recurrence, pagg. 226-229, che rimanda alle più puntuali analisi di Amos Funkenstein, Heilsplan und natürliche Entwicklung: Formen der Gegenwartsbestimmung im Geschichtsdenken des hohen Mittelalters, München: Nymphenburger Verlagshandlung, 1965, pagg. 97-100. Vedi anche Mireille Chazan, «La nécessité de l’Empire», Moyen Âge, 110, 3-4 (2004), pagg. 497-512, per collocare tali tesi nell’ àmbito delle ultime teorie circa la necessità dell’Impero –un impero in ogni caso soggetto alla Chiesa e ad essa funzionale– come quelle di Siegebert de Gembloux, Robert d’Auxerre e Aubri-des-trois-Fontaines. 70 ENRICO FENZI E avanti, nel Prologo al l. V, riprende questi concetti e li precisa ulteriormente, con un accenno anche al momentaneo «ritorno» ai greci, con l’impero romano d’oriente: Et sicut supra dixi, omnis humana potentia vel sapientia ab oriente ordiens in occidente terminari cepit. Et de potentia quidem humana, qualiter a Babiloniis ad Medos et Persas ac inde ad Macedones et post ad Romanos rursumque sub Romano nomine ad Grecos derivatum sit, sat dictum arbitror. Qualiter vero inde ad Francos, qui occidentem inhabitant, translatum fuerit, in hoc opere dicendum restat. Sapientiam autem primo in oriente, id est in Babylonia, inventam ac inde in Egyptum [...] translatam fuisse Iosephus in primo Antiquitatum [I 16] libro ostendit [...] Dehinc derivatam ad Grecos philosophorum tempore idem auctor innuit [...] Deinde eam ad Romanos sub Scipionibus, Catone ac Tullio et precipue circa cesarum tempora, poetarum grege diversa carmina concinente, ac post ad ultimum occidentem, id est ad Gallias et Hispanias, nuperrime a diebus illustrium doctorum Berengari, Managaldi et Anshelmi translatam apparet. E infine riassume ancora il tutto nel l. VII: Manent autem, sicut olim in Egypti, sic et nunc in Galliae Germaniaeque partibus habundantius, ut in hoc haut mireris potentiae seu sapientiae ab oriente ad occidentem translationem, cum de religione itidem factum eniteat90. Come si vede anche solo da questi «estratti», è vero che qui è precisamente questione della translatio congiunta del potere e del sapere, e questo è pur sempre un dato finalmente acquisito, ma la cornice che la stringe è di nuovo di tipo provvidenziale, non storico, e non ha nulla di quel senso puntuale e vivo che caricava l’esperienza dello studio delle lettere classiche con quella sorta di ottimismo «progressivo» che sembrava caratterizzare il momento di Alcuino, celebrato dalle generazioni immediatamente successive. 90. Ed. Hofmeister, cit., rispettivamente pagg. 227 e 372. Nella prima delle due citazioni, gli autori che testimoniano la traslatio del sapere alla Gallia e alla Spagna sono Berengario di Tours (c. 1000-1088), noto soprattutto per le ripetute condanne subìte per aver negato il dogma della transustanziazione; l’alsaziano Manegold di Lautenbach (c. 1040-1119), schierato nella lotta per le investiture dalla parte del papa e fautore di una posizione «contrattualista» nei confronti del potere politico (la sovranità è del popolo e demandata ai re a determinate condizioni), e forse Anselmo di Laon (morto nell’1117), commentatore di testi sacri. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 71 Che la sapienza venga originariamente dall’Egitto è un topos radicatissimo, e qui è normale e addirittura dovuto. Il fatto è, però, che esso torna a completare lo schema successivo dei quattro regni di Daniele insieme ai suoi aggiornamenti, e tale schema, con il suo peso, soffoca l’esile e orgogliosa traccia della «filosofia» che da Atene arrivava per diritta via alle aule della scuola palatina. L’ipoteca provvidenzale ed escatologica è troppo forte, insomma, e troppo radicale il disinteresse per la dimensione costruttiva e civile della «filosofia» antica per poter intravvedere qualcosa di proto- o paleo-umanistico in una translatio studii così biblicamente connotata e precipitante, con qualche incongruità, nei nomi di Berengario, Manegold e Anselmo91. Ma la storia corre ora veloce e sfalda in ambiti diversi l’universalismo escatologico, e quell’idea di una provvidenza che costringe la potestas mondana ad inseguire da oriente a occidente il percorso del sole, dal suo sorgere al suo cadere, verso i confini –e la fine– del mondo, germoglia presto in direzioni affatto nuove. Così, alla fine del XII secolo troviamo Goffredo da Viterbo che, sulla traccia di Ottone, scrive che Abraham artibus et scientia Caldeorum imbutus, non solum suos, set etiam Egyptios, cum in Egypto peregrinabatur, legitur omnes artes docuisse. Unde prima sapientia ab Egyptiis ad Grecos, a Grecis ad Romanos, a Romanis ad Gallos et Yspanos legitur transmeasse. Ma nello stesso tempo torna ad esaltare Carlo Magno quale «restauratore» di Roma: Karolus imperii suscepit in Urbe coronam, cuius et auxilio reparat sua tempora Roma, sicut et in titulis pagina nostra sonat, e a più riprese proclama che in lui sono tornati a riunirsi i due grandi rami nei quali s’era divisa la stirpe dei troiani: per parte del padre Pipino quello occidentale e teutonico che discende da Priamo il giovane, nipote di Ettore, e per parte della madre Berta quello romano: In duo dividimus Troiano semine prolem: una per Ytaliam sumpsit dyademata Rome, 91. Già É. Jeauneau, del resto, annotava brevemente che «For Otto of Freising […] the translatio studii develops in the linear time of the Judaeo-Christian tradition» (Translatio studii, pag. 22). 72 ENRICO FENZI altera Theutonica regna beata fovet. Karolus in Berte Pipini semine ventre hec duo continuat, conceptus utroque parente, Romuleus matre, Theutonicusque patre92. Ecco qui, dunque, almeno uno degli elementi che sopraggiungono ad animare ma insieme complicano notevolmente ogni discorso di translatio, e cioè il suo tendenziale intrecciarsi ai «miti di fondazione» che cercano nella diaspora troiana le origini dei regni di Francia e d’Inghilterra e in questa chiave ripercorrono il peraltro mai smesso culto di Carlo Magno. Un altro elemento sarà invece quello che s’innerva in modi altamente complessi nei miti della «materia di Bretagna» (nel Roman de l’Estoire dou Graal di Robert de Boron, per esempio, sarà Cristo stesso ad ordinare che il Graal sia portato da oriente verso occidente)93. Non è tuttavia di questo 92. Goffredo da Viterbo, Pantheon, ed. Pertz, MGH SS XXII, 1872, pag. 95: Memoria Seculorum; pag. 93: Speculum regum II 1450-1452 (ma gli stessi versi tornano a pag. 219: Particula XXIII 11-13); Speculum regum I 684-690. 93. Non oso andare oltre l’accenno a temi che pure costituiscono lo sfondo ideologico sul quale s’accampa il più ristretto motivo di una translatio eminentemente culturale e letteraria. Anche la bibliografia relativa, del resto, è smisurata. Qui, mi è stato utile il denso volume di Dominique Boutet, Charlemagne et Arthur ou le roi imaginaire, Paris: Champion, 1992, passim (ma vedi in particolare il par. «Translatio imperii et transfert du Graal», pagg. 440-450). Ma si vedano almeno gli importanti lavori di Colette Beaune, Naissance de la nation France, Paris: Gallimard, 1985, passim, ma anche, «L’utilisation politique du mythe des origines troyennes en France à la fin du Moyen Âge», in Lectures médiévales de Virgile. Actes du Colloque organisé par l’École française de Rome (Rome, 25-28 octobre 1982), Rome: École française de Rome, 1985, pagg. 331-355; Andrea Giardina, «Le origini troiane dall’impero alla nazione», in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XLV), Spoleto: Presso la Sede del Centro, 1998, I, pagg. 177-209; Mireille Chazan, Empire et histoire universelle de Sigebert de Gembloux à Jean de Saint Victor (XIIe-XIVe siècle), Paris: Champion, 1999 (ma anche La nécessité de l’Empire: vedi nota 90). Per i Bretoni e l’Inghilterra in particolare, vedi Edmond Faral, La légende arthurienne, Paris: Champion, 1929, passim; Laurence MatheyMaille, «Mythe troyen et histoire romaine: de Geoffrey de Monmouth au Brut de Wace», in Entre fiction et histoire: Troie et Rome au Moyen Âge, a cura di Emmanuèle Baumgartner & Laurence Harf-Lancner, Paris: Presses de la Sorbonne Nouvelle, 1997, pagg. 113-125, mentre un diffuso e chiaro racconto della leggenda di Bruto, il primo mitico re d’Inghilterra figlio di Silvio figlio di Enea e Lavinia, e un attento confronto delle fonti è nel volume di Cruz Montero Garrido, La historia, creación literaria. El ejemplo del Cuatrocientos, Madrid: Fundación Ramón Menéndez Pidal & Universidad Autónoma de Madrid, 1994, pagg. 206-253. Ma si vedano ancora le fitte precisazioni che sono negli Études sur l’ «Historia Brittonum» attribuée á Nennius, di Ferdinand Lot ora in Recueil des travaux historiques de F. L., Genève & Paris: Droz & Minard, 1968, I, pagg. 691-730 (si tratta della ristampa di comptes rendus «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 73 che posso parlare, per quanto siano molte e importanti le articolazioni con la nostra translatio, la quale invece proprio ora, tra dodicesimo e tredicesimo secolo, sembra rinnovarsi e, soprattutto, specializzarsi. Quasi il suo discorso fosse stato rilanciato dalla ripresa che Ugo da san Vittore e Ottone da Frisinga ne avevano fatto, essa tocca l’approdo che, nell’opinione degli studiosi che se ne sono sin qui occupati, più a lungo e con più forza la caratterizzerà come tale: voglio dire ch’essa ora diventa il blasone della superiorità francese e s’innerva, in particolare, nel nascente mito di Parigi, città unica in Europa sia per grandezza, ricchezza e intensità di vita e traffici, sia quale caput studiorum. Il testo più antico in questo senso (1162-1170), resta sin qui il famoso e citatissimo prologo di Chrétien de Troyes al Cligès: Ce nos ont nostre livre apris qu’an Grece ot de chevalerie le premier los et de clergie. Puis vint chevalerie a Rome et de la clergie la some, qui or est an France venue. Dex doint qu’ele i soit maintenue et que li leus li abelisse tant que ja mes de France n’isse l’enors qui s’i est arestee94. Chevalerie e clergie: intanto non è più questione di imperium, indiscutibilmente in mani tedesche, ma semmai delle virtù o qualità che dovrebbero apparsi in Le Moyen Âge, 7, 8 e 9 (1894-1895-1896), pagg. 1-5 e 26-32; pagg. 177-184; pagg. 1-13 e 25-32). L’Historia Brittonum è stata pubblicata dal medesimo Lot in Nennius et l’Historia Brittonum, Paris: Champion, 1934. Circa il Graal, una fitta trama di translationes (imperii, studii, religionis, gratiae) trova una chiara esposizione in Catalina Girbea, «La chevalerie et la ‘translatio’ dans quelques romans arthuriens: les métamorphoses d’un mythe», in Métamorphoses. Actes [...] 25 aout-1 sept. 2002, Paris, Publ. de l’Association des Médiévistes Anglicistes de l’Enseignement Supérieur, 2003, pagg. 121-151, [in rete:] www.unibuc.ro/ eBooks/filologie/CatalinaGirbea-articole/Translatio.htm [pagina consultata in data 30-VI2007]). Qui la studiosa formula l’ipotesi che sia stata la corte dei Plantageneti, tagliata fuori dalla translatio imperii (Germania), dalla translatio studii (Francia), dalla translatio religionis (Santa Sede), a tentare di impadronirsi della leggenda arturiana e a farne un vettore di propaganda, come del resto risulta anche dal mito delle origini troiane in Geoffrey de Monmouth e Wace. Ma vedi anche avanti, nota 101, l’accenno al vaticinium Merlini. 94. Chrétien de Troyes, Cligés, édité par A. Micha, Paris: Champion (CFMA 84), 1957, pag. 2, vv. 28-37. 74 ENRICO FENZI comunque sostanziare il potere e che ormai sono appannaggio dei francesi. Lo spostamento indubbiamente particolarizza il discorso generale e gli imprime una direzione diversa, e se è vero che gli schemi di fondo rimangono quelli tipici della tradizione95, è anche vero che si dispongono ad assumere pieghe più fattuali e storiche. In fin dei conti, qui si esalta un fenomeno vero e concreto: il primato culturale sul quale la Francia s’avvia a costruire tanta parte della sua immagine, e dunque questi versi hanno di per sé un notevole significato perché, anche se Chrétien non ne ha affatto l’intenzione, lasciano sullo sfondo ingombranti visioni di tipo escatologico, e puntano semplicemente il dito sulla cosa. La qual cosa è appunto un primato essenzialmente culturale, perché anche la concezione della chevalerie, ovviamente, è un fenomeno culturale. Potremmo dire, insomma, che finché la translatio studii è rimasta strettamente vincolata alla translatio imperii –alla successione dei regni–, correva pur sempre il rischio di trovarsi chiusa in una dimensione provvidenziale e trascendente governata in ultima analisi dalla Bibbia, mentre qui definisce i suoi contenuti in modo tale da cominciare, almeno, a metterli in mani umane. E se Chrétien non ne era del tutto consapevole, ebbene, non ha importanza. Anche perché possiamo constatare il naturale prolungamento delle sue parole in quelle, più tarde di circa sessant’anni, dell’Image du monde di Goussin de Metz. Afferma infatti Goussin che Clergie regne ore a Paris, ausi comme ele fist jadis 95. Il discorso più chiaro, con il quale mi pare si debba essere senz’altro d’accordo, l’ha fatto William A. Nitze, «The so-called Twelfth Century Renaissance», Speculum, 23 (1948), pagg. 464-471: pag. 467: «Obviously, the twelfth century poet is proud of the cultural supremacy of his country. He glories in the fact that culture –that is, chivalry and learning– is domiciled in France […] I can discover in Chrétien words no idea of a rebirth of Antiquity an Frech soil, a humanitas or paideia such as we associate with the Italian Renaissance. Chrétien is extolling no paganization of culture, no «attainment of selfconscious freedom» apart from theological considerations which the real Renaissance attempted. Of that Chrétien, like the rest of his contemporaries, knew nothing; and had he know, Augustinian that he was, he would have rejected it». Contemporaneamente, scriveva le stesse cose Curtius: «Gilson ha creduto di cogliere in questi versi un’espressione dell’ «umanesimo medievale»; ma evidentemente egli non ha tenuto conto di ciò che segue: ‘L’enors qui s’i est arestee, | Deus l’avoit as autres prestee: | car de Grejois ne de Romains | ne dit an mes ne plus ne mains; | d’aus est la parole remese | et estainte la vive brese’ [...] Qui è espresso proprio il contrario di una concezione umanistica», ecc. (Letteratura europea, pagg. 426-427). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 75 a Athenes qui siet en Grece, une cité de grant noblece96. Ma non si limita a ciò, e sviluppa invece un discorso ove di nuovo accoppia chevalerie e clergie e fa del sapere un attributo del potere, avvicinandosi anch’egli al tema del «re filosofo» e dunque a uno dei contenuti tipici della tradizione degli specula pricipum, e indirizzando le sue raccomandazioni al re di Francia: Mès puis qu’ensi est que clergie est en France plus avancie […] Ausi doit li rois miex valoir des autres genz et plus savoir […] Si seroit bien droiz et resons qu’il meïssent lor enfançons en aprendre tele clergie qu’il ne perdissent seignourie après ceste vie volage, car par nature et par lignage doivent il tuit amer clergie. Se non lo facessero, il regno ne sarebbe rovinato perché, a conferma del suo carattere fortissimamente ideologico e «qualitativo», chevalerie è talmente intrecciata a clergie da non poterla mai abbandonare: Si clergie s’en aloit chevalerie la suirroit97. 96. Goussin de Metz, Image du monde, in L’image du monde, une encyclopédie du XIIIe siècle. Édition critique et commentaire de la première version, édité par C. ConnochieBourgne, Paris IV: Thèse 1999, vv. 943-946. Non avendo visto la thèse, cito questi versi da Jean-Marie Fritz, «Translatio studii et déluge: la légende des colonnes de marbre et de brique», Cahiers de civilisation médiévale, 47 (2004), pagg. 127-151: pag. 143. Per il poema di Goussin e le sue due versioni, vedi ora Sara Gentili, «La seconda redazione in versi dell’Image du monde: una riscrittura didattica», Cultura neolatina, 66 (2006), pagg. 161-206, con la bibliografia pregressa. 97. Cito questi altri versi da Charles-Victor Langlois, «L’Image du Monde» (ma il poema è dato ancora per anonimo), in La vie en France au Moyen Âge du XIIe au milieu du XIVe siècle. La connaissance de la Nature et du Monde d’après des écrits français à l’usage des laïcs, Paris: Champion, 1926-1928 [Genève, Slatkine Reprints, 1970], III pagg. 159-160. 76 ENRICO FENZI Voglio intromettere sùbito una mia impressione. In questo passaggio diretto da Atene a Parigi, trascurando la completezza dello schema, la translatio sembra assumere tratti più concreti, quasi se ne sottolineasse implicitamente il carattere culturale e laico: come facevano, abbiamo visto, prima Alcuino e poi Héric d’Auxerre, che già si auguravano, come Goussin, di avere dei re «filosofi». In queste due testimonianze il tendenziale svincolamento della translatio dai suoi riferimenti universalistici è in ogni caso evidente, ed è all’interno di una considerazione empirica, basata sulla realtà, che matura un discorso di tipo pedagogico che non guarda ai grandi cicli che passano troppo alti sulla testa degli uomini e si fanno percepibili solo a distanza, a cose fatte, ma piuttosto proietta la possibilità della translatio nel presente e comincia a concepirla come un programma: che i re siano sapienti ed educhino i loro figli al sapere, altrimenti perderanno tutto... Ma non, ripeto, i re in generale: questi re qui, invece, i re di Francia che già godono lo straordinario, unico privilegio di avere, dietro di sé, un modello come quello di Carlo Magno. Tra Chrétien e Goussin sta infatti Giraud de Barri che verso il 1217 dedica una sua Principis instructio al futuro Luigi VIII nella quale già chevalerie e clergie/philosophia e militia, vanno insieme nel definire i fondamenti dell’educazione del principe, alla luce dell’esempio già fornito da quei grandi: «Philosophiae militiaeque se comitari semper studia solent [...] sicut et olim in Francia sub Pipinis, Carolis et sub eorumdem usque in hodiernum regia prole»98. Carlo Magno resta, insomma, il vettore esplicito o implicito di quasi ogni discorso che associ regalità e sapere, nel quadro per altro assai delicato, come hanno mostrato gli studi di Elizabeth Brown, del reditus regni francorum ad stirpem Caroli imperatoris: un reditus che avrebbe dovuto saldare la frattura tra carolingi e capetingi conferendo a questi ultimi piena legittimità99. In ogni caso, di là 98. Giraldus Cambrensis, De principis instructione liber, in Opera, edited by Warner, Rerum Brit. Medii Ævi Scriptores- Rolls Series XXI, London: Longman, 1891, VIII, pagg. 6 ss. (vedi, per il giglio, pagg. 320-321). 99. Degli studi di Elizabeth A. R. Brown sull’argomento, si veda in particolare «La notion de la légitimité et la prophétie à la cour de Philippe Auguste», in La France de Philippe Auguste. Le temps des mutations. Actes […] 29 sept.-4 octobre 1980, dir. Robert-Henri Bautier, Paris: Centre Nat. de la Recherche Scientifique, 1982, pagg. 77-110, con tavole genealogiche e appendice di testi inediti; ead., «Vincent de Beauvais and the ‘reditus regni francorum ad stirpem Caroli imperatoris’», in Vincent de Beauvais: intentions et réceptions d’une œuvre encyclopédique au moyen âge. Actes [...] 