TRANSLATIO STUDII E IMPERIALISMO CULTURALE
ENRICO FENZI
(Università di Genova)
That we and our children were born to die, –but neither of us born
to be slaves. –No –there I mistake; that was part of Eleazer’s oration,
as recorded by Josephus (de Bell. Judaic.) – Eleazer owns he had it
from the philosophers of India; in all likelihood Alexander the Great,
in his irruption into India, after he had over-run Persia, amongst the
many things he stole, –stole that sentiment also; by which means it
was carried, if not all the way himself (for we all know he died at
Babylon) at least by some of his maroders, into Greece, –from Greece
it got to Rome, –from Rome to France, –and from France to England:
–So things come round. –By land carriage I can conceive no other
way. –By water the sentiment might easily have come down the Ganges
into the Sinus Gangeticus, or Bay of Bengal, and so into the Indian
Sea; and following the course of trade, (the way from India by the
Cape of Good Hope being then unknown) might be carried with other
drugs and spices up the Red Sea to Joddah, the port of Mekka, or else
to Tor or Sues, towns at the bottom of the gulf; and from thence by
karawans to Coptos, but three days journey distant, so down the Nile
directly to Alexandria, where the SENTIMENT would be landed at the
very foot of the great stair-case of the Alexandrian library, –and from
that store-house it would be fetched. –Bless me! What a trade was
driven the learned in those days! (Tristram Shandy V, 12)*
* Cito conservando le particolarità grafiche dell’originale dalla prima edizione del
vol./libro V, London: T. Becket & P. A. Dehondt in the Strand, 1760: vol. 1, pagg. 440-441
della riproduzione a cura di Melwin New e Joan New, Gainesville: University of Florida
[The Florida Edition of the Works of Laurence Sterne], 1978. Alle note dei curatori, vol. 3,
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20
N
ENRICO FENZI
del 1726 il filosofo inglese George Berkeley, già autore
di appassionati interventi sulla necessità di programmi educativi
per gli abitanti del nuovo mondo, compose una lirica il cui titolo,
America or the Muse’s Refuge. A Prophecy, fu poi mutato per la stampa in
Verses on the prospect of Planting Arts and Learning in America1:
EL FEBBRAIO
The Muse, disgusted at an Age and Clime,
barren of every glorious Theme,
in distant Lands now waits a better Time,
producing Subjects worthy Fame:
in happy Climes, where from the genial Sun
and virgin Earth such Scenes ensue,
the Force of Art by Nature seems outdone,
and fancied Beauties by the true:
in happy Climes the Seat of Innocence,
where Nature guides and Virtue rules,
where Men shall not impose for Truth and Sense,
the Pedantry of Court and Schools:
there shall be sung another golden Age,
the rise of Empire and of Arts,
the Good and Great inspiring epic Rage,
the wisest Heads and noblest Hearts.
Not such as Europe breeds in her decay;
such as she bred when fresh and young,
when heav’nly Flame did animate her Clay,
by future Poets shall be sung.
Westward the Course of Empire takes its Way;
the four first Acts already past,
a fifth shall close the Drama with the Day;
Time’s noblest Offspring is the last.
pagg. 361-362, rimando anche per la questione della indiretta e imprecisa citazione da
Giuseppe Flavio, che sembra derivata dal Biathanatos di John Donne.
1. Li si legga in The Works of George Berkeley Bishop of Cloyne, edited by A. A. Luce
& T. E. Jessop, London & Edinburgh: Nelson, 1955, VI pagg. 369-371, con importante nota
dei curatori che pubblicano anche la prima versione, con alcune notevoli varianti nelle due
prime quartine e nell’ultimo verso (vv. 1-2: «The muse, offended at this Age, these Climes |
where nought she found fit to rehearse»; vv. 7-8: «such scenes as shew that Fancy is outdone,
| and make Poetic Fiction true»; v. 24: «the worls’s great Effort is the last». Opportunamente
li ricorda R. W. Southern, Scholastic Humanism and the Unification of Europe. I. Foundations, Oxford UK & Cambridge USA: Blackwell, 1995, pagg. 208 ss.
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In tema di translatio studii e badando alla data, si riconoscerà che si tratta
di un testo davvero intrigante, che tra altre cose ci stimola a ulteriori salti
in avanti. Per esempio al volume dello storico americano Eric Fischer che,
in piena guerra mondiale, giudicava che la civiltà dell’occidente avrebbe
potuto salvarsi e rinnovarsi solo migrando dalla vecchia Europa verso altri
continenti2, oppure, appena ieri, ai discorsi sia del parlamentare repubblicano Gingrich che del democratico presidente Clinton (il primo, il 4 gennaio
1995, nel discorso d’apertura della Camera dei Rappresentanti; il secondo
poco dopo, il 24 gennaio 1995, nel Discorso sullo stato dell’Unione), che
esaltavano entrambi il ruolo fondamentale di Tocqueville nella translatio
dei valori sociali e politici dall’Europa all’America. E non è finita qui perché,
come ognun vede, si potrebbe arrivare facilmente all’oggi: all’ideologia
cosiddetta neo-con costruita attorno al ruolo «imperiale» degli Stati Uniti e
alle relative polemiche contro una Europa affatto decaduta e, appunto, irrimediabilmente invecchiata. Del resto, che questa non sia una attualizzazione
del tutto futile lo mostra un recente bel saggio che richiama l’attuale politica degli Stati Uniti per introdurre il tema dell’ideologia universalistica e
globalizzante dell’impero romano3. Ma è curioso e suggestivo insieme che
i versi di Berkeley ci proiettino contemporaneamente sia avanti che indietro:
vertiginosamente indietro.
I primi quattro atti sono già passati: il Dramma si chiuderà solo con il
quinto e ultimo. Che significa? Di là dalla bella metafora che rinvia alla
classica struttura in cinque atti della tragedia, non credo ci siano dubbi: il
sapiente vescovo di Cloyne rimanda a san Gerolamo, che commentando
le profezie bibliche di Daniele, aveva distinto entro la storia universale (il
Dramma) quattro imperi che si erano succeduti l’uno all’altro: l’assiro-babilonese, il medo-persiano, il greco-macedone e il romano4. Ora, dice
2. Eric Fischer, The passing of the European age. A study of the transfer of Western
civilization and its renewal on other continents, Cambridge Mass.: Harvard University Press,
1943 (poi, New York: Russel & Russel, 1967). Lo cita proprio nelle prime righe di un saggio
assai importante, al quale dovrò più volte ricorrere, A. G. Jongkees, «Translatio Studii: les
avatars d’un thème médiéval», in Miscellanea Mediaevalia in memoriam Jan Frederik Niermeyer, Groningen: J. B. Wolters, 1967, pagg. 41-51.
3. María José Hidalgo de la Vega, «Algunas reflexiones sobre los límites del oikoumene en el Imperio Romano», Gerión, 23, 1 (2005), pagg. 271-286.
4. Sulle profezie di Daniele e sull’interpretazione di Gerolamo torno poco avanti, ma
avverto sùbito che tale interpretazione, per quanto in passato generalmente accolta, è stata
ormai rifiutata dagli interpreti moderni che hanno qualche difficoltà a definire i quattro regni
(babilonese; medo; persiano; greco, oppure, preferibilmente: babilonese, medo-persiano;
greco; seleucide), ma sono concordi nell’escludere quello romano.
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ENRICO FENZI
Berkeley, è il momento del quinto e ultimo e più nobile di tutti: quello
americano. Ma aggiunge ancora qualcosa che dà il senso di un movimento
lento e potente, che dall’Oriente, culla del potere e del sapere, volge irresistibilmente verso Occidente: «Westward the Course of Empire takes its
Way». Il che è proprio quanto scriveva a metà del XII secolo Ottone di
Frisinga nel Prologo alla sua grande Chronica sive Historia de duabus civitatibus, riassumendo e rendendo esplicito quanto le sue fonti di fatto già
indicavano:
Et notandum quod omnis humana potentia seu scientia ab oriente cepit
et in occidente terminatur, ut per hoc rerum volubilitas ac defectus
ostendatur5.
Ma a questo punto, varcato un così seducente ingresso, il panorama
che ci si spalanca davanti è troppo ampio, sì che per percorrerlo ed arricchirlo di qualche nuova osservazione è necessario procedere con un minimo
di ordine, tentando una sorta di abbozzo fortemente selettivo e «orientato»
delle remote origini del motivo.
1. GLI
ARCHETIPI
La teoria dei quattro grandi regni, più un quinto e ultimo, ha origini
orientali, assai probabilmente persiane, e, come ha mostrato Arnaldo Momigliano, era già presente a Erodoto e a Ctesia6, ed è probabile che non molto
5. Ottonis Episcopi Frisingensis Chronica, edited by Hofmeister, MGH, SS RG in usum
scholarum, 1912, pag. 8.
6. Arnaldo Momigliano, «Daniele e la teoria greca della successione degli imperi»,
Rendiconti della Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. VIII,
35, 4 (1980), pagg. 157-162. La bibliografia è assai vasta: vedi almeno Harold H. Rowley,
Darius the Mede and the four World Empires in the Book of Daniel: A historical study of
contemporary theories, Cardiff: University of Wales Press Board, 1964 (prima ed., ibid. 1935);
G. W. Trompf, The Idea of Historical Recurrence in Western Thought from Antiquity to the
Reformation, Berkeley & Los Angeles & London: University of California Press, 1979, pagg.
222-229 (si tratta del par. The Rise, Fall, and Succession of Empires: Patristic and Medieval
Themes); Mathias Delcor, Le livre de Daniel, Paris: Gabalda et Cie, 1971 (sul sogno della
statua, pagg. 78-87; sul sogno delle quattro bestie, pagg. 143-149); il volume Da Roma alla Terza
Roma. III. Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, Napoli, 1986, che contiene i saggi
di Mathias Delcor, «La prophétie de Daniel (chap. 2 et 7) dans la littérature apocalyptique
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dopo la vittoria di Scipione su Antioco III a Magnesia, nel 190-189 a. C.,
sia giunta a Roma, ove ne troviamo una precoce e chiara testimonianza
databile tra il 189 e il 1717. Si tratta di un passo infiltratosi anticamente a
mo’ di glossa nelle Historiae romanae di Velleio Patercolo, I 6, 6, trascritto
dall’opera altrimenti sconosciuta De annis populi romani di un altrettanto
ignoto Emilio Sura. Ecco il passo:
Aemilius Sura de annis populi romani: Assyrii principes omnium gentium
rerum potiti sunt, deinde Medi, postea Persae, deinde Macedones; exinde
duobus regibus Philippo et Antiocho, qui a Macedonibus oriundi erant,
haud multo post Carthaginem subactam devictis, summa imperii ad
populum Romanum pervenit. Inter hoc tempus et initium regis Nini
Assyriorum, qui princeps rerum potitus, intersunt anni MDCCCCXCV,
che rimanda a una tradizione alla quale attinge anche l’autore del Libro
di Daniele, un testo probabilmente composito che risale agli anni 168-165
a. C., mentre era in corso la guerra degli Ebrei contro Antioco IV. È tuttavia
opportuno cominciare proprio di qui, da Daniele, dal momento che sono
state proprio le sue profezie e le interpretazioni che ne ha dato Gerolamo
e che Agostino ha avallato (De civ. Dei XX 23) a godere di lungo prestigio.
juive et chrétienne, en réference spéciale à l’Empire romain», pagg. 11-24; di Manlio Simonetti, «L’esegesi patristica di Daniele 2 e 7 nel II e III secolo», pagg. 37-47, e di M. Pavan, «Le
profezie di Daniele e il destino di Roma negli scrittori latini cristiani dopo Costantino», pagg.
291-308. Ma ora soprattutto Hervé Inglebert, Interpretatio Christiana. Les mutations des
savoirs (cosmographie, géographie, ethnographie, histoire) dans l’Antiquité chrétienne (30630 après J.-C.), Paris: Institut d’Études Augustiennes, 2001, pagg. 342-364, che dedica all’argomento un ricco e fondamentale paragrafo, attento a ricostruire le vicende e la fortuna del
motivo nell’area greco-cristiana, giudaica e siriaca (Afraate, Efrem di Nisbe), e infine considera la tarda ripresa nella tradizione occidentale, a partire dalla traduzione della Cronaca
di Eusebio da parte di Gerolamo (circa 380), dalla Cronaca di Sulpicio Severo (ca. 400) e
dal commento di Gerolamo al libro di Daniele (407), per concludere con la «variante» di
Origene e con tre tavole sinottiche che riassumono le varie versioni della teoria nella tradizione orientale, in quella occidentale giudaica e cristiano-greca, e in quella occidentale latina.
7. Vedi Joseph W. Swain, «The Theory of the four Monarchies: Opposition history
under the Roman Empire», Classical Philology, 35 (1940), pagg. 1-21, che già aveva chiarito
sia lo sfondo storico e i relativi problemi di cronologia, sia le principali questioni relative alle
varianti con le quali la sequenza compare presso autori diversi. Certo che leggendo qui,
pag. 4: «We may therefore suggest that the theory of four monarchies and a fifth was brought
to Rome from Asia Minor. Perhaps the list was picked up by a Roman who participated in
the Magnesia campaign under Scipio», o ancora, pagg. 11-12, a proposito dei contatti con il
mondo persiano dei «Roman soldiers at Magnesia», è piacevole chiedersi, con Sterne: by
land oppure by water?
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ENRICO FENZI
Rileggiamo gli episodi relativi al primo sogno di Nabucodonosor (2, 145), e al sogno di Daniele stesso (7, 1-28), chiaramente tra loro collegati8.
Molto sommariamente: Nabucodonosor aveva sognato una grande statua
di terribile aspetto, con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il
ventre e i fianchi di bronzo, la gambe di ferro e i piedi parte di ferro e
parte di argilla. Mentre la contemplava, una pietra staccatasi senza intervento
di mano umana dalla montagna andava a sbattere contro i piedi di ferro e
di argilla e li faceva a pezzi, e rapidamente non solo il ferro ma pure il
bronzo, l’argento e l’oro si polverizzavano ed erano portati via dal vento,
mentre la pietra si trasformava in una grande montagna che copriva tutta
la terra. Daniele spiega al re come, dalla testa ai piedi, i diversi metalli
rappresentino i grandi regni, da quello d’oro che è quello di Nabucodonosor medesimo a quelli che via via gli succederanno, di metallo sempre
più vile, sino a quello di ferro che sarà insieme forte e fragile, indebolito
dalle instabili alleanze rappresentate dall’argilla9. La pietra che diventa
montagna è invece l’ultimo regno, quello di Dio, che distruggerà tutti i
precedenti e durerà per sempre.
Nell’altro sogno, appaiono a Daniele quattro grandi bestie che escono
dal mare: un leone con ali d’aquila, un orso, una pantera con quattro ali
e quattro teste e infine, più terribile di tutte, una bestia senza nome con
dieci corna e grandi denti di ferro con i quali stritola le sue vittime. Ma
ecco che dinanzi a un anziano seduto su un trono di fuoco ardente si
raduna un tribunale celeste, e l’ultima bestia viene uccisa mentre le altre
sopravvivono private del loro dominio: dopo di che compare un essere
simile all’uomo (7, 21: «quasi filius hominis veniebat») e a lui viene data
potestà, onore e regno senza fine. La spiegazione della visione che, sempre
in sogno, viene data a Daniele indica nelle quattro bestie quattro regni di
origine terrena, e nell’ultimo che annienterà tutti gli altri e durerà in eterno
il regno di Dio (7, 17-18: «hae bestiae magnae quattuor | quattuor regna
consurgent de terra |suscipient autem regnum sancti Dei | altissimi | et
obtinebunt regnum usque in saeculum et saeculum saeculorum»).
8. Anche sul sogno non può mancare una troppo vasta bibliografia. In aggiunta a
quella specifica su Daniele data sopra, nota 6, mi limito a rinviare al ricco quadro d’assieme
di Jacques Le Goff, «Le christianisme et les rêves (IIe-VIIe siècles)», in I sogni nel Medioevo. Seminario Internazionale, Roma, 2-4 ottobre 1983, a cura di Tullio Gregory, Roma: Edizioni
dell’Ateneo, 1985, pagg. 171-218, mentre una analisi importante e una ricca bibliografia, a
quella data, si trova nel vol. di Martine Dulaey, Le rêve dans la vie et la pensée de saint
Augustin, Paris: Études Augustiniennes, 1973.
9. Oggi vi si intende un’allusione alla politica matrimoniale tra i Seleucidi di Siria e i
Tolomei d’Egitto.
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Ho riassunto trascurando molti elementi, perché ciò che ora importa è
isolare la teoria dei quattro regni terreni che nelle intenzioni dell’autore
erano quasi certamente da identificare in quelli dei Caldei, dei Medi, dei
Persiani e dei Greci. Gerolamo, che ha introdotto la teoria entro la storiografia cristiana per diretta influenza di Eusebio10, fa rientrare nella serie
Roma e ribadisce la propria interpretazione istituendo un preciso, univoco
parallelismo tra i due diversi sogni11. Il primo regno: testa d’oro e poi leone,
è il «regnum Babylonium». Il secondo regno: petto e braccia d’argento e poi
orso, è il regno dei Medi e dei Persiani:
Medorum videlicet atque Persarum, quod argenti habet similitudinem,
minus priore, et majus sequente [...] Bestia secunda urso similis, ipsa est
de qua in visione statuae legimus: Pectus ejus et brachia de argento,
haec ob duritiam et ferocitatem urso comparatur. Rigidum enim et
parcioris victus in more Lacedaemoniorum regnum Persarum fuit.
Il terzo regno: ventre e fianchi di bronzo e poi pantera con quattro ali
e quattro teste, è il regno di Alessandro Magno:
Alexandrum significat, et regnum Macedonum successorumque
Alexandri. Quod recte aeneum dicitur: inter omnia enim metalla aes
vocalius est, et tinnit clarius, et sonitus ejus longe lateque diffunditur, ut
non solum famam et potentiam regni, sed eloquentiam Graeci sermonis
ostenderet […] Nihil enim Alexandri victoria velocius fuit, qui ab Illyrico
10. Lo schema di Eusebio (Assiri, Persiani, Macedoni e Romani) è esplicito nella sua
Demonstr. Evang. XV fr. 1, PG 22, col. 793 (= Eusebius Werke, edited by I. A. Heikel, nei Griechische Christliche Schriftsteller, 1913, VI, pag. 434: lo cito per comodità dalla traduzione
che accompagna il testo greco nella PG): a Nabucodonosor «superbo et majorum suorum
diutina dominatione elato, rerum conversio ostenditur regnorumque terrestrium finis: scilicet
ob ejus animi curandam tumiditatem, atque ut is nihil in hominibus stabile judicaret, praeter
divini super omnes mortales regni consummationem. Nam primam Assyriorum dominationem, quam aurum portendebat, excepturum erat secundo loco Persarum imperium argento
demostratum. Deinde tertium Macedonum regnum quod aere significabatur. Post quod Romanorum quartum, caeteris quae praecesserant fortius, quare et ferro comparatur diciturque de
eo: quartum erit regnum validum ferri instar. Ac veluti ferrum omnia extenuat domatque, ita
hoc regnum omnia comminuturum ac subjugaturum. Post haec omnia Dei regnum in lapide
totam statuam conterente agnoscere est».
11. I passi che seguono sono citati dal Commentariorum in Danielem liber, in PL 25,
coll. 503-504, e coll. 528-530. In generale, sui caratteri dell’esegesi di Gerolamo vedi Pierre
Jay, «Jérome et la pratique de l’exégèse», in Le monde latin antique et la Bible, sous la direction de Jacques Fontaine-Charles Pietri, Paris: Beauchesne, 1985, pagg. 523-541.
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et Adriatico mari usque ad Indicum Oceanum et Gangem fluvium, non
tam praeliis quam victoriis percurrit, et in sex annis partem Europae et
omnem sibi Asiam subjugavit. Quatuor autem capita eosdem dicit duces
ejus, qui postea sccessores regni exstiterunt, Ptolomaeum, Seleucum,
Philippum, Antigonum.
Il quarto regno, infine: piedi di ferro e d’argilla e poi bestia innominata
dagli enormi denti di ferro, è quello di Roma, come in effetti appare dalle
condizioni presenti dell’impero che Girolamo ha sotto gli occhi. Ad esso
seguirà non tanto un regno vero e proprio, quanto l’universale dominio di
Cristo su questa terra:
Regnum autem quartum, quod perspicue pertinet ad Romanos, ferrum
est quod comminuit et domat omnia. Sed pedes ejus et digiti ex parte
ferrei et ex parte sunt fictiles, quod hoc tempore manifestissime comprobatur. Sicut enim in principio nihil Romano imperio fortius et durius fuit,
ita in fine rerum nihil imbecillius: quando et in bellis civilibus et adversus
diversas nationes, aliarum gentium barbararum indigemus auxilio. In
fine autem horum omnium regnorum auri, argenti, aeris et ferri, abscissus
est lapis, Dominus atque Salvator, sine manibus, id est, absque coitu et
humano semine, de utero virginali, et contritis omnibus regnis, factus
est mons magnus, et implevit universam terram.
Passando al passo relativo alla bestia, Gerolamo non insiste nell’identificazione, che dà per scontata, ma aggiunge un’altra considerazione di
carattere personale12 che non può che confermarla:
Satiaque miror, quod cum supra leaenam et ursum et pardum, in tribus
regnis posuerit, Romanum regnum nulli bestiae compararit: nisi forte ut
formidolosam faceret bestiam, vocabulum tacuit ut quidquid ferocius cogitaverimus in bestiis, hoc Romanos intelligamos [...] dum in uno imperio
Romanorum omnia simul regna cognoscimus, quae prius fuerant separata.
L’interpretazione di Gerolamo dei quattro regni (ripeto: babilonese,
persiano, greco-macedone e romano) ha fissato uno schema che ha fatto
testo per secoli, e che la «variante» di Orosio non ha sostanzialmente
12. Circa la prima considerazione, che suona polemica verso Stilicone («in bellis
civilibus et adversus diversas nationes, aliarum gentium barbararum indigemus auxilio»),
vedi Pierre Courcelle, Histoire littéraire des grandes invasions germaniques, Paris: Études
Augustiennes, 1964, pag. 43.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
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intaccato13. Questo schema trascina tuttavia con sé alcuni elementi di ambiguità relativi a due possibili direzioni di lettura14. La prima di queste sta
all’interno stesso del testo di Daniele, in una sentenza che per tutto il medioevo,
e oltre, è stata assunta come base assoluta dell’intero edificio interpretativo:
i regni di questa terra si affermano e crollano attraverso le epoche per il
semplice fatto che il loro potere deriva per intero dall’arbitrio di Dio, sì che
in definitiva essi altro non sono che una manifestazione particolare del fatto
che ogni realtà terrena, anche quella del potere più forte e radicato, è di per
sé instabile e passeggera. Si legge in Dan. 2, 21, e commenta Girolamo:
Et ipse mutat tempora et aetates, et transfert regna atque constituit. Non
ergo miremur, si quando cernimus, et regibus reges et regnis regna succe13. L’identificazione del quarto regno con Roma trovava appoggio nella violenza antiromana dell’Apocalisse di Giovanni (vedi in part. 17, 5). Senza scendere qui in più minute
distinzioni, si hanno esempi dell’ampia fortuna del motivo in Dionigi d’Alicarnasso, Ant.
Rom. I 2, 2-4; nella Storia romana di Appiano, Praef. 9 (durissimo, come Livio, sugli asiatici «effeminati e codardi»); in Claudiano, De cons. Stilichonis III 159-160, che apre e termina
con Roma («Nec terminus umquam | Romanae dicionis erit, nam cetera regna | luxuries
vitiis odiisque superbia vertit: | sic male sublimes fregit Spartanus Athenas | atque idem
Thebis cecidit; sic Medus ademit | Assyrio Medoque tulit moderamine Perses; | subiecit
Persen Macedo, cessurus et ipse | Romanis»); Rutilio Namaziano, De redito suo 83-86, ecc.
Anche l’opera dello storico d’opposizione e «filo-partico» Pompeo Trogo è costruita sullo
schema della successione degli imperi, a partire dagli Assiri, i Medi, i Persiani nel l. I, e passa
nel l. VII ai Macedoni e poi ai Romani, ma concede largo spazio ai Parti ai quali attribuisce
addirittura un altro impero: «Parthi, penes quos velut divisione orbis cum Romanis facta nunc
Orientis imperium est, Scytharum exules fuere...» (in Giustino, XLI 1, 1 ss.). Vedi J. W. Swain,
«The Theory of the Four Monarchies», pagg. 16-17. Aggiungo sùbito che per quanto dico e
dirò è preziosissimo il volume di Werner Goez, Translatio Imperii. Ein Beitrag zur Geschichte des Geschichtsdenkens und der politischen Theorien im Mittelalter und in der frühen
Neuzeit, Tübingen: Mohr, 1958, al quale è indispensabile ricorrere perché in esso è raccolta
una imponente e pressoché esaustiva rassegna dei testi che, attraverso i secoli, hanno toccato
il tema della translatio imperii. Orosio, in II 1, 1-6, e diffusamente in VII 2, 1-16, propone uno
schema diverso, che prevede, seguendo l’orientamento dei quattro punti cardinali, due imperi
universali, quello di Babilonia e quello di Roma, fra i quali si intromettono due imperi minori,
di transizione: quello dei Macedoni e quello dei Cartaginesi: vedi per ciò Eugenio Corsini, Introduzione alle storie di Orosio, Torino: Giappichelli, 1968, pagg. 158-168; l’esposizione di MariePierre Arnaud-Lindet nell’Introduction alla sua edizione delle Storie di Orosio, Paris: Les Belles
Lettres, 1990, pagg. XLVI-LXVI, e la sintesi di H. Inglebert, Interpretatio Christiana, pagg.
360-361. Una trecentesca ripresa dello schema di Orosio è per esempio in Martino Polono:
vedi Martini Oppaviensis Chronicon, edited by Pertz, MGH SS, 1872, XXII, pag. 398.
14. Tali diverse direzioni emergono bene nei sintetici cenni di Ernest Robert Curtius,
Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), a cura di Roberto Antonelli, Firenze: La Nuova
Italia, 1992, cap. II § 4, pagg. 36-37, e in qualche modo questa prima parte dell’intervento
può anche essere intesa come un tentativo di chiarirne il senso e la portata.
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ENRICO FENZI
dere, quae Dei gubernantur et mutantur et finiuntur arbitrio. Causasque
singulorum novit ille cui conditor omnium est, et saepe malos reges
patitur suscitari, ut mali malos puniant15.
Le ragioni ultime di tante vicende storiche sono, in definitiva, incomprensibili, pur se le colpe degli uomini restano l’unica cosa certa che non si
sbaglierà mai ad allegare, come Gerolamo dice e come già diceva altrove
la Bibbia, facendone la causa diretta di quelle catastrofiche translationes
di regno in regno: «Regnum a gente in gentem transferetur propter iniustitias et iniurias et contumelias et diversos dolos» (Eccli. 10, 8). E sono appunto
queste le parole che determineranno nei secoli seguenti almeno uno dei
modi di concepire le translationes, indifferenti sotto l’aspetto storico se
considerate singolarmente, e per contro unificabili solo entro la prospettiva trascendente del giudizio divino16. La sequenza dei regni, insomma, è
governata da una legge puramente negativa –la corruzione di ogni istituzione umana– e al limite addirittura casuale, in ultima analisi riferibile al
misterioso «arbitrio» divino ch’è libero di muoversi in tutte le direzioni e
«saepe malos reges patitur suscitari, ut mali malos puniant». Occorre dire
anche che questo suo carattere negativo trattiene un’intima relazione con
la concezione cristiana del potere, qual è soprattutto testimoniata con particolare vigore e forza di penetrazione da Agostino. Di là dall’ampio quadro
storico tracciato in De civitate Dei V 12 ss., durissima è la condanna del
santo, per esempio nel libro III, della crudele serie di guerre che Roma
intrapprese mossa solo dalla sua libido dominandi, e altrettanto chiara è
la differenza che corre tra la «città terrena» e quella «celeste», ibid. XIV 28,
e innegabile il processo di guerre attraverso le quali i grandi imperi, a cominciare da quello Assiro, allargarono il loro potere, ibid. XVIII 2. Né sarà
improprio ricordare, infine, che la prima città fu fondata dal fratricida Caino
(Gen. 4, 17), e che Roma fu fondata dal fratricida Romolo: coppia esemplare,
15. PL 25, col. 500.
16. Si veda per esempio Rabano Mauro, Comment. In Ecclesiasticum III 1, PL 109, col.
827: «‘Regnum a gente in gentem trasferetur propter injustitias et injurias et contumelias
et diversos dolos’. Huius sententiae veritatem omnium pene gentium notant historiae, et
causas diversorum populorum ostendunt. Nec hoc ignorare potest, qui Chaldaeorum
et Persarum Graecorumque potentissima regna subversa legit, et Romanorum regnum
vacillare conspicit, nec stabile aliquid in mundo esse perpendit. Aliter, hoc significare
potest quod propter praevaricationes et caecitatem prioris populi translatum est ad gentes
Evangelium Christi». Muove dalla citazione biblica e segue la stessa linea anche il capitolo
Ex quibus causis transferantur principatus et regna di Giovanni di Salisbury, Policraticus
IV 12, edited by Webb, pagg. 276-279.
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29
per Agostino, della violenza che regna nella «città terrena» (De civ. Dei XV
5 e 8)17. Ma non basta, ché i giudizi di Agostino s’innestano in una visione
più ampia: il dominio dell’uomo sull’uomo e dunque qualsiasi «potere» in
quanto tale, comunque organizzato, è intimamente contrario all’ordine
naturale, ed è invece l’innaturale ed esecrabile frutto della caduta del genere
umano nel peccato, della quale è insieme, ambiguamente, dura punizione
e parziale quanto indispensabile rimedio (De civ. Dei XIX 15: Dio «rationalem
factum ad imaginem suam noluit nisi irrationabilibus dominari; non
hominem homini, sed hominem pecori. Inde primi iusti pastores pecorum
magis quam reges hominum constituti sunt, ut etiam sic insinuaret Deus,
quid postulet ordo creaturarum, quid exigat meritum peccatorum»). Per lui,
potremmo ulteriormente compendiare, la tendenza degli uomini ad associarsi in comunità di eguali ha la sua radice nell’ordine della natura, mentre
lo stato, in quanto potere coercitivo, ha la sua radice nel peccato18. Ora, si
capisce bene come una concezione siffatta si prestasse a un arco assai
ampio di interpretazioni e variazioni, ché da un lato invitava a percepire
il carattere fondamentalmente violento e immorale del potere, e dall’altro
lo sublimava quale espressione diretta della volontà divina, sia nell’aspetto
spiccatamente punitivo del tiranno che in quello riparatore e ordinatore del
re. Occorre dire che il secondo aspetto fu quello di gran lunga dominante,
e comportò che, da Agostino in poi, ogni ribellione al potere costituito fosse
17. Sintetizza efficacemente Claudio Leonardi: «La storia della civitas hominum è per
Agostino una perpetua ripetizione del gesto di Caino» («Gregorio VII a Ermanno di Metz»
[1996], in Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, Firenze: SISMEL/Edizioni del
Galluzzo, 2004, pagg. 399-404: pag. 400). E Lidia Storoni Mazzolari, Sant’Agostino e i pagani,
Palermo: Sellerio, 1988, pag. 106: «In contrasto con la fierezza dei romani, egli [Agostino]
nega il valore delle glorie e delle conquiste; percepisce il silenzio e il gemito dei vinti; definisce il dominio il risultato d’un immenso banditismo», ecc. In generale, per l’argomento qui
appena sfiorato, vedi il denso volume di Gaetano Lettieri, Il senso della storia in Agostino
d’Ippona. Il «saeculum» e la gloria nel «De civitate Dei», Roma: Borla, 1988. Ma particolarmente utile resta ancora il saggio di Paolo Gerosa, «S. Agostino e l’imperialismo romano», in
Miscellanea Agostiniana, Roma: Tipografia Poliglotta Vaticana, 1931, II, Studi Agostiniani,
pagg. 997-1040.
18. Così Robert A. Markus, Saeculum: History and Society in the Theology of Saint
Augustine, Cambridge: Cambridge University Press, 1950, pagg. 204-205. Ma vedi anche P.
Gerosa, «S. Agostino e l’imperialismo romano», in La dominazione degli uomini sopra gli
uomini come perturbamento dell’ordine morale, part. § 5, pagg. 1031-1036, con numerose
citazioni di passi agostiniani; G. Lettieri, Il senso della storia, capp. 7 e 8, pagg. 94-118, e,
con ulteriori indicazioni bibliografiche, Leandro Polverini, «La storia romana nel De civitate
Dei», in Il «De civitate Dei». L’opera, le interpretazioni, l’influsso, a cura di Elena Cavalcanti,
Roma, Freiburg & Wien: Herder, 1996, pagg. 19-33.
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ENRICO FENZI
coerentemente considerato il peggiore dei delitti: e i fratelli Carlyle nella
loro grande opera l’hanno mostrato in mille modi. Ma a me sembra che essi
abbiano troppo trascurato l’altro filone che, date le premesse, non poteva
non esistere: non già quello sacro e provvidenziale dell’origine divina del
potere, ma quello oscuro e inquietante che riconosce tale origine e però
del potere fa, con qualche inevitabile schizofrenia, il primo frutto avvelenato del peccato, e dunque della libido dominandi, della volontà di rapina,
dell’ambizione, dell’avidità19. Solo così, mi pare, riusciamo a intendere le
famose lettere di Gregorio VII, Ildebrando di Soana, a Ermanno vescovo
di Metz, che tanto scandalo hanno suscitato e che ancora i fratelli Carlyle
carcano di addolcire insistendo sul fatto che anche per Gregorio Dio è
fonte di ogni potere terreno. D’accordo: ma proprio qui sta il tragico della
faccenda. Cosa affermano, infatti, quelle lettere, con tanta eloquenza? Che
il potere terreno, appunto, ha avuto origine dal peccato e che è e resta
intrinsecamente un peccato esercitare un dominio super pares, e cioè su altri
19. Robert W. e Alexander J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, Bari: Laterza, 19561968 (1903-1909: seconda ed., 1950). La discussione sul punto potrebbe essere assai lunga:
qui, brevemente, mi preme sottolineare come gli studiosi inglesi diano spazio alle lettere di
Gregorio VII delle quali sùbito parlerò, ma si preoccupino anche di tagliare le unghie al
loro contenuto mediante una «contestualizzazione riduttrice» (normalmente Gregorio manifesta opinioni più ortodosse…), che però non intacca la forza e l’autonomia di quelle (vedi
II, pagg. 110-121). Allo stesso modo, e qui la cosa ha una portata molto più generale, essi
inizialmente riconoscono il forte pessimismo di fondo della visione agostiniana, ma poi lo
depotenziano in un modo che a me sembra alquanto contorto e poco convincente (vedi I,
pagg. 184-190). In estrema sintesi, Agostino dimostra che se si accetta, con Cicerone, che
fondamento dello stato sia la giustizia, ebbene, né quello romano ne alcun altro può essere
chiamato tale; se invece si assume, accantonata la giustizia, che lo stato sia una comunità di
esseri razionali uniti da un interesse condiviso, ebbene, allora non solo quello di Roma ma
anche ogni altro stato storicamente esistito può essere definito così. Ma ciò comporta, e
Roma ne è un esempio evidente, che la giustizia sia allora concepita come l’interesse del più
forte, «id esse ius quod ei qui plus potest utile est» (De civ. Dei XIX 21, 1, con ripresa, dunque,
della tesi esposta e combattuta già da Platone: ma vedi gli interi capp. 21-28, per la questione
dello «stato»). Di qui la famosa battuta: «Remota itaque iustitia, quid sunt regna, nisi magna
latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt, nisi parva regna?» (De civ. Dei IV 4), che i Carlyle,
pur titubanti, vorrebbero intendere a rovescio, e cioè come prova che per Agostino proprio
la giustizia legittimerebbe i regna contro i latrocinia, quando invece (si rilegga tutto il capitolo agostiniano) non si tratta che della riproposizione in chiave assolutamente positiva
dell’aneddoto di Alessandro Magno e del pirata (tratto da Cicerone, De republica III 14, 24),
il quale affermava che solo il fatto di possedere una sola nave invece di una flotta faceva di
lui un pirata invece che un re. Aggiungo ancora che i Carlyle, pur parlando delle posizioni
di Tolomeo da Lucca non ricordano il passo al quale faccio poco avanti riferimento (su
Tolomeo, vedi in particolare III, pagg. 363-368).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
31
uomini20. Ma ancora a metà del XIII secolo Vincenzo di Beauvais si chiedeva
come fosse possibile che da un lontano principium criminale i moderni
governanti potessero ricavare patenti di legittimità21, e più tardi Tolomeo
da Lucca, uno dei più importanti sostenitori della supremazia papale, sottolineava come «segno» e «argomento» della natura intimamente corrotta del
potere fosse il fatto che, all’origine del mondo, solo e precisamente i reprobi
avessero instaurato rapporti di dominio su altri uomini (il corsivo è mio):
«Ab initio seculi post peccatum non eo modo dominium est assumptum,
sed ex quodam fastu superbie ac dominandi libidine per usurpationem
incepit, cuius signum et argumentum haberi potest, quia soli reprobi in
principio creationis mundi dominium assumpserunt, unde ante diluvium
primus dominus inter homines fuit Chaym, ut Augustinus dicit XV de Civitate Dei c. XX»22. In questa forma, il tema deriva dal Decretum di Graziano
20. Ecco, dalla lettera del 1081: «Quis nesciat reges et duces ab iis habuisse principium
qui, Deum ignorantes, superbia, rapinis, perfidia, homicidiis, postremo universis pene sceleribus, mundi principe Diabolo videlicet agitante, super pares, scilicet homines, dominari caeca
cupidine et intolerabili praesumptione affectaverunt» (Registrum VIII 21). E da un’altra, del
1076, ov’è ancora più evidente, se possibile, la matrice agostiniana: «Sed forte putant quod regia
dignitas episcopalem praecellat. Ex earum principiis colligere possunt, quantum a se utraque
differunt. Illam quidem superbia humana repperit, hanc divina pietas instituit. Illa vanam
gloriam incessanter captat, haec ad cœlestem vitam semper aspirat» (ibid. IV 2: cito da R. W.
& A. J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, II, pag. 110: ma vedi già ibid. I, pagg. 455 ss.).
21. Se, come da Agostino in poi si andava spesso ripetendo, i regni sono sorti da un
atto di violenza, e il male è sempre all’origine del dominio dell’uomo sull’uomo, com’è possibile che con il tempo si trasformino in regni di diritto? «Cum autem, ut dicit eciam lex humana,
res furtive vel vi possesse non possint usu capi, querunt nonnulli quo iure regna, sicut
predictum est, ab antecessoribus suis usurpata vel vi possessa teneant reges moderni. Ad hoc
autem quatuor concurrunt que in manu eorum eadem regna iure stabiliunt, videlicet ordinacionis divine dispensacio, populi consensus vel electio, ecclesie approbatio, longissimi
temporis cum bona fide prescripcio». Tutto ciò coinvolgeva direttamente anche i romani, e
finiva, com’è ovvio, per portare acqua al mulino dei re «moderni», e a quello di Francia prima
di tutti. Continua infatti Vincenzo: «Sic igitur arbitrandum est de regno vel imperio Romanorum,
quod etsi a principio cupiditate dominandi terminos suos per diversas naciones debachando
dilataverunt, postea tamen accessit consensus populorum, qui et ab eis leges ex diversis
sapientum dictis collectas spontanee receperunt. Sic eciam estimandum est de regno Francorum
et eciam Anglicorum necnon et aliorum precipue cristianorum» (De morali principis institutione, a cura di Schneider, IV, Quo iure regna quondam usurpata licet retinere, pagg. 22-23).
22. E continua: «Et inde motus fuit ad civitatem edificandam, ut dominaretur in ea, et
hec fuit prima civitas in mundo, quam nomine filii sui vocavit [Enoch: vedi Gen. 4, 17] ad
perpetuationem domini filii. Post diluvium vero omnes, qui primo dominium assumpserunt,
fuerunt de genere maledicto Cham, ut ex libro Genesis habetur [Gen. 9, 25], et Comestor et
Iosephus dicunt [Hist. schol. ad lib. Genesis, c. 37: PL 98, 1088], unde post diluvium, qui
primum dominium assumpsit, fuit Cham, ut infra dicetur. Secundus Nemroth, qui descendit
32
ENRICO FENZI
che, seppur in maniera assai meno polemica, già puntualizzava, sull’autorità della Genesi, come la prima città fosse stata fondata da Caino e come,
dopo il diluvio, fosse cominciata, con Nembroth, l’oppressione dell’uomo
sull’uomo: e dal Decretum passa ai decretalisti23, seppur in forme abbastanza attenuate, dato che la loro preoccupazione è riconfermare il principio generale dell’origine divina di ogni potere e la validità giuridica della
lunga «consuetudine» (non solo nel caso dell’esercizio del potere, ma anche
nel caso della proprietà privata, pur essa inconcepibile nello stato di natura
precedente la caduta). Di qui, infine, ritroviamo il motivo in Alberico da
Rosate24, per il quale, infatti, «l’origine del potere civile […] è da porre non
già nella naturale disposizione degli uomini ad associarsi, ma nell’iniquità
e nella violenza; la tirannide, in tal senso, come violenta oppressione sugli
uomini, precede nella storia del mondo il governo giusto: prius tamen fuit
tyrannus quam rex. Nam Nembrot primus fuit tyrannus et nemo ante eum
reperitur»25.
Chiedo scusa di quella che può apparire, ma spero non sia, una divagazione: ci stiamo avvicinando al punto. Che è quello di un insieme di
concezioni che da un lato affidavano la successione dei regni a un disegno
de Cham, cuius consilio hedificata est turris Babel, ut hystoriae tradunt, ad dominandum, in
cuius signum in Genesi scribitur, quod volebant cacumen eius in celum ascendere ad significandum cordis ambitionem in preeminendo aliis», ecc. (Determinatio compendiosa de
iurisdictione Imperii, auctore […] Tholomeo Lucensi O. P., edited by Krammer, MGH SS RG
in usum scholarum, 1909, c. XVII, pagg. 36-37). Per Caino e la sua discendenza, vedi il libro
XV del De civ. Dei, e qui ancora, XVI 3-5, per la discendenza di Noè, e Cam e il gigante
Nembroth. Vedi anche la nota che segue.
23. I relativi passi di Graziano e Rufino (rispettivamente Decretum d. VI, e Summa
decretorum, d. VIII Diff. Quoque) sono citati dai fratelli Carlyle, Il pensiero politico, I, pag.
456. Ma vedi Diego Quaglioni, «‘Nembrot primus fuit tyrannus’. ‘Tiranno’ e ‘tirannide’ nel
pensiero giuridico-politico del Trecento italiano: il commento a C. 1, 2, 16 di Alberico da
Rosate (c. 1290-1360)», Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, 6 (1979-1980) [ma
1983], pagg. 83-103: in particolare, pagg. 95-98, è citato ancora il passo di Graziano, e un
passo dalla continuazione di Tolomeo da Lucca del De regimine principum di Tommaso
d’Aquino (IV 3, ed. Mathis, pag. 83) del tutto simile a quello citato sopra a testo («primo
dominantes in mundo fuerunt homines iniqui», ecc.).
24. Alberico fu più volte ambasciatore ad Avignone per conto dei Visconti e certamente
Petrarca lo conobbe, come conferma una indiretta trama di relazioni e circostanze ricostruita
da Giuseppe Billanovich, «Epitafio, libri e amici di Alberico da Rosciate», Italia medioevale
e umanistica, 3 (1960), pagg. 251-261.
25. D. Quaglioni, «‘Nembrot primus fuit tyrannus’», pagg. 95-96 (la citazione di Alberico da Lectura Alberici de Rosate Bergomensis super prima parte Codicis, in l. Decernimus,
C. De sacrosantis ecclesiis, s. l., Ioannes de Ionuelle dictus Piston imprimebat, 1518, fol. 19r).
Vedi qui anche per Nembrot, quale tradizionale «figura» del tiranno.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
33
dominato dalla vanità del tutto e dalla fondamentale ingiustizia sulla quale
ogni potere terreno si regge, e dall’altro e contraddittoriamente non potevano
fare a meno di porre al loro stesso interno alcune premesse che andavano
nella direzione opposta, e cioè aiutavano a ravvisare almeno un filo conduttore, un’ipotesi interpretativa in chiave provvidenziale o storica.
Torniamo un attimo a Daniele e a Girolamo. Nel primo, in particolare
nel sogno della statua, è chiara una progressione negativa nella successione dei regni, da quello d’oro a quello di ferro e d’argilla, e nel secondo
tale progressione è ulteriormente confermata dall’accumulo di spaventosa
ferocia che finisce per caratterizzare la quarta bestia, quasi una somma
delle peggiori qualità delle altre tre. Ma nello stesso tempo questo climax
discendente, e che però termina con un «regno di ferro» ch’è il più forte di
tutti, è bruscamente corretto e propriamente rovesciato dalla profezia del
quinto e ultimo regno, quello di Cristo, la cui immagine non può non agire
all’indietro, per dir così, e non imprimere ai regni terreni che lo precedono almeno il senso di un percorso unitario, ordinato quanto meno allo
scopo realizzato dal quarto regno, quello romano. Il quale, infatti, è per lo
stesso Gerolamo qualcosa che ingloba e supera tutti gli altri, come gli
abbiamo visto scrivere nel commento a Daniele: «in uno imperio Romanorum
omnia simul regna cognoscimus, quae prius fuerant separata», creando condizioni affatto nuove e qualitativamente superiori rispetto a quelle dei regni
precedenti, come torna a puntualizzare altrove: «Ante adventum Christi
unaquaeque gens suum habebat regem et de alia ad aliam nullus ire poterat
nationem. In romano autem imperio unum facta sunt omnia», sì che la sua
rovina travolge il mondo intero, come ancora Gerolamo scrive, nel 410,
piangendo la morte di Marcella, uccisa dagli stenti durante il sacco della
città da parte di Alarico: «Postquam vero clarissimum terrenorum omnium
lumen exstinctum est, immo Romani imperii truncatum caput, et, ut verius
dicam, in una Urbe totus orbis interiit»26.
26. Prol. ai Commentariorum in Ezechielem prophetam libri quatordecim, PL 25, coll. 1516, e Comm. a Isaia, XIX 23, CC 73, pag. 199. Per un lungo commosso elogio funebre di
Marcella, una delle animatrici del «circolo dell’Aventino», vedi ancora Gerolamo, Epist. 127, a
Principia. Così, qui e altrove sfioro appena il grande motivo della ideologia «romana» che si
fonda sull’universalità e sulla eternità dell’impero, e che ha una sorta di centro radiante in
Virgilio (Aen. I 274-278; VI 851), e che ha sortito molte affermazioni con le quali quelle di
Gerolamo sono perfettamente in linea: per esempio, Rhet. Ad Herennium IV 13: «Imperium orbis
terrarum, cui imperio omnes gentes reges nationes […] consensuerunt»; Ovidio, Fast. II 684:
«Romanae spatium est Urbis et orbis idem» (onde quattro secoli dopo, ma in un contesto assai
più melanconico, Rutilio Namaziano, De reditu, 1, 66: «Urbem fecisti quod prius orbis erat»);
34
ENRICO FENZI
Eccoci dunque sulla soglia, come ognuno vede, del grande e complesso
tema, che sarà assolutamente centrale nella visione dantesca (oltre la
Commedia, si veda Conv. IV 4-5, e tutto il Monarchia), della natura provvidenziale dell’impero romano attraverso il quale si sarebbero realizzate le
condizioni migliori di natura politica, sociale e linguistica per la diffusione
della parola di Cristo. Il pensiero di Gerolamo, in particolare, è in sintonia
con quello di Eusebio, che affermava l’intimo nesso tra la pace di Cristo,
il monoteismo biblico e l’impero romano27, e concepiva l’intero processo
della civilizzazione, a partire dalla selvatica e «bestiale» condizione primitiva,
come un processo indirizzato dalla provvidenza verso la monarchia universale. Come scrive Robert Grant, in un saggio dal titolo significativo, Civilization as a Preparation for Christianity in the Thought of Eusebius: «he welcomed
ideas about progress and civilisation as pointing onward toward the triumph
of the Christian church in the Roman empire. The early history of civilization
had prefigured the history of his own time, just as the passage from darkness
to light at creation had anticipated the transmission of the gospel message»28.
Plinio, Nat. hist. III 40: «Italia una cunctarum gentium in toto orbe patria»; Floro, I Intr. 2: «Ita late
per orbem terrarum arma circumtulit [il popolo romano] ut qui res illius legunt non unius populi,
sed generis humani facta condiscant», ecc. (vedi la sintesi di M. J. Hidalgo de la Vega, «Algunas
reflexiones», e qui in particolare l’analisi dell’Elogio di Roma di Elio Aristide, pagg. 279 ss.).
27. Si veda come Gerolamo insista sul principio del governo unico, a tutti i livelli della
società e della chiesa: «Imperator unus; iudex unus provinciae. Roma, ut condita est, duos
fratres simul habere reges non potuit [...] In navi unus gubernator, in domo unus dominus,
in quamvis grandi exercitu unius signum expectatur», ecc. (Epist. CXXV 15). Oltre a quanto
è citato avanti, per Eusebio si veda pure Raffaele Farina, L’impero e l’imperatore cristiano
in Eusebio di Cesarea, Zürich: Pas Verlag, 1966 (per Costantino quale «nuovo Mosè», pagg.
189 ss.; per la perfetta concidenza tra l’impero romano-cristiano e la chiesa, pagg. 163 ss.).
28. Robert M. Grant, «Civilization as a Preparation for Christanity in the Thought of
Eusebius», in Continuity and Discontinuity in Church History. Essays presented to George
Huntston Williams and edited by F. Forrester Church & Timothy George, Leiden: Brill, 1979,
pagg. 62-70: pag. 64 (ora in Christian Beginnings: Apocalypse to History, London: Variorum
Reprints, 1983, XII (num. originale delle pagine). Circa i testi di Eusebio, abbondantemente
riferiti da Grant, mi limito a ricordare Preparatio evangelica I 4, 1-6, ove si dimostra che è
frutto di una forza divina il fatto che l’avvento di Cristo sia avvenuto in un momento in cui
la razza umana era stata liberata dalla molteplicità dei regni per opera della monarchia di
Augusto (La préparation évangelique, introduction, texte grec, traduction et commentaire
par Jean Sirinelli & Édouard des Places, Paris: Cerf, 1974, pagg. 118 ss. = PG XXI coll. 3740). Ma, per un panorama vasto e preciso di un nodo così importante, rimando sia per le
citazioni di testi che per la bibliografia a Hervé Inglebert, Les Romains chrétiens face à l’histoire de Rome: Histoire, christianisme et romanités en Occident dans l’antiquité tardive (IIIeVe siècles), Paris: Institut d’Études Augustiniennes, 1996, passim, e alla sintesi, dello stesso
studioso, «Les causes de l’existence de l’Empire romain selon les auteurs chrétiens des
III e- IVe siècles», Latomus, 54 (1995), pagg. 18-50.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
35
In ciò, Eusebio metteva la sua impronta personale su un’idea che nelle sue
linee essenziali era diventata predominante nel corso del secondo secolo
d. C., per quanto attraversata da contraddizioni e opposizioni (per il pensiero
giudaico, specie dopo la distruzione del Tempio nel 70 d. C., Roma era
stato lo strumento divino per colpire gli ebrei dei loro errori, ma in sé non
era altro che una nuova Babilonia che, come la precedente, sarebbe stata
distrutta)29. Naturalmente, non sta a me entrare in simile discorso, e mi
basta ricordare come quell’idea, con sfumature diverse, prendesse corpo
attraverso Ireneo di Lione, Melitone, Teofilo d’Antiochia, Teodorete di Ciro
e avesse raggiunto formulazioni estreme in Cosma Indicopleuste30, e come
il cosiddetto «eusebismo cristiano» informi l’opera di Prudenzio e Orosio,
e poi quella di Cassiodoro e Jordanes, per i quali l’esistenza dell’impero
romano sino alla fine dei tempi era un’evidenza garantita dallo stesso Libro
di Daniele: ma papa Leone Magno dalla crisi dell’impero svilupperà
un’ideologia pontificale «di sostituzione», mentre il legame che governa il
passaggio dall’impero romano ormai finito a quello cristiano è del tutto
scontato per Gregorio Magno31. Ma, ai fini del mio discorso, merita una
29. Vedi Paul Schäfer, Histoire des Juifs dans l’Antiquité, Paris: Cerf, 1989, passim.
30. Cosma infatti intende che l’ultimo regno, quello che Dio «suscita» dopo che la statua
sognata da Nabucodonosor è stata distrutta, sia insieme quello di Cristo e quello romano:
«Daniel dit: ‘Le Dieu du ciel suscitera un empire qui ne sera pas détruit à travers les siècles’
[Dan. 2, 44]. Ici, tout en parlant du Seigneur Christ, Daniel inclut aussi en une allusion l’empire des Romains qui s’est élevé en même temps que le Seigneur Christ [...] L’empire des
Romains participe donc des dignités de l’empire du Seigneur Christ; il surpasse, autant qu’il
se peut en cette vie, tous les autres et demeure invincible jusqu’à l’accomplissement des
siècles». Per questa ragione, «J’exprime donc la convinction que, même si pour la correction
de nos péchés les ennemis barbares se dressent de temps en temps contre la Romanie, l’empire demeurera invincible par la puissance souveraine, afin que le monde chrétien ne se
réduise pas, mais qu’il s’étende. En effet, cet empire crut le premier en Christ, avant tous les
autres, et il est le serviteur des dispositions concernant le Christ; pour cette raison Dieu, le
Seigneur universel, le garde invincible jusqu’à l’accomplissement des siècles» (cito dalla
traduzione a fronte del testo greco, in Cosmas Indicopleustès, Topographie chrétienne, introduction, texte critique, illustration, traduction et notes par Wanda Wolska-Conus, Paris: Cerf,
1968, pagg. 388-391: II 74-75).
31. In particolare, vedi Prudenzio, Contra Symm. I 541-590, ove torna, con precise
riprese da Virgilio, Aen. I 274-278, la teologia imperiale di stampo eusebiano (per Jacques
Fontaine, «De l’universalisme antique aux particularismes médiévaux: la conscience du temps
et de l’espace dans l’Antiquité tardive», in Popoli e paesi nella cultura altomedievale [Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XXIX], Spoleto: presso la Sede
dell’Istituto, 1983, pagg. 15-45: pag. 34, Prudenzio sarebbe «le dernier témoin, presque caricatural, de la grande illusion d’un Empire chrétien, à qui le Christ aurait garanti une nouvelle
théologie de la victoire impériale»); Jordanes, Romana V 1 ss. (vedi W. Goez, Translatio
36
ENRICO FENZI
sosta particolare Isidoro, che produce una interpretazione originale di Dan.
7. Anch’egli identifica la quarta bestia con l’impero romano, ma contemporaneamente fa i conti con la sua avvenuta dissoluzione, ricavandone che
ad esso si deve la civilizzazione universale e che, seppure politicamente
scomparso, resta l’unico supremo modello di riferimento: così, i regni particolari (quello visigotico sarebbe uno dei dieci corni della bestia di Daniele)
sarebbero vincolati a una sorta di imitatio imperii che dovrebbe garantire
la libertà delle genti non più sottomesse32. Di fatto, insomma, quella di
Isidoro è la nuova cornice ideologica che dovrebbe presiedere a una serie
Imperii, pagg. 49-52); Leone Magno, Serm. 69, che sviluppa all’estremo il motivo della Roma
pagana quale prefigurazione della cristiana (Romolo e Remo corrispondono a Pietro e Paolo;
i martiri sono i nuovi trionfatori; l’arx imperii diventa caput orbis, ecc.). Per Gregorio Magno,
vedi Robert. A. Markus, «Gregory the Great’s Europe», Transactions of the Royal Historical
Society, s. 5, 31 (1981), ora in From Augustine to Gregory the Great. History and Christianity in late Antiquity, London: Variorum Reprint, 1983, XV, num. originale delle pagine; id.,
Gregory the Great and his World, Cambridge: Cambridge University Press, 1997, pagg. 8585. Ma vedi anche avanti, note 51-55.
32. Sulla visione storica di Isidoro fa un lungo e ricco discorso Marc Reydellet nel
saggio «La signification du livre IX des Etymologies: érudition et actualité», in Los Visigodos.
Historia y civilización. Actas [...], 21-25 octubre de 1985, Murcia: Universidad de Murcia
(Antigüedad y cristianismo. Monografías históricas sobre la antigüedad tardía, III), 1987,
pagg. 337-350 (345-346). Leggiamo qui, pag. 342: «Cette représentation d’une humanité une
par l’origine, mais éclatée en gentes, laisse reconnaître l’influence du moment où Isidore
écrit, et, plus précisément, on y retrouve l’écho des conceptions de Grégoire le Grand.
Ce dernier est en effet le témoin privilégié de la faillite de l’universalisme imperial et de la
reconaissance des regna qui trouvent droit de cité dans un nouvel ordre du monde où
l’Église se substitue à l’Empire comme principe d’universalité et d’unité», e ancora, pag. 348,
mettendo in risalto la componente più nuova e personale di Isidoro: «Isidore ne cherche
pas seulement à transmettre un savoir passé, mais à imposer au lecteur une nouvelle image
du monde. Cette image est celle d’un monde où la diversité des gentes, voulue par Dieu,
est acceptée sans nostalgie de l’Empire, tout en se conciliant avec un nouveau principe
d’unité qui est l’Eglise». Vedi anche J. Fontaine, De l’universalisme antique, pagg. 42-45, ove
puntualizza l’isidoriana dissociazione dello spazio romano, e l’unificazione ideologica di uno
spazio «provinciale», il regnum gentis Gothorum; id., Isidore de Seville. Genèse et originalité
de la culture hispanique au temps des Wisigoths, Turnhout: Brepols, 2000, in part. cap. 11,
De la cronique universelle à l’histoire nationale, pagg. 217-233; Marc Reydellet ancora, «La
conception du souverain chez Isidore de Séville», in Isidoriana. Estudios sobre san Isidoro
de Sevilla en el XIV Centenario de su nacimiento [...], bajo la dirección de Manuel C. Díaz y
Díaz, León: Centro de Estudios «San Isidoro», 1961, pagg. 457-466, che tra l’altro analizza i
capitoli isidoriani sortiti dal IV Concilio di Toledo, nel 633 (Sent. III 47-51: PL 83, coll. 537738), in cui è tracciato il profilo del principe ideale. Su quest’opera, vedi anche Paul Cazier,
«Les sentences d’Isidore de Seville et le IVe Concile de Tolède. Réflexions sur les rapports
entre l’Eglise et le pouvoir politique en Espagne autour des années 630», in Los Visigodos,
pagg. 373-386 (in part. pagg. 374-377). Vedi avanti, nota 39.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
37
multipla di translationes: ed è allora specialmente significativo, vedremo,
che tale idea di una naturale pluralità dei regni nati dalle ceneri dell’impero
torni e si sviluppi con forza nella Francia capetingia, che insieme rivendicherà in forme altrettanto esplicite il privilegio della translatio studii.
Siamo forse arrivati, sia pur per pochi e sommari esempi, a un altro
snodo importante. Dovendo riassumere, porrei l’accento sul fatto che due
sono le correnti profonde che non hanno mai smesso di confrontarsi e
dialettizzarsi anche drammaticamente nel corso della storia dell’occidente:
la corrente che ha trasmesso al medioevo (e poi alla modernità, quale
potente lievito delle sue rivoluzioni) una visione integralmente pessimista
e addirittura malvagia e satanica sull’origine e la natura del potere, e l’altra
che affrontava il problema di capire come si fosse passati dalla brutale e
criminale semplicità del dominio diretto –Nembroth, per semplificare– alla
costruzione grandiosa dell’impero romano e a quella altrettanto mirabile di
un modello di diritto universale che pareva disegnare per sempre l’unico
orizzonte entro il quale si riuscisse a pensare la società umana e, in particolare, qualsiasi forma di legittimazione di nuove e possibili strutture di
governo. Da questo punto di vista, credo che ancor oggi noi si sia entro
la dimensione di «eredi dell’impero»: ma non è questo, evidentemente, il
punto. Piuttosto, e sempre in termini assai generali, direi che le due visioni
siano opposte e però indissolubilmente intrecciate, sì che ognuna di esse
s’alimenta e vive della sua possibile negazione. E se l’una cancella nella ripetizione dell’identico ciclo di catastrofi storiche il valore di qualsisi translatio che non consista nella continuità del giudizio divino e della umana
insufficienza, l’altra per contro non può che prefigurare l’intero corso della
storia sub specie translationis e addirittura alla translatio affida la possibilità stessa che una storia esista, e pone tale concetto al centro della propria
speculazione e s’interroga sulle speranze che suscita e sui modi della loro
realizzazione. Ed è allo spessore storico-antropologico di questo quadro,
per quanto qui malamente abbozzato, che le translationes delle quali resta
da parlare vanno riportate, se se ne vuole recuperare la profondità ideologica e la valenza morale, e non ridurle alla mera esigenza di apparati di
propaganda o a un contorto e finalmente poco interessante complesso
di sciovinismi intellettuali.
38
ENRICO FENZI
2. DUE
MODELLI OPPOSTI: «GRAECIA CAPTA» E «BELLA PRIGIONIERA»
Un passo ancora è necessario per arrivare alle nostre translationes, e per
farlo occorre scendere qualche gradino e rientrare nella più appropriata
dimensione culturale e letteraria entro la quale qui ci si deve contenere.
E osserviamo sùbito che il concetto cristiano di translatio resta estraneo e
in linea di principio ostile all’idea di un legame tra la trasmissione del
potere e quella del sapere (il famoso sogno di Girolamo in fondo estremizza
l’accettazione di questa dicotomia). In esso, infatti, la chiave dei vari crolli
di regno in regno è pur sempre negativa, e il sapere è in ogni caso fissato
nella Rivelazione, onde il «progresso» verso il regno di Cristo è anche, intrinsecamente, un progresso nella comprensione, nella diffusione e nell’attuazione delle Sacre Scritture: e l’impero romano troverebbe appunto la sua
trascendente giustificazione e la sua gloria nell’essere stato al servizio di tale
diffusione. Ma all’interno del mondo romano e del suo universalismo tanto
politico quanto filosofico già vive l’essenziale e per vari aspetti dirompente
novità per cui quel legame tra potere e sapere è in verità strettissimo, e
propriamente di consustanzialità. Né potrebbe essere diversamente, perché,
se è la corruzione umana che produce le catastrofi dei vecchi regni, è la
virtus che edifica e mantiene l’impero. Se dunque spostiamo l’attenzione
verso il mondo romano, spicca evidente non solo l’enorme forza di impatto
del mito della missione dell’impero, specie nella veste poetica e religiosa
che Virgilio ha saputo conferirgli, ma anche risulta come fosse precisamente romana la visione in chiave progressiva delle translationes storiche,
e come appaia al proposito esemplare la massima di Sallustio che dalle
stesse premesse cristiane –sono i misfatti e le ingiustizie che distruggono
i regni– ricavava la possibilità di un’interpretazione della mutabilità della
storia come progressiva rifondazione ed incremento dei valori:
Verum ubi pro labore desidia, pro continentia et aequitate lubido atque
superbia invasere, fortuna simul cum moribus immutatur. Ita imperium
semper ad optumum quemque a minus bono transfertur33.
33. De Catilinae con. 2, 5-6. Tornando alla virtus edificatrice dei romani, Enghelberto
di Admont citerà ancora nei primi anni del ‘300 le eloquenti parole di Sallustio, ibid. 32, 1911, e aggiugerà: «quia non fuissent illi tales viri, nisi habuissent tales mores, neque apud
Romanos tunc fuissent tales mores, nisi Roma tunc habuisset tales viros» (Speculum virtutum,
VI 8, edited by Ubl, MGH Staatsschriften des späteren Mittelalters, I, 2, 2004, pag. 245).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
39
Il punto è fondamentale. Se davvero l’«imperium semper ad optumum
quemque a minus bono transfertur», ciò può avvenire solo in nome di un
altro tipo di «trasferimento»: quello che sposta il fuoco del discorso dall’imperium, e cioè dal potere, ai mores, e cioè, nel caso, alla dimensione etica
che riveste il potere e lo legittima. Nelle parole di Sallustio la translatio
riguarda in prima istanza labor, continentia, aequitas, mentre il potere, alla
fine, le segue e le premia, condannando senza appello desidia, lubido e
superbia. Tutto ciò corrisponde al nucleo profondo dell’ideologia romana
sin dalla sua versione repubblicana, e alle sue rappresentazioni: basterebbe
ricordare il celebre passo nel libro IX delle Storie di Livio nel quale gli eserciti romani guidati da Papirio Cursore sono contrapposti a quella massa
informe di ubriaconi che avrebbe costituito l’esercito di Alessandro Magno,
oppure al binomio pietas-virtus che sarebbe stato all’origine di tutti i futuri
successi. E ci rimanda perciò alle qualità di fondo attraverso le quali i
romani sono stati degni di realizzare la grande translatio che per tutto il
medioevo e l’età moderna ha sempre conservato un ruolo archetipico:
quella del sapere, da Atene a Roma. Al proposito, sempre si allega la formulazione oraziana, Epist. II 1, 156-157, ma non si sbaglierà a insistere ulteriormente sul punto, ed a citare l’intero passo, 156-167, che di quella
translatio definisce, per così dire, le coordinate morali:
Graecia capta ferum victorem cepit et artes
intulit agresti Latio; sic horridus ille
defluxit numerus Saturnius, et grave virus
munditiae pepulere; sed in longum tamen aevum
manserunt hodieque manent vestigia ruris.
Serus enim Graecis admovit acumina chartis
et post Punica bella quietus quaerere coepit,
quid Sophocles et Thespis et Aeschylos utile ferrent.
Temptavit quoque rem si digne vertere posset,
et placuit sibi, natura sublimis et acer;
nam spirat tragicum satis et feliciter audet,
sed turpem putat inscite metuitque lituram,
sottolineando come appaiano strette in un sol nodo conquista militare e
translatio e come sia esaltata la natura del popolo romano in quella sua
rustica e vittoriosa maniera di procedere, che mette al primo posto i doveri
più duri e solo dopo averli compiuti («post Punica bella quietus») si apre
a un’esperienza di progresso spirituale pur sempre posta sotto il segno
dell’utile, com’è del resto da aspettarsi da chi l’affronta con la stessa serietà
40
ENRICO FENZI
e determinazione con le quali ha affrontato la guerra. Ma di questa capacità di «osare per vincere» è buon testimone anche Cicerone, Tusc. IV 1: «Cum
multis locis nostrorum hominum ingenia virtutesque, Brute, soleo mirari,
tum maxime in iis studiis, quae sero admodum expetita hanc civitatem e
Graecia transtulerunt». Il quale Cicerone non solo esalta il «genio» romano
nell’appropriarsi della cultura greca, ma anche l’esigenza di conservare e
incrementare il patrimonio culturale: «Hoc autem loco consideranti mihi
studia doctrinae multa sane occurrunt, cur ea quoque arcessita aliunde
neque solum expetita, sed etiam conservata et culta videantur» (ibid. 2), e
dunque il buon diritto di una appropriazione che salva e incrementa quanto,
dall’altra parte, stava andando in rovina. I greci, infatti, non avevano saputo
conservare non solo il loro sapere, ma neppure quello che a loro volta
avevano ereditato da altri: «nati in litteris, ardentes iis studiis, otio vero
diffluentes, non modo nihil adquisierint, sed ne relictum quidem et traditum
et suum conservarunt» (De orat. III 131), sì che quello dei romani nell’impadronirsi della loro «filosofia» non è solo un diritto, ma un dovere: «hortor
omnis qui facere id possunt, ut huius quoque generis laudem iam languenti
Graeciae eripiant et transferant in hanc urbem» (Tusc. II 5). Come si vede,
i greci sconfitti si avviano a produrre già presso lo stesso Cicerone (vedi
almeno De orat. I 47 e 221, ma poi soprattutto Giovenale), la caricaturale
figura dei graeculi, cioè quei verbosi e petulanti chiacchieroni che insieme
alla libertà hanno visto crollare anche una «parola» che ha perduto ogni
rapporto con la realtà e ne è dunque riuscita ipertrofica e irresponsabile34:
quei graeculi, aggiungo, che rimarranno a lungo tali, almeno sino a Petrarca,
e che finiranno per far stingere le loro caratteristiche su un’altra categoria di
illustri sconfitti, gli italiani. Per contro, l’apparente grossolanità romana ha
saputo distinguere l’esercizio della forza da quello del potere, ed ha fatto
dell’espansione imperiale un vettore di appropriazione ed incremento di
saperi fondato sull’apertura universalizzante di quella medesima virtus che
34. Si veda al proposito Francisco Socas, «Graeculus esuriens: la actitud de Juvenal
ante los griegos», in Graecia capta. De la conquista de Grecia a la helenización de Roma, a
cura di Emma Falque & Fernando Gascó, Huelva: Universidad de Huelva, 1995, pagg. 149170, che pone giustamente l’accento sulla Sat. XI, e, in essa, sull’esaltazione di una rozzezza
romana (nella presa di Corinto gli ignoranti soldati romani fusero splendide statue di bronzo
per farne strumenti di guerra) in verità caricata, come del resto in Orazio, di valori positivi:
«La rudeza romana es un defecto, pero si bien se mira es un valor sólido. El arte es siempre
un reblandecimiento y un artificio que equivale a engaño. El valor convencional y excesivo
de una rebuscada pieza de orfebrería se transforma en el valor auténtico e instrumental de
una lanza o una espada. El objeto de arte es un objeto falaz y moralmente nocivo. Pero la
mentira reside ante todo en la palabra...», ecc.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
41
ha assicurato la vittoria (ed è stupefacente vedere –altra irresistibile anticipazione– con quanta forza tornino questi stessi motivi nel ‘500 francese,
combinando l’esaltazione del vecchio incorrotto bon naturel nazionale con
quella della translatio che sull’onda delle vittorie militari ha restituito alla
Francia il suo primato).
L’essenza della translatio è qui limpida, e ne è altrettanto limpidamente
distinta la specie particolare della translatio studii, e la sua importante
funzione nei confronti dell’altra, alla quale sin qui abbiamo prestato esclusiva attenzione: la translatio imperii 35. Ed evidentemente, è solo per averle
distinte che le si possono far collaborare e che può prendere forma un
discorso nuovo36. Sinteticamente, si può ora precisare meglio che la mera
successione degli imperi di per sé non fa storia perché il suo approdo –il
regno di Cristo e l’autosufficiente totalità del sapere che esso realizza– in
ogni caso la trascende: il che sta a dire che il potere terreno è sempre
uguale a se stesso e, come avvertiva Agostino, in esso non c’è né progresso
né salvezza: «Ille igitur unus verus Deus, qui nec iudicio nec adiutorio deseruit genus humanum, quando voluit et quantum voluit Romanis regnum
dedit, qui dedit Assyriis vel etiam Persis [...]» (De civ. Dei V 21)37. Ma se e
quando nella translatio del potere si cerca una translatio del sapere
e dunque un riconoscibile filo di continuità e di arricchimento propriamente umani, le cesure imposte dal ferreo meccanismo della ripetizione
dell’identico sono superate, e le vicende stesse del potere ne sono riscattate alla luce della difficile e nascosta ma intrinseca moralità che le anima.
Insomma, descrivere le translationes imperii nei termini di una sequela di
prepotenze e catastrofi non basta a fondare una storia: semmai, cristianamente, la esclude. Ma rintracciare entro di esse le vie della translatio studii
la fonda, perché ne fa un percorso di civiltà38. Così, è vero che andranno
35. Vedi, per la translatio sapientiae, le indicazioni di W. Goez, Translatio Imperii,
pagg. 117 ss.
36. Dice bene M. J. Hidalgo de la Vega, «Algunas reflexiones», pag. 283: «los romanos se
habían helenizado y este proceso fue redefiniendo su propia identidad como conquistadores».
37. Significativamente J. Fontaine commenta: «La relativité spatiale et temporelle de
l’Empire romain se trouve ainsi appuyée sur l’antique théorie des «quatre Empires» remontant au chapitre 7 du Livre de Daniel» (De l’universalisme antique, pag. 38: ma qui si vedano
anche le considerazioni che seguono).
38. È di Seneca, Nat. quaest. VII 30, 5, questa bella riflessione volta al futuro: «Multa
venientis aevi populus ignota nobis sciet; multa saeculis tunc futuris, cum memoria nostri
exoleverit, reservantur». Per il «senso della storia» quale carattere fondante e specifico della
romanità, vedi le pagine di George Dumezil, Naissance de Rome, Paris: Gallimard, 1944,
pagg. 182 ss. e pagg. 208 ss.; id., L’héritage indo-européen à Rome, Paris: Gallimard,
1949, pagg. 170 ss.
42
ENRICO FENZI
probabilmente sfumate e modificate caso per caso, ma le parole che
Raydellet ha scritto a proposito di Isidoro e che definiscono la visione della
storia che sarà propria di un’età «passionale e antistorica» come quella
cristiano-barbarica conservano un’indubbia portata generale nel definire
lo schema profondo dell’approccio cristiano nei confronti degli imperi
terreni: «Isidore n’a, à aucun degrè, le sens d’une évolution créatrice de
l’histoire. Ou plus exactement, il y a chez lui deux plans: l’un est celui
de la Révelation qui se déroule progressivement selon les six âges repris
d’Augustin, l’autre, celui des vicissitudes des empires qui se succèdent les
uns aux autres, sans que, de l’un à l’autre, progrès puisse être marqué:
Regnum universae nationes suis quaeque temporibus habuerunt, ut Assyri,
Medi, Persae, Aegyptii, Graeci, quorum vices sors temporum ita volutavit
ut alterum ab altero solveretur. Tout, dans ce texte, juqu’au choix des
expressions, révèle le scepticisme en présence de ces bouleversement: à
se fier à ce seul jugement l’établissement de la monarchie wisigothique en
Espagne ne saurait être que l’oeuvre d’un hasard capricieux»39. Per contro,
non è invece un paradosso il fatto che le premesse e i contenuti di una storia
terrena distinta da quella divina siano maturate entro un impero come
quello romano che si concepiva ed era percepito come tale per la sua
natura essenzialmente inglobante tanto del potere che del sapere –l’impero era la sua stessa forza inglobante– e che dunque configurava in sé,
nel suo destino, la «fine della storia». Perché si tratta, appunto, della storia
terrena che solo l’immanenza di una «fine della storia» altrettanto terrena può
rendere, a cose fatte, riconoscibile (così come per Marx, vien voglia di dire,
è lo scheletro dell’uomo che spiega, a ritroso, quello della scimmia). E del
resto, solo la pervasiva grandiosità di un progetto universale che apparve
sostanzialmente realizzato (specie quando, nel 212, la Costituzione antonina diede la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero)40
poteva affrontare alla pari l’altro progetto, quello cristiano, e insieme
39. M. Reydellet, «La conception du souverain», pag. 464, e soprattutto «La signification
du livre IX des Etymologies», pagg. 345-346, ove il passo, da Eth. IX 3, 2 è ampiamente analizzato. Dello stesso studioso, rimando poi al grosso volume La royauté dans la littérature
latine de Sidoine Apollinaire à Isidore de Séville, Roma: École française de Rome (BEFAR
num. 243), 1981, passim. Le parole sull’età «passionale e antistorica» sono derivate da un
importante saggio di Santo Mazzarino, «L’ ‘era costantiniana’ e la ‘prospettiva storica’ di
Gregorio Magno», in Passaggio dal mondo antico al medio evo da Teodosio a san Gregorio
Magno (Roma, 25-28 maggio 1977), Roma: Accademia Nazionale dei Lincei (Atti [...] 45)
(1980), pagg. 10-28: § 6, pagg. 21-24.
40. Discute del decreto e porta una aggiornata bibliografia il saggio recentissimo di
Ralph W. Mathisen, «‘Peregrini’, ‘Barbari’, and ‘Cives Romani’: Concepts of Citizenship and
the Legal Identity of Barbarians in the Later Roman Empire», The American Historical Review,
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
43
drammaticamente distinguersi e scontrarsi e anche mescolarsi con esso in
forme e modi del tutto espliciti, almeno sino alle straordinarie formulazioni
dantesche del Monarchia che faranno perno sulla reciproca, intima necessità di quei duo ultima (poche espressioni sono state così pregnanti!) per
dare un senso alla vita dell’uomo.
Naturalmente, l’idea di progresso non è patrimonio esclusivo di Roma,
perché è senz’altro vero che «Epicureanism, Skepticism, and Stoicism, the
three dominant philosophical schools, all embraced progressivism in some
form or other», come ha scritto Edelstein concludendo il suo classico libro,
orientato in prevalenza verso il mondo greco41. Ma è altrettanto vero che
è tutta romana l’idea pervasiva di una humanitas quale patrimonio vivente
di civiltà e cultura che si espande nel tempo e nello spazio, così come lo
è la convinzione, né potrebbe essere altrimenti, che proprio la potenza di
Roma, prima repubblicana e poi imperiale, fosse insieme fondamento e
funzione di una tale espansione. Anche questo è un argomento troppo
grande e troppo battuto, e qui posso solo sfiorarlo al riparo di guide eccellenti, com’è un’altra ricerca, davvero monumentale, alla quale rimando: i
due volumi di Antoinette Novara sulla nozione latina di progresso42. E torno
invece a Cicerone, e in particolare a una citazione dalla Pro Flacco, 26, 62,
111, 4 (2006), pagg. 1011-1040 (1014-1015). Ad esso rimando dispiacendomi di non poterne
raccogliere, per ragioni di spazio, tutti gli spunti che, tra altre cose, convergono e danno
spessore storico a una conclusione attualizzante che, isolata dal contesto, rischia di sembrare
–e non è per nulla– futile: «Since the fall of the western Roman Empire, no nation has been
so grand that it could claim to encompass the whole world or attempt to create a form of
universal citizenship that was open to all comers. But now, at the beginning of the twentyfirst century, there is again much discussion of the different forms that universal citizenship
could take. In spite of, or perhaps because of, the chronological gap between the ancient
and modern phenomena of world citizenship, it may be that the Roman model for dealing
with issues of ethnicity, identity, and religion in the context of legal definition of citizenship
has much to teach us. In particular, the time may have come once again for a form of citizenship unburdened by the baggage of nationalism or political allegiances».
41. Ludwig Edelstein, The Idea of Progress in Classical Antiquity, Baltimore Mar.: The
Johns Hopkins Press, 1967, pagg. 178-179: ma vedi qui pagg. 168 ss. per Cicerone e
soprattutto per Seneca (la morte ha impedito all’autore di andare oltre).
42. Antoinette Novara, Les idées romaines sur le progrès d’après les écrivains de la
République (essai sur le sens latin du progrès), Paris: Les Belles Lettres, 1982. Sono molte le
parti che si dovrebbero citare, ma l’abbondanza stessa dei materiali mi rende difficile farlo:
in ogni caso, raccomando, per il suo valore fondante, la seconda parte, essenzialmente dedicata a Cicerone e al concetto di humanitas, I, pagg. 163 ss. Tornando per un attimo al tema
propriamente politico dell’imperialismo romano, ho trovato utile il denso saggio di Kurt A.
Raaflaub, «Born to be Wolves? Origins of Roman Imperialism», in Transition to Empire. Essays
in Greco-Roman History 360-146 b. C. in Honor of E. Badian, edited by Robert W. Wallace
& Edward M. Harris, Norman & London: University of Oklahoma Press, 1996, pagg. 273-314.
44
ENRICO FENZI
là dove Cicerone indica ai giudici i membri della legazione ateniese giunti
a Roma per testimoniare a favore del suo difeso: «Adsunt Athenienses unde
humanitas, doctrina, religio, fruges, iura, leges ortae atque in omnis terras
distributae putantur». Prima di tutto qui parla l’avvocato, è indubbio. Ma ciò
non toglie la sostanziale verità dell’omaggio, né l’evidente sottinteso con
il quale i giudici sono invitati a riconoscere, attraverso la presenza degli
ateniesi, ciò che essi stessi ora sono: i rappresentanti di una humanitas
romana ch’è perfettamente in grado di ricostruire la propria storia e che è
chiamata ad agire perché ha assunto su di sé e moltiplicato quella originale forza distributrice. Il motivo profondo, insomma, è quello di una sorta
di partita doppia, o di una translatio di ritorno, dai vincitori verso i vinti.
E ciò definisce precisamente la dimensione storica entro la quale tale translatio sviluppa la propria dinamica: prima come capacità di appropriazione
garantita dalla forza della conquista, e poi come capacità tendenzialmente
illimitata di moltiplicazione e distribuzione garantita dall’esercizio del potere.
Un tale schema operativo –che tale in effetti è– si è consolidato per
secoli attraverso l’immagine emblematica di quella che è stata e ancora è
la madre di tutte le translationes imperii et studii, il loro inimitabile archetipo: ripeto, la translatio da Atene e Roma, ch’è diventata prima che un
tenace, frequentatissimo topos culturale, un vero e proprio varco epocale.
Ho detto: imperii et studii, ma l’ordine andrebbe mutato perché, nel caso,
è il sapere che fa aggio sul potere, è l’humanitas colta nel suo divenire
che soppianta la bestiale successione biblica dei regni. E, occorre dirlo
sùbito, davanti alla potenza di un siffatto modello la tradizione cristiana
non ha potuto opporre che una mezza soluzione, fatta insieme di accettazione e di rifiuto: una translatio di quella natura e qualità non le appartiene
né, geneticamente, può appartenerle. I piani sono troppo diversi, e la
questione è semmai diventata sin da principio quella delle condizioni di
un possibile rapporto, di una modalità.