27-30 avril 1988, dir. Monique Paulmier-Foucart, Serge Lusignan & Alain Nadeau, Saint Laurent & Paris: Maison Bellarmin & Vrin, 1990, pagg. 167-196, con appendice di testi inediti. La Brown mostra bene le origini e lo sviluppo della teoria di un siffatto reditus, che avrebbe conferito legittimità dinastica ai capetingi solo «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 77 dalle questioni strettamente genealogiche e dinastiche, la proiezione della figura di Filippo Augusto su Carlo Magno è affatto naturale, ed è tratto costante dei suoi primi biografi e apologeti, Rigord, Guillaume le Breton, Gilles de Paris, quello di paragonarlo al grande predecessore e di invitarlo a ripeterne le gesta100. E in maniera altrettanto naturale anche l’idea della translatio finisce per riproporsi proprio nell’associazione con Carlo Magno, com’è in Vincenzo di Beauvais, che in un capitolo anch’esso più volte citato del suo Speculum historiale scrive, a proposito dell’abbazia di san Martino di Tours: Hoc itaque monasterium post hoc, ut dictum est, donante Carolo suscepit regendum Alcuinus, scientia vitaque preclarus, qui sapientie studium de Roma Parisios transtulit, quod illuc quondam a Grecia translatum fuerat a romanis. Fueruntque Parisiis fundatores huius studii quatuor monachi, Bede discipuli Rabanus et Alcuinus, Claudius et Ioannes Scotus101. attraverso il matrimonio di Filippo Augusto con Isabella figlia di Balduino V di Hainaut che vantava sangue carolingio discendendo da Ermengarda, figlia di Carlo di Lorena, fratello di re Lotario, al quale, dopo la sospetta morte del figlio di quest’ultimo, Luigi V, re per soli quattordici mesi, Ugo Capeto avrebbe usurpato il trono nel 987 (e in piena riscossa carolingia fu poi eliminato, in seguito al tradimento di Adalberone di Laon). Ciò spiega come i re capetingi non gradissero troppo una tale legittimazione, che valeva in quanto li trasformava in «carolingi», e in ispecie Filippo il Bello le si mostrò avverso, e procurò di cancellarne le tracce. 100. Vedi E. Brown, La notion de légitimité, pagg. 81-82 e note, e soprattutto le minuziose schedature di Raymond Foreville, «L’image de Philippe Auguste dans les sources contemporaines», e di Yves Lefèvre, «L’image du roi chez les poètes», nel citato volume La France de Philippe Auguste, rispettivamente pagg. 115-130, e pagg. 133-144, donde si trarranno molte altre preziose indicazioni. Per le edizioni, vedi Œuvres de Rigord et de Guillaume Le Breton, historiens de Philippe Auguste [...] a cura di Delaborde, Paris: Renouard, 1882-1885 (ma precedentemente anche nel Recueil des historiens de la Gaule, Paris: Palmé, 1878, vol. XVII); Marvin L. Colker, «The Karolinus of Egidius Parisiensis», Traditio, 29 (1973), pagg. 199-325. 101. Vincenzo di Beauvais, Speculum historiale XXIII 173, Douai: Baldassarre Belleri, 1624 (rist. anastatica, Graz: Akademische Druk-u. Verlagsanstalt, 1964). Ma più o meno in quegli anni dice le stesse cose anche Jean de Galles nel suo Compendiloquium, pars X cap. 6: De translatione studii usque Parisium et quo tempore et a quibus translatum sit. Il tempo è quello, appunto, di Carlo Magno, e gli attori della translatio approdata, dopo la Grecia e Roma, a Parigi (onde «Franci equati sunt Romanis et Atheniensibus») sono nell’ordine Rabano Mauro, Alcuino, Claudio di Torino, Giovanni Scoto, ai quali va aggiunto Beda. Il capitolo di Jean de Galles sta nella parte conclusiva dell’opera, a segnalare, dopo la fitta rassegna di filosofi antichi, dove abiti al presente il sapere: il successivo capitolo 7 si sofferma sul nome di Parigi; l’8 s’intitola De ydoneitate illius civitatis et loci ad opus studentium, e il 9 accenna al vaticinium Merlini letteralmente ed esplicitamente ripreso dal De naturis rerum di Alessandro Neckam, edited by Wright (l’edizione comprende anche il De laudibus divinae sapientiae: vedi 78 ENRICO FENZI La fonte lontana, come si vede, è sempre nei Gesta Karoli di Notker, anche se ora è meglio precisata l’identità dei quattro studiosi, Rabano Mauro, Alcuino, Claudio di Torino e Giovanni Scoto. E Notker ancora è tradotto nelle Grandes croniques de France con alcuni significativi aggiornamenti (in Notker tutto ciò avveniva «sancti Martini iuxta Turonicam civitatem»): Quant Albins, par sornom Alcuins, qui Anglois estoit et demeroit encores en son païs, oï dire que li empereures recevoit ensi les religieus et les sages hommes qui a li venoient, il quist une nef et passa en France et à l’empereur vint et mena aucuns compagnons avec lui [...] Tant multiplia et fructifia sa doctrine à Paris que, Dieu merci! la fontaine de doctrine et de sapience est a Paris aussi come elle fu jadis a Athenes et à Rome102. Ma a questa altezza, da Vincenzo di Beauvais in avanti, il discorso si allarga ancora, perché diventa difficile isolare il tema specifico della translatio dall’insieme delle testimonianze che elaborano il grande mito dell’eccellenza francese. Ma ciò avviene, è opportuno ricordarlo, nel quadro della straordinaria promozione della natura divina della monarchia orchestrata da Luigi IX103 e della mobilitazione intellettuale a difesa di un regno che da avanti, nota 115), London: Longman, 1863, cap. 174, De locis in quibus artes floruerunt liberales, pagg. 308-311. Secondo tale «vaticinio» al tempo di Merlino la sapienza sarebbe passata in Inghilterra, a Oxford; ma ecco l’intero interessante passo di Alessandro, citato cent’anni dopo da Jean de Galles solo nelle sue ultime righe: «Quid de Salerno et Montepessulano loquar, in quibus diligens medicorum solertia utilitati publicae deserviens, toti mundo remedium contra corporum incommoditates contulit? Civilis juris peritiam vendicat sibi Italia; sed coelestis scriptura et liberales artes civitatem Parisiensem caeteris praeferendam esse convincunt. Iuxta vaticinium etiam Merlini viguit ad Vada Boum [Oxford, già Oksnaford, ‘ford of oxen’] sapientia tempore suo ad Hiberniae partes transitura» (pag. 311). Cito il Compendiloquium dall’incunabolo di Venezia, Giorgio Arrivabene, 1496, cc. 231rv-232r, che comprende anche il Communiloquium, il Breviloquium e il De vita religiosa del medesimo Jean, sul quale vedi l’ampio capitolo di Barthélemy Hauréau nella Histoire littéraire de la France, Paris: Académie des Inscriptions et Belles Lettres, 1869, pagg. 177-200 [rist. anastatica, Nendeln/Liechtenstein: Kraus Reprint, 1971]. 102. Les Grandes Chroniques de France, a cura di Viard, Paris: Champion, 1923, III, pagg. 157-158. Questo passo è già in E. Gilson, Les idées et les lettres, pag. 185. 103. Obbligato il rinvio al libro di Jacques Le Goff, Saint Louis, Paris: Gallimard, 1996 (specie la seconda e terza parte). Circa il carattere divino della monarchia di Francia, è assai interessante lo studio di Chiara Mercuri, «Stat inter spinas lilium: le Lys de France et la couronne d’épines», Le Moyen Âge, 110, 3-4 (2004), pagg. 497-512, che considera la ricaduta propagandistica e ideologica dell’acquisto da parte di Luigi IX della reliquia della corona di spine di Gesù (Balduino di Fiandra, imperatore di Costantinopoli, aveva bisogno di denaro, «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 79 tempo aveva ormai rivendicato la propria assoluta indipendenza dall’impero e però stava tuttavia elaborando le armi giuridiche per confermarla definitivamente, e che si stava inoltre preparando ad affrontare il duro scontro con il papa in materia di autonomia e pienezza dei propri poteri104. Al possibile ventaglio di altre testimonianze, in ogni caso disponibili negli eccellenti studi dedicati all’argomento, è semmai preferibile sottolineare, a questo punto, un elemento la cui centralità è stata messa in luce da Serge Lusignan105. Quando, nel XIII secolo e oltre, si celebra la supremazia che fa di Parigi l’Atene dei tempi moderni, non ci si riferisce a una generica e per la verità taciuta produzione artistica e letteraria (nulla ci permette di e l’avrebbe in ogni caso venduta ai Veneziani). Come scrive la Mercuri, «Ce fut l’extraordinaire coup de maître de Louis IX: il ne fit pas que découvrir une relique, il exploita plutôt ses valeurs symboliques, en profitant de la correspondance parfaite entre sa propre identité de roi et le caractère royal de la relique. Cette coïncidence exceptionelle fit que l’opération de Louis IX, d’un point de vue symbolique, est sans précédent»: Cristo e Luigi IX partecipano della medesima dignità reale, e la regia parisiensis diventa il Sancta Sanctorum del reame nel quale è custodita la corona. E quando alla fine dei tempi, come dice la Bibbia, Cristo riprenderà la sua corona, lo farà venendo a Parigi. 104. Altro fascio di temi al quale ora è strettamente connesso quello della translatio, per il quale mi permetto di rinviare alla bibliografia segnalata e in parte discussa in Enrico Fenzi, «Tra religione e politica: Dante, il mal di Francia e le sacrate ossa dell’esecrato san Luigi (con un excursus su alcuni passi del Monarchia)», Studi danteschi, 69 (2004), pagg. 23-117 (85 ss). 105. Serge Lusignan, «L’Université de Paris comme composante de l’identité du Royame de France: étude sur le thème de la ‘translatio studii’», in Identité régionale et conscience nationale en France et en Allemagne du Moyen Âge à l’époque moderne. Actes […] 6-7 et 8 octobre 1993, édité par Rainer Babel & Jean-Marie Moeglin, Sigmaringen: Jan Thorbecke Verlag, 1997, pagg. 59-72. Ma si dica che in forma essenziale tutto ciò era già nel saggio fondamentale di Francisco Rico, che occorrerà citare ancora, «Aristoteles Hispanu’», in Texto y contextos. Estudios sobre la poesía española del siglo XV, Barcelona: Editorial Crítica, 1990, pagg. 55-94 (57-59): si tratta della ristampa riveduta e ampliata di «Aristoteles Hispanus en torno a Gil de Zamora, Petrarca y Juan de Mena», Italia medioevale e umanistica, 10 (1967), pagg. 143-164. Dello stesso Lusignan vedi ancora «La topique de la ‘translatio studii’ et les traductions françaises de textes savants au XIVe siècle», in Traductions et traducteurs au Moyen Âge. Actes [...] 26-28 mai 1986, édité par Geneviève Contamine, Paris: Éditions du Centre Nat. de la Recherche Scientifique, 1989, pagg. 303-315. È dagli studi di Lusignan che si ricavano molte altre importanti testimonianze sull’esaltazione della translatio in terra di Francia: Alessandro Neckam, Jean Corbechon, Tommaso d’Irlanda (un suo testo al proposito, dato come inedito dal ms. di Parigi, Bibl. Nat. 15966, fol. 7rv, è pubblicato in appendice a L’Université de Paris comme composante de l’identité du royame, pagg. 71-72: ma vedi già Marie-Dominique Chenu, Introduction à l’étude de Saint Thomas d’Aquin, Montréal & Paris: Inst. d’Études Médiévales & Vrin, 1954, pag. 22 e nota, e soprattutto É. Jeauneau, Translatio studii, pagg. 51-54, che già l’aveva pubblicato dall’altro ms. parigino, Bibl. Nat. 16397, fol. 12v), e soprattutto Nicole Oresme (siamo alla fine del ‘300), la cui posizione ricca e complessa è illustrata da Lusignan in Parler vulgairement, in part. pagg. 162 ss. 80 ENRICO FENZI piegare in questo senso l’idea di translatio) ma piuttosto, in maniera specifica, all’Università, sullo sfondo di una città che lasciava a bocca aperta i visitatori per la qualità della vita e per le sue molteplici attrattive. In un modo o nell’altro la celebrazione della clergie tocca sempre questo ch’è il suo cuore pulsante, il cui ruolo è sentito come fondamentale entro la struttura medesima del regno. Ricordo brevemente. Per quanto rimangano varie incertezze, si sa che, dopo una lunga fase informale, l’Università di Parigi cominciò a svilupparsi e ad organizzarsi durante il regno di Filippo Augusto che in un famoso documento del 1200 assicurò la speciale protezione della giustizia reale verso gli scolares Parisienses. Nel 1219 i loro privilegi furono confermati e allargati, sì che «à la mort de Philippe Auguste, l’université de Paris était incontestablement parfaitement constituée, sa personnalité morale et juridique bien établie, ses privilèges fondamentaux acquis, ses premiers statuts rédigés»106. La crescita fu rapida e spettacolare, ed ebbe il suo momento decisivo tra il 1220 e il 1230, gli anni delle grandi bolle papali (la Parens scientiarum di Gregorio IX, nella quale Parigi è appunto la splendente città delle lettere e la madre delle scienze, è dell’aprile 1231)107 e di maestri come Guglielmo d’Auxerre, Guglielmo d’Auvergne, Alessandro di Halès, Alberto Magno, che ne fecero, insieme a Oxford, la roccaforte dell’aristotelismo (san Bonaventura insegnò a Parigi dal 1253 al 1257, e san Tommaso dal 1252 al 1259 e dal 1268 al 1272). Allora, Guillaume le Breton poteva 106. Così Jacques Verger, sul quale soprattutto mi baso, «Des écoles a l’Université: la mutation institutionnelle», in La France de Philippe Auguste, pagg. 817-845 (830). Oltre a questo fondamentale saggio si veda, tra i vari contributi dello stesso Verger, lo studio d’insieme Les universités au Moyen Âge (1973), Paris: PUF, 1999. Ma, tra la folta bibliografia, vedi ancora Hastings Rashdall, The Universities of Europe in the Middle Ages, a cura di F. M. Powicke & A. B. Emden. Oxford: Clarendon Press, 1987 (prima ed., 1936): qui, sull’Università di Parigi, I, cap. 5, pagg. 269-584 (in part. pagg. 540 ss., per il suo prestigio e la sua influenza); A. G. Traver, «Rewriting History? The Parisian Secular Masters’ ‘Apologia’ of 1254», History of Universities, 15 (1997-1999), pagg. 9-45 (con vasta bibliografia); Universities and Schooling in Medieval Society, edited by William J. Courtenay & Jürgen Miethke, with the assistance of David B. Priest, Leiden: Brill, 2000; Christoph Friedrich Weber, «‘Ces grands privilèges’: The Symbolic Use of Written Documents in the Foundation and Institutionalization Processes of Medieval Universities», History of Universities, 19 (2004), pagg. 12-62 (16-23). 107. Vedi il Cartularium Universitatis Parisiensis, a cura di Denifle-Châtelain, 1889, I, pagg. 138-139, num. 79. Su una successiva lettera di Gregorio IX, la Animarum lucra querentes, del gennaio 1237, seppure dall’angolazione particolare del ruolo dei Vittorini nell’origine dell’Università, vedi Marshall E. Crossnoe, «Education and the Care of Souls: pope Gregory IX, the Order of St. Victor, and the University of Paris», Mediaeval Studies, 61 (1999), pagg. 137-172. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 81 scrivere che sia l’Egitto, nel quale era nata ogni scienza, che Atene erano state ormai superate da Parigi, e dava quindi per compiuta sotto ogni aspetto la translatio del sapere: In diebus illis studium litterarum florebat Parisius, nec legimus tantum aliquando fuisse scholarium frequentiam Athenis vel Egypti, vel in qualibet parte mundi quanta locum predictum studendi gratia incolebat108, mentre più tardi, esaltando il ruolo di Luigi IX nel comporre il grave scontro che aveva opposto, nel 1230, i chierici dell’Università e le autorità di Parigi (lo stesso che diede origine alla Parens scientiarum), Guillaume de Nangis riassumeva in un bel passo del suo Chronicon il valore fondante dell’istituzione attraverso l’immagine del giglio, simbolo, a partire da un’ordinanza del 1147 di Luigi VII, della monarchia capetingia. Nel fiore, il petalo più alto, al centro, rappresenta la fede, e i due laterali che lo custodiscono e lo difendono rappresentano la sapienza e la cavalleria, entrambi indispensabili a mantenere la Francia pacifica, forte e ordinata: se uno dei due venisse tolto o deformato, la Francia intera ne patirebbe una ferita irreparabile, perché ne sarebbe alterato quel mirabile equilibrio che Dio stesso ha voluto per manifestare a tutto il mondo l’eccellenza della nazione109. 108. Œuvres de Rigord et Guillaume Le Breton, pag. 230 (citato da Verger, Des écoles à l’université, pag. 840, nota 88). 109. Ecco il passo, per altro più volte citato dagli studiosi: «Enimvero si tam pretiosissimus thesaurus sapientiae salutaris a regno Franciae tolleretur, maneret utique liliatum signum regum Franciae mirabiliter deformatum; nam ex quo Deus et Dominus noster Jesus Christus fide, sapientia et militia specialius quam cetera regna, voluit regnum Franciae illustrare, consueverunt reges ipsi Franciae in suis armis et vexillis florem lilij depictum trino folio comportare, quasi dicerent toti mundo, fides, sapientia et militiae probitas abundantius quam regnis ceteris sunt regno nostro Dei providentia et gratia servientes. Duo enim paria folia sapientiam et militiam significant, quae fidem trinum folium significantem, et altius in mediorum duorum positam, custodiunt et defendunt; nam fides gubernatur et regitur sapientia, atque militia defensatur. Quamdiu enim praedicta tria fuerint in regno Franciae pacifice, fortiter et ordinatim sibi invicem cohaerentia, stabit regnum; si autem de eodem separata fuerint vel avulsa, omne regnum in se ipsum divisum desolabitur atque cadet» (Guillaume de Nangis, Chronicon, RHGF XX, pag. 546, sub 1230). Ma va detto che, con qualche variante, esso è anche nei Gesta Sancti Ludovici dello stesso Guillaume, e naturalmente nella versione francese stampata a fronte, ibid., pagg. 320 e 321: è di qui che cita Lusignan, «L’Université de Paris comme composante de l’identité du royaume», pag. 63. Nei Gesta Guillaume menziona, accettandola, la leggenda che unificava il san Dionigi francese e Dionigi l’Areopagita, primo vescovo di Atene, in un unico personaggio, e forniva così un appiglio «storico» alla translatio: vedi al proposito, citato da Lusignan, Raymond J. Loenertz, «La légende 82 ENRICO FENZI Era da tempo, del resto, che la città stupiva per le sue attrattive e la sua vivacità intellettuale, e Giovanni di Salisbury ne è buon testimone, nel 1164, quando la descrive a Tommaso di Canterbury come una sorta di paradiso, e ne fissa i caratteri che poi spesso ritroveremo: a proposito revocato Parisius iter deflexi. Ubi cum viderem victualium copia, letitiam populi, reverentiam cleri, et totius ecclesie majestatem et gloriam et varias occupationes philosophantium, admirans velut illam scalam Jacob, cuius summitas celum tangebat, eratque via ascendentium et descendentium angelorum [Gen. 24, 12-16], lete peregrinationis urgente stimulo coactus sum profiteri, quod vere Dominus est in loco isto, et ego nesciebam110. Fondanti in questo senso sono anche i versi che Jean de Hauville dedica a Parigi nel suo Architrenius (1184) e che Petrarca, ribattendo a Jean de Hesdin più o meno ottant’anni dopo, citerà con disprezzo, nei quali troviamo condensati i motivi topici della ‘lode di Parigi’, nuova reggia di Apollo e capitale culturale del mondo: [...] Eunti [ad Achitrenio] exoritur tandem locus: altera regia Phebi Parisius, Cirrea viris, Crisea metallis, Greca libris, Inda studiis, Romana poetis, Attica philosophis, mundi rosa, balsamus orbis, Sidonis ornatu, sua mensis et sua potu, dives agris, fecunda mero, mansueta colonis, messe ferax, inoperta rubis, nemorosa racemis, plena feris, piscosa lacu, volucrosa fluentis, munda domo, fortis domino, pia regibus, aura dulcis, amena situ, bona quolibet: omne venustum, omne bonum, si sola bonis Fortuna faveret! 111. parisienne de S. Denys l’Aréopagite, sa genèse et son premier témoin», Analecta Bollandiana, 69 (1951), pagg. 217-237. Da quel giglio potevano però uscire anche brutte sorprese, come Guillaume medesimo denuncia nel Chronicon, pag. 622, sub 1318: «Circa ista tempora de flore lilii Parisius studii exierunt duo filii nequam genimina viperarum, scilicet magister Johannes de Janduno natione gallicus, et magister Marsilius de Padua natione italicus». 110. Chartularium Un. Par., num. 19, I, pagg. 17-18. 111. Johannes de Hauvilla, Architrenius, edited by Winthrop Wetherbee, Cambridge & New York & Melbourne: Cambridge University Press, 1994, pag. 58, cap. 17, Quod Architrenius Parisius venit: II 481-493 (vedi l’importante recensione al volume di Antonio Placanica, Studi Medievali, s. 3, 40 (1999), pagg. 739-754). Per la citazione di questi versi in Jean de Hesdin e in Petrarca, nel suo Contra eum, vedi avanti, nota 139. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 83 Più o meno negli stessi anni anche Filippo di Harvengt celebrava Parigi con toni iperbolici, definendola una nuova Gerusalemme ove risuona il decacordo di David, le profezie di Isaia e la sapienza di Salomone («Felix civitas, in qua sancti codices tanto studio resolvuntur, in qua tanta lectorum diligentia, tanta denique scientia scripturarum, ut in modum Cariath Sepher merito dici possit civitas litterarum»)112. In un’altra lettera a Richero ripete le stesse cose, esortandolo ad approfittare appieno di quelle straordinarie possibilità di studio, e in una terza, a Enghelberto, tocca il motivo che sarà poi caro a Petrarca, della necessità di protrarre gli studi sino alla più tarda età, e lo intreccia a una sommaria storia del sapere filosofico, trasferito ad Atene da Platone che l’avrebbe appreso prima in Egitto e poi in Italia presso i pitagorici, mentre poi Catone, già adulto, l’avrebbe appreso dai testi greci. E continua, dopo aver così suggerito il tema della translatio: Non enim Parisius fuisse, sed Parisius honestam scientiam acquisisse honestum est. Non itaque tibi sufficit, si musas, si fontem Heliconium tu vidisti, si de illius rivulo guttam modicam tu hausisti, si videas illius rore tenuissimo te perfundi, ejus autem adhuc affluentiam tibi plenius non infundi. Denique ipsa philosophia, que proponit studentibus fontem lucidum Heliconis, non satis esse judicat solum hujus beneficium visionis; et cui acre et acutum ingenium dat Platonis, cui flores et ornatam eloquentiam Ciceronis, cui largitur illius tui Socratis documenta, cui Aristotelis revelat manifestius argumenta, cum profecto vult gutta vel rore modico non aspergi, sed ejus fonti vivido diutius incumbere vel immergi113. Una bella e mossa descrizione della dolce, gioconda, deliziosa Parigi è anche in una contemporanea lettera di Guido de Bazoches, che in particolare si ferma sull’isola formata dalla Senna, e sul Gran Pont traboccante di merci e traffici e attività, e sul Petit Pont occupato da chi vi passeggia impegnato in discussioni filosofiche, mentre sull’isola... In hac insula regale sibi solium ab antiquo filosofia collocavit [...] In hac insula perpetuam sibi mansionem septem pepigere sorores, artes videlicet 112. Chartularium Un. Par., num. 51, lettera a Ergaldo, I, pag. 50. Cariath Sepher è la biblica «città dei libri» o «città degli archivi», fatta conquistare da Caleb: Ios. 15, 15: «Dabir, quae prius vocabatur Cariath Sepher, id est, civitas litterarum»; Iud. 1, 11: «abiit ad habitatores Dabir, cuius nomen vetus erat Cariath Sepher, id est, civitas litterarum». 113. Chartularium Un. Par., num. 52, lettera a Richero, I, pagg. 50-52; num. 53, lettera a Enghelberto, I, pagg. 53-55: pag. 54. 84 ENRICO FENZI liberales, et intonante nobilioris eloquentie thuba decreta leguntur et leges. Hic fons doctrine salutaris exuberat et, quasi tres rivos ex se limpidissimos ad prata mentium irriganda producens, dividit tripliciter intellectum sacre pagine spiritalem in hystoricum, allegoricum et moralem114. L’immagine dell’Università come copiosa sorgente di sapienza che questi testi presentano diventa canonica, tornando a più riprese: per esempio in una lettera di Gregorio IX (1229): «Fluvius profecto est litterarum studium, quo irrigatur et fecundatur post Spiritus Sancti gratiam paradisus generalis ecclesie, cujus alveus Parisiensis civitas...»; in una lettera di Alessandro IV (1256), ch’è tutto un intreccio di metafore celebrative, da quella del sole («Parisius peritie summe sinus de sue scientie plenitudine replens orbem et tanquam fulgidus sol doctrine per totum orbem clare intelligentie lumen fundens, depellit ignorantie tenebras, ruditatis abstergit caliginem..., ecc.) a quella della fonte («rigat documentorum suorum fluentis Parisius omnem terram [...] De Parisius itaque fons limpidus scientiarum emanat, de quo potant cunctarum populi nationum. Ibi erumpit altus puteus scripturarum, de quo profunde intelligentie pocula mundus haurit...», ecc.)115; in una lettera di Filippo IV (1313), nella quale gli studenti «sitientes ad aquas veniunt vivi fontis fluenta sumentes, ubique rivos derivant ex quibus mundus sui diversis partibus irrigatur»; in una lettera di Giovanni XXI (1317): Nostis etiam, cum nullum fere orbis angulum lateat, quot et quantos viros luminosa scientia preditos ac honesta conversatione decoros Parisiense studium ad illuminationem gentium divinitus institutum huc usque produxerit et producere jugiter non desistit, qui sui fluenta diffundentes eloquii universalem ecclesiam longe lateque diffusam multipliciter irrigarunt et irrigant116. Ora, è importante sottolineare che queste sono, tutte o quasi tutte, autocelebrazioni fortemente interessate attraverso le quali la Chiesa afferma il 114. Chartularium Un. Par., num. 54, I, pagg. 55-56. Anche Alessandro Neckam nel suo De laudibus divinae sapientiae ricorda il Petit Pont come il luogo più famoso di Parigi: «Hortarer te Parisius partesque remotas | visere, sed tenet me maris unda tumens. | Vix aliquis locus est dicta mihi notior urbe, | qua Modici Pontis parva columna fui» (ed. Wright, pag. 503, vv. 331-334). Vedi avanti, nota 144. 115. Chartularium Un. Par., num. 70, I, pag. 127; num. 296, I, pagg. 342-343. 116. Chartularium Un. Par., num. 701, II, pag. 160; num. 738, II, pag. 198. Per l’affluenza degli studenti di tutta Europa, vedi ancora per esempio ibid. num. 164, I, pag. 194, e num. 398, I, pagg. 439-440. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 85 proprio primato e monopolio dottrinale ed esalta la sua più illustre istituzione scolastica117, fatta segno, nel tempo, di significativi atti d’omaggio: Filippo Augusto, sùbito dopo Bouvines invia tre messaggi per annunciare la vittoria: uno al figlio, uno a Federico di Hohenstaufen e uno all’Università di Parigi118; Manfredi, nel 1263, dona i suoi codici all’Università...119 Che poi dietro l’immagine della propaganda si agitasse un mondo assai più complesso e problematico, e che la cappa della censura e del condizionamento pesasse molto, come ha ben mostrato Luca Bianchi120, è un altro discorso, che non intacca l’universale prestigio dello studium parigino e dei suoi maestri. Ma se è l’Università, come Lusignan ha precisato, ad essere celebrata come l’insuperabile paradiso della clergie, ebbene, il discorso critico si riapre perché diventa impossibile nascondere il fatto che attraverso di essa si celebra essenzialmente non già un effettivo percorso attraverso il quale sarebbe stato realizzato il trasferimento della cultura classica entro i saperi moderni, ma si celebra piuttosto, e senza mezzi termini, il trionfo della scolastica sopra e contro quella cultura. A posteriori è facile, e direi inevitabile, fare d’ogni erba un fascio e applicare questa translatio ad ogni espressione della civiltà francese, magari attraverso le parziali aperture suggerite da Chretien de Troyes e Goussin di Metz, ma nulla, ripeto, ci autorizza a farlo. Piuttosto, tutto sta a dimostrare che la translatio è diventata un’arma in più al servizio di una circoscritta affermazione di superiorità: che Parigi sia la nuova Atene, o meglio, che Parigi abbia soppiantato Atene, sta dunque semplicemente a dire che la filosofia scolastica e i laboriosi dogmi della teologia hanno finito di soppiantare il pensiero antico e le sue espressioni culturali. Si rilegga Philippe di Harvengt. Il passo citato sopra, nel quale egli invita Enghelberto a immergersi completamente negli studi, è bello ed efficace ma anche eccezionale e, isolato dal contesto, non fa chiarezza sul fatto che il sapere è, per Philippe, rigorosamente quello 117. Per esempio si dice ch’essa «irrigat et fecundat» in un documento dell’Università stessa, con il quale essa dichiara di non essere responsabile se al suo interno «inveniantur aliqui delinquentes», (Chartularium Un. Par., num. 870, II, pag. 306). Anche Guillaume de Nangis, Chronicon, pag. 554 sub 1251: «Parisius ubi est fons totius sapientiae». 118. Secondo la tradizione, il messaggio avrebbe detto: «Laudate Deum, carissimi, quia nunquam tam gravem conflictum evasimus» (Selecta ex variis chronicis [...] RHFG, XIX, pag. 259). 119. Chartularium Un: Par., num. 394, I pagg. 435-436. 120. Luca Bianchi, Censure et liberté intellectuelle à l’Université de Paris (XIIIe-XIVe siècles), Paris: Les Belles Lettres, 1999. Per i dibattiti interni, già oggetto di numerosi studi, vedi Die Auseinandersetzungen an der Pariser Universität im XIII. Jahrhundert. Her. von Albert Zimmermann für den druk besorgt von Gudrun Vuillemin-Diem (Miscellanea Mediaevalia, 10), Berlin: De Gruyter, 1976. 86 ENRICO FENZI cristiano, e tutto biblico è l’orizzonte di riferimento, da Gerusalemme e Davide e Salomone... Le lettere sono le «sacras litteras, quarum lectio juxta Paulum instruit ad salutem [...] In hoc tamen non falleris, quod non poetarum exigis fabulas et figmenta, non sophistarum laqueos, non decipientium argumenta, non denique aliud quo exultet vanitas, turbetur veritas et vacillet, sed quod tuam foveat et, ut ais, animam refocillet»; l’Università è un «santuario» nel quale l’anima si sposa a Dio e frequenta gli angeli, e i contenuti dell’insegnamento sono già perfettamente definiti, senza sbavature, come in un catechismo: «Hunc [Dio] predicat, hunc attollit, non solum doctorum predicatio vel scriptura, sed omnium rerum creatio, mutabilitas, et natura, que omnia, cum judicio evidenti mutabilitatis insite creata se ostendant, Creatorem increatum et immutabilem astruunt et commendant». Risulta dunque chiaro che Parigi è superiore ad Atene perché si presenta come la reincarnazione della biblica Cariath Sepher, la «città delle lettere», come due volte Philippe la chiama, e come, con scelta di gran significato, la chiama anche Gregorio IX nella prima riga della bolla Parens scientiarum: «Parens scientiarum Parisius velut altera Cariath Sepher, civitas litterarum...». Parigi è Cariath Sepher, non è Atene. Si ammetterà, così, che l’esaltazione di una translatio siffattamente intesa è una mossa che ripropone per intero la questione nel momento stesso che ne stravolge i termini, producendo una versione aggiornata e sofisticata del costante ostile atteggiamento della Chiesa verso la translatio del sapere pagano, e della assoluta rivendicazione, per contro, della propria epocale superiorità: del resto, essa non avrebbe mai potuto ammettere un senso di «mancanza», per quanto parziale e condizionato, verso quel sapere, e non ha dunque mai impostato in termini propri il tema della ricerca di una qualche forma di integrazione delle proprie totalizzanti verità (certo non poteva riconoscere, come Orazio, la propria «rusticità», o addirittura giudicarla un disvalore: «Graecia capta ferum victorem cepit |et artes intulit agresti Latio»). Sì che mi sentirei di affermare che quel sapore diverso, quella minuscola scheggia di genuino entusiasmo per gli antichi testi che a me pare animasse i tempi di Alcuino è ora scomparsa entro la topica prepotente dell’autoaffermazione, e che l’idea di translatio, dopo l’apocalittica e totalizzante ripresa che ne ha fatto Ugo di san Vittore, ha perduto quel suo stretto margine di autonomia e di vita, ed è finita di nuovo in un imbuto senza uscita. Se non fosse così, infatti, troppe cose non si capirebbero: per cominciare, l’Umanesimo sarebbe tranquillamente stato cosa sua. Ma invece proprio là dove la si celebra come cosa fatta, e forse proprio per questo, essa è in verità assente, mentre è altrove –in Italia– che essa comincia davvero ad agire. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 87 5. IMPERO E REPUBBLICA. DALLA TRANSLATIO DI SUPERIORITÀ ALLA TRANSLATIO COME PROGETTO Prima di affrontare questo nuovo capitolo, vorrei fare insieme una deviazione e un passo indietro, per gettare una luce più forte sull’insieme di rappresentazioni e ideologie nelle quali la translatio è immersa, e chiarire più di un aspetto polemico delle sue future vicende. Retrocediamo ancora a Ottone di Frisinga, questa volta nelle vesti di cronista, il quale nei suoi Gesta Friderici imperatoris, II 29-30, racconta a suo modo l’incontro che il Barbarossa ebbe a Sutri con una delegazione romana pochi giorni prima di entrare in città per esservi coronato imperatore da papa Adriano IV, il 18 giugno 1155121. Tale delegazione, formata da industres e litterati (tale notazione ha la sua importanza), tiene un eloquente discorso, al quale l’imperatore risponde con il suo, particolarmente lungo e di grande effetto, che davvero mi spiace non poter qui analizzare come merita. In sostanza, la delegazione si produce in una esaltazione della maestà e della potenza di Roma e delle sue istituzioni alle quali l’imperatore dovrebbe restituire autorità e alle quali dovrebbe rendere omaggio... Ma è meglio lasciarle la parola, almeno per la conclusione: Hospes eras, civem feci. Advena fuisti ex Transalpinis partibus, principem constitui. Quod meum iure fuit, tibi dedi. Debes itaque primo ad observandas meas bonas consuetudines legesque antiquas, mihi ab antecessoribus tuis imperatoribus idoneis intrumentis firmatas, ne barbarorum violentur rabie, securitatem prebere, officialibus meis, a quibus tibi in Capitolio adclamandum erit, usque ad quinque milia librarum expensam dare, iniuriam a re publica etiam usque ad effusionem sanguinis 121. La versione data da Ottone dell’episodio è basata sull’effettiva alleanza dell’imperatore con il papa contro il governo della città ispirato da Arnaldo da Brescia (espulso da Roma poco prima dell’arrivo del Barbarossa, fu catturato presso san Quirico d’Orcia e consegnato all’imperatore che a sua volta lo consegnò a un’ambasceria di cardinali che lo riportarono a Roma ove fu ucciso in circostanze non chiare durante i tumulti seguiti all’incoronazione), e sull’effettivo rifiuto da parte del Barbarossa di sottomettersi alle condizioni che tale governo voleva imporgli (in sostanza, di là da alcuni rituali atti di omaggio, il pagamento di una grossa somma di denaro). Una minuta analisi di quell’incontro, che illustra anche alcune, poi superate, difficoltà insorte tra il papa e l’imperatore per delicate questioni di preminenza, è in Peter Munz, Frederick Barbarossa. A Study in Medieval Politics, London: Eyre & Spottiswood, 1969, pagg. 79-88. Da questo episodio move l’Introduzione de Giuliana Crevatin al Contra eum di Petrarca: vedi avanti, nota 139. 88 ENRICO FENZI propellere et haec omnia privilegiis munire sacramentique interpositione propria manu confirmare122. Così i romani. Ma il Barbarossa duramente interrompe il loro verboso e tutto italiano discorso («cursum verborum illorum de suae rei publicae ac imperii iusticia more Italico longa continuatione periodorumque circuitibus sermonem producturis interrupit»), lo definisce insipido e arrogante e particolarmente sciocco nel suo rievocare le grandezze passate («Agnosco, agnosco, et ut tui scriptoris verbis utar, fuit, fuit quondam in hac re publica virtus. ‘Quondam’ dico...»)123; ricorda che tutto muta sotto il cielo, e che già «per quot annorum curricula ubera delitiarum tuarum Greculus esuriens suxerit», finché «venit Francus» a strappare a Roma quanto rimaneva della sua nobiltà, sì che nulla le è rimasto. Tutto ciò che era suo è passato ormai all’impero germanico: «Penes nos cuncta haec sunt. Ad nos simul omnia haec cum imperium demanarunt. Non cessit nobis nudum imperium. Virtute sua amictuum venit. Ornamenta sua secum traxit. Penes nos sunt consules tui. Penes nos est senatus tuus. Penes nos est miles tuus...». Il discorso sarà ancora lungo, ma la sostanza non cambia e, facendo perno su una citazione di Macrobio, Sat. V 3, 16: «Eripiat quis, si potest, clavam de manu Herculis», l’imperatore respinge con disprezzo tutte le richieste che gli erano state fatte, e con particolare collera, naturalmente, quella di pagare. La translatio imperii non ha dunque lasciato nulla dietro di sé, ché il potere, passando da un popolo all’altro, s’è trascinato dietro le virtù sulle quali era stato edificato e gli ornamenti che lo abbellivano: in una parola, il sapere. E a Roma e all’Italia è rimasta una parola vuota sia di potere che di sapere: insieme alla pungente polemica contro l’ampollosa retorica more italico si osservi anche l’implicita analogia istituita con il Graeculus esuriens, perfetta citazione da Giovenale, III 78, che di fatto proietta sugli italiani quella stessa immagine di verbosa improntitudine ch’era diventata la «marca» del graeculus124. La cosa è, se possibile, ancora più evidente nel lungo poema Ligurinus composto tra il 1181 e il 1184 da Gunther il Cistercense (o il Poeta, der Dichter), dove si ritovano minuziosamente verseggiati i Gesta Friderici di Ottone, compresi quei capitoli con i due contrapposti discorsi (III 360-580). Gunther non si limita dunque a proclamare orgogliosamente 122. Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I Imperatoris, ed. Waitz, MGH SS Rer. Germ. in usum scholarum, 1912, pag. 136: II 28. 123. Idem, pag. 137: II 30. La citazione, con la quale l’imperatore ribatte alle citazioni sallustiane e virgiliane che ornavano il discorso dei romani, deriva da Cicerone, in Catil. I 1, 3. 124. Vedi sopra, nota 34. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 89 sin dal primo libro che è ormai il Reno a dare ordini al Tevere, in versi famosi e spesso citati per essere assolutamente topici del motivo della translatio imperii: Nos, quibus est melior libertas, jure vetusto orba suo quotiens vacat inclyta principe sedes, quodlibet arbitrium statuendi regis habemus. Ex quo Romanum nostra virtute redemptum. hostibus expulsis, ad nos justissimus ordo transtulit imperium; Romani gloria regni nos penes est: quemcumque sibi Germania regem praeficit, hunc dives submisso vertice Roma suscipit, et verso Tiberim regit ordine Rhenus125, ma riprende e dà ampio spazio alla polemica filo-germanica nel terzo, ritraducendo piuttosto fedelmente il racconto di Ottone. Egli comincia con il sottolineare che i deputati romani arrivano dinanzi al Barbarossa «patriae mandata ferentes | conspicuo sermone quidem phalerata, sed astu | et tacitis perplexa dolis» (III 362-364). Il quale Barbarossa vede benissimo «dolos et infecta verba veneno» (ibid. 453), e risponde a tono rivendicando con altrettanta e maggiore eloquenza i suoi diritti e la definitiva forza della translatio (tutto ciò che Costantinopoli ha lasciato a Roma «transtulit in Francos»), sino all’impennata finale126 che risponde alla richiesta di restaurare i poteri delle antiche magistrature (ibid. 437 ss.: «Da libertatem sacrumque repone senatum! | Iam redeat censor, redeat cum consule pretor | et redeant gemini cum dictatore tribuni») e che merita d’esser riferita per intero: Mea respice castra: omnia, que dudum quereris sublata, videbis 125. Gunther der Dichter, Ligurinus, edited by Assmann, MGH SS Rer. Germ. in usum scholarum, 1987, pag. 166: I 246-254. L’episodio è verseggiato anche nell’anonimo Carmen de gestis Frederici I Imperatoris in Lombardia, edited by Schmale-Ott, MGH SS Rer. Germ. in usum scholarum, 1965, pagg. 21 ss.: II 610, ov’è però più breve e più moderato nei toni polemici, e sciolto entro il corso della narrazione. Di esso parla anche, nello stesso giro d’anni, Goffredo da Viterbo, Pantheon, edited by Pertz, MGH SS XXII, 1872, pag. 311: particula XV de gestis Friderici 5-7: «Romanus populus antiquos expetit usus, | rex despexit eum, primatum milite tutus, | nil petit, immo iubet». 126. Idem, 565-579. Anche Gunther mette in bocca al Barbarossa un accenno al Graeculus, ma lo specifica attraverso l’allusione a Manuele I Commeno (1143-1180) e a Ruggero II di Sicilia, morto l’anno prima, presunti difensori di Roma: «Ubi perfidus ille | Greculus et Sicule, vindex tuus» (535-536). 