Leggiamo un passo di Tertulliano (Tertulliano certo non tenero con il
pensiero pagano, ché sua è l’icastica definizione: «haereticorum patriarchae, philosophi»: Contra Herm. 8, 3, PL 2, col. 204), De anima 30, 3:
Certe quidem ipse orbis in promptu est cultior de die et instructior
pristino. Omnia iam pervia, omnia nota, omnia negotiosa, solitudines
famosas restro fundi amoenissimi oblitteraverunt, silvas arva domuerunt,
feras pecora fugaverunt, harenae seruntur, saxa panguntur, paludes
eliquantur, tantae urbes quantae non casae quondam. Iam nec insulae
horrent, nec scopuli terrent; ubique domus, ubique populus, ubique
respublica, ubique vita.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
45
E ancora di lui, De pallio 2, 7:
Sed vanum iam antiquitas, quando curricula nostra coram. Quantum
reformavit orbis saeculum istud! Quantum urbium aut produxit aut auxit
aut reddidit praesentis imperii triplex virtus! Deo tot Augustis in unum
favente, quot census transcripti, quot populi repurgati, quot ordines illustrati, quot barbari exclusi! Revera orbis cultissimum huius imperii rus
est, eradicato omni aconito hostilitatis et cacto et rubo subdolae familiaritatis convulso, et amoenus super Alcinoi pometum et Midae rosetum43.
Non è questione qui né di saperi né di translationes, ma nondimeno
questo è il «luogo» di entrambi: un luogo che per merito del progresso governato dall’impero è più dolce del giardino di Alcinoo e del roseto di Mida.
Tertulliano non è il solo, tutt’altro, nell’esprimere questo senso di raggiunta
compiutezza, che non può che confermare l’accettazione piena dell’idea
tutta romana di progresso. Ma una esaltazione siffatta non può neppure
escludere la somma materiale di saperi che una simile situazione trasforma
in concreta esperienza di vita, sì che proprio in virtù della forza di quell’idea Tertulliano tende a limare l’espressione dell’assoluta e alternativa verità
del cristianesimo, e a definirne la superiorità in termini di compimento, di
ultimo traguardo (ciò che distingue il cristiano è anche il perfetto possesso
di tutte le qualità civili che l’impero richiede ai cittadini, e poiché la fine
dei tempi è vicina, per il mantenimento dell’impero il cristiano deve pregare
e operare). In questo quadro di fondo, allora, come comportarsi verso la
cultura classica? Rifiutarla è impossibile: altre non ne esistono. La si deve
usare, invece, per progredire nella giusta direzione. In pratica, se ne eliminino le parti inaccettabili e si assuma quanto più possibile di quello che
resta, secondo una sorta di progetto di politica culturale di lungo respiro
che si articola in una scelta strategica. Le lettere pagane vanno imparate ma
non insegnate, scartando l’ipotesi rigorista secondo la quale, se non devono
essere insegnate, non possono neppure essere apprese:
Scimus dici posse: si docere litteras dei servis non licet, etiam nec discere
licebit, et, quomodo quis institueretur ad prudentiam interim humanam
43. La triplex virtus ha fatto discutere: tra varie proposte (193: Settimio Severo, Pescennio
Nigro, Clodio Albino; 209-211: Settimio Severo, Geta, Caracalla) pare preferibile una terza,
riferita ai primi anni di Alessandro Severo, 222-235, onde: Settimio Severo, Giulia Mammea
e Giulia Mesa. Vedi Jean-Claude Fredouille, Tertullien et la conversion de la culture antique,
Paris: Études Augustiniennes, 1972, pag. 248, nota 63. Debbo anche dire che gran parte di
ciò che dico di Tertulliano s’appoggia alle pagine di questo bel libro.
46
ENRICO FENZI
vel ad quemcumque sensum vel actum, cum instrumentum sit ad omnem
vitam litteratura? Quomodo repudiamus saecularia studia, sine quibus
divina non possunt?
Il passo, dal De idolatria 10, 4, è famoso, e per lo più ha fatto parlare
di una mezza soluzione difficile e in ogni caso equivoca o addirittura
insostenibile. Giustamente Fredouille cerca di difenderla, e richiama l’attitudine utilitaristica tutta romana verso il sapere, ma non mi pare che sia
questa una via davvero convincente44. Tornerei invece a dire che essa ha
senso se la si intende protratta nel tempo, sì da opporre una specie di filtro
generazionale che eviti uno scontro diretto e perdente, e però di fatto
ottenga di eliminare seppur lentamente le scorie dell’idolatria. Resta
comunque che non esistono soluzioni migliori, e che si tratterà in altre
parole di promuovere una translatio affatto speciale, che va promossa nel
momento stesso in cui viene censurata. Da questo punto di vista si potrebbe
dire persino che il suggerimento di Tertulliano aspira a una sorta di concretezza politica: che non ha comunque sèguito, mentre, sul piano dei principi se non nella pratica, si perpetua il compromesso, la mezza misura. Ed
è singolare che più o meno duecento anni dopo, quando tutto è cambiato:
il bel giardino descritto da Tertulliano non c’è più, la devastazione e la
paura avanzano e nel crollo dell’impero proprio i cristiani sono sotto accusa
e l’eusebianesimo politico sembra ormai fallito, ebbene, Gerolamo e
Agostino non possano, seppur in modi diversi, che riproporre tal quale la
sostanza di quel compromesso, nell’aggravato quadro di una radicale presa
di distanza dalla «città terrena» che ha la sua più alta espressione nel De civitate Dei45. Il che, diciamo pure, ci fa anche gettare uno sguardo dall’altra
44. J.-C. Fredouille, Tertullien, pagg. 418-422.
45. R. A. Markus, «The Roman Empire in Early Christian Historiography» (1963), in From
Augustine to Gregory the Great, num. IV, pag. 347: «Looked at from this point of view, the
theme of the work is a radical and sustained rejection of the Eusebian type of view of
the Empire». Qui, vedi anche una sintetica analisi dell’impatto provocato nelle coscienze dal
sacco di Roma del 410, per la quale si vedano anche le numerose indicazioni contenute in
W. H. C. Frend, Orthodoxy, Paganism and Dissent in the Early Christian Centuries, Aldershot: Variorum, 2002, specialmente nei due saggi, rispettivamente del 1994 e del 1982, num.
XIII, «Augustine’s Reactions to the Barbarian Invasions of the West, 407-417: Some Comparison with his Western Contemporaries», pagg. 241-255, e num. XV, «Augustine and Orosius:
On the End of Ancient World», pagg. 1-38 (num. originale), ove è ben messo in rilievo, nel
confronto, il particolare pessimismo storico di Agostino, del quale sono tra l’altro ricordati
i Sermones 81, 105 e 296. Sul ruolo centrale del De doctrina christiana nel delineare un
progetto di recupero della cultura classica intesa come propedeutica al sapere cristiano mi
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
47
parte, per dir così, e ci induce a raccontare di nuovo la storia di Ataulfo
che proprio in quegli anni, 414, sposa la figlia di Teodosio, Galla Placidia,
e lentamente ma inesorabilmente subisce il fascino della civiltà e delle leggi
romane, e dichiara che il suo è un popolo barbaro e incivile, e che il resto
della sua vita egli l’avrebbe dedicato a salvare quanto più possibile di quello
stesso impero che non era riuscito a distruggere. La bella storia la racconta
Orosio, VII 43, 2-8, ed è singolare quanto essa assomigli, nel suo infrangibile nucleo di verità, a quella che Borges ha ricavato, in un racconto bellissimo,
dalla vicenda di Drotculf, il barbaro che assediando Ravenna resta folgorato dalla bellezza classica e ad essa si converte46.
Ma si diceva di Gerolamo e Agostino: anch’essi affascinati da quella
bellezza, certo, ma anche e prima di tutto testimoni di una città e di una bellezza
tutt’affatto diverse. Come rispondono al problema già posto da Tertulliano?
Riprendendo entrambi due diverse immagini di Origene: Gerolamo quella
della «bella prigioniera», e Agostino quella dell’ «oro degli Egizi». Origene
infatti, come ha mostrato Henri de Lubac47, a proposito della legge del
Deuteronomio, 21, 10-14, che ordinava di strappare ai nemici la donna
bella e desiderabile, di tagliarle i capelli e le unghie, di tenerla per trenta
giorni vestita a lutto e poi di sposarla, aveva commentato: «Quaecumque
enim bene et rationabiliter dicta invenimus apud inimicos nostros, si quid
apud illos sapienter et scienter dictum legimus, oportet nos mundare id et
ab scientia, quae apud illos est, auferre et resecare omne quod emortuum
et inane est –hoc enim sunt omnes capilli capitis et ungulae mulieris ex
inimicorum spoliis adsumptae»48, e Gerolamo riprende più volte l’immagine
limito a rinviare alle limpide pagine di Henri Irenée Marrou, Saint Augustin et la fin de la
culture antique, Paris: De Boccard, 1958, in particolare il c. III, La formation de l’intellectuel chrétien, pagg. 387-413.
46. Naturalmente il racconto di Orosio ha fatto a lungo discutere, ma sono d’accordo
nel riconoscerne la sostanziale verità, seguendo in ciò François Paschoud, «Le mythe de
Rome à la fin de l’Empire et dans les royaumes romano-barbares», in Passaggio dal mondo
antico, pagg. 123-138: pagg. 128-130. Il racconto di Borges, Historia del guerrero y de la
cautiva, è compreso nella raccolta El Aleph.
47. Henri de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’écriture, Paris: Aubier, 1959,
t. I, 1, pagg. 290-304, che per primo passa in rassegna le origini, gli sviluppi e la fortuna delle
due immagini. Ma vedi ora l’ampia schedatura di testi di Georges Folliet, «La Spoliatio Aegyptiorum (Exode 3, 21-23; 11, 2-3; 12, 35-36). Les interprétations de cette image chez les pères
et autres écrivains ecclésiastiques», Traditio, 57, 2002, pagg. 1-48, che conferma la frequente
associazione delle due immagini e la prevalenza dell’interpretazione di tipo origeniano, ma
rileva anche l’esistenza di altre varianti.
48. Origène, Homélies sur le Lévitique, texte latin, introduction, traduction et notes par
Marcel Borret S. J., Paris: Cerf, 1981, t. I, VII 6, pagg. 347-349.
48
ENRICO FENZI
di questa censoria translatio applicandola al pericoloso fascino delle lettere
classiche, da sequestrare e da usare, appunto, con cautela espurgatoria49.
L’altra immagine, che Agostino riprende da una lettera di Origene soprattutto nel De doctrina christiana, II 40, 60-61 (ma vedi anche Conf. VII 9,
15) si rifà alle ricchezze rapite dagli Ebrei agli Egiziani al momento della
loro partenza (Ex. 12, 35 ss.), ed è un’immagine più semplice e più forte,
e si presenta con l’aspetto di un vero e proprio ordine: è per volontà di Dio
che ai pagani deve essere sottratto il patrimonio del loro sapere, perché sia
messo al servizio della verità50.
Siamo a un altro snodo. Nell’un caso e nell’altro, come si vede, abbiamo
a che fare con «prede», o «spoglie» sottratte più o meno violentemente al
49. Vedi Epist. 70, 11, a Flavio Magno: «Legerat in Deuteronomio Domini voce praeceptum mulieris captivae radendum caput, supercilia, omnes pilos et ungues corporis
amputandos, et sic eam habendam in coniugio. Quid ergo mirum, si et ego sapientiam saecularem propter eloquii venustatem et membrorum pulchritudinem, de ancilla atque captiva
Israhelitin facere cupio? Et si quidquid in ea mortuum est, idolatriae, voluptatis, erroris, libidinum, vel praecido vel rado et mixtus purissimo corpori vernaculos ex ea genero Domino
Sabaoth? Labor meus in familiam Christi proficit»; Epist. 66, 8, a Pammachio: «Christum facimus
sapientiam. Hic thesaurus in agro Scripturarum nascitur, haec gemma multis emitur margaritis.
Sin autem adamaveris captivam mulierem […] et ejus pulchritudine captus fueris, decalva eam»,
ecc.; Epist. 21, 13, a papa Damaso: «Huius sapientiae typus et in Deuteronomio sub mulieris
captivae figura describitur, de qua divina vox praecipit ut, si Israhelites eam habere voluerit
uxorem, calvitium ei faciat, ungues praesecet, pilos auferat et, cum munda fuerit effecta,
tunc transeat in victoris amplexus».
50. Vedi anche H. I. Marrou, Saint Augustin, pagg. 393-394. Il passo di Origene è in
una lettera a Gregorio (forse il Taumaturgo, vescovo di Cappadocia), che è giunta a noi
perché compresa nella Philocalia origeniana di Gregorio di Nazianzo (per maggiori notizie,
vedi Origène, Philocalie 1-20. Sur les écritures et la lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne,
introduction, texte, traduction et notes par Marguerite Harl, Paris: Cerf, 1983, nota pagg. 399404). Vedi per il testo greco Henri Crouzel, Grégoire le Thaumaturge. Remerciement à
Origène. Lettre d’Origène à Grégoire, Paris: Cerf, 1969, introduzione pagg. 79-92; testo e
traduzione pagg. 185-195. Vedi anche Pierre Naudin, Origène. Sa vie et son oeuvre, Paris:
Beauchesne, 1977, pagg. 155-161, ove la lettera è tradotta e annotata. Nella lettera, indirizzata a Gregorio che per studio deve andare ad Alessandria, Origène ricorda la vicenda biblica
di Ader l’Idumeo (3 Reg. 11, 14-22) che, recatosi in Egitto fece carriera e sposò la sorella della
moglie del Faraone, e quando tornò in Israele era un perfetto idolatra: «Et cependant la
divine Écriture sait que pour certains ce fut un malheur de descendre du pays des fils d’Israël
en Égypte, en donnant à entendre que c’est un malheur pour certains de séjourner chez les
Égyptiens, c’est-à-dire dans les sciences de ce monde, après avoir été élevé dans la loi de
Dieu» (P. Naudin, Origène, pag. 159). Agostino riprende ampiamente l’immagine dell’ «oro
degli Egizi» nel De doctrina christiana II 40, 60-61, e a questa sua ripresa esplicitamente
rimanda nel Contra Faustum man. XXII 91 (ma vedi anche ibid., 71). Un cenno appena è
anche in Conf. VII 9, 15 (ma vedi ancora De div. quaest. LIII 2, 92; En. in Psalmos CIV 28,
1; Serm. VIII 14, 322-323, ecc.).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
49
nemico, e questo tratto che, in altro contesto, durerà a lungo, sino a tutto
il ‘500, quando specialmente caratterizzerà la versione francese della
translatio, induce a sottolineare un aspetto nuovo che la translatio ha finito
per assumere in questa età difficile: essa non è più reversibile e generalizzabile, com’era nel disegno ideale dell’humanitas proprio dell’universalismo romano, e davvero si oggettiva in un bottino, cioè in qualcosa ch’è
semplicemente sottratto e trasferito altrove e impiegato ad altri usi. E seppur
in maniera tendenziale una translatio siffatta in qualche modo cessa d’essere tale e appare attratta, piuttosto, nell’orbita di quella stessa visione che
riferiva le successioni dei regni a un piano metastorico. In questo senso,
«bella prigioniera» oppure «oro» che sia, direi che ci si trovi dinanzi a un irrisolto stato di necessità che dai tempi di Tertulliano si è fatto più duro, e
dunque a un blocco. Poco meno di altri duecento anni dopo, infatti, è evidente
come il blocco permanga e si sia fatto sempre più rigido, ed abbia finito per
soffocare l’esigenza alla quale da Tertulliano a Gerolamo e Agostino si era
cercato di dar voce. Penso naturalmente al «barbaro» Gregorio Magno, all’odiatore dell’antichità, al nemico della grammatica: accuse tutte dalle quali
Henri de Lubac e poi Riché intelligentemente lo sollevano, almeno nei termini
di invecchiati atteggiamenti polemici51. Ma non è questo il punto.
Anche Gregorio, come gli altri prima di lui, dovendo affrontare –e rifiutando– una implicita translatio, ha scritto qualcosa su cui i lettori si sono
a lungo impuntati. Il passo, ricavato dalla lettera di dedica a Leandro di
Siviglia dei suoi Moralia in Job, è famoso:
Quaeso autem, ut huius operis dicta percurrens in his verborum folia non
requiras, qui per sacra eloquia ab eorum tractatoribus infructuosae loquacitatis levitas studiose compescitur [...] Unde et ipsam loquendi artem,
quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam
sicut huius quoque epistolae terror enuntiat, non metacismi collisionem
fugio, non barbarismi confusionem devito, situs modosque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo
ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati52.
51. H. De Lubac, Exégèse médiévale, t. II 1, pagg. 53-98; Pierre Riché, Éducation et
culture dans l’Occident barbare, VIe-VIIIe siècle, Paris: Seuil, 1995 (quarta ed. rivista e corretta),
pagg. 123 ss. Vedi anche, un po’ meno convincente perché troppo interno alla logica di
Gregorio Magno, Claude Dagens, Saint Grégoire le Grand. Culture et expérience chrétiennes,
Paris: Études Augustiniennes, 1977, pagg. 31-34. Tra i tanti accusatori di Gregorio, vedi, particolarmente duro, Ferdinand Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Âge (1927),
Paris: Albin Michel, 1968, pag. 331.
52. La si legge in Morales sur Job, a cura di Gillet-Gaudemaris, Paris: Cerf, 1989,
pagg. 114-134: pag. 132. Christine Mohrmann, «Le problème de la continuité de la langue
50
ENRICO FENZI
Queste parole, che arrivano alla fine di una lettera per altro assai bella,
certo non mostrano amore per la cultura classica, ma di per sé non possono
tuttavia dimostrare odio, come è stato detto, ma semmai una forte polemica
verso forme di idolatria formale che riprende una linea ben presente nella
tradizione cristiana: si trattebbe insomma di una estremizzazione efficace
e provocatoria, che pone sul tappeto altre questioni. Fa pensare semmai
un’altra lettera che, questo sì, non può non condizionare almeno un poco
l’interpretazione della precedente. Si tratta del severo rimprovero mosso
al vescovo di Vienne, Didier, al quale Gregorio scrive allarmato:
Pervenit ad nos, quod sine verecundia memorare non possumus, fraternitatem tuam grammaticam quibusdam exponere. Quam rem ita moleste
suscepimus ac sumus vehementer aspernati, ut ea quae dicta fuerant in
gemitum et tristitiam verteremus, quia in uno se ore cum Iovis laudibus
Christi laudes non capiunt. Et quam grave nefandumque sit episcopis
canere quod nec laico religioso conveniat, ipse considera [...] Unde si post
hoc evidenter haec quae ad nos perlata sunt falsa esse claruerint neque
vos nugis et saecularibus litteris studere constiterit, et Deo nostro gratia
agimus, qui cor vestrum maculari blasfemis nefandorum laudibus non
permisit53.
littéraire», in Il passaggio dall’antichità al medioevo in occidente (Settimane di studio del
Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, IX), Spoleto: presso la Sede del Centro, 1962,
pagg. 329-349: pagg. 339-342, la inquadra entro l’esigenza di un rinnovamento linguistico
in senso antiletterario e le affianca opportunamente una analoga citazione di Gregorio di
Tours, nella Praefatio al suo Liber de gloria confessorum (PL 71, coll. 827-830). Anche per
Pierre Riché le frasi di Gregorio sono in linea con la tradizione, come mostra un passo singolarmente simile di Cassiodoro, Inst. I 15, 7: vedi Éducation et culture, pagg. 128-129, e pagg.
463-464.
53. Gregorii I Registr. Epist. 11, 34, a cura di Ewald-Hartmann, MGH Epist. 1890, II, pag.
303. La Mohrmann nel saggio citato nella nota precedente riporta il rimprovero al fatto che
ai vescovi era esplicitamente proibito insegnare, ma che Didier era evidentemente obbligato a farlo, considerate le penose condizioni di ignoranza dei suoi preti. Così pure argomenta con ampiezza Riché, che attraverso altre citazioni ribadisce la posizione perfettamente
ortodossa e assolutamente normale di Gregorio. Ma il problema, direi, è proprio questo, e
nonostante le belle e importanti pagine che lo studioso dedica a Gregorio, arrivando a una
valutazione equilibrata della sua cultura e dei suoi atteggiamenti, qualche perplessità resta,
soprattutto verso quella che potremmo chiamare la sua «politica culturale»: questa infatti è
in discussione, non la sua cultura personale. Scrive Riché, Éducation et culture, pag. 76:
«A la fin du Ve et au VIe siècle, par suite du déclin des études, on ne retient que les défauts
de la culture classique. L’humanisme qu’elle contenait est caché par les complications de la
forme et le paganisme de la pensée. Une telle formation intellectuelle paraît mettre en danger
la foi chrétienne, et empêcher les moins instruits d’avoir accès au message évangelique».
Si imprima su queste stesse parole, senza cambiarne una virgola, un minimo spostamento
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
51
Che Gregorio abbia le sue buone ragioni e che, tutto considerato, non
faccia altro che ribadire doverosamente la necessità di una serie di obblighi
e cautele sui quali esisteva un larghissimo accordo, non toglie che quanto
egli afferma abbia un importante significato, quanto meno sintomatico in
un’epoca di devastante ignoranza che, per le concordi diagnosi degli storici,
ha visto ogni forma di cultura e di semplice alfabetizzazione raggiungere
il suo punto più basso. Che per lui papa, attorno al 600, la grammatica
brutalmente equivalga alle laudes Iovis, e che un vescovo nel dilagare dell’analfabetismo tra gli stessi appartenenti al clero debba ignorare o mostrare
di ignorare o evitare di partecipare ad altri i fondamenti del suo linguaggio,
della sua cultura e infine di quel tanto o poco di concreta civiltà sulla quale
pur sempre appoggia il suo mondo, ebbene, ciò sta quanto meno a significare che quel blocco non si è affatto sciolto, al contrario. Bene o male,
la grammatica Didier la sa e deve saperla, così come deve sapere qualcosa
della letteratura «secolare»: solo, non può insegnarla. Di là dai pretesti
formali, la lacerazione è più che mai aperta, a dispetto di tutta l’intelligenza
e gli sforzi spesi nei secoli precedenti per definire una possibile via
mediana54. E ciò spicca e turba ancor più, quasi una smisurata schizofrenia,
in un papa del quale è stato detto: «His political imagery saw the Empire
as grounded in the hierarchical order of the world, an integral part of the
cosmic hierarchy. This is the old image of a world dominated by Rome,
whose universal Empire was part of the fixes order of things»55. Si ammetterà
che tra l’ordine cosmico e la guerra alla grammatica c’è il gran salto di
una translatio mancata e di una humanitas smarrita: forse la translatio non
del punto di vista, un poco di «straniamento», e il panorama ch’esse tracciano diventa subito
agghiacciante, e in rapporto ad esso Gregorio sembra più sensibile ai rischi del saper leggere
e scrivere che a quelli dell’analfabetismo. Ma poi: di Virgilio, per esempio, si vedrebbero solo
i difetti? Che vuol dire? Di solito si trova ciò di cui si va in cerca, e certo appaiono lontani i
tempi in cui, che so? Minucio Felice si entusiasmava, da cristiano, per quanto trovava sullo
stato delle anime nel discorso di Anchise, nel VI dell’Eneide, e persino Lattanzio, con alcuni
opportuni distinguo, subiva il fascino di quei versi e li elogiava.
54. Di nuovo, assai più sfumata è la posizione di Isidoro, pure ufficialmente in linea
con Gregorio Magno: al proposito non si può che rimandare alla grande opera di Jacques
Fontaine, Isidore de Séville et la culture classique dans l’Espagne wisigothique, Paris: Études
Augustiniennes, 1983 (seconda ed. rivista e corretta), passim. Ma vedi in particolare il cap.
VI, Bilan de la rhétorique isidorienne, I, pagg. 322-337, ove si indica senza mezze misure il
decisivo patronato di Cicerone e Quintiliano, e si parla, rispetto ai rigorismi altrui, di ambiguïté e timidité di Isidoro.
55. R. A. Markus, «Gregory the Great’s Europe», pag. 23. Ma vedi pure S. Mazzarino,
«L’era constantiniana», passim, che in sintonia con Markus e altri, accenna ai caratteri «orientali» della visione di Gregorio Magno, e ne indica la prospettiva tutta ecclesiastica e sacrale.
52
ENRICO FENZI
era mai stata davvero tra le opzioni possibili, certamente non è avvenuta
ed anzi, proprio in quanto tale, e cioè nei termini archetipici e modellizzanti riassunti nei poli di Atene e Roma, è stata stravolta e avversata56. Che
nella pratica si possano portare vari esempi che mostrerebbero il contrario,
e cioè un inevitabile flusso di saperi e di modi e tecniche specificamente
letterarie dalla cultura classica e pagana alla cristiana, non modifica di una
virgola le cose: del resto, anche la successione dei regni tra Assiri e Medi
e Persiani e Greci e Romani ha comportato una storia reale che esorbita e
resta essenzialmente estranea e indifferente alla visione trascendente che
ne dà Daniele e l’esegesi cristiana, ma ciò non intacca il senso e il valore
profondi di un’altra storia di cui quella visione non può rinunciare a dare
testimonianza. Ciò che in ogni caso importa, a questo punto, è che questa
dura, difficile e differita translatio quanto più appare lontana tanto più
incombe, e si trasforma nel nodo che l’Occidente deve assolutamente sciogliere in modo positivo: ma può cominciare a farlo solo quando sembrerà
che si possa sciogliere insieme anche l’altro, il nodo gemello, quello del
potere, che per ora ha ancora un solo nome: l’impero. E infatti il punto di
svolta oltre il quale gli uomini del medioevo potranno finalmente rivendicare qualcosa che ai loro occhi assomiglia alla translatio da Atene e Roma
e che, per quanto da lontano, annuncia la coscienza di un’età nuova, è
costituito dall’impero carolingio. È da lì, infatti, che di translatio si può
cominciare a parlare.
56. Il discorso è in verità complesso, ma, scusandomi per ritagliarne solo alcune affermazioni, evidentemente mi riconosco in quanto scrive Claudio Leonardi, quando sottolinea
come tra mondo gentile e mondo cristiano esista frattura e divergenza; ridimensiona la
portata di un supposto «umanesimo» di Agostino, e per contro dichiara l’umanesimo scomparso dall’Occidente: «Non è possibile parlare di umanesimo quando la cultura, dalle arti alla
filosofia, è concepita come uno strumento alla comprensione teologica; o quando si pensa
la teologia (e la Chiesa) come diverse dalla cultura (e dalla storia). Nella storia post-origeniana non si dà dunque propriamente umanesimo. Quando un fenomeno umanistico sembra
comparire nel Medioevo, esso appare come un fenomeno contestatore e minoritario, se non
come un fatto criptico o mistificato. Quando poi compare l’umanesimo che ha il suo centro
nel secolo XV, l’egemonia cristiana è finita, ma non a caso la Chiesa si porrà presto contro
la tradizione umanistica, incapace di staccarsi da quanto aveva costruito nel Medioevo e di
intendere nuove e diverse esigenze». Cito da C. Leonardi, «Alcuino e la scuola palatina: le
ambizioni di una cultura unitaria», in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XXVII),
Spoleto: presso la Sede dell’Istituto, 1981, pagg. 459-496 (470-471) (ora il saggio è compreso
in Medioevo latino, pagg. 191-217). Come si vedrà poco avanti, direi invece qualcosa di
leggermente diverso, o quanto meno di più sfumato, rispetto ad Alcuino.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
3. CARLO MAGNO
E
53
ALCUINO
Andiamo sùbito al punto. Etienne Gilson, in un saggio del 1930: Humanisme médiéval et Renaissance57, ha individuato tanto il tema della translatio,
quanto il momento in cui esso si pone in termini compiuti e coscienti:
Le moyen âge [...] il a accepté et revendiqué comme un honneur le rôle
de transmetteur d’une civilisation qui lui était dévolu. Dès le temps de
Charles le Chauve, et grâce à la présence de Jean Scot Erigène, ce
qu’Alcuin n’avait encore consideré que comme un rêve, apparait aux
contemporains comme une réalité; l’Athènes du Christ existe, elle est
en France, son fondateur n’est autre que le maître d’York et de SaintMartin de Tours. Pour constater la réalité et la vivacité de ce sentiment,
il faut suivre l’histoire d’un thème littéraire trop négligé, le De translatione studii.
Dès le temps de Charles le Chauve, dunque a partire dalla seconda metà
del IX secolo, non prima: i secoli precedenti sono tagliati via, con un giudizio
che lascia molte cose in sospeso, dato che in ogni caso Gilson non si spinge
più indietro del «sogno» di Alcuino. E la cosa va osservata, soprattutto se
si accettano, come credo si debba fare, le parole di uno studioso come
Santo Mazzarino, per il quale già da molto prima il «problema della fine del
mondo antico» era diventato «un problema di translatio»58, quella translatio
che la Chiesa, appunto, non volle, o gravò di troppe ipoteche. Gilson
muove in ogni caso dall’epoca di Carlo il Calvo perché ad essa risale la
più antica testimonianza ch’egli avesse trovato dell’emersione del tema,
quella contenuta nei Gesta Karoli del Monaco di san Gallo, Notker le Bègue
(885 circa), ed è infatti al regno di Carlo Magno che occorre retrocedere
per trovarvi le radici della translatio e della renovatio insieme (il che sta a
dire, di nuovo, la cosciente novità della cosa)59. Prima di farlo, vorrei però
57. Il saggio è ora compreso nel volume dello stesso Gilson, Les idées et les lettres,
Paris: Vrin, 1955 (prima ed., 1932), pagg. 171-196 (183-185). Da queste pagine prende le
mosse Édouard Jeauneau, Translatio studii. The Transmission of Learning. A Gilsonian
Theme, Toronto: Pontifical Institute of Mediaeval Studies, 1995, dedicando al tema lo studio
sin qui più ampio e ricco di riferimenti, al quale rimando per puntuali integrazioni.
58. Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano: Garzanti, 1959, pag. 72 (è
appena il caso di sottolineare che si tratta di una delle cose più belle e intense che sull’argomento siano state scritte).
59. L’aver riportato a Carlo Magno le radici della translatio costituisce l’apporto più
importante del saggio di A. G. Jongkees, Translatio Studii, citato all’inizio, nota 2.
54
ENRICO FENZI
restare un attimo sui Gesta Karoli e citare non solo le parole, per altro
davvero significative, alle quali Gilson si rifà: divenuto abate di san Martino
in Tours, Alcuino lo trasforma in un centro di cultura, «cujus in tantum
doctrina fructificavit, ut moderni Galli sive Franci antiquis Romanis et Atheniensibus aequarentur»60, ma proprio le parole con le quali la cronaca
comincia, a mio avviso essenziali:
Omnipotens rerum dispositor ordinatorque regnorum et temporum, cum
illius admirandae statuae pedes ferreos vel testaceos comminuisset in
Romanis, alterius non minus admirabilis statuae caput aureum per illustrem Karolum erexit in Francis. Qui cum in occiduis mundi partibus
solus regnare coepisset, et studia litterarum ubique propemodum essent
in oblivione, ideoque verae deitatis cultura teperet, contigit duos Scottos
de Hibernia cum mercatoribus Brittannis ad litus Galliae devenire, viros
et in saecularibus et in sacris scripturis incomparabiliter eruditos.
A parte alcune ingenuità61, queste frasi sono dense di significato. Il
ritorno della profezia di Daniele –il sogno della statua– e dell’interpretazione
di Gerolamo sta a dire che la successione dei regni, dopo il crollo dell’impero Romano, ha ripreso il suo corso: addirittura, con Carlo Magno il
cammino riprende dal punto più alto, dal caput aureum. In secondo luogo,
proprio perché siamo dinanzi a un salto epocale e un nuovo regno s’inaugura, è finalmente possibile porre il tema della translatio, fino a quel
60. Monachi Sangallensis Gesta Karoli lib. I, edited by Pertz, MGH SS, II pag. 731 (così
pure la citazione che segue). Commenta E. Gilson, Les idées, pag. 183: «Le fait est d’autant
plus intéressant, que ce chroniqueur vivait hors de France et que son témoignage exprime
par conséquent une opinion déjà largement répandue […] Nous avons ici l’amorce di thème
de translatione studii. Puisque Athènes s’est transportée en France depuis la venue d’Alcuin, c’est donc que la science grecque, transmise jadis par la Grèce à Rome, a désormais
été transmise par Rome à la France. À mesure que l’importance de Paris augmente, c’est
naturellement Paris qui prend la place d’Athènes, mais on ne doute pas du résultat produit
par l’enseignement d’Alcuin et nul ne se trompe sur sa portée veritable» (questa di Parigi è
per la verità un’anticipazione). Ma del tutto corretto è il commento più recente di Olaf
Pedersen, The First Universities. «Studium Generale» and the Origins of University Education
in Europe, Cambridge: Cambridge University Press, 1997, pag. 77: «Even if this pronouncement presupposed a serious ignorance of ancient culture, it gives a correct impression of the
dream of its rebirth in the Carolingian age» (vedi anche avanti, nota 68).
61. Alcuino incontrò per la prima volta Carlo a Parma, nel 781, e l’anno seguente accettò
l’invito a trasferirsi in Francia. Circa i dotti che fecero capo alla corte carolingia, molto si ricava
dai densi inquadramenti di C. Leonardi ora compresi nel suo Medioevo latino, in part. «L’irlandese Dungal e l’iconoclasta Claudio» (1982), pagg. 275-288; «L’enciclopedia di Rabano»
(1994), pagg. 289-306; «La scuola carolingia e Remigio d’Auxerre» (1975), pagg. 307-320.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
55
momento inconcepibile perché l’epoca precedente, nella quale gli studi
sono stati dimenticati, non è altro che la lunga appendice di quel crollo: è
quel crollo. Translatio imperii e translatio studii, insomma, sono, nel segno
della novità, una cosa sola: e di colpo le contorte perplessità e ostilità del
pensiero cristiano dei secoli precedenti, che forse con qualche ingenerosità, possiamo riassumere nel nome di Gregorio, cominciano a uscire dalla
storia. O meglio, rimangono e cercheranno ancora varie volte d’imporsi, ma
la loro originale dimensione egemonica all’interno di uno spazio culturale
unificato non la ritroveranno mai più.
Si vuol forse dire che le laudes Jovis hanno finito per oltrepassare la
diga, e che il pensiero pagano dilaga? Per nulla. L’identità cristiana del
regno di Carlo Magno non solo non è in discussione, ma addirittura ne
costituisce l’assoluto fondamento ideologico. Le grandi iniziative per la riorganizzazione e l’istruzione del clero62, l’opera di rassettatura e riordino dei
testi sacri e il personale e profondo cristianesimo dei suoi intellettuali,
Alcuino in testa, lo confermano in mille modi63. Solo, quel regno, in quanto
62. L’Admonitio generalis, del 789, oltre a una lunga serie di disposizioni riguardanti
la vita e l’organizzazione del clero, prescriveva, all’articolo 72, che presso i monasteri e le
chiese cattedrali fossero istituiti regolari corsi scolastici per insegnare i salmi, la notazione
musicale, il canto, la matematica e la grammatica; la contemporanea e famosa Epistola de
litteris colendis, formalmente mandata all’abate Baugulf di Fulda, ma in realtà indirizzata a tutto
il clero, di quell’articolo sviluppa i vari punti (vedi Giles Brown, «Introduction: the Carolingian Renaissance», in Carolingian Culture: Emulation and Innovation, edited by R. McKitterick, Cambridge: Cambridge University Press, 1994, pagg. 1-51: pagg. 17 ss., e ancora Maurice
Roger, L’enseignement des lettres classiques d’Ausone à Alcuin: Introduction à l’histoire des écoles
carolingiennes, Paris: Picard, 1905, in rist. anastat., Hildesheim: Olms, 1968, passim).
63. Vedi due saggi di Pierre Riché, «Instruments de travail et méthodes de l’exégèse à
l’époque carolingienne», e «La Bible et la vie politique dans le haut Moyen Âge», entrambi
in Le Moyen Âge et la Bible, dir. Pierre Riché & Guy Lobrichon, Paris: Beauchesne, 1984,
rispettivamente pagg. 147-161, e pagg. 385-400. Il primo, assai denso, offre un quadro
completo del lavoro esegetico compiuto sulla Bibbia nell’ambiente di Carlo Magno, che vi
era personalmente coinvolto (onde si è detto che egli avesse messo tanto ardore nel correggere i testi biblici quanto ne metteva nel vincere i nemici sul campo di battaglia); il secondo
precisa la concreta dimensione ideologico-politica dell’investitura religiosa della quale il
regno capetingio, a partire già da Pipino il Breve, si ammantava, presentando il popolo
d’Israele e i suoi re come altrettanti prototipi del popolo Franco del quale Carlo Magno viene
proclamato rex et sacerdos (per questa immagine di dominatore teocratico e strumento di
Dio e della Chiesa cucita addosso a Carlo Magno vedi l’ampio capitolo di Reto R. Bezzola,
«Les carolingiens», pagg. 86-224 del suo Les origines et la formation de la littérature courtoise
en Occident (500-1200), part. I, La tradition impériale de la fin de l’antiquité au XIe siècle,
Paris: Champion, 1968). Ma si vedano anche, per la profondità dell’impegno culturale speso
in campo religioso, i densi capitoli del volume di Donald A. Bullough, Carolingian renewal:
56
ENRICO FENZI
unione di Germania, Francia e Italia, ha in sé il germe di qualcosa di inedito,
un’idea dell’Europa, che «è un fatto medioevale, non un’esperienza di epoca
classica», e di un’Europa che definitivamente si stacca da Bisanzio e dal
mondo ellenico, e dunque «spezza i ponti con la tradizione classica»64. Li spezza
perché è, finalmente, un’altra cosa, e precisamente per questo, senza l’aiuto
di ponti malfidi e traballanti ma in nome di un impero ritrovato, può porre
all’ordine del giorno la necessità di «tradurre» per sé quella tradizione, senza
timidezze e con un senso davvero nuovo dei propri diritti e doveri culturali. I Gesta Karoli affermano come nel campo del sapere i Franchi abbiano
eguagliato gli Ateniesi e i Romani, offrendo dunque ai secoli che verranno
la base del classico topos: Atene-Roma-Parigi, e lo fanno senza minimamente preoccuparsi di aggiungere cautelosi e cristianizzanti distinguo. Il che
testimonia di una certa naturale spregiudicatezza: della quale troviamo
conferma se ci volgiamo indietro, là dove ci viene indicato d’andare, cioè
alla corte di Carlo Magno.
Qui, non sembri esagerato parlare di un atteggiamento che suona libero
e leggero, quando ci si trova dinanzi all’entusiasmo scevro di sensi di colpa
con il quale Alcuino (il quale, si ricordi, ha assunto il nome poetico di
Flaccus: e altri attorno a lui vollero chiamarsi Omero, Pindaro, Marone,
Tirsi, Menalca...) continuamente parla del suo lavoro e, dentro di esso,
della componente classica. Lo si vede, per esempio, nel lungo componimento Versus de sanctis euboricensis ecclesiae, là dove fa un altissimo elogio
dell’amico divenuto vescovo di York nel 767, Aelberto, grande maestro di
scuola e avido cercatore di libri, che agli allievi insegna l’arte grammatica,
la retorica, il diritto, e «illos Aonio docuit concinnere cantu, | Castalida
instituens alios resonare cicuta, | et iuga Parnassi lyricis percurrere plantis»,
o là dove, poco avanti, s’esalta elencando i libri di cui la biblioteca della
cattedrale era ricca e tocca proprio il tema della trasmissione dei testi e dei
sources and heritage, Manchester & New York: Manchester University Press, 1991. Per la
dimensione politica assunta dall’elemento religioso, vedi I Deng-Su, «La saecularis potestas
nei primi specula carolingi», in Culto cristiano, politica imperiale carolingia (9-12 ottobre
1977), Todi: Accademia Tudertina (Convegni del Centro di Studi sulla spiritualità medievale
& Università degli Studi di Perugia, XVIII), 1979, pagg. 363-446, e, nello stesso volume,
Cyrille Vogel, «Les motifs de la romanisation du culte sous Pépin le Bref (751-786) et Charlemagne (774-814)», pagg. 13-41 (accentua il senso delle motivazioni strettamente politiche
delle scelte di Pipino e Carlo). Di qui si ricaverà altra bibliografia: in genere, si veda ancora
Louis Halphen, Charlemagne et l’Empire carolingien, Paris: Albin Michel, 1947, pagg. 25 ss.;
Marc Bloch, I re taumaturghi, Torino: Einaudi, 1975 (I ed. fr., 1924), passim.
64. Così Santo Mazzarino, «Il nome e l’idea di ‘Europa’», in Antico, tardoantico ed era
costantiniana, Bari: Dedalo, 1980, pagg. 412-430: pagg. 428-429.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
57
saperi dalla Grecia a Roma, implicandone quanto meno l’attuale continuità:
«Illic invenies veterum vestigia patrum, | quidquid habet pro se Latio
Romanus in orbe, | Graecia vel quidquid transmisit clara Latinis, |
Hebraicum vel quod populus bibit imbre superno» (corsivo mio), e finisce
appunto con un elenco di autori classici e con i retori e i grammatici
antichi65. Oppure là dove raccomanda attenzione e scrupolo di correttezza
agli addetti allo scriptorium, con un senso vivo sia del valore della
trasmissione dei testi che dell’oggetto, il libro medesimo (e si osservi l’immagine del «volo» della penna): non siano «frivoli», dunque, «frivola nec
propter esset et ipsa manus, | corretosque sibi quaerant studiose libellos,
| tramite quo recto penna volantis eat. | Per cola distinguant proprios et
commata sensus, | et punctos ponant ordine quosque suos», ecc.66
Non voglio discutere qui del concetto di «rinascimento carolingio», e
nemmeno mi importa se alla fin fine si continuasse a pensare quello che
già pensava Gaston Paris, quando scriveva che nella Scuola palatina «l’on
s’encourageait à aquérir et à propager une science à moitié naïve, à moitié
prétentieuse [...] où lui [Carlo Magno] et les siens cachaient leur personalité
barbare sous la masque des plus illustres anciens»67. Né mi spaventa il deciso
giudizio di Claudio Leonardi: «Alcuino è mosso da interessi culturali che si
65. Alcuini Carmina, edited by Duemmler, MGH Poetae aevi carolini, I, 1881, pagg.
201 e 203-204, vv. 1436-1438, e vv. 1535-1538.
66. Alcuini Carmina, pag. 320, XCIV vv. 4-8. Parla di questi versi David Ganz, «Book
production and the spread of Caroline minuscole», in The new Cambridge Medieval History,
vol. II c. 700-900, edited by Rosamond McKitterick, Cambridge, Cambridge University Press,
1995, pagg. 786-808: pagg. 795-796. Ma in questo stesso volume rimando soprattutto all’ampio
saggio di John J. Contreni, «The Carolingian Renaissance: Education and Literary Culture», pagg.
709-757, con amplissima bibliografia. Vedi anche Rosamond McKitterick, «Eigth-Century
Foundations», ibid., pagg. 681-694, e già The Frankish Kingdoms under the Carolingians,
751-987, London & New York: Longman, 1983, soprattutto per i due importanti capitoli «The
Foundation of the Carolingian Renaissance», pagg. 140-168, e «Scolarship, Book production
and Librairies: the Flowering of the Carolingian Renaissance», pagg. 200-227; il vol. Carolingian Culture: Emulation and Innovation, edited by R. McKitterick, Cambridge: Cambridge
University Press, 1994, e qui in particolare ai saggi di G. Brown, «Introduction: the Carolingian Renaissance», pagg. 1-51, e di Mary Garrison, «The emergence of Carolingian latin
literature and the Court of Charlemagne (780-814)», pagg. 111-140. Per l’attività di trasmissione dei testi, vedi Bernhard Bischoff, «Panorama der Handschriftüberlieferung aus der Zeit
Karls des Grossen», in Mittelalterliche Studien. Ausgewählte Aufsätze zur Schriftkunde und
Literaturgeschichte, Stuttgart: Hiersemann, 1981, III, pagg. 5-38; Leighton D. Reynolds &
Nigel G. Wilson, Scribers and Scholars: a guide to the Transmission of Greek and Latin
Literature, Oxford: Clarendon Press, 1991, pagg. 84-94.
67. Gaston Paris, Histoire poétique de Charlemagne, Paris: Franck, 1865, pag. 34 (ma
vedi in fine, pag. 449, un riconoscimento più largo).
58
ENRICO FENZI
possono comprendere solo riconoscendo che egli opera all’interno della
visione agostiniana, e non fonda nessun umanesimo, né laico né cristiano.
Non ne esistono le condizioni culturali, né Alcuino ha le capacità e il gusto
teoretico per un’alternativa alla tradizione in cui si pone»68. Certo di alternativa non si può parlare, ma alcune importanti differenze saltano agli
occhi. Ci si ricordi di Gregorio Magno e del suo diffidente rapporto con la
grammatica: ebbene, dice Alcuino, autore di un De grammatica, un De ortographia e un De dialectica (e non c’è bisogno di immaginarlo in diretta
polemica con le posizioni del papa), se non si vuole che sia quella si abbia
almeno il coraggio di farne un’altra, ma una grammatica è indispensabile:
«si nota et olim audita non licet inferre, quid faciemus de litteris syllabis etiam
et verbis, quibus uti nobis necesse est cotidie, nisi novas grammaticae artis
regulas excogitare incipiamus?»69. Ma ancora, rivolgendosi a Carlo Magno
e parlando del suo insegnamento presso san Martino di Tours, sembra
addirittura distinguere gli studenti per indirizzi e persino per sedi di studio:
«Ego vero Flaccus vester secundum exhortationem et bonam voluntatem
vestram aliis per tecta sancti Martini sanctarum mella scripturarum ministrare
satago; alios vetere antiquarum disciplinarum mero inebriare studeo; alios
grammaticae subtilitatis enutrire pomis incipiam», ecc. (corsivi miei)70.
Ch’egli tranquillamente e senza ombra di auto-censura possa dire che
s’ingegna di inebriare col vino vecchio della cultura antica parte dei suoi
studenti non mi pare, insomma, cosa da nulla, e per apprezzarne la novità
non è necessario supporre un inesistente spirito laico, perché è ben chiaro
ch’egli mette il tutto sotto il larghissimo ombrello della dimensione religiosa. Per esempio lo fa proprio là dove, anticipando i Gesta Karoli, già
68. C. Leonardi, «Alcuino e la scuola palatina», pag. 479. Di nuovo, pare assai equilibrato il giudizio di Pedersen, The First Universities, pagg. 89-91, quando scrive che «In none
of the areas specified above is there any justification for saying that the schools of the Carolingian age pursued original research, if by this we mean conscious efforts to bring new knowledge into being», ma riconosce d’altro lato che allora «for the first time, society in Latin
Europe had admitted some responsibility for education, and Charlemagne’s dream of providing
educational opportunities for the laity was a seminal value, despite the fact that the material conditions needed for carrying it out were not yet at hand».
69. Alcuini Epistolae, edited by Duemmler, MGH Epistolarum IV, Karolini aevi II, 1895,
pagg. 232-233: Epist. 145. Qui Alcuino risponde ad alcune obiezioni dello stesso Carlo Magno,
sì che si dovrebbe riportare il senso complessivo della questione al notevolissimo scambio
di battute tra i due che è nel De arte rhetorica dialogus, noto anche come Dialogus de rhetorica et virtutibus (nei Rhetores latini minores, a cura di Helm, Lipsia, Teubner, 1863, pagg.
525-550 = PL 101, 919-946). Vedi C. Leonardi, «Alcuino e la scuola palatina», pagg. 475-479.
70. Alcuini Epistolae, cit., pag. 176: Epist. 121.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
59
abbozza il tema della translatio verso quella nuova Atene ch’è la Francia
cristiana: «si, plurimis inclitum vestrae intentionis studium sequentibus,
forsan Athenae nova perficeretur in Francia, immo multo excellentior».
Prosegue infatti: «Quia haec Christi domini nobilitata magisterio omnem
achademicae exercitationis superat sapientiam. Illa, tantummodo Platonicis
erudita disciplinis, septenis informata claruit artibus; haec etiam insuper
septiformi sancti Spiritus plenitudine ditata omnem saecularis sapientiae
excellit dignitatem»71.
Naturalmente, ciò non significa affatto che manchino i soliti avvertimenti a preferire le verità della Rivelazione alle favole dei poeti: i cantici
della Bibbia sono migliori del «falso Marone», e certo la Trinità «in Virgiliacis non invenietur mendaciis», e, chiudendo una lettera, al discepolo
lontano augura: «Utinam evengelia quattuor, non Aeneades duodecim pectus
compleant tuum»72. Ma ecco, proprio qui molto graziosamente aveva insi71. Alcuini Epistolae, cit., pag. 279: Epist. 170. Questo testo è stato già citato da A. G.
Jongkees, Translatio Studii, pagg. 46-47, che giustamente vi ravvisa l’idea della translatio (ma
in una traduzione, mi permetto di dire, che vela un poco proprio l’intenzione con la quale
lo allega). Tra altre lettere che si potrebbero ricordare, segnalerei ancora la lunga Epist. 307,
pagg. 466-471, che si sofferma sulla disputa di Paolo con i sapienti greci narrato in Act. 17,
18, e, toccando il tema dell’oro degli Egizi (si aggiunga dunque questa testimonianza di
Alcuino a quelle elencate da De Lubac), dichiara di adottare le medesime armi dialettiche
dell’avversario, «ut, suorum sauciatus armis, in catholici exercitus libens castra recurrat»
(corsivo mio).
72. Alcuini Carmina, cit., pag. 299: LXXVIII 5-8: «Has rogo menti tuae, iuvenis, mandare
memento: cantica sunt nimium falsi haec meliora Maronis. | Haec tibi vera canunt vitae
praecepta perennis, | auribus ille tuis male frivola falsa sonabit»; Alcuini Epistolae, cit., pag.
475: Epist. 309; ibid., pagg. 38-39: Epist. 13. Ma si veda in particolare pag. 183: Epist. 124,
ove, con toni che possono ricordare Gregorio Magno, rimprovera Higbald vescovo di Lindisfarne che allietava i conviti con canti pagani dedicati alle antiche leggende anglo-sassoni
intorno al re Ingeld: «Verba Dei legantur in sacerdotali convivio. Ibi decet lectorem audiri,
non citharistam; sermones patrum, non carmina gentilium. Quid Inieldus cum Christo?
Angusta est domus: utrosque tenere non poterit. Non vult rex celestis cum paganis et perditis
nominetenus regibus communionem habere...». La sincerità è indubbia, ma si tratta di ammonimenti assolutamente topici: vedremo ancora, per esempio, Pietro di Blois sgridare con
assai maggiore violenza il vecchio Raoul di Beauvais perché alla sua età continuava a insegnare le arti liberali (con espressioni che Petrarca riecheggerà, nella sua polemica contro i
«dialettici»): «Vos autem tumultuoso strepitu et clamore nautico de nugis assidue disputantes
inutiliter aera verberatis [...] vos, puer centum annorum et elementarius senex, docetis sapientiam. Verecundum siquidem et onerosum satis est mihi quod omnes coaetanei vestri in
montem eminentioris scientiae ascenderunt et vos in coeno crassioris intelligentiae cum
asino remansistis. Priscianus et Tullius, Lucanus et Persius, isti sunt dii vestri. Vereor ne in
extremae necessitatis articulo vobis improperando dicatur: ubi sunt dii tui?» (Petri Blesensis
Epistolae, VI, PL 207, coll. 18-19).
60
ENRICO FENZI
nuato: «Flaccus recessit, Virgilius accessit, et in loco magistri nidificat Maro»,
e questa battuta disinvolta offre in verità una piccola chiave per entrare in
una dimensione nella quale lo scrupolo cristiano si presenta del tutto privo
di doppiezza e però riesce a non sacrificare l’intelligenza e a non rinchiudersi in grevi atteggiamenti di censura. Come racconta la Vita di lui, il
vecchio Alcuino aveva proibito ai giovani allievi la luxuriosa facundia di
Virgilio, e aveva rimproverato, ma anche benignamente perdonato, Sigulfo
Vetulo che insieme ad altri ne aveva organizzato una lettura clandestina:
ma l’episodio non ha nulla di cupo e semmai rimanda indietro, all’Alcuino
giovane, che a sua volta, quasi novello Gerolamo, si rimprovera di preferire Virgilio ai Salmi73. Ma il tono non è mai pesante, e semmai rimanda a
un’oscillazione affatto prevedibile nella sua novità, e spinge a ricordare
come egli avesse vivacemente protestato per l’assenza di Virgilio nei
programmi d’insegnamento: «Quid Maro versificus solus peccavit in aula?
| Non fuit ille pater iam dignus habere magistrum, | qui daret egregias
pueris per tecta camenas?»74. Insomma, di là da tante possibili analisi si
oserebbe quasi pensare che lo spontaneo calore con il quale Alcuino tratteggia la sua triadica amicale comunità –il maestro, gli studenti, i libri– suoni
come una sorta di flebilissimo annuncio, quanto si voglia condizionato e
formalmente approssimativo, di una futura comunità che si riconosce e comunica attraverso i libri, quella di Petrarca e i suoi amici (il quale Petrarca, non
dimentichiamo, dovrà pure lui fare i conti tra Virgilio e i Salmi...).
La voce attenta e simpatica di Alcuino75 non è naturalmente la sola, ed
è facile collocarla e in qualche modo completarla entro il coro nel quale
risuonano inni assai più enfatici alla grandezza di Carlo Magno restauratore
della grandezza della Roma antica. In essi s’alternano, com’è naturale,
accenti posti sulla trascendente continuità dell’impero e accenti posti sulla
carica di novità della renovatio, ma in ogni caso, anche se manca la parola,
l’idea della translatio è ormai affatto acquisita, e Carlo Magno stesso,
summus apex regum e sommo sophista e letterato e poeta incarna esemplarmente il nesso strettissimo tra la somma del potere e la somma del
sapere. Così è, infatti, nei versi già molte volte citati (forse di Angilberto)
73. Vita Alcuini, edited by Arndt, MGH SS XV pars I, rispettivamente pagg. 193 e 185.
Sugli aneddoti riferiti dalla Vita e per altre citazioni di testi entro un discorso su Alcuino con
il quale sono in sintonia, vedi Vincenzo Cilento, «Il mito medievale della translatio studii»,
Filologia e letteratura, 12 (1966), pagg. 1-15 (7 ss).
74. Alcuini Carmina, cit., pag. 245: XXVI vv. 18-20. Cita e osserva l’importanza di
questi versi M. Garrison, The emergence, pag. 124.
75. Elinando lo definirà magister deliciosus di Carlo Magno (Chronicon 790, PL 212, 837).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
61
del componimento Karolus Magnus et Leo papa, ove si allude alla costruzione del grande palazzo e della cappella Palatina di Aquisgrana (fr.: Aixla-Chapelle), consacrata nell’805:
Grammaticae doctor constat praelucidus artis;
nullo umquam fuerat tam clarus tempore lector;
rethorica insignis vegetat praeceptor in arte;
summus apex regum, summus quoque in orbe sophista
extat et orator, facundo famine pollens;
inclita nam superat praeclari dicta Catonis,
vincit et eloquii magnum dulcedine Marcum,
atque suis dictis facundus cedit Homerus,
et priscos superat dialectica in arte magistros
[...]
sed et urbe potens, ubi Roma secunda
flore novo, ingenti, magna consurgit ad alta
mole, tholis muro praecelsis sidera tangens.
Stat pius arce procul Carolus loca singula signans,
altaque disponens venturae moenia Romae.
Hic iubet esse forum, sanctum quoque iure senatum,
ius populi et leges ubi sacraque iussa capessant76.
Mentre Moduin (Moduinus) d’Autun può parlare di una rinata e rinnovata aurea Roma:
Prospicit alta novae Romae meus arce Palemon,
cuncta suo imperio consistere regna triumpho,
rursus in antiquos mutataque secula mores.
Aurea Roma iterum renovata renascitur orbi,77
76. MGH Poetae latini aevi carolini, cit., pagg. 367-368: vv. 67-75 e 94-100.
77. MGH Poetae latini aevi carolini, cit., pag. 385: Ecloga vv. 24-27. È appena il caso
di dire che a partire di qui diventa del tutto pervasiva la colorazione romana che assumono
le lodi di Carlo Magno e dei suoi successori: per esempio, l’abate Abbone loda lui e il figlio
Ludovico che «certe utrique pro tempore ac ratione noverant parcere subiectis et debellare
superbos», e dunque applica al regno carolingio quella ch’era la «marca» sublime dell’impero
romano (Liber Canonum Abbonis Abbatis, in Recueil des Historiens des Gaules et de la France,
Paris: Palmé, 1874, X, pag. 627). E più tardi Enghelberto di Admont lo metterà tranquillamente con Alessandro Magno, Ciro e Giulio Cesare: «qui precipue in rebus bellicis claruerunt, sicut ab Alexandro Magno in bellis Grecis et a Cyro in bellis Persicis et a Cesare Iulio
in bellis Ytalicis [non ‘Gallicis’, si noti], a Karolo Magno in bellis Germanicis; in materia de
virtutibus a Seneca et Tullio», ecc. (Speculum virtutum [vedi sopra, num. 33], pag. 344: X 17).
Merita forse ricordare anche un tratto idiosincratico del ritratto di Carlo Magno sottolineato
62
ENRICO FENZI
fissando in una formula efficace il ruolo di Carlo Magno come «rigeneratore» della grandezza antica, per cui Acquisgrana diventa una «seconda
Roma»78. Ma il campo delle lodi di Carlo è in verità sterminato. Restiamo
dunque attaccati al filo della translatio, e citiamo ancora un passo assai
significativo di Héric d’Auxerre, tratto dalla epistola dedicatoria, Commendatio sequentis operis ad gloriosum regem Karolum per epistolam facta,
con la quale egli dedica nel 873 a Carlo il Calvo la sua Vita metrica S.
Germani:
id vobis singulare studium effecistis, ut sicubi terrarum magistri florerent artium, quarum principalem operam philosophia pollicetur, hos ad
publicam eruditionem undecunque vestra celsitudo conduceret, comitas
attraheret, dapsilitas provocaret. Luget hoc Graecia novis invidiae aculeis
lacessita: quam sui quondam incolae iamdudum cum Asianis opibus
aspernantur, vestra potius magnanimitate delectati, studiis allecti, liberalitate confisi; dolet inquam se olim singulariter mirabilem ac mirabiliter
singularem a suis destitui; dolet certe sua illa privilegia (quod numquam
hactenus verita est) ad climata nostra transferri79.
Come si vede, il «trasferimento» ad climata nostra, dalla Grecia alla
Francia (Roma qui non compare) è tanto spirituale quanto materiale: si
trasferisce la filosofia perché si trasferiscono gli uomini, e costoro lo fanno
perché cooptati entro un progetto epocale, quale appunto è quello della
translatio medesima, irresistibilmente calamitata dalla forza attrattiva del
nuovo regno. Anche questo testo è già stato citato al proposito, ma, un
po’ come avveniva per i Gesta Karoli, ci sono in esso anche altre parole
che meritano d’essere ricordate. In apertura della lettera, infatti, Héric ripete
da Martino Polono: «Hic etiam solitus erat, cum se de nocte in lecto deponeret, ad caput
suum pennam et incaustum cum pergameno reponere, ut si in stratu aliquid utile futuro
tempore faciendum cogitatu occurreret, ne a memoria laberetur, scriberet vel signaret» (Martini
Oppiaviensis Chronicon, sub Karolo Magno, pag. 461).
78. Sul tema della «seconda Roma», vedi ancora l’eccellente contributo di William
Hammer, «The Concept of the new or second Rome in the Middle Ages», Speculum, 19 (1944),
pagg. 50-62. Lo studioso prende in considerazione sette città che si sono fregiate di quel
titolo, Costantinopoli, Aquisgrana, Treviri, Milano, Reims, Tournai e Pavia, e discute, pagg.
53-54, dei famosi Versus Romae (nono o decimo secolo) a proposito di Costantinopoli (v.
9: «Constantinopolis florens nova Roma vocatur») che eccezionalmente configurano una translatio orientale, che resta in ogni caso secondaria, e non incide per nulla sulla linea maestra
che qui cerco di seguire.
79. MGH. Poetae aevi carolini, edited by Traube, 1964, III, 1964, pag. 429 (vedi R.
Bezzola, Les origines, pag. 202 nota 1; A. G. Jongkees, «Translatio Studii», pagg. 47-48).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
63
il «proverbio» di Platone che da Alcuino in poi era diventato un topos negli
elogi di Carlo Magno e dei successori:
quae ante nos dicta est, sententiae veritate repungor «felicem fore rempublicam, si vel philosopharentur reges vel philosophi regnarent»80.
E così facendo, egli conferma l’indicazione di Alcuino che presentava
un re filosofo che non ha nulla a che fare con il tradizionale modello biblico
di David (ch’era per altro il nome «poetico» che Carlo aveva scelto per sé),
ma ripiglia invece il filo di una lunga tradizione che risale a Platone, Rep.
VI 499b ss.81, e che passa per Cicerone, Ad Quintum fr. I 1, 29, e De officiis I 28; Apuleio, De Platone et eius dogmate II 24, 257; Historia Augusta:
Giulio Capitolino, Vita Marci Antonii 27; Boezio, Cons. I 4, 5-6: «Atqui tu
hanc sententiam Platonis ore sanxisti beatas fore res publicas si eas vel
studiosi sapientiae regerent vel earum rectores studere sapientiae contigisset», e arriva a Lattanzio, Inst. III 21, 6: «At idem [Platone] dixit beatas civitates futuras fuisse, si aut philosophi regnarent aut reges philosopharentur»,
e poi a Gerolamo, In Ionam IV (PL 25, col. 1143) e, in altra forma, ad
Agostino, Quest. In Hept. I 153 (commentando Gen. 46, 32-34): «qui excellunt
ratione excellant dominatione». In campo cristiano ad Alcuino ed a Héric
non mancavano dunque le autorizzazioni, ma soprattutto importano qui
80. Alcuini Epistolae, cit., pag. 373: Epist. 229, a Carlo Magno benedicendolo per la
sua incoronazione: «Beata gens, cui divina clementia tam pium et prudentem previdebat
rectorem. Felix populus cui sapiente et pio regitur principe; sicut in illo Platonico legitur
proverbio, dicentis «felicia esse regna, si philosophi», id est amatores sapientiae, regnarent
vel reges philosophiae studerent. Quia nihil sapientiae in hoc mundo conparari poterit». Per
la fortuna del proverbio, che arriva al medioevo soprattutto attraverso Boezio, vedi in particolare Pierre Courcelle, La Consolation de Philosophie dans la tradition littéraire. Antécédents
et posterité de Boèce, Paris: Études Augustiniennes, 1967, pagg. 60-66, che rileva appunto la
speciale fortuna carolingia del motivo, ripreso poi in epoche successive, e cita ancora Walafrido Strabone (829), Pascasio Radberto (circa nella stessa data); un anonimo che scrive per
Carlo il Calvo, ecc.
81. Vedi al proposito Michel-Pierre Edmond, Le philosophe-roi. Platon et la poltique,
Paris: Payot, 1991, passim (ma vedi pagg. 170 ss.); Gian Carlo Garfagnini, «Platone ‘teologo’
e politico: il sogno di uno stato ‘divino’», Rinascimento, II, 42 (2002), pagg. 3-30; Dominic
O’Meara, «Conceptions néoplatoniciennes du philosophe-roi», in Images de Platon et lectures
de ses œuvres. Les interprétations de Platon à travers les siècles, édité par Ada Neschke-Hentschke avec la collaboration de Alexandre Etienne, Louvain-la-Neuve & Louvain-Paris: Éditions
de l’Institut supérieur de Philosophie & Éditions Peeters, 1997, pagg. 35-50, che considera
in particolare la continuità dell’immagine del filosofo-re in Plotino, Giamblico, l’imperatore
Giuliano, Sinesio di Cirene, Ierocle.
64
ENRICO FENZI
almeno tre cose: prima di tutto, l’associazione del «proverbio» con la catena
della translatio che per via diretta, saltando ogni mediazione, ha portato
la filosofia da Atene alla corte di Carlo Magno; che aggiungano alla catena
già solidamente ancorata entro il mondo della sapienza antica l’anello costituito dall’immagine del re-filosofo; che tale anello consista, precisamente,
nella regalità della filosofia medesima, che è, si badi, proprio la filosofia
che arriva da Atene, la «ragione», com’è del resto evidente dalla traduzione
che della massima ha dato Agostino. Si tratta di un piccolo, forse minimo
percorso, che apre però uno spiraglio nell’attimo stesso in cui sembra messa
tra parentesi la lunga ostilità cristiana nei confronti della filosofia, vista, da
Tertulliano a Gregorio Magno, come la nemica dell’universo cristiano, incubatrice delle eresie e diretta responsabile della peste del sincretismo82, e in
cui si respira, di nuovo, la lontana premessa dell’orgoglio «filosofico» di
Abelardo. Quanto alla formula, sarà forse il caso di aggiungere ch’essa
tornerà ancora in Giovanni di Salisbury, il quale la appoggia a parallele
citazioni bibliche: «Socrates […] tunc demum res publicas fore beatas asseruit si eas philosophi regerent aut rectores earum studere sapientiae contigisse»), dopo aver definito i re ignoranti, con un’immagine famosa che sarà
ripresa da Petrarca, come «asini coronati»:
Princeps vero cotidie legit, et leget cunctis diebus vitae; quia qua die
non legerit legem, ei non dies vitae sed mortis est. Hoc utique sine difficultate illiteratus non faciet. Unde et in litteris quas regem Romanorum
ad francorum regem transmisisse recolo, quibus hortabatur ut liberos
suos liberalibus disciplinis institui procuraret, hoc inter cetera eleganter
adiecit quia rex illiteratus est quasi asinus coronatus83.
82. Rimando alle indicazioni di J. Fontaine, Isidore de Séville et la culture classique,
pagg. 594-596 (§ Isidore et la tradition chrétienne hostile à la philosophie). Vedi il giudizio
di Tertulliano sui filosofi citato sopra, da Contra Herm. 8, 3, PL 2, col. 204.
83. Policraticus IV 6, ed. Keats-Rohan, I, pagg. 253 e 251 = ed. Webb, I, pagg. 256 e
254. Di qui deriva il motivo Petrarca, scrivendo nel 1348 la Fam. VII 15, de principibus literatis, a Luchino Visconti: «unde illud regale dedecus videmus, plebem doctam regesque
asinos, coronatos licet; sic enim eos vocat romanis imperatoris epystola quedam ad Francorum
regem» (§ 12). Circa l’epistola, sembra l’abbia scritta l’imperatore Corrado III al re di Francia
Luigi VIII: vedi Giuseppe Rotondi, «Note alle Familiari del Petrarca», Rendiconti dell’Istituto
Lombardo di Scienze e Lettere, s. III, 76 (1942-1943), pagg. 114-132 (pagg. 123-124). Vedi
anche Vincenzo di Beauvais, De morali principis institutione, a cura di Schneider, XV pag.
80, r. 66, che più fedelmente deriva da Giovanni di Salisbury: «Hinc est quod in litteris quas
rex Romanorum misisse legitur ad regem Francorum, hortans eum ut liberos suos liberalibus disciplinis institui faceret, adiecit inter cetera: ‘Rex illiteratus est quasi asinus coronatus’» (ma si leggano per intero i capp. XV. Quod debet [il re] eciam esse sapiens in
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
65
Ripeto a questo punto che non è il caso di entrare nella polemica, che
ha inevitabilmente qualcosa di nominalistico, sul «rinascimento carolingio»84,
quand’è invece importante sottolineare l’essenziale. Nella coscienza dei
contemporanei e in quella dei primi osservatori l’impero carolingio ha
goduto di una rappresentazione ideologica fortissima che ne esaltava
soprattutto il carattere unitario, inteso quale somma non contraddittoria di
profonde e opposte tradizioni: era un impero che si aggiungeva quale
quinto alla serie dei regni del mondo non già nel segno del catastrofico
percorso della corruzione e della vanità di ogni «città» terrena, ma piuttosto
quale erede di quella stessa egemonia politica e culturale della quale l’impero romano era rimasto esempio insuperato. Nelle parole dei suoi
scrittori e poeti, insomma, cristianesimo e romanità riuscivano a comporsi
in un quadro che ricominciva a disporre i propri elementi attorno a un’identità culturale che era anche un dato storico, e che scopriva nella grammatica il linguaggio del potere, e la possibilità di formazione di un’élite
intellettuale. In termini forse grossolani ma efficaci, potremmo dire che il
potere riscatta il sapere, tutto il sapere se davvero è tale, come lo è quello
di Atene e dei filosofi antichi, e che il sapere riscatta e legittima il potere,
in una sorta di corto circuito che riconosce e si piega alla preminenza della
verità cristiana, ma nello stesso tempo, e sia pure per margini strettissimi,
ritaglia lo spazio della propria autonomia. E questo è precisamente lo spazio
nel quale la translatio riesce finalmente a trovare la dimensione sua propria.
Così, Carlo Magno è rex et sacerdos, ma è anche «filosofo» e quando in
Aquisgrana rinnova l’aurea Roma, e quando è oratore migliore di Catone
e poeta più dolce di Virgilio e più facondo di Omero, ecco che egli non
usa di queste immagini per qualificare la sua potenza dinanzi al trascendente modello della Chiesa ma piuttosto dinanzi alla storia degli uomini:
scripturis maximeque divinis, e XVI. Exemplar super hoc in regibus antiquis, pagg. 78-84,
che contengono una esaltazione della cultura e dell’amore per le lettere di Carlo Magno e della
dinastia capetingia). La fortuna del topos è confermata ancora nella seconda metà del XII
secolo da Elinardo di Froidmont (Courcelle non giunge sin lì), De bono regimine principis,
XV, PL 212, col. 736: «Plato enim, ut Boetius testis est, respublicas fore beatas dixit, si eas aut
sapientes regerent, aut earum rectores sapientiae studerent», e Walter, Prov. num. 26852.
84. Nel caso, rivendica però la doverosa legittimità del «nominalismo», avversando
quella definizione, Angelo Monteverdi, «Il problema del rinascimento carolingio», in I problemi della civiltà carolingia (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo,
I), Spoleto: presso la Sede dell’Istituto, 1954, pagg. 359-372: pagg. 366 ss. Per la discussione,
vedi ancora Hans Liebeschutz, «Thedulf of Orléans and the problem of the Carolingian
Renaissance», in Fritz Saxl, 1890-1948: a Volume of Memorial Essays from his Friends in
England, edited by Donald J. Gordon, London: Nelson & Sons, 1957, pagg. 77-92.
66
ENRICO FENZI
potremmo anche dire, più precisamente, dinanzi alla altrettanto trascendente idea di quella humanitas che ancora si specchiava e riconosceva
nella storia di Roma. Certo, il nodo sembra ancora insolubile, ma non è veramente così, perché è intanto chiaro che si comincia a concepire un processo
di translatio studii solo là dove una effettuale translatio imperii può promuoverlo e farlo proprio e piegarlo alle proprie totalizzanti esigenze di sovranità. Ed è proprio di qui, per come è stata partorita ed ha mosso i primi
incerti passi nell’àmbito dell’ideologia imperiale carolingia, che quella
translatio ha ricavato il tratto di fondo che ne ha fatto una delle funzioni
più rappresentative del potere politico e delle sue lotte, come i secoli
successivi inevitabilmente dimostrano.
4. PARIGI
CAPITALE DELLA «CLERGIE»
Dopo essersi affermato in ambito carolingio, il concetto di translatio
non sembra trovare sviluppi immediati, quasi abbia subìto la crisi stessa
della dinastia alla quale era stato legato. Ne deriva una sorta di cesura che
trovo non sia stata colta da chi si è occupato del problema: disinvoltamente, infatti, gli studiosi sono passati da quelle prime testimonianze alle
successive, del XII e XIII secolo e oltre, e di ciò offre esempio lo stesso
Gilson, nella sua veloce translatio da Aquisgrana a Parigi: «c’est donc que
la science grecque, transmise jadis par la Grèce à Rome, a désormais été
transmise par Rome à la France. À mesure que l’importance de Paris
augmente, c’est naturellement Paris qui prend la place d’Athènes»85. Ma
appunto, tra Aquisgrana e Parigi c’è un bel salto, e sembra proprio che il
disfacimento dell’impero carolingio e la mancanza di un centro politico
che si proponesse in maniera organica quella politica di reclutamento di
intelletti che aveva stupito e ammirato gli uomini dell’età di Carlo Magno,
abbia privato il concetto della sua operatività tanto descrittiva quanto ideale.
Così, mentre il fiume lento e potente della trasmissione del sapere antico
continua il suo corso, la nozione che lo nomina e gli dà senso e direzione
politica scompare, per riapparire, sì, a Parigi, nei primi decenni del secolo
dodicesimo, ma in una prospettiva sensibilmente mutata. In verità, si ha l’impressione che tutto ricominci daccapo, e che il discorso torni sostanzialmente
85. Vedi sopra, nota 60.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
67
ad assumere i toni dell’integralismo religioso, nella dimensione propriamente escatologica che aveva nel Libro di Daniele e in Gerolamo.
Intorno al terzo o quarto decennio del dodicesimo secolo Ugo di san
Vittore, stabilendo che «ordo esse non potest, ubi finis non est» invita a
uscire dal «diluvio» delle cose del mondo per recuperare in un’unica grandiosa visione d’insieme il destino dell’umanità nell’imminenza, ormai, della
sua fine:
Ordo autem loci, et ordo temporis fere omnia secundum rerum gestarum
seriem concurrere videntur, et ita per divinam providentiam videtur esse
dispositum, ut quae in principio temporum gerebantur in Oriente, quasi
in principio mundi gererentur, ac deinde ad finem profluente tempore
usque ad Occidentem rerum summa descenderet, ut ex ipso agnoscamus
appropinquare finem saeculi, quia rerum cursus jam attigit finem mundi.
Imo primus homo in Oriente, in hortis Eden jam conditus collocatur, ut
ab illo principio propago posteritatis in orbem proflueret. Item post diluvium principium regnorum et caput mundi in Assyriis et Chaldaeis, et
Medis in partibus Orientis fuit. Deinde ad Graecos venit, postremo circa
finem saeculi ad Romanos in Occidente, quasi in fine mundi habitantes,
potestas summa descendit. Atque ita serie rerum ab Oriente in Occidentem recta linea decurrente, ea, quae a dextris vel a sinistris, hoc est
ad aquilonem vel ad austrum gesta sunt, ita suis significationibus respondent, ut si quis diligentius consideraverit, per divinam Providentiam ita
disposita esse ambigere non possit86.
86. Ugo di san Vittore, De arca Noe morali, IV 9, PL 176, coll. 677-678. E ancora, De
vanitate mundi, II, in fine, PL 176, col. 720, con forte accentuazione del carattere discendente del movimento che sempre più allontana dall’originale perfezione edenica: «divina
providentia decursum rerum sic ordinavit, ut ea quae in principio saeculi facta sunt, in oriente
quasi in principio mundi fierent, tandemque decurrentibus temporibus ad finem saeculi
rerum summa ad occidentem descenderet, hoc est ad finem mundi; ideo primus homo postquam creatus est, positus est in paradiso, in plaga orientali, ut inde quasi a principio mundi
per omnes terras proflueret universa propago generis humani. Deinde caput regnorum
primum in oriente apud Assyrios fuit, novissimis autem temporibus saeculi ad Romanos in
occidente positos potestas summa descendit». Altrove, Excerptionum allegoricarum libri
XXIV, VIII 1, PL 177, col. 255, egli specifica, in altro contesto: «aedificavit Constantinus Byzantium maritimam urbem, vocavitque Constantinopolim de nomine suo; Urbem vero Romam
cum palatio suo, quod Lateranense dicitur, concessit apostolis Petro et Paulo, et sancto papae
Sylvestro, et Constantinopolim imperialem sedem constituit; dignitate tamen Romani imperatores appellati sunt successores usque ad tempus illud quo Romanorum imperium ad reges
Francorum translatum est. Postea enim ii, qui apud Constantinopolim imperabant, Graecorum potius imperatores sunt vocati». Queste parole sono letteralmente riprese più di due
secoli dopo da Dietrich von Niheim, Gesta Karoli Magni imperatoris, edited by ColbergLeuschner, MGH Staatsschriften des späteren Mittelalters, 1980, V, pag. 305.
68
ENRICO FENZI
Una simile visione non ha molto a che fare con la nostra translatio, e del
resto il tono violentemente apocalittico dell’intero passo va in tutt’altra direzione. Né sembra che egli sia sfiorato da possibili valenze moderne quando
nel Didascalicon, III 2, De auctoribus artium, fornisce un fitto e abbastanza
caotico elenco di «autori» grossamente distinti per materie all’interno del
quale spicca ripetutamente l’oriente e l’Egitto in particolare quale culla delle
arti e delle scienze: geometria, astrologia, astronomia, l’arte di filare il lino,
la coltivazione della vite, sino alla conclusione generale che riconosce due
translationes, dall’Egitto alla Grecia e dalla Grecia a Roma, la prima dovuta
a Platone e la seconda ai «traduttori» latini, quali Varrone e Cicerone:
Aegyptus mater est artium, inde in Graeciam, deinde in Italiam venerunt . In ea primum grammatica reperta est tempore Osiris mariti Isidis.
In ea quoque dialectica primum inventa est a Parmenide [...] Plato autem
post mortem Socratis magistri sui, amore sapientiae in Aegyptum migravit,
ibique perceptis liberalibus disciplinis Athenas rediit; et apud Academiam villam suam coadunatis discipulis philosopiae studiis operam dedit.
Hic primum logicam rationalem apud Graecos instituit, quam postea
Aristoteles discipulus ejus ampliavit, perfecit et in artem redegit. Marcus
Terentius Varro primus dialecticam de Graeco in Latinum transtulit. Postea
Cicero topica adjecit. Demosthenes Fabri filius, apud Graecos rhetorice
princeps creditur. Tisios apud Latinos. Corax apud Syracusas. Haec ab
Aristotele et Gorgia et Hermagora in Graeco scripta est, translata in
Latinum a Tullio, Quintiliano et Titiano87.
87. Didascalicon III 2, PL 176, coll. 765-767. Circa le translationes della geometria, vedi
già Hibernici Exulis Carmina, XX, De artibus liberalibus, 5, 12 (la geometria): «Cuius ab
Egypto prima processit origo, |finibus in cuius est celebrata nimis. |Attica quam multum
quondam doctrina secuta est, |inde Latinorum nec minus aucta modo» (ed. Pertz, MGH.
Poetae aevi carolini, I, pag. 409). A proposito del passo di Ugo, osserva Serge Lusignan,
Parler vulgairement. Les intellectuels et la langue française aux XIIIe et XIVe siècles, Paris:
Vrin, 1987, pagg. 159-160: «La translatio devient aussi une appropriation. Hugues de SaintVictor arrête cependant le déplacement culturel à Rome […] Il n’isole aucun lieu culturel spécifique en Europe de l’ouest ou en France, qui supposerait une nouvelle migration depuis Rome.
Hugues se manifeste ici comme un authentique clerc latin à qui la latinité suffit comme cadre
d’identité culturelle. Il se perçoit sans doute en continuité avec les auteurs latins de l’Antiquité
et du haut moyen âge». A Roma ferma anche la migrazione della Grammatica, partita dall’Egitto e passata per la Grecia, Thierry di Chartres, nel Prologus al suo Heptateucon: vedi per
ciò É. Jeauneau, Translatio studii, pagg. 14-16. Il Prologus è stato pubblicato due volte dallo
stesso Jeauneau, dal ms. di Chartres 497 fol. 2r, prima in «Le ‘Prologus in Heptatheucon’ de
Thierry de Chartres» (1954), poi in «Note sur l’Ecole de Chartres» (1964). I due studi sono ora
ristampati in «Lectio philosophorum». Recherches sur l’Ecole de Chartres, Amsterdam: Hakkert,
1973, rispettivamente pagg. 87-91 (il testo, pagg. 90-91), e pagg. 5-49 (il testo, pagg. 38-39).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
69
Se è dunque vero che Ottone di Frisinga, probabilmente allievo a Parigi
di Ugo di san Vittore, può averne tratto lo spunto per quella che è stata
definita come l’esposizione più compiuta della teoria della translatio
imperii e studii 88, occorre anche dire che egli comincia con l’escludere
quegli elementi di fatto –le traduzioni– che seppur brevemente Ugo di
san Vittore presentava circa il passaggio da Atene a Roma, e insieme si
stacca decisamente rispetto a quello che si cominciava a intravvedere
nell’esperienza carolingia, operando semmai una sorta di fagocitazione
delle vicende del sapere umano entro le coordinate di una visione di
tutt’altra natura. È vero che Ottone poco dopo la metà del secolo, nella
sua grande Chronica, sive historia de duobus civitatibus, che termina con
l’anno 1146, rilascia una rapida e però assai sintomatica dichiarazione che
riconosce i meriti culturali dell’impero carolingio, là dove scrive che «translato
ad Francos imperio cum imperiali gloria crescere simul cepissent et ingenia»,
ma non sta precisamente entro questa dimensione quanto diffusamente
scrive nel Prologo89:
Sed quid mirum, si convertibilis est humana potentia, cum labilis sit
etiam mortalium sapientia? In Egipto enim tantam fuisse sapientiam
legimus, ut secundum Platonem Grecorum philosophos pueros vocarent et inmaturos. Moyses quoque legislator, cum quo Deus tanquam
vicinus cum vicino loquebatur eumque divina sapientia replevit, erudiri
omni sapientia Egipti non erubuit [...] Hinc translatam esse scientiam ad
Grecos, deinde ad Romanos, postremo ad Gallos et Hyspanos diligens
inquisitor rerum inveniet. Et notandum quod omnis humana potentia
seu scientia ab oriente cepit et in occidente terminatur, ut per hoc rerum
volubilitas ac defectus ostendatur.
88. Così A. G. Jongkees, «Translatio Studii», pagg. 43-44 (vedi W. Goez, Translatio
imperii, pagg. 111-122).
89. Ed. Hofmeister, rispettivamente pag. 278, e pag. 8: VI 18, e Prol. Per un’idea d’insieme dell’opera e delle sue tesi, vedi G. W. Trompf, The Idea of historical Recurrence, pagg.
226-229, che rimanda alle più puntuali analisi di Amos Funkenstein, Heilsplan und natürliche Entwicklung: Formen der Gegenwartsbestimmung im Geschichtsdenken des hohen Mittelalters, München: Nymphenburger Verlagshandlung, 1965, pagg. 97-100. Vedi anche Mireille
Chazan, «La nécessité de l’Empire», Moyen Âge, 110, 3-4 (2004), pagg. 497-512, per collocare
tali tesi nell’ àmbito delle ultime teorie circa la necessità dell’Impero –un impero in ogni
caso soggetto alla Chiesa e ad essa funzionale– come quelle di Siegebert de Gembloux,
Robert d’Auxerre e Aubri-des-trois-Fontaines.