90 ENRICO FENZI nomine mutato sub eadem vivere forma: hic eques, hic pretor, hic consulis atque tribuni imperiosus honos et publica cura senatus. Aspice Teuthonicos proceres equitumque catervas. Hos tu patricios, hos tu cognosce quirites, hunc tibi perpetuo dominantem iure senatum. Hii te, Roma, suis –nolis licet ipsa– gubernant legibus, hii pacis bellique negocia tractant. Sed libertatis titulos antiquaque legum tempora commemoras: quas leges, improba, preter Teuthonicas aut que preter mea iura requiris? Que tibi libertas poterit contingere maior quam regi servire tuo? Questi, ora sono i patrizi. E questi i quiriti, e questo il senato... La translatio prevede vincitori e vinti, e in questo quadro gli italiani appaiono come quelli che hanno perso, per sempre. Tutto chiaro e semplice, dunque? Non proprio, perché, a ben vedere, la situazione ha qualcosa di paradossale. Ho appena accennato, sopra, ad Arnaldo da Brescia, sacrificato da Barbarossa all’alleanza con il papa. I ritratti di Arnaldo sono ovviamente pessimi, in Ottone e in Gunther e in genere nei cronisti filo-imperiali127, e marcati in modo pesantemente negativo sono i discorsi dei deputati romani. Ma tali discorsi, letti in controluce, si rifanno precisamente agli ideali arnaldiani di liberazione di Roma dal dominio del papa e di restaurazione dell’antica repubblica, chiaramente vagheggiata con una sorta di passione antiquaria davvero non dissimile a quella che animerà quasi duecento anni dopo Cola di Rienzo. E il paradosso, allora, sta appunto in questo, che ci viene sceneggiato lo scontro tra due translationes: quella imperiale rappresentata dal Barbarossa, biblicamente caratterizzata come una pura traslazione di potere rimessa in ultima analisi nelle mani di un Dio che ha già detto la sua («Eripiat quis, si potest, clavam de manu Herculis»), e l’altra, repubblicana, che non è caratterizzata nel senso del potere (che infatti non ha), ma piuttosto in quello eminentemente progettuale che muove da una visione attualizzante della romanità, della quale la translatio è propriamente l’anima. Ecco allora, da una parte, una idea di translatio quale quella vista sin qui, ove essa sempre compare come qualcosa di già realizzato e dunque come pretesto per celebrazioni adulatorie e affermazioni di superiorità, non importa quanto 127. Vedi soprattutto Arsenio Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo 12, Roma: Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1954 (rist., Torino, Einaudi, 1989). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 91 fondate. E dall’altra l’idea profondamente diversa secondo la quale la translatio è piuttosto un obiettivo sia materiale che spirituale tutto da conquistare. In questo, sia pure detto in forme estremamente semplificate, consiste l’origine del cammino diverso che la translatio ha preso in Italia, ove sin dall’inizio, almeno a partire dal sogno di Arnaldo, essa ha assunto il carattere di un «desiderio», di una aspirazione all’antico che si concretizza nel miraggio di una restaurazione repubblicana e implica un progetto strettamente e direi tecnicamente intellettuale di studio e conoscenza del mondo romano. L’Italia dunque, con le sue repubbliche cittadine, la sua contorta politica, la sua verbosità e le sue nostalgie... Ad essa l’idea di una translatio imperii in termini imperiali, appunto, è estranea (del tutto appartata, seppur sullo sfondo degli ultimi teorici dell’impero, è la posizione di Dante), o assume forme particolari. Sin qui abbiamo visto che è il trasferimento del potere a trascinare con sé quello del sapere. In Italia, invece, sembra prendere corpo il mito contrario, dal sapere al potere: è il sapere, la translatio studii, che assume profondo valore compensatorio e nutre il risorgente fantasma di un riscatto politico. All’ombra della frantumata e localistica realtà italiana e dell’ideale repubblicano e comunale si fa largo assai presto il mito culturale di una translatio reipublicae di marca romana128, e di essa 128. Leggo in un saggio di Martin Gosman, dedicato al pensiero politico di Alain Chartier (primi tre decenni del XV secolo), che il mito della Roma antica ha basi frammentate e incoerenti, e che si tende a confondere la Roma repubblicana e la Roma imperiale, e che Chartier, appunto, «mescola gioiosamente» le due diverse immagini («Alain Chartier: Le mythe romain et le pouvoir royal français», in Entre fiction et histoire, cit., pagg. 161-182 (163 e 169-170). Ma può essere che questo, presentato come un dato generale, sia solo il frutto della modesta e certamente arretrata, ancorché allegra, cultura dell’autore, in una fase in cui sicuramente la translatio ha abbandonato la Francia. Basti quanto scrive Beryl Smalley, «Sallust in the Middle Ages», in Classical Influence on European Culture A. D. 500-1500, edited by R. R. Bolgar, Cambridge: Cambridge University Press, 1971, pagg. 165-175 (167): «It is true that the Roman Principate, first as praeparatio evangeli and then as prolonged in the Christian Roman empire, did loom larger than the Republic in mediaeval thought. The pathos of Roman ruins, as visible in the Middle Ages, naturally recalled the Rome of the Caesars. But readers of Sallust knew perfectly well that the Roman people had flourished and had won their most striking victories in the good old days of early Roman tradition, after shaking off the yoke of their kings. Sallust even foreshadowed the mediaeval translatio imperii in explaining the rise of Rome to greatness» (vedi sopra, nota 33). Ma ancora, per non dire altro, uno dei motivi conduttori dello studio minuzioso di Petrarca sul testo di Livio è proprio l’attenzione alla specificità politica e istituzionale della Roma repubblicana (del resto, Petrarca ha anche «inventato» l’eroe eponimo della repubblica da contrapporre a Giulio Cesare, e cioè Scipione). Insomma, tutto si può dire, ma non che la questione delle due Rome, la repubblicana e l’imperiale, non fosse da quel dì all’ordine del giorno e non fosse, quella dicotomia, una componente decisiva del pre-umanesimo come dell’umanesimo maturo. Sul punto, si veda ora soprattutto il saggio di Tanturli citato nella nota che segue. 92 ENRICO FENZI primo grande testimone è Brunetto Latini, il «maestro» dei fiorentini e di Dante in particolare, che, come si sa, gli rilascia un riconoscimento tutto speciale nel canto quindicesimo dell’Inferno129. Brunetto, in virtù di un approccio personale e diretto ai testi di Lucano e di Cicerone, ha infatti messo perfettamente a fuoco quella stessa interpretazione repubblicana della storia di Roma che vale come contenuto caratterizzante dell’umanesimo, e che sarà poi riproposta con intatta forza polemica da Machiavelli. Alla base della sua visione sta l’idea che l’uomo –ogni uomo– nasce «cittadino», e che la città gli appartiene come il luogo proprio del suo essere sociale, e il reggimento di essa, quali ne siano i modi specifici, sarà in definitiva cosa sua, visto che egli fa naturalmente parte di una comunità nella quale condivide con ogni altro diritti e doveri. Ciò basta a rendere anche teoricamente inconcepibile che il Comune possa essere governato dalla volontà dispotica di uno solo, quando invece esso disegna il confine delle decisioni condivise, e caratterizza la sua essenza politica precisamente nel percorso attraverso il quale tali decisioni, vitali per la sua sopravvivenza, vengono prese. Questo percorso di formazione della decisione è un percorso di conoscenza e di «parola», ed è retto verso il giusto approdo da chi ha, insieme, l’una e l’altra: il nesso strettissimo tra il «parlare» e il governare è dunque la chiave di volta del suo repubblicanesimo130. La parola prende il sopravvento, e con la sua 129. Per quanto brevemente segue, mi rifaccio al testo di una relazione che ho tenuto al recente convegno su Brunetto, a Basilea, nel giugno 2006, Brunetto Latini, ovvero il fondamento politico dell’arte della parola, ora in stampa per gli Atti presso le edizioni SISMEL/Il Galluzzo di Firenze per la cura di Irene Maffi Scariati. Qui, muovevo dall’importante saggio di Giuliano Tanturli, che precisa insieme la prospettiva «umanistica» e «repubblicana» di Brunetto, «Continuità dell’umanesimo civile da Brunetto Latini a Leonardo Bruni», nel vol. Gli umanesimi medievali. Atti [...] 11-15 settembre 1993, a cura di Claudio Leonardi, Tavarnuzze & Impruneta & Firenze: SISMEL/Edizioni del Galluzzo, 1998, pagg. 735-80 (vedi in particolare pagg. 735-44). Ma vedi anche la bella sintesi di Franco Gaeta, «L’intellettuale ‘urbano’ Brunetto Latini», in «Dal comune alla corte rinascimentale», in Letteratura italiana. I. Il letterato e le istituzioni, Torino: Einaudi, 1982, pagg. 184-90; Charles T. Davis, Brunetto Latini e Dante, in L’Italia di Dante (1984), Bologna: Il Mulino, 1988, pagg. 174 ss.; John H. Mundy, «In Praise of Italy: The Italian Republics», Speculum, 64 (1989), pagg. 815-834; Ronald Witt, «The Rebirth of the Concept of Republican Liberty in Italy», in Renaissance Studies in Honor of Hans Baron, edited by Anthony Molho & John A. Tedeschi, Firenze: Sansoni, 1971, pagg. 173-199. 130. Perfette mi sembrano le osservazioni di Johannes Bartuschat, «La Rettorica de Brunetto Latini. Rhétorique, éthique et politique à Florence dans la deuxième moitié du XIIIe siècle», Arzanà, num. 8, sept. 2002 (La science du bien dire. Rhétorique et rhétoriciens au Moyen Âge, édité par M. Marietti & C. Perrus), pagg. 33-59, a pag. 42: «La rhétorique est la praxis de la raison; c’est pourquoi elle est à l’origine de la culture et de l’ordre politique. La communication raisonnable, telle qu’elle se réalise dans la rhétorique, est le fondement de «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 93 sola forza qualifica il reggimento ch’essa stessa crea, mentre tale reggimento chiama a sé la parola e la ospita come il luogo suo proprio. È a questo punto che Brunetto coglie e organizza un elemento per dir così coagulante rispetto a una serie di tensioni in atto nella cultura del tempo, e gli dà forma compiuta e visibile imprimendo uno scatto tutto particolare al discorso sul reggimento del Comune. Si tratta della proiezione di tale reggimento sullo schermo storico-culturale della romanità: in altri termini, nell’interpretarlo alla luce ideale della Roma repubblicana e nel porlo sotto il patronato sia politico che retorico di Cicerone131. La Roma repubblicana diventa l’inarrivabile archetipo del Comune, e il suo modello civico resta tanto forte e dotato di tale universalità da imporsi anche nel presente e da costituire per i Comuni italiani sufficiente titolo di legittimità dinanzi alla storia, ma anche e soprattutto a fronte delle strutture monarchiche europee. Per Brunetto l’uso italiano è, essenzialmente, l’uso romano, e per questa via gode, tale uso, di tanta privilegiata nobiltà da potersi costituire come un ideale perfettamente in grado di affrontare e superare quei modelli monarchici che prepotentemente rivendicavano, attraverso la voce forte dei loro intellettuali, l’assoluta e sacrale perfezione della loro natura. Voglio dire, insomma, che Brunetto riesce a pareggiare conti altrimenti troppo squilibrati, perché contrappone ai regni europei il mito potente e gratificante dell’eredità e identità romana, reinterpretato e adattato in chiave comunale. In questo senso, la difesa del «sistema podestarile»132 a fronte dei modelli stranieri sta alla base del suo la vie politique. À travers la reprise de la doctrine cicéronienne de l’unité de la rhétorique et de la sagesse, la rhétorique devient la science de la paix civile. Par là elle devient une idée de la politique elle-même; elle tient la place d’une théorie des vertus sociales dans une perspective politique». 131. Rimando, anche per la bibliografia al riguardo, all’ampio panorama tracciato da Virginia Cox, «Ciceronian Rhetoric in Italy, 1260-1350», Rhetorica, 17: 3 (1999), pagg. 239288, nel quale molto spazio è dedicato a Brunetto, protagonista, nel contesto di una Italia attraversata da fortissime tensioni sociali e politiche, della «protoumanistica» scoperta di Cicerone. 132. Sul quale sono fondamentali i saggi di Enrico Artifoni. Vedi: «I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale», Quaderni storici, 63 (1986), pagg. 687719 (pagg. 691, e 692-93). Si vedano almeno altri due importanti saggi di Artifoni sull’argomento: «Sull’eloquenza politica del Duecento italiano», Quaderni medievali, 35 (1993), pagg. 57-78; «Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento», in Le forme della propaganda politica nel Due e Trecento, a cura di Paolo Cammarosano, Roma: École Française de Rome, 1994, pagg. 157-82; «Prudenza del consigliare. L’educazione del cittadino nel Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia (1246)», in «Consilium». Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, a cura di Carla Casagrande, Chiara 94 ENRICO FENZI nuovo e organico ciceronianesimo politico, mentre il successo indubbio dell’operazione ha premiato il fatto ch’egli abbia risposto all’urgente domanda di una «idea» laica e identitaria che fornisse una larga copertura ideologica alla scomposta e tumultuosa realtà politica delle città italiane. Solo così possiamo intendere l’orgoglioso spessore allusivo di parole come queste133: «[Cicerone] poi nella guerra di Pompeio e di Julio Cesare si tenne con Pompeio, siccome tutti’ savi ch’amavano lo stato di Roma; e forse l’appella nostro comune però che Roma è capo del mondo e comune d’ogne uomo», che rivendicano dinanzi ai potenti della terra la valenza attuale e universale del primato romano, e invita i Comuni italiani a riconoscere la loro comune origine e natura (senza dire, poi, che proprio queste parole hanno il potere di portarci alla magnifica e sublimata interpretazione che ne darà Dante, in Purg. XXXII 101-102: «e sarai meco sanza fine cive | di quella Roma onde Cristo è romano»). Brunetto è, in prima persona, un «traduttore», e come tale è anche, sommamente, un «traslatore»134 che in forma implicita ma chiarissima (egli, che pure conosceva direttamente Spagna e Francia, non discute le forme del potere assoluto: si limita a dire che non riguardano in alcun Crisciani & Silvana Vecchio, Firenze: Sismel & Ed. del Galluzzo (Micrologus’s Library, 10), 2004, pagg. 195-216. 133. Brunetto Latini, La Rettorica, a cura di Francesco Maggini e introduzione di Cesare Segre, Firenze: Le Monnier, 1960, 1 sp. 16, pag. 10. Johannes Bartuschat, «La Rettorica de Brunetto Latini», pag. 46, scrive ancora: «Il s’agit ici de la reprise d’une pensée religieuse dans une finalité politique: en tant qu’êtres politiques nous sommes tous des citoyens de Rome, comme nous sommes tous des citoyens de la civitas Dei. Brunetto libère ici complètement la polis de son caractère négatif de civitas des hommes opposée à la vraie civitas, la civitas Dei chez saint Augustin», ecc. 134. Nel suo bel libro, Rhetoric, Hermeneutics, and Translation in the Middle Ages. Academic traditions and vernacular texts, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, Rita Copeland pone al centro del suo discorso proprio l’inevitabile trasformazione di ogni traduzione in «traslazione», che rompe con il testo di partenza e impone di fatto una nuova contestualizzazione, quasi enfatizzando e portando alla luce ciò che era latente nella tradizionale ermeneutica accademica (pag. 126, a proposito dell’Ovide moralisé: «vernacular translation-enarratio effects a rupture with the very tradition of the antiqui wich it proposes to recuperate from the estrangement of historical distance: or perhaps it is more apt to say that it visibly embodies a rupture that was already, inevitably there in the tradition of translatio studii. If exegesis always carried a rhetorical motive of displacement, and always, like rhetoric, responded to the changing circumstances and demands of reception, then its project was always predicated on historicity or historical difference. Vernacular exegesis renders this historicity linguistically visible»). Di Brunetto la studiosa analizza il Tresor (pagg. 208-210), ma solo dal punto di vista della costruzione e della struttura interna, in relazione con la Confessio amantis di John Gower. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 95 modo l’Italia)135 getta luce su quello che sicuramente, dal suo punto di vista, sarebbe stato giudicato un barbaro ossimoro, una contraddizione essenziale: sul Barbarossa, cioè, che presentando la sua corte e i suoi nobili e i suoi ufficiali dice: questi sono ora i senatori e i tribuni e i consoli... Ma sottrae anche la translatio, attraverso il suo lavoro di traduttore e divulgatore, a una funzione meramente affermativa, di superiorità. L’espressione «Parigi è la nuova Atene» (ma in fondo anche: «Aquisgrana è la nuova Roma»), riveste il suo possibile contenuto, quale esso sia, nella forma di una iperbole, e comincia a fondere il motivo proprio della translatio con quello, destinato a lunga vita e per certi aspetti addirittura contrario, della superiorità dei moderni rispetto agli antichi136. Il discorso di Brunetto non potrebbe essere più diverso: la translatio ha reale valore modellizzante, o non è. Oppure, detto in altri termini, la translatio è il contenuto assolutamente qualificante della translatio medesima. Nel caso, quello che egli ravvisa e propone alla società alla quale appartiene: l’arte della parola quale fondamento della vita pubblica, l’insegnamento e l’esempio di Cicerone oratore e console, e infine la Roma repubblicana. Ed è proprio da questa specificità italiana della translatio che è indispensabile muovere per cogliere il più esattamente possibile il senso e le molte sfumature che tale discorso assume in Petrarca che, a differenza di Brunetto, di translatio parla, e molto, nella sua clamorosa guerra contro le pretese di superiorità della cultura francese. 135. A proposito dei differenti regimi politici, e in particolare dei regimi monarchici europei, dice Brunetto che dare consigli su come si debba vivere altrove non è da saggi: «de chose ki n’apertient a nous ne doit on fere conseil; car nus ne doit consillier comment les gens puissent abiter de Godimoine [Lacedemonia]». Così Brunetto, Tresor II 18, 14, che deriva tramite il Compendium alessandrino da Aristotele, Eth. Nic. III 5, 1112 29a: «Nessuno degli Spartani delibera circa il modo con il quale gli Sciti potrebbero governarsi al meglio» (san Tommaso, Expos. 464, ed. Pirrotta, pag. 158: «Lacedaemonii non consiliantur qualiter Scythae, qui sunt ab eis valde remoti, optime debeant conversari»). Più estesamente in Tresor II 62, 1: «Tout avant que tu dies mot, consire en ton cuer ki tu ies ki vieus parler, et premierement garder se la chose apertient a toi ou a autrui. Et se c’est k’ele apertiegne a .i. autre, ne t’en melles ja; car selonc loi est encoupable ki s’entremet de ce ki n’apertient pas a lui», ecc. 136. Vedi Elisabeth Gössmann, Antiqui und Moderni im Mittelalter. Eine geschichtliche Standortbestimmung, München & Paderborn & Wien: Verlag Ferdinand Schöningh, 1974, che nel quadro di questo tema discute tra l’altro, pag. 81 ss., del passo del Cligés di Chrétien de Troyes sopra citato e delle sue interpretazioni. 