70
ENRICO FENZI
E avanti, nel Prologo al l. V, riprende questi concetti e li precisa ulteriormente, con un accenno anche al momentaneo «ritorno» ai greci, con l’impero romano d’oriente:
Et sicut supra dixi, omnis humana potentia vel sapientia ab oriente
ordiens in occidente terminari cepit. Et de potentia quidem humana,
qualiter a Babiloniis ad Medos et Persas ac inde ad Macedones et post
ad Romanos rursumque sub Romano nomine ad Grecos derivatum sit,
sat dictum arbitror. Qualiter vero inde ad Francos, qui occidentem inhabitant, translatum fuerit, in hoc opere dicendum restat. Sapientiam autem
primo in oriente, id est in Babylonia, inventam ac inde in Egyptum [...]
translatam fuisse Iosephus in primo Antiquitatum [I 16] libro ostendit [...]
Dehinc derivatam ad Grecos philosophorum tempore idem auctor innuit
[...] Deinde eam ad Romanos sub Scipionibus, Catone ac Tullio et
precipue circa cesarum tempora, poetarum grege diversa carmina concinente, ac post ad ultimum occidentem, id est ad Gallias et Hispanias,
nuperrime a diebus illustrium doctorum Berengari, Managaldi et Anshelmi
translatam apparet.
E infine riassume ancora il tutto nel l. VII:
Manent autem, sicut olim in Egypti, sic et nunc in Galliae Germaniaeque
partibus habundantius, ut in hoc haut mireris potentiae seu sapientiae
ab oriente ad occidentem translationem, cum de religione itidem factum
eniteat90.
Come si vede anche solo da questi «estratti», è vero che qui è precisamente questione della translatio congiunta del potere e del sapere, e questo
è pur sempre un dato finalmente acquisito, ma la cornice che la stringe è di
nuovo di tipo provvidenziale, non storico, e non ha nulla di quel senso
puntuale e vivo che caricava l’esperienza dello studio delle lettere classiche
con quella sorta di ottimismo «progressivo» che sembrava caratterizzare il
momento di Alcuino, celebrato dalle generazioni immediatamente successive.
90. Ed. Hofmeister, cit., rispettivamente pagg. 227 e 372. Nella prima delle due citazioni, gli autori che testimoniano la traslatio del sapere alla Gallia e alla Spagna sono Berengario di Tours (c. 1000-1088), noto soprattutto per le ripetute condanne subìte per aver negato
il dogma della transustanziazione; l’alsaziano Manegold di Lautenbach (c. 1040-1119), schierato nella lotta per le investiture dalla parte del papa e fautore di una posizione «contrattualista» nei confronti del potere politico (la sovranità è del popolo e demandata ai re a determinate
condizioni), e forse Anselmo di Laon (morto nell’1117), commentatore di testi sacri.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
71
Che la sapienza venga originariamente dall’Egitto è un topos radicatissimo,
e qui è normale e addirittura dovuto. Il fatto è, però, che esso torna a completare lo schema successivo dei quattro regni di Daniele insieme ai suoi aggiornamenti, e tale schema, con il suo peso, soffoca l’esile e orgogliosa traccia
della «filosofia» che da Atene arrivava per diritta via alle aule della scuola
palatina. L’ipoteca provvidenzale ed escatologica è troppo forte, insomma,
e troppo radicale il disinteresse per la dimensione costruttiva e civile della
«filosofia» antica per poter intravvedere qualcosa di proto- o paleo-umanistico
in una translatio studii così biblicamente connotata e precipitante, con qualche
incongruità, nei nomi di Berengario, Manegold e Anselmo91.
Ma la storia corre ora veloce e sfalda in ambiti diversi l’universalismo
escatologico, e quell’idea di una provvidenza che costringe la potestas
mondana ad inseguire da oriente a occidente il percorso del sole, dal suo
sorgere al suo cadere, verso i confini –e la fine– del mondo, germoglia
presto in direzioni affatto nuove. Così, alla fine del XII secolo troviamo
Goffredo da Viterbo che, sulla traccia di Ottone, scrive che
Abraham artibus et scientia Caldeorum imbutus, non solum suos, set
etiam Egyptios, cum in Egypto peregrinabatur, legitur omnes artes
docuisse. Unde prima sapientia ab Egyptiis ad Grecos, a Grecis ad
Romanos, a Romanis ad Gallos et Yspanos legitur transmeasse.
Ma nello stesso tempo torna ad esaltare Carlo Magno quale «restauratore» di Roma:
Karolus imperii suscepit in Urbe coronam,
cuius et auxilio reparat sua tempora Roma,
sicut et in titulis pagina nostra sonat,
e a più riprese proclama che in lui sono tornati a riunirsi i due grandi rami
nei quali s’era divisa la stirpe dei troiani: per parte del padre Pipino quello
occidentale e teutonico che discende da Priamo il giovane, nipote di Ettore,
e per parte della madre Berta quello romano:
In duo dividimus Troiano semine prolem:
una per Ytaliam sumpsit dyademata Rome,
91. Già É. Jeauneau, del resto, annotava brevemente che «For Otto of Freising […] the
translatio studii develops in the linear time of the Judaeo-Christian tradition» (Translatio
studii, pag. 22).
72
ENRICO FENZI
altera Theutonica regna beata fovet.
Karolus in Berte Pipini semine ventre
hec duo continuat, conceptus utroque parente,
Romuleus matre, Theutonicusque patre92.
Ecco qui, dunque, almeno uno degli elementi che sopraggiungono ad
animare ma insieme complicano notevolmente ogni discorso di translatio,
e cioè il suo tendenziale intrecciarsi ai «miti di fondazione» che cercano
nella diaspora troiana le origini dei regni di Francia e d’Inghilterra e in
questa chiave ripercorrono il peraltro mai smesso culto di Carlo Magno.
Un altro elemento sarà invece quello che s’innerva in modi altamente
complessi nei miti della «materia di Bretagna» (nel Roman de l’Estoire dou
Graal di Robert de Boron, per esempio, sarà Cristo stesso ad ordinare che
il Graal sia portato da oriente verso occidente)93. Non è tuttavia di questo
92. Goffredo da Viterbo, Pantheon, ed. Pertz, MGH SS XXII, 1872, pag. 95: Memoria
Seculorum; pag. 93: Speculum regum II 1450-1452 (ma gli stessi versi tornano a pag. 219:
Particula XXIII 11-13); Speculum regum I 684-690.
93. Non oso andare oltre l’accenno a temi che pure costituiscono lo sfondo ideologico sul quale s’accampa il più ristretto motivo di una translatio eminentemente culturale e
letteraria. Anche la bibliografia relativa, del resto, è smisurata. Qui, mi è stato utile il denso
volume di Dominique Boutet, Charlemagne et Arthur ou le roi imaginaire, Paris: Champion,
1992, passim (ma vedi in particolare il par. «Translatio imperii et transfert du Graal», pagg.
440-450). Ma si vedano almeno gli importanti lavori di Colette Beaune, Naissance de la
nation France, Paris: Gallimard, 1985, passim, ma anche, «L’utilisation politique du mythe
des origines troyennes en France à la fin du Moyen Âge», in Lectures médiévales de Virgile.
Actes du Colloque organisé par l’École française de Rome (Rome, 25-28 octobre 1982), Rome:
École française de Rome, 1985, pagg. 331-355; Andrea Giardina, «Le origini troiane dall’impero alla nazione», in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto
medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, XLV), Spoleto:
Presso la Sede del Centro, 1998, I, pagg. 177-209; Mireille Chazan, Empire et histoire universelle de Sigebert de Gembloux à Jean de Saint Victor (XIIe-XIVe siècle), Paris: Champion, 1999
(ma anche La nécessité de l’Empire: vedi nota 90). Per i Bretoni e l’Inghilterra in particolare,
vedi Edmond Faral, La légende arthurienne, Paris: Champion, 1929, passim; Laurence MatheyMaille, «Mythe troyen et histoire romaine: de Geoffrey de Monmouth au Brut de Wace», in
Entre fiction et histoire: Troie et Rome au Moyen Âge, a cura di Emmanuèle Baumgartner &
Laurence Harf-Lancner, Paris: Presses de la Sorbonne Nouvelle, 1997, pagg. 113-125, mentre
un diffuso e chiaro racconto della leggenda di Bruto, il primo mitico re d’Inghilterra figlio
di Silvio figlio di Enea e Lavinia, e un attento confronto delle fonti è nel volume di Cruz
Montero Garrido, La historia, creación literaria. El ejemplo del Cuatrocientos, Madrid: Fundación Ramón Menéndez Pidal & Universidad Autónoma de Madrid, 1994, pagg. 206-253. Ma
si vedano ancora le fitte precisazioni che sono negli Études sur l’ «Historia Brittonum» attribuée á Nennius, di Ferdinand Lot ora in Recueil des travaux historiques de F. L., Genève &
Paris: Droz & Minard, 1968, I, pagg. 691-730 (si tratta della ristampa di comptes rendus
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che posso parlare, per quanto siano molte e importanti le articolazioni con
la nostra translatio, la quale invece proprio ora, tra dodicesimo e tredicesimo secolo, sembra rinnovarsi e, soprattutto, specializzarsi. Quasi il suo
discorso fosse stato rilanciato dalla ripresa che Ugo da san Vittore e Ottone
da Frisinga ne avevano fatto, essa tocca l’approdo che, nell’opinione degli
studiosi che se ne sono sin qui occupati, più a lungo e con più forza
la caratterizzerà come tale: voglio dire ch’essa ora diventa il blasone della
superiorità francese e s’innerva, in particolare, nel nascente mito di Parigi,
città unica in Europa sia per grandezza, ricchezza e intensità di vita e traffici, sia quale caput studiorum.
Il testo più antico in questo senso (1162-1170), resta sin qui il famoso
e citatissimo prologo di Chrétien de Troyes al Cligès:
Ce nos ont nostre livre apris
qu’an Grece ot de chevalerie
le premier los et de clergie.
Puis vint chevalerie a Rome
et de la clergie la some,
qui or est an France venue.
Dex doint qu’ele i soit maintenue
et que li leus li abelisse
tant que ja mes de France n’isse
l’enors qui s’i est arestee94.
Chevalerie e clergie: intanto non è più questione di imperium, indiscutibilmente in mani tedesche, ma semmai delle virtù o qualità che dovrebbero
apparsi in Le Moyen Âge, 7, 8 e 9 (1894-1895-1896), pagg. 1-5 e 26-32; pagg. 177-184; pagg.
1-13 e 25-32). L’Historia Brittonum è stata pubblicata dal medesimo Lot in Nennius et l’Historia Brittonum, Paris: Champion, 1934. Circa il Graal, una fitta trama di translationes
(imperii, studii, religionis, gratiae) trova una chiara esposizione in Catalina Girbea, «La chevalerie et la ‘translatio’ dans quelques romans arthuriens: les métamorphoses d’un mythe», in
Métamorphoses. Actes [...] 25 aout-1 sept. 2002, Paris, Publ. de l’Association des Médiévistes
Anglicistes de l’Enseignement Supérieur, 2003, pagg. 121-151, [in rete:] www.unibuc.ro/
eBooks/filologie/CatalinaGirbea-articole/Translatio.htm [pagina consultata in data 30-VI2007]). Qui la studiosa formula l’ipotesi che sia stata la corte dei Plantageneti, tagliata fuori
dalla translatio imperii (Germania), dalla translatio studii (Francia), dalla translatio religionis
(Santa Sede), a tentare di impadronirsi della leggenda arturiana e a farne un vettore di propaganda, come del resto risulta anche dal mito delle origini troiane in Geoffrey de Monmouth
e Wace. Ma vedi anche avanti, nota 101, l’accenno al vaticinium Merlini.
94. Chrétien de Troyes, Cligés, édité par A. Micha, Paris: Champion (CFMA 84), 1957,
pag. 2, vv. 28-37.
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ENRICO FENZI
comunque sostanziare il potere e che ormai sono appannaggio dei francesi. Lo spostamento indubbiamente particolarizza il discorso generale e gli
imprime una direzione diversa, e se è vero che gli schemi di fondo rimangono quelli tipici della tradizione95, è anche vero che si dispongono ad
assumere pieghe più fattuali e storiche. In fin dei conti, qui si esalta un
fenomeno vero e concreto: il primato culturale sul quale la Francia s’avvia
a costruire tanta parte della sua immagine, e dunque questi versi hanno di
per sé un notevole significato perché, anche se Chrétien non ne ha affatto
l’intenzione, lasciano sullo sfondo ingombranti visioni di tipo escatologico,
e puntano semplicemente il dito sulla cosa. La qual cosa è appunto un
primato essenzialmente culturale, perché anche la concezione della chevalerie, ovviamente, è un fenomeno culturale. Potremmo dire, insomma, che
finché la translatio studii è rimasta strettamente vincolata alla translatio
imperii –alla successione dei regni–, correva pur sempre il rischio di trovarsi
chiusa in una dimensione provvidenziale e trascendente governata in ultima
analisi dalla Bibbia, mentre qui definisce i suoi contenuti in modo tale da
cominciare, almeno, a metterli in mani umane. E se Chrétien non ne era
del tutto consapevole, ebbene, non ha importanza. Anche perché possiamo
constatare il naturale prolungamento delle sue parole in quelle, più tarde
di circa sessant’anni, dell’Image du monde di Goussin de Metz. Afferma
infatti Goussin che
Clergie regne ore a Paris,
ausi comme ele fist jadis
95. Il discorso più chiaro, con il quale mi pare si debba essere senz’altro d’accordo,
l’ha fatto William A. Nitze, «The so-called Twelfth Century Renaissance», Speculum, 23
(1948), pagg. 464-471: pag. 467: «Obviously, the twelfth century poet is proud of the
cultural supremacy of his country. He glories in the fact that culture –that is, chivalry and
learning– is domiciled in France […] I can discover in Chrétien words no idea of a rebirth
of Antiquity an Frech soil, a humanitas or paideia such as we associate with the Italian
Renaissance. Chrétien is extolling no paganization of culture, no «attainment of selfconscious freedom» apart from theological considerations which the real Renaissance
attempted. Of that Chrétien, like the rest of his contemporaries, knew nothing; and had
he know, Augustinian that he was, he would have rejected it». Contemporaneamente, scriveva le stesse cose Curtius: «Gilson ha creduto di cogliere in questi versi un’espressione
dell’ «umanesimo medievale»; ma evidentemente egli non ha tenuto conto di ciò che segue:
‘L’enors qui s’i est arestee, | Deus l’avoit as autres prestee: | car de Grejois ne de Romains
| ne dit an mes ne plus ne mains; | d’aus est la parole remese | et estainte la vive brese’
[...] Qui è espresso proprio il contrario di una concezione umanistica», ecc. (Letteratura
europea, pagg. 426-427).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
75
a Athenes qui siet en Grece,
une cité de grant noblece96.
Ma non si limita a ciò, e sviluppa invece un discorso ove di nuovo
accoppia chevalerie e clergie e fa del sapere un attributo del potere, avvicinandosi anch’egli al tema del «re filosofo» e dunque a uno dei contenuti
tipici della tradizione degli specula pricipum, e indirizzando le sue raccomandazioni al re di Francia:
Mès puis qu’ensi est que clergie
est en France plus avancie
[…]
Ausi doit li rois miex valoir
des autres genz et plus savoir
[…]
Si seroit bien droiz et resons
qu’il meïssent lor enfançons
en aprendre tele clergie
qu’il ne perdissent seignourie
après ceste vie volage,
car par nature et par lignage
doivent il tuit amer clergie.
Se non lo facessero, il regno ne sarebbe rovinato perché, a conferma
del suo carattere fortissimamente ideologico e «qualitativo», chevalerie è
talmente intrecciata a clergie da non poterla mai abbandonare:
Si clergie s’en aloit
chevalerie la suirroit97.
96. Goussin de Metz, Image du monde, in L’image du monde, une encyclopédie du
XIIIe siècle. Édition critique et commentaire de la première version, édité par C. ConnochieBourgne, Paris IV: Thèse 1999, vv. 943-946. Non avendo visto la thèse, cito questi versi da
Jean-Marie Fritz, «Translatio studii et déluge: la légende des colonnes de marbre et de brique»,
Cahiers de civilisation médiévale, 47 (2004), pagg. 127-151: pag. 143. Per il poema di Goussin
e le sue due versioni, vedi ora Sara Gentili, «La seconda redazione in versi dell’Image du
monde: una riscrittura didattica», Cultura neolatina, 66 (2006), pagg. 161-206, con la bibliografia pregressa.
97. Cito questi altri versi da Charles-Victor Langlois, «L’Image du Monde» (ma il poema
è dato ancora per anonimo), in La vie en France au Moyen Âge du XIIe au milieu du XIVe
siècle. La connaissance de la Nature et du Monde d’après des écrits français à l’usage des
laïcs, Paris: Champion, 1926-1928 [Genève, Slatkine Reprints, 1970], III pagg. 159-160.
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ENRICO FENZI
Voglio intromettere sùbito una mia impressione. In questo passaggio
diretto da Atene a Parigi, trascurando la completezza dello schema, la translatio sembra assumere tratti più concreti, quasi se ne sottolineasse implicitamente il carattere culturale e laico: come facevano, abbiamo visto, prima
Alcuino e poi Héric d’Auxerre, che già si auguravano, come Goussin, di
avere dei re «filosofi». In queste due testimonianze il tendenziale svincolamento della translatio dai suoi riferimenti universalistici è in ogni caso
evidente, ed è all’interno di una considerazione empirica, basata sulla realtà,
che matura un discorso di tipo pedagogico che non guarda ai grandi cicli che
passano troppo alti sulla testa degli uomini e si fanno percepibili solo a
distanza, a cose fatte, ma piuttosto proietta la possibilità della translatio
nel presente e comincia a concepirla come un programma: che i re siano
sapienti ed educhino i loro figli al sapere, altrimenti perderanno tutto... Ma
non, ripeto, i re in generale: questi re qui, invece, i re di Francia che già
godono lo straordinario, unico privilegio di avere, dietro di sé, un modello
come quello di Carlo Magno. Tra Chrétien e Goussin sta infatti Giraud de
Barri che verso il 1217 dedica una sua Principis instructio al futuro Luigi
VIII nella quale già chevalerie e clergie/philosophia e militia, vanno insieme
nel definire i fondamenti dell’educazione del principe, alla luce dell’esempio già fornito da quei grandi: «Philosophiae militiaeque se comitari
semper studia solent [...] sicut et olim in Francia sub Pipinis, Carolis et sub
eorumdem usque in hodiernum regia prole»98. Carlo Magno resta, insomma,
il vettore esplicito o implicito di quasi ogni discorso che associ regalità e
sapere, nel quadro per altro assai delicato, come hanno mostrato gli studi
di Elizabeth Brown, del reditus regni francorum ad stirpem Caroli imperatoris: un reditus che avrebbe dovuto saldare la frattura tra carolingi e
capetingi conferendo a questi ultimi piena legittimità99. In ogni caso, di là
98. Giraldus Cambrensis, De principis instructione liber, in Opera, edited by Warner,
Rerum Brit. Medii Ævi Scriptores- Rolls Series XXI, London: Longman, 1891, VIII, pagg. 6 ss.
(vedi, per il giglio, pagg. 320-321).
99. Degli studi di Elizabeth A. R. Brown sull’argomento, si veda in particolare «La notion
de la légitimité et la prophétie à la cour de Philippe Auguste», in La France de Philippe
Auguste. Le temps des mutations. Actes […] 29 sept.-4 octobre 1980, dir. Robert-Henri Bautier,
Paris: Centre Nat. de la Recherche Scientifique, 1982, pagg. 77-110, con tavole genealogiche
e appendice di testi inediti; ead., «Vincent de Beauvais and the ‘reditus regni francorum ad
stirpem Caroli imperatoris’», in Vincent de Beauvais: intentions et réceptions d’une œuvre
encyclopédique au moyen âge. Actes [...] 27-30 avril 1988, dir. Monique Paulmier-Foucart,
Serge Lusignan & Alain Nadeau, Saint Laurent & Paris: Maison Bellarmin & Vrin, 1990, pagg.
167-196, con appendice di testi inediti. La Brown mostra bene le origini e lo sviluppo della
teoria di un siffatto reditus, che avrebbe conferito legittimità dinastica ai capetingi solo
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
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dalle questioni strettamente genealogiche e dinastiche, la proiezione della
figura di Filippo Augusto su Carlo Magno è affatto naturale, ed è tratto
costante dei suoi primi biografi e apologeti, Rigord, Guillaume le Breton,
Gilles de Paris, quello di paragonarlo al grande predecessore e di invitarlo
a ripeterne le gesta100. E in maniera altrettanto naturale anche l’idea della
translatio finisce per riproporsi proprio nell’associazione con Carlo Magno,
com’è in Vincenzo di Beauvais, che in un capitolo anch’esso più volte
citato del suo Speculum historiale scrive, a proposito dell’abbazia di san
Martino di Tours:
Hoc itaque monasterium post hoc, ut dictum est, donante Carolo suscepit
regendum Alcuinus, scientia vitaque preclarus, qui sapientie studium de
Roma Parisios transtulit, quod illuc quondam a Grecia translatum fuerat
a romanis. Fueruntque Parisiis fundatores huius studii quatuor monachi,
Bede discipuli Rabanus et Alcuinus, Claudius et Ioannes Scotus101.
attraverso il matrimonio di Filippo Augusto con Isabella figlia di Balduino V di Hainaut che
vantava sangue carolingio discendendo da Ermengarda, figlia di Carlo di Lorena, fratello di
re Lotario, al quale, dopo la sospetta morte del figlio di quest’ultimo, Luigi V, re per soli
quattordici mesi, Ugo Capeto avrebbe usurpato il trono nel 987 (e in piena riscossa carolingia fu poi eliminato, in seguito al tradimento di Adalberone di Laon). Ciò spiega come i
re capetingi non gradissero troppo una tale legittimazione, che valeva in quanto li trasformava in «carolingi», e in ispecie Filippo il Bello le si mostrò avverso, e procurò di cancellarne le tracce.
100. Vedi E. Brown, La notion de légitimité, pagg. 81-82 e note, e soprattutto le minuziose
schedature di Raymond Foreville, «L’image de Philippe Auguste dans les sources contemporaines», e di Yves Lefèvre, «L’image du roi chez les poètes», nel citato volume La France de
Philippe Auguste, rispettivamente pagg. 115-130, e pagg. 133-144, donde si trarranno molte
altre preziose indicazioni. Per le edizioni, vedi Œuvres de Rigord et de Guillaume Le Breton,
historiens de Philippe Auguste [...] a cura di Delaborde, Paris: Renouard, 1882-1885 (ma precedentemente anche nel Recueil des historiens de la Gaule, Paris: Palmé, 1878, vol. XVII);
Marvin L. Colker, «The Karolinus of Egidius Parisiensis», Traditio, 29 (1973), pagg. 199-325.
101. Vincenzo di Beauvais, Speculum historiale XXIII 173, Douai: Baldassarre Belleri, 1624
(rist. anastatica, Graz: Akademische Druk-u. Verlagsanstalt, 1964). Ma più o meno in quegli
anni dice le stesse cose anche Jean de Galles nel suo Compendiloquium, pars X cap. 6: De
translatione studii usque Parisium et quo tempore et a quibus translatum sit. Il tempo è
quello, appunto, di Carlo Magno, e gli attori della translatio approdata, dopo la Grecia e Roma,
a Parigi (onde «Franci equati sunt Romanis et Atheniensibus») sono nell’ordine Rabano Mauro,
Alcuino, Claudio di Torino, Giovanni Scoto, ai quali va aggiunto Beda. Il capitolo di Jean
de Galles sta nella parte conclusiva dell’opera, a segnalare, dopo la fitta rassegna di filosofi
antichi, dove abiti al presente il sapere: il successivo capitolo 7 si sofferma sul nome di Parigi;
l’8 s’intitola De ydoneitate illius civitatis et loci ad opus studentium, e il 9 accenna al vaticinium Merlini letteralmente ed esplicitamente ripreso dal De naturis rerum di Alessandro
Neckam, edited by Wright (l’edizione comprende anche il De laudibus divinae sapientiae: vedi
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ENRICO FENZI
La fonte lontana, come si vede, è sempre nei Gesta Karoli di Notker,
anche se ora è meglio precisata l’identità dei quattro studiosi, Rabano
Mauro, Alcuino, Claudio di Torino e Giovanni Scoto. E Notker ancora è
tradotto nelle Grandes croniques de France con alcuni significativi aggiornamenti (in Notker tutto ciò avveniva «sancti Martini iuxta Turonicam
civitatem»):
Quant Albins, par sornom Alcuins, qui Anglois estoit et demeroit encores
en son païs, oï dire que li empereures recevoit ensi les religieus et les
sages hommes qui a li venoient, il quist une nef et passa en France et
à l’empereur vint et mena aucuns compagnons avec lui [...] Tant multiplia et fructifia sa doctrine à Paris que, Dieu merci! la fontaine de doctrine
et de sapience est a Paris aussi come elle fu jadis a Athenes et à Rome102.
Ma a questa altezza, da Vincenzo di Beauvais in avanti, il discorso si
allarga ancora, perché diventa difficile isolare il tema specifico della
translatio dall’insieme delle testimonianze che elaborano il grande mito
dell’eccellenza francese. Ma ciò avviene, è opportuno ricordarlo, nel quadro
della straordinaria promozione della natura divina della monarchia orchestrata
da Luigi IX103 e della mobilitazione intellettuale a difesa di un regno che da
avanti, nota 115), London: Longman, 1863, cap. 174, De locis in quibus artes floruerunt liberales, pagg. 308-311. Secondo tale «vaticinio» al tempo di Merlino la sapienza sarebbe passata
in Inghilterra, a Oxford; ma ecco l’intero interessante passo di Alessandro, citato cent’anni
dopo da Jean de Galles solo nelle sue ultime righe: «Quid de Salerno et Montepessulano
loquar, in quibus diligens medicorum solertia utilitati publicae deserviens, toti mundo remedium contra corporum incommoditates contulit? Civilis juris peritiam vendicat sibi Italia; sed
coelestis scriptura et liberales artes civitatem Parisiensem caeteris praeferendam esse convincunt. Iuxta vaticinium etiam Merlini viguit ad Vada Boum [Oxford, già Oksnaford, ‘ford of
oxen’] sapientia tempore suo ad Hiberniae partes transitura» (pag. 311). Cito il Compendiloquium dall’incunabolo di Venezia, Giorgio Arrivabene, 1496, cc. 231rv-232r, che comprende
anche il Communiloquium, il Breviloquium e il De vita religiosa del medesimo Jean, sul
quale vedi l’ampio capitolo di Barthélemy Hauréau nella Histoire littéraire de la France,
Paris: Académie des Inscriptions et Belles Lettres, 1869, pagg. 177-200 [rist. anastatica,
Nendeln/Liechtenstein: Kraus Reprint, 1971].
102. Les Grandes Chroniques de France, a cura di Viard, Paris: Champion, 1923, III,
pagg. 157-158. Questo passo è già in E. Gilson, Les idées et les lettres, pag. 185.
103. Obbligato il rinvio al libro di Jacques Le Goff, Saint Louis, Paris: Gallimard, 1996
(specie la seconda e terza parte). Circa il carattere divino della monarchia di Francia, è assai
interessante lo studio di Chiara Mercuri, «Stat inter spinas lilium: le Lys de France et la
couronne d’épines», Le Moyen Âge, 110, 3-4 (2004), pagg. 497-512, che considera la ricaduta
propagandistica e ideologica dell’acquisto da parte di Luigi IX della reliquia della corona di
spine di Gesù (Balduino di Fiandra, imperatore di Costantinopoli, aveva bisogno di denaro,
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
79
tempo aveva ormai rivendicato la propria assoluta indipendenza dall’impero e però stava tuttavia elaborando le armi giuridiche per confermarla
definitivamente, e che si stava inoltre preparando ad affrontare il duro
scontro con il papa in materia di autonomia e pienezza dei propri poteri104.
Al possibile ventaglio di altre testimonianze, in ogni caso disponibili negli
eccellenti studi dedicati all’argomento, è semmai preferibile sottolineare, a
questo punto, un elemento la cui centralità è stata messa in luce da Serge
Lusignan105. Quando, nel XIII secolo e oltre, si celebra la supremazia che
fa di Parigi l’Atene dei tempi moderni, non ci si riferisce a una generica e
per la verità taciuta produzione artistica e letteraria (nulla ci permette di
e l’avrebbe in ogni caso venduta ai Veneziani). Come scrive la Mercuri, «Ce fut l’extraordinaire coup de maître de Louis IX: il ne fit pas que découvrir une relique, il exploita plutôt
ses valeurs symboliques, en profitant de la correspondance parfaite entre sa propre identité
de roi et le caractère royal de la relique. Cette coïncidence exceptionelle fit que l’opération de
Louis IX, d’un point de vue symbolique, est sans précédent»: Cristo e Luigi IX partecipano
della medesima dignità reale, e la regia parisiensis diventa il Sancta Sanctorum del reame
nel quale è custodita la corona. E quando alla fine dei tempi, come dice la Bibbia, Cristo
riprenderà la sua corona, lo farà venendo a Parigi.
104. Altro fascio di temi al quale ora è strettamente connesso quello della translatio, per
il quale mi permetto di rinviare alla bibliografia segnalata e in parte discussa in Enrico Fenzi,
«Tra religione e politica: Dante, il mal di Francia e le sacrate ossa dell’esecrato san Luigi (con
un excursus su alcuni passi del Monarchia)», Studi danteschi, 69 (2004), pagg. 23-117 (85 ss).
105. Serge Lusignan, «L’Université de Paris comme composante de l’identité du Royame
de France: étude sur le thème de la ‘translatio studii’», in Identité régionale et conscience
nationale en France et en Allemagne du Moyen Âge à l’époque moderne. Actes […] 6-7 et 8
octobre 1993, édité par Rainer Babel & Jean-Marie Moeglin, Sigmaringen: Jan Thorbecke
Verlag, 1997, pagg. 59-72. Ma si dica che in forma essenziale tutto ciò era già nel saggio
fondamentale di Francisco Rico, che occorrerà citare ancora, «Aristoteles Hispanu’», in Texto
y contextos. Estudios sobre la poesía española del siglo XV, Barcelona: Editorial Crítica, 1990,
pagg. 55-94 (57-59): si tratta della ristampa riveduta e ampliata di «Aristoteles Hispanus en
torno a Gil de Zamora, Petrarca y Juan de Mena», Italia medioevale e umanistica, 10 (1967),
pagg. 143-164. Dello stesso Lusignan vedi ancora «La topique de la ‘translatio studii’ et les
traductions françaises de textes savants au XIVe siècle», in Traductions et traducteurs au
Moyen Âge. Actes [...] 26-28 mai 1986, édité par Geneviève Contamine, Paris: Éditions du
Centre Nat. de la Recherche Scientifique, 1989, pagg. 303-315. È dagli studi di Lusignan che
si ricavano molte altre importanti testimonianze sull’esaltazione della translatio in terra di
Francia: Alessandro Neckam, Jean Corbechon, Tommaso d’Irlanda (un suo testo al proposito, dato come inedito dal ms. di Parigi, Bibl. Nat. 15966, fol. 7rv, è pubblicato in appendice a L’Université de Paris comme composante de l’identité du royame, pagg. 71-72: ma
vedi già Marie-Dominique Chenu, Introduction à l’étude de Saint Thomas d’Aquin, Montréal
& Paris: Inst. d’Études Médiévales & Vrin, 1954, pag. 22 e nota, e soprattutto É. Jeauneau,
Translatio studii, pagg. 51-54, che già l’aveva pubblicato dall’altro ms. parigino, Bibl. Nat.
16397, fol. 12v), e soprattutto Nicole Oresme (siamo alla fine del ‘300), la cui posizione ricca
e complessa è illustrata da Lusignan in Parler vulgairement, in part. pagg. 162 ss.
80
ENRICO FENZI
piegare in questo senso l’idea di translatio) ma piuttosto, in maniera specifica, all’Università, sullo sfondo di una città che lasciava a bocca aperta i
visitatori per la qualità della vita e per le sue molteplici attrattive. In un
modo o nell’altro la celebrazione della clergie tocca sempre questo ch’è il
suo cuore pulsante, il cui ruolo è sentito come fondamentale entro la
struttura medesima del regno.
Ricordo brevemente. Per quanto rimangano varie incertezze, si sa che,
dopo una lunga fase informale, l’Università di Parigi cominciò a svilupparsi e
ad organizzarsi durante il regno di Filippo Augusto che in un famoso documento del 1200 assicurò la speciale protezione della giustizia reale verso
gli scolares Parisienses. Nel 1219 i loro privilegi furono confermati e allargati, sì che «à la mort de Philippe Auguste, l’université de Paris était incontestablement parfaitement constituée, sa personnalité morale et juridique
bien établie, ses privilèges fondamentaux acquis, ses premiers statuts
rédigés»106. La crescita fu rapida e spettacolare, ed ebbe il suo momento decisivo tra il 1220 e il 1230, gli anni delle grandi bolle papali (la Parens scientiarum di Gregorio IX, nella quale Parigi è appunto la splendente città
delle lettere e la madre delle scienze, è dell’aprile 1231)107 e di maestri
come Guglielmo d’Auxerre, Guglielmo d’Auvergne, Alessandro di Halès,
Alberto Magno, che ne fecero, insieme a Oxford, la roccaforte dell’aristotelismo (san Bonaventura insegnò a Parigi dal 1253 al 1257, e san Tommaso
dal 1252 al 1259 e dal 1268 al 1272). Allora, Guillaume le Breton poteva
106. Così Jacques Verger, sul quale soprattutto mi baso, «Des écoles a l’Université: la
mutation institutionnelle», in La France de Philippe Auguste, pagg. 817-845 (830). Oltre a
questo fondamentale saggio si veda, tra i vari contributi dello stesso Verger, lo studio d’insieme Les universités au Moyen Âge (1973), Paris: PUF, 1999. Ma, tra la folta bibliografia,
vedi ancora Hastings Rashdall, The Universities of Europe in the Middle Ages, a cura di F. M.
Powicke & A. B. Emden. Oxford: Clarendon Press, 1987 (prima ed., 1936): qui, sull’Università di Parigi, I, cap. 5, pagg. 269-584 (in part. pagg. 540 ss., per il suo prestigio e la sua
influenza); A. G. Traver, «Rewriting History? The Parisian Secular Masters’ ‘Apologia’ of 1254»,
History of Universities, 15 (1997-1999), pagg. 9-45 (con vasta bibliografia); Universities and
Schooling in Medieval Society, edited by William J. Courtenay & Jürgen Miethke, with the assistance of David B. Priest, Leiden: Brill, 2000; Christoph Friedrich Weber, «‘Ces grands privilèges’:
The Symbolic Use of Written Documents in the Foundation and Institutionalization Processes
of Medieval Universities», History of Universities, 19 (2004), pagg. 12-62 (16-23).
107. Vedi il Cartularium Universitatis Parisiensis, a cura di Denifle-Châtelain, 1889, I,
pagg. 138-139, num. 79. Su una successiva lettera di Gregorio IX, la Animarum lucra
querentes, del gennaio 1237, seppure dall’angolazione particolare del ruolo dei Vittorini
nell’origine dell’Università, vedi Marshall E. Crossnoe, «Education and the Care of Souls:
pope Gregory IX, the Order of St. Victor, and the University of Paris», Mediaeval Studies, 61
(1999), pagg. 137-172.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
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scrivere che sia l’Egitto, nel quale era nata ogni scienza, che Atene erano
state ormai superate da Parigi, e dava quindi per compiuta sotto ogni
aspetto la translatio del sapere:
In diebus illis studium litterarum florebat Parisius, nec legimus
tantum aliquando fuisse scholarium frequentiam Athenis vel Egypti,
vel in qualibet parte mundi quanta locum predictum studendi gratia
incolebat108,
mentre più tardi, esaltando il ruolo di Luigi IX nel comporre il grave
scontro che aveva opposto, nel 1230, i chierici dell’Università e le autorità
di Parigi (lo stesso che diede origine alla Parens scientiarum), Guillaume de
Nangis riassumeva in un bel passo del suo Chronicon il valore fondante
dell’istituzione attraverso l’immagine del giglio, simbolo, a partire da un’ordinanza del 1147 di Luigi VII, della monarchia capetingia. Nel fiore, il petalo
più alto, al centro, rappresenta la fede, e i due laterali che lo custodiscono
e lo difendono rappresentano la sapienza e la cavalleria, entrambi indispensabili a mantenere la Francia pacifica, forte e ordinata: se uno dei due
venisse tolto o deformato, la Francia intera ne patirebbe una ferita irreparabile, perché ne sarebbe alterato quel mirabile equilibrio che Dio stesso
ha voluto per manifestare a tutto il mondo l’eccellenza della nazione109.
108. Œuvres de Rigord et Guillaume Le Breton, pag. 230 (citato da Verger, Des écoles à
l’université, pag. 840, nota 88).
109. Ecco il passo, per altro più volte citato dagli studiosi: «Enimvero si tam pretiosissimus thesaurus sapientiae salutaris a regno Franciae tolleretur, maneret utique liliatum
signum regum Franciae mirabiliter deformatum; nam ex quo Deus et Dominus noster Jesus
Christus fide, sapientia et militia specialius quam cetera regna, voluit regnum Franciae illustrare, consueverunt reges ipsi Franciae in suis armis et vexillis florem lilij depictum trino folio
comportare, quasi dicerent toti mundo, fides, sapientia et militiae probitas abundantius quam
regnis ceteris sunt regno nostro Dei providentia et gratia servientes. Duo enim paria folia
sapientiam et militiam significant, quae fidem trinum folium significantem, et altius in
mediorum duorum positam, custodiunt et defendunt; nam fides gubernatur et regitur sapientia,
atque militia defensatur. Quamdiu enim praedicta tria fuerint in regno Franciae pacifice,
fortiter et ordinatim sibi invicem cohaerentia, stabit regnum; si autem de eodem separata
fuerint vel avulsa, omne regnum in se ipsum divisum desolabitur atque cadet» (Guillaume
de Nangis, Chronicon, RHGF XX, pag. 546, sub 1230). Ma va detto che, con qualche variante,
esso è anche nei Gesta Sancti Ludovici dello stesso Guillaume, e naturalmente nella versione
francese stampata a fronte, ibid., pagg. 320 e 321: è di qui che cita Lusignan, «L’Université de
Paris comme composante de l’identité du royaume», pag. 63. Nei Gesta Guillaume menziona,
accettandola, la leggenda che unificava il san Dionigi francese e Dionigi l’Areopagita,
primo vescovo di Atene, in un unico personaggio, e forniva così un appiglio «storico» alla
translatio: vedi al proposito, citato da Lusignan, Raymond J. Loenertz, «La légende
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ENRICO FENZI
Era da tempo, del resto, che la città stupiva per le sue attrattive e la sua
vivacità intellettuale, e Giovanni di Salisbury ne è buon testimone, nel 1164,
quando la descrive a Tommaso di Canterbury come una sorta di paradiso,
e ne fissa i caratteri che poi spesso ritroveremo:
a proposito revocato Parisius iter deflexi. Ubi cum viderem victualium
copia, letitiam populi, reverentiam cleri, et totius ecclesie majestatem et
gloriam et varias occupationes philosophantium, admirans velut illam
scalam Jacob, cuius summitas celum tangebat, eratque via ascendentium et descendentium angelorum [Gen. 24, 12-16], lete peregrinationis
urgente stimulo coactus sum profiteri, quod vere Dominus est in loco
isto, et ego nesciebam110.
Fondanti in questo senso sono anche i versi che Jean de Hauville dedica
a Parigi nel suo Architrenius (1184) e che Petrarca, ribattendo a Jean de
Hesdin più o meno ottant’anni dopo, citerà con disprezzo, nei quali
troviamo condensati i motivi topici della ‘lode di Parigi’, nuova reggia di
Apollo e capitale culturale del mondo:
[...] Eunti [ad Achitrenio]
exoritur tandem locus: altera regia Phebi
Parisius, Cirrea viris, Crisea metallis,
Greca libris, Inda studiis, Romana poetis,
Attica philosophis, mundi rosa, balsamus orbis,
Sidonis ornatu, sua mensis et sua potu,
dives agris, fecunda mero, mansueta colonis,
messe ferax, inoperta rubis, nemorosa racemis,
plena feris, piscosa lacu, volucrosa fluentis,
munda domo, fortis domino, pia regibus, aura
dulcis, amena situ, bona quolibet: omne venustum,
omne bonum, si sola bonis Fortuna faveret! 111.
parisienne de S. Denys l’Aréopagite, sa genèse et son premier témoin», Analecta Bollandiana, 69 (1951), pagg. 217-237. Da quel giglio potevano però uscire anche brutte sorprese,
come Guillaume medesimo denuncia nel Chronicon, pag. 622, sub 1318: «Circa ista tempora
de flore lilii Parisius studii exierunt duo filii nequam genimina viperarum, scilicet magister
Johannes de Janduno natione gallicus, et magister Marsilius de Padua natione italicus».