96 ENRICO FENZI 6. PETRARCA, LA TRANSLATIO Parlando di Petrarca e della translatio studii la prima ovvia tentazione, alla quale è bene cedere sùbito, è quella di citarne le famose parole, nel paragrafo dedicato a Plinio il Vecchio nei relativamente giovanili (13431345) Rerum memorandarum libri, I 19137: Sed quot preclaros vetustatis auctores, tot posteritatis pudores ac delicta commemoro; que, quasi non contenta proprie sterilitatis infamia, alieni fructus ingenii ac maiorum studiis vigiliisque elaboratos codices intolerabili negligentia perire passa est, cumque nichil ex proprio venturis daret, avitam hereditatem abstulit […] Hoc autem et quicquid in hanc sententiam questus sum non ad minuendum post nascituri populi studium retuli, quin dolorem meum potius effundens et etati, curiosissime in quibus non oportet, rerum tamen honestarum prorsus incuriose, soporem ac torporem exprobans. Equidem apud maiores nostros nichil querimonie similis invenio, nimirum quia nichil similis iacture; cuius ad nepotes nostros, si ut auguror res eunt, forte nec sensus ullus nec notitia pervenisset; ita apud alios integra, apud alios ignorata omnia, apud neutros lamentandi materia. Ego itaque cui non dolendi ratio deest nec ignorantie solamen adest, velut in confinio duorum populorum constitutus ac simul ante retrorque prospiciens, hanc non acceptam a patribus querelam ad posteros deferre volui Ci sono voluti mille anni, più o meno, ma dopo tanto parlare di translatio solo qui, finalmente, abbiamo il manifesto nel quale la si riconosce per quello che essa è; se ne invoca l’urgente e oggettiva necessità, e si confessa la soggettiva disposizione d’animo che rende dolorosa e intollerabile quella 137. Francisco Rico ha individuato in una lettera di Gerolamo, XXXIV 1 (PL 20, col. 448), una parziale ma precisa fonte di Petrarca («Animi effigies. L’Africa nel prologo alle Familiari», Quaderni petrarcheschi, 11 (2004), pagg. 217-228). Aggiungo anche che a questo punto, dopo un percorso un po’ tortuoso, sono arrivato ad agganciarmi al libro dello stesso Rico, El sueño del humanismo. De Petrarca a Erasmo, nueva edición, corregida y aumentada, Barcelona: Destino, 2002 (la prima: Madrid: Alianza Editorial, 1993, sulla quale è condotta la traduzione italiana, Torino: Einaudi, 1998), al quale rimando in toto proprio per la caratterizzazione della «sognata» translatio umanistica e per il ruolo decisivo, in essa, del padre Petrarca (le prime pagine del libro, del resto, muovono da una serie di citazioni sue). Sul passo citato sopra ha scritto Etienne Gilson, «Notes sur une frontière contestée», Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge, 25 (1958), pagg. 59-88, in particolare pagg. 81-88, in un tentativo, non felice e non all’altezza di quel grande maestro che egli è stato, di appiattirne e banalizzarne il significato. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 97 posizione «in confinio duorum populorum». Ammetto che è facile cedere alla retorica, ma credo che chiunque, arrivato a questo punto, debba provare qualcosa che assomiglia al sollievo, nel riuscire a guardare oltre l’enorme macigno che contemporaneamente indicava e bloccava la strada. L’equivoco di una translatio che avrebbe già ripetutamente trionfato senza che se ne fosse denunciata e sofferta la mancanza, e dunque senza essere mai stata veramente voluta, si è infatti dissolto. Ora essa è lì, perfettamente definita nei suoi tratti essenziali e negli adempimenti che da questo momento comincia a esigere: e Petrarca è precisamente l’intellettuale che ha messo a fuoco la questione e che, entro l’orizzonte europeo, è stato capace di agire di conseguenza. Lo fa sin dall’inizio, a partire dalla stagione che diremmo «romana» dell’Africa, del De viris, dei Rerum memorandarum libri, e proseguirà instancabile per tutta la vita, sino alle violente polemiche della vecchiaia, segnatamente il De ignorantia138, che rivendica contro lo scientismo, moderno il valore perenne dell’etica classica fecondata dal cristianesimo, e il Contra eum qui maledixit Italie139, che in nome di una continuità spirituale tutta da riscoprire è interamente impegnato a condannare in maniera dura e persino feroce la presunta egemonia culturale francese: della translatio 138. Rimando per ciò all’ampia introduzione a F. Petrarca, De ignorantia. Della mia ignoranza e di quella di molti altri, a cura di Enrico Fenzi, Milano: Mursia, 1999. 139. Ne abbiamo la recente edizione critica a cura di Monica Berté, Firenze: Le Lettere [VII Centenario della nascita di Francesco Petrarca & Comitato nazionale], 2005. La stessa Berté ha curato anche l’edizione critica dell’opuscolo di Jean de Hesdin che ha dato occasione alla risposta petrarchesca: Jean de Hesdin e Francesco Petrarca, Messina: Centro Interdipartimentale di Studi umanistici, 2004. Ma si veda sempre F. Petrarca, In difesa dell’Italia (Contra eum qui maledixit Italie), a cura di Giuliana Crevatin, Padova: Marsilio, 2005 (prima ed., 1994), per la bella introduzione e le note. Scrivendo a Petrarca in esaltazione della Francia e di Parigi in particolare, Jean de Hesdin citava l’Architrenius di Jean de Hauville, II 484-493 (ed. Berté, pag. 152, § 95), ed è qui, nel Contra eum, che Petrarca gli ribatte, citando a sua volta II 486, (vedi sopra, nota 111): «O que monstra sermonis, que verborum inculcatio, non tantum lectori nauseam incutiens ac dolorem capitis, sed risum eliciens ac sudorem, usqueadeo, dum vult omnia dicere, nichil dicit! Unum ex omnibus attingendum est, quo cunta conicias: ‘Rosa –inquit– mundi, balsamus orbis’: O fetidum balsamum, o olentem rosam! Equidem ex omnibus civitatibus, quas multas ab ineunte etate nunc negotio tractus, nunc videndi discendique desiderio circuivi, olentiorem nulla vidi; una excipiatur Avinio, que hac in parte miserie principatum tenet» (ed. Berté, §§ 242-243, pagg. 84-86, = ed. Crevatin, pag. 124). Petrarca soggiornò a Parigi durante il suo viaggio nel nord dell’Europa nel 1333: ne parla, lasciando in sospeso il giudizio, in Fam. I 4, 4 (vedi Silvia Rizzo, nella misc. di studi per Giuseppe Billanovich, Vestigia, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pagg. 607-610, per la fonte apuleiana, Metam. II 1-2, e per la data della lettera) e nella Posteritati, § 21 (pag. 10 delle Prose ricciardiane). E soprattutto la Sen. X 2 (vedi avanti, nel testo). 98 ENRICO FENZI solo l’Italia, invece, custodisce la chiave segreta e il desiderio, e può dunque prepararsi a farne il lievito potente della rinascita140. Tutto Petrarca, insomma, può ben essere letto alla luce di una programmatica volontà di translatio che irrompe nel quadro culturale d’Europa e lo sovverte e lo rinnova, e il successo dell’operazione mostra come meglio non si potrebbe l’incerta sostanza e l’equivoca ideologia che aveva sin lì regolato i conti con l’eredità classica. Di ciò non è tuttavia possibile parlare in questa occasione come si dovrebbe, ed è perciò meglio stringere il discorso attorno a qualche nodo specifico, sperando di gettare nuova luce su cose di per sé già note. Il passo appena citato dai Rerum memorandarum libri, databile presumibilmente attorno al 1344, già è uno di tali nodi: di due altri vorrei brevissimamente parlare, e cioè dell’incoronazione capitolina, nell’aprile del 1341, e dell’egloga IV del Bucolicum carmen, Dedalus, del 1346. Quello dell’incoronazione di Petrarca in Campidoglio è un capitolo ben conosciuto e ampiamente studiato, anche se molte circostanze restano misteriose, per non dire sospette, a cominciare dal racconto del doppio invito giunto nel corso della stessa giornata, l’1 settembre 1340: prima 140. A far saltare i nervi di Petrarca sono state certamente anche le parole che il dottore in diritto canonico Ansel Choquart già aveva pronunciate nell’occasione dell’ambasceria con la quale, nell’aprile 1367, aveva cercato di dissuadere Urbano V dal tornare a Roma. Choquart (il cui discorso è ripetutamente citato da Hesdin) aveva infatti rispolverato l’idea che lo «studio» si era trasferito dall’antica Roma a Parigi sin dai tempi e per merito di Carlo Magno, e che con lo «studio» Parigi aveva ereditato la «gloria dei Romani». Vedi Berté, Jean de Hesdin, pag. 33 ss., che cita il discorso di Choquart così com’è riferito da Charles Du Boulay sotto il titolo: Propositio notabilis facta coram papa Urbano V et cardinalibus ex parte regis Franciae nella sua Historia Universitatis Parisiensis, Paris: De Bresche, 1665-1673, IV (1668), pagg. 396-412 (pag. 408: «prout cuicumque patet quod studium translatum fuit a Roma Parisius per B. Carolum Magnum et haec gloria Romanorum Parisius in Gallos est translata»). Vedi pure, oltre la bibliografia citata dalla Berté, É. Jeauneau, Translatio studii, pagg. 33-34, che cita con maggiore ampiezza il passo e mette in rilievo un «adattamento» che Choquart opera su un passo del De bello gallico di Giulio Cesare, VI 13, 11-12, relativo agli usi sociali e alla cultura dei Druidi, sì da poterlo interpretare come una testimonianza di un antico primato francese. Ma vedi ancora il saggio dedicato alla controversia da Grover Furr, «France vs. Italy: French Literary Nationalism in ‘Petrarch’s Last Controversy’ and a Humanist Dispute of ca. 1395», [in rete:] http://www.chss.montclair.edu/english/furr/pmr.htlm [pagina consultata in data 30-VI-2007], originalmente nei Proceedings of the Patristic, Medieval and Renaissance Conference della Villanova University, 4 (1979), e vedi Ezio Ornato, «L’intertextualité dans la pratique littéraire des premiers humanistes français. Le cas de Jean de Montreuil», nel vol. Auctor et Auctoritas. Invention et conformisme dans l’écriture médiévale. Actes du colloque tenu à l’Université de Versailles-Saint Quentin-en-Yvelines (14-16 juin 1999), dir. Michel Zimmerman, Paris: École des Chartes, 2001, pagg. 231-244 (nella prima parte del saggio si analizza il discorso di Choquart). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 99 quello del senato di Roma, poi, verso le quattro del pomeriggio, quello parigino, per il tramite di Roberto de’ Bardi, cancelliere dell’Università, secondo quanto Petrarca stesso scrive nella Fam. IV 4. Ma non è il caso di entrare in troppi particolari, e basta forse dire che sia l’invito parigino che quello romano fanno certamente parte di una ben architettata operazione (per non dire invenzione) tutta petrarchesca che sembra aver trovato la sua sponda migliore non tanto nella Roma dei Colonna, quanto piuttosto nella Napoli di Roberto d’Angiò141. Come che sia, il dato macroscopico che emerge e che, nonostante tutto, è rimasto alquanto in ombra, è precisamente il significato simbolico e la carica polemica dello scontro tra Parigi e Roma che Petrarca mette in scena. È vero: nell’immediato Petrarca non polemizza affatto, e si dipinge come effettivamente dispiaciuto nel declinare l’invito parigino. Ma le cose sono quelle che sono, clamorosamente evidenti. Da una parte sta Parigi, la capitale politica e culturale del mondo moderno, e il concreto prestigio della sua Università. Dall’altra, una sorta di città inesistente, un puro nome: Roma e, in Roma, il Campidoglio. Ma un nome capace da solo di evocare un altro mondo, un’altra dimensione dello spirito...142 Petrarca non ha in realtà alcuna esitazione, e dobbiamo immaginarlo perfettamente consapevole della portata del suo gesto quando 141. Per maggiori particolari vedi Ugo Dotti, Vita di Petrarca, Roma & Bari: Laterza, 1987, pagg. 78-89, e, di Petrarca, i resoconti offerti in Fam. IV 7 e 8, e soprattutto in Epyst. II 1, a Giovanni Barrili. 142. Anche se non è qui il caso di approfondire il discorso, è almeno interessante rilevare la forte carica simbolica insita nella scelta del Campidoglio, del tutto evidente anche in un testo petrarchesco che andrebbe meglio analizzato, l’egloga III del Bucolicum carmen, Amor pastorius. Tale scelta tanto più spicca quanto più la si rapporta alle reali e assai degradate condizioni del luogo, adibito a mercato di capre e legumi (onde i nomi invalsi di Monte Caprino e Fabatosta). Per una prima ricognizione sul tema (ma sono molte le voci importanti), vedi almeno Fritz Saxl, «The Capitol during the Renaissance. A Symbol of the Imperial Idea», in Lectures, London: The Warburg Institute & University of London, 1957 (Nendeln & Liechtenstein: Kraus Reprint, 1978), pagg. 200-214; Richard Krautheimer, Rome. Profile of a City, 312-1308, Princeton N. J.: Princeton University Press, 1980, in ispecie pagg. 285-288 e pagg. 366-367; Charles L. Stinger, «The Campidoglio as the locus of Renovatio Imperii in Renaissance Rome», in Art and Politics in Late Medieval and Early Renaissance Italy, 12501500, edited by Charles M. Rosenberg, Notre Dame Ind.: University of Notre Dame Press, 1990, pagg. 135-156 (pag. 153: «Venerated as a symbol of the imperial idea, the Capitoline Hill mythically embodied renewed Rome’s imperial vocation», ecc.); Dunia Filippi, «Il Campidoglio tra alto e basso medioevo: continuità e modifiche dei tracciati romani», Archeologia Medievale, 27 (2000), pagg. 21-37, con ampia bibliografia; Augusto Fraschetti, «Il Campidoglio: dal tardoantico all’alto medioevo», in Roma nell’altomedioevo (Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’alto medioevo, XLVIII), Spoleto: Presso la Sede del Centro, 2001, I, pagg. 31-56. 100 ENRICO FENZI mostra di rifiutare Parigi e di scegliere Roma: si tratta infatti, né più né meno, della clamorosa rottura nei confronti di uno dei più solidi miti culturali correnti e insomma di una dichiarazione di guerra che se per il momento è tutta implicita, affidata più ai fatti che alle parole, non tarderà a diventare esplicita ed a svilupparsi negli anni in maniera limpida e coerente. Si osservi intanto che là dove egli riassumerà il suo giudizio su Parigi, nella famosa Senile X 2 a Guido Sette, de mutatione temporum (1367-1368), § 33, Petrarca, a fronte dei disastri provocati dalla guerra dei cent’anni, riconosce e rievoca come perduta la passata grandezza della città, ma sottolinea pure come la sua fama fosse per larga parte immeritata e come il suo prestigio culturale si fosse basato precisamente su ciò ch’egli aveva sempre combattuto: gli scolasticorum agmina, i disputanti a suon di sillogismi, i sermoni: Ubi est enim illa Pariseorum que, licet semper fama inferior et multa suorum mendaciis debens, magna tamen hauddubie res fuit? Ubi scolasticorum agmina, ubi studii fervor, ubi civium divitie, ubi cuntorum gaudia? Non disputantium ibi nunc auditur sed bellantium fragor; non librorum sed armorum cumuli cernuntur; non sillogismi, non sermones, sed excubie atque arietes muris impacti resonant [...]. Anche per Petrarca, dunque, Parigi è stata una capitale del sapere, ma in senso affatto negativo: è stata infatti la capitale dell’«insanum et clamosum scolasticorum vulgus»143, e cioè del detestabile sapere di tipo dialettico e sillogistico contro il quale egli, «in confinio duorum populorum», ha instancabilmente contrapposto la necessità della translatio, e cioè del ritorno al dimenticato patrimonio della cultura classica, finalmente inteso nella sua vera e sempre attuale essenza. Del resto, si veda ancora la condanna della litigiosa Parigi e della sua «petulante» Università, metonimicamente designata attraverso il dantesco «vico degli Strami» (Par. X 137), nel De ignorantia: «contentiosa Parisius ac strepidulus Straminum vicus»; nella Senile 143. De ignorantia, § 155, pag. 274. Va tuttavia ricordato che questa condanna di Parigi come capitale di un sapere affatto negativo non è nuova. Jacopone già scriveva, infatti, che lo spirito religioso era in decadenza proprio per colpa dell’università parigina, che aveva stravolto e indirizzato per mala via l’originario insegnamento francescano: «[...] non ci è relïone. | Mal vedemo Parisi, che àne destrutt’Assisi: | co la lor lettoria messo l’à en mala via» (91, 1-3, ed. Mancini). Con ciò, si sfiora appena un argomento di grande importanza, che però finirebbe per portarci troppo lontano dal nostro (grossolanamente e sulle orme di Toffanin troppo presto dimenticato, a un Umanesimo inteso come rigetto delle derive aristotelico-scientiste della scolastica, e come ritorno allo spirito dei Padri della Chiesa). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 101 IX 1, a Urbano V, del 1368, entro un ampio confronto tra la cultura francese e quella italiana ove dalla parte di quella stanno le rumorose chiacchiere dei «dialettici» dell’Università, e dalla parte di questa la latinitas: «Radix artium nostrarum et omnis scientie fundamentum, latine hic reperte sunt litere et latinus sermo et latinitatis nomen quo ipsi gallici gloriantur [...] Et quid, oro, tot tantarum rerum studiis quod obiciant habent? Nisi forte, ut est gens sibi placens et laudatrix sui, unus his omnibus fragosus Straminum vicus obicitur»; nel Contra eum, ove i filosofi disputanti presso le arcate del Petit Pont già descritti da Guido de Bazoches si trasformano in un’accolita di donniciole e ragazzi occupati ad esaltare se stessi e a diffamare l’Italia : «Nominatim Gallo nostro gratulor, qui bellum mecum et cum Italia et cum veritate suscepit, nusquam, puto, triumphaturus de nobis, nisi in arcu Parvi pontis vel in vico Straminum, famososissimis nunc locorum omnium nostri orbis, mulierculis puerisque plaudentibus et quicquid contra Italiam dictum fuerit consona voce laudantibus»144. Tutto quanto abbiamo letto sin qui della Parigi parens e fons scientiarum, e reincarnazione della biblica Cariath Sefer, è di colpo ribaltato con un gesto la cui plurima oltranza polemica e addirittura eversiva non è stata forse percepita sino in fondo. Petrarca, infatti, attacca contemporaneamente su due fronti, perché da un lato contesta il valore di quel sapere scolastico del quale l’Università di Parigi era il monumento, ma irrompe pure in un campo che sino a poco tempo prima (è opportuno ricordarlo) era stato dominato dall’iniziativa politica, culturale e giuridica dei «regalisti» francesi, i quali alla doppia guerra contro l’universalismo imperiale e quello papale avevano accompagnato una parallela opera di costruzione di una forte e articolata ideologia nazional-monarchica –la stessa che, su altro piano, già aveva suscitato l’irriducibile opposizione di Dante. Sì che, a differenza di come talvolta la si pensa, l’iniziativa di Petrarca è diretta contro un sistema tutto francese già ampiamente collaudato, che con qualche schizofrenia rivendicava per sé e però insieme tendeva a emarginare una possibile continuità «romana», non negandola ma risolvendola interamente entro la centralità prima carolingia e poi capetingia. Petrarca coglie lucidamente i termini di una siffatta schizofrenia, ancora evidente, per esempio, nelle 144. Rispettivamente, De ignorantia, § 143, pag. 266; Sen. IX 1, 37; Contra eum, ed. Berté, § 221, pag. 78 = ed. Crevatin, pag. 116. Per il Petit Pont, vedi sopra, nota 114. Queste citazioni mi offrono l’occasione di correggere l’errore che è nel commento della Crevatin al passo del Contra eum, pag. 172, nota 171, e che io ho ripetuto nelle note al De ignorantia, pag. 448, secondo il quale il Petit Pont sarebbe il ponte avignonese di S. Bénézet. Ma l’identificazione corretta con il ponte parigino è ora nell’ed. Berté, ad loc. 102 ENRICO FENZI simpatie francesi, tutte leggibili in chiave anti-romana, per la figura di Alessandro Magno, e contesta alla radice le valenze culturali e in senso lato civilizzatrici di quella pretesa centralità. Né si tratta, in lui, di una battaglia circoscritta o peggio episodica. Tutt’altro. Le frasi sopra citate non sono che le punte evidenti di un continuum ch’è tutto suo e che lo caratterizza, per quanto qui c’interessa, come il solitario e però vittorioso campione di una translatio che gli appare, a quel punto, ancora irrealizzata e però indifferibile. Non si tratta dunque di andare in cerca di citazioni: senza esagerazione, ogni scritto di Petrarca sta dentro questo orizzonte, dalle opere «romane» della prima maturità, come s’è detto, alle polemiche della vecchiaia145. Su un testo, tuttavia, vorrei fermarmi un poco di più, tanto è singolarmente e direi tecnicamente pertinente al nostro discorso. Nell’egloga IV del Bucolicum carmen, Dedalus, Petrarca attacca in maniera diretta e radicale il mito della supremazia letteraria francese, e lo fa proprio entro il quadro strutturante della translatio, rivendicando all’Italia il possesso dell’eredità del mondo antico146. Così, egli non fa che riprendere e potenziare al massimo quel carattere tipico della tradizione italiana sempre impregnata di classicismo, e sempre disposta a vagheggiare il futuro come restaurazione di quello stesso grande passato che continuava a 145. Ad ogni buon conto, tornando a rinviare alle opere sin qui ricordate, rimando ancora una volta al De ignorantia e in particolare all’Introduzione e alle abbondanti note che corredano il testo. 