110. Chartularium Un. Par., num. 19, I, pagg. 17-18.
111. Johannes de Hauvilla, Architrenius, edited by Winthrop Wetherbee, Cambridge &
New York & Melbourne: Cambridge University Press, 1994, pag. 58, cap. 17, Quod Architrenius Parisius venit: II 481-493 (vedi l’importante recensione al volume di Antonio Placanica, Studi Medievali, s. 3, 40 (1999), pagg. 739-754). Per la citazione di questi versi in Jean
de Hesdin e in Petrarca, nel suo Contra eum, vedi avanti, nota 139.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
83
Più o meno negli stessi anni anche Filippo di Harvengt celebrava Parigi
con toni iperbolici, definendola una nuova Gerusalemme ove risuona il
decacordo di David, le profezie di Isaia e la sapienza di Salomone («Felix
civitas, in qua sancti codices tanto studio resolvuntur, in qua tanta lectorum
diligentia, tanta denique scientia scripturarum, ut in modum Cariath Sepher
merito dici possit civitas litterarum»)112. In un’altra lettera a Richero ripete
le stesse cose, esortandolo ad approfittare appieno di quelle straordinarie
possibilità di studio, e in una terza, a Enghelberto, tocca il motivo che sarà
poi caro a Petrarca, della necessità di protrarre gli studi sino alla più tarda
età, e lo intreccia a una sommaria storia del sapere filosofico, trasferito ad
Atene da Platone che l’avrebbe appreso prima in Egitto e poi in Italia presso
i pitagorici, mentre poi Catone, già adulto, l’avrebbe appreso dai testi greci.
E continua, dopo aver così suggerito il tema della translatio:
Non enim Parisius fuisse, sed Parisius honestam scientiam acquisisse
honestum est. Non itaque tibi sufficit, si musas, si fontem Heliconium tu
vidisti, si de illius rivulo guttam modicam tu hausisti, si videas illius rore
tenuissimo te perfundi, ejus autem adhuc affluentiam tibi plenius non
infundi. Denique ipsa philosophia, que proponit studentibus fontem
lucidum Heliconis, non satis esse judicat solum hujus beneficium visionis;
et cui acre et acutum ingenium dat Platonis, cui flores et ornatam
eloquentiam Ciceronis, cui largitur illius tui Socratis documenta, cui
Aristotelis revelat manifestius argumenta, cum profecto vult gutta vel
rore modico non aspergi, sed ejus fonti vivido diutius incumbere
vel immergi113.
Una bella e mossa descrizione della dolce, gioconda, deliziosa Parigi è
anche in una contemporanea lettera di Guido de Bazoches, che in particolare si ferma sull’isola formata dalla Senna, e sul Gran Pont traboccante
di merci e traffici e attività, e sul Petit Pont occupato da chi vi passeggia
impegnato in discussioni filosofiche, mentre sull’isola...
In hac insula regale sibi solium ab antiquo filosofia collocavit [...] In hac
insula perpetuam sibi mansionem septem pepigere sorores, artes videlicet
112. Chartularium Un. Par., num. 51, lettera a Ergaldo, I, pag. 50. Cariath Sepher è la
biblica «città dei libri» o «città degli archivi», fatta conquistare da Caleb: Ios. 15, 15: «Dabir, quae
prius vocabatur Cariath Sepher, id est, civitas litterarum»; Iud. 1, 11: «abiit ad habitatores
Dabir, cuius nomen vetus erat Cariath Sepher, id est, civitas litterarum».
113. Chartularium Un. Par., num. 52, lettera a Richero, I, pagg. 50-52; num. 53, lettera
a Enghelberto, I, pagg. 53-55: pag. 54.
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ENRICO FENZI
liberales, et intonante nobilioris eloquentie thuba decreta leguntur et
leges. Hic fons doctrine salutaris exuberat et, quasi tres rivos ex se limpidissimos ad prata mentium irriganda producens, dividit tripliciter intellectum sacre pagine spiritalem in hystoricum, allegoricum et moralem114.
L’immagine dell’Università come copiosa sorgente di sapienza che questi
testi presentano diventa canonica, tornando a più riprese: per esempio in
una lettera di Gregorio IX (1229): «Fluvius profecto est litterarum studium,
quo irrigatur et fecundatur post Spiritus Sancti gratiam paradisus generalis
ecclesie, cujus alveus Parisiensis civitas...»; in una lettera di Alessandro IV
(1256), ch’è tutto un intreccio di metafore celebrative, da quella del sole
(«Parisius peritie summe sinus de sue scientie plenitudine replens orbem
et tanquam fulgidus sol doctrine per totum orbem clare intelligentie lumen
fundens, depellit ignorantie tenebras, ruditatis abstergit caliginem..., ecc.)
a quella della fonte («rigat documentorum suorum fluentis Parisius omnem
terram [...] De Parisius itaque fons limpidus scientiarum emanat, de quo
potant cunctarum populi nationum. Ibi erumpit altus puteus scripturarum,
de quo profunde intelligentie pocula mundus haurit...», ecc.)115; in una
lettera di Filippo IV (1313), nella quale gli studenti «sitientes ad aquas
veniunt vivi fontis fluenta sumentes, ubique rivos derivant ex quibus mundus
sui diversis partibus irrigatur»; in una lettera di Giovanni XXI (1317):
Nostis etiam, cum nullum fere orbis angulum lateat, quot et quantos
viros luminosa scientia preditos ac honesta conversatione decoros Parisiense studium ad illuminationem gentium divinitus institutum huc usque
produxerit et producere jugiter non desistit, qui sui fluenta diffundentes
eloquii universalem ecclesiam longe lateque diffusam multipliciter irrigarunt et irrigant116.
Ora, è importante sottolineare che queste sono, tutte o quasi tutte, autocelebrazioni fortemente interessate attraverso le quali la Chiesa afferma il
114. Chartularium Un. Par., num. 54, I, pagg. 55-56. Anche Alessandro Neckam nel
suo De laudibus divinae sapientiae ricorda il Petit Pont come il luogo più famoso di Parigi:
«Hortarer te Parisius partesque remotas | visere, sed tenet me maris unda tumens. | Vix
aliquis locus est dicta mihi notior urbe, | qua Modici Pontis parva columna fui» (ed. Wright,
pag. 503, vv. 331-334). Vedi avanti, nota 144.
115. Chartularium Un. Par., num. 70, I, pag. 127; num. 296, I, pagg. 342-343.
116. Chartularium Un. Par., num. 701, II, pag. 160; num. 738, II, pag. 198. Per l’affluenza degli studenti di tutta Europa, vedi ancora per esempio ibid. num. 164, I, pag. 194,
e num. 398, I, pagg. 439-440.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
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proprio primato e monopolio dottrinale ed esalta la sua più illustre istituzione scolastica117, fatta segno, nel tempo, di significativi atti d’omaggio:
Filippo Augusto, sùbito dopo Bouvines invia tre messaggi per annunciare la
vittoria: uno al figlio, uno a Federico di Hohenstaufen e uno all’Università
di Parigi118; Manfredi, nel 1263, dona i suoi codici all’Università...119 Che poi
dietro l’immagine della propaganda si agitasse un mondo assai più complesso
e problematico, e che la cappa della censura e del condizionamento pesasse
molto, come ha ben mostrato Luca Bianchi120, è un altro discorso, che non
intacca l’universale prestigio dello studium parigino e dei suoi maestri.
Ma se è l’Università, come Lusignan ha precisato, ad essere celebrata
come l’insuperabile paradiso della clergie, ebbene, il discorso critico si
riapre perché diventa impossibile nascondere il fatto che attraverso di essa
si celebra essenzialmente non già un effettivo percorso attraverso il quale
sarebbe stato realizzato il trasferimento della cultura classica entro i saperi
moderni, ma si celebra piuttosto, e senza mezzi termini, il trionfo della
scolastica sopra e contro quella cultura. A posteriori è facile, e direi inevitabile, fare d’ogni erba un fascio e applicare questa translatio ad ogni
espressione della civiltà francese, magari attraverso le parziali aperture
suggerite da Chretien de Troyes e Goussin di Metz, ma nulla, ripeto, ci
autorizza a farlo. Piuttosto, tutto sta a dimostrare che la translatio è diventata un’arma in più al servizio di una circoscritta affermazione di superiorità: che Parigi sia la nuova Atene, o meglio, che Parigi abbia soppiantato
Atene, sta dunque semplicemente a dire che la filosofia scolastica e i laboriosi dogmi della teologia hanno finito di soppiantare il pensiero antico e
le sue espressioni culturali. Si rilegga Philippe di Harvengt. Il passo citato
sopra, nel quale egli invita Enghelberto a immergersi completamente negli
studi, è bello ed efficace ma anche eccezionale e, isolato dal contesto, non
fa chiarezza sul fatto che il sapere è, per Philippe, rigorosamente quello
117. Per esempio si dice ch’essa «irrigat et fecundat» in un documento dell’Università
stessa, con il quale essa dichiara di non essere responsabile se al suo interno «inveniantur
aliqui delinquentes», (Chartularium Un. Par., num. 870, II, pag. 306). Anche Guillaume de
Nangis, Chronicon, pag. 554 sub 1251: «Parisius ubi est fons totius sapientiae».
118. Secondo la tradizione, il messaggio avrebbe detto: «Laudate Deum, carissimi, quia
nunquam tam gravem conflictum evasimus» (Selecta ex variis chronicis [...] RHFG, XIX, pag. 259).
119. Chartularium Un: Par., num. 394, I pagg. 435-436.
120. Luca Bianchi, Censure et liberté intellectuelle à l’Université de Paris (XIIIe-XIVe
siècles), Paris: Les Belles Lettres, 1999. Per i dibattiti interni, già oggetto di numerosi studi,
vedi Die Auseinandersetzungen an der Pariser Universität im XIII. Jahrhundert. Her. von
Albert Zimmermann für den druk besorgt von Gudrun Vuillemin-Diem (Miscellanea Mediaevalia, 10), Berlin: De Gruyter, 1976.
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ENRICO FENZI
cristiano, e tutto biblico è l’orizzonte di riferimento, da Gerusalemme e
Davide e Salomone... Le lettere sono le «sacras litteras, quarum lectio juxta
Paulum instruit ad salutem [...] In hoc tamen non falleris, quod non poetarum
exigis fabulas et figmenta, non sophistarum laqueos, non decipientium
argumenta, non denique aliud quo exultet vanitas, turbetur veritas et vacillet,
sed quod tuam foveat et, ut ais, animam refocillet»; l’Università è un
«santuario» nel quale l’anima si sposa a Dio e frequenta gli angeli, e i contenuti dell’insegnamento sono già perfettamente definiti, senza sbavature,
come in un catechismo: «Hunc [Dio] predicat, hunc attollit, non solum
doctorum predicatio vel scriptura, sed omnium rerum creatio, mutabilitas,
et natura, que omnia, cum judicio evidenti mutabilitatis insite creata se
ostendant, Creatorem increatum et immutabilem astruunt et commendant».
Risulta dunque chiaro che Parigi è superiore ad Atene perché si presenta
come la reincarnazione della biblica Cariath Sepher, la «città delle lettere»,
come due volte Philippe la chiama, e come, con scelta di gran significato,
la chiama anche Gregorio IX nella prima riga della bolla Parens scientiarum: «Parens scientiarum Parisius velut altera Cariath Sepher, civitas litterarum...». Parigi è Cariath Sepher, non è Atene.
Si ammetterà, così, che l’esaltazione di una translatio siffattamente intesa
è una mossa che ripropone per intero la questione nel momento stesso
che ne stravolge i termini, producendo una versione aggiornata e sofisticata del costante ostile atteggiamento della Chiesa verso la translatio del
sapere pagano, e della assoluta rivendicazione, per contro, della propria
epocale superiorità: del resto, essa non avrebbe mai potuto ammettere un
senso di «mancanza», per quanto parziale e condizionato, verso quel sapere,
e non ha dunque mai impostato in termini propri il tema della ricerca di
una qualche forma di integrazione delle proprie totalizzanti verità (certo non
poteva riconoscere, come Orazio, la propria «rusticità», o addirittura giudicarla un disvalore: «Graecia capta ferum victorem cepit |et artes intulit
agresti Latio»). Sì che mi sentirei di affermare che quel sapore diverso,
quella minuscola scheggia di genuino entusiasmo per gli antichi testi che
a me pare animasse i tempi di Alcuino è ora scomparsa entro la topica
prepotente dell’autoaffermazione, e che l’idea di translatio, dopo l’apocalittica e totalizzante ripresa che ne ha fatto Ugo di san Vittore, ha perduto
quel suo stretto margine di autonomia e di vita, ed è finita di nuovo in un
imbuto senza uscita. Se non fosse così, infatti, troppe cose non si capirebbero: per cominciare, l’Umanesimo sarebbe tranquillamente stato cosa
sua. Ma invece proprio là dove la si celebra come cosa fatta, e forse proprio
per questo, essa è in verità assente, mentre è altrove –in Italia– che essa
comincia davvero ad agire.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
87
5. IMPERO
E REPUBBLICA. DALLA TRANSLATIO DI SUPERIORITÀ ALLA
TRANSLATIO COME PROGETTO
Prima di affrontare questo nuovo capitolo, vorrei fare insieme una deviazione e un passo indietro, per gettare una luce più forte sull’insieme di
rappresentazioni e ideologie nelle quali la translatio è immersa, e chiarire
più di un aspetto polemico delle sue future vicende. Retrocediamo ancora
a Ottone di Frisinga, questa volta nelle vesti di cronista, il quale nei suoi
Gesta Friderici imperatoris, II 29-30, racconta a suo modo l’incontro che il
Barbarossa ebbe a Sutri con una delegazione romana pochi giorni prima
di entrare in città per esservi coronato imperatore da papa Adriano IV, il
18 giugno 1155121. Tale delegazione, formata da industres e litterati (tale
notazione ha la sua importanza), tiene un eloquente discorso, al quale l’imperatore risponde con il suo, particolarmente lungo e di grande effetto,
che davvero mi spiace non poter qui analizzare come merita. In sostanza,
la delegazione si produce in una esaltazione della maestà e della potenza
di Roma e delle sue istituzioni alle quali l’imperatore dovrebbe restituire
autorità e alle quali dovrebbe rendere omaggio... Ma è meglio lasciarle la
parola, almeno per la conclusione:
Hospes eras, civem feci. Advena fuisti ex Transalpinis partibus, principem
constitui. Quod meum iure fuit, tibi dedi. Debes itaque primo ad observandas meas bonas consuetudines legesque antiquas, mihi ab antecessoribus tuis imperatoribus idoneis intrumentis firmatas, ne barbarorum
violentur rabie, securitatem prebere, officialibus meis, a quibus tibi in
Capitolio adclamandum erit, usque ad quinque milia librarum expensam
dare, iniuriam a re publica etiam usque ad effusionem sanguinis
121. La versione data da Ottone dell’episodio è basata sull’effettiva alleanza dell’imperatore con il papa contro il governo della città ispirato da Arnaldo da Brescia (espulso da
Roma poco prima dell’arrivo del Barbarossa, fu catturato presso san Quirico d’Orcia e consegnato all’imperatore che a sua volta lo consegnò a un’ambasceria di cardinali che lo riportarono a Roma ove fu ucciso in circostanze non chiare durante i tumulti seguiti
all’incoronazione), e sull’effettivo rifiuto da parte del Barbarossa di sottomettersi alle condizioni che tale governo voleva imporgli (in sostanza, di là da alcuni rituali atti di omaggio, il
pagamento di una grossa somma di denaro). Una minuta analisi di quell’incontro, che illustra anche alcune, poi superate, difficoltà insorte tra il papa e l’imperatore per delicate
questioni di preminenza, è in Peter Munz, Frederick Barbarossa. A Study in Medieval Politics, London: Eyre & Spottiswood, 1969, pagg. 79-88. Da questo episodio move l’Introduzione de Giuliana Crevatin al Contra eum di Petrarca: vedi avanti, nota 139.
88
ENRICO FENZI
propellere et haec omnia privilegiis munire sacramentique interpositione
propria manu confirmare122.
Così i romani. Ma il Barbarossa duramente interrompe il loro verboso
e tutto italiano discorso («cursum verborum illorum de suae rei publicae ac
imperii iusticia more Italico longa continuatione periodorumque circuitibus
sermonem producturis interrupit»), lo definisce insipido e arrogante e particolarmente sciocco nel suo rievocare le grandezze passate («Agnosco,
agnosco, et ut tui scriptoris verbis utar, fuit, fuit quondam in hac re publica
virtus. ‘Quondam’ dico...»)123; ricorda che tutto muta sotto il cielo, e che
già «per quot annorum curricula ubera delitiarum tuarum Greculus esuriens
suxerit», finché «venit Francus» a strappare a Roma quanto rimaneva della
sua nobiltà, sì che nulla le è rimasto. Tutto ciò che era suo è passato ormai
all’impero germanico: «Penes nos cuncta haec sunt. Ad nos simul omnia haec
cum imperium demanarunt. Non cessit nobis nudum imperium. Virtute sua
amictuum venit. Ornamenta sua secum traxit. Penes nos sunt consules tui.
Penes nos est senatus tuus. Penes nos est miles tuus...». Il discorso sarà
ancora lungo, ma la sostanza non cambia e, facendo perno su una citazione
di Macrobio, Sat. V 3, 16: «Eripiat quis, si potest, clavam de manu Herculis»,
l’imperatore respinge con disprezzo tutte le richieste che gli erano state
fatte, e con particolare collera, naturalmente, quella di pagare.
La translatio imperii non ha dunque lasciato nulla dietro di sé, ché il
potere, passando da un popolo all’altro, s’è trascinato dietro le virtù sulle
quali era stato edificato e gli ornamenti che lo abbellivano: in una parola,
il sapere. E a Roma e all’Italia è rimasta una parola vuota sia di potere che
di sapere: insieme alla pungente polemica contro l’ampollosa retorica more
italico si osservi anche l’implicita analogia istituita con il Graeculus esuriens,
perfetta citazione da Giovenale, III 78, che di fatto proietta sugli italiani
quella stessa immagine di verbosa improntitudine ch’era diventata la «marca»
del graeculus124. La cosa è, se possibile, ancora più evidente nel lungo
poema Ligurinus composto tra il 1181 e il 1184 da Gunther il Cistercense (o
il Poeta, der Dichter), dove si ritovano minuziosamente verseggiati i Gesta
Friderici di Ottone, compresi quei capitoli con i due contrapposti discorsi
(III 360-580). Gunther non si limita dunque a proclamare orgogliosamente
122. Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I Imperatoris, ed. Waitz, MGH SS Rer. Germ. in
usum scholarum, 1912, pag. 136: II 28.
123. Idem, pag. 137: II 30. La citazione, con la quale l’imperatore ribatte alle citazioni sallustiane e virgiliane che ornavano il discorso dei romani, deriva da Cicerone, in Catil. I 1, 3.
124. Vedi sopra, nota 34.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
89
sin dal primo libro che è ormai il Reno a dare ordini al Tevere, in versi
famosi e spesso citati per essere assolutamente topici del motivo della translatio imperii:
Nos, quibus est melior libertas, jure vetusto
orba suo quotiens vacat inclyta principe sedes,
quodlibet arbitrium statuendi regis habemus.
Ex quo Romanum nostra virtute redemptum.
hostibus expulsis, ad nos justissimus ordo
transtulit imperium; Romani gloria regni
nos penes est: quemcumque sibi Germania regem
praeficit, hunc dives submisso vertice Roma
suscipit, et verso Tiberim regit ordine Rhenus125,
ma riprende e dà ampio spazio alla polemica filo-germanica nel terzo, ritraducendo piuttosto fedelmente il racconto di Ottone. Egli comincia con il
sottolineare che i deputati romani arrivano dinanzi al Barbarossa «patriae
mandata ferentes | conspicuo sermone quidem phalerata, sed astu | et
tacitis perplexa dolis» (III 362-364). Il quale Barbarossa vede benissimo
«dolos et infecta verba veneno» (ibid. 453), e risponde a tono rivendicando
con altrettanta e maggiore eloquenza i suoi diritti e la definitiva forza della
translatio (tutto ciò che Costantinopoli ha lasciato a Roma «transtulit in
Francos»), sino all’impennata finale126 che risponde alla richiesta di restaurare
i poteri delle antiche magistrature (ibid. 437 ss.: «Da libertatem sacrumque
repone senatum! | Iam redeat censor, redeat cum consule pretor | et redeant
gemini cum dictatore tribuni») e che merita d’esser riferita per intero:
Mea respice castra:
omnia, que dudum quereris sublata, videbis
125. Gunther der Dichter, Ligurinus, edited by Assmann, MGH SS Rer. Germ. in usum
scholarum, 1987, pag. 166: I 246-254. L’episodio è verseggiato anche nell’anonimo Carmen
de gestis Frederici I Imperatoris in Lombardia, edited by Schmale-Ott, MGH SS Rer. Germ.
in usum scholarum, 1965, pagg. 21 ss.: II 610, ov’è però più breve e più moderato nei toni
polemici, e sciolto entro il corso della narrazione. Di esso parla anche, nello stesso giro
d’anni, Goffredo da Viterbo, Pantheon, edited by Pertz, MGH SS XXII, 1872, pag. 311: particula XV de gestis Friderici 5-7: «Romanus populus antiquos expetit usus, | rex despexit eum,
primatum milite tutus, | nil petit, immo iubet».
126. Idem, 565-579. Anche Gunther mette in bocca al Barbarossa un accenno al Graeculus, ma lo specifica attraverso l’allusione a Manuele I Commeno (1143-1180) e a Ruggero
II di Sicilia, morto l’anno prima, presunti difensori di Roma: «Ubi perfidus ille | Greculus et
Sicule, vindex tuus» (535-536).
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ENRICO FENZI
nomine mutato sub eadem vivere forma:
hic eques, hic pretor, hic consulis atque tribuni
imperiosus honos et publica cura senatus.
Aspice Teuthonicos proceres equitumque catervas.
Hos tu patricios, hos tu cognosce quirites,
hunc tibi perpetuo dominantem iure senatum.
Hii te, Roma, suis –nolis licet ipsa– gubernant
legibus, hii pacis bellique negocia tractant.
Sed libertatis titulos antiquaque legum
tempora commemoras: quas leges, improba, preter
Teuthonicas aut que preter mea iura requiris?
Que tibi libertas poterit contingere maior
quam regi servire tuo?
Questi, ora sono i patrizi. E questi i quiriti, e questo il senato... La translatio prevede vincitori e vinti, e in questo quadro gli italiani appaiono come
quelli che hanno perso, per sempre. Tutto chiaro e semplice, dunque? Non
proprio, perché, a ben vedere, la situazione ha qualcosa di paradossale.
Ho appena accennato, sopra, ad Arnaldo da Brescia, sacrificato da Barbarossa all’alleanza con il papa. I ritratti di Arnaldo sono ovviamente pessimi,
in Ottone e in Gunther e in genere nei cronisti filo-imperiali127, e marcati in
modo pesantemente negativo sono i discorsi dei deputati romani. Ma tali
discorsi, letti in controluce, si rifanno precisamente agli ideali arnaldiani di
liberazione di Roma dal dominio del papa e di restaurazione dell’antica
repubblica, chiaramente vagheggiata con una sorta di passione antiquaria
davvero non dissimile a quella che animerà quasi duecento anni dopo Cola
di Rienzo. E il paradosso, allora, sta appunto in questo, che ci viene sceneggiato lo scontro tra due translationes: quella imperiale rappresentata dal
Barbarossa, biblicamente caratterizzata come una pura traslazione di potere
rimessa in ultima analisi nelle mani di un Dio che ha già detto la sua («Eripiat
quis, si potest, clavam de manu Herculis»), e l’altra, repubblicana, che non
è caratterizzata nel senso del potere (che infatti non ha), ma piuttosto in
quello eminentemente progettuale che muove da una visione attualizzante
della romanità, della quale la translatio è propriamente l’anima. Ecco allora,
da una parte, una idea di translatio quale quella vista sin qui, ove essa
sempre compare come qualcosa di già realizzato e dunque come pretesto
per celebrazioni adulatorie e affermazioni di superiorità, non importa quanto
127. Vedi soprattutto Arsenio Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo 12, Roma:
Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1954 (rist., Torino, Einaudi, 1989).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
91
fondate. E dall’altra l’idea profondamente diversa secondo la quale la
translatio è piuttosto un obiettivo sia materiale che spirituale tutto da conquistare. In questo, sia pure detto in forme estremamente semplificate, consiste
l’origine del cammino diverso che la translatio ha preso in Italia, ove sin
dall’inizio, almeno a partire dal sogno di Arnaldo, essa ha assunto il carattere
di un «desiderio», di una aspirazione all’antico che si concretizza nel miraggio
di una restaurazione repubblicana e implica un progetto strettamente e direi
tecnicamente intellettuale di studio e conoscenza del mondo romano.
L’Italia dunque, con le sue repubbliche cittadine, la sua contorta politica, la sua verbosità e le sue nostalgie... Ad essa l’idea di una translatio
imperii in termini imperiali, appunto, è estranea (del tutto appartata, seppur
sullo sfondo degli ultimi teorici dell’impero, è la posizione di Dante), o
assume forme particolari. Sin qui abbiamo visto che è il trasferimento del
potere a trascinare con sé quello del sapere. In Italia, invece, sembra prendere corpo il mito contrario, dal sapere al potere: è il sapere, la translatio
studii, che assume profondo valore compensatorio e nutre il risorgente
fantasma di un riscatto politico. All’ombra della frantumata e localistica
realtà italiana e dell’ideale repubblicano e comunale si fa largo assai presto
il mito culturale di una translatio reipublicae di marca romana128, e di essa
128. Leggo in un saggio di Martin Gosman, dedicato al pensiero politico di Alain Chartier (primi tre decenni del XV secolo), che il mito della Roma antica ha basi frammentate e
incoerenti, e che si tende a confondere la Roma repubblicana e la Roma imperiale, e che
Chartier, appunto, «mescola gioiosamente» le due diverse immagini («Alain Chartier: Le mythe
romain et le pouvoir royal français», in Entre fiction et histoire, cit., pagg. 161-182 (163 e
169-170). Ma può essere che questo, presentato come un dato generale, sia solo il frutto
della modesta e certamente arretrata, ancorché allegra, cultura dell’autore, in una fase in cui
sicuramente la translatio ha abbandonato la Francia. Basti quanto scrive Beryl Smalley,
«Sallust in the Middle Ages», in Classical Influence on European Culture A. D. 500-1500,
edited by R. R. Bolgar, Cambridge: Cambridge University Press, 1971, pagg. 165-175 (167):
«It is true that the Roman Principate, first as praeparatio evangeli and then as prolonged in
the Christian Roman empire, did loom larger than the Republic in mediaeval thought. The
pathos of Roman ruins, as visible in the Middle Ages, naturally recalled the Rome of the
Caesars. But readers of Sallust knew perfectly well that the Roman people had flourished
and had won their most striking victories in the good old days of early Roman tradition,
after shaking off the yoke of their kings. Sallust even foreshadowed the mediaeval translatio
imperii in explaining the rise of Rome to greatness» (vedi sopra, nota 33). Ma ancora, per
non dire altro, uno dei motivi conduttori dello studio minuzioso di Petrarca sul testo di Livio
è proprio l’attenzione alla specificità politica e istituzionale della Roma repubblicana (del resto,
Petrarca ha anche «inventato» l’eroe eponimo della repubblica da contrapporre a Giulio Cesare,
e cioè Scipione). Insomma, tutto si può dire, ma non che la questione delle due Rome, la
repubblicana e l’imperiale, non fosse da quel dì all’ordine del giorno e non fosse, quella dicotomia, una componente decisiva del pre-umanesimo come dell’umanesimo maturo. Sul punto,
si veda ora soprattutto il saggio di Tanturli citato nella nota che segue.
92
ENRICO FENZI
primo grande testimone è Brunetto Latini, il «maestro» dei fiorentini e di
Dante in particolare, che, come si sa, gli rilascia un riconoscimento tutto
speciale nel canto quindicesimo dell’Inferno129.
Brunetto, in virtù di un approccio personale e diretto ai testi di Lucano
e di Cicerone, ha infatti messo perfettamente a fuoco quella stessa interpretazione repubblicana della storia di Roma che vale come contenuto
caratterizzante dell’umanesimo, e che sarà poi riproposta con intatta forza
polemica da Machiavelli. Alla base della sua visione sta l’idea che l’uomo
–ogni uomo– nasce «cittadino», e che la città gli appartiene come il luogo
proprio del suo essere sociale, e il reggimento di essa, quali ne siano i
modi specifici, sarà in definitiva cosa sua, visto che egli fa naturalmente
parte di una comunità nella quale condivide con ogni altro diritti e doveri.
Ciò basta a rendere anche teoricamente inconcepibile che il Comune
possa essere governato dalla volontà dispotica di uno solo, quando invece
esso disegna il confine delle decisioni condivise, e caratterizza la sua
essenza politica precisamente nel percorso attraverso il quale tali decisioni,
vitali per la sua sopravvivenza, vengono prese. Questo percorso di formazione della decisione è un percorso di conoscenza e di «parola», ed è
retto verso il giusto approdo da chi ha, insieme, l’una e l’altra: il nesso
strettissimo tra il «parlare» e il governare è dunque la chiave di volta del
suo repubblicanesimo130. La parola prende il sopravvento, e con la sua
129. Per quanto brevemente segue, mi rifaccio al testo di una relazione che ho tenuto
al recente convegno su Brunetto, a Basilea, nel giugno 2006, Brunetto Latini, ovvero il fondamento politico dell’arte della parola, ora in stampa per gli Atti presso le edizioni SISMEL/Il
Galluzzo di Firenze per la cura di Irene Maffi Scariati. Qui, muovevo dall’importante saggio
di Giuliano Tanturli, che precisa insieme la prospettiva «umanistica» e «repubblicana» di
Brunetto, «Continuità dell’umanesimo civile da Brunetto Latini a Leonardo Bruni», nel vol. Gli
umanesimi medievali. Atti [...] 11-15 settembre 1993, a cura di Claudio Leonardi, Tavarnuzze
& Impruneta & Firenze: SISMEL/Edizioni del Galluzzo, 1998, pagg. 735-80 (vedi in particolare pagg. 735-44). Ma vedi anche la bella sintesi di Franco Gaeta, «L’intellettuale ‘urbano’
Brunetto Latini», in «Dal comune alla corte rinascimentale», in Letteratura italiana. I. Il letterato e le istituzioni, Torino: Einaudi, 1982, pagg. 184-90; Charles T. Davis, Brunetto Latini e Dante,
in L’Italia di Dante (1984), Bologna: Il Mulino, 1988, pagg. 174 ss.; John H. Mundy, «In Praise
of Italy: The Italian Republics», Speculum, 64 (1989), pagg. 815-834; Ronald Witt, «The Rebirth of
the Concept of Republican Liberty in Italy», in Renaissance Studies in Honor of Hans Baron,
edited by Anthony Molho & John A. Tedeschi, Firenze: Sansoni, 1971, pagg. 173-199.
130. Perfette mi sembrano le osservazioni di Johannes Bartuschat, «La Rettorica de
Brunetto Latini. Rhétorique, éthique et politique à Florence dans la deuxième moitié du XIIIe
siècle», Arzanà, num. 8, sept. 2002 (La science du bien dire. Rhétorique et rhétoriciens au
Moyen Âge, édité par M. Marietti & C. Perrus), pagg. 33-59, a pag. 42: «La rhétorique est la
praxis de la raison; c’est pourquoi elle est à l’origine de la culture et de l’ordre politique. La
communication raisonnable, telle qu’elle se réalise dans la rhétorique, est le fondement de
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
93
sola forza qualifica il reggimento ch’essa stessa crea, mentre tale reggimento chiama a sé la parola e la ospita come il luogo suo proprio. È a
questo punto che Brunetto coglie e organizza un elemento per dir così
coagulante rispetto a una serie di tensioni in atto nella cultura del tempo,
e gli dà forma compiuta e visibile imprimendo uno scatto tutto particolare al discorso sul reggimento del Comune. Si tratta della proiezione di
tale reggimento sullo schermo storico-culturale della romanità: in altri
termini, nell’interpretarlo alla luce ideale della Roma repubblicana e nel
porlo sotto il patronato sia politico che retorico di Cicerone131. La Roma
repubblicana diventa l’inarrivabile archetipo del Comune, e il suo modello
civico resta tanto forte e dotato di tale universalità da imporsi anche nel
presente e da costituire per i Comuni italiani sufficiente titolo di legittimità dinanzi alla storia, ma anche e soprattutto a fronte delle strutture
monarchiche europee. Per Brunetto l’uso italiano è, essenzialmente, l’uso
romano, e per questa via gode, tale uso, di tanta privilegiata nobiltà da
potersi costituire come un ideale perfettamente in grado di affrontare e
superare quei modelli monarchici che prepotentemente rivendicavano,
attraverso la voce forte dei loro intellettuali, l’assoluta e sacrale perfezione della loro natura. Voglio dire, insomma, che Brunetto riesce a
pareggiare conti altrimenti troppo squilibrati, perché contrappone ai regni
europei il mito potente e gratificante dell’eredità e identità romana, reinterpretato e adattato in chiave comunale. In questo senso, la difesa del
«sistema podestarile»132 a fronte dei modelli stranieri sta alla base del suo
la vie politique. À travers la reprise de la doctrine cicéronienne de l’unité de la rhétorique
et de la sagesse, la rhétorique devient la science de la paix civile. Par là elle devient une idée
de la politique elle-même; elle tient la place d’une théorie des vertus sociales dans une
perspective politique».
131. Rimando, anche per la bibliografia al riguardo, all’ampio panorama tracciato da
Virginia Cox, «Ciceronian Rhetoric in Italy, 1260-1350», Rhetorica, 17: 3 (1999), pagg. 239288, nel quale molto spazio è dedicato a Brunetto, protagonista, nel contesto di una Italia
attraversata da fortissime tensioni sociali e politiche, della «protoumanistica» scoperta di
Cicerone.
132. Sul quale sono fondamentali i saggi di Enrico Artifoni. Vedi: «I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale», Quaderni storici, 63 (1986), pagg. 687719 (pagg. 691, e 692-93). Si vedano almeno altri due importanti saggi di Artifoni
sull’argomento: «Sull’eloquenza politica del Duecento italiano», Quaderni medievali, 35
(1993), pagg. 57-78; «Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento», in Le
forme della propaganda politica nel Due e Trecento, a cura di Paolo Cammarosano, Roma:
École Française de Rome, 1994, pagg. 157-82; «Prudenza del consigliare. L’educazione del
cittadino nel Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia (1246)», in «Consilium».
Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, a cura di Carla Casagrande, Chiara
94
ENRICO FENZI
nuovo e organico ciceronianesimo politico, mentre il successo indubbio
dell’operazione ha premiato il fatto ch’egli abbia risposto all’urgente
domanda di una «idea» laica e identitaria che fornisse una larga copertura ideologica alla scomposta e tumultuosa realtà politica delle città
italiane. Solo così possiamo intendere l’orgoglioso spessore allusivo di
parole come queste133: «[Cicerone] poi nella guerra di Pompeio e di Julio
Cesare si tenne con Pompeio, siccome tutti’ savi ch’amavano lo stato di
Roma; e forse l’appella nostro comune però che Roma è capo del mondo
e comune d’ogne uomo», che rivendicano dinanzi ai potenti della terra
la valenza attuale e universale del primato romano, e invita i Comuni
italiani a riconoscere la loro comune origine e natura (senza dire, poi,
che proprio queste parole hanno il potere di portarci alla magnifica e
sublimata interpretazione che ne darà Dante, in Purg. XXXII 101-102:
«e sarai meco sanza fine cive | di quella Roma onde Cristo è romano»).
Brunetto è, in prima persona, un «traduttore», e come tale è anche,
sommamente, un «traslatore»134 che in forma implicita ma chiarissima
(egli, che pure conosceva direttamente Spagna e Francia, non discute le
forme del potere assoluto: si limita a dire che non riguardano in alcun
Crisciani & Silvana Vecchio, Firenze: Sismel & Ed. del Galluzzo (Micrologus’s Library, 10),
2004, pagg. 195-216.
133. Brunetto Latini, La Rettorica, a cura di Francesco Maggini e introduzione di Cesare
Segre, Firenze: Le Monnier, 1960, 1 sp. 16, pag. 10. Johannes Bartuschat, «La Rettorica de
Brunetto Latini», pag. 46, scrive ancora: «Il s’agit ici de la reprise d’une pensée religieuse dans
une finalité politique: en tant qu’êtres politiques nous sommes tous des citoyens de Rome,
comme nous sommes tous des citoyens de la civitas Dei. Brunetto libère ici complètement la
polis de son caractère négatif de civitas des hommes opposée à la vraie civitas, la civitas Dei
chez saint Augustin», ecc.
134. Nel suo bel libro, Rhetoric, Hermeneutics, and Translation in the Middle Ages.
Academic traditions and vernacular texts, Cambridge: Cambridge University Press, 1991,
Rita Copeland pone al centro del suo discorso proprio l’inevitabile trasformazione di ogni
traduzione in «traslazione», che rompe con il testo di partenza e impone di fatto una nuova
contestualizzazione, quasi enfatizzando e portando alla luce ciò che era latente nella tradizionale ermeneutica accademica (pag. 126, a proposito dell’Ovide moralisé: «vernacular translation-enarratio effects a rupture with the very tradition of the antiqui wich it proposes to
recuperate from the estrangement of historical distance: or perhaps it is more apt to say that
it visibly embodies a rupture that was already, inevitably there in the tradition of translatio
studii. If exegesis always carried a rhetorical motive of displacement, and always, like rhetoric,
responded to the changing circumstances and demands of reception, then its project was
always predicated on historicity or historical difference. Vernacular exegesis renders this
historicity linguistically visible»). Di Brunetto la studiosa analizza il Tresor (pagg. 208-210),
ma solo dal punto di vista della costruzione e della struttura interna, in relazione con la
Confessio amantis di John Gower.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
95
modo l’Italia)135 getta luce su quello che sicuramente, dal suo punto di
vista, sarebbe stato giudicato un barbaro ossimoro, una contraddizione
essenziale: sul Barbarossa, cioè, che presentando la sua corte e i suoi nobili
e i suoi ufficiali dice: questi sono ora i senatori e i tribuni e i consoli... Ma
sottrae anche la translatio, attraverso il suo lavoro di traduttore e divulgatore, a una funzione meramente affermativa, di superiorità. L’espressione
«Parigi è la nuova Atene» (ma in fondo anche: «Aquisgrana è la nuova
Roma»), riveste il suo possibile contenuto, quale esso sia, nella forma di una
iperbole, e comincia a fondere il motivo proprio della translatio con quello,
destinato a lunga vita e per certi aspetti addirittura contrario, della superiorità dei moderni rispetto agli antichi136. Il discorso di Brunetto non
potrebbe essere più diverso: la translatio ha reale valore modellizzante, o
non è. Oppure, detto in altri termini, la translatio è il contenuto assolutamente qualificante della translatio medesima. Nel caso, quello che egli
ravvisa e propone alla società alla quale appartiene: l’arte della parola quale
fondamento della vita pubblica, l’insegnamento e l’esempio di Cicerone
oratore e console, e infine la Roma repubblicana. Ed è proprio da questa
specificità italiana della translatio che è indispensabile muovere per cogliere
il più esattamente possibile il senso e le molte sfumature che tale discorso
assume in Petrarca che, a differenza di Brunetto, di translatio parla, e molto,
nella sua clamorosa guerra contro le pretese di superiorità della cultura
francese.
135. A proposito dei differenti regimi politici, e in particolare dei regimi monarchici
europei, dice Brunetto che dare consigli su come si debba vivere altrove non è da saggi:
«de chose ki n’apertient a nous ne doit on fere conseil; car nus ne doit consillier comment
les gens puissent abiter de Godimoine [Lacedemonia]». Così Brunetto, Tresor II 18, 14, che
deriva tramite il Compendium alessandrino da Aristotele, Eth. Nic. III 5, 1112 29a: «Nessuno
degli Spartani delibera circa il modo con il quale gli Sciti potrebbero governarsi al meglio»
(san Tommaso, Expos. 464, ed. Pirrotta, pag. 158: «Lacedaemonii non consiliantur qualiter
Scythae, qui sunt ab eis valde remoti, optime debeant conversari»). Più estesamente in
Tresor II 62, 1: «Tout avant que tu dies mot, consire en ton cuer ki tu ies ki vieus parler,
et premierement garder se la chose apertient a toi ou a autrui. Et se c’est k’ele apertiegne
a .i. autre, ne t’en melles ja; car selonc loi est encoupable ki s’entremet de ce ki n’apertient pas a lui», ecc.
136. Vedi Elisabeth Gössmann, Antiqui und Moderni im Mittelalter. Eine geschichtliche
Standortbestimmung, München & Paderborn & Wien: Verlag Ferdinand Schöningh, 1974,
che nel quadro di questo tema discute tra l’altro, pag. 81 ss., del passo del Cligés di Chrétien de Troyes sopra citato e delle sue interpretazioni.