146. Per le righe che seguono rimando al saggio nel quale ho ridiscusso le questioni poste dall’egloga e il suo senso complessivo: Dedalus (Petrarca, Buc. Carm. IV), ora in corso di stampa nel vol. 7 della rivista annuale Letteratura italiana antica. Per il testo, sostanzialmente ancora basato sulla vecchia edizione di Antonio Avena: F. Petrarca, Bucolicum Carmen, a cura di A. Avena, Padova: Soc. Cooperativa Tipografica, 1906 (ma esiste ora l’edizione diplomatica dell’autografo: Domenico De Venuto, Il «Bucolicum carmen» di F. Petrarca. Edizione diplomatica dell’autografo Vat. Lat. 3358, Pisa: ETS, 1990: dallo stesso De Venuto si aspetta l’edizione critica per il «Petrarca del centenario»), si ricorra alla recente edizione con ottima traduzione italiana a fronte: F. Petrarca, Bucolicum carmen, a cura di Luca Canali, collaborazione e note di Maria Pellegrini, San Cesario di Lecce: Manni, 2005. Ma, per le note, si ricorra pure all’edizione tedesca: Das «Bucolicum Carmen» des Petrarca. Ein Beitrag zur Wirkungsgeschichte von Vergils Eclogen. Einführung, lateinischer Text, Übersetzung und Kommentar zu den Gedichten 1-5, 8 und 11, Bern, Berlin, Frankfurt/M-New York, Paris & Wien: Peter Lang, 1991, oppure alla francese, più recente: F. Petrarca, Bucolicum Carmen, édité par Marcel François & Paul Bachmann, avec la collaboration de François Roudaut, préface de Jean Meyers, Paris: Champion, 2001. Tocca solo di passaggio l’egloga petrarchesca il saggio di Philippe Morant, «Pétrarque et Philippe de Vitry», in Dynamique d’une expansion culturelle. Pétrarque en Europe: XIVe-XXe siècle. Actes du XXVIe congrès international du CEFI, Turin et Chambéry, 11-15 décembre 1995, édité par Pierre Blanc, Paris: Champion, 2001, pagg. 163-174. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 103 confortare l’idea di una comune identità nazionale. Più in particolare, nell’eloga il personaggio autobiografico di Tirrenus, mentre è solo in un bosco di faggi situato presso le sorgenti dell’Arno e del Tevere, riceve in dono da Dedalo, il celebre artefice greco, una cetra meravigliosa, alla quale invano aspira l’altro interlocutore, Gallus (forse il teorico dell’Ars nova Philippe de Vitry, che pure Petrarca conosceva e stimava). Con ciò Petrarca vuole dire che la sua vocazione di poeta si affermò sùbito nel segno dei due fiumi che avrebbero poi presieduto alla sua opera, il toscano Arno (la poesia volgare) e il romano Tevere (la poesia latina). Il suo Parnaso è dunque italiano, e italiani sono i due fiumi che ne discendono e alimentano la sua poesia. Il significato simbolico è chiaro, dal momento che attraverso Dedalo Petrarca può alludere all’antica translatio artium che ha visto il culto di Apollo, e dunque la poesia, migrare dalla Grecia a Roma, e può rivendicare apertamente la moderna translatio che, ancora per il tramite di Dedalo, ha trasportato il dono della poesia in Toscana, affidando proprio a lui, Petrarca, il compito di farla rinascere. Il che resta coerente con il trasparente senso polemico di tutto il discorso, che in nome dell’eredità classica e del grande presente vuole rivendicare all’Italia quel primato poetico e culturale che la Francia, nel quadro di una più generale translatio imperii ad Francos, pretende da tempo per sé. Gallus, nell’egloga, vorrebbe appunto quella cetra, e s’illude di poterla avere in forza del suo potere e della sua ricchezza, senza capire che non è cosa che si possa comperare, che in ogni caso già appartiene ad altri, e che egli è ormai troppo vecchio per riuscire a usarla degnamente. Il che significa, ancora, che la Francia è ormai fuori tempo, e se ha avuto la sua occasione, ebbene, l’ha già perduta e nulla può contro l’improvvisa e prepotente rinascita dell’Italia che sola, per storico privilegio, possiede la capacità di rivitalizzare gli antichi saperi. Il fatto è, insomma, che i francesi, per Petrarca, non hanno alle spalle una tradizione e uno stratificato patrimonio di abilità tali da costituire un corpus modellizzante neppure alla lontana paragonabile con la tradizione greca e poi latina e poi italiana: in altri termini, mai hanno beneficiato di alcuna translatio. E quella e solo quella è la tradizione della grande cultura e della grande poesia, e solo da essa può nascere altra cultura e altra poesia, mentre i francesi le sono estranei e irrimediabilmente in ritardo nel farla propria, anche se in qualche modo, parziale ma fondato su una reale ammirazione e invidia, come testimonia Gallus, ne avvertono la necessità. Ma la loro è una sera cura, appunto: un’ambizione giustificata ma tardiva. Non sono loro gli eredi della cetra di Dedalo, ma, per il tramite dei romani, sono gli italiani, i «tirreni», e tra essi proprio lui, Petrarca... A chiarire meglio tutto questo, mi viene in mente una battuta di Montale, 104 ENRICO FENZI tanto perfida quanto politicamente scorretta, come oggi si direbbe, il quale affermava che «non ci può essere un grande poeta bulgaro»147. Più o meno Petrarca dice la stessa cosa: non ci sono le condizioni perché possa esistere un grande poeta e una grande tradizione letteraria francese, perché la Francia intera sconta il deficit culturale di una translatio mancata. Lapidariamente, dunque, con le parole della già citata lettera a Urbano V dalle quali i francesi sono rimasti a lungo e profondamente feriti, «Nullus est gallicus, nullus doctus in Gallia»148. 7. LA TRANSLATIO ALLA PROVA DELLE IDENTITÀ NAZIONALI Come ho detto e ripetuto, di Petrarca molto altro –forse tutto, o quasi tutto– si dovrebbe citare, e con altrettanta pertinenza rispetto al tema. È tuttavia il momento di concludere questo lungo discorso, ed è opportuno farlo con un po’ più di agilità limitandoci a suggerire alcune rapide ipotesi d’insieme. Potremmo dire, allora, che Petrarca è colui che si inserisce nel vuoto lasciato dal crollo degli universalismi medievali e profittando della evidente e plurima crisi nella quale la Francia è precipitata con la fine della dinastia capetingia e il rovinoso inizio della guerra dei cent’anni, ne affonda le pretese egemoniche, ne scardina l’asse culturale di riferimento medievalcarolingio e inventa, in suo luogo, il nuovo assoluto culturale europeo: la translatio umanistico-rinascimentale e la sua trascendente italianità. In effetti, la lunga crisi francese è essenziale per collocare l’altrettanto lunga e paziente iniziativa di Petrarca, il quale non ha dinanzi a sé, come Dante, un regno al culmine di una lunga progressione positiva, ma al contrario un regno che dopo la morte di Filippo il Bello, nel 1314, entra in una spirale negativa, ed è poi impoverito dalla peste, lacerato dalle jaqueries, devastato dalla guerra, sconfitto militarmente (Crécy è del 1347, e Poitiers del 1356: 147. Sono certo di averla letta, da qualche parte e molto tempo fa, ma confesso di non saper indicare, oggi, la fonte. Ho consultato al proposito alcuni amici esperti «montalisti» che mi hanno confermato sia l’autenticità della frase che la sua attuale irreperibilità entro il corpus delle opere del poeta, il che mi fa sospettare che essa, proprio per la sua scorrettezza, sia stata cancellata nel passaggio dal momento orale e giornalistico alla definitiva versione scritta. 148. Sen. IX 1, 36. Sul punto, vedi l’indignata replica contro tantam iniuriam di Jean de Hesdin, ed. Berté, pag. 150, e la contro-replica di Petrarca, che torna a citare le sue stesse parole, nel Contra eum, § 221, pagg. 78 ss. = ed. Crevatin, pagg. 116 ss. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 105 alle due sconfitte è dedicata, non a caso, la dodicesima e ultima egloga del Bucolicum carmen, Conflictatio) e in piena recessione territoriale. Di più, c’è un fatto preciso che ci aiuta a capire in quale prospettiva Petrarca potesse percepire i destini del regno di Francia. Fatto prigioniero a Poitiers, il re Giovanni il Buono non è neppure in grado di pagare la prima rata del proprio riscatto agli Inglesi, che intanto hanno riottenuto i territori compresi tra la Loira e i Pirenei, e sono i Visconti, nel 1360, a pagarla per lui. Gli stessi Visconti, poi, alla fine dell’anno mandano Petrarca come loro ambasciatore a Parigi a congratularsi con il re, quando gli Inglesi lo rilasciano (ma poi dovrà riconsegnarsi a loro, e morirà prigioniero a Londra, nel 1364) e il poeta attraversa allora una Francia irriconoscibile, «opulentissimum in cineres versum regnum videns» (Sen. X 2, 32: ma si veda anche la prima parte della Fam. XXII 14). Ma la sconfitta militare e il disastro politico ed economico non vanno da soli. Anche il primato culturale è ormai un ricordo, e si dovrà aspettare la metà del ‘400 e oltre perché la Francia possa cominciare a rilanciare la propria egemonia, e Petrarca è spettatore troppo lucido per non cogliere i segni di questa debolezza e farsene testimone. E lo fa proprio nell’orazione allora tenuta a corte, alla presenza del re, quando immediatamente premette di parlare in latino poiché «linguam gallicam nec scio, nec facile possum scire»149. Si tratta, evidentemente, di un’aperta e quasi provocatoria menzogna che intende sottolineare la distanza che divide il mondo culturale dell’oratore italiano e «romano» da quello municipale e subalterno del re francese. Sotto Parigi, insomma, sono arrivate le truppe inglesi e arriveranno poi le borgognone, ma certo non vi è mai arrivata quella translatio delle arti e dei saperi che Petrarca ostensibilmente maneggia come cosa tutta sua. Ma le maneggia, quelle arti e quei saperi, sullo sfondo di un’Italia divisa e tormentata nella quale lo «stato regionale» dei Visconti poteva apparire come la realtà più ampia e solida, e sullo sfondo di un’Europa in cerca di ricomposizioni territoriali e identità nazionali che si stavano rivelando ancora incerte e difficili. In questa situazione, l’iniziativa assolutamente 149. F. Petrarca, Collatio coram domino Iohanne Francorum rege, in Opere latine, a cura di Antonietta Bufano, con la collaborazione di Basile Aracri & Clara Kraus Reggiani, introduzione di Manlio Pastore Stocchi, Torino: UTET, 1975, pagg. 1286-1309 (1288). E sarà anche da sottolineare che, in apertura, Petrarca afferma che sarebbe stato più opportuno rivolgersi al re di Francia in una lingua che a costui fosse più acceptior e notior di quanto fosse la latina, e insomma trova modo di sottolineare in vario modo che il latino è lingua sua, e non degli interlocutori francesi. Per tutto ciò, vedi già le belle pagine di Carlo Dionisotti, «Tradizione classica e volgarizzamenti», in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino: Einaudi, 1971 (prima ed., 1967), pagg. 144-146. 106 ENRICO FENZI geniale –politicamente geniale, prima di tutto– di dar corpo a una renovatio per dir così transpolitica, che prevedeva la formazione di una societas di intellettuali tendenzialmente disancorata da condizionamenti e compromessi con i poteri locali, non poteva non avere successo, tanto più che tale iniziativa era condotta con una consapevolezza e una capacità realizzatrice perfettamente adeguate allo scopo. Insomma, la mancanza di una diretta sponda politica si è trasformata nell’ingrediente più importante del successo del progetto, e ne ha liberato le potenzialità. La grande proposta della mise au jour di un retroterra fondante e invero essenziale per un’idea di civiltà che si rifacesse ai modelli della romanità e avesse al proprio centro una corrispondente «idea» dell’Italia che a sua volta anticipasse le attese e ai bisogni della nascente Europa, ebbene, tutto ciò scavalcava in un sol colpo i mille problemi di un puzzle politico tanto complicato quanto al momento irrisolvibile, e affrontava per la prima volta l’ordine vero della translatio. In altri termini, potremmo ben ripetere che Petrarca appare come l’unico che veramente ha capito che cosa tale translatio significasse e quale somma di adempimenti comportasse, e ha dedicato la vita a metterla in atto. Così, si deve a lui se nell’immaginario collettivo, non importa quanto semplificatorio e grossolano, il Rinascimento italiano è apparso a lungo e forse tuttavia appare come il terzo momento forte della nostra civiltà occidentale, dopo la Grecia e dopo Roma. Il suo lavoro è stato naturalmente enorme e, al suo tempo, senza paragoni possibili. Ne danno testimonianza, tra l’altro, tutte le opere antiche che egli ha letto, che ha corretto, interpretato e postillato, e che ha rimesso in circolazione attraverso le sue opere latine e i suoi scambi epistolari. Ma anche ciò che non ha conosciuto ne dà testimonianza. Petrarca non ha mai imparato il greco, eppure possedeva e venerava un grosso codice delle opere di Platone (Parigino greco 1807, il cod. A dei moderni editori) nonostante il contenuto gli restasse inaccessibile150, e la sua conoscenza del filosofo si limitasse al Timeo nella traduzione di Calcidio. Ma a dispetto di ciò, in virtù di quella che chiamerei una straordinaria intuizione culturale maturata a partire dai testi di sant’Agostino, egli ha condotto un’altra delle sue lunghe e vittoriose battaglie per ridimensionare l’autorità sin lì incontrastata di Aristotele, e per sostituirla con quella di Platone (a questo scopo è dedicato il suo De ignorantia, che nel ‘400 sarà letto e postillato dal 150. Aubrey Diller, «Petrarch’s Greek Codex of Plato», Classical Philology, 59 (1964), pagg. 270-272 (= Studies in Greek Manuscripts Tradition, Amsterdam: Hakkert, 1983, pagg. 349-351). Vedi Enrico Fenzi, «Platone, Agostino, Petrarca», in Saggi petrarcheschi, Firenze: Cadmo, 2003, pagg. 519-552 (522-524). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 107 Cusano)151, imponendo all’umanesimo, come ha scritto Cassirer, la grande scelta tra i due filosofi, e spalancando dunque la porta al gran movimento del platonismo rinascimentale. Tutta la materiale fatica della translatio, tuttavia, e tutto l’impegno che potremmo compendiosamente definire come filologico e storico, non basta. In esso, infatti, agisce una potente molla interna, una forza… Petrarca ripropone il sapere antico con tanta convinzione ed efficacia perché non è mosso solo da esigenze intellettuali, ma perché sa riattualizzare il modello che l’antichità propone alla società del suo tempo attraverso una potente e profonda spinta di natura esistenziale. Egli non finisce mai di riconoscersi nelle domande, nei tormenti, nelle speranze, negli affetti e insomma nella «scienza della vita» dei grandi poeti e moralisti antichi, nei quali ritrovava con sempre rinnovata emozione lo specchio migliore attraverso il quale conoscere se stesso e il proprio intimo ethos. Così, è proprio in nome di questa conclamata continuità dell’esperienza umana che il presente può e deve tornare al passato, e trasformarne il sapere in possesso per sempre: ed è per questa via, per esempio, che riusciamo a intendere quella singolare e simbiotica intimità di Petrarca con Seneca, e che, avanzando lungo questa traccia e leggendo Montaigne, pur così diverso, continuamente ritroviamo, quasi a contropelo, Petrarca (che si sa essere ben presente nei sonetti dell’amico, Etienne de la Boétie)152. Lo ritroviamo nei molti luoghi 151. Nicola Cusano (1401-1464) ha letto e parcamente annotato l’opera latina di Petrarca nei codici Cus. 53, 198 e 199 (contengono i due libri del De remediis), 200, conservati nella biblioteca de St. Nikolaus Hospital di Bernkastel-Kues. Frutto curioso di tale rapporto, fomentato dal titolo dell’opera più famosa del Cusano, il De docta ignorantia, e responsabile in passato di un’enfatizzazione forse eccessiva dell’influenza di Petrarca su Cusano, è il dialogo composto nella seconda metà del ‘400 e falsamente attribuito a Petrarca De vera sapientia, in due libri, il primo dei quali è costruito assemblando un passo tratto dalla parte intitolata De sapientia dell’Idiota del Cusano, il dialogo I 12, De sapientia, del De remediis (ma gli interlocutori sono mutati in Orator e Idiota, come nel testo del Cusano), e una parte di autore ignoto, forse lo stesso autore del falso. Il secondo libro, invece, finisce di ritrascrivere il De sapientia del Cusano. L’editio princeps del testo pseudo-petrarchesco è del 1475, ed è stata riprodotta poi come autentica nelle edizioni complete delle sue opere latine (Basilea: 1496, 1554, 1581; Venezia: 1501, 1503); la scoperta della sua falsità si deve all’Übinger (1887), mentre la storia del falso è stata ricostruita da Klibanski (1937): per tutto ciò si veda la messa a punto di Giovanni Santinello, «Nicolò Cusano e Petrarca», in Studi sull’umanesimo europeo. Cusano e Petrarca - Lefèvre - Erasmo - Colet - Moro, Padova: Antenore, 1969, pagg. 7-42, il quale pubblica in appendice le poche postille del Cusano al De remediis, ai Rerum memorandarum libri, al De otio e al De ignorantia. 152. Vedi ora Concetta Cavallini, «La Boétie et Pétrarque», nel vol. Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, a cura di Jean Balsamo, Genève: Droz, 2004, pagg. 289-301. 108 ENRICO FENZI degli Essais nei quali si esaltano gli antichi spiriti, tanto superiori ai moderni, e il nutritivo colloquio con loro, e Roma, la più nobile delle città che furono e saranno (della quale Montaigne è orgoglioso d’essere stato nominato cittadino: quasi una replica dell’incoronazione petrarchesca!). E ancora dove Montaigne ripete il famoso paragone con le api, a proposito dell’imitazione creatrice (Fam. XXIII 19; Essais I 26), e soprattutto là dove sembra di risentire le sentenze e le parole medesime del De ignorantia, sulla naturale superiorità dell’essere buoni rispetto all’essere dotti, e sull’inutilità di conoscere la declinazione della parola «virtù» quando non la si sa mettere in pratica, cosa che un contadino, miglior seguace della «vera filosofia» di quanto non siano i filosofi, riesce invece a fare benissimo. Queste parole vanno infatti lette, in Montaigne, non come una banale apologia della bontà illetterata, ma piuttosto come la conferma di quella linea di appropriazione sostanziale del messaggio morale degli antichi che Petrarca già duecento anni prima ha rivendicato a sé, quale suo compito epocale153. La vittoria relativamente facile della translatio petrarchesca nelle sue istanze propriamente umanistiche e civilizzatrici è stata favorita dalla distanza, dall’intatto prestigio e dall’universalità dei punti di riferimento ai quali si rifaceva, certo non sminuiti dall’appello polemico e tutto ideale alla prossima resurrezione della sepolta romanitas italiana. E ciò comportava pure un’inedita riflessione sul tempo e sulla profondità dei suoi cicli, e imponeva una capacità nuova di astrazione e concentrazione intellettuale che finiva per sacrificare a una pervasiva nozione di «classicismo» la dimensione nazionale e concretamente sociale, per non dire proprio popolare, della cultura e del linguaggio. Ma quel sacrificio, che per la sua parte e per quanto era materialmente possibile ha colpito anche Dante, sul lungo periodo ha assunto valenze diverse e persino opposte. Il disancoramento politico, infatti, e l’universalismo culturale che in quella congiuntura è stato una delle condizioni essenziali del successo dell’operazione di Petrarca, portava in sé anche le ragioni della sua trasformazione, inizialmente nascoste entro l’equivoco della sua virtuale italianità. Era in effetti del tutto naturale che dopo aver nutrito e per dir così posto le basi unitarie della cultura europea ed essersi rivolto ed aver associato a sé le sue élites intellettuali, tale progetto tornasse ad innervarsi nelle singole unità nazionali, trovasse le sue reali controparti politiche e sociali, e comin153. Altro nome che non dovrebbe mancare è quello di Erasmo, ma mi limito per ciò a rinviare al capitolo IX, De Erasmo a Petrarca, del volume di Francisco Rico, El sueño del humanismo, pagg. 126-152, che lapidariamente conclude: «en sustancia Erasmo estaba en Petrarca». «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 109 ciasse a procedere e infine a trasformarsi per vie proprie154. Ma ciò è avvenuto altrove, in Spagna e in Francia. Qui in particolare, nel corso del ‘500, la recentissima e tuttavia operante eredità del rinascimento italiano è stata storicizzata e riportata entro lo schema fondamentale dello sviluppo proprio, ancorato a radici proprie, riscoprendo e aggiornando il discorso che Hesdin faceva già duecento anni prima. La Francia torna allora a riproporsi quale terminale europeo della translatio, e mentre prepotentemente si afferma come l’erede naturale del meraviglioso «stile italiano», comincia a chiudere o limitare all’essenziale l’attraversamento della parentesi petrarchista, e riprende in mano, per contro, il filo della propria identità nazionale (è interessante ed anche un filo paradossale come proprio in questa chiave i polemici petrarchisti francesi della prima metà del ‘500 tornino ad esaltare il Roman de la rose): essa ritrova, insomma, di là dalla lunga parentesi, i propri «buoni tempi antichi», e inverando il presente nel passato recupera per intero la propria storia. Ma ciò è esattamente quello che l’Italia non ha potuto fare, perché il ritorno a Roma e alla sua eredità, privo di qualsiasi sviluppo nella concreta dimensione storico-politica, si è trasformato inevitabilmente, anche à rebours, in un auspicio culturale, per quanto appassionato e sincero; è rimasto un ideale elitario che ha dato forma a una identità altrettanto ideale ed altrettanto elitaria, confinata nella sfera sublimata dell’arte e della letteratura, e in quella, drammatica, della riflessione e consapevolezza storica. Con momenti di intima tensione. Due sono i petrarchismi, infatti, che per un momento occupano la scena nei primi decenni del ‘500 italiano: quello di Machiavelli, nel quale risuona ancora la forza di quell’auspicio nell’originaria e potente genericità del suo appello a una translatio in chiave nazionale e politica, e quello letterario di Bembo, normativo e istituzionale. Ma il petrarchismo di Machiavelli è quello che, sullo sfondo del collasso del «sistema» italiano, ha perduto, da sempre. Il petrarchismo di Bembo è quello che, in quel collasso, ha vinto. Questo è tuttavia un altro discorso. Restiamo invece ai termini della translatio e al fatto che il deliberato puntuale attacco di Petrarca ha avuto nei secoli seguenti l’onore di una lunga storia entro la cultura francese, chiamata a confrontarsi con i suoi giudizi, tanto più che essi sembravano 154. Su questa linea, si veda soprattutto il recente volume di William J. Kennedy, The Site of Petrarchism. Early Modern National Sentiment in Italy, France and England, Baltimore & London: The John Hopkins University Press, 2003. Ma avverto anche che per tutta questa ultima parte il testo a cui faccio continuo e implicito riferimento è l’appena sopra citato El sueño del humanismo di Rico, e qui in ispecie i tre ultimi capitoli che dell’età umanistica propriamente detta tracciano la lucidissima parabola finale. 110 ENRICO FENZI ormai definitivamente incarnati nello splendore del Rinascimento italiano. Importa dunque che il nome di Petrarca resti fortemente connotato dalla sua polemica anti-francese che, per esempio, mette in difficoltà un ammiratore sincero come Jean de Montreuil155, e suscita invece l’animosa opposizione di Nicolas de Clamanges. Il caso è particolarmente significativo. La miccia fu accesa dal cardinale Galeotto da Pietramala che nel 1394 scrisse al Clamanges elogiandone lo stile latino, davvero eccezionale in un paese sul quale gravava la severa diagnosi di Petrarca. Clamanges rispose sùbito con due lettere, respingendo duramente quelle accuse, ma soprattutto tornò sull’argomento anni dopo, in una lettera del 1423 a Renaud de Fontaines, vescovo di Soisson 156. Qui, con tecnica squisitamente petrarchesca, Clamanges non nomina mai l’avversario contro il quale polemizza, e si limita a coprire di disprezzo la verbosa loquacitas dell’innominato, e la sua farraginosa e inutile erudizione classica priva di serietà e nerbo morale157. In breve, Clamanges ributta su Petrarca quelle stesse accuse che Petrarca muoveva contro Jean de Hesdin, e finisce per riattualizzare quell’antica contesa che evidentemente non ha perduto nulla del suo significato. Di più, merita soprattutto rilevare che Clamanges non si limita a questo, ma nel ribaltare nuovamente la questione si atteggia, egli stesso, al Petrarca della situazione! Basta infatti vedere come rivendichi a sé, nel presente e in Francia, quello stesso ruolo che Petrarca, «sul confine tra due popoli» si attribuiva nel famoso passo dei Rerum memorandarum, I 19, sopra citato. Scrive dunque Clamanges in una lettera a Gontier Coll di aver lavorato affinchè l’eloquenza ormai sepolta in Gallia potesse rinascere e produrre nuovi fiori, e di aver riaperto con il suo esempio una via già da troppo tempo ostruita («ipsam eloquentiam diu sepultam in Galliis quodammodo renasci novisque iterum floribus, licet priscis longe imparibus, repullulare 155. Vedi soprattutto Ezio Ornato, «La prima fortuna del Petrarca in Francia. I – Le letture petrarchesche di Jean de Montreuil», Studi francesi, 5 (1961), pagg. 201-217, e «II – Il contributo del Petrarca alla formazione culturale di Jean de Montreuil», ibid., pagg. 401-414. 156. Per questo episodio rimando alla ricostruzione fatta da Dario Cecchetti, «Sulla fortuna del Petrarca in Francia: un testo dimenticato di Nicolas de Clamanges», Studi francesi, 11 (1967), pagg. 201-222. 157. Andrebbe inserita a questo punto qualche considerazione sul più generale attacco contro gli italiani (pavidi, chiacchieroni, traditori, privi di qualsiasi consistenza morale, ecc.) che la cultura francese sviluppa nel corso del ‘500. Ma qui non posso che rimandare al ricco e intrigante repertorio fornito da Lionello Sozzi, «La polémique anti-italienne en France au XVIe siècle», Atti della Accademia delle Scienze di Torino. II. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, 106 (1972), pagg. 99-190, che tra l’altro si presta a varie considerazioni attualizzanti. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 111 laboravi […] meo exemplo previoque ducatu viam diutius obseptam aliquatenus aperui»). Clamanges nega dunque a Petrarca persino quel ruolo storico che gli verrà universalmente riconosciuto, e per contro, con gesto di grande significato, pone se stesso e la Francia al centro del rinnovamento umanistico. Egli rappresenta dunque un anello fondamentale nella trasmissione della polemica dai tempi di Petrarca al maturo Rinascimento, e non è certo un caso se, continuando a citare Petrarca per allusioni, nei primi anni del ‘500 s’infittisce la schiera di chi la ripiglia, da Robert Gaguin che ripete le accuse di verbosità nel De origine et gestis Francorum compendium, a Valeran de Varannes nel Carmen de expugnatione genuensi, Guillaume Budé, De asse et partibus eius e altri, tra cui Symphorien Champier che addirittura ristampa nel 1507 il testo di Hesdin nel suo Trophoeum Gallorum quadruplicem eorundem complectens historiam158. Naturalmente tutto ciò va riportato entro la costante, irriducibile preoccupazione egemonica dei francesi159, che spicca, per non fare che un esempio facile ma specialmente significativo, in Du Bellay. Egli pubblica nel 1549 i sonetti petrarcheschi dell’Olive: ebbene, nello stesso anno pubblica anche la Deffence et illustration de la langue françoyse nella quale, è vero, riconosce il valore di modello dei sonetti di Petrarca, ma sin dal prin158. Rispettivamente, Parigi: Kerver, 1501; Parigi: Niccolò da Prato, 1507; Parigi: Josse Bade, 1514; Lione: Jeannot de Campis, 1507. Per quest’ultima indicazione, in particolare, rimando ancora a D. Cecchetti, «Sulla fortuna del Petrarca», pag. 213: di questa stampa non parla la Berté, Jean de Hesdin: vedi pagg. 27, nota 1, e 63-65. Sulle opere di Champier, vedi Paul Allut, Étude Biographique et Bibliographique sur Symphorien Champier, Lione: Nicolas Scheuring, 1859, in part. pagg. 149-152, per il Liber de quadruplici vita, entro il quale è compreso il Trophoeum. Ma si vedano pure le correzioni e gli aggiornamenti di James F. Ballard & Michel Pijoan M. D., «A preliminary check-list of the writings of Symphorien Champier», Bulletin of the Medical Library Association, 28 (1940), pagg. 182-188. 159. Nel quadro di questa preoccupazione annoto, del tutto a margine, un piccolo e gustoso particolare. Il volume Quatuor libri amorum dell’umanista tedesco Konrad Celtis (Norimberga: Sodalitas Celtica, 1502) si orna di una xilografia di Albert Dürer che rappresenta la Filosofia in trono; tra altri elementi, attorno stanno quattro medaglioni dedicati rispettivamente agli Egipciorum sacerdotes et Chaldei, rappresentati da Tolomeo; ai Grecorum philosophi rappresentati da Platone; ai Latinorum poetae et rhetores rappresentati da Cicerone e Virgilio (ma il mezzobusto è solo quello di Virgilio); ai Germanorum sapientes rappresentati da Alberto Magno. In alto sta la scritta: Sophiam Greci vocant, Latini Sapienciam. | Egipcii et Chaldei me invenere, Grecis scripsere, | Latini transtulere, Germani ampliavere. Secondo questo modello di translatio in chiave tedesca proprio i francesi, come si vede, sono assenti. Vedi The complete woodcuts of Albrecht Dürer, edited by Willi Kurth, introduction by Campbell Dodgson, New York: Dover Publ. Inc., 1963, pagg. 23-24 e pag. 146 (riproduzione a tutta pagina); Eugene F. Rice, The Renaissance Idea of Wisdom, Westport, Connecticut: Greenwood Press, 1973 (prima ed., 1958), pagg. 96-97, e nota 11. 112 ENRICO FENZI cipio afferma che in nulla la Francia è inferiore agli antichi greci e romani, e che, al presente, essa è ormai in diritto di chiamare «barbari» gli altri. Ma è alla fine che l’obiettivo polemico viene allo scoperto, là dove scrive che «la France, soit en Repos, ou en Guerre, est de long intervale à preferer à l’Italie, serve maintenant et mercenaire de ceux, aux quelz elle souloit commander» (II 12), e nella breve, impetuosa Conclusion de tout l’Oeuvre (una sorta di «marsigliese»: «marciate, Francesi…»), ove esorta a piller senza remore d’alcun tipo i tesori antichi, ora che la forza e la sicurezza sono tutte dalla parte della Francia: «Nous avons echappé du millieu des Grecz, et par les Scadrons Romains penetré jusques au Seing de la tant desirée France. La donq’ Francoys, marchez couraigeusement vers cette superbe Cité Romaine: et des serves Despouilles d’elle (comme vous avez fait plus d’une fois) ornez voz Temples et Autelz»160. Più chiari di così non si può 160. Cito dalle Œuvres complètes del Du Bellay, La Deffence, et illustration de la langue françoyse, édité par Francis Goyet & Olivier Millet, Paris: Champion, 2003, I, rispettivamente pagg. 75-76 e 81 (riproduce fedelmente l’edizione del 1549, e l’accompagna con un lungo saggio ove largo posto è fatto a Bembo e a Sperone Speroni). Molto altro si dovrebbe aggiungere, anche se si finirebbe così nel campo diverso, anche se strettamente legato al nostro, del petrarchismo. Si ricordi almeno che nel 1553 Joachim du Bellay compone un’ode assai famosa, J’ay oublié l’art de petrarquizer, con la quale prende le distanze dal modello petrarchista della poesia d’amore, denunciato come mero prodotto culturale, sentimentalmente falso e letterariamente artificioso. Non lo fa solo qui, del resto. Egli ripeterà infatti le stesse cose nell’Elegie d’Amour, nel 1558, e ancora nel quarto sonetto dei Regrets, Je ne veulx feuilleter les exemplaires Grecs. In questi versi è soprattutto interessante l’opposizione di carattere storico-temporale che implica il ricorso al concetto di translatio: prima erano i francesi quali legittimi titolari della poesia amorosa (l’Amore «estoit François»!); poi è arrivata la parentesi della falsità petrarchesca ad inquinare i semplici e onesti rapporti tra amanti; infine il moderno poeta denuncia tale falsità con la forza che gli deriva dalla riscoperta eredità dei suoi lontani predecessori. Siamo dinanzi, insomma, a un vero e proprio schema storiografico, che sembra conferire una consapevolezza maggiore a uno spunto topico già presente nella poesia francese, per esempio in Héroët e in Mellin de Saint-Gelais, e poi nei poeti della Pléiade, seppur con varie ambiguità, e in particolare in Jodelle. Costui è assai vicino all’amico Du Bellay nel denunciare le erudite finzioni della lirica amorosa succube di modelli stranieri: onde egli, per parte sua, dichiara la propria preferenza per la poesia antica del proprio paese ed esalta, anche in questo caso d’accordo con Du Bellay, il Roman de la Rose, la cui grandezza era già stata rivendicata, una generazione prima, da Molinet e da Lemaire de Belges (si veda, di Du Bellay, il lungo componimento di 354 versi Ma passion qui n’a peur, e ancora, per esempio, il sonetto La Roche de Caucase, où du vieil Promethe). Ma non basta. Du Bellay dà altrove un severo giudizio sulla cultura italiana vecchia e noiosa, nel sonetto Je me feray sçavant en la philosophie, e in uno dei suoi ultimi componimenti torna ad attaccare la moda del «viaggio in Italia», dal quale si imparerebbe solo l’arte della finzione e della menzogna, mentre nel sonetto 95 dei Regrets, Maudict soit mille fois le Borgne de Libye, se la prende addirittura con Annibale, responsabile di aver aperto una via attraverso «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 113 essere, né più aggressivi nel riprendere quanto scriveva l’anno prima, in tono assai più moderato, Thomas Sebillet, nella sua Art poétique françois: «Mais en ce avons nous comme en toutes choses suivy notre naturel, qui est de prendre des choses estrangeres non tout ce que nous y voions, ains seulement que nous iugeons faire pour nous, et estre a nostre avantage»161. Ma assai significativamente parla di pillage e di despouilles anche Ronsard, anch’egli ricco di umori polemici nei confronti del modello petrarchista, nell’ode À sa lyre (Odes I 22, 29-36): Por te monter de cordes et d’un fust, voire d’un son qui naturel fust, je pillay Thebe [Pindaro] et saccageay la Pouille [Orazio], t’enrichissant de leur belle despouille. Et lors en France avec toy je chantay, et jeune d’ans sur le Loir inventay de marier aux cordes les victoires, et des grans Rois les honneurs et les glories. Il quale Ronsard riprende pure il motivo della translatio nella sua veste più canonica in un’altra delle sue odi, la II 20, À Antoine de Chasteigner de la Rode de Posé, vv. 9-12: Desus le Nil jadis fut la science, puis en Grece elle alla, Rome depuis en eut l’experience, Paris maintenant l’a, anche se, questa volta, non tanto nel quadro dell’esaltazione delle glorie nazionali, ma in quello della mutevolezza incessante di ogni realtà umana162. le Alpi mettendo in comunicazione la Francia e l’Italia. Egli sfoga anche altrove questi suoi rancori (per esempio, nei sonetti 127 e 133 dei Regrets aggredisce rispettivamente la corruzione romana e «ces coïons magnifiques» dei senatori veneziani), e così facendo si allinea a quella tradizione indagata da Sozzi (vedi sopra, nota 157) che da tempo contrapponeva il bon naturel e la serietà dei francesi allo strisciante e disincantato «paganesimo» degli italiani. Per tutto ciò, con particolare riguardo agli aspetti ideologici dell’ideologia romana, vedi Barbara Vinken, Du Bellay und Petrarca: das Rom der Renaissance, Tübingen: Niemeyer, 2001. 161. Paris: Corrozet, 1548, fol. 62r. 162. La strofa è infatti incorniciata da queste altre due: «Comme le temps vont les choses mondaines | suivant son mouvement: | il est soudain, et es saisons soudaines | font leurs 114 ENRICO FENZI Ma ancora esemplare, e largamente riassuntiva delle posizioni di tutti gli autori francesi che qui non posso ricordare, è infine la testimonianza di Guy Le Fèvre de La Boderie, autore di un poema in cinque cercles, La Galliade, una sorta di storia universale delle civiltà sin ossessivamente concentrata sull’eccellenza della Gallia, prima delle terre emerse dopo il diluvio e da allora madre di tutte le scienze ed arti del mondo (arti e scienze «qu’eurent les Grecs de nous, et non pas nous des Grecs»)163, che avrebbero cominciato a tornare a lei come al loro luogo d’origine a partire dal regno di Francesco I. In particolare, la poesia sarebbe stata un’invenzione della quale va dato l’intero merito al mitico Bardo, quinto re dei Galli dopo il diluvio (lo diceva già Du Bellay nella Déffence, II 8, rinviando a Lemaire de Belges), e proprio muovendo dalla Gallia le Muse sarebbero andate peregrinando via via presso i popoli antichi, passando dall’uno all’altro e infine dai Greci ai Romani. Poi, caduto l’impero romano, dopo un lungo intervallo durante il quale rimasero nascoste, esse –infausta deviazione!– sarebbero state accolte dai poeti di lingua toscana, in particolare Dante, Petrarca, Sannazaro, Bembo, Aretino, Ariosto. Ma… [...] errants par la Toscane ont acquis non un teint et couleur de basane, cours prontement […] Villes et forts et royaumes perissent | par le temps tout expres, | et donnent lieu aux nouveaux qui fleurissent | pour remourir apres». Per Ronsard e Petrarca, da lui «visceralmente assimilato», vedi il fitto repertorio di André Gendre, «Pierre de Ronsard», nel vol. Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, pagg. 229-251. Resterebbe da parlare della Franciade (1572: vedi Denis Bjaï, La «Franciade» sur le métier: Ronsard et la pratique du poème héroïque, Genève: Droz, 2001), e del suo tardo tentativo di rinfrescare in funzione nazionale ed encomiastica il mito delle origini troiane: ma è intanto significativo che, anche se Lemaire de Belges celebrava le peuple de Gaule quale «nepveux d’Hector, enfans de Francïon» in La concorde des deux langages, V 589, François Hotman nella sua Franco-Gallia fondi per contro il proprio programma nazionalistico sulle pure radici galliche della nazione francese, rinunciando deliberatamente e con forte sottolineatura polemica a ogni principio di legittimazione storica che facesse di Francion un altro Enea: «Quant aux autres, qui pour le goust qu’ils ont pris à des fables & contes faits à plaisir, ont rapporté l’origine des François aux Troiens, & à un ne scay quel Francion fils de Priamus: ie n’en veux dire autre chose, sinon qu’ils ont plustost fourny de matiere à escrire au Poëtes, qu’aux historiens veritables» (cito dalla traduzione francese, Gallia françoise, di Simon Goulart, Colonia: Hierome Bertulphe, 1574, pag. 45). Vedi sopra, nota 93. 163. Cercle I, fol. 33r, nell’edizione di Parigi: Guillaume Chaudière, 1578, dalla quale cito (ma si veda l’edizione critica a cura di François Roudaut, Paris: Klincksieck, 1993). Sull’autore, vedi ora Rosanna Gorris Camos, «Traduire la Vierge: l’Hymne à la Vierge sacrée du toscan de Pétrarque traduit par Guy Le Fèvre de la Boderie», nel vol. Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, pagg. 363-378. «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 115 ainçois un teint fardé, un maintien decevant, et gestes plus lascifs qu’onques au paravant, un Amour feint qui sçait le transy contrefaire: bref l’air Italien qui à tous ne peut plaire, et ne nouveaux attours, ou plutost refripez, sur le Latins et Grecs subtilment gripez, si que chacune Nymphe, autrefois simple et sainte, fut lors de plus en plus Italienne et feinte (cercle V, cc. 122r-122v). Il loro pellegrinaggio a questo punto termina, perché finalmente, dopo la provvisoria e malsana sosta italiana, se ne tornano là dove erano nate, in Francia, dove ritrovano il candore, la salute e la magnificenza originarie. Non tornano tuttavia a mani vuote, ma portano in dono tutto ciò che di bello e raro hanno pillé nei loro lunghi viaggi, da quelli presso i Caldei e gli Assiri sino, appunto, agli Italiani. Così, Le Fèvre riprende lo spunto da Du Bellay che già nella Déffence, abbiamo appena visto, esortava a «spogliare» Roma delle sue bellezze per ornarne i templi francesi, e arrichisce il motivoguida del «ritorno» che domina tutto il poema (onde il cerchio è la figura perfetta continuamente invocata dall’autore) con quello della ripetuta translatio delle arti e dei loro successivi incrementi da un possessore all’altro, sino all’ultimo e più degno, con ripresa e variazione in chiave filo-francese dell’antico motivo ermeneutico dell’ «oro degli Egizi», o della «bella prigioniera» già riproposto da Du Bellay medesimo164. Le Fèvre non è il solo a dire queste cose, e per molti aspetti non è, a ben vedere, che un epigono. Ma ci vorrebbe ben altro che un saggio se volessimo ricordare tutti gli autori e i testi francesi che, dal ‘400 agli anni della Galliade, hanno polemizzato con le affermazioni di Petrarca e hanno delineato scenari e accampato diritti come quelli che abbiamo appena letto165. La citazione fatta sopra, tuttavia, è esemplare nel suo ruolo di rovescio dialettico delle 164. Vedi sopra, note 47-50. 165. Anche la bibliografia relativa è sterminata. Ma si troverà tutto l’essenziale, e ben ragionato, nei saggi raccolti nel prezioso volume Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, già ripetutamente citato (sinteticamente, non si può non condividere la conclusione del primo saggio del curatore, Jean Balsamo, «Nous l’avons tous admiré, et imité: non sans cause. Pétrarque en France à la Renaissance: un livre, un modèle, un mythe», pag. 32: «L’histoire de la réception de Pétrarque en France à la Renaissance est celle d’une paradoxale célébration de la poésie française»). Nel volume è compreso anche un eccellente saggio di Romana Brovia, «Clément Marot e ‘l’umanesimo cristiano’ del Petrarca», pagg. 73-83: della stessa studiosa si veda ora «Traduzione e ricezione del Petrarca latino in Francia. Rassegna di studi fra due centenari (1904-2004)», Lettere italiane, 57 (2005), pagg. 287-327. 116 ENRICO FENZI posizioni di Petrarca, e insieme, dalla tarda specola del 1579, è capace di farcene intuire l’intelligenza strategica e la forza. Ma basti dire ancora –e qui davvero chiudo, districandomi dalle maglie del «petrarchismo» e tornando al tema– che il concetto della translatio studii torna nel tempo con accenti che paiono essere sempre gli stessi, ma come subisca pure alcune decisive torsioni sulle quali occorrerà riflettere meglio. Per esempio, la sua lontana matrice universalistica, calibrata sulla riconosciuta universalità dell’oggetto, sembra rivivere quale ideale appannaggio dell’ideologia e dell’esperienza di Petrarca e dell’umanesimo italiano. L’inflessione in senso più propriamente nazionale e politico del concetto sta invece quasi tutta dalla parte della Francia, nei tre «tempi» nei quali potremmo grossolanamente dividerlo: la renovatio imperii di Carlo Magno; la «rinascita» del XII secolo nella sua accezione prettamente parigina e universitaria, e infine nel XVI secolo, dopo la parentesi italiana alla quale gli stessi francesi seppur a denti stretti rendono omaggio, la ripresa in grande da parte della Francia della sua vocazione alla leadership culturale europea. Ma in tale versione, ovviamente non più romano-imperiale ma semmai nazionalistica ed accampata sullo sfondo della decadenza italiana, la Francia non è sola, perché la translatio trova la sua sponda naturale nella coscienza di sé che alimenta le auto-rappresentazioni di un’altra grande monarchia europea, la Spagna. Se è indubbio, infatti, che l’asse di gran lunga più importante lungo il quale corre il motivo della translatio è quello francese, è anche vero che esso finisce per affacciarsi negli stessi modi anche nella Spagna conquistatrice e guerriera166, e torna anche qui a rivestire la sua forma classica, com’è per 166. Anche se in formato assai ridotto rispetto alla Francia, il nostro tema potrebbe essere inseguito in verità anche nella Spagna medievale, seppur con caratteri affatto particolari data la sua sostanziale estraneità (ma un discorso a parte richiederebbe Alfonso il Savio) alle dinamiche della translatio imperii. Vedi in proposito il ricco contributo di Gaines Post, «Blessed Lady Spain-Vincentius Hispanus and Spanish National Imperialism in the Thirteenth Century», Speculum, 29 (1954), pagg. 198-209, che riferisce come il giurista e decretalista Vincenzo Ispano, nella prima metà del ‘200, annotasse che «regimen mundi, excepto regimine hyspanie, translatum est ad teutonicos», e conclusivamente osserva che il medesimo Vincenzo «glorifies Spain and the Spanish and believes that the Spanish are superior to the French and the Germans, and by their virtues merit the empire they have won and are expanding. This empire, however, is not the old, theoretically universal, Holy Roman Empire, which he would transfer from the Germans to the Spanish. It is, I feel, the Empire of Spain, of the Iberian Peninsula. His ideal, therefore, seems to be a continuation of the traditional feeling in Spain of the unity of Spanish history and civilization from the Visigothic period to the Reconquest. His ideal is no doubt limited, moreover, by the theory that the kingdom of Spain is independent of the Holy Roman Empire, for the king recognizes no superior and is emperor in his own realm, and by his own belief that Spain was never ruled by Charlemagne». «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 117 esempio in questa pagina di Fernán Pérez de Oliva, il quale si augura che, a questo punto, il movimento abbia finalmente a fermarsi: al principio del mundo fue el Siñorio en oriente, despues mas abaxo en la Asia. Despues lo vuiron Persas y Caldeos; de ay vino a Egypto, de ay a Grecia y despues a Italia, postrero a Francia. Agora de grado en grado viniendo al occidente parecio en España, y a avido crecimiento en poco dias tan grande, que esperamos ver su cumplimient167. Ed è singolare come Fernando de Herrera nelle Anotaciones a la poesía de Garcilaso (1580) riecheggi le posizioni medesime che già abbiamo visto rafforzarsi in Francia intorno alla metà del secolo. Sùbito, nelle prime intense pagine del suo commento, egli attacca i deboli e passivi imitatori di Petrarca e proclama: «Yo, si desseara nombre en estos estudios, por no ver envegecida y muerta in pocos días la gloria, que piensan alcançar eterna los nuestros, no pusiera el cuidado en ser imitador suyo [di Petrarca], sino endereçara el camino en seguimiento de los mejores antiguos, i juntando In questo stesso quadro in cui la Spagna «no podía dejar de sentir como injusto el mito de la translatio studii in Galliam» va inserita l’invenzione dell’origine spagnola di Aristotele da parte di Lucas de Tuy nel suo Chronicon mundi (1236), ripresa da Juan Gil de Zamora nel suo De preconiis Hispanie (terminato nel 1288) e da qui passata, intorno al 1440, nella Coronación del Marqués de Santillana di Juan de Mena: tutta questa intrigante vicenda, che vede anche l’intervento di Petrarca, il quale, polemizzando con Jean de Hesdin, colpisce di striscio anche Gil de Zamora che «patrie sue vano ebrius amore» aveva fatto di Aristotele uno spagnolo (Contra eum, ed. Berté, pag. 92 = ed. Crevatin, pag. 130), è perfettamente ricostruita da F. Rico, «Aristotele Hispanus», passim, al quale rimando anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. Ma va detto che anche la Spagna rende omaggio alla clergie parigina: lo fa, per esempio, proprio nei primi decenni del XIII secolo il Libro de Alexandre: «La çibdat de París yazié in media Françia, | de toda clerezía avié grant abondançia» (2582-2583, ed. Cañas: vedi José Antonio Maravall, Antiguos y modernos. Visión de la historia e idea de progreso hasta el Renacimiento, Madrid: Alianza Editorial, 1986 [I ed. 1966], pagg. 216-220). Su un piano diverso, si può anche ricordare che nei primi del secolo successivo, seppur indirettamente, Juan Ruiz, nel suo Libro de buen amor 46ss., rimanda alla topica della translatio studii (ma, nel caso, legum) dalla Grecia a Roma: «Entiende bien mis dichos e piensa la sentençia;|non me contesca contigo como al doctor de Greçia|con el ribal romano e su poca sabiençia,|quando demandó Roma a Greçia la çiençia.|Ansí fue que romanos las leyes non avíen.|Fuéronlas demandar a griegos que las tenién». 167. Las obras del maestro Fernán Pérez de Oliva [...] con otras cosas que van añadidas, Córdoba: Gabriel Ramos Bajarano, 1586, fol. 134r. Occorre ricordare che già molto tempo prima per Ottone di Frisinga la scienza dall’Egitto, sua culla, «translatam esse [...] ad Grecos, deinde ad Romanos, postremo ad Gallos et Hyspanos diligens inquisitor rerum inveniet» (vedi sopra, note 89-90). 118 ENRICO FENZI en una mescla a éstos con los italianos, hiziera mi lengua copiosa i rica de aquellos admirables despojos». Il discorso continua assai bello e interessante, là dove esalta le qualità della lingua spagnola e dove rapidamente giudica Boscan, Diego Hurtado de Mendoza e Cetina (ma, a parte, anche Sannazaro, Bembo e Molza) e torna con grandi elogi al Marchese di Santillana, che nel ‘400 già avrebbe mostrato la via giusta perché «tentó primero con singular osadía i se arroyó venturosamente en aquel mar no conocido, i bolvió a su nación con los despojos de las riquezas peregrinas»168. Ecco: si noti come qui e là, nei due passi, ricorra il termine despojos, che non a caso ci ricorda i tesori, le despouilles che, da Du Bellay a Ronsard a Le Fevre, le Muse francesi avrebbero pillées in giro per il mondo e segnatamente in Italia per poi riportarli in patria e farne cosa propria. Ma ci ricorda anche qualcosa di diverso, che oltrepassa il campo delle lettere, e cioè che era del tutto naturale che spagnoli e francesi, nella seconda metà del ‘500, guardassero all’Italia come terra di despojos, rivendicando alla loro nazione quel superiore diritto di mescla e appropriazione nei confronti della cultura italiana, che non pareva ormai avere altra positiva funzione oltre quella di essere depredata o, se si preferisce, «translata» altrove dai vincitori. E a cavallo tra il secolo XVI e il XVII Bartolomé Leonardo de Argensola, per altro ottimo petrarchista, ribadirà in forma esemplare che la Spagna vencedora e i suoi eroi valgono ben di più di una moda poetica d’importazione, scrivendo nell’epistola al principe di Squillace: Antes pidiera a Clío la sonora trompa con que los héroes eterniza, y celebrara a España vencedora, que imitar el furor que petrarquiza169. Di nuovo, e ormai inevitabilmente, si arriva alla translatio attraverso Petrarca e il petrarchismo, e di nuovo, come in Du Bellay e Ronsard, per restare ai pochi esempi che abbiamo fatto, si osserva la netta e reciproca sovrapposizione di un discorso letterario e di un discorso nazional-politico che fa leva su les victoires, les honneurs e les glories delle rispettive 168. Fernando de Herrera, Anotaciones a la poesía de Garcilaso, a cura di Inoria Pepe & José María Reyes, Madrid: Cátedra, 2001, rispettivamente pag. 273 e pag. 278. 169. Rimas de Lupercio y Bartolomé de Argensola, a cura di José Manuel Blecua, Zaragoza: Institución Fernando el Catolico, 1950-1952, II, pág. 159: XXIII 76-80. Vedi Joseph G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid: Revista de Filología EspañolaAnejo LXXII, 1960, pagg. 189 ss. (e la citazione di Luis de Narváez, avanti, nota 173). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 119 monarchie. Il che, quasi a chiudere il cerchio aperto all’inizio, ci porta a quanto ha illustrato Eugenio Asensio nel saggio che deve il titolo alle celebri parole scritte da Antonio de Nebrija nel prologo alla sua Gramática castellana del 1492: «La lengua compañera del imperio»170. Lo studioso muove dal prologo di Lorenzo Valla alle sue Elegantiae, ove la lingua latina è esaltata come la forma perenne nella quale tuttavia vive e regna l’impero romano, e mostra come tale lugar común che instancabilmente risuona nella bocca degli umanisti italiani venga ripreso e modificato in Spagna quasi per una forma di «nobile emulazione»: «La escuela de latín se transforma insensiblemente en escuela de romance y la lengua de Roma, primero piedra de toque, pasa a ser trofeo con que se enriquece el arsenal de la española o portuguesa. El proceso de emancipación se observa igualmente en la obra de los filólogos que, apoyándose en las enseñanzas tanto de los antiguos como de los humanistas recientes, alzan el edificio de las gramáticas nacionales»171. La linea del discorso è semplice e allinea, a partire da Valla e dal suo «luogo comune», le testimonianze di Gonzalo García de Santa María che nel 1490 sostiene la necessità che il nuovo regno nato dall’unione di Castiglia e Aragona adotti la lingua di Castiglia, cioè la lingua di corte, proprio come l’ha adottata egli stesso, che pure era aragonese: E porque el real imperio que hoy tenemos es castellano, y los muy excellentes rey e reyna nuestros senyores han escogido como por asiento e silla de todos sus reynos el reyno de Castilla, deliberé de poner la obra presente en lengua castellana. Porque la fabla comúnmente, más que otras cosas, sigue al imperio. E quando los principes que reynan tienen muy esmerada e perfecta la fabla, los súbditos esso mismo la tienen. E quando son bárbaros e muy ajenos de la propriedad del fablar, por buena que sea la lengua de los vassallos e subjugados, por discurso de luengo tiempo se faze como la del imperio172. Il tema è poi riformulato da Nebrija in una più ampia prospettiva di integrazione nazionale173 e torna infine, in chiave più accentuatamente 170. Revista de Filología Española, 43 (1960), pagg. 399-413. 171. E. Asensio, La lengua, pag. 400. 172. Traggo la citazione da Asensio, La lengua, pagg. 403-404, che a sua volta la trae dal prologo di Gonzalo García alla sua opera Las vidas de los sanctos religiosos, nella rara edizione di Zaragoza del 1486-91. 173. Scrive Asensio di Nebrija: «El prólogo de su Gramática castellana conjuga y une esquemas e ideas de las Elegantiae con reminiscencias, redondeadas y elaboradas de micer Gonzalo. Oigámosle: ‘Cuando bien pienso, mui esclarecida Reina, i pongo delante de los 120 ENRICO FENZI imperialistica, nel corso del ‘500, nei portoghesi Fernão de Oliveira e João de Barros, particolarmente sensibile, quest’ultimo, alla funzione evangelizzatrice della lingua174. Sin qui Asensio, che accenna al motivo della translatio ma insegue evidentemente un filo diverso. E, in effetti, proprio il suo discorso, perfettamente leggibile in chiave europea, finisce di dimostrare in maniera esemplare come la torsione subìta dal discorso sulla translatio si sia ormai tutta consumata, e ci si inoltri in un ambito nuovo che comporta come centrale non già l’idea di una translatio ricettiva, invocata per colmare un deficit di saperi, ma piuttosto quella di una translatio attiva che vorrebbe fare dei propri saperi, e in ispecie della lingua, altrettanti vettori di un’espansione propriamente imperiale. Lo spostamento è decisivo, e sta a significare che un’età è finita –quella del «sogno dell’umanesimo» di cui ha parlato così bene Rico, e dei suoi «luoghi comuni», per tornare alle parole di Asensio– e un’altra si sta aprendo. Potremmo dire, forse un po’ brutalmente, che non si tratta più di guardare all’indietro e imparare, ma di affermare se stessi. Dell’antico sapere, non importa se bene o male, ci si è finalmente appropriati o si è convinti, ch’è lo stesso, di averlo fatto, e dunque si guarda avanti, per imporre anche con la forza ciò che si è, ciò che si ha. Il grande tema della «superiorità dei moderni», insomma, è alle porte. E il rapporto con il mondo classico subisce una trasformazione profonda, nel momento in cui cessa, tale mondo, di ojos el antigüedad de todas las cosas que para nuestra recordación i memoria quedaron escriptas, una cosa hallo i saco por conclusión mui cierta: que siempre la lengua fue compañera del imperio y del tal modo lo siguió que juntamente començaron, crecieron y florecieron y después juntamente fue la caída de entrambos’. Lorenzo Valla, calcando un esquema de Cicerón –el comienzo del De senectute– hallaba que el imperio romano, más que ningún otro, había propagado juntamente con el dominio la lengua latina. Nebrija, negando la peculiar situación de Roma, asienta que las lenguas se difunden juntamente con los imperios, y con ellos mueren. Y rodeando la frase de micer Gonzalo ‘la fabla comúnmente, más que todas las otras cosas siguen al imperio’, acuña la afortunada fórmula: ‘siempre la lengua fue compañera del imperio’. Extendiendo luego a la lengua de Roma el ciclo de nacimiento, florecer y decadencia común a los hombres y a sus creaciones políticas, reseña la vida de los imperios hebreo, griego y romano» (La lengua, pag. 406). 174. Ma si veda anche, tra gli autori ricordati da Asensio, Luis de Narváez, che nel 151015, in Las Valencianas lamentaciones, fonda l’esaltazione della assoluta grandezza e superiorità della lingua spagnola rispetto alle antiche e moderne lingue sulle sue glorie militari: «No solo nos son tractables | las tierras que conquistamos | mas los mares navegamos | que fueron innavegables. | Pugnamos quasi impugnables, | a ninguno obedescemos | salvo a Dios por quien tenemos | las victorias memorables», ecc. (dall’edizione di Siviglia: Rasco, 1889, pagg. 17-19). «TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE 121 essere il passato onnicomprensivo entro il quale il medioevo continuava a concepire se stesso e verso il quale nutriva profondi sensi di colpa e crisi di identità e violente repulsioni e nostalgie. No, il passato dell’Europa che si affaccia alla modernità non è più la Grecia o Roma, che possono benissimo essere studiate dagli specialisti nelle Università e nelle Accademie: le radici nazionali sono altrove, più vicine, più drammaticamente vive e la realtà politica e sociale insegue altri modelli e altre vie... Che poi sia davvero e interamente così, è altro discorso e molto complicato. Ma certo, l’idea tutta francese che quella umanistica, nella sua versione italiana, non fosse stata che una parentesi, per quanto indifferibile e necessaria nella storia culturale dell’Europa, e che la secolare storia della translatio fosse ormai militarmente riducibile a una questione di despouilles a disposizione del più forte, non è così banale o sciocca come a prima vista può sembrare. Con i suoi chiaroscuri e le sue interessate parzialità e omissioni, essa disegna infatti uno schema dai contorni assai robusti, suscettibile d’essere riempito di colori anche molto diversi tra loro ma, alla fin fine, abbastanza corrispondente ai fatti*. * El profesor Fenzi ofreció en el Congreso un resumen de esta investigación en curso. Generosamente ha puesto a nuestra disposición el trabajo completo, que publicamos dado su enorme interés, y a pesar de que excede con mucho los límites previstos. (N. de los E.).