96
ENRICO FENZI
6. PETRARCA,
LA TRANSLATIO
Parlando di Petrarca e della translatio studii la prima ovvia tentazione,
alla quale è bene cedere sùbito, è quella di citarne le famose parole, nel
paragrafo dedicato a Plinio il Vecchio nei relativamente giovanili (13431345) Rerum memorandarum libri, I 19137:
Sed quot preclaros vetustatis auctores, tot posteritatis pudores ac delicta
commemoro; que, quasi non contenta proprie sterilitatis infamia, alieni
fructus ingenii ac maiorum studiis vigiliisque elaboratos codices intolerabili negligentia perire passa est, cumque nichil ex proprio venturis
daret, avitam hereditatem abstulit […] Hoc autem et quicquid in hanc
sententiam questus sum non ad minuendum post nascituri populi studium
retuli, quin dolorem meum potius effundens et etati, curiosissime in
quibus non oportet, rerum tamen honestarum prorsus incuriose, soporem
ac torporem exprobans. Equidem apud maiores nostros nichil querimonie similis invenio, nimirum quia nichil similis iacture; cuius ad
nepotes nostros, si ut auguror res eunt, forte nec sensus ullus nec notitia
pervenisset; ita apud alios integra, apud alios ignorata omnia, apud
neutros lamentandi materia. Ego itaque cui non dolendi ratio deest nec
ignorantie solamen adest, velut in confinio duorum populorum constitutus ac simul ante retrorque prospiciens, hanc non acceptam a patribus
querelam ad posteros deferre volui
Ci sono voluti mille anni, più o meno, ma dopo tanto parlare di translatio
solo qui, finalmente, abbiamo il manifesto nel quale la si riconosce per
quello che essa è; se ne invoca l’urgente e oggettiva necessità, e si confessa
la soggettiva disposizione d’animo che rende dolorosa e intollerabile quella
137. Francisco Rico ha individuato in una lettera di Gerolamo, XXXIV 1 (PL 20, col.
448), una parziale ma precisa fonte di Petrarca («Animi effigies. L’Africa nel prologo alle
Familiari», Quaderni petrarcheschi, 11 (2004), pagg. 217-228). Aggiungo anche che a questo
punto, dopo un percorso un po’ tortuoso, sono arrivato ad agganciarmi al libro dello stesso
Rico, El sueño del humanismo. De Petrarca a Erasmo, nueva edición, corregida y aumentada, Barcelona: Destino, 2002 (la prima: Madrid: Alianza Editorial, 1993, sulla quale è
condotta la traduzione italiana, Torino: Einaudi, 1998), al quale rimando in toto proprio per
la caratterizzazione della «sognata» translatio umanistica e per il ruolo decisivo, in essa, del
padre Petrarca (le prime pagine del libro, del resto, muovono da una serie di citazioni sue).
Sul passo citato sopra ha scritto Etienne Gilson, «Notes sur une frontière contestée», Archives
d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge, 25 (1958), pagg. 59-88, in particolare pagg.
81-88, in un tentativo, non felice e non all’altezza di quel grande maestro che egli è stato,
di appiattirne e banalizzarne il significato.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
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posizione «in confinio duorum populorum». Ammetto che è facile cedere
alla retorica, ma credo che chiunque, arrivato a questo punto, debba provare
qualcosa che assomiglia al sollievo, nel riuscire a guardare oltre l’enorme
macigno che contemporaneamente indicava e bloccava la strada. L’equivoco di una translatio che avrebbe già ripetutamente trionfato senza che
se ne fosse denunciata e sofferta la mancanza, e dunque senza essere mai
stata veramente voluta, si è infatti dissolto. Ora essa è lì, perfettamente
definita nei suoi tratti essenziali e negli adempimenti che da questo
momento comincia a esigere: e Petrarca è precisamente l’intellettuale che
ha messo a fuoco la questione e che, entro l’orizzonte europeo, è stato
capace di agire di conseguenza.
Lo fa sin dall’inizio, a partire dalla stagione che diremmo «romana» dell’Africa, del De viris, dei Rerum memorandarum libri, e proseguirà instancabile per tutta la vita, sino alle violente polemiche della vecchiaia, segnatamente
il De ignorantia138, che rivendica contro lo scientismo, moderno il valore
perenne dell’etica classica fecondata dal cristianesimo, e il Contra eum
qui maledixit Italie139, che in nome di una continuità spirituale tutta da
riscoprire è interamente impegnato a condannare in maniera dura e
persino feroce la presunta egemonia culturale francese: della translatio
138. Rimando per ciò all’ampia introduzione a F. Petrarca, De ignorantia. Della mia
ignoranza e di quella di molti altri, a cura di Enrico Fenzi, Milano: Mursia, 1999.
139. Ne abbiamo la recente edizione critica a cura di Monica Berté, Firenze: Le Lettere
[VII Centenario della nascita di Francesco Petrarca & Comitato nazionale], 2005. La stessa Berté
ha curato anche l’edizione critica dell’opuscolo di Jean de Hesdin che ha dato occasione alla
risposta petrarchesca: Jean de Hesdin e Francesco Petrarca, Messina: Centro Interdipartimentale di Studi umanistici, 2004. Ma si veda sempre F. Petrarca, In difesa dell’Italia (Contra
eum qui maledixit Italie), a cura di Giuliana Crevatin, Padova: Marsilio, 2005 (prima ed.,
1994), per la bella introduzione e le note. Scrivendo a Petrarca in esaltazione della Francia
e di Parigi in particolare, Jean de Hesdin citava l’Architrenius di Jean de Hauville, II 484-493
(ed. Berté, pag. 152, § 95), ed è qui, nel Contra eum, che Petrarca gli ribatte, citando a sua
volta II 486, (vedi sopra, nota 111): «O que monstra sermonis, que verborum inculcatio, non
tantum lectori nauseam incutiens ac dolorem capitis, sed risum eliciens ac sudorem,
usqueadeo, dum vult omnia dicere, nichil dicit! Unum ex omnibus attingendum est, quo
cunta conicias: ‘Rosa –inquit– mundi, balsamus orbis’: O fetidum balsamum, o olentem
rosam! Equidem ex omnibus civitatibus, quas multas ab ineunte etate nunc negotio tractus,
nunc videndi discendique desiderio circuivi, olentiorem nulla vidi; una excipiatur Avinio,
que hac in parte miserie principatum tenet» (ed. Berté, §§ 242-243, pagg. 84-86, = ed. Crevatin,
pag. 124). Petrarca soggiornò a Parigi durante il suo viaggio nel nord dell’Europa nel 1333:
ne parla, lasciando in sospeso il giudizio, in Fam. I 4, 4 (vedi Silvia Rizzo, nella misc. di
studi per Giuseppe Billanovich, Vestigia, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pagg.
607-610, per la fonte apuleiana, Metam. II 1-2, e per la data della lettera) e nella Posteritati,
§ 21 (pag. 10 delle Prose ricciardiane). E soprattutto la Sen. X 2 (vedi avanti, nel testo).
98
ENRICO FENZI
solo l’Italia, invece, custodisce la chiave segreta e il desiderio, e può dunque
prepararsi a farne il lievito potente della rinascita140. Tutto Petrarca, insomma,
può ben essere letto alla luce di una programmatica volontà di translatio
che irrompe nel quadro culturale d’Europa e lo sovverte e lo rinnova, e il
successo dell’operazione mostra come meglio non si potrebbe l’incerta
sostanza e l’equivoca ideologia che aveva sin lì regolato i conti con l’eredità
classica. Di ciò non è tuttavia possibile parlare in questa occasione come si
dovrebbe, ed è perciò meglio stringere il discorso attorno a qualche nodo
specifico, sperando di gettare nuova luce su cose di per sé già note. Il passo
appena citato dai Rerum memorandarum libri, databile presumibilmente
attorno al 1344, già è uno di tali nodi: di due altri vorrei brevissimamente
parlare, e cioè dell’incoronazione capitolina, nell’aprile del 1341, e dell’egloga IV del Bucolicum carmen, Dedalus, del 1346.
Quello dell’incoronazione di Petrarca in Campidoglio è un capitolo ben
conosciuto e ampiamente studiato, anche se molte circostanze restano
misteriose, per non dire sospette, a cominciare dal racconto del doppio
invito giunto nel corso della stessa giornata, l’1 settembre 1340: prima
140. A far saltare i nervi di Petrarca sono state certamente anche le parole che il dottore
in diritto canonico Ansel Choquart già aveva pronunciate nell’occasione dell’ambasceria con
la quale, nell’aprile 1367, aveva cercato di dissuadere Urbano V dal tornare a Roma. Choquart
(il cui discorso è ripetutamente citato da Hesdin) aveva infatti rispolverato l’idea che lo
«studio» si era trasferito dall’antica Roma a Parigi sin dai tempi e per merito di Carlo Magno,
e che con lo «studio» Parigi aveva ereditato la «gloria dei Romani». Vedi Berté, Jean de Hesdin,
pag. 33 ss., che cita il discorso di Choquart così com’è riferito da Charles Du Boulay sotto
il titolo: Propositio notabilis facta coram papa Urbano V et cardinalibus ex parte regis Franciae nella sua Historia Universitatis Parisiensis, Paris: De Bresche, 1665-1673, IV (1668),
pagg. 396-412 (pag. 408: «prout cuicumque patet quod studium translatum fuit a Roma Parisius per B. Carolum Magnum et haec gloria Romanorum Parisius in Gallos est translata»). Vedi
pure, oltre la bibliografia citata dalla Berté, É. Jeauneau, Translatio studii, pagg. 33-34, che
cita con maggiore ampiezza il passo e mette in rilievo un «adattamento» che Choquart opera
su un passo del De bello gallico di Giulio Cesare, VI 13, 11-12, relativo agli usi sociali e alla
cultura dei Druidi, sì da poterlo interpretare come una testimonianza di un antico primato
francese. Ma vedi ancora il saggio dedicato alla controversia da Grover Furr, «France vs. Italy:
French Literary Nationalism in ‘Petrarch’s Last Controversy’ and a Humanist Dispute of ca.
1395», [in rete:] http://www.chss.montclair.edu/english/furr/pmr.htlm [pagina consultata in
data 30-VI-2007], originalmente nei Proceedings of the Patristic, Medieval and Renaissance
Conference della Villanova University, 4 (1979), e vedi Ezio Ornato, «L’intertextualité dans
la pratique littéraire des premiers humanistes français. Le cas de Jean de Montreuil», nel vol.
Auctor et Auctoritas. Invention et conformisme dans l’écriture médiévale. Actes du colloque
tenu à l’Université de Versailles-Saint Quentin-en-Yvelines (14-16 juin 1999), dir. Michel
Zimmerman, Paris: École des Chartes, 2001, pagg. 231-244 (nella prima parte del saggio si
analizza il discorso di Choquart).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
99
quello del senato di Roma, poi, verso le quattro del pomeriggio, quello
parigino, per il tramite di Roberto de’ Bardi, cancelliere dell’Università,
secondo quanto Petrarca stesso scrive nella Fam. IV 4. Ma non è il caso di
entrare in troppi particolari, e basta forse dire che sia l’invito parigino che
quello romano fanno certamente parte di una ben architettata operazione
(per non dire invenzione) tutta petrarchesca che sembra aver trovato la
sua sponda migliore non tanto nella Roma dei Colonna, quanto piuttosto
nella Napoli di Roberto d’Angiò141. Come che sia, il dato macroscopico che
emerge e che, nonostante tutto, è rimasto alquanto in ombra, è precisamente
il significato simbolico e la carica polemica dello scontro tra Parigi e Roma
che Petrarca mette in scena. È vero: nell’immediato Petrarca non polemizza
affatto, e si dipinge come effettivamente dispiaciuto nel declinare l’invito
parigino. Ma le cose sono quelle che sono, clamorosamente evidenti. Da
una parte sta Parigi, la capitale politica e culturale del mondo moderno, e
il concreto prestigio della sua Università. Dall’altra, una sorta di città inesistente, un puro nome: Roma e, in Roma, il Campidoglio. Ma un nome
capace da solo di evocare un altro mondo, un’altra dimensione dello
spirito...142 Petrarca non ha in realtà alcuna esitazione, e dobbiamo immaginarlo perfettamente consapevole della portata del suo gesto quando
141. Per maggiori particolari vedi Ugo Dotti, Vita di Petrarca, Roma & Bari: Laterza,
1987, pagg. 78-89, e, di Petrarca, i resoconti offerti in Fam. IV 7 e 8, e soprattutto in Epyst.
II 1, a Giovanni Barrili.
142. Anche se non è qui il caso di approfondire il discorso, è almeno interessante rilevare la forte carica simbolica insita nella scelta del Campidoglio, del tutto evidente anche in
un testo petrarchesco che andrebbe meglio analizzato, l’egloga III del Bucolicum carmen,
Amor pastorius. Tale scelta tanto più spicca quanto più la si rapporta alle reali e assai degradate condizioni del luogo, adibito a mercato di capre e legumi (onde i nomi invalsi di Monte
Caprino e Fabatosta). Per una prima ricognizione sul tema (ma sono molte le voci importanti), vedi almeno Fritz Saxl, «The Capitol during the Renaissance. A Symbol of the Imperial Idea», in Lectures, London: The Warburg Institute & University of London, 1957 (Nendeln
& Liechtenstein: Kraus Reprint, 1978), pagg. 200-214; Richard Krautheimer, Rome. Profile of
a City, 312-1308, Princeton N. J.: Princeton University Press, 1980, in ispecie pagg. 285-288
e pagg. 366-367; Charles L. Stinger, «The Campidoglio as the locus of Renovatio Imperii in
Renaissance Rome», in Art and Politics in Late Medieval and Early Renaissance Italy, 12501500, edited by Charles M. Rosenberg, Notre Dame Ind.: University of Notre Dame Press,
1990, pagg. 135-156 (pag. 153: «Venerated as a symbol of the imperial idea, the Capitoline
Hill mythically embodied renewed Rome’s imperial vocation», ecc.); Dunia Filippi, «Il Campidoglio tra alto e basso medioevo: continuità e modifiche dei tracciati romani», Archeologia
Medievale, 27 (2000), pagg. 21-37, con ampia bibliografia; Augusto Fraschetti, «Il Campidoglio: dal tardoantico all’alto medioevo», in Roma nell’altomedioevo (Settimane di Studio del
Centro Italiano di Studi sull’alto medioevo, XLVIII), Spoleto: Presso la Sede del Centro, 2001,
I, pagg. 31-56.
100
ENRICO FENZI
mostra di rifiutare Parigi e di scegliere Roma: si tratta infatti, né più né
meno, della clamorosa rottura nei confronti di uno dei più solidi miti culturali correnti e insomma di una dichiarazione di guerra che se per il momento
è tutta implicita, affidata più ai fatti che alle parole, non tarderà a diventare esplicita ed a svilupparsi negli anni in maniera limpida e coerente. Si
osservi intanto che là dove egli riassumerà il suo giudizio su Parigi, nella
famosa Senile X 2 a Guido Sette, de mutatione temporum (1367-1368), §
33, Petrarca, a fronte dei disastri provocati dalla guerra dei cent’anni, riconosce e rievoca come perduta la passata grandezza della città, ma sottolinea pure come la sua fama fosse per larga parte immeritata e come il suo
prestigio culturale si fosse basato precisamente su ciò ch’egli aveva sempre
combattuto: gli scolasticorum agmina, i disputanti a suon di sillogismi, i
sermoni:
Ubi est enim illa Pariseorum que, licet semper fama inferior et multa
suorum mendaciis debens, magna tamen hauddubie res fuit? Ubi scolasticorum agmina, ubi studii fervor, ubi civium divitie, ubi cuntorum
gaudia? Non disputantium ibi nunc auditur sed bellantium fragor; non
librorum sed armorum cumuli cernuntur; non sillogismi, non sermones,
sed excubie atque arietes muris impacti resonant [...].
Anche per Petrarca, dunque, Parigi è stata una capitale del sapere, ma
in senso affatto negativo: è stata infatti la capitale dell’«insanum et clamosum
scolasticorum vulgus»143, e cioè del detestabile sapere di tipo dialettico e
sillogistico contro il quale egli, «in confinio duorum populorum», ha instancabilmente contrapposto la necessità della translatio, e cioè del ritorno al
dimenticato patrimonio della cultura classica, finalmente inteso nella sua
vera e sempre attuale essenza. Del resto, si veda ancora la condanna della
litigiosa Parigi e della sua «petulante» Università, metonimicamente designata attraverso il dantesco «vico degli Strami» (Par. X 137), nel De ignorantia: «contentiosa Parisius ac strepidulus Straminum vicus»; nella Senile
143. De ignorantia, § 155, pag. 274. Va tuttavia ricordato che questa condanna di Parigi
come capitale di un sapere affatto negativo non è nuova. Jacopone già scriveva, infatti, che
lo spirito religioso era in decadenza proprio per colpa dell’università parigina, che aveva
stravolto e indirizzato per mala via l’originario insegnamento francescano: «[...] non ci è
relïone. | Mal vedemo Parisi, che àne destrutt’Assisi: | co la lor lettoria messo l’à en mala
via» (91, 1-3, ed. Mancini). Con ciò, si sfiora appena un argomento di grande importanza,
che però finirebbe per portarci troppo lontano dal nostro (grossolanamente e sulle orme di
Toffanin troppo presto dimenticato, a un Umanesimo inteso come rigetto delle derive aristotelico-scientiste della scolastica, e come ritorno allo spirito dei Padri della Chiesa).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
101
IX 1, a Urbano V, del 1368, entro un ampio confronto tra la cultura francese e quella italiana ove dalla parte di quella stanno le rumorose chiacchiere
dei «dialettici» dell’Università, e dalla parte di questa la latinitas: «Radix
artium nostrarum et omnis scientie fundamentum, latine hic reperte sunt
litere et latinus sermo et latinitatis nomen quo ipsi gallici gloriantur [...]
Et quid, oro, tot tantarum rerum studiis quod obiciant habent? Nisi forte,
ut est gens sibi placens et laudatrix sui, unus his omnibus fragosus Straminum vicus obicitur»; nel Contra eum, ove i filosofi disputanti presso le
arcate del Petit Pont già descritti da Guido de Bazoches si trasformano in
un’accolita di donniciole e ragazzi occupati ad esaltare se stessi e a diffamare l’Italia : «Nominatim Gallo nostro gratulor, qui bellum mecum et cum
Italia et cum veritate suscepit, nusquam, puto, triumphaturus de nobis, nisi
in arcu Parvi pontis vel in vico Straminum, famososissimis nunc locorum
omnium nostri orbis, mulierculis puerisque plaudentibus et quicquid contra
Italiam dictum fuerit consona voce laudantibus»144.
Tutto quanto abbiamo letto sin qui della Parigi parens e fons scientiarum, e reincarnazione della biblica Cariath Sefer, è di colpo ribaltato
con un gesto la cui plurima oltranza polemica e addirittura eversiva non è
stata forse percepita sino in fondo. Petrarca, infatti, attacca contemporaneamente su due fronti, perché da un lato contesta il valore di quel sapere
scolastico del quale l’Università di Parigi era il monumento, ma irrompe
pure in un campo che sino a poco tempo prima (è opportuno ricordarlo)
era stato dominato dall’iniziativa politica, culturale e giuridica dei «regalisti»
francesi, i quali alla doppia guerra contro l’universalismo imperiale e quello
papale avevano accompagnato una parallela opera di costruzione di una
forte e articolata ideologia nazional-monarchica –la stessa che, su altro
piano, già aveva suscitato l’irriducibile opposizione di Dante. Sì che, a differenza di come talvolta la si pensa, l’iniziativa di Petrarca è diretta contro
un sistema tutto francese già ampiamente collaudato, che con qualche schizofrenia rivendicava per sé e però insieme tendeva a emarginare una possibile continuità «romana», non negandola ma risolvendola interamente entro
la centralità prima carolingia e poi capetingia. Petrarca coglie lucidamente
i termini di una siffatta schizofrenia, ancora evidente, per esempio, nelle
144. Rispettivamente, De ignorantia, § 143, pag. 266; Sen. IX 1, 37; Contra eum, ed.
Berté, § 221, pag. 78 = ed. Crevatin, pag. 116. Per il Petit Pont, vedi sopra, nota 114. Queste
citazioni mi offrono l’occasione di correggere l’errore che è nel commento della Crevatin al
passo del Contra eum, pag. 172, nota 171, e che io ho ripetuto nelle note al De ignorantia,
pag. 448, secondo il quale il Petit Pont sarebbe il ponte avignonese di S. Bénézet. Ma l’identificazione corretta con il ponte parigino è ora nell’ed. Berté, ad loc.
102
ENRICO FENZI
simpatie francesi, tutte leggibili in chiave anti-romana, per la figura di
Alessandro Magno, e contesta alla radice le valenze culturali e in senso
lato civilizzatrici di quella pretesa centralità. Né si tratta, in lui, di una battaglia circoscritta o peggio episodica. Tutt’altro. Le frasi sopra citate non sono
che le punte evidenti di un continuum ch’è tutto suo e che lo caratterizza,
per quanto qui c’interessa, come il solitario e però vittorioso campione di
una translatio che gli appare, a quel punto, ancora irrealizzata e però indifferibile. Non si tratta dunque di andare in cerca di citazioni: senza esagerazione, ogni scritto di Petrarca sta dentro questo orizzonte, dalle opere
«romane» della prima maturità, come s’è detto, alle polemiche della
vecchiaia145. Su un testo, tuttavia, vorrei fermarmi un poco di più, tanto è
singolarmente e direi tecnicamente pertinente al nostro discorso.
Nell’egloga IV del Bucolicum carmen, Dedalus, Petrarca attacca in
maniera diretta e radicale il mito della supremazia letteraria francese, e lo
fa proprio entro il quadro strutturante della translatio, rivendicando all’Italia il possesso dell’eredità del mondo antico146. Così, egli non fa che riprendere e potenziare al massimo quel carattere tipico della tradizione italiana
sempre impregnata di classicismo, e sempre disposta a vagheggiare il futuro
come restaurazione di quello stesso grande passato che continuava a
145. Ad ogni buon conto, tornando a rinviare alle opere sin qui ricordate, rimando
ancora una volta al De ignorantia e in particolare all’Introduzione e alle abbondanti note
che corredano il testo.
146. Per le righe che seguono rimando al saggio nel quale ho ridiscusso le questioni poste
dall’egloga e il suo senso complessivo: Dedalus (Petrarca, Buc. Carm. IV), ora in corso di
stampa nel vol. 7 della rivista annuale Letteratura italiana antica. Per il testo, sostanzialmente
ancora basato sulla vecchia edizione di Antonio Avena: F. Petrarca, Bucolicum Carmen, a
cura di A. Avena, Padova: Soc. Cooperativa Tipografica, 1906 (ma esiste ora l’edizione diplomatica dell’autografo: Domenico De Venuto, Il «Bucolicum carmen» di F. Petrarca. Edizione
diplomatica dell’autografo Vat. Lat. 3358, Pisa: ETS, 1990: dallo stesso De Venuto si aspetta
l’edizione critica per il «Petrarca del centenario»), si ricorra alla recente edizione con ottima
traduzione italiana a fronte: F. Petrarca, Bucolicum carmen, a cura di Luca Canali, collaborazione e note di Maria Pellegrini, San Cesario di Lecce: Manni, 2005. Ma, per le note, si
ricorra pure all’edizione tedesca: Das «Bucolicum Carmen» des Petrarca. Ein Beitrag zur
Wirkungsgeschichte von Vergils Eclogen. Einführung, lateinischer Text, Übersetzung und
Kommentar zu den Gedichten 1-5, 8 und 11, Bern, Berlin, Frankfurt/M-New York, Paris &
Wien: Peter Lang, 1991, oppure alla francese, più recente: F. Petrarca, Bucolicum Carmen,
édité par Marcel François & Paul Bachmann, avec la collaboration de François Roudaut,
préface de Jean Meyers, Paris: Champion, 2001. Tocca solo di passaggio l’egloga petrarchesca il saggio di Philippe Morant, «Pétrarque et Philippe de Vitry», in Dynamique d’une
expansion culturelle. Pétrarque en Europe: XIVe-XXe siècle. Actes du XXVIe congrès international du CEFI, Turin et Chambéry, 11-15 décembre 1995, édité par Pierre Blanc, Paris: Champion, 2001, pagg. 163-174.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
103
confortare l’idea di una comune identità nazionale. Più in particolare, nell’eloga il personaggio autobiografico di Tirrenus, mentre è solo in un bosco
di faggi situato presso le sorgenti dell’Arno e del Tevere, riceve in dono da
Dedalo, il celebre artefice greco, una cetra meravigliosa, alla quale invano
aspira l’altro interlocutore, Gallus (forse il teorico dell’Ars nova Philippe
de Vitry, che pure Petrarca conosceva e stimava). Con ciò Petrarca vuole
dire che la sua vocazione di poeta si affermò sùbito nel segno dei due
fiumi che avrebbero poi presieduto alla sua opera, il toscano Arno (la
poesia volgare) e il romano Tevere (la poesia latina). Il suo Parnaso è
dunque italiano, e italiani sono i due fiumi che ne discendono e alimentano la sua poesia. Il significato simbolico è chiaro, dal momento che attraverso Dedalo Petrarca può alludere all’antica translatio artium che ha visto
il culto di Apollo, e dunque la poesia, migrare dalla Grecia a Roma, e può
rivendicare apertamente la moderna translatio che, ancora per il tramite di
Dedalo, ha trasportato il dono della poesia in Toscana, affidando proprio
a lui, Petrarca, il compito di farla rinascere. Il che resta coerente con il
trasparente senso polemico di tutto il discorso, che in nome dell’eredità
classica e del grande presente vuole rivendicare all’Italia quel primato
poetico e culturale che la Francia, nel quadro di una più generale
translatio imperii ad Francos, pretende da tempo per sé. Gallus, nell’egloga, vorrebbe appunto quella cetra, e s’illude di poterla avere in forza del
suo potere e della sua ricchezza, senza capire che non è cosa che si possa
comperare, che in ogni caso già appartiene ad altri, e che egli è ormai
troppo vecchio per riuscire a usarla degnamente. Il che significa, ancora,
che la Francia è ormai fuori tempo, e se ha avuto la sua occasione, ebbene,
l’ha già perduta e nulla può contro l’improvvisa e prepotente rinascita dell’Italia che sola, per storico privilegio, possiede la capacità di rivitalizzare gli
antichi saperi. Il fatto è, insomma, che i francesi, per Petrarca, non hanno
alle spalle una tradizione e uno stratificato patrimonio di abilità tali da costituire un corpus modellizzante neppure alla lontana paragonabile con la
tradizione greca e poi latina e poi italiana: in altri termini, mai hanno beneficiato di alcuna translatio. E quella e solo quella è la tradizione della
grande cultura e della grande poesia, e solo da essa può nascere altra
cultura e altra poesia, mentre i francesi le sono estranei e irrimediabilmente
in ritardo nel farla propria, anche se in qualche modo, parziale ma fondato
su una reale ammirazione e invidia, come testimonia Gallus, ne avvertono
la necessità. Ma la loro è una sera cura, appunto: un’ambizione giustificata
ma tardiva. Non sono loro gli eredi della cetra di Dedalo, ma, per il tramite
dei romani, sono gli italiani, i «tirreni», e tra essi proprio lui, Petrarca...
A chiarire meglio tutto questo, mi viene in mente una battuta di Montale,
104
ENRICO FENZI
tanto perfida quanto politicamente scorretta, come oggi si direbbe, il quale
affermava che «non ci può essere un grande poeta bulgaro»147. Più o meno
Petrarca dice la stessa cosa: non ci sono le condizioni perché possa esistere
un grande poeta e una grande tradizione letteraria francese, perché la
Francia intera sconta il deficit culturale di una translatio mancata. Lapidariamente, dunque, con le parole della già citata lettera a Urbano V dalle quali
i francesi sono rimasti a lungo e profondamente feriti, «Nullus est gallicus,
nullus doctus in Gallia»148.
7. LA
TRANSLATIO ALLA PROVA DELLE IDENTITÀ NAZIONALI
Come ho detto e ripetuto, di Petrarca molto altro –forse tutto, o quasi
tutto– si dovrebbe citare, e con altrettanta pertinenza rispetto al tema. È
tuttavia il momento di concludere questo lungo discorso, ed è opportuno
farlo con un po’ più di agilità limitandoci a suggerire alcune rapide ipotesi
d’insieme.
Potremmo dire, allora, che Petrarca è colui che si inserisce nel vuoto
lasciato dal crollo degli universalismi medievali e profittando della evidente
e plurima crisi nella quale la Francia è precipitata con la fine della dinastia
capetingia e il rovinoso inizio della guerra dei cent’anni, ne affonda le
pretese egemoniche, ne scardina l’asse culturale di riferimento medievalcarolingio e inventa, in suo luogo, il nuovo assoluto culturale europeo: la
translatio umanistico-rinascimentale e la sua trascendente italianità. In
effetti, la lunga crisi francese è essenziale per collocare l’altrettanto lunga
e paziente iniziativa di Petrarca, il quale non ha dinanzi a sé, come Dante,
un regno al culmine di una lunga progressione positiva, ma al contrario un
regno che dopo la morte di Filippo il Bello, nel 1314, entra in una spirale
negativa, ed è poi impoverito dalla peste, lacerato dalle jaqueries, devastato
dalla guerra, sconfitto militarmente (Crécy è del 1347, e Poitiers del 1356:
147. Sono certo di averla letta, da qualche parte e molto tempo fa, ma confesso di non
saper indicare, oggi, la fonte. Ho consultato al proposito alcuni amici esperti «montalisti» che
mi hanno confermato sia l’autenticità della frase che la sua attuale irreperibilità entro il corpus
delle opere del poeta, il che mi fa sospettare che essa, proprio per la sua scorrettezza, sia
stata cancellata nel passaggio dal momento orale e giornalistico alla definitiva versione scritta.
148. Sen. IX 1, 36. Sul punto, vedi l’indignata replica contro tantam iniuriam di Jean
de Hesdin, ed. Berté, pag. 150, e la contro-replica di Petrarca, che torna a citare le sue stesse
parole, nel Contra eum, § 221, pagg. 78 ss. = ed. Crevatin, pagg. 116 ss.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
105
alle due sconfitte è dedicata, non a caso, la dodicesima e ultima egloga
del Bucolicum carmen, Conflictatio) e in piena recessione territoriale.
Di più, c’è un fatto preciso che ci aiuta a capire in quale prospettiva Petrarca
potesse percepire i destini del regno di Francia. Fatto prigioniero a Poitiers,
il re Giovanni il Buono non è neppure in grado di pagare la prima rata del
proprio riscatto agli Inglesi, che intanto hanno riottenuto i territori compresi
tra la Loira e i Pirenei, e sono i Visconti, nel 1360, a pagarla per lui. Gli stessi
Visconti, poi, alla fine dell’anno mandano Petrarca come loro ambasciatore a Parigi a congratularsi con il re, quando gli Inglesi lo rilasciano (ma
poi dovrà riconsegnarsi a loro, e morirà prigioniero a Londra, nel 1364) e
il poeta attraversa allora una Francia irriconoscibile, «opulentissimum in
cineres versum regnum videns» (Sen. X 2, 32: ma si veda anche la prima
parte della Fam. XXII 14). Ma la sconfitta militare e il disastro politico ed
economico non vanno da soli. Anche il primato culturale è ormai un ricordo,
e si dovrà aspettare la metà del ‘400 e oltre perché la Francia possa cominciare a rilanciare la propria egemonia, e Petrarca è spettatore troppo lucido
per non cogliere i segni di questa debolezza e farsene testimone. E lo fa
proprio nell’orazione allora tenuta a corte, alla presenza del re, quando
immediatamente premette di parlare in latino poiché «linguam gallicam nec
scio, nec facile possum scire»149. Si tratta, evidentemente, di un’aperta e
quasi provocatoria menzogna che intende sottolineare la distanza che divide
il mondo culturale dell’oratore italiano e «romano» da quello municipale e
subalterno del re francese. Sotto Parigi, insomma, sono arrivate le truppe
inglesi e arriveranno poi le borgognone, ma certo non vi è mai arrivata
quella translatio delle arti e dei saperi che Petrarca ostensibilmente maneggia
come cosa tutta sua.
Ma le maneggia, quelle arti e quei saperi, sullo sfondo di un’Italia divisa
e tormentata nella quale lo «stato regionale» dei Visconti poteva apparire
come la realtà più ampia e solida, e sullo sfondo di un’Europa in cerca
di ricomposizioni territoriali e identità nazionali che si stavano rivelando
ancora incerte e difficili. In questa situazione, l’iniziativa assolutamente
149. F. Petrarca, Collatio coram domino Iohanne Francorum rege, in Opere latine, a
cura di Antonietta Bufano, con la collaborazione di Basile Aracri & Clara Kraus Reggiani, introduzione di Manlio Pastore Stocchi, Torino: UTET, 1975, pagg. 1286-1309 (1288). E sarà anche
da sottolineare che, in apertura, Petrarca afferma che sarebbe stato più opportuno rivolgersi
al re di Francia in una lingua che a costui fosse più acceptior e notior di quanto fosse la latina,
e insomma trova modo di sottolineare in vario modo che il latino è lingua sua, e non degli
interlocutori francesi. Per tutto ciò, vedi già le belle pagine di Carlo Dionisotti, «Tradizione
classica e volgarizzamenti», in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino: Einaudi,
1971 (prima ed., 1967), pagg. 144-146.
106
ENRICO FENZI
geniale –politicamente geniale, prima di tutto– di dar corpo a una renovatio per dir così transpolitica, che prevedeva la formazione di una societas
di intellettuali tendenzialmente disancorata da condizionamenti e compromessi con i poteri locali, non poteva non avere successo, tanto più che
tale iniziativa era condotta con una consapevolezza e una capacità realizzatrice perfettamente adeguate allo scopo. Insomma, la mancanza di una
diretta sponda politica si è trasformata nell’ingrediente più importante del
successo del progetto, e ne ha liberato le potenzialità. La grande proposta
della mise au jour di un retroterra fondante e invero essenziale per un’idea
di civiltà che si rifacesse ai modelli della romanità e avesse al proprio
centro una corrispondente «idea» dell’Italia che a sua volta anticipasse le
attese e ai bisogni della nascente Europa, ebbene, tutto ciò scavalcava in
un sol colpo i mille problemi di un puzzle politico tanto complicato quanto
al momento irrisolvibile, e affrontava per la prima volta l’ordine vero della
translatio. In altri termini, potremmo ben ripetere che Petrarca appare
come l’unico che veramente ha capito che cosa tale translatio significasse
e quale somma di adempimenti comportasse, e ha dedicato la vita a
metterla in atto. Così, si deve a lui se nell’immaginario collettivo, non
importa quanto semplificatorio e grossolano, il Rinascimento italiano è
apparso a lungo e forse tuttavia appare come il terzo momento forte della
nostra civiltà occidentale, dopo la Grecia e dopo Roma. Il suo lavoro è
stato naturalmente enorme e, al suo tempo, senza paragoni possibili. Ne
danno testimonianza, tra l’altro, tutte le opere antiche che egli ha letto,
che ha corretto, interpretato e postillato, e che ha rimesso in circolazione
attraverso le sue opere latine e i suoi scambi epistolari. Ma anche ciò che
non ha conosciuto ne dà testimonianza. Petrarca non ha mai imparato il
greco, eppure possedeva e venerava un grosso codice delle opere di
Platone (Parigino greco 1807, il cod. A dei moderni editori) nonostante
il contenuto gli restasse inaccessibile150, e la sua conoscenza del filosofo
si limitasse al Timeo nella traduzione di Calcidio. Ma a dispetto di ciò, in
virtù di quella che chiamerei una straordinaria intuizione culturale maturata a partire dai testi di sant’Agostino, egli ha condotto un’altra delle sue
lunghe e vittoriose battaglie per ridimensionare l’autorità sin lì incontrastata di Aristotele, e per sostituirla con quella di Platone (a questo scopo
è dedicato il suo De ignorantia, che nel ‘400 sarà letto e postillato dal
150. Aubrey Diller, «Petrarch’s Greek Codex of Plato», Classical Philology, 59 (1964),
pagg. 270-272 (= Studies in Greek Manuscripts Tradition, Amsterdam: Hakkert, 1983, pagg.
349-351). Vedi Enrico Fenzi, «Platone, Agostino, Petrarca», in Saggi petrarcheschi, Firenze:
Cadmo, 2003, pagg. 519-552 (522-524).
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
107
Cusano)151, imponendo all’umanesimo, come ha scritto Cassirer, la grande
scelta tra i due filosofi, e spalancando dunque la porta al gran movimento
del platonismo rinascimentale.
Tutta la materiale fatica della translatio, tuttavia, e tutto l’impegno che
potremmo compendiosamente definire come filologico e storico, non basta.
In esso, infatti, agisce una potente molla interna, una forza… Petrarca ripropone il sapere antico con tanta convinzione ed efficacia perché non è
mosso solo da esigenze intellettuali, ma perché sa riattualizzare il modello
che l’antichità propone alla società del suo tempo attraverso una potente
e profonda spinta di natura esistenziale. Egli non finisce mai di riconoscersi nelle domande, nei tormenti, nelle speranze, negli affetti e insomma
nella «scienza della vita» dei grandi poeti e moralisti antichi, nei quali ritrovava con sempre rinnovata emozione lo specchio migliore attraverso il
quale conoscere se stesso e il proprio intimo ethos. Così, è proprio in nome
di questa conclamata continuità dell’esperienza umana che il presente può
e deve tornare al passato, e trasformarne il sapere in possesso per sempre:
ed è per questa via, per esempio, che riusciamo a intendere quella singolare e simbiotica intimità di Petrarca con Seneca, e che, avanzando lungo
questa traccia e leggendo Montaigne, pur così diverso, continuamente ritroviamo, quasi a contropelo, Petrarca (che si sa essere ben presente nei
sonetti dell’amico, Etienne de la Boétie)152. Lo ritroviamo nei molti luoghi
151. Nicola Cusano (1401-1464) ha letto e parcamente annotato l’opera latina di Petrarca
nei codici Cus. 53, 198 e 199 (contengono i due libri del De remediis), 200, conservati nella
biblioteca de St. Nikolaus Hospital di Bernkastel-Kues. Frutto curioso di tale rapporto, fomentato dal titolo dell’opera più famosa del Cusano, il De docta ignorantia, e responsabile in
passato di un’enfatizzazione forse eccessiva dell’influenza di Petrarca su Cusano, è il dialogo
composto nella seconda metà del ‘400 e falsamente attribuito a Petrarca De vera sapientia,
in due libri, il primo dei quali è costruito assemblando un passo tratto dalla parte intitolata
De sapientia dell’Idiota del Cusano, il dialogo I 12, De sapientia, del De remediis (ma gli interlocutori sono mutati in Orator e Idiota, come nel testo del Cusano), e una parte di autore
ignoto, forse lo stesso autore del falso. Il secondo libro, invece, finisce di ritrascrivere il De
sapientia del Cusano. L’editio princeps del testo pseudo-petrarchesco è del 1475, ed è stata
riprodotta poi come autentica nelle edizioni complete delle sue opere latine (Basilea: 1496,
1554, 1581; Venezia: 1501, 1503); la scoperta della sua falsità si deve all’Übinger (1887),
mentre la storia del falso è stata ricostruita da Klibanski (1937): per tutto ciò si veda la messa
a punto di Giovanni Santinello, «Nicolò Cusano e Petrarca», in Studi sull’umanesimo europeo.
Cusano e Petrarca - Lefèvre - Erasmo - Colet - Moro, Padova: Antenore, 1969, pagg. 7-42, il
quale pubblica in appendice le poche postille del Cusano al De remediis, ai Rerum memorandarum libri, al De otio e al De ignorantia.
152. Vedi ora Concetta Cavallini, «La Boétie et Pétrarque», nel vol. Les poètes français de
la Renaissance et Pétrarque, a cura di Jean Balsamo, Genève: Droz, 2004, pagg. 289-301.
108
ENRICO FENZI
degli Essais nei quali si esaltano gli antichi spiriti, tanto superiori ai moderni,
e il nutritivo colloquio con loro, e Roma, la più nobile delle città che
furono e saranno (della quale Montaigne è orgoglioso d’essere stato nominato cittadino: quasi una replica dell’incoronazione petrarchesca!). E ancora
dove Montaigne ripete il famoso paragone con le api, a proposito dell’imitazione creatrice (Fam. XXIII 19; Essais I 26), e soprattutto là dove sembra
di risentire le sentenze e le parole medesime del De ignorantia, sulla naturale superiorità dell’essere buoni rispetto all’essere dotti, e sull’inutilità di
conoscere la declinazione della parola «virtù» quando non la si sa mettere
in pratica, cosa che un contadino, miglior seguace della «vera filosofia» di
quanto non siano i filosofi, riesce invece a fare benissimo. Queste parole
vanno infatti lette, in Montaigne, non come una banale apologia della bontà
illetterata, ma piuttosto come la conferma di quella linea di appropriazione
sostanziale del messaggio morale degli antichi che Petrarca già duecento
anni prima ha rivendicato a sé, quale suo compito epocale153.
La vittoria relativamente facile della translatio petrarchesca nelle sue
istanze propriamente umanistiche e civilizzatrici è stata favorita dalla
distanza, dall’intatto prestigio e dall’universalità dei punti di riferimento ai
quali si rifaceva, certo non sminuiti dall’appello polemico e tutto ideale
alla prossima resurrezione della sepolta romanitas italiana. E ciò comportava pure un’inedita riflessione sul tempo e sulla profondità dei suoi cicli,
e imponeva una capacità nuova di astrazione e concentrazione intellettuale che finiva per sacrificare a una pervasiva nozione di «classicismo»
la dimensione nazionale e concretamente sociale, per non dire proprio
popolare, della cultura e del linguaggio. Ma quel sacrificio, che per la sua
parte e per quanto era materialmente possibile ha colpito anche Dante,
sul lungo periodo ha assunto valenze diverse e persino opposte.
Il disancoramento politico, infatti, e l’universalismo culturale che in
quella congiuntura è stato una delle condizioni essenziali del successo
dell’operazione di Petrarca, portava in sé anche le ragioni della sua trasformazione, inizialmente nascoste entro l’equivoco della sua virtuale italianità. Era in effetti del tutto naturale che dopo aver nutrito e per dir così posto
le basi unitarie della cultura europea ed essersi rivolto ed aver associato a
sé le sue élites intellettuali, tale progetto tornasse ad innervarsi nelle singole
unità nazionali, trovasse le sue reali controparti politiche e sociali, e comin153. Altro nome che non dovrebbe mancare è quello di Erasmo, ma mi limito per ciò
a rinviare al capitolo IX, De Erasmo a Petrarca, del volume di Francisco Rico, El sueño del
humanismo, pagg. 126-152, che lapidariamente conclude: «en sustancia Erasmo estaba en
Petrarca».
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
109
ciasse a procedere e infine a trasformarsi per vie proprie154. Ma ciò è avvenuto altrove, in Spagna e in Francia. Qui in particolare, nel corso del ‘500,
la recentissima e tuttavia operante eredità del rinascimento italiano è stata
storicizzata e riportata entro lo schema fondamentale dello sviluppo proprio,
ancorato a radici proprie, riscoprendo e aggiornando il discorso che Hesdin
faceva già duecento anni prima. La Francia torna allora a riproporsi quale
terminale europeo della translatio, e mentre prepotentemente si afferma
come l’erede naturale del meraviglioso «stile italiano», comincia a chiudere
o limitare all’essenziale l’attraversamento della parentesi petrarchista, e
riprende in mano, per contro, il filo della propria identità nazionale (è interessante ed anche un filo paradossale come proprio in questa chiave i polemici petrarchisti francesi della prima metà del ‘500 tornino ad esaltare il
Roman de la rose): essa ritrova, insomma, di là dalla lunga parentesi, i
propri «buoni tempi antichi», e inverando il presente nel passato recupera
per intero la propria storia. Ma ciò è esattamente quello che l’Italia non ha
potuto fare, perché il ritorno a Roma e alla sua eredità, privo di qualsiasi
sviluppo nella concreta dimensione storico-politica, si è trasformato inevitabilmente, anche à rebours, in un auspicio culturale, per quanto appassionato e sincero; è rimasto un ideale elitario che ha dato forma a una identità
altrettanto ideale ed altrettanto elitaria, confinata nella sfera sublimata
dell’arte e della letteratura, e in quella, drammatica, della riflessione e consapevolezza storica. Con momenti di intima tensione. Due sono i petrarchismi, infatti, che per un momento occupano la scena nei primi decenni
del ‘500 italiano: quello di Machiavelli, nel quale risuona ancora la forza
di quell’auspicio nell’originaria e potente genericità del suo appello a una
translatio in chiave nazionale e politica, e quello letterario di Bembo,
normativo e istituzionale. Ma il petrarchismo di Machiavelli è quello che,
sullo sfondo del collasso del «sistema» italiano, ha perduto, da sempre. Il
petrarchismo di Bembo è quello che, in quel collasso, ha vinto.
Questo è tuttavia un altro discorso. Restiamo invece ai termini della
translatio e al fatto che il deliberato puntuale attacco di Petrarca ha avuto
nei secoli seguenti l’onore di una lunga storia entro la cultura francese,
chiamata a confrontarsi con i suoi giudizi, tanto più che essi sembravano
154. Su questa linea, si veda soprattutto il recente volume di William J. Kennedy, The
Site of Petrarchism. Early Modern National Sentiment in Italy, France and England, Baltimore & London: The John Hopkins University Press, 2003. Ma avverto anche che per tutta
questa ultima parte il testo a cui faccio continuo e implicito riferimento è l’appena sopra
citato El sueño del humanismo di Rico, e qui in ispecie i tre ultimi capitoli che dell’età umanistica propriamente detta tracciano la lucidissima parabola finale.
110
ENRICO FENZI
ormai definitivamente incarnati nello splendore del Rinascimento italiano.
Importa dunque che il nome di Petrarca resti fortemente connotato dalla
sua polemica anti-francese che, per esempio, mette in difficoltà un ammiratore sincero come Jean de Montreuil155, e suscita invece l’animosa opposizione di Nicolas de Clamanges. Il caso è particolarmente significativo. La
miccia fu accesa dal cardinale Galeotto da Pietramala che nel 1394 scrisse
al Clamanges elogiandone lo stile latino, davvero eccezionale in un paese
sul quale gravava la severa diagnosi di Petrarca. Clamanges rispose sùbito
con due lettere, respingendo duramente quelle accuse, ma soprattutto tornò
sull’argomento anni dopo, in una lettera del 1423 a Renaud de Fontaines,
vescovo di Soisson 156. Qui, con tecnica squisitamente petrarchesca,
Clamanges non nomina mai l’avversario contro il quale polemizza, e si
limita a coprire di disprezzo la verbosa loquacitas dell’innominato, e la sua
farraginosa e inutile erudizione classica priva di serietà e nerbo morale157.
In breve, Clamanges ributta su Petrarca quelle stesse accuse che Petrarca
muoveva contro Jean de Hesdin, e finisce per riattualizzare quell’antica
contesa che evidentemente non ha perduto nulla del suo significato. Di
più, merita soprattutto rilevare che Clamanges non si limita a questo, ma
nel ribaltare nuovamente la questione si atteggia, egli stesso, al Petrarca
della situazione! Basta infatti vedere come rivendichi a sé, nel presente e
in Francia, quello stesso ruolo che Petrarca, «sul confine tra due popoli» si
attribuiva nel famoso passo dei Rerum memorandarum, I 19, sopra citato.
Scrive dunque Clamanges in una lettera a Gontier Coll di aver lavorato
affinchè l’eloquenza ormai sepolta in Gallia potesse rinascere e produrre
nuovi fiori, e di aver riaperto con il suo esempio una via già da troppo
tempo ostruita («ipsam eloquentiam diu sepultam in Galliis quodammodo
renasci novisque iterum floribus, licet priscis longe imparibus, repullulare
155. Vedi soprattutto Ezio Ornato, «La prima fortuna del Petrarca in Francia. I – Le letture
petrarchesche di Jean de Montreuil», Studi francesi, 5 (1961), pagg. 201-217, e «II – Il contributo del Petrarca alla formazione culturale di Jean de Montreuil», ibid., pagg. 401-414.
156. Per questo episodio rimando alla ricostruzione fatta da Dario Cecchetti, «Sulla
fortuna del Petrarca in Francia: un testo dimenticato di Nicolas de Clamanges», Studi francesi, 11 (1967), pagg. 201-222.
157. Andrebbe inserita a questo punto qualche considerazione sul più generale attacco
contro gli italiani (pavidi, chiacchieroni, traditori, privi di qualsiasi consistenza morale, ecc.)
che la cultura francese sviluppa nel corso del ‘500. Ma qui non posso che rimandare al
ricco e intrigante repertorio fornito da Lionello Sozzi, «La polémique anti-italienne en
France au XVIe siècle», Atti della Accademia delle Scienze di Torino. II. Classe di Scienze
morali, storiche e filologiche, 106 (1972), pagg. 99-190, che tra l’altro si presta a varie
considerazioni attualizzanti.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
111
laboravi […] meo exemplo previoque ducatu viam diutius obseptam aliquatenus aperui»). Clamanges nega dunque a Petrarca persino quel ruolo storico
che gli verrà universalmente riconosciuto, e per contro, con gesto di grande
significato, pone se stesso e la Francia al centro del rinnovamento umanistico. Egli rappresenta dunque un anello fondamentale nella trasmissione
della polemica dai tempi di Petrarca al maturo Rinascimento, e non è certo
un caso se, continuando a citare Petrarca per allusioni, nei primi anni del
‘500 s’infittisce la schiera di chi la ripiglia, da Robert Gaguin che ripete le
accuse di verbosità nel De origine et gestis Francorum compendium, a
Valeran de Varannes nel Carmen de expugnatione genuensi, Guillaume
Budé, De asse et partibus eius e altri, tra cui Symphorien Champier che
addirittura ristampa nel 1507 il testo di Hesdin nel suo Trophoeum Gallorum
quadruplicem eorundem complectens historiam158.
Naturalmente tutto ciò va riportato entro la costante, irriducibile preoccupazione egemonica dei francesi159, che spicca, per non fare che un
esempio facile ma specialmente significativo, in Du Bellay. Egli pubblica
nel 1549 i sonetti petrarcheschi dell’Olive: ebbene, nello stesso anno
pubblica anche la Deffence et illustration de la langue françoyse nella quale,
è vero, riconosce il valore di modello dei sonetti di Petrarca, ma sin dal prin158. Rispettivamente, Parigi: Kerver, 1501; Parigi: Niccolò da Prato, 1507; Parigi: Josse
Bade, 1514; Lione: Jeannot de Campis, 1507. Per quest’ultima indicazione, in particolare,
rimando ancora a D. Cecchetti, «Sulla fortuna del Petrarca», pag. 213: di questa stampa non
parla la Berté, Jean de Hesdin: vedi pagg. 27, nota 1, e 63-65. Sulle opere di Champier, vedi
Paul Allut, Étude Biographique et Bibliographique sur Symphorien Champier, Lione: Nicolas
Scheuring, 1859, in part. pagg. 149-152, per il Liber de quadruplici vita, entro il quale è
compreso il Trophoeum. Ma si vedano pure le correzioni e gli aggiornamenti di James F.
Ballard & Michel Pijoan M. D., «A preliminary check-list of the writings of Symphorien Champier», Bulletin of the Medical Library Association, 28 (1940), pagg. 182-188.
159. Nel quadro di questa preoccupazione annoto, del tutto a margine, un piccolo e
gustoso particolare. Il volume Quatuor libri amorum dell’umanista tedesco Konrad Celtis
(Norimberga: Sodalitas Celtica, 1502) si orna di una xilografia di Albert Dürer che rappresenta la Filosofia in trono; tra altri elementi, attorno stanno quattro medaglioni dedicati rispettivamente agli Egipciorum sacerdotes et Chaldei, rappresentati da Tolomeo; ai Grecorum
philosophi rappresentati da Platone; ai Latinorum poetae et rhetores rappresentati da Cicerone e Virgilio (ma il mezzobusto è solo quello di Virgilio); ai Germanorum sapientes rappresentati da Alberto Magno. In alto sta la scritta: Sophiam Greci vocant, Latini Sapienciam. |
Egipcii et Chaldei me invenere, Grecis scripsere, | Latini transtulere, Germani ampliavere.
Secondo questo modello di translatio in chiave tedesca proprio i francesi, come si vede,
sono assenti. Vedi The complete woodcuts of Albrecht Dürer, edited by Willi Kurth, introduction by Campbell Dodgson, New York: Dover Publ. Inc., 1963, pagg. 23-24 e pag. 146 (riproduzione a tutta pagina); Eugene F. Rice, The Renaissance Idea of Wisdom, Westport,
Connecticut: Greenwood Press, 1973 (prima ed., 1958), pagg. 96-97, e nota 11.
112
ENRICO FENZI
cipio afferma che in nulla la Francia è inferiore agli antichi greci e romani,
e che, al presente, essa è ormai in diritto di chiamare «barbari» gli altri. Ma
è alla fine che l’obiettivo polemico viene allo scoperto, là dove scrive che
«la France, soit en Repos, ou en Guerre, est de long intervale à preferer à
l’Italie, serve maintenant et mercenaire de ceux, aux quelz elle souloit
commander» (II 12), e nella breve, impetuosa Conclusion de tout l’Oeuvre
(una sorta di «marsigliese»: «marciate, Francesi…»), ove esorta a piller senza
remore d’alcun tipo i tesori antichi, ora che la forza e la sicurezza sono
tutte dalla parte della Francia: «Nous avons echappé du millieu des Grecz,
et par les Scadrons Romains penetré jusques au Seing de la tant desirée
France. La donq’ Francoys, marchez couraigeusement vers cette superbe
Cité Romaine: et des serves Despouilles d’elle (comme vous avez fait plus
d’une fois) ornez voz Temples et Autelz»160. Più chiari di così non si può
160. Cito dalle Œuvres complètes del Du Bellay, La Deffence, et illustration de la langue
françoyse, édité par Francis Goyet & Olivier Millet, Paris: Champion, 2003, I, rispettivamente
pagg. 75-76 e 81 (riproduce fedelmente l’edizione del 1549, e l’accompagna con un lungo
saggio ove largo posto è fatto a Bembo e a Sperone Speroni). Molto altro si dovrebbe aggiungere, anche se si finirebbe così nel campo diverso, anche se strettamente legato al nostro,
del petrarchismo. Si ricordi almeno che nel 1553 Joachim du Bellay compone un’ode assai
famosa, J’ay oublié l’art de petrarquizer, con la quale prende le distanze dal modello petrarchista della poesia d’amore, denunciato come mero prodotto culturale, sentimentalmente
falso e letterariamente artificioso. Non lo fa solo qui, del resto. Egli ripeterà infatti le stesse
cose nell’Elegie d’Amour, nel 1558, e ancora nel quarto sonetto dei Regrets, Je ne veulx feuilleter les exemplaires Grecs. In questi versi è soprattutto interessante l’opposizione di carattere storico-temporale che implica il ricorso al concetto di translatio: prima erano i francesi
quali legittimi titolari della poesia amorosa (l’Amore «estoit François»!); poi è arrivata la parentesi della falsità petrarchesca ad inquinare i semplici e onesti rapporti tra amanti; infine il
moderno poeta denuncia tale falsità con la forza che gli deriva dalla riscoperta eredità dei
suoi lontani predecessori. Siamo dinanzi, insomma, a un vero e proprio schema storiografico, che sembra conferire una consapevolezza maggiore a uno spunto topico già presente
nella poesia francese, per esempio in Héroët e in Mellin de Saint-Gelais, e poi nei poeti
della Pléiade, seppur con varie ambiguità, e in particolare in Jodelle. Costui è assai vicino
all’amico Du Bellay nel denunciare le erudite finzioni della lirica amorosa succube di modelli
stranieri: onde egli, per parte sua, dichiara la propria preferenza per la poesia antica del
proprio paese ed esalta, anche in questo caso d’accordo con Du Bellay, il Roman de la Rose,
la cui grandezza era già stata rivendicata, una generazione prima, da Molinet e da Lemaire
de Belges (si veda, di Du Bellay, il lungo componimento di 354 versi Ma passion qui n’a
peur, e ancora, per esempio, il sonetto La Roche de Caucase, où du vieil Promethe). Ma non
basta. Du Bellay dà altrove un severo giudizio sulla cultura italiana vecchia e noiosa, nel
sonetto Je me feray sçavant en la philosophie, e in uno dei suoi ultimi componimenti torna
ad attaccare la moda del «viaggio in Italia», dal quale si imparerebbe solo l’arte della finzione
e della menzogna, mentre nel sonetto 95 dei Regrets, Maudict soit mille fois le Borgne de
Libye, se la prende addirittura con Annibale, responsabile di aver aperto una via attraverso
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
113
essere, né più aggressivi nel riprendere quanto scriveva l’anno prima, in tono
assai più moderato, Thomas Sebillet, nella sua Art poétique françois: «Mais
en ce avons nous comme en toutes choses suivy notre naturel, qui est de
prendre des choses estrangeres non tout ce que nous y voions, ains seulement que nous iugeons faire pour nous, et estre a nostre avantage»161. Ma
assai significativamente parla di pillage e di despouilles anche Ronsard,
anch’egli ricco di umori polemici nei confronti del modello petrarchista,
nell’ode À sa lyre (Odes I 22, 29-36):
Por te monter de cordes et d’un fust,
voire d’un son qui naturel fust,
je pillay Thebe [Pindaro] et saccageay la Pouille [Orazio],
t’enrichissant de leur belle despouille.
Et lors en France avec toy je chantay,
et jeune d’ans sur le Loir inventay
de marier aux cordes les victoires,
et des grans Rois les honneurs et les glories.
Il quale Ronsard riprende pure il motivo della translatio nella sua veste
più canonica in un’altra delle sue odi, la II 20, À Antoine de Chasteigner
de la Rode de Posé, vv. 9-12:
Desus le Nil jadis fut la science,
puis en Grece elle alla,
Rome depuis en eut l’experience,
Paris maintenant l’a,
anche se, questa volta, non tanto nel quadro dell’esaltazione delle glorie
nazionali, ma in quello della mutevolezza incessante di ogni realtà umana162.
le Alpi mettendo in comunicazione la Francia e l’Italia. Egli sfoga anche altrove questi suoi
rancori (per esempio, nei sonetti 127 e 133 dei Regrets aggredisce rispettivamente la corruzione romana e «ces coïons magnifiques» dei senatori veneziani), e così facendo si allinea a
quella tradizione indagata da Sozzi (vedi sopra, nota 157) che da tempo contrapponeva il
bon naturel e la serietà dei francesi allo strisciante e disincantato «paganesimo» degli italiani.
Per tutto ciò, con particolare riguardo agli aspetti ideologici dell’ideologia romana, vedi
Barbara Vinken, Du Bellay und Petrarca: das Rom der Renaissance, Tübingen: Niemeyer, 2001.
161. Paris: Corrozet, 1548, fol. 62r.
162. La strofa è infatti incorniciata da queste altre due: «Comme le temps vont les choses
mondaines | suivant son mouvement: | il est soudain, et es saisons soudaines | font leurs
114
ENRICO FENZI
Ma ancora esemplare, e largamente riassuntiva delle posizioni di tutti gli
autori francesi che qui non posso ricordare, è infine la testimonianza di
Guy Le Fèvre de La Boderie, autore di un poema in cinque cercles, La
Galliade, una sorta di storia universale delle civiltà sin ossessivamente
concentrata sull’eccellenza della Gallia, prima delle terre emerse dopo il
diluvio e da allora madre di tutte le scienze ed arti del mondo (arti e scienze
«qu’eurent les Grecs de nous, et non pas nous des Grecs»)163, che avrebbero
cominciato a tornare a lei come al loro luogo d’origine a partire dal regno
di Francesco I. In particolare, la poesia sarebbe stata un’invenzione della
quale va dato l’intero merito al mitico Bardo, quinto re dei Galli dopo il
diluvio (lo diceva già Du Bellay nella Déffence, II 8, rinviando a Lemaire
de Belges), e proprio muovendo dalla Gallia le Muse sarebbero andate
peregrinando via via presso i popoli antichi, passando dall’uno all’altro e
infine dai Greci ai Romani. Poi, caduto l’impero romano, dopo un lungo
intervallo durante il quale rimasero nascoste, esse –infausta deviazione!–
sarebbero state accolte dai poeti di lingua toscana, in particolare Dante,
Petrarca, Sannazaro, Bembo, Aretino, Ariosto. Ma…
[...] errants par la Toscane
ont acquis non un teint et couleur de basane,
cours prontement […] Villes et forts et royaumes perissent | par le temps tout expres, | et
donnent lieu aux nouveaux qui fleurissent | pour remourir apres». Per Ronsard e Petrarca,
da lui «visceralmente assimilato», vedi il fitto repertorio di André Gendre, «Pierre de Ronsard»,
nel vol. Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, pagg. 229-251. Resterebbe da
parlare della Franciade (1572: vedi Denis Bjaï, La «Franciade» sur le métier: Ronsard et la
pratique du poème héroïque, Genève: Droz, 2001), e del suo tardo tentativo di rinfrescare
in funzione nazionale ed encomiastica il mito delle origini troiane: ma è intanto significativo che, anche se Lemaire de Belges celebrava le peuple de Gaule quale «nepveux d’Hector,
enfans de Francïon» in La concorde des deux langages, V 589, François Hotman nella sua
Franco-Gallia fondi per contro il proprio programma nazionalistico sulle pure radici galliche
della nazione francese, rinunciando deliberatamente e con forte sottolineatura polemica a
ogni principio di legittimazione storica che facesse di Francion un altro Enea: «Quant aux
autres, qui pour le goust qu’ils ont pris à des fables & contes faits à plaisir, ont rapporté
l’origine des François aux Troiens, & à un ne scay quel Francion fils de Priamus: ie n’en
veux dire autre chose, sinon qu’ils ont plustost fourny de matiere à escrire au Poëtes, qu’aux
historiens veritables» (cito dalla traduzione francese, Gallia françoise, di Simon Goulart,
Colonia: Hierome Bertulphe, 1574, pag. 45). Vedi sopra, nota 93.
163. Cercle I, fol. 33r, nell’edizione di Parigi: Guillaume Chaudière, 1578, dalla quale
cito (ma si veda l’edizione critica a cura di François Roudaut, Paris: Klincksieck, 1993).
Sull’autore, vedi ora Rosanna Gorris Camos, «Traduire la Vierge: l’Hymne à la Vierge sacrée
du toscan de Pétrarque traduit par Guy Le Fèvre de la Boderie», nel vol. Les poètes français
de la Renaissance et Pétrarque, pagg. 363-378.
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
115
ainçois un teint fardé, un maintien decevant,
et gestes plus lascifs qu’onques au paravant,
un Amour feint qui sçait le transy contrefaire:
bref l’air Italien qui à tous ne peut plaire,
et ne nouveaux attours, ou plutost refripez,
sur le Latins et Grecs subtilment gripez,
si que chacune Nymphe, autrefois simple et sainte,
fut lors de plus en plus Italienne et feinte (cercle V, cc. 122r-122v).
Il loro pellegrinaggio a questo punto termina, perché finalmente, dopo
la provvisoria e malsana sosta italiana, se ne tornano là dove erano nate,
in Francia, dove ritrovano il candore, la salute e la magnificenza originarie.
Non tornano tuttavia a mani vuote, ma portano in dono tutto ciò che di bello
e raro hanno pillé nei loro lunghi viaggi, da quelli presso i Caldei e gli
Assiri sino, appunto, agli Italiani. Così, Le Fèvre riprende lo spunto da Du
Bellay che già nella Déffence, abbiamo appena visto, esortava a «spogliare»
Roma delle sue bellezze per ornarne i templi francesi, e arrichisce il motivoguida del «ritorno» che domina tutto il poema (onde il cerchio è la figura
perfetta continuamente invocata dall’autore) con quello della ripetuta translatio delle arti e dei loro successivi incrementi da un possessore all’altro,
sino all’ultimo e più degno, con ripresa e variazione in chiave filo-francese
dell’antico motivo ermeneutico dell’ «oro degli Egizi», o della «bella prigioniera» già riproposto da Du Bellay medesimo164.
Le Fèvre non è il solo a dire queste cose, e per molti aspetti non è, a ben
vedere, che un epigono. Ma ci vorrebbe ben altro che un saggio se volessimo
ricordare tutti gli autori e i testi francesi che, dal ‘400 agli anni della Galliade,
hanno polemizzato con le affermazioni di Petrarca e hanno delineato scenari
e accampato diritti come quelli che abbiamo appena letto165. La citazione
fatta sopra, tuttavia, è esemplare nel suo ruolo di rovescio dialettico delle
164. Vedi sopra, note 47-50.
165. Anche la bibliografia relativa è sterminata. Ma si troverà tutto l’essenziale, e ben
ragionato, nei saggi raccolti nel prezioso volume Les poètes français de la Renaissance et
Pétrarque, già ripetutamente citato (sinteticamente, non si può non condividere la conclusione del primo saggio del curatore, Jean Balsamo, «Nous l’avons tous admiré, et imité: non
sans cause. Pétrarque en France à la Renaissance: un livre, un modèle, un mythe», pag. 32:
«L’histoire de la réception de Pétrarque en France à la Renaissance est celle d’une paradoxale
célébration de la poésie française»). Nel volume è compreso anche un eccellente saggio di
Romana Brovia, «Clément Marot e ‘l’umanesimo cristiano’ del Petrarca», pagg. 73-83: della stessa
studiosa si veda ora «Traduzione e ricezione del Petrarca latino in Francia. Rassegna di studi
fra due centenari (1904-2004)», Lettere italiane, 57 (2005), pagg. 287-327.
116
ENRICO FENZI
posizioni di Petrarca, e insieme, dalla tarda specola del 1579, è capace
di farcene intuire l’intelligenza strategica e la forza. Ma basti dire ancora
–e qui davvero chiudo, districandomi dalle maglie del «petrarchismo» e
tornando al tema– che il concetto della translatio studii torna nel tempo
con accenti che paiono essere sempre gli stessi, ma come subisca pure
alcune decisive torsioni sulle quali occorrerà riflettere meglio. Per esempio,
la sua lontana matrice universalistica, calibrata sulla riconosciuta universalità dell’oggetto, sembra rivivere quale ideale appannaggio dell’ideologia
e dell’esperienza di Petrarca e dell’umanesimo italiano. L’inflessione in
senso più propriamente nazionale e politico del concetto sta invece quasi
tutta dalla parte della Francia, nei tre «tempi» nei quali potremmo grossolanamente dividerlo: la renovatio imperii di Carlo Magno; la «rinascita» del
XII secolo nella sua accezione prettamente parigina e universitaria, e infine
nel XVI secolo, dopo la parentesi italiana alla quale gli stessi francesi seppur
a denti stretti rendono omaggio, la ripresa in grande da parte della Francia
della sua vocazione alla leadership culturale europea. Ma in tale versione,
ovviamente non più romano-imperiale ma semmai nazionalistica ed accampata sullo sfondo della decadenza italiana, la Francia non è sola, perché
la translatio trova la sua sponda naturale nella coscienza di sé che alimenta
le auto-rappresentazioni di un’altra grande monarchia europea, la Spagna.
Se è indubbio, infatti, che l’asse di gran lunga più importante lungo il quale
corre il motivo della translatio è quello francese, è anche vero che esso
finisce per affacciarsi negli stessi modi anche nella Spagna conquistatrice
e guerriera166, e torna anche qui a rivestire la sua forma classica, com’è per
166. Anche se in formato assai ridotto rispetto alla Francia, il nostro tema potrebbe
essere inseguito in verità anche nella Spagna medievale, seppur con caratteri affatto particolari data la sua sostanziale estraneità (ma un discorso a parte richiederebbe Alfonso il
Savio) alle dinamiche della translatio imperii. Vedi in proposito il ricco contributo di Gaines
Post, «Blessed Lady Spain-Vincentius Hispanus and Spanish National Imperialism in the Thirteenth Century», Speculum, 29 (1954), pagg. 198-209, che riferisce come il giurista e decretalista Vincenzo Ispano, nella prima metà del ‘200, annotasse che «regimen mundi, excepto
regimine hyspanie, translatum est ad teutonicos», e conclusivamente osserva che il medesimo
Vincenzo «glorifies Spain and the Spanish and believes that the Spanish are superior to the
French and the Germans, and by their virtues merit the empire they have won and are
expanding. This empire, however, is not the old, theoretically universal, Holy Roman Empire,
which he would transfer from the Germans to the Spanish. It is, I feel, the Empire of Spain,
of the Iberian Peninsula. His ideal, therefore, seems to be a continuation of the traditional
feeling in Spain of the unity of Spanish history and civilization from the Visigothic period to
the Reconquest. His ideal is no doubt limited, moreover, by the theory that the kingdom of
Spain is independent of the Holy Roman Empire, for the king recognizes no superior and is
emperor in his own realm, and by his own belief that Spain was never ruled by Charlemagne».
«TRANSLATIO STUDII» E IMPERIALISMO CULTURALE
117
esempio in questa pagina di Fernán Pérez de Oliva, il quale si augura che,
a questo punto, il movimento abbia finalmente a fermarsi:
al principio del mundo fue el Siñorio en oriente, despues mas abaxo en
la Asia. Despues lo vuiron Persas y Caldeos; de ay vino a Egypto, de ay
a Grecia y despues a Italia, postrero a Francia. Agora de grado en grado
viniendo al occidente parecio en España, y a avido crecimiento en poco
dias tan grande, que esperamos ver su cumplimient167.
Ed è singolare come Fernando de Herrera nelle Anotaciones a la poesía
de Garcilaso (1580) riecheggi le posizioni medesime che già abbiamo visto
rafforzarsi in Francia intorno alla metà del secolo. Sùbito, nelle prime intense
pagine del suo commento, egli attacca i deboli e passivi imitatori di Petrarca
e proclama: «Yo, si desseara nombre en estos estudios, por no ver envegecida y muerta in pocos días la gloria, que piensan alcançar eterna los
nuestros, no pusiera el cuidado en ser imitador suyo [di Petrarca], sino
endereçara el camino en seguimiento de los mejores antiguos, i juntando
In questo stesso quadro in cui la Spagna «no podía dejar de sentir como injusto el mito de
la translatio studii in Galliam» va inserita l’invenzione dell’origine spagnola di Aristotele da
parte di Lucas de Tuy nel suo Chronicon mundi (1236), ripresa da Juan Gil de Zamora nel
suo De preconiis Hispanie (terminato nel 1288) e da qui passata, intorno al 1440, nella Coronación del Marqués de Santillana di Juan de Mena: tutta questa intrigante vicenda, che vede
anche l’intervento di Petrarca, il quale, polemizzando con Jean de Hesdin, colpisce di striscio anche Gil de Zamora che «patrie sue vano ebrius amore» aveva fatto di Aristotele uno
spagnolo (Contra eum, ed. Berté, pag. 92 = ed. Crevatin, pag. 130), è perfettamente ricostruita da F. Rico, «Aristotele Hispanus», passim, al quale rimando anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. Ma va detto che anche la Spagna rende omaggio alla clergie parigina:
lo fa, per esempio, proprio nei primi decenni del XIII secolo il Libro de Alexandre: «La çibdat
de París yazié in media Françia, | de toda clerezía avié grant abondançia» (2582-2583, ed.
Cañas: vedi José Antonio Maravall, Antiguos y modernos. Visión de la historia e idea de
progreso hasta el Renacimiento, Madrid: Alianza Editorial, 1986 [I ed. 1966], pagg. 216-220).
Su un piano diverso, si può anche ricordare che nei primi del secolo successivo, seppur
indirettamente, Juan Ruiz, nel suo Libro de buen amor 46ss., rimanda alla topica della translatio studii (ma, nel caso, legum) dalla Grecia a Roma: «Entiende bien mis dichos e piensa
la sentençia;|non me contesca contigo como al doctor de Greçia|con el ribal romano e su
poca sabiençia,|quando demandó Roma a Greçia la çiençia.|Ansí fue que romanos las leyes
non avíen.|Fuéronlas demandar a griegos que las tenién».
167. Las obras del maestro Fernán Pérez de Oliva [...] con otras cosas que van añadidas,
Córdoba: Gabriel Ramos Bajarano, 1586, fol. 134r. Occorre ricordare che già molto tempo
prima per Ottone di Frisinga la scienza dall’Egitto, sua culla, «translatam esse [...] ad Grecos,
deinde ad Romanos, postremo ad Gallos et Hyspanos diligens inquisitor rerum inveniet»
(vedi sopra, note 89-90).
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en una mescla a éstos con los italianos, hiziera mi lengua copiosa i rica de
aquellos admirables despojos». Il discorso continua assai bello e interessante, là dove esalta le qualità della lingua spagnola e dove rapidamente
giudica Boscan, Diego Hurtado de Mendoza e Cetina (ma, a parte, anche
Sannazaro, Bembo e Molza) e torna con grandi elogi al Marchese di Santillana, che nel ‘400 già avrebbe mostrato la via giusta perché «tentó primero
con singular osadía i se arroyó venturosamente en aquel mar no conocido,
i bolvió a su nación con los despojos de las riquezas peregrinas»168. Ecco:
si noti come qui e là, nei due passi, ricorra il termine despojos, che non a
caso ci ricorda i tesori, le despouilles che, da Du Bellay a Ronsard a Le
Fevre, le Muse francesi avrebbero pillées in giro per il mondo e segnatamente in Italia per poi riportarli in patria e farne cosa propria. Ma ci ricorda
anche qualcosa di diverso, che oltrepassa il campo delle lettere, e cioè che
era del tutto naturale che spagnoli e francesi, nella seconda metà del ‘500,
guardassero all’Italia come terra di despojos, rivendicando alla loro nazione
quel superiore diritto di mescla e appropriazione nei confronti della cultura
italiana, che non pareva ormai avere altra positiva funzione oltre quella di
essere depredata o, se si preferisce, «translata» altrove dai vincitori. E a
cavallo tra il secolo XVI e il XVII Bartolomé Leonardo de Argensola, per altro
ottimo petrarchista, ribadirà in forma esemplare che la Spagna vencedora
e i suoi eroi valgono ben di più di una moda poetica d’importazione, scrivendo nell’epistola al principe di Squillace:
Antes pidiera a Clío la sonora
trompa con que los héroes eterniza,
y celebrara a España vencedora,
que imitar el furor que petrarquiza169.
Di nuovo, e ormai inevitabilmente, si arriva alla translatio attraverso
Petrarca e il petrarchismo, e di nuovo, come in Du Bellay e Ronsard, per
restare ai pochi esempi che abbiamo fatto, si osserva la netta e reciproca
sovrapposizione di un discorso letterario e di un discorso nazional-politico che fa leva su les victoires, les honneurs e les glories delle rispettive
168. Fernando de Herrera, Anotaciones a la poesía de Garcilaso, a cura di Inoria Pepe
& José María Reyes, Madrid: Cátedra, 2001, rispettivamente pag. 273 e pag. 278.
169. Rimas de Lupercio y Bartolomé de Argensola, a cura di José Manuel Blecua, Zaragoza: Institución Fernando el Catolico, 1950-1952, II, pág. 159: XXIII 76-80. Vedi Joseph G.
Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid: Revista de Filología EspañolaAnejo LXXII, 1960, pagg. 189 ss. (e la citazione di Luis de Narváez, avanti, nota 173).
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monarchie. Il che, quasi a chiudere il cerchio aperto all’inizio, ci porta a
quanto ha illustrato Eugenio Asensio nel saggio che deve il titolo alle celebri
parole scritte da Antonio de Nebrija nel prologo alla sua Gramática castellana del 1492: «La lengua compañera del imperio»170. Lo studioso muove
dal prologo di Lorenzo Valla alle sue Elegantiae, ove la lingua latina è esaltata come la forma perenne nella quale tuttavia vive e regna l’impero
romano, e mostra come tale lugar común che instancabilmente risuona
nella bocca degli umanisti italiani venga ripreso e modificato in Spagna
quasi per una forma di «nobile emulazione»: «La escuela de latín se transforma insensiblemente en escuela de romance y la lengua de Roma, primero
piedra de toque, pasa a ser trofeo con que se enriquece el arsenal de la
española o portuguesa. El proceso de emancipación se observa igualmente
en la obra de los filólogos que, apoyándose en las enseñanzas tanto de los
antiguos como de los humanistas recientes, alzan el edificio de las gramáticas nacionales»171. La linea del discorso è semplice e allinea, a partire da
Valla e dal suo «luogo comune», le testimonianze di Gonzalo García de
Santa María che nel 1490 sostiene la necessità che il nuovo regno nato
dall’unione di Castiglia e Aragona adotti la lingua di Castiglia, cioè la lingua
di corte, proprio come l’ha adottata egli stesso, che pure era aragonese:
E porque el real imperio que hoy tenemos es castellano, y los muy
excellentes rey e reyna nuestros senyores han escogido como por asiento
e silla de todos sus reynos el reyno de Castilla, deliberé de poner la
obra presente en lengua castellana. Porque la fabla comúnmente, más
que otras cosas, sigue al imperio. E quando los principes que reynan
tienen muy esmerada e perfecta la fabla, los súbditos esso mismo la
tienen. E quando son bárbaros e muy ajenos de la propriedad del fablar,
por buena que sea la lengua de los vassallos e subjugados, por discurso
de luengo tiempo se faze como la del imperio172.
Il tema è poi riformulato da Nebrija in una più ampia prospettiva di
integrazione nazionale173 e torna infine, in chiave più accentuatamente
170. Revista de Filología Española, 43 (1960), pagg. 399-413.
171. E. Asensio, La lengua, pag. 400.
172. Traggo la citazione da Asensio, La lengua, pagg. 403-404, che a sua volta la trae
dal prologo di Gonzalo García alla sua opera Las vidas de los sanctos religiosos, nella rara
edizione di Zaragoza del 1486-91.
173. Scrive Asensio di Nebrija: «El prólogo de su Gramática castellana conjuga y une
esquemas e ideas de las Elegantiae con reminiscencias, redondeadas y elaboradas de micer
Gonzalo. Oigámosle: ‘Cuando bien pienso, mui esclarecida Reina, i pongo delante de los
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imperialistica, nel corso del ‘500, nei portoghesi Fernão de Oliveira e João
de Barros, particolarmente sensibile, quest’ultimo, alla funzione evangelizzatrice della lingua174.
Sin qui Asensio, che accenna al motivo della translatio ma insegue
evidentemente un filo diverso. E, in effetti, proprio il suo discorso, perfettamente leggibile in chiave europea, finisce di dimostrare in maniera esemplare come la torsione subìta dal discorso sulla translatio si sia ormai tutta
consumata, e ci si inoltri in un ambito nuovo che comporta come centrale
non già l’idea di una translatio ricettiva, invocata per colmare un deficit di
saperi, ma piuttosto quella di una translatio attiva che vorrebbe fare dei
propri saperi, e in ispecie della lingua, altrettanti vettori di un’espansione
propriamente imperiale.
Lo spostamento è decisivo, e sta a significare che un’età è finita –quella
del «sogno dell’umanesimo» di cui ha parlato così bene Rico, e dei suoi
«luoghi comuni», per tornare alle parole di Asensio– e un’altra si sta aprendo.
Potremmo dire, forse un po’ brutalmente, che non si tratta più di guardare
all’indietro e imparare, ma di affermare se stessi. Dell’antico sapere, non
importa se bene o male, ci si è finalmente appropriati o si è convinti, ch’è
lo stesso, di averlo fatto, e dunque si guarda avanti, per imporre anche
con la forza ciò che si è, ciò che si ha. Il grande tema della «superiorità dei
moderni», insomma, è alle porte. E il rapporto con il mondo classico subisce
una trasformazione profonda, nel momento in cui cessa, tale mondo, di
ojos el antigüedad de todas las cosas que para nuestra recordación i memoria quedaron
escriptas, una cosa hallo i saco por conclusión mui cierta: que siempre la lengua fue
compañera del imperio y del tal modo lo siguió que juntamente començaron, crecieron y
florecieron y después juntamente fue la caída de entrambos’. Lorenzo Valla, calcando un
esquema de Cicerón –el comienzo del De senectute– hallaba que el imperio romano, más
que ningún otro, había propagado juntamente con el dominio la lengua latina. Nebrija,
negando la peculiar situación de Roma, asienta que las lenguas se difunden juntamente con
los imperios, y con ellos mueren. Y rodeando la frase de micer Gonzalo ‘la fabla comúnmente, más que todas las otras cosas siguen al imperio’, acuña la afortunada fórmula: ‘siempre
la lengua fue compañera del imperio’. Extendiendo luego a la lengua de Roma el ciclo de
nacimiento, florecer y decadencia común a los hombres y a sus creaciones políticas, reseña
la vida de los imperios hebreo, griego y romano» (La lengua, pag. 406).
174. Ma si veda anche, tra gli autori ricordati da Asensio, Luis de Narváez, che nel 151015, in Las Valencianas lamentaciones, fonda l’esaltazione della assoluta grandezza e superiorità della lingua spagnola rispetto alle antiche e moderne lingue sulle sue glorie militari:
«No solo nos son tractables | las tierras que conquistamos | mas los mares navegamos | que
fueron innavegables. | Pugnamos quasi impugnables, | a ninguno obedescemos | salvo a
Dios por quien tenemos | las victorias memorables», ecc. (dall’edizione di Siviglia: Rasco,
1889, pagg. 17-19).
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essere il passato onnicomprensivo entro il quale il medioevo continuava
a concepire se stesso e verso il quale nutriva profondi sensi di colpa e crisi
di identità e violente repulsioni e nostalgie. No, il passato dell’Europa che
si affaccia alla modernità non è più la Grecia o Roma, che possono benissimo
essere studiate dagli specialisti nelle Università e nelle Accademie: le radici
nazionali sono altrove, più vicine, più drammaticamente vive e la realtà
politica e sociale insegue altri modelli e altre vie... Che poi sia davvero e
interamente così, è altro discorso e molto complicato. Ma certo, l’idea tutta
francese che quella umanistica, nella sua versione italiana, non fosse stata
che una parentesi, per quanto indifferibile e necessaria nella storia culturale dell’Europa, e che la secolare storia della translatio fosse ormai militarmente riducibile a una questione di despouilles a disposizione del più
forte, non è così banale o sciocca come a prima vista può sembrare. Con
i suoi chiaroscuri e le sue interessate parzialità e omissioni, essa disegna
infatti uno schema dai contorni assai robusti, suscettibile d’essere riempito
di colori anche molto diversi tra loro ma, alla fin fine, abbastanza corrispondente ai fatti*.
* El profesor Fenzi ofreció en el Congreso un resumen de esta investigación en curso.
Generosamente ha puesto a nuestra disposición el trabajo completo, que publicamos dado
su enorme interés, y a pesar de que excede con mucho los límites previstos. (N. de